DAL FILM "AMISTAD"
di Steven Spielberg *
Amistad è un film del 1997 diretto da Steven Spielberg.
Trama
Il film è ambientato nel 1839 e si apre con un’immagine di un uomo di colore in una notte di tempesta su una nave, l’Amistad, che riesce a liberarsi dalle catene che lo imprigionavano e libera anche i suoi compagni. Armatisi di spade e coltelli attaccano i membri dell’equipaggio; si arriva al culmine quando l’artefice della sommossa (Joseph Cinqué) uccide il capitano della nave trapassandolo con la spada. A quel punto prendono in mano la situazione e costringono gli spagnoli rimasti vivi a virare verso l’Africa. Sei settimane dopo avvistano un’isoletta e con una piccola imbarcazione raggiungono la terraferma per rifornirsi d’acqua. Arriva però anche una nave americana che sentendo le grida degli spagnoli attacca gli ammutinati, che vengono rifatti schiavi.
La questione ben presto si complica perché non si sa a chi appartengano questi schiavi; vengono portati davanti al giudice dove si viene a sapere che potrebbero essere o di proprietà della Spagna (si è mobilitata persino la regina Isabella II, facendo pressioni sul Presidente degli Stati Uniti Martin Van Buren) oppure di due loschi figuri che presentano in tribunale un contratto d’acquisto di questi schiavi firmato a L’Avana. La questione diventa di dominio pubblico e si fa avanti un giovane avvocato, Baldwin, che cercando di sfruttare questo caso per acquistare fama, contatta Joadson e Tappan, i quali all’inizio sembrano titubanti nell’affidargli una questione così delicata.
Si rivolgono, infatti, a John Quincy Adams, famoso abolizionista, ormai vecchio. Anche lui però non sembra all’inizio dare loro retta. Decidono così di contattare il giovane avvocato il quale per la prima volta solleva la questione dell’importanza del fatto se gli schiavi siano nati liberi oppure no. Secondo Baldwin, infatti, se sono nati liberi non sono da considerare schiavi e quindi merce da vendere. L’avvocato cerca di fare di tutto per parlare con i prigionieri e si porta anche un traduttore che però si rivela completamente incompetente. Al processo si rivolge a loro anche in spagnolo, convinto che se fossero stati degli schiavi della Spagna, avrebbero compreso quella lingua. Ma il fatto che non capiscano nulla, non basta a dimostrare la loro innocenza. Baldwin si presenta al capo della rivolta e gli dice che sarà il suo avvocato; dopodiché insieme a Joadson decide di salire a bordo della nave ferma al porto in cerca di prove. Trova una cartina e dei documenti di bordo, mentre Joadson vede le catene e gli strumenti di tortura, trovando un dente di leone.
Le carte vengono portate in tribunale e si scopre che sono di una nave portoghese (la Tecora) famosa per il trasporto degli schiavi: la situazione sembra volgere dunque a favore dei prigionieri, ma per motivi politici viene deciso di cambiare il giudice. Joadson, allora, torna dall’ex-presidente John Quincy Adams, il quale gli dice di capire chi sono veramente questi schiavi. Per avvicinarsi a loro Joadson e Baldwin iniziano a imparare la loro lingua e grazie a questo fatto trovano un traduttore. Si viene a sapere come Joseph Cinqué, sia arrivato lì, proprio quando gli mostrano il dente trovato da Joadson, che gli fa venire in mente tutta la storia e di come lui sia stato catturato. La triste vicenda di Cinqué viene narrata in tribunale fin nei minimi dettagli, compresa la morte di cinquanta schiavi per assenza di viveri. Inoltre Cinqué inizia a gridare, seguito poi dagli altri "Date a noi liberi" (Give is us FREE): tutto ciò fa cambiare idea al nuovo giudice che afferma che questi uomini sono nati in Africa liberi e fa dunque arrestare i due spagnoli che li volevano per loro e dichiara liberi gli schiavi.
Ben presto però si ricorre in appello e Baldwin è costretto a scrivere all’ex-presidente, il quale dopo qualche titubanza accetta di aiutarli. Grazie all’arringa tenuta da John Quincy Adams, anche la Corte Suprema emette la sentenza a favore degli schiavi. Cinqué regala il suo dente a Joadson come simbolo di protezione e ringrazia Baldwin e l’ex-presidente.
Il film termina con la liberazione della Fortezza degli schiavi a Lomboko nella Sierra Leone e con le didascalie informative su quello che accadrà negli anni successivi: l’elezione di William Henry Harrison come nono presidente degli Stati Uniti (che a causa di una morte improvvisa resterà in carica un solo mese), la Guerra di secessione e Cinqué che ritorna in Africa, ma non trova la sua famiglia, probabilmente ridotta in schiavitù. (wikipedia)
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
ABRAHAM LINCOLN E GLI STATI UNITI DI AMERICA, OGGI: LA LEZIONE DI STEVEN SPIELBERG.
Cinema e "Arche-e/o-Logia"!!! "La X è il punto dove scavare" (Indiana Jones e l’ultima crociaya))
INDIANA JONES, 4. Steven Spielberg alla regia, Harrison Ford con cappello e frusta, George Lucas al pensatoio (Indy è creatura più sua che di Steve) hanno dato il meglio di sé, e il loro «meglio» è roba buona.
