OBAMA: NULLA E’ IMPOSSIBILE IN AMERICA,
’YES WE CAN’ *
Il presidente eletto Barack Obama ha vinto le elezioni presidenziali con la maggioranza assoluta dei suffragi, circa il 52%, secondo i dati provvisori. Non succedeva dal 1976 per un candidato democratico alla casa Bianca, da quando cioé Jimmy Carter aveva ottenuto il 50,1% dei suffragi. Bill Clinton non è mai riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta. Nel 1996, anno della sua rielezione trionfale, aveva vinto con il 49,24% dei voti; nel 1992, aveva conquistato la Casa Bianca con il 43% (ma è anche vero che i candidati erano ben tre). E’ record anche il tasso di partecipazione di quest’anno, pari circa al 66%, cioé a livelli analoghi di quelli del 1908, secondo il sito Real Clear Politics. Quando John Kennedy venne eletto nel 1960 la partecipazione superò appena il 63%. Nel 2004, anno della rielezione del presidente uscente George W. Bush, del 55,3%.
In America "nulla è impossibile" e chi ancora non è convinto, non ha che da guardare al nuovo presidente eletto degli Stati Uniti. Barack Obama ha debuttato così a Chicago, con un discorso della vittoria impregnato di ’sogno americano’ e riferimenti alle divisioni che hanno segnato la storia degli Usa, e annunciando che il cambiamento "é arrivato". ’Yes we can’, lo slogan che per quasi due anni ha accompagnato la sua campagna elettorale, è diventato anche l’inno con cui Obama ha celebrato quella che definito, rivolto alle decine di migliaia di sostenitori, "la vostra vittoria". "Siamo e saremo gli Stati Uniti d’America - ha detto Obama, citando Abramo Lincoln per respingere l’idea di un Paese diviso - e abbiamo dimostrato al mondo intero che non siamo semplicemente una collezione di individui di tutti i tipi".
Una folla multirazziale ed entusiasta ha accolto Obama, sventolando bandiere a stelle e strisce, in un grande parco di Chicago, assediato all’esterno da un’altra folla che non è potuta entrare nello spazio da 70.000 posti preparato per l’evento. Accolto sulle note di ’Sweet Home Chicago’, Obama ha debuttato ringraziando la città che lo ha adottato dagli anni Ottanta e si è poi lanciato in un primo discorso da presidente eletto che ha ricalcato i temi della sua campagna elettorale: la necessità di portare "il cambiamento" in America, la promessa di rispondere alla speranza di chi si sente abbandonato o ai margini della società, l’avvertimento "ai nostri nemici nel mondo" che l’America è forte, unita e pronta a rispondere a qualsiasi minaccia. L’onore delle armi è andato a John McCain e Sarah Palin, che Obama ha ringraziato e a cui ha chiesto, in una conversazione telefonica con il senatore dell’Arizona, di aiutarlo a guidare il Paese. Il vice Joe Biden, la moglie Michelle e le due famiglie hanno raggiunto alla fine Obama sul palco e il presidente eletto ha chiuso ricordando alle figlie Sasha e Malia che si sono "meritate il cucciolo" che aveva promesso loro all’inizio di un’estenuante campagna che ha coinvolto tutta la famiglia per quasi due anni.
BARACK OBAMA 44° PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI
di Giampiero Gramaglia *
ROMA - Barack Obama e’ divenuto questa notte il 44.o presidente degli Stati Uniti, e’ il primo nero a conquistare la Casa Bianca: un risultato storico. L’affluenza record ha allungato le code ai seggi nell’Unione e ha reso piu’ lento lo spoglio dei suffragi, ritardando l’annuncio della vittoria del candidato democratico.
La certezza, non matematica, ma politica, e’ stata acquisita quando il candidato democratico s’e’ aggiudicato l’Ohio, uno Stato chiave, lo Stato che tutti i candidati repubblicani divenuti presidenti hanno vinto.
L’America e’ andata al voto nel pieno d’una crisi finanziaria che le toglie fiducia e che deve ancora fare sentire l’impatto sull’economia reale, mentre le difficolta’ militari e politiche in Iraq e in Afghanistan incrinano le certezze e le sicurezze della Super-Potenza unica. In un momento difficile, con un esercizio di democrazia che la conferma fucina di coraggio per l’Occidente, l’America ha scelto e ha scelto il cambiamento: un presidente giovane, nero e relativamente inesperto, ma che e’ un simbolo di speranza e che impersona il sogno americano. All’Est e al Sud, Obama s’e’ imposto in alcuni Stati Chiave di questa competizione: ha fatto suo il New England, ed era scontato, i Grandi Laghi, ma soprattutto ha confermato il potere democratico in Pennsylvania e ha strappato ai repubblicani l’Ohio e lo Iowa, oltre ad altri Stati contesi.
I risultati dell’Ohio e dello Iowa sono stati il segnale della disfatta per il candidato repubblicano John McCain, arrivato all’Election Day in forte ritardo in tutti i sondaggi. E che neppure i suoi sostenitori ci credessero lo diceva la differenza di immagini tra l’attesa della festa per Obama a Chicago, dove c’erano decine di migliaia di persone entusiaste, e l’attesa a Phoenix, dove i sostenitori di McCain erano pochi e disorientati.
Per McCain, non e’ stato un tracollo. Per Obama, non e’ stata una vera e propria valanga, specie in termini di voto popolare - ma il computo esatto dei suffragi non e’ ancora definitivo -. Ma dalle urne esce un’America nuova, che Barack Obama dovra’ guidare dal 20 gennaio, quando s’insediera’, fuori dalla crisi, ridandole fiducia in se stessa e restituendole la simpatia del Mondo.
VOTO CALIFORNIA DA’ CERTEZZA VITTORIA A OBAMA
NEW YORK - Il candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama, ha vinto le elezioni presidenziali in California (55 voti), diventando matematicamente presidente degli Usa con 275 voti elettorali.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Domani il discorso di addio del presidente uscente in vista dell’insediamento del presidente eletto
L’addio di Obama
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 09 gennaio 2017)
I riti in democrazia sono importanti e hanno la capacità di cementare una comunità. Al di là dei conflitti che la lacerano, testimoniano la continuità nella diversità delle scelte politiche, certificano la saldezza delle istituzioni sulla volatilità dei comportamenti e degli umori popolari.
Se ne erano accorti anche i padri fondatori della nuova repubblica americana quando, all’interno di una lotta politica che vedeva all’opera tutta la gamma possibile della retorica populista, ritenevano il passaggio di potere da un presidente all’altro come il momento della sospensione del conflitto e della ricerca dell’unità del paese.
Certo alla fine del Settecento anche nei primi decenni dell’Ottocento, tutto era relativamente più semplice: in fondo i candidati appartenevano alla stessa élite economico-sociale, condividevano la stessa cultura politica di fondo pur facendo riferimento a un elettorato già composito dal punto di vista economico, religioso ed etnico. Non a caso, il primo vero e proprio terremoto politico si ebbe con l’elezione dell’«uomo del popolo», piuttosto rozzo e volgare (o quantomeno così dipinto all’epoca), per quanto eroe di guerra, Andrew Jackson, il quale aprì la Casa Bianca al popolino che si gettò sulle bevande e sul cibo, travolgendo tutto sotto lo sguardo attonito dei rappresentanti delle élite che osservavano la nuova calata dei barbari.
Gli ultimi atti della presidenza di Barack Obama per certi versi sembrano voler segnare la distanza siderale fra la sua amministrazione e i nuovi barbari che si apprestano a entrare alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo. D’altronde, è una presidenza, quella Obama, che si conclude senza che siano emersi scandali o casi controversi che abbiano messo in discussione la caratura morale del presidente. La classe non è acqua, sembrano voler dire gli Obama a un popolo americano che ha eletto Trump a novembre, ma che allo stesso tempo continua a dare un giudizio estremamente positivo del presidente uscente e della sua first lady. Lo ha espresso Michelle Obama nel suo ultimo discorso, ribadendo che la forza dell’America, nonostante la rabbia di chi ancora non si rassegna all’evidenza, è la sua diversità di religioni, colori e valori. Una riaffermazione di tipo patriottico rivolta soprattutto a quei giovani che pure avevano tradito gli Obama e il partito democratico l’8 novembre, spronandoli a prendere in mano il loro destino, ma anche ad assumersi la responsabilità delle loro scelte e delle loro convinzioni.
Lo farà Barack Obama domani, 10 gennaio, nel suo ultimo discorso che, non casualmente, si terrà laddove tutto era cominciato, a Chicago. Sul sito della Casa Bianca, è pubblicata una foto, che ritrae la coppia, elegantemente vestita che guarda al di là del lago lo skyline della Windy City (come è definita Chicago). Un’immagine estremamente glamour che irriterà ancora di più quell’elettorato bianco infastidito da tutto ciò che è associato alle élite culturali più che a quelle economiche, come l’elezione di Trump ha ampiamente dimostrato.
Il Farewell Address è una tradizione, avviata con il famoso discorso di George Washington che invitava gli Stati Uniti a non lasciarsi coinvolgere negli affari europei, anche se non sempre è stata rispettata.
Obama ha scelto di seguire una tradizione che vede nel discorso d’addio un modo per il presidente uscente di riaffermare la propria eredità politica e invitare il successore a tener conto che non può fare tabula rasa del recente passato. Lo stile, ovviamente, diverge a seconda dei contesti e dei presidenti. Clinton celebrò i successi economici dei suoi due mandati, i 22 milioni di nuovi posti di lavoro, il tasso di disoccupazione più basso degli ultimi 30 anni, la diminuzione dei reati. Bush Jr., invece, non poteva che concentrare il suo discorso sull’impatto dell’11 settembre e sulle minacce di attacchi terroristici che rimanevano incombenti (ribadendo così la correttezza delle sue scelte), invitando l’America a rispondere alla sfida con «moral clarity».
Obama utilizzerà quest’ultimo spazio per ribadire i successi della sua amministrazione dal punto di vista politico interno e internazionale, rispondendo a coloro che hanno giudicato fallimentare la sua politica, difendendo a spada tratta la riforma sanitaria e invitando a tenere fede ai valori americani di rispetto delle differenze e del dialogo fra le tante Americhe che compongono il mosaico sociale e politico. E, tuttavia, il discorso di Obama è atteso per quello che può far intravedere rispetto alle strategie future del presidente uscente.
Di fronte a un Congresso pronto a smantellare programmi che neppure Reagan aveva mai messo in discussione come il Medicare, tanto che, come ha osservato Immanuel Wallerstein, persino Trump è preoccupato da un radicalismo che rischia di provocare una rivolta sociale, Obama è costretto a difendere la sua eredità politica. Se nella conferenza stampa di fine anno, aveva dichiarato di vedere il suo ruolo come quello di «counsel and advice» per il partito democratico, adesso il suo impegno è estremamente più ambizioso.
Di fronte a un’elezione che ha azzerato il partito democratico, il compito primo è quello di ricostruire la leadership del partito. Per fare questo però Obama si pone un obiettivo che, in realtà, dovrebbe essere caro a leader che ambiscono ad avere una visione politica che duri più di uno spazio di tweet e che siano meno affascinati dalle sirene della post-verità (qualunque cosa essa significhi): quello della costruzione e formazione di una classe politica, di una classe dirigente. Un investimento di lungo periodo che deve accompagnarsi a un lavoro politico sul territorio che porterà Obama a visitare proprio quelle contee che Hillary Clinton aveva trascurato, pagandone amaramente il prezzo.
Proprio l’individuazione di una nuova generazione di politici democratici sembra il compito principale della Fondazione Obama che ha sede a Chicago e che vorrà, quindi, essere qualcosa di più che non la sede della presidential library. Non a caso, a capo della fondazione è stato chiamato uno stretto collaboratore di Obama, fin dalla campagna elettorale del 2008, David Simas, che in precedenza aveva lavorato per l’ex governatore democratico del Massachusetts, uno di quegli Stati che, per alcuni, devono costituire la rampa di lancio per la controffensiva del Partito democratico dal punto di vista sia delle scelte politiche sia della costruzione del consenso. Nel consiglio di amministrazione della fondazione, poi, fa parte lo stratega elettorale del 2008, David Plouffe, oltre ad altri esponenti di primo piano del partito.
Obama, quindi, ricomincia da tre, per riprendere il titolo del film del mai troppo compianto Massimo Troisi: dalle vittorie nelle primarie nel 2008, nelle presidenziali del 2008 e del 2012. Non si accontenterà, sembra, di fare il citizen-diplomat onorario come Carter, ma vorrà essere un citizen-activist. Di certo il lavoro non gli mancherà.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La riforma dell’immigrazione di Obama
di David Nakamura ( The Washington Post *
Obama ha deciso di procedere con un ordine esecutivo, che ha effetto immediato, sfidando il Congresso: ed evitare l’espulsione di 11 milioni di immigrati non regolari
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha sostenuto una tesi morale e legale per provare a convincere gli statunitensi che la sua decisione di procedere unilateralmente a proteggere milioni di immigrati non regolari dalla espulsione ha solide basi ed è necessaria per riparare il sistema malfunzionante dell’immigrazione.
Durante un discorso tenuto alla Casa Bianca in serata (in Italia era notte) Obama ha esposto il suo piano per offrire aiuti dal punto di vista amministrativo e permessi di soggiorno e lavoro a circa 3,7 milioni di persone senza documenti che sono genitori di cittadini e residenti statunitensi, e a circa 300mila giovani immigrati portati nel paese illecitamente quando erano bambini.
Nel farlo, Obama ha sfidato gli oppositori ad approvare una nuova legge che riformi in modo permanente il sistema dell’immigrazione, invece di difendere una politica che finora ha contribuito solo a “dividere le famiglie”. Ha citato sia la Bibbia che il suo predecessore Repubblicano, chiedendo una visione più compassionevole della questione immigrazione negli Stati Uniti, ricordando i valori del lavorare sodo, dell’istruzione e del volere il meglio per i propri figli, che stanno a cuore alla maggior parte delle persone che emigrano nel paese in modo illecito.
Obama ha detto che si tratta di una decisione di “buon senso” che permetterà agli immigrati irregolari di venire fuori dall’ombra e di mettersi a posto con la legge. Ha poi ricordato che a Washington è necessario superare l’attuale stallo politico per affrontare provvedimenti di questo tipo, anche se i risultati delle elezioni di metà mandato hanno complicato le cose e porteranno presto i Repubblicani a controllare interamente il Congresso.
Il presidente ha spiegato che un’espulsione di massa degli oltre 11 milioni di immigrati irregolari “sarebbe sia impossibile sia contraria alla nostra indole”. L’obiettivo è inoltre concentrare le attenzioni e le risorse delle guardie di confine nella gestione dei casi più a rischio, in modo da ridurre gli “effettivi pericoli per la sicurezza”: e ha ricordato che questi pericoli sono costituiti dall’arrivo nel paese di criminali. “Criminali, non famiglie”, ha ripetuto Obama durante il discorso per chiarire questo punto.
La decisione di Obama di decidere autonomamente la riforma con un ordine esecutivo arriva a due anni di distanza dalla sua promessa, pronunciata poco dopo la rielezione, di attuare una riforma del sistema dell’immigrazione per offrire un percorso più semplice a chi intende ottenere la cittadinanza e non è un immigrato regolare. L’obiettivo di fare passare una legge sul tema era svanito quest’estate, dopo una lunga serie di contese politiche al Congresso.
Nel suo discorso, durato 15 minuti, Obama ha provato a incentivare il sostegno da parte dell’opinione pubblica alla sua decisione, e dare un chiaro messaggio agli oppositori più duri tra i Repubblicani, che hanno promesso di contrastare duramente l’utilizzo da parte dello stesso Obama di ordini esecutivi che di fatto escludono il potere legislativo. Obama venerdì sarà a Las Vegas per tenere un comizio ed è probabile che torni sull’argomento.
Ancora prima che Obama partisse per il suo viaggio, i leader del partito Repubblicano si sono riuniti per decidere come fermare il suo piano. In entrambe le camere del Congresso, i Repubblicani hanno discusso la possibilità di avviare un’iniziativa legale per contrastare l’autorità del presidente per quanto riguarda gli ordini esecutivi, provando in questo modo a portare avanti la loro riforma dell’immigrazione o per ridurre fondi e risorse alle agenzie governative che si occupano del tema.
“Ignorando la volontà del popolo statunitense, il presidente Obama ha dato nuova conferma dell’eredità che vuole lasciare, fatta di illegalità e sperperi, cosa che lo rende ancora meno credibile” ha detto il presidente della Camera, John A. Boehner, commentando il discorso di Obama. “I Repubblicani non hanno altra responsabilità che confermare il loro giuramento quando hanno assunto i loro incarichi parlamentari. Non ci sfileremo dal nostro dovere. Ascolteremo la popolazione, lavoreremo con i nostri colleghi e proteggeremo la Costituzione”.
I consulenti legali della Casa Bianca confidano invece che Obama abbia margini a sufficienza per tenere fede al proprio impegno. Hanno citato ordini esecutivi emessi in precedenza da presidenti Repubblicani, compresi quelli voluti da Ronald Reagan e George H. W. Bush, che firmarono ordini per proteggere piccoli gruppi di immigrati irregolari dall’espulsione.
I funzionari della Casa Bianca hanno diffuso una serie di dati statistici, che dimostrano come un ordine esecutivo di Bush permise di proteggere la stessa percentuale di immigrati non regolari di cui Obama intende occuparsi: si tratta comunque di molte meno persone in termini assoluti perché nei primi anni Novanta c’erano solamente 3,5 milioni di immigrati irregolari negli Stati Uniti.
Rispondendo alla critica più grande mossa al suo piano dai Repubblicani, e cioè che gli immigrati irregolari vengono così di fatto premiati per avere violato la legge rimanendo nel paese, Obama ha ricordato che coloro che saranno regolarizzati dovranno poi pagare le tasse e non potranno accedere in modo diretto alla cittadinanza. Ha poi spiegato che molti degli immigrati senza documenti “sono statunitensi quanto Malia o Sasha”, le sue due figlie, e ha citato George W. Bush quando disse che questi immigrati “fanno parte della vita degli statunitensi”.
“La vera amnistia è il sistema che abbiamo adesso: milioni di persone vivono qui senza pagare le loro tasse o seguire le regole, mentre i politici usano questo argomento per spaventare la gente e rimediare voti durante le elezioni. Questa è la vera amnistia: lasciare così com’è un sistema che non funziona”, ha detto Obama durante il suo discorso.
Il piano, ampiamente anticipato nei giorni scorsi, prevede che gli immigrati irregolari che sono genitori di cittadini statunitensi e di residenti negli Stati Uniti - sono molti, perché i figli degli irregolari nati negli Stati Uniti sono americani per lo ius soli - possano essere regolarizzati solo se hanno vissuto nel paese per almeno cinque anni, a partire dal primo gennaio 2010. Il governo ha detto che potrà iniziare a raccogliere le richieste a partire dalla prossima primavera e che coloro che potranno farlo saranno esentati dall’espulsione per tre anni, in modo da offrire loro qualche garanzia in più ancora per un anno dopo la fine del mandato di Obama. Il programma potrà poi essere rinnovato o chiuso dal suo successore alla Casa Bianca.
Le garanzie contro l’espulsione sono di un anno più lunghe rispetto a quanto già deciso dal governo di Obama con un altro programma, avviato nel 2012 e indirizzato ai più giovani, noto come DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals). Lo stesso DACA sarà rivisto per offrire tre anni di garanzie e sarà applicato per gli immigrati non regolari arrivati negli Stati Uniti a partire dal primo gennaio 2010, e non più dal 15 giugno 2007. È anche prevista la creazione di un tipo di visto per i migranti che possono dimostrare di essere interessati a investire economicamente negli Stati Uniti e per gli impiegati del settore tecnologico.
Il segretario del Dipartimento della Sicurezza Interna, Jeh Johnson, nel frattempo, produrrà nuove linee guida per le agenzie governative che si occupano di immigrazione spiegando nel dettaglio le nuove regole. Il governo di Obama ha finora espulso circa 400mila migranti ogni anno e ha provato a farlo dando la precedenza ai criminali, ai terroristi e in generale a persone che si crede possano nuocere alla sicurezza nazionale. Ma gli agenti sul campo lamentano da tempo che le linee guida sono difficili da seguire e, in molti casi, sono stati accusati dai legali dei migranti di non saperle utilizzare.
Johnson chiuderà anche un programma piuttosto controverso chiamato “Comunità sicure”, che richiede alle forze di polizia locali di trattenere gli immigrati arrestati fino a quando i loro casi non vengono analizzati dagli agenti federali dell’immigrazione. Questo sistema sarà rimpiazzato con una nuova soluzione grazie alla quale i migranti arrestati dovranno sempre fornire le loro impronte digitali, ma in compenso spetterà alle agenzie locali stabilire se avvisare quelle federali per un’avvenuta violazione della legge sull’immigrazione.
“Il tipo di ordini che sto dando non sono solo fatti nel pieno della legge, sono il tipo di ordini fatti propri da ogni singolo presidente Repubblicano e da ogni singolo presidente Democratico negli ultimi 50 anni” ha detto Obama, ricordando poi: “A quei membri del Congresso che mettono in discussione la mia autorità nel provvedere a fare funzionare meglio il nostro sistema dell’immigrazione, o che mettono in discussione la mia capacità di agire dove il Congresso ha fallito, dico una sola cosa: approvate una legge”.
© The Washington Post
* FONTE: IL POST, 21 novembre 2014 (ripresa parziale).
L’insediamento
Obama, uomo libero libera l’America
di Furio Colombo (il Fatto, 23.01.2013)
Nel suo secondo, indimenticabile discorso inaugurale, il presidente Obama, carismatico come la prima volta, forse di più perché i capelli, intanto, si sono ingrigiti, parla all’America del tempo che sta per venire come di un viaggio. Ma di quel viaggio dice cose molto più forti e più audaci della prima volta, qualcosa che non era mai accaduto. Lo testimonia il New York Times nelle pagine dedicate al nuovo “primo giorno”.
Ma poiché noi parliamo dall’Italia, chiedo ai lettori di guardare per un momento a punti più vicini a noi e più lontani da quel grande quadro di festa. Ecco che cosa si vede e si ascolta. Dovunque si riuniscano think tank e gruppi di lavoro addetti a esaminare i problemi del mondo, a immaginare di spostare truppe, di decidere chi manda chi e che cosa e quale prezzo e dove e per quale ragione (o materia prima da salvare) nelle parti di caos del mondo, si notano riferimenti prudenti ma inquieti a proposito “dell’America che tende a tirarsi indietro”.
Stando attenti a citare il meno possibile il presidente Obama e a evitare di parlare di “nuova politica degli Stati Uniti” a proposito di impegno e disimpegno, ti fanno notare che, quando si tratta di combattere “il pericolo”, “il nemico”, “il terrorismo”, la “sfida di civiltà”, “l’America non è più quella di una volta”. L’ho sentito dire, anche nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano durante le riunioni di emergenza delle commissioni Esteri della Camera e del Senato e nella imprevista seduta della Camera del 22 gennaio (dunque a Camere formalmente sciolte) per discutere dell’invasione del Mali, dell’intervento francese, del rifinanziamento del corpo di spedizione italiano in Afghanistan. Pensiero e linguaggio sembravano fermi a George W. Bush (che non si è presentato alla festa di Obama).
MA TORNIAMO a Washington. Il fatto è che lunedì 21 gennaio, davanti a un’immensa folla di cittadini che lo capiscono e lo amano, il solo presidente americano (dopo il 1945) che non abbia iniziato alcuna guerra e che stia chiudendo a una a una quelle che ha trovato, piene di sangue e di morti nel mondo, ha aperto con una frase mai detta prima: “Questo Paese deve avere il coraggio di affrontare e risolvere con strumenti di pace differenze, diffidenze e scontri, non perché sottovalutiamo i pericoli, ma perché i pericoli più grandi sono il sospetto e la paura”. E quando ha rivolto lo sguardo a ciò che sta accadendo nella vita del suo Paese ha detto queste parole difficili da dimenticare: “Non scambiate l’assolutismo per un principio, non confondete uno spettacolo con la politica, non pensate che un insulto valga un argomento della ragione”.
Ma ecco il punto alto, caldo e unico di un discorso presidenziale destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani, non solo il Paese, lo Stato o le Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini. Ricordiamo che Obama ha giurato sulla Bibbia di Martin Luther King (il 21 gennaio è il giorno che l’America dedica al leader assassinato a Memphis) e su quella di Abraham Lincoln, per evocare insieme la svolta della libertà segnata dal presidente antischiavista, e la svolta dei diritti civili conquistati dal predicatore nero contro il Ku Klux Klan e la segregazione.
E infatti l’incedere della voce, se lo ascoltate, diventa quello delle chiese nere del Sud americano che erano, negli anni Sessanta, i centri di mobilitazione, aggregazione e difesa. Ha detto, in sequenza, queste tre frasi: “Il nostro viaggio non è compiuto finché non raggiungeremo il traguardo dell’uguaglianza, a cominciare dalla paga che spetta per lo stesso lavoro a uomini e donne”.
“Il nostro viaggio non è compiuto finché i nostri bambini, dalle strade di Detroit ai quieti viali di Newtown alle colline dell’Apalachia sapranno che noi ci prendiamo cura di loro e gli facciamo festa e li salviamo da ogni pericolo. Il nostro viaggio non è finito finché i nostri fratelli e sorelle gay non saranno trattati come ognuno di noi, uguali di fronte alla legge”. Ed è come un giocatore di bowling che, con un colpo solo, sbaraglia tutti i birilli. Infatti Obama può dire, subito dopo, che è giusto che vi sia marriage equality, parità dei matrimoni.