"IO HO UN SOGNO". IL DISCORSO DEL 28 AGOSTO 1963 A WASHINGTON
DI MARTIN LUTHER KING *
Oggi sono felice di essere con voi in quella che nella storia sara’ ricordata come la piu’ grande manifestazione per la liberta’ nella storia del nostro paese. Un secolo fa, un grande americano, che oggi getta su di noi la sua ombra simbolica, firmo’ il Proclama dell’emancipazione. Si trattava di una legge epocale, che accese un grande faro di speranza per milioni di schiavi neri, marchiati dal fuoco di una bruciante ingiustizia. Il proclama giunse come un’aurora di gioia, che metteva fine alla lunga notte della loro cattivita’.
Ma oggi, e sono passati cento anni, i neri non sono ancora liberi. Sono passati cento anni, e la vita dei neri e’ ancora paralizzata dalle pastoie della segregazione e dalle catene della discriminazione. Sono passati cento anni, e i neri vivono in un’isola solitaria di poverta’, in mezzo a un immenso oceano di benessere materiale. Sono passati cento anni, e i neri ancora languiscono negli angoli della societa’ americana, si ritrovano esuli nella propria terra.
Quindi oggi siamo venuti qui per tratteggiare a tinte forti una situazione vergognosa. In un certo senso, siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica hanno scritto le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione d’indipendenza, hanno firmato un "paghero’" di cui ciascun americano era destinato a ereditare la titolarita’. Il "paghero’" conteneva la promessa che a tutti gli uomini, si’, ai neri come ai bianchi, sarebbero stati garantiti questi diritti inalienabili: "vita, liberta’ e ricerca della felicita’".
Oggi appare evidente che per quanto riguarda i cittadini americani di colore, l’America ha mancato di onorare il suo impegno debitorio. Invece di adempiere a questo sacro dovere, l’America ha dato al popolo nero un assegno a vuoto, un assegno che e’ tornato indietro, con la scritta "copertura insufficiente". Ma noi ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia sia in fallimento. Ci rifiutiamo di credere che nei grandi caveau di opportunita’ di questo paese non vi siano fondi sufficienti. E quindi siamo venuti a incassarlo, questo assegno, l’assegno che offre, a chi le richiede, la ricchezza della liberta’ e la garanzia della giustizia.
Siamo venuti in questo luogo consacrato anche per ricordare all’America l’infuocata urgenza dell’oggi. Quest’ora non e’ fatta per abbandonarsi al lusso di prendersela calma o di assumere la droga tranquillante del gradualismo. Adesso ’ il momento di tradurre in realta’ le promesse della democrazia. Adesso e’ il momento di risollevarci dalla valle buia e desolata della segregazione fino al sentiero soleggiato della giustizia razziale. Adesso e’ il momento di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale per collocarla sulla roccia compatta della fraternita’. Adesso e’ il momento di tradurre la giustizia in una realta’ per tutti i figli di Dio.
Se la nazione non cogliesse l’urgenza del presente, le conseguenze sarebbero funeste. L’afosa estate della legittima insoddisfazione dei negri non finira’ finche’ non saremo entrati nel frizzante autunno della liberta’ e dell’uguaglianza. Il 1963 non e’ una fine, e’ un principio. Se la nazione tornera’ all’ordinaria amministrazione come se niente fosse accaduto, chi sperava che i neri avessero solo bisogno di sfogarsi un po’ e poi se ne sarebbero rimasti tranquilli rischia di avere una brutta sorpresa.
In America non ci sara’ ne’ riposo ne’ pace finche’ i neri non vedranno garantiti i loro diritti di cittadinanza. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione finche’ non spuntera’ il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’e’ qualcosa che devo dire al mio popolo, fermo su una soglia rischiosa, alle porte del palazzo della giustizia: durante il processo che ci portera’ a ottenere il posto che ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti. Non cerchiamo di placare la sete di liberta’ bevendo alla coppa del rancore e dell’odio. Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano elevato di dignita’ e disciplina. Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Sempre, e ancora e ancora, dobbiamo innalzarci fino alle vette maestose in cui la forza fisica s’incontra con la forza dell’anima.
Il nuovo e meraviglioso clima di combattivita’ di cui oggi e’ impregnata l’intera comunita’ nera non deve indurci a diffidare di tutti i bianchi, perche’ molti nostri fratelli bianchi, come attesta oggi la loro presenza qui, hanno capito che il loro destino e’ legato al nostro. Hanno capito che la loro liberta’ si lega con un nodo inestricabile alla nostra. Non possiamo camminare da soli. E mentre camminiamo, dobbiamo impegnarci con un giuramento: di proseguire sempre avanti. Non possiamo voltarci indietro.
C’e’ chi domanda ai seguaci dei diritti civili: "Quando sarete soddisfatti?". Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i neri continueranno a subire gli indescrivibili orrori della brutalita’ poliziesca. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ non riusciremo a trovare alloggio nei motel delle autostrade e negli alberghi delle citta’, per dare riposo al nostro corpo affaticato dal viaggio. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ tutta la facolta’ di movimento dei neri restera’ limitata alla possibilita’ di trasferirsi da un piccolo ghetto a uno piu’ grande. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i nostri figli continueranno a essere spogliati dell’identita’ e derubati della dignita’ dai cartelli su cui sta scritto "Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i neri del Mississippi non potranno votare e i neri di New York crederanno di non avere niente per cui votare. No, no, non siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finche’ la giustizia non scorrera’ come l’acqua, e la rettitudine come un fiume in piena.