E DICHIARA, da presidente, contro la destra americana e del mondo: “Non è vero che l’assistenza medica e un minimo di sicurezza sociale sminuiscono lo spirito imprenditoriale di un Paese. Non è vero che l’intervento sociale fa di noi una nazione di cittadini che chiedono. Essi ci rendono liberi di affrontare i rischi che fanno di noi un grande Paese”. Sono le parole di un presidente libero (unbound, dicono i commentatori americani usando parole da libri d’avventure, per dire qualcuno che si è liberato dalle catene) che governerà l’America nei prossimi quattro anni. Un uomo libero che ha poco conformismo e una visione chiara, quasi profetica, che vuole condividere. È vero, come dicono nei gruppi e think tank che studiano strategia, militare o economica: “L’America (certo l’America di Obama) non è più quella di una volta”.
L’uguaglianza di Obama
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 23.01.2013)
L’eguaglianza è la grande assente nel linguaggio politico contemporaneo, nonostante la nostra sia un’età a tutti gli effetti di egemonia democratica, e la democrazia sia un sistema che fa dell’eguaglianza (civile e politica, ma anche delle condizioni di partecipazione alla vita della società) il suo fondamento e la sua aspirazione.
Nel suo epico discorso di insediamento come 44esimo Presidente degli Stati Uniti, Barak H. Obama lo ha ricordato ai suoi concittadini e a tutto il mondo. E lo ha fatto riandando alle origini del patto sul quale l’America che lo ha rieletto è nata, alla Dichiarazione di Indipendenza: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.
A scrivere queste rivoluzionarie parole era stato Thomas Jefferson, un illuminista che credeva come i nostri Filangieri, Verri e Beccaria, che la legge dovesse occuparsi non ad opprimere o dominare ma a creare le condizioni di benessere dei cittadini. La “felicità pubblica” era un ideale importante. Dalla consapevolezza della sua importanza comincia la storia della democrazia moderna.
Il governo, secondo questa filosofia che a noi sembra desueta, dovrebbe creare le condizioni grazie alle quali le persone possono prima di tutto conoscere le loro potenzialità (a questo serve un sistema educativo aperto a tutti) e poi contare su leggi giuste e ben fatte e istituzioni trasparenti e funzionali per poter progettare la loro vita secondo il loro discernimento.
Insomma vivere, e vivere con soddisfazione per quanto possibile, e non nella sofferenza, nell’umiliazione e nella miseria. E questo è un bene per il singolo e la società. Il governo non dispensa felicità dunque. Ciò che si impegna a fare è rendere le persone davvero responsabili della loro vita; far sì che esse possano contare su se stesse, non sulla fortuna di appartenere a una buona famiglia, non sul favore delle persone potenti, non sull’elemosina di chi ha più.
La democrazia, parola per secoli vituperata per volere dare potere e visibilità a tutti, anche ai poveri e inacculturati, è stata nobilitata anche dalla Rivoluzione americana alla quale Obama si è ispirato. Essa ha inaugurato una visione evolutiva delle conquiste sociali e politiche al centro delle quali c’è la persona come valore attivo, agente di scelte, ma anche soggetto dotato di sensazioni e sentimenti, che valuta la propria vita all’interno delle relazioni con gli altri.
Nella democrazia, l’intera struttura della società, dall’etica alla politica, ruota intorno alla persona, ed è valutata in ragione del grado di soddisfazione o di felicità che riesce a procurare a ciascuno. Il benessere e la libertà degli individui sono la condizione per misurare il benessere o il progresso dell’intera società.
Rivalutando questa tradizione che dal Settecento cerca di coniugare democrazia e giustizia, si può dire che c’è giustizia soltanto quando la riflessione pubblica non evade da questi compiti, non lascia il campo alla giungla degli interessi (e quindi alla vittoria di chi è più forte) per riservarsi, eventualmente, di venire in soccorso a chi soccombe. Lo stato della democrazia non fa questo. Esso prepara il terreno all’eguale libertà invece di giungere dopo; non dispensa carità ma garantisce diritti, e per questo promuove politiche sociali.
Ecco perché il principio della libertà individuale non sta solo scritto nelle costituzioni ma diventa a tutti gli effetti un criterio che valorizza le capacità concrete e sostanziali delle persone di vivere il tipo di vita al quale danno valore. L’espansione della libertà è condizione di felicità, perché possibilità di fare, di scegliere, di sperimentare con dignità e senza subire umiliazione.
Ecco perché il tema della giustizia è un tema di risorse o di condizioni di benessere, non semplicemente di esiti e nemmeno soltanto di equo trattamento. A questa promessa di “felicità” è ritornato il presidente Obama per inaugurare il suo secondo mandato: una promessa di impegno per uno sviluppo “illimitato” come o indefinito (cioè senza limiti predeterminati) è il mondo delle nostre possibilità in quanto persone libere nei diritti ed eguali nelle opportunità.
In questo inizio secolo, il viaggio mai finito della democrazia sembra aver trovato il suo Ulisse, nocchiero di un percorso incerto negli esiti e periglioso, ma avvincente e mosso da uno scopo che dovrebbe essere alla nostra portata: vivere con dignità, apprezzando il valore della nostra libertà.
Clima, eguaglianza, diritti e accoglienza
Ecco la nuova era di Barack Obama
Pochi attimi dopo aver giurato nelle mani di John Roberts, presidente della Corte Suprema, Obama si è rivolto alla folla del National Mall ripetendo più volte “We, the people”, le parole con cui inizia la Costituzione
Il presidente giura e si richiama ai Padri Fondatori: «Conservare la libertà richiede le azioni di tutti»
di Maurizio Molinari (La Stampa, 21.01.2013)
Con un discorso breve ma intenso il presidente Barack Obama ha chiesto all’America di «agire» per «portare nel presente» «valori e idee» dei Padri Fondatori della Repubblica americana, sottolineando le battaglia che ritiene decisive nei prossimi 4 anni: per la difesa del clima, l’eguaglianza dei diritti dei gay, l’accoglienza degli immigrati e la difesa democrazia nel mondo.
Pochi attimi dopo aver giurato nelle mani di John Roberts, presidente della Corte Suprema, Obama si è rivolto alla folla del National Mall ripetendo più volte “We, the people”, le parole con cui inizia la Costituzione. «Ciò che distingue l’America è il credo nell’uguaglianza fra tutti gli uomini» ha esordito, ricordando che “i patrioti del 1776 non si sono battuti per sostituire un re con i privilegi di pochi” e dunque resta l’uguaglianza il timone della nazione.
Da qui l’appello ai singoli cittadini perché «conservare la libertà collettiva richiede azioni di ogni individui» a cui spetta di «agire assieme, una nazione e un popolo». L’impegno per il nuovo quatriennato che inizia sono di «cogliere le possibilità illimitate» offerte «dalla fine di un decennio di guerre e l’inizio della ripresa».
Obama è a favore della «riduzione dei costi della Sanità e del deficit» ma non vuole smantellare l’impegno dello Stato federale per i cittadini perché «Medicare, Medicaid e Previdenza ci rafforzano». Le promesse riguardano i grandi temi: «Risponderemo alla minaccia dei cambiamenti climatici», «uguaglianza per i fratelli e le sorelle gay», «un metodo migliore per accogliere gli immigrati». E sulla politica estero l’impegno è a «restare l’ancora delle alleanze nel mondo», «sostenendo la democrazia dall’Asia all’Africa, dalle Americhe al Medio Oriente» nella convinzione che «una pace durevole non richiede una guerra perenne».
Nel finale ha ricordato Martin Luther King «che ci ha guidato in questo Mall» per terminare: «Portiamo la luce della libertà verso un incerto futuro».
IL DISCORSO
Rimettiamoci al lavoro insieme
per ricostruire una grande America
di BARACK OBAMA *
OGGI mi trovo di fronte a voi, umile per il compito che ci aspetta, grato per la fiducia che mi avete accordato, cosciente dei sacrifici compiuti dai nostri avi. Ringrazio il presidente Bush per il servizio reso alla nostra nazione, e per la generosità e la cooperazione che ha mostrato durante questa transizione.
Quarantaquattro americani hanno pronunciato il giuramento presidenziale. Queste parole sono risuonate in tempi di alte maree di prosperità e di calme acque di pace. Ma spesso il giuramento è stato pronunciato nel mezzo di nubi tempestose e di uragani violenti. In quei momenti, l’America è andata avanti non solo grazie alla bravura o alla capacità visionaria di coloro che ricoprivano gli incarichi più alti, ma grazie al fatto che Noi, il Popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati e alle nostre carte fondamentali.
Così è stato finora. Così deve essere per questa generazione di americani.
E’ ormai ben chiaro che ci troviamo nel mezzo di una crisi. La nostra nazione è in guerra contro una rete di violenza e di odio che arriva lontano. La nostra economia si è fortemente indebolita, conseguenza della grettezza e dell’irresponsabilità di alcuni, ma anche della nostra collettiva incapacità di compiere scelte difficili e preparare la nostra nazione per una nuova era. C’è chi ha perso la casa. Sono stati cancellati posti di lavoro. Imprese sono sparite. Il nostro servizio sanitario è troppo costoso. Le nostre scuole perdono troppi giovani. E ogni giorno porta nuove prove del fatto che il modo in cui usiamo le risorse energetiche rafforza i nostri avversari e minaccia il nostro pianeta.
Questi sono gli indicatori della crisi, soggetti ad analisi statistiche e dati. Meno misurabile ma non meno profonda invece è la perdita di fiducia che attraversa la nostra terra - un timore fastidioso che il declino americano sia inevitabile e la prossima generazione debba avere aspettative più basse.
Oggi vi dico che le sfide che abbiamo di fronte sono reali. Sono serie e sono numerose. Affrontarle non sarà cosa facile né rapida. Ma America, sappilo: le affronteremo.
Oggi siamo riuniti qui perché abbiamo scelto la speranza rispetto alla paura, l’unità degli intenti rispetto al conflitto e alla discordia.
Oggi siamo qui per proclamare la fine delle recriminazioni meschine e delle false promesse, dei dogmi stanchi, che troppo a lungo hanno strangolato la nostra politica.
Siamo ancora una nazione giovane, ma - come dicono le Scritture - è arrivato il momento di mettere da parte gli infantilismi. E’ venuto il momento di riaffermare il nostro spirito tenace, di scegliere la nostra storia migliore, di portare avanti quel dono prezioso, l’idea nobile, passata di generazione in generazione: la promessa divina che tutti siamo uguali, tutti siamo liberi e tutti meritiamo una possibilità di perseguire la felicità in tutta la sua pienezza.
Nel riaffermare la grandezza della nostra nazione, ci rendiamo conto che la grandezza non è mai scontata. Bisogna guadagnarsela. Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie, non ci siamo mai accontentati. Non è mai stato un sentiero per incerti, per quelli che preferiscono il divertimento al lavoro, o che cercano solo i piaceri dei ricchi e la fama.
Sono stati invece coloro che hanno saputo osare, che hanno agito, coloro che hanno creato cose - alcuni celebrati, ma più spesso uomini e donne rimasti oscuri nel loro lavoro, che hanno portato avanti il lungo, accidentato cammino verso la prosperità e la libertà.
Per noi, hanno messo in valigia quel poco che possedevano e hanno attraversato gli oceani in cerca di una nuova vita.
Per noi, hanno faticato in aziende che li sfruttavano e si sono stabiliti nell’Ovest. Hanno sopportato la frusta e arato la terra dura. Per noi, hanno combattuto e sono morti, in posti come Concord e Gettysburg; in Normandia e a Khe Sahn. Questi uomini e donne hanno lottato e si sono sacrificati e hanno lavorato finché le loro mani sono diventate ruvide per permettere a noi di vivere una vita migliore. Hanno visto nell’America qualcosa di più grande che una somma delle nostre ambizioni individuali; più grande di tutte le differenze di nascita, censo o fazione.
Questo è il viaggio che continuiamo oggi. Rimaniamo la nazione più prospera, più potente della Terra. I nostri lavoratori non sono meno produttivi rispetto a quando è cominciata la crisi. Le nostre menti non sono meno inventive, i nostri beni e servizi non meno necessari di quanto lo fossero la settimana scorsa, o il mese scorso o l’anno scorso. Le nostre capacità rimangono inalterate. Ma è di certo passato il tempo dell’immobilismo, della protezione di interessi ristretti e del rinvio di decisioni spiacevoli. A partire da oggi, dobbiamo rialzarci, toglierci di dosso la polvere, e ricominciare il lavoro della ricostruzione dell’America.