Io non dimentico che alcuni fra voi sono venuti qui dopo grandi prove e tribolazioni. Alcuni di voi hanno lasciato da poco anguste celle di prigione. Alcuni di voi sono venuti da zone dove ricercando la liberta’ sono stati colpiti dalle tempeste della persecuzione e travolti dai venti della brutalita’ poliziesca. Siete i reduci della sofferenza creativa. Continuate il vostro lavoro, nella fede che la sofferenza immeritata ha per frutto la redenzione.
Tornate nel Mississippi, tornate nell’Alabama, tornate nella Carolina del Sud, tornate in Georgia, tornate in Louisiana, tornate alle baraccopoli e ai ghetti delle nostre citta’ del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione puo’ cambiare e cambiera’.
Non indugiamo nella valle della disperazione. Oggi, amici miei, vi dico: anche se dobbiamo affrontare le difficolta’ di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno. E un sogno che ha radici profonde nel sogno americano.
Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgera’ e vivra’ il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verita’ evidenti di per se’, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternita’.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformera’ in un’oasi di liberta’ e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalita’.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno, laggiu’ nell’Alabama, dove i razzisti sono piu’ che mai accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere di compromesso interlocutorio e di nullification delle leggi federali, un giorno, proprio la’ nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sara’ innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sara’ rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme. Questa e’ la nostra speranza. Questa e’ la fede che portero’ con me tornando nel Sud. Con questa fede potremo cavare dalla montagna della disperazione una pietra di speranza.
Con questa fede potremo trasformare le stridenti discordanze della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fraternita’.
Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, schierarci insieme per la liberta’, sapendo che un giorno saremo liberi.
Quel giorno verra’, quel giorno verra’ quando tutti i figli di Dio potranno cantare con un significato nuovo: "Patria mia, e’ di te, dolce terra di liberta’, e’ di te che io canto. Terra dove sono morti i miei padri, terra dell’orgoglio dei Pellegrini, da ogni vetta riecheggi liberta’". E se l’America vuol essere una grande nazione, bisogna che questo diventi vero.
E dunque, che la liberta’ riecheggi dalle straordinarie colline del New Hampshire.
Che la liberta’ riecheggi dalle possenti montagne di New York.
Che la liberta’ riecheggi dagli elevati Allegheny della Pennsylvania.
Che la liberta’ riecheggi dalle innevate Montagne Rocciose del Colorado.
Che la liberta’ riecheggi dai pendii sinuosi della California.
Ma non soltanto.
Che la liberta’ riecheggi dalla Stone Mountain della Georgia.
Che la liberta’ riecheggi dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Che la liberta’ riecheggi da ogni collina e da ogni formicaio del Mississippi, da ogni vetta, che riecheggi la liberta’.
E quando questo avverra’, quando faremo riecheggiare la liberta’, quando la lasceremo riecheggiare da ogni villaggio e da ogni paese, da ogni stato e da ogni citta’, saremo riusciti ad avvicinare quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, potranno prendersi per mano e cantare le parole dell’antico inno: "Liberi finalmente, liberi finalmente. Grazie a Dio onnipotente, siamo liberi finalmente".
* TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3331 del 17 marzo 2019
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XX)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: -centropacevt@gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
FLS
Personaggi e Storie
L’infaticabile Spielberg si confida nel suo film più personale: Fabelmans. Una quasi-autobiografia in cui svela la sua identità
di Roberto Zadik(Bet Magazine Mosaico, 16.09.2022
Nonostante sia uno dei principali registi contemporanei il vulcanico e riservato Steven Spielberg non ha quasi mai affrontato temi autobiografici e di lui e della sua vita privata non si sa poi molto. Per questo, a tre mesi dal suo 76esimo compleanno (18 dicembre), il cineasta statunitense ha deciso di raccontarsi nel suo nuovo film Fabelmans che si preannuncia “estremamente personale” come lo ha definito lo stesso Spielberg e “il suo film più ebraico assieme a Schindler’s list e Munich”, stando alla definizione fornita dal Times of Israel, in un interessante articolo firmato da Stephen Silver.
Di cosa tratta questa nuova fatica spielberghiana e quali sono le sue peculiarità nella vasta produzione di questo versatile regista capace di sfornare pellicole di vari generi, dalla fantascienza, all’avventura al filone intimista? Presentato il 10 settembre al Toronto Film Festival, il film, prodotto dalla Universal Pictures e in uscita negli Stati Uniti a metà novembre, è un’ode alla sua mamma ebrea e una riflessione sul suo passato.
Infatti il lungometraggio esplora, come mai prima d’ora, vari profili inediti della biografia del regista. Fra questi la sua infanzia, il rapporto con i suoi genitori di origini ucraine, Aaron e Leah Spielberg che, nella pellicola, vengono nascosti da due pseudonimi, Burt Fabelman, interpretato da Paul Dano e, nei panni di sua moglie Mitzi, da una strabiliante Michelle Williams.
Nel film emergono fatti inediti sulla sua giovinezza e sugli inizi incerti della sua carriera cinematografica. Una semi autobiografia in cui realtà e fiction si mescolano e anche lo stesso Spielberg, con lo pseudonimo “Sammy”, è interpretato dall’attore esordiente canadese Gabriel Labelle. Stimolato verso il cinema da sua madre che gli disse “i film sono sogni che mai dimenticherai” come ben si vede in una delle prime scene, quando da piccolo si recò con lei a vedere il suo primo lungometraggio, Spielberg ne venne talmente influenzato che, da quel momento, decise di darsi al cinema per tutta la vita.
Questa pellicola è l’ennesima dimostrazione del suo talento, evidenziato da capolavori come il film del suo esordio Duel, più di mezzo secolo fa nel 1971, e dall’angoscioso Lo squalo così come dall’entusiasmante saga di Indiana Jones. Accolto trionfalmente al Festival del cinema canadese, con un pubblico adorante che si è alzato in piedi per una standing ovation di oltre due minuti, il regista ha introdotto il suo nuovo lavoro raccontando sul palco che la storia è basata sulla sua vita e che “ci stavo pensando da molto tempo”.
L’amministratore delegato della manifestazione Cameron Bailey ha ricordato che il film esplora il background famigliare di Spielberg che, “pur avendo vissuto spesso e volentieri in ambienti non ebraici, ha sviluppato comunque una identità in tal senso” e che, come ha evidenziato lo sceneggiatore Tony Kushner, “è profondamente radicata nella sua personalità”.
Oltre al lato ebraico del regista, con diverse sequenze che lo rappresentano, assieme alla famiglia, mentre intona i canti di Shabbat, celebra la festività di Chanukkà o assaggia le tipiche ricette gastronomiche ashkenazite, come il kugel, il film approfondisce svariati momenti della sua vita. Vengono infatti rievocati gli ostacoli che il giovane Spielberg ha dovuto affrontare; primo fra tutti l’antisemitismo oltre ai trasferimenti della famiglia, dal New Jersey all’Arizona alla California del Nord, in cui egli soffrì il bullismo, sbeffeggiato come ebreo da parte di alcuni compagni che lo chiamavano spregiativamente “bagelman“. Il regista ha comunque specificato come si trattasse solamente di due persone, sollevando la scuola da qualsiasi responsabilità e discolpando una ragazza, alla quale fu molto legato da adolescente, che pretendeva da lui che si avvicinasse al cristianesimo.
Fra le curiosità, vari riferimenti ai suoi genitori e alla sua infanzia; suo padre, proveniente da una famiglia ortodossa, si affermò come uno dei primi ingegneri informatici mentre la madre era talentuosa pianista. Spielberg frequentò la scuola ebraica e fece il bar mitzva in Arizona, vivendo assieme alle tre sorelle più piccole e ai genitori fino al loro divorzio, avvenuto a metà degli anni ’60. Fu un vero trauma per lui che cercò nel cinema una via di fuga dalle sue problematiche come le asperità della separazione famigliare, l’assenza del padre e varie altre sofferenze che emergono anche in alcune delle sue pellicole.
L’articolo del Times of Israel svela inoltre come la realizzazione del film sia stata per Spielberg un lavoro di analisi psicanalitica in cui lo sceneggiatore Kushner “si è rivelato una sorta di terapista” diventando suo confidente, nel corso della sceneggiatura, soprattutto quando “durante la pandemia del Covid avevamo tutto il tempo di parlare lungamente”.
La collaborazione fra Steven e il suo sceneggiatore non si è rivelata solamente un riuscito sodalizio professionale ed artistico ma qualcosa di assai più profondo che, come ha detto il regista, gli ha permesso di ripercorrere alcuni “nodi irrisolti” della sua storia personale, anche se ha specificato che “non si tratta di un canto del cigno prima del ritiro dalle scene” e che non intende fermarsi qui.
Un entusiasmante amarcord per il regista che ha cercato di ripercorrere, proustianamente, il suo passato non solo assieme allo sceneggiatore ma, secondo quanto mette in luce il Washington Post in un articolo di Jake Cole, con i protagonisti del film. Spinto dall’intento di raccontare “scene di vita vissuta”, il regista avrebbe condiviso assieme agli attori Paul Dano e Gabriel Labelle vecchie fotografie e filmati privati, lasciandoli generosamente entrare nella sua vita privata, come ha ricordato Dano, cercando di creare una sorta di immedesimazione collettiva. “Questo film - ha affermato Spielberg - è stata l’opportunità per riportare con me mia madre, mio padre e le mie sorelle, Annie, Sue e Nancy, riavvicinandole a me più di quanto pensassi”.
La democrazia americana fatta a pezzi
La miccia accesa quattro anni fa ha fatto il suo lavoro e la bomba è esplosa
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 07 gennaio 2021)
Quattro morti, oltre a più di 50 arresti, è il bilancio provvisorio di una giornata che avrebbe dovuto certificare la decisiva vittoria democratica alle elezioni per il Senato in Georgia, l’elezione di Biden e Harris e l’avvio del nuovo Congresso. Una giornata che invece ha rappresentato un salto di qualità nello scontro politico, dimostrando, una volta di più, quanto la democrazia americana possa essere fragile e a rischio.