Perché ovunque volgiamo lo sguardo, c’è lavoro da fare. Lo stato dell’economia richiede un’azione, forte e rapida, e noi agiremo - non solo per creare nuovi posti di lavoro, ma per gettare le nuova fondamenta della crescita.
Costruiremo le strade e i ponti, le reti elettriche e le linee digitali che alimentano i nostri commerci e ci legano gli uni agli altri. Restituiremo alla scienza il suo giusto posto e maneggeremo le meraviglie della tecnologia in modo da risollevare la qualità dell’assistenza sanitaria e abbassarne i costi.
Imbriglieremo il sole e i venti e il suolo per alimentare le nostre auto e mandare avanti le nostre fabbriche. E trasformeremo le nostre scuole, i college e le università per venire incontro alle esigenze dei tempi nuovi. Possiamo farcela. E lo faremo.
Ora, ci sono alcuni che contestano le dimensioni delle nostre ambizioni - pensando che il nostro sistema non può tollerare troppi grandi progetti. Costoro hanno corta memoria. Perché dimenticano quel che questo paese ha già fatto. Quel che uomini e donne possono ottenere quando l’immaginazione si unisce alla volontà comune, e la necessità al coraggio.
Quel che i cinici non riescono a capire è che il terreno gli è scivolato sotto i piedi. Gli argomenti politici stantii che ci hanno consumato tanto a lungo non sono più applicabili. La domanda che formuliamo oggi non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funzioni o meno - se aiuti le famiglie a trovare un lavoro decentemente pagato, cure accessibili, una pensione degna. Laddove la risposta sia positiva, noi intendiamo andare avanti. Dove sia negativa, metteremo fine a quelle politiche. E coloro che gestiscono i soldi della collettività saranno chiamati a risponderne, affinché spendano in modo saggio, riformino le cattive abitudini, e facciano i loro affari alla luce del sole - perché solo allora potremo restaurare la vitale fiducia tra il popolo e il suo governo.
La questione di fronte a noi non è se il mercato sia una forza del bene o del male. Il suo potere di generare benessere ed espandere la libertà è rimasto intatto. Ma la crisi ci ricorda che senza un occhio rigoroso, il mercato può andare fuori controllo e la nazione non può prosperare a lungo quando il mercato favorisce solo i già ricchi. Il successo della nostra economia è sempre dipeso non solo dalle dimensioni del nostro Pil, ma dall’ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di estendere le opportunità per tutti coloro che abbiano volontà - non per fare beneficenza ma perché è la strada più sicura per il nostro bene comune.
Quanto alla nostra difesa comune, noi respingiamo come falsa la scelta tra sicurezza e ideali. I nostri Padri Fondatori, messi di fronte a pericoli che noi a mala pena riusciamo a immaginare, hanno stilato una carta che garantisca l’autorità della legge e i diritti dell’individuo, una carta che si è espansa con il sangue delle generazioni. Quegli ideali illuminano ancora il mondo, e noi non vi rinunceremo in nome di qualche espediente. E così, per tutti i popoli e i governi che ci guardano oggi, dalle più grandi capitali al piccolo villaggio dove è nato mio padre: sappiate che l’America è amica di ogni nazione e di ogni uomo, donna e bambino che sia alla ricerca di un futuro di pace e dignità, e che noi siamo pronti ad aprire la strada ancora una volta.
Ricordiamoci che le precedenti generazioni hanno sgominato il fascismo e il comunismo non solo con i missili e i carriarmati, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci. Hanno capito che il nostro potere da solo non può proteggerci, né ci autorizza a fare come più ci aggrada. Al contrario, sapevano che il nostro potere cresce quanto più lo si usa con prudenza. La nostra sicurezza emana dalla giustezza della nostra causa, dalla forza del nostro esempio, dalle qualità dell’umiltà e del ritegno.
Noi siamo i custodi di questa eredità. Guidati ancora una volta dai principi, possiamo affrontare le nuove minacce che richiederanno sforzi ancora maggiori - una cooperazione e comprensione ancora maggiori tra le nazioni. Cominceremo a lasciare responsabilmente l’Iraq alla sua gente, e a forgiare una pace duramente guadagnata in Afghanistan. Con i vecchi amici e i vecchi nemici, lavoreremo senza sosta per diminuire la minaccia nucleare, e respingere lo spettro di un pianeta che si surriscalda. Non chiederemo scusa per il nostro stile di vita, né ci batteremo in sua difesa. E a coloro che cercano di raggiungere i propri obiettivi creando terrore e massacrando gli innocenti, noi diciamo adesso che il nostro spirito è più forte e non può essere infranto. Voi non ci sopravviverete, e noi vi sconfiggeremo.
Perché noi sappiamo che il nostro retaggio "a patchwork" è una forza e non una debolezza. Noi siamo una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e induisti e non credenti. Noi siamo formati da ciascun linguaggio e cultura disegnata in ogni angolo di questa Terra; e poiché abbiamo assaggiato l’amaro sapore della Guerra civile e della segregazione razziale e siamo emersi da quell’oscuro capitolo più forti e più uniti, noi non possiamo far altro che credere che i vecchi odi prima o poi passeranno, che le linee tribali saranno presto dissolte, che se il mondo si è rimpicciolito, la nostra comune umanità dovrà riscoprire se stessa; e che l’America deve giocare il suo ruolo nel far entrare il mondo in una nuova era di pace.
Per il mondo musulmano noi indichiamo una nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto. A quei leader in giro per il mondo che cercano di fomentare conflitti o scaricano sull’Occidente i mali delle loro società - sappiate che i vostri popoli vi giudicheranno su quello che sapete costruire, non su quello che distruggete. A quelli che arrivano al potere attraverso la corruzione e la disonestà e mettendo a tacere il dissenso, sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno.
Alla gente delle nazioni povere, noi promettiamo di lavorare insieme per far fiorire le vostre campagne e per pulire i vostri corsi d’acqua; per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quelle nazioni, come la nostra. che godono di una relativa ricchezza, noi diciamo che non si può più sopportare l’indifferenza verso chi soffre fuori dai nostri confini; né noi possiamo continuare a consumare le risorse del mondo senza considerare gli effetti. Perché il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare con esso.
Se consideriamo la strada che si apre davanti a noi, noi dobbiamo ricordare con umile gratitudine quegli americani coraggiosi che, proprio in queste ore, controllano lontani deserti e montagne. Essi hanno qualcosa da dirci oggi, proprio come gli eroi caduti che giacciono ad Arlington mormorano attraverso il tempo. Noi li onoriamo non solo perché sono i guardiani della nostra libertà, ma perché essi incarnano lo spirito di servizio: una volontà di trovare significato in qualcosa più grande di loro. In questo momento - un momento che definirà una generazione - è precisamente questo lo spirito che deve abitare in tutti noi.
Per tanto che un governo possa e debba fare, alla fine è sulla fede e la determinazione del popolo americano che questa nazione si fonda. E’ la gentilezza nell’accogliere uno straniero quando gli argini si rompono, la generosità dei lavoratori che preferiscono tagliare il proprio orario di lavoro piuttosto che vedere un amico perdere il posto, che ci hanno guidato nei nostri momenti più oscuri. E’ il coraggio dei vigili del fuoco nel precipitarsi in una scala invasa dal fumo, ma anche la volontà di un genitore di nutrire il proprio figlio, che alla fine decidono del nostro destino.
Forse le nostre sfide sono nuove. Gli strumenti con cui le affrontiamo forse sono nuovi. Ma i valori da cui dipende il nostro successo - lavoro duro e onestà, coraggio e fair play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo - tutto questo è vecchio. Sono cose vere. Sono state la forza tranquilla del progresso nel corso di tutta la nostra storia. Quel che è necessario ora è un ritorno a queste verità. Quel che ci viene chiesto è una nuova era di responsabilità - il riconoscimento, da parte di ogni americano, che abbiamo un dovere verso noi stessi, la nostra nazione, il mondo, doveri che non dobbiamo accettare mugugnando ma abbracciare con gioia, fermi nella consapevolezza che non c’è nulla di più soddisfacente per lo spirito, così importante per la definizione del carattere, che darsi completamente per una causa difficile.
Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza.
Questa è la fonte della nostra fiducia - la consapevolezza che Dio ci ha chiamato a forgiare un destino incerto.
Questo è il significato della nostra libertà e del nostro credo - perché uomini, donne e bambini di ogni razza e di ogni fede possono unirsi nella festa in questo Mall magnifico, e perché un uomo il cui padre meno di sessanta anni fa non avrebbe neanche potuto essere servito in un ristorante ora può trovarsi di fronte a voi per pronunciare il giuramento più sacro di tutti.
Perciò diamo a questa giornata il segno della memoria, di chi siamo e di quanta strada abbiamo fatto. Nell’anno in cui l’America è nata, nel più freddo dei mesi, una piccola banda di patrioti rannicchiati intorno a falò morenti sulle rive di un fiume ghiacciato. La capitale era stata abbandonata. Il nemico avanzava. La neve era macchiata di sangue. Nel momento in cui l’esito della nostra rivoluzione era in dubbio come non mai, il padre della nostra nazione ordinò che si leggessero queste parole al popolo:
"Che si dica al futuro del mondo... che nel profondo dell’inverno, quando possono sopravvivere solo la speranza e la virtù... Che la città e la campagna, allarmate da un pericolo comune, si sono unite per affrontarlo".
America. Di fronte ai nostri pericoli comuni, in questo inverno dei nostri stenti, ricordiamo queste parole senza tempo. Con speranza e virtù, affrontiamo con coraggio le correnti ghiacciate, e sopportiamo quel che le tempeste ci porteranno. Facciamo sì che i figli dei nostri figli dicano che quando siamo stati messi alla prova non abbiamo permesso che questo viaggio finisse, che non abbiamo voltato le spalle e non siamo caduti. E con gli occhi fissi sull’orizzonte e la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e l’abbiamo consegnato intatto alle generazioni future.
* la Repubblica, 20 gennaio 2009
Oggi finisce il razzismo
di VITTORIO ZUCCONI *
Finisce oggi, nel mezzogiorno di una Washington tanto gelida fuori quando calorosa dentro, la storia ufficiale del razzismo negli Stati Uniti. Finisce, con Barack Hussein Obama, la presunzione della automatica superiorità morale, religiosa e culturale europea sugli altri popoli del mondo in forza del colore della pelle.
Quando Barack Obama farà appello nel suo discorso di insediamento all’unità e all’unicità del popolo americano, battendo sul tasto della "responsabilità comune" e non del vittimismo o del revanscismo da militante "black", un capitolo della storia umana sarà stato definitivamente chiuso, ben oltre i calcoli politicanti della "bipartisanship" e dei voti.
Ma la fine del razzismo pubblico e formale che nel 1654 stabilì in Virginia che gli africani erano "oggetti di proprietà del padrone", comporterà anche la fine del razzismo privato? Non rischia, Obama, oltre il successo personale già acquisito, di giocare e perdere per tutte le minoranze, gli immigrati, i migranti, i "non bianchi" del mondo, una partita troppo ambiziosa e difficile, in questo momento di catastrofi imminenti, convincendo i poveri di spirito che, ecco, vedete, "un negro" non è all’altezza?
Se dobbiamo dare ascolto ai sondaggi di queste ore, la risposta è "no", Obama ha già vinto la partita del razzismo. Sei americani su dieci - in proporzione inversa a un anno fa - rispondono alle inchieste demografiche dicendo che per loro ormai la "razza" non ha più importanza. Che giudicano una persona dal contenuto del carattere e non dal colore della pelle, secondo la visione di Martin Luther King celebrato ieri nella festa nazionale caduta con perfetto calendario.
Il numero di coloro che giudicano la questione razziale come un "big problem", come un nodo ancora non sciolto si è dimezzato dal 1996 e soltanto un cittadino su quattro dice di pensare ancora in termini di "bianco e nero". Persino Obama è ormai visto come un "africano" soltanto da una minuscola minoranza di duri a morire, tra bianchi come tra neri.
Barack Obama è stato insieme la causa e l’effetto di questa pace razziale che dai gradini del Campidoglio soffia oggi su una nazione che negli anni ’90, secondo i rapporti dello Fbi, vedeva una resurrezione sotterranea del Ku Klux Klan.
In attesa che cada anche il tabù anti femminile, da tutti i collegi elettorali del Paese si segnala una corsa opportunistica dei partiti al candidato di colore, anche da parte dei repubblicani presi in contropiede dal cambio di stagione, per sfruttare il vento di Washington. Il "nero" muove e vince. Persino il senatore scelto per riempire temporaneamente il seggio dell’Illinois lasciato libero da Obama, una nullità politica, è stato, dopo gemiti e proteste, accettato dall’augusto corpo del Senato, perché è nero. Neppure il quel Senato dove pure 99 su 100 membri sono bianchi, osa oggi alzare le vele contro il vento di Obama.