La presidenza Trump si inaugurò, quattro anni fa, con un discorso sullo American carnage, sulla carneficina di una classe media bianca a opera di forze economiche più o meno oscure con la complicità dei democratici. Rischia di terminare con la carneficina di istituzioni che sembrano non reggere più di fronte a un «re folle», come ormai molti commentatori definiscono Trump. Persino il suo sodale, Rudolph Murdoch, attraverso il «New York Post», lo ha invitato ad abbandonare l’interpretazione di un re Lear farsesco più che tragico se non fosse che riesce, come si è visto anche ieri, a trascinare il consenso di minoranze, certo, ma che hanno dietro i quasi 73 milioni di voti presi nelle elezioni dello scorso novembre.
Ancora una volta Trump si è assunto la responsabilità di alimentare il caos, le convinzioni cospirazioniste di chi, più che vivere una realtà alternativa, tenta di piegarla verso ciò che ritiene «verità di per sé evidenti». Al direttore di «The Atlantic», Jeffrey Goldberg, uno dei manifestanti radunatasi davanti al Congresso, ha gridato: «Arrenditi se credi in Gesù, arrenditi se credi in Donald Trump».
Sarebbe sbagliato liquidare questa frase, così come i cartelli con la scritta «Pelosi satana» come espressioni freak di estremisti cospirazionisti ed esponenti della destra armata. Ovvio: fra coloro che sono penetrati nelle aule e negli uffici del Congresso ci sono anche quelli. Hanno peraltro l’appoggio di esponenti repubblicani appena eletti, come nel caso di un deputato della West Virginia, entrato assieme agli altri manifestanti per filmare e postare quello che stava accadendo. Ma per molti di loro era la dimostrazione del vero spirito americano, di un «popolo» che si sente defraudato da elezioni considerate corrotte e rubate, come d’altronde Trump ha ribadito anche quando ha invitato i suoi sostenitori a «tornare a casa».
In fondo, non è la Dichiarazione di indipendenza il documento che legittima il diritto a resistere a un potere tirannico? Non è questo il messaggio che i manifestanti vestiti con abiti settecenteschi volevano trasmettere? Le immagini dei «patrioti» che si fanno immortalare seduti sullo scranno del presidente del Senato o della Camera verranno percepite, dall’America profonda che crede in Trump, come la riappropriazione delle istituzioni da parte del popolo sovrano, come l’espressione autentica di quello spirito di libertà che affonda nelle radici della lotta rivoluzionaria. Perché stupirsi, ha detto una manifestante bardata con la bandiera americana, non è così che questo Paese è stato fondato, non è così che i nostri Padri fondatori hanno travolto l’impero britannico?
La certificazione dell’elezione di Joe Biden e di Kamala Harris può e deve essere letta come la capacità del sistema di superare la crisi, ma rimane il vulnus rappresentato da un presidente uscente che ha dimostrato fino a che punto si possono mettere in tensione le istituzioni americane e quanto forti siano le aporie del sistema.
Le divisioni che hanno portato per la prima volta dal 1812 a vedere violato l’edificio del Congresso rimangono inalterate perché non sono state alimentate solo da Trump, ma da un Partito repubblicano che ha la responsabilità di aver avallato una presidenza anti-sistema come quella uscente e corteggiato razzismo, suprematismo ed estremismo armato. E se Mike Pence ha avuto la decenza di comprendere che le norme costituzionali non potevano essere stravolte - contravvenendo peraltro a uno dei principi del Partito repubblicano, quello della centralità degli Stati nell’assetto federale -, altri come Ted Cruz e un manipolo di senatori e di deputati che hanno presentato mozioni per contestare il voto in Georgia, Arizona e Pennsylvania, continuano a solleticare gli istinti profondi della base trumpiana, con l’opportunismo miope di chi crede in questo modo di utilizzare il capitale politico e di consenso lasciato in eredità dal quasi ormai ex presidente.
L’interrogativo cruciale, adesso, è se i repubblicani, spaventati da quello che è successo, saranno in grado di fare un passo indietro ed esprimere qualcosa di più di frasi di circostanza per lavarsi la coscienza.
Congresso Usa proclama vittoria di Biden. Trump isolato, rischia la rimozione
E’ salito a 4 il bilancio delle vittime negli scontri di ieri. Sono 13 i feriti e 52 le persone arrestate, molte per violazione del coprifuoco. Lascia il numero due della sicurezza nazionale
di Redazione Ansa*
Il Congresso ha proclamato Joe Biden e Kamala Harris presidente e vicepresidente degli Stati Uniti al termine della seduta del Congresso a camere riunite per certificare i voti del collegio elettorale, vinto dal ticket dem con 306 voti contro i 232 di quello repubblicano. Il parlamento ha respinto alcune contestazione avanzate da esponenti repubblicani dopo che la seduta era stata interrotta per l’assalto dei manifestanti pro Trump a Capitol Hill.
Biden e Harris giureranno il 20 gennaio.
Si aggrava intanto il bilancio delle vittime in seguito agli scontri avvenuti ieri durante l’assalto al Congresso americano da parte dei sostenitori di Donald Trump. Oltre alla donna uccisa da colpi d’arma da fuoco esplosi da un agente del Campidoglio, altre tre persone sono morte per emergenze e complicazioni mediche. Sono stati colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia a uccidere Ashli Babbit durante le proteste. Lo ha riferito il capo della polizia di Washington, sottolineando che un’inchiesta è stata aperta sull’evento. La donna è stata colpita da un agente in uniforme della polizia del Campidoglio con la sua arma di servizio.
Sono 13 i feriti e 52 le persone arrestate, molte per violazione del coprifuoco. Il vice consigliere per la sicurezza nazionale, Matt Pottinger, si è dimesso in seguito all’assalto al Congresso da parte dei fan di Donald Trump. Lo riferisce la Cnn.
Intanto il sindaco di Washington ha esteso l’emergenza pubblica per altri 15 giorni, fino al 21 gennaio, il giorno dopo l’insediamento di Joe Biden, appuntamento per il quale si temono nuovi forti tensioni.
Donald Trump è sempre più solo. L’ipotesi di invocare il 25/o emendamento per rimuoverlo si sta rafforzando nel gabinetto del presidente, anche se l’idea non è stata ancora ventilata al vicepresidente Mike Pence. Il 25/o emendamento della Costituzione prevede che il vicepresidente prenda i poteri nel caso il presidente muoia, si dimetta o sia rimosso dal suo incarico. D’accordo sulla rimozione anche alcuni leader repubblicani.
"Impeach". Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata star dei democratici, è stringata ma chiara sulle sue intenzioni. Vorrebbe procedere con l’impeachment di Donald Trump per gli scontri in Congresso. Ilham Omar, altra deputata liberal parte dello Squad (il quartetto che include anche Rashida Tlaib e Ayanna Pressley), ha annunciato di essere già al lavoro per la stesura degli articoli per l’impeahchment.
Intanto si susseguono diverse dimissioni, dalla portavoce di Melania Trump al vice portavoce della Casa Bianca. E stanno valutando di lasciare anche il ministro dei Trasporti e il consigliere per la sicurezza Nazionale. Intanto Trump, che ieri è intervenuto con un video in cui ribadiva l’accusa di elezioni falsate invitando comunque i suoi fan a ’tornare a casa’, è stato bannato temporaneamente dai principali social media, Twitter, Facebook e Instagram.
La condanna per l’assalto al Congresso statunitense è arrivata unanime da tutto il mondo. L’ex presidente Obama ha parlato di "grande disonore e vergogna" per gli Stati Uniti ma non "una completa sorpresa". La violenza, ha detto, è stata "incitata da un presidente che ha continuato a mentire sul risultato delle elezioni". "La violenza è incompatibile con l’esercizio dei diritti politici e delle libertà democratiche", le parole del premier italiano, Giuseppe Conte. Parole di condanna sono arrivate anche da tutti i leader europei, da Macron a von der Leyen e Johnson. Protesta anche del mondo dello sport americano.
*
Fonte: ANSA WASHINGTON 07 gennaio 2021 - 09:57 (ripresa parziale, per ulteriori approfondimenti clicca sulla zona evidenziata).
Scontri a Washington tra i fan di Trump e la polizia
Discorso del tycoon a migliaia di suoi fan nel parco a sud della Casa Bianca
Redazione ANSA WASHINGTON *
(ANSA) - NEW YORK, 06 GEN - I sostenitori di Donald Trump sono arrivati a Capitol Hill, dove il Congresso è impegnato nel processo per la ratifica della vittoria di Joe Biden. Immediato lo scontro con la polizia, costretta a intervenire dopo che gli appelli a disperdersi sono caduti nel vuoto.
"Non ci arrenderemo mai, non concederemo mai" la vittoria: Donald Trump ha esordito così davanti ad alcune migliaia di fan radunatisi nel parco a sud della Casa Bianca per la manifestazione ’Save America’ contro i brogli.
"Fermeremo il furto" dei voti, ha detto, usando lo slogan "stop the steal".
"Avremo un presidente illegittimo, non possiamo permetterlo" ha anche detto Trump.
"Se Mike Pence fa la cosa giusta vinciamo le elezioni": arringando i suoi fan a Washington, Donald Trump rafforza le pressione sul vicepresidente perché ribalti la vittoria di Joe Biden quando il Congresso si riunirà sotto la sua presidenza per certificarla.
Nel suo comizio contro i brogli, a Washington, Donald Trump ha attaccato come "deboli" i repubblicani che al Congresso intendono certificare la vittoria di Joe Biden.
Donald Trump evoca su Twitter il sospetto di nuovi brogli nei due ballottaggi in Georgia per il Senato, che col 97% dei voti vedono un serrato testa a testa tra i candidati. "Sembra che stiamo preparando una grande ’discarica di voti’ contro i candidati repubblicani. Aspettano di vedere di quanti voti hanno bisogno?", ha cinquettato. "E’ appena successo che sono stati trovati altri 4000 voti nella contea di Fulton. Ci siamo", ha aggiunto. Il presidente ha inoltre ritwittato post che insinuano il furto del voto.
Pence, non ho autorità sull’esito delle elezioni - "La presidenza appartiene agli americani. Non ritengo che i padri fondatori volessero investire il vicepresidente con l’autorità unilaterale di decidere quali voti devono essere contati e quali no". Lo afferma Mike Pence in una nota sul conteggio dei voti elettorali. Il vicepresidente di fatto respinge così l’invito di Donald Trump a capovolgere il risultato elettorale in Congresso.