I sondaggi notano che la paura dell’"uomo nero" e le resistenza all’eguaglianza sopravvivono fra gli ultra sessantenni mentre tra gli "under 30", maschi come femmine, è trascurabile. Una generazione passata da scuole e università integrate, da sport giocati insieme, da fidanzamenti, matrimoni e amori misti, di "modelli" afro americani di successo in ogni professione, hanno intaccato i pregiudizi, lasciando in piedi soltanto i giudizi legittimi di condanna, individuali e non collettivi. Per un sindaco di Detroit, nero, deposto per manifesta corruzione, c’è un governatore dell’Illinois, il bianco Blagojevich, incriminato per corruzione. Nessuna razza o regione ha il monopolio del malgoverno, dell’incompetenza, della corruzione.
Ma proprio questa apoteosi così carica di passione movimentista, di autocompiacimento, di emozioni buone, presenta il rischio delle attese eccessive e dei riflussi negativi. Sappiamo ora che Barack Obama è stato eletto nonostante sia nero, forse addirittura perché è nero, dunque nell’aspetto fisico incarnava la voglia bruciante di cambiamento e di novità, dopo la lunga agonia della presidente Bush. La razza, come scrive ora il Washington Post, da barriera si è trasformata in trampolino e gli sforzi degli ultimi repubblicani aggrappati alla caricatura dell’afroamericano pericoloso, inesperto, addirittura "socialistico", come diceva l’avversaria, signora Sarah Palin, sono falliti. Il rischio non è forse quello di riportare indietro l’orologio del razzismo se lui dovesse, come è perfettamente possibile, fallire?
Di nuovo, la risposta è no, perché questo personaggio insieme enormemente carismatico ed eccezionalmente abile ha capito ed esorcizzato subito il rischio. Obama infatti non si è mai presentato, e non vede se stesso, come il "primo presidente nero" d’America e non ha voluto vincere come tale. Si vede e si offre come un presidente che ha la pelle scura, come altri possono avere gli occhi azzurri, i capelli castani o le efelidi. Non sente e non vende la propria etnicità come elemento caratterizzante, a differenza dei leader tradizionali della comunità di colore, ma come una forza, un uomo ponte per colmare meglio il fossato umano e politico con l’altra sponda. Avendo evitato la tentazione della "racial politics", la politica della razza e avendo scommesso su una nazione pronta a superare i reciproci ghetti, se dovesse fallire come presidente, sarebbe fallito come leader, non come "uomo nero" o giallo o diverso. In attesa dei giudizi della cronaca, dopo quello già dato dalla storia con l’insediamento, questa è la novità banalmente rivoluzionaria che il vento di Obama porta oggi sul resto del mondo. Giudicatemi per quello che faccio, non per quello che sono.
* la Repubblica, 20 gennaio 2009
Se Obama parlasse con il nemico
di Barbara Spinelli (La Stampa, 18.01.2009)
Le grandi speranze riaccese da Obama, alla vigilia della cerimonia inaugurale di martedì che lo insedierà alla Presidenza, somigliano non poco alle Grandi Speranze che accompagnano Pip, il protagonista del romanzo di Charles Dickens. Solo in apparenza il romanzo racconta una promessa di palingenesi personale, sociale: quel che narra è in realtà un faticoso apprendistato, un addestramento alla realtà. Pip, come Obama, deve imparare a camminare da solo, e soprattutto evitare d’esser "tirato su per mano" da tutori invadenti, paternalisti. Pip è figlio d’operai, ha scarpe grosse, mani brutte. La sua vita cambia quando uno sconosciuto benefattore gli lascia i suoi beni dandogli, appunto, Great Expectations. Ma il cambiamento vero dipende da lui, da quel che farà della donazione.
Come ha scritto Kissinger sull’Herald Tribune: la magica ascesa di Obama "definisce un’opportunità, non una politica".
Il mondo che Obama eredita gli s’accampa davanti pieno di rovine, e profondamente equivoco. Anche quello di Bush si nutriva infatti di Grandi Aspettative. Ma erano promesse immateriali, capziose, che non hanno insegnato nulla all’America e anzi l’hanno corrotta, sostituendo alla realtà l’ideologia. È un mondo che ha prodotto una "mescolanza letale di arroganza e ignoranza", scrivono Robert Malley e Hussein Agha sul New York Review of Books del 15 gennaio, nel descrivere la strategia Usa in Medio Oriente. C’è del miracolismo anche nell’attesa di Obama, rafforzato dal fatto che egli è il primo Presidente nero e che corona una storia dentro la storia nazionale, che lo collega non solo a Abramo Lincoln ma a Martin Luther King. Il suo apprendistato sarà duro perché dovrà rispondere alle Great Expectations e al tempo stesso non divenir ostaggio di chi pretende d’averlo fatto re, "tirandolo su per mano". Percepito come messia, egli deve al tempo stesso spezzare i messianesimi che da secoli catturano le menti americane.
L’apprendistato non può avvenire dunque che in solitudine, sotto forma di una vasta disintossicazione che salvi la speranza ma sappia anche spegnerla quando è irrealistica. Sono tante e svariate le sostanze tossiche di cui toccherà depurare l’organismo, e come in medicina urgono terapie radicali: dalla somministrazione di antidoti alla trasfusione del sangue all’inalazione di ossigeno. In politica occorre cambiare i paradigmi, come usano dire gli esperti in finanza; congedarsi dalle illusioni d’onnipotenza e dalle ideologie che dominano la politica estera, militare, climatica. Così poliedrico è il cambiamento richiesto che il paragone con la trasfusione sanguigna non è azzardato.
Le sostanze tossiche non hanno avvelenato solo gli otto anni di Bush. Sono decenni che lo Stato americano fabbrica bolle, ipnotizzato dal miraggio d’una forza autosufficiente e universalmente egemonica. In economia ha immaginato di poter vivere indebitandosi smisuratamente, consumando senza criterio, e fidandosi d’un mercato che magicamente si autoregola; in politica estera e militare ha creduto di poter modellare il pianeta secondo una propria idea del bene e del male, e non secondo l’utilità considerata opportuna dal maggior numero di soggetti. È qui che l’arroganza s’è unita all’ignoranza, impedendo agli Usa di considerare gli interessi di altri Paesi e di nuovi potentati locali; di riconoscere i propri limiti oltre che i limiti, in genere, dello Stato-nazione alle prese con mali e sfide che non è più in grado di padroneggiare da solo.
La stoffa della bolla è antica perché risale all’idea dell’America "faro sulla collina", votata a civilizzare il mondo, dotata di incorrotta supremazia morale e politica. Il continuo parlare di carote e bastoni è parte di questa presunzione, umiliante per i popoli destinatari: nessuno - tranne forse Al Qaeda - parlerebbe così dei rapporti con Washington. Non è vero che Bush s’è disinteressato al Medio Oriente, all’Iran, all’Asia, all’Europa. Secondo Malley e Agha se n’è interessato fin troppo, diminuendo ad esempio in Israele il senso della propria responsabilità, dei confini geografici, del limite: i progressi, Israele tende a compierli quando Washington latita, e a mediare sono magari gli europei o i turchi. Lo stesso dicasi per la Russia: i cui ricatti o soprusi (nel Caucaso, sul gas) sono possibili perché l’America promette un fiancheggiamento e una presenza - in Georgia, Ucraina - del tutto ingannevoli.
È il motivo per cui i realisti, in Israele, chiedono oggi a Obama di cominciare finalmente a parlare con le forze generatrici dei conflitti, anche se nemiche mortali d’Israele come Hamas, Hezbollah, Iran. ("Vada avanti per la sua strada, Presidente, non ascolti nessuna lobby", scrive Yossi Sarid su Haaretz). In un importante articolo sul New York Review of Books, tre autori (William Luers, Thomas Pickering, Jim Walsh) sostengono che l’Europa dovrebbe costruire con Teheran un consorzio, favorito da Obama, che produca uranio arricchito in Iran (la formula multinazionale ha il vantaggio di implicare controlli multinazionali). Obama, intanto, dovrebbe avviare con Teheran colloqui senza precondizioni, dopo le presidenziali iraniane di giugno, tenendo conto degli interessi di ambedue: l’Iran è essenziale per pacificare l’Iraq e anche l’Afghanistan, essendo ostile ai talebani sunniti. Le sanzioni non rischiano di fallire: già son fallite. Così come son fallite le guerre di Bush: perché hanno generato caos nel mondo invece di stabilità, soddisfacendo solo nel brevissimo periodo il desiderio Usa di dominarlo.
I neocon che hanno scommesso su Bush hanno condotto per anni una personale e accanita guerra contro la realtà, creando miti a ripetizione. Un episodio lo prova, raccontato anni fa dal giornalista Ron Suskind. Nel 2002, prima della guerra irachena, un consigliere di Bush (era Karl Rove) gli disse: "Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi e empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora" (New York Times, 17-10-04). La reality-based community viveva di fatti, mentre chi vive nello show mistificatorio li trascende, fino a quando la realtà si vendica.
La rottura con la realtà si è rivelata contagiosa: sin d’ora e nei prossimi anni converrà ricordarlo. La chimera dello Stato-nazione autosufficiente, la prepotenza congiunta all’ignoranza, il rifiuto di negoziare, la predilezione del breve termine rispetto al lungo, l’abitudine a violare la legalità internazionale: sono veleni di cui deve disintossicarsi l’amministrazione americana ma anche l’Europa, il mondo. Tanto più prezioso è l’annuncio di Obama: rispetterà le convenzioni internazionali sulla tortura e i prigionieri di guerra; chiuderà Guantanamo.
Sono i civili a pagare infatti chimere e menzogne. Pagano in economia, perché il fondamentalismo del laissez-faire ha colpito la gente comune e non solo Wall Street. Pagano a Gaza e nel Sud d’Israele, col sangue, la morte o il terrore. Pagano in Europa, dove milioni di cittadini gelano perché i nazionalismi russo e ucraino non sono imbrigliati da accordi multilaterali.
Ha scritto lo storico Andrew Bacevich che i grandi americani sono di rado ascoltati in patria, perché dicono cose realiste e per questo sgradite, poco trascinanti (The Limits of Power: The End of American Exceptionalism, New York 2008). Fa parte della disintossicazione riscoprire quella tradizione. È nella solitudine che Obama potrà ritrovare il realismo di Reinhold Niebuhr, il teologo profeta che nel secondo dopoguerra denunciò l’eccezionalismo americano e "il sogno di manipolare la storia, nato da una peculiare combinazione di arroganza e narcisismo: una minaccia potenzialmente mortale per gli Stati Uniti".
INTERDIPENDENCE *
Se gli altri esseri sono separati da me, sarà legittima la mia indifferenza per la loro sorte; ma se essi sono inseparabili da me come io da loro, se la mia stessa identità è formata dal tessuto delle relazioni in cui sono coinvolto, allora ogni autentica cura verso me stesso coincide con l’agire responsabile nel contesto che mi comprende.
Da alcuni anni negli Stati Uniti il terzo lunedì del mese di gennaio, in prossimità dell’anniversario della nascita di Martin Luther King, si celebra il Martin Luther King Day. Quest’anno, a Torino, per la prima volta sarà celebrato in Italia e la ricorrenza ha un significato eccezionale, essendo il 19 gennaio la vigilia dell’insediamento di Obama alla presidenza degli Stati Uniti.
Il sogno del pastore King prende forma nel modo più straordinario, e gli uomini e le donne di ogni continente hanno in quel sogno il fondamento di un futuro comune.
Le immagini di morte che ossessivamente in questi giorni si sono riversate da Gaza sono invece un incubo da cui vogliamo uscire. Occorre saper voltare pagina, cercare vie nuove, uscire dalla spirale dell’odio e della paura. Possa un più lungimirante senso di responsabilità e di giustizia guidare coloro che reggono le sorti del mondo.
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Obama, via al cambiamento La nuova squadra di governo
Emanuel, capo di Gabinetto *
Comincia a prendere forma la squadra di Governo del nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, eletto martedì con ampia maggioranza di voti elettorali e consenso popolare. Il suo più stretto collaboratore, il capo di Gabinetto, sarà il deputato dell’Illinois Rahm Emanuel, amico e alleato di vecchia data.
Secondo quanto riportato dall’emittente televisiva Nbc, che cita fonti vicine uno dei collaboratori di Obama, Emanuel ha accettato l’offerta di Obama, che ha così voluto mandare un segnale sul fatto che è pronto ad assumersi le proprie responsabilità di presidente lavorando immediatamente alla composizione della squadra che dovrà aiutarlo a guidare il Paese.
L’incarico dato a Emanuel, che prenderà il posto di Joshua Bolten, è di estrema importanza per la Casa Bianca. Il capo di Gabinetto, volendo usare una metafora, è come fosse l’amministratore delegato del Governo, una delle figure più influenti e stretto collaboratore del presidente, di cui ne cura l’agenda quotidiana. Oltre a decidere chi è autorizzato a incontrare il presidente, ha il compito di fare da supervisore alle attività dello staff della Casa Bianca.