Fan Trump tentano irruzione, evacuati due edifici Washington - La polizia di Washington evacua due edifici governativi dopo che i sostenitori di Donald Trump hanno cercato di fare irruzione. I palazzi evacuati sono il Madison e il Cannon Building.
McConnell a Trump, niente brogli,non danneggiare l’America - "Le elezioni non sono state rubate. Non ci sono stati brogli. Il Congresso non può nominarsi come il board delle elezioni": capovolgere il risultato delle elezioni significa danneggiare la repubblica per sempre. Lo afferma Mitch McConnell, il leader dei repubblicani in Senato, voltando le spalle al suo alleato degli ultimi quattro anni, Donald Trump.
Alleati Trump si oppongono a ratifica voti Arizona - Gli alleati di Donald Trump in Congresso si oppongono alla ratifica dei voti dei grandi elettori dell’Arizona, dopo che quelli dell’Alabama e dell’Alaska sono stati certificati. A presentare l’opposizione è il senatore repubblicano Roy Blunt. L’obiezione fa sì che la sessione congiunta del Congresso venga interrotta, con la Camera e il Senato che tornano nelle rispettive aule per una discussione che può durare fino a due ore. Nel corso del processo di ratifica sono attese diverse interruzioni analoghe per gli stati almeno di Georgia e Pennsylvania.
Schumer, repubblicani sostengono ’colpo di Stato’ - I repubblicani contestando la vittoria di Joe Biden "sostengono un tentativo di colpo di Stato". Lo afferma il leader dei democratici in Senato, Chuck Schumer, nel corso del dibattito seguito all’obiezione sollevata da alcuni alleati di Donald Trump a ratificare i voti dei grandi elettori dell’Arizona.
* Fonte: ANSA WASHINGTON, 06 gennaio 2021 (ripresa parziale - per ulteriori aggiornamenti, cliccare sulla zona evidenziata).
Religione.
L’Africa animista riletta col Vangelo
Cosa significa essere animisti, ma soprattutto cosa vuol dire arrivare al cattolicesimo dalla religione degli antenati. Il lucido sguardo di un africano, teologo gesuita, alla luce di papa Francesco
di Agbonkhianmeghe E. Orobator (Avvenure, martedì 17 settembre 2019)
"Animismo’ è stato ed è tuttora un’etichetta peggiorativa e dispregiativa. Nel passato e nel presente ha fornito a sociologi, storici e teologi uno strumento utile per interpretare e codificare la religione del-l’altro, in questo caso quella africana. È dimostrato che questo esercizio di interpretazione e codificazione ritrae il suo referente come primitivo e pagano. Non c’è dubbio che questo approccio sia irrazionale e riduttivo. Semplifica una realtà molto complessa. Tuttavia, accettando l’etichetta ’animista’, si può portare avanti un discorso e analizzare l’esperienza religiosa africana basata su un incontro diretto piuttosto che su stereotipi e pregiudizi. Mi interessa particolarmente esprimere un giudizio critico, ma rispettoso dei valori insiti nella religione africana, pur restando al tempo stesso fedele al Vangelo come principale depositario del messaggio cristiano.
Com’è davvero essere animista? Nel rispondere a questa domanda, lo scopo principale è delineare i fondamenti di un immaginario, di una pratica e una coscienza religiosi solitamente denigrati dai seguaci delle cosiddette religioni del mondo. Dai miei ricordi, e mentre continuo a trarre ispirazione da questa tradizione, emerge come fondamentale per l’intero sistema religioso in Africa una fede profonda nella vitalità del creato. In altre parole, questa tradizione rappresenta una profonda e intensa convinzione che nulla è privo di vita nel mio ambiente naturale, e che «esiste un potere invisibile insito in qualsiasi cosa in ogni momento». Trasposto nelle parole di papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’. Sulla cura della casa comune, ciò significa che «ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua [...] Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio» (n. 84).
Dall’albero ancestrale, chiamato ikhinmwin ( Newbouldia laevis), che sorgeva al centro della nostra proprietà, al fiume che scorreva a est della città e al turbine di vento che spesso credevamo trascinasse le persone nel mondo degli spiriti, tutto nell’immediato ambiente naturale della mia formazione trasudava forza, energia e vitalità. Difficilmente c’era qualcosa che non incutesse un certo grado di rispetto, e tutto aveva uno scopo. L’albero ancestrale era oggetto di reverenza e contrassegnava lo spazio sacro e il luogo di culto e delle pratiche rituali per la nostra fattoria.
Il premio Nobel Wangari Maathai avvalora questa credenza nell’affermare che alberi come questo sono «riconosciuti dalle comunità come punti nodali che connettono il mondo celeste con quello terrestre [...] luoghi dove risiedono gli antenati e/o i loro spiriti. Era così che consideravamo e ci riferivamo al sempreverde ikhinmwin. Una stanza delle medicine non è semplicemente la stanza di una casa, un albero non è soltanto un albero.
Non c’è da stupirsi, dunque, che oltre a collegare due mondi, costituisca uno spazio di riunione e comunione per famiglie e comunità in cui le differenze vengono messe da parte per ristabilire rapporti e connessioni fondamentali. La sua importanza sta anche nel fatto che facilita la fondamentale capacità di relazione delle dimensioni orizzontale e verticale dell’esistenza. Anche il fiume esigeva rispetto, era oggetto di venerazione da parte degli adoratori della dea dell’acqua. Il turbine di vento incuteva religioso timore.