Emanuel, veterano dell’amministrazione del presidente Bill Clinton, ha fama di essere stratega politico di larghe vedute ed è stato presidente della commissione elettorale democratica quando, due anni fa, i democratici hanno riconquistato il controllo del Congresso per la prima volta in oltre un decennio.
Il team di collaboratori che aiuterà Obama nel periodo di transizione - il presidente giurerà il prossimo 20 gennaio e solo allora si insedierà alla Casa Bianca - sarà guidato dal John Podesta, capo di Gabinetto durante la presidenza Clinton. Ne faranno parte anche la governatrice dell’Arizona Janet Napolitano, che potrebbe avere un incarico anche nell’amministrazione Obama, Pete Rouse, capo dello staff di Obama in Senato, e Valerie Jarrett, amica del nuovo presidente e consulente della sua campagna elettorale.
La squadra di consulenti comprenderà anche Federico Pena, ex segretario all’Energia e ai Trasporti sotto Clinton, e il segretario al Commercio dell’ex presidente William Daley.
* l’Unità, Pubblicato il: 06.11.08, Modificato il: 06.11.08 alle ore 8.42
Ansa» 2008-11-06 08:49
Rahm Emanuel, consigliere che sa tutto di Washington
WASHINGTON - Rahm Emanuel, scelto da Barack Obama come capo di staff, è un insider di Washington e si dice abbia un carattere abrasivo. Due caratteristiche che sembrerebbero non in linea col messaggio di cambiamento e di unità che Obama ripete ad ogni discorso. Ma Emanuel, 48 anni, figlio di un pediatra nato a Gerusalemme, studi da ballerino, un fratello molto potente ad Hollywood, ha altre virtù agli occhi di Obama, di cui da tempo è consigliere.
Emanuel, deputato alla Camera per il North Side di Chicago, ha un carattere forte ed è molto abile nella raccolta di fondi. A lui è ispirato un personaggio della serie Tv ’West Wing’ (quello di Josh Lyman). Suo fratello Ari ha creato una delle più potenti agenzie di talenti di Hollywood. Un altro fratello, é un famoso oncologo. E’ stato consigliere del senatore democratico Paul Simon e del sindaco di Chicago Richard M. Daley. Nel 1991, durante la prima Guerra del Golfo, è accorso in Israele come volontario civile.
Nel 1991 Bill Clinton lo ha nominato Direttore delle Finanze della sua campagna elettorale. Conquistata la Casa Bianca era diventato consigliere di Clinton. Era stato lui il coreografo della firma nel 1993 nel giardino della Casa Bianca dell’accordo di Oslo tra israeliani e palestinesi.
E’ entrato nel clan di Obama attraverso l’amicizia comune con David Axelrod, stratega del presidente eletto. Emanuel, che ha perduto parte di un dito mentre lavorava ad un tritacarne da giovane, è un appassionato atleta di triathlons.
Vince Obama, è festa nazionale anche in Kenya *
Non si festeggia solo negli Stati Uniti per la vittoria di Barack Obama alle presidenziali. In Kenya, il presidente Mwai Kigaki, ha dichiarato festa nazionale per la giornata di giovedì in onore della vittoria «storica» di Obama. «La vittoria del senatore Obama è la vittoria del nostro paese, in virtù delle sue radici, qui in Kenya», ha dichiarato Kibaki.
La famiglia keniana, accolta la notizia della vittoria del senatore dell’Illinois, è esplosa in una manifestazione di gioia ed entusiasmo. «Andiamo alla Casa Bianca» hanno esultato alcuni parenti del neo-presidente afro-americano. Nel villaggio occidentale di Kogelo, dove vivono alcuni parenti di Obama tra cui una delle sue nonne, la polizia ha assicurato la massima vigilanza nel timore di un assalto da parte dei media.
A Nairobi, la gente ha seguito tutta la notte lo scrutinio elettorale o si è svegliata all’alba per conoscere l’esito del voto, quindi ha salutato la conquista della Casa Bianca del candidato democratico al grido «Obama! Obama!». Centinaia di persone hanno sfilato per i vicoli della baraccopoli di Kibera. Gibson Gaitho, 14 anni, sa che la presidenza Obama non cambierà molto la sua vita, ma «in quanto keniani siamo orgogliosi».
* l’Unità, Pubblicato il: 05.11.08, Modificato il: 05.11.08 alle ore 11.16
LA LETTERA
"Caro Obama, con la tua vittoria
si può sognare un mondo migliore"
di NELSON MANDELA *
Questo è il testo della Lettera spedita da Nelson Mandela a Barack Obama
Caro Senatore Obama,
Ci uniamo al popolo del suo Paese e di tutto il mondo nel congratularci con lei per essere diventato il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti. La sua vittoria ha dimostrato che nessuna persona, in nessun luogo al mondo dovrebbe astenersi dal sognare di volere cambiare il mondo affinché diventi un pianeta migliore.
Prendiamo atto e plaudiamo al suo impegno di sostenere la causa della pace e della sicurezza in tutto il pianeta. Confidiamo inoltre che lei faccia rientrare nella sua missione di presidente anche la lotta alle piaghe della povertà e della malattia in tutto il pianeta.
Le auguriamo forza e decisione nei giorni e negli anni difficili che le stanno davanti. Siamo sicuri che lei alla fine conseguirà il suo sogno, quello di rendere gli Stati Uniti d’America un partner a pieno titolo di una comunità di nazioni dedite ad assicurare pace e benessere a tutti.
Con i miei più sinceri auguri,
(Traduzione di Anna Bissanti)
Il presidente italiano Giorgio Napolitano si congratula con Obama
ROMA Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato al senatore Barack Obama, eletto Presidente degli Stati Uniti d’America, il seguente messaggio:
«Le giungano le più calorose felicitazioni mie personali e del popolo italiano. Siamo profondamente impressionati dalla ineguagliabile prova di forza e di vitalità che la democrazia americana ci ha dato, grazie a una partecipazione senza precedenti alla campagna elettorale e al voto, e grazie alla larghissima adesione a un programma ricco di idealità e di impegni di rinnovamento. Per noi italiani che ci sentiamo intimamente legati sul piano storico e politico, culturale e umano, al popolo americano e agli Stati Uniti d’America, questo è un grande giorno: traiamo dalla sua vittoria e dallo spirito di unità che l’accompagna nuovi motivi di speranza e di fiducia per la causa della libertà, della pace, di un più sicuro e giusto ordine mondiale».
* La Stampa, 5/11/2008
Il colore di un altro mondo
di Maurizio Chierici *
Forse stasera il mondo cambia colore e la cultura degli Stati Uniti rovescia la vita di ogni comunità. Se i sondaggi non imbrogliano, giorni neri per i bianchi KKK. Non solo rabbia delle maggioranze parlanti modello Alabama. Lo sdegno KKK trema nell’inconscio delle anime perbene sconvolte da emigrazioni dai colori diversi. Insopportabili. Finché scarica patate ai mercati, pazienza, ma un nero alla Casa Bianca è come un mullah che dice messa.
I masi chiusi attorno a Bolzano dubiteranno del suo potere. Dubiteranno le folle montagnarde di leghe scandalizzate dalla profanazione. Fini aveva annunciato che era impossibile. Dovrà rassegnarsi. La democrazia ha queste scomodità. E nelle pieghe delle abitudini qualcosa comincerà ad essere diverso. Segni invisibili a poco a poco visibili appena il tempo addolcirà l’umiliazione ariana. Cominceremo a rovesciare le favole per il rispetto dovuto alla grande potenza.
Qualcuno lo ha già fatto. Caridad Toca era buia come il carbone. I signori Calvino le avevano affidato il figlio: Italo, appena due anni, quando Cuba era un regno americano. Ieri come oggi gli uomini neri impaurivano l’infanzia con la crudeltà di chi rubava i bambini nel sacco. Ma nei racconti della tata nera l’uomo nero si trasforma nell’angelo della luce. Salva chi affoga nel fiume, scaccia lupi randagi. Incanti dei quali lo scrittore non si è mai liberato. Il tempo ci abituerà all’anomalia della storia che si chiama Obama. Quando padre e madre dovranno indovinare chi viene a cena per sposare la figlia, se Obama ce la fa, il sospiro sarà meno desolato: «Almeno è intelligente».
Dovranno rassegnarsi i vecchi dal sangue stanco adattandosi a figli che non vogliono perdere il filo delle novità: addio moldave alle pallide, solo badanti africane. Ecco il dubbio: quali colori finiranno nel ghetto delle classi differenziate? Turandosi il naso, anche i partiti della razza romperanno le quote rosa per briciole di quote nere: l’America é sempre la nostra America ma nessuno si piegherà davvero. Nelle segrete abbandonate dai black power, i white power resusciteranno l’indignazione appena Obama sbaglierà. E sbaglierà, come ogni presidente. Ma è un presidente nero: l’avevano detto. L’ultimo libro di Eduardo Galeano («Specchi», Sperling & Kupfer ) racconta le incisioni delle grotte dei deserti africani: colline verdi, frutti che piegano i rami. Quel paradiso terrestre dove Adamo ed Eva si sono forse incontrati. Ed erano neri. Meglio non farlo sapere nei giorni del lutto bianco.
* l’Unità, Pubblicato il: 04.11.08, Modificato il: 03.11.08 alle ore 21.38
Le reazioni dal mondo. Russia spera in "nuovo respiro" in rapporti con Stati Uniti
MOSCA - Mosca spera che l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti porti a un "nuovo respiro" nei rapporti bilaterali: lo ha detto il presidente Dmitri Medvedev nel suo primo discorso alla nazione. "Non abbiamo problemi col popolo americano, non c’é qui un antiamericanismo congenito. Speriamo che i nostri partner e la nuova amministrazione statunitense facciano una scelta a favore di rapporti più validi con la Russia".
L’elezione di Obama è stata vissuta in Russia con cauto ottimismo dal mondo politico, mentre le borse hanno reagito in modo euforico, aprendo con rialzi dell’ordine del 10% e sospendendo poi le contrattazioni per eccesso di rialzo. Lo stesso ministro delle finanze Alksei Kudrin ha legato questa ripresa al voto americano.
VATICANO: GRANDI ATTESE, DIO L’ASSISTA
"Dio illumini" Barack Obama nella sua "grandissima responsabilità ": è quanto auspica oggi la Santa Sede nell’esprimere al 44/esimo presidente degli Stati Uniti gli "auguri di poter rispondere alle attese e alle speranze che si rivolgono verso di lui", anche per quanto riguarda "il rispetto dei valori umani e spirituali essenziali".
"Tutti - ha detto in una dichiarazione all’ANSA il portavoce Vaticano, padre Federico Lombardi - auguriamo al nuovo presidente Obama di potere rispondere alle attese e alle speranze che si rivolgono verso di lui, servendo efficacemente il diritto e la giustizia, trovando le vie adatte per promuovere la pace nel mondo, favorendo la crescita e la dignità delle persone nel rispetto dei valori umani e spirituali essenziali". "I credenti - ha aggiunto - pregano che Dio lo illumini e lo assista nella sua grandissima responsabilità ".
A poche ore dall’elezione del primo presidente afro-americano della storia degli Stati Uniti, il portavoce della Santa Sede ha sottolineato come il compito dell’inquilino della Casa Bianca sia "di immensa e altissima responsabilità " non solo per il suo Paese, ma per tutto il mondo. Padre Lombardi ha sottolineato infatti il peso che gli Stati Uniti hanno in tutti i campi della scena mondiale.
DA TUTTO IL MONDO MESSAGGI DI AUGURI
Messaggi di congratulazioni sono giunti da tutto il pianeta al presidente eletto americano, Barack Obama, cominciando da quando il risultato non era ancora ufficiale.
In mattinata sono arrivati i messaggi, fra gli altri, della Santa Sede, del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e del ministro degli esteri, Franco Frattini. Il primo era stato il presidente francese, Nicolas Sarkozy. "Dio illumini" Obama nella sua "grandissima responsabilità" è l’auspicio della Santa Sede nell’esprimere al 44/esimo presidente degli Stati Uniti gli "auguri di poter rispondere alle attese e alle speranze che si rivolgono verso di lui", anche per quanto riguarda "il rispetto dei valori umani e spirituali essenziali". Napolitano ha detto che "per noi italiani che ci sentiamo intimamente legati sul piano storico e politico, culturale e umano, al popolo americano e agli Stati Uniti d’America, questo é un grande giorno: traiamo dalla sua vittoria e dallo spirito di unità che l’accompagna nuovi motivi di speranza e di fiducia per la causa della libertà, della pace, di un più sicuro e giusto ordine mondiale". Il ministro Frattini, nell’esprimere a Obama le sue "vive congratulazioni", ha detto che "siamo convinti, e continueremo ovviamente ad esserlo, che gli Stati Uniti sono e saranno il primo partner internazionale dell’ Italia. Con il presidente Obama noi continueremo su una strada di collaborazione e di condivisione, e certamente di sostegno reciproco nelle più grandi regioni di crisi dove l’Italia è fortemente impegnata accanto agli Stati Uniti". La "vittoria brillante" di Obama è stata sottolineata dal presidente francese, Nicolas Sarkozy, seguito a ruota dal premier Francois Fillon. Il presidente cinese, Hu Jintao, rivolgendosi a Obama, ha auspicato che si possa raggiungere un nuovo livello di collaborazione e intesa tra Cina e Usa: "Hanno vasti interessi comuni" e "condividono la responsabilità di una serie di importanti questioni che riguardano il benessere e la felicità dell’umanità".
L’Europa ha fatto sentire la sua voce con il presidente della Commissione, José Manuel Barroso. L’elezione di Barack Obama è "un punto di svolta per gli Usa e può esserlo per il mondo intero". Ha affermato Barroso in una breve dichiarazione alla stampa.
Il primo ministro britannico, Gordon Brown, nel felicitarsi per la vittoria di Obama, ne ha salutato i "valori progressisti" e la "visione per il futuro". La cancelliera tedesca, Angela Merkel ha assicurato a Obama, in un telegramma di congratulazioni, una "collaborazione piena di fiducia" da parte della Germania. Dal Medio Oriente il premier israeliano uscente, Ehud Olmert, ha detto che gli Stati Uniti "hanno dato ancora una volta la prova di essere la più grande democrazia e di essere un esempio per tutte le altre democrazie nel mondo", ribadendo che Israele e Usa hanno la stessa volontà di continuare a rafforzare questi rapporti per portare avanti la pace e la stabilità in Medio Oriente.
Il presidente dell’Autorità palestinese, Abu Mazen, che ha invitato Obama a operarsi per comporre in conflitto con Israele. il premier giapponese, Taro Aso, ha espresso le sue "più sentite felicitazioni al senatore Obama", mentre per il premier indiano, Manmohan Singh, lo "straordinario cammino verso la Casa Bianca" di Obama è "ispirazione" per il mondo intero. Persino dall’Iran l’ agenzia ufficiale Irna ha salutato la "catarsi nazionale" attraverso la quale "gli americani hanno ripudiato l’era di George W. Bush". "La vittoria a valanga di Obama ha spazzato via le ultime barriere razziali nella politica americana", scrive l’Irna, "una svolta che sarebbe sembrata impensabile solo due anni fa". Il ministro degli esteri iracheno, Hoshyar Zebari, nel salutare la sua vittoria, ha detto che l’amministrazione Obama "non porterà ad un rapido disimpegno americano per l’Iraq".
Obama vince, ma guai a credere al presidente «amico» della pace
di Giovanni Sarubbi
La speranza di un cambiamento è solo nelle mani di un movimento della pace che non si pieghi alle logiche del potere militare-industriale *
DUNQUE Barack Obama è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Le previsioni della vigilia sono state tutte rispettate. Il primo presidente afro-americano ha raccolto la stragrande maggioranza del voto popolare e ha ottenuto una maggioranza schiacciante sia al Congresso che al Senato. Tutto il potere è dunque ora nelle mani del partito democratico, almeno così sembra.
L’Associazione CODEPINK, che in questi anni si è battuta contro la guerra in Iraq e in Afghanistan, dando vita alle clamorose contestazioni nei confronti di Bush e della Condoliza Rice e a imponenti manifestazioni per la pace, ha inviato un messaggio in cui afferma: “La vittoria di Obama è una vittoria per il movimento per la pace. E’ un messaggio per la classe dirigente politica che essere contro la guerra è la posizione vincente. La guerra è quindi oltre”. Nello stesso messaggio il movimento per la pace americano enuncia quelle che sono state le parole d’ordine su cui si è mobilitato a favore di Obama. Così testualmente scrive: “Che cosa vogliamo da Obama e da una Amministrazione democratica che controlla il Congresso? Vogliamo la fine dell’occupazione dell’Iraq e risarcimenti per i suoi cittadini. Noi non vogliamo che le truppe dall’Iraq siano spedite direttamente a un altro fronte di guerra perdente in Afghanistan. Vogliamo una soluzione negoziata in Afghanistan. Vogliamo una soluzione diplomatica al conflitto con l’Iran. Vogliamo il ripristino delle nostre libertà civili e la tutela del nostro ambiente. Vogliamo soldi per tirare fuori i proprietari di case che si trovano nella mani degli usurai. Vogliamo un NUOVO “New Deal” per l’America: posti di lavoro, l’alloggio, l’assistenza sanitaria universale, l’istruzione, strade, mezzi di trasporto pubblici .... Noi vogliamo un governo che metta le esigenze delle persone davanti agli utili delle banche e delle imprese”. Il messaggio si conclude con un appello che la dice lunga sui reali rapporti di forza esistenti oggi negli USA ma che è al tempo stesso un segno di speranza: “Riusciremo a ottenere tutte queste cose? Non senza continuare la nostra aggressiva, vibrante e talvolta rumorosa agitazione”. I pacifisti americani fanno cioè un appello a non disarmare il movimento per la pace e a continuare l’iniziativa per ottenere che dalle parole si passi ai fatti concreti. Nessun presidente “amico” deve riuscire a fermare il movimento per la pace.
Quale politica farà realmente Obama? Noi, lo diciamo apertamente, non siamo molto ottimisti. L’accordo che Obama ha fatto poco prima delle elezioni con il presidente Bush sul salvataggio delle banche non ci sembra che vada nella direzione richiesta dal movimento pacifista. Fino a quando gli usurai della finanza americana continueranno a dettare le loro leggi non ci saranno speranze per i cinquanta milioni di poveri americani e per il miliardo di affamati del resto del mondo. Per dare da mangiare a tutti, gli ingordi vanno ridotti all’impotenza.
Così come la scelta dell’ex Segretario di Stato Colin Powel, quello delle bugie dette all’ONU per giustificare l’aggressione all’Iraq, di appoggiare Obama, che gli ha promesso un posto nella sua amministrazione, non dicono nulla di buono sulla reale volontà di Obama di farla finita con la guerra e con un sistema militare industriale che negli USA controlla circa il 40% del PIL, cioè praticamente la gran parte dell’economia americana.
Obama non è Martin Luther King. Il fatto che abbia il suo stesso colore della pelle non ci garantisce identità di idee, quelle idee che portarono Martin Luther King alla morte. Anche un presidente nero può dichiarare guerra, o continuare quelle in corso magari con altre forme. Così come non crediamo ci sia molta differenza fra continuare una guerra da soli (applicando la cosiddetta politica della unilateralità di Bush) o farla con l’appoggio della comunità internazionale (con la cosiddetta politica della multilateralità tanto cara al nostro PD). Sempre guerra è con l’aggravante che la multilateralità coinvolge molti più paesi.
Il fatto poi che Obama sia descritto come il nuovo Kennedy non ci dice nulla di buono. Di Kennedy noi ricordiamo soprattutto, oltre al suo omicidio e ai suoi bei discorsi, il fatto che egli fu il presidente che iniziò la guerra in Vietnam, continuata poi dai suoi successori democratici, così come un altro democratico, Clinton, nel 1999 con la guerra in Kossovo è stato in realtà l’iniziatore di quella guerra infinita che ha trovato in Bush il più strenuo sostenitore e realizzatore.
Vedremo dunque nei prossimi due mesi cosa concretamente succederà e quali saranno i passi concreti che Obama compirà e quali saranno i ministri del suo nuovo governo. Non è neppure escluso che da qui a Gennaio, mese nel quale Obama si insedierà ufficialmente come nuovo presidente, possa succedere qualcosa che ipotechi pesantemente le sue decisioni. C’è chi paventa qualche colpo di coda dell’amministrazione Bush, in particolare nei confronti dell’Iran.
L’unica cosa che ci sentiamo di condividere è l’appello a non smobilitare il movimento per la pace fatta dall’associazione CODEPINK: è questa l’unica speranza che abbiamo, quella di non demordere, non delegare al presidente “amico” le decisioni che riguardano il destino dell’umanità. Quella dei “presidenti amici” è una tragica realtà che abbiamo sperimentato anche noi in Italia con l’ultimo governo Prodi, ma è una esperienza che molti paesi hanno vissuto negli ultimi anni. Nessuna delega, nessuna speranza è possibile se non è fondata sulla mobilitazione popolare nonviolenta che, come scrive Codepink, deve essere “ aggressiva, vibrante e talvolta rumorosa”. Una nonviolenza, quella dei pacifisti americani, molto diversa da quella che sembra essere prevalente in Italia che più realisticamente potrebbe definirsi “paralisi nonviolenta”. Certo qui da noi è molto forte sia l’uso di picchiatori fascisti contro i movimenti, sia l’uso di provocatori infiltrati nei movimenti da parte degli organi dello Stato, come ha affermato il Senatore Cossiga in una sua recente intervista, e come hanno dimostrato le immagini dei recenti scontri avvenuti a Roma in occasione delle manifestazioni contro il decreto Gelmini. Ma proprio per questo occorre che il movimento nonviolento, se vuole essere tale, esca dalle sue diatribe interne e metta in campo qualcosa di concreto per dare una speranza all’umanità.
Non c’è nulla di diverso nel paese di stamattina. Eppure tutto è diverso
una "primavera americana" che ancora non si vede, ma si sente
La lunga notte della rivoluzione
che ha cambiato il volto degli Usa
Gli ultimi lustrascarpe ricordano ancora la rivolta di Washington
ora che un "brother" dormirà nella casa che avrebbero voluto mettere a sacco
di VITTORIO ZUCCONI *
WASHINGTON - La notte che ha cambiato tutto si stempera in un giorno di esausta, civile normalità, che produce in noi ammirazione, stupore e qualche invidia.
È cambiato tutto. Si sono rovesciati 40 anni di storia, tra le rivolte dei ghetti del 1968 e l’annuncio della vittoria del figlio di un kenyano, nelle tre ore passate fra i primi risultati incerti dalla Florida, dalla Virginia, dall’Ohio, fino alla valanga di voti del West alle 23 e un minuto, ora della capitale.
Ma sulla nuova America che ha stravinto, come su quella vecchia che ha straperso, sulla insurrezione elettorale dei giovani che hanno respinto la tentazioni della protesta e hanno trovato lo strumento politico per manifestare la loro voglia di antipolitica, dei neri, dei bruni, delle donne, è già scesa la pace. Sotto la coperta rassicurante della Costituzione, delle regole da rispettare e rispettate, della civiltà politica, dell’accettazione di vittorie come di sconfitte, l’America oggi riposa esausta e si distende.
Gli americani hanno fatto una rivoluzione e tutto quello che posso raccontare di scomposto è la folla che spontaneamente si era raccolta attorno alla Casa Bianca a mezzanotte, per cantare "Bye Bye George" e fare la serenata a un presidente detestato da 3 americani su 4, senza che volasse un ciottolo.
Perché rivoluzione è stata e la nuova carta politica dell’America, che i pennelli elettronici delle network andavano disegnando, i messaggi frenetici dei blog e dei siti internet raccontavano e le ricerche sui voti confermavano, è un continente umano e politico che sembrava scomparso ed è invece riemerso. Non un’"altra America", come vogliono i luoghi comuni, ma un’America che non aveva trovato il messaggio e il messaggero per uscire dall’incantesimo dei falsi "valori", del moralismo, della xenofobia, dei miti fiscali spacciati da coloro che avevano tutto da guadagnare e nulla da restituire, e ora l’ha trovato. E’ sbalorditivo che tutti gli stracci agitati per un decennio dalla destra, nessuno, neppure la questione dell’aborto che ormai è vissuta come una storia conclusa e acquisita, abbiano fatto la loro comparsa in questa elezione. Forse questo, il mancato ricorso agli spettri delle paure, spiega la quiete dopo la notte.
Barack Obama ha vinto ovviamente perché i suoi fratelli di sangue hanno votato come mai avevano fatto prima, fino al 95% con lui, dopo che si era insinuato che lui "non fosse abbastanza nero", per non essere cresciuto nei casermoni dell’edilizia popolare, i projects, sforacchiati da sparatorie e da crimine. Ma ha vinto perché le donne lo hanno scelto, nella speranza che lui sia colui che finalmente darà sicurezza sanitaria a quelle madri single che allevano figli senza alcuna protezione assicurativa e hanno visto in lui, bambino allevato da donne, la madre sola e la nonna, la rivincita della loro fatica quotidiana. Ha vinto con i latinos, stanchi di essere trattati come usurpatori di terre nelle quali fanno i lavori che permettono ai bianchi di farne di migliori. Ha vinto fra quei "colletti blu" delle acciaierie in agonia, delle fabbriche d’auto che oggi vendono un terzo meno dell’anno scorso, quei "democratici di Reagan" che la strategia repubblicana era riuscita a sedurre agitando le bandierine dei "valori", morali, patriottici, militari. Ha vinto addirittura nel West, dove il rude cowboy immaginario ha da tempo lasciato le prateria ai nuovi americani dei sobborghi, della tecnologia, dei diritti. Ha vinto perché è il segno, e il volto, dell’America nuova, contro un partito vittima del proprio successo con un’America Vecchia che esiste sempre meno, persino nella Florida dei vecchi.
Ci sarebbero infinite ragioni di rancore, voglie di conti da saldare, paure per l’immaginario "radicalismo marxista" di un ultra liberal, che si rivelerà molto più probabilmente come un centrista moderato al massimo con qualche istinto blandamente socialdemocratico, ma se ci fossero state voglie di rese dei conti, le avrebbero spente, prima che la notte degenerasse in un giorno di mazzieri, le avrebbero subito spente le parole proprio dei due protagonisti, uniti da uno stesso filo: io ho perso, ora deve vincere l’America e l’America è colui che è stato eletto. Io ho vinto "ma dovrò governare anche per coloro che hanno perso", come ha detto Obama. E le braci accese da secoli si sono spente e raffreddate anche in quel parco di Chicago dove i figli degli hippies e dei sessantottini piangevano abbracciando i vecchi poliziotti in pensione che il sindaco Daly aveva mandato a sprangare a sangue i loro padri e le loro madri, nell’estate del 1968.
Non c’è niente di diverso, nella Washington dove esco dopo il voto. I giovanotti di colore che mi riempiono il sacchetto del supermercato sono gli stessi di ieri e non sono diventati presidenti degli Stati Uniti né direttori del negozio alle 23 e 30 di martedì, quando uno come loro è diventato il Capo dello Stato ed è probabilmente soltanto la mia immaginazione di cronista che vede nei clienti che spingono il carrello e li ringraziano un’ombra di rispetto in più, come se trattarli male, da oggi, potesse scatenare sull’uomo bianco sgarbato con il garzone nero la furia del nuovo governo federale e un immediato accertamento fiscale.
Eppure tutto è diverso, come se vivessimo in una "primavera americana" che ancora non si vede, ma si sente. Guido l’auto nel centro di Washington, la capitale molto "romana", molto sorniona e cinica, che aspetta l’arrivo del nuovo Cesare, il 20 gennaio prossimo, e delle sue centurie, senza scomporsi, sapendo che sopravviverà anche a questo ribaltone storico, culturale, morale come ha saputo sopravvivere ai sudisti che la bombardavano, ai mercenari inglesi che la invasero e ai dementi di Al Qaeda che le schiantarono un Boeing 757 di linea contro il Pentagono, senza che il cuore della città perdesse un colpo. E’ questo, il momento della transizione da un imperatore all’altro, avvenuto 41 volte in 220 anni per 43 presidenze, nel quale si vede la magnificenza civile della nazione. Non si sentono urla e grida, non ci sono vincitori che insolentiscono i trombati, o sconfitti che digrignano i denti, anche grazie alla stangata senza equivoci di Obama, e del partito democratico, che ha conquistato seggi e allargato la maggioranza al Congresso, Camera e Senato, costruendo un "monocolore" democratico nel cuore del governo nazionale come non si vedeva da decenni.
Il sovrano deposto dalla Costituzione e bocciato dal voto, Bush, che è il vero sconfitto come ammettono anche i suoi ultimi supporter come Bill Kristol o Fred Barnes, i boia chi molla della destra estrema, si fa vedere sul pronao della Casa Bianca semplicemente per congratulare colui che da 21 mesi va ripetendo che proprio Bush è stato una catastrofe, per dire che lui è da questo momento a disposizione del successore, che Obama ha ragione quando dice che l’America è la nazione dove tutto è possibile e i messi del nuovo Cesare avranno libero accesso e saranno d’ora in poi, giorno dopo giorno fino alla inauguration fra 70 giorni, messi al corrente di tutti gli affari di Stato.
Chi oggi attraversa questa capitale lubrificata dall’esperienza delle transizioni e dal senso di responsabilità nazionale e internazionale che porta sulle spalle, non può non ricordare come la trovò trent’anni or sono, e cerca invano i segni delle lingue di fuoco che annerivano la facciata degli edifici del centro, all’incrocio della 14esima strada e della F Street, a 100 metri dalla Casa Bianca, dove l’insurrezione del ghetto nero arrivò con la armi, le fiaccole, le spranghe in mano, fermato dalla Guardia Nazionale in assetto di guerra, dopo la notizia dell’assassinio di Martin Luther King, nel 1968.
Gli edifici affumicati, che contemplavo dalla finestra dell’ufficio nel palazzo della stampa, sono stati abbattuti, ci sono shopping center, caffetterie, condomini di lusso, negozi di chincaglieria costosa. Soltanto i vecchi, gli ultimi lustrascarpe ricordano ancora la sommossa di Washington e lustrascarpe rimangono, anche ora che un brother, un fratello di sangue, dormirà nella casa che loro avrebbero voluto mettere a sacco. Il primo giorno del resto della nostra vita, come vuole un detto americano, è un giorno normale, pacifico, qualsiasi, dopo una notte che avrebbe potuto, altrove, scatenare piazze e furori.
Questa "primavera di Washington", che fiorisce in autunno, fa piangere in silenzio, compostamente, come ha pianto ieri notte Colin Powell, che si era esposto per dare la propria investitura a Obama e fa piangere coloro che in buona fede, avendo ascoltato le farneticazioni della cacciatrice di alci, rivelatasi una prevedibile zavorra dopo la fiammata di curiosità iniziali, davvero crede che dal 20 gennaio prossimo gli Usa diverranno gli "Ussa", gli "Stati Uniti Socialisti d’America" e Obama porterà via il negozio di souvenir o la cassetta delle spazzole ai lustrascarpe, mentre i "neri" la faranno da padroni, vendicandosi dei padroni.
E tutto quello che è successo è che la mappa elettorale dell’America torna finalmente a corrispondere alla propria diversità, come la faccia di chi l’ha disegnata, ha il volto di una nazione che riassume in sé il dna del mondo. E se la nonna di Obama non lo ha visto vincere per 24 ore, Ted Kennedy è riuscito a resistere al male che lo sta uccidendo, per vedere il ritorno dell’America che finalmente i suoi fratelli avrebbero riconosciuto.
* la Repubblica, 6 novembre 2008
UNA LETTERA A BARACK OBAMA
di Michael Moore
[Dal sito di "Pacereporter" (http://it.peacereporter.net/) riprendiamo il seguente testo del 27 ottobre 2008 col titolo "Il cambiamento in cui noi possiamo credere" e il sommario "Lettera aperta di Michael Moore a Barack Obama: rispetti gli impegni presi in campagna elettorale"] *
Caro senatore Obama,
le scriviamo per congratularci dei notevoli risultati ottenuti nella sua campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti.
La sua candidatura ha provocato un’ondata di entusiasmo politico come non se ne vedeva da decenni in questo paese. Nei suoi discorsi, ha prospettato la visione di un futuro migliore, nel quale gli Stati Uniti smantellano i loro presidi militari sparsi per il globo e si concentrano sull’azione diplomatica all’estero, e su una maggiore uguaglianza e liberta’ dei loro cittadini in casa propria; una visione che ha fatto palpitare gli elettori attraverso tutto lo spettro politico.
Centinaia di migliaia di giovani hanno fatto il loro primo ingresso nella vita politica, elettori afroamericani si sono radunati al suo seguito, e molti di coloro che si erano sentiti alienati dalla "solita politica" si sono impegnati di nuovo.
Lei e’ oggi alla guida di un movimento che crede profondamente in quel cambiamento che lei stesso ha elevato a simbolo della sua campagna. I milioni di persone che partecipano ai suoi raduni, che contribuiscono con donazioni alla sua candidatura e che visitano il suo sito web sono una potente dimostrazione dell’energia e della passione di questo nuovo movimento.
Questo movimento e’ vitale per due ragioni. Primo, le assicurera’ la vittoria contro John McCain a novembre. La lunga notte di avidita’ e avventurismo militare dell’amministrazione Bush, che McCain vorrebbe prolungare, non puo’ finire cosi’ in fretta. Una entusiastica schiera di volontari e organizzatori fara’ si’ che gli elettori, nel giorno del voto, chiudano il libro dell’era Bush. Secondo, dopo averla aiutata ad insediarsi alla Casa Bianca, il sostegno di questo movimento rendera’ possibili i cambiamenti su cui poggia la sua piattaforma politica. Solamente una base popolare ampia ed energica come quella che la sostiene puo’ arginare il potere dei soldi e contrastare i poteri precostituiti, che sono un peso morto per coloro che perseguono un reale cambiamento nella politica americana.
*
Le consigliamo quindi di prestare ascolto alla voce delle persone che possono portarla alla presidenza e sostenerla nel corso del suo mandato.
A partire dalla sua storica vittoria alle primarie, ci sono stati preoccupanti segni di un suo spostamento, riguardo gli impegni cardine condivisi dai molti che hanno sostenuto la sua campagna, verso una posizione piu’ moderata e centrista - compreso il suo voto per la legislazione Fisa, che garantisce alle compagnie di telecomunicazione l’impunita’ per le intercettazioni telefoniche illegali, cosa che ha fatto infuriare ed ha costernato molti dei suoi sostenitori.
Riconosciamo che il compromesso e’ necessario in qualsiasi democrazia. Capiamo che le pressioni che deve sostenere chi cerca di raggiungere la piu’ alta carica sono molto forti. Ma ritrattare quelli che sono stati i punti chiave della sua campagna, indebolira’ quel movimento che le offre il supporto necessario a vincere e a realizzare il cambiamento promesso.
*
Di seguito sono elencate le idee chiave che lei ha abbracciato e che noi crediamo essenziali per continuare a sostenere questo movimento:
Ritiro dall’Iraq secondo scadenze prefissate.
Una risposta all’attuale crisi economica che riduca il divario tra i ricchi ed il resto della popolazione, attraverso un sistema finanziario e di sicurezza sociale piu’ progressista; investimenti pubblici finalizzati alla creazione di posti di lavoro e alla ricostruzione dell’infrastruttura del paese, oramai al collasso; politiche di commercio basate su condizioni di reciprocita’; ripristino della liberta’ di associazione sindacale; significativi interventi governativi in materia di legislazione del lavoro e regolamentazione dell’industria.
Assistenza sanitaria universalmente garantita a tutti i cittadini.
Una politica ambientale che trasformi l’economia per mezzo di uno spostamento di miliardi di dollari dal consumo di combustibili fossili verso fonti di energia alternative, creando cosi’ milioni di posti di lavoro nel settore delle energie rinnovabili.
Fine del regime di tortura, di violazioni delle liberta’ civili e di incontrollato potere dell’esecutivo, che ha prosperato durante l’era Bush.
Un impegno per i diritti delle donne, compreso il diritto all’aborto ed un piu’ facile accesso ai servizi sanitari per le pratiche di aborto e di trattamento della fertilita’.
Un impegno per il miglioramento delle condizioni di vita delle comunita’ urbane e per porre fine alle discriminazioni razziali, incluse le disparita’ educative attraverso la riforma della legge "No Child Left Behind" ("Nessun bambino lasciato indietro") e altre misure.
Una regolamentazione dell’immigrazione che tratti umanamente coloro che cercano di entrare nel nostro paese, e che fornisca un percorso di integrazione culminante con il diritto di cittadinanza per coloro che sono gia’ qui.
Una riforma della legge sulla droga che incarcera centinaia di migliaia di persone che necessitano di aiuto, non della prigione.
Una riforma del processo politico che riduca l’influenza dei soldi e delle lobby delle corporations, e che dia maggiormente voce alla gente comune.
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Questi sono i cambiamenti in cui possiamo credere. In altri ambiti - come ad esempio l’uso delle forze armate e di truppe mercenarie in Iraq, l’escalation della presenza militare Usa in Afghanistan, la risoluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi, e la pena di morte - le posizioni da lei sostenute sono considerevolmente differenti da quelle assunte da molti di noi, gli "amici della sinistra" a cui si e’ rivolto durante i suoi ultimi commenti. Se il prossimo novembre lei vincera’, noi lavoreremo per sostenere insieme a lei le posizioni che condividiamo e criticheremo quelle che non condividiamo. Siamo impazienti di sviluppare con lei, dopo che sara’ stato eletto presidente, un dialogo costruttivo e duraturo.
Fermi restando i principi che lei ha articolato in maniera cosi’ convincente, ci auguriamo che riesca a portare in questo paese il cambiamento che lei stesso ci ha incoraggiato a credere possibile.
Tratto da
Notizie minime de
La nonviolenza è in cammino
proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini.
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Numero 631 del 6 novembre 2008