Non era un vento come gli altri, era lo strumento degli dei. Quando successivamente sono venuto a conoscenza della dottrina della creazione nel cristianesimo e della sacralità presente nel cattolicesimo, aveva senso pensare al ’vento’, all’’alito’ o allo ’spirito’ di Dio che aleggiava sulle acque, accarezzando l’universo e risvegliando la natura alla vita all’alba della creazione (Gen 1,1). La mia visione del dominio «su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1,28) acquista significato da questa formazione religiosa. Da convertito al cristianesimo cattolico, come milioni di altri africani ho compiuto una transizione dalla mia fede ancestrale alla fede cristiana.
Non è un passaggio facile. Sarebbe pretenzioso sostenere che ho compiuto una rottura netta col mio passato, penso che ciò sia praticamente impossibile. Il presente è sempre impregnato del passato; da qui deriva la mia predilezione per termini come viaggio, percorso, traiettoria e pellegrinaggio quando parlo della mia esperienza religiosa. Forse sarebbe stato più facile tagliare il legame col passato se fosse consistito semplicemente in credenze, dottrine e dogmi sostituibili. Invece, era e continua a essere uno stile di vita.
E, per citare un proverbio africano, «per quante volte un leopardo attraversi il fiume, non perderà mai le macchie». Ho resistito e continuo a opporre resistenza alla concezione secondo cui il mio stile di vita africano, radicato nella fede di mio padre e animato dallo spirito di mia madre, non sia altro che una ricerca irrazionale di Dio «nelle ombre e sotto le immagini», per ricorrere a un’altra espressione negativa del documento del Vaticano II Lumen gentium( n. 16).
Il modo di vivere dei miei genitori si basava su immagini per facilitare l’incontro con un regno del mistero luminoso e tangibile; irradiava energia ed evocava mistero e rispetto, piuttosto che ombre. Allo stesso modo, non mi sento lacerato fra due tradizioni religiose. E mi rifiuto di accettare l’etichetta di ’schizofrenia della fede’ o di ’doppia mentalità religiosa’ che certi teologi regolarmente impongono agli africani che credono che Dio continui a parlare attraverso il loro stile di vita ancestrale, nonostante egli si sia rivelato in Gesù Cristo. È un’esperienza di tensione piuttosto che di divisione, di ispirazione anziché di disperazione. È una ricerca di integrazione e armonia piuttosto che un’esperienza di alienazione e conflitto.
Per questa ragione, mi sono di immenso conforto le parole di Paolo VI quando afferma che «l’africano, quando diviene cristiano, non rinnega se stesso, ma riprende gli antichi valori della tradizione ’in spirito e verità?’». Non è mia pretesa lasciar intendere che la religione africana sia un’oasi incontaminata di purezza etica. Soltanto, ritengo che etichettarla per quello che non è distorce e limita l’esperienza religiosa di milioni di persone. Sostengo quindi che la religione africana, esperienza religiosa vitale e immaginario spirituale ancora attivo in molte parti dell’Africa, possieda un vero talento in grado di rinnovare la comunità globale dei credenti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Dal film "Amistad", l’arringa davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti di John Quincy Adams.
Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri antenati di assisterci
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. La lezione di Nelson Mandela.
Federico La Sala
Steven Spielberg, “The Post”
di Bruno Cartosio (Doppiozero, 09.02.2018)
Anche quando in un film c’è la Storia, il film è una storia. Questo vale a proposito di The Post, la pellicola con cui Steven Spielberg riporta all’attenzione del pubblico una vicenda di quasi cinquant’anni fa ma che sembra fatta apposta per fare rimbalzare echi rumorosi fino alle orecchie di Donald Trump. Non si può non ricordare, parafrasando Gertrude Stein, che “un film è un film è un film è un film...”; d’altro canto, è più che pertinente il giudizio diviso espresso da James Goodale, avvocato e vicepresidente del New York Times al tempo dei fatti: quello di Spielberg “è un buon film, ma è cattiva storia”.
Un buon film, dunque, costruito con mano sicura da Spielberg e incardinato sulla magistrale prestazione di Meryl Streep. La storia di The Post è incentrata sulla signora Katharine Graham, interpretata da Streep, proprietaria del quotidiano Washington Post, che nel 1971 affronta con coraggio i propri dilemmi personali e i rischi per il suo giornale impliciti nella pubblicazione dei cosiddetti Pentagon Papers, i “Documenti del Pentagono” la cui raccolta era stata avviata per iniziativa del ministro della Difesa Robert McNamara nel 1967.
https://www.youtube.com/watch?v=RGEMgSk-TwM
Nelle 7000 pagine della loro compilazione sono documentati e circostanziati gli interventi finanziari, politici, spionistici, paramilitari e militari attuati in Vietnam dalle amministrazioni Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson, in gran parte occultamente e in parte mentendo al Congresso e al popolo statunitense. Si tratta di carte segrete o riservate, che McNamara dichiarò di volere raccolte per essere rese disponibili agli storici futuri. Il New York Times, entratone in possesso, inizia a pubblicarle il 13 giugno 1971 ed è costretto a interromperne l’uscita due giorni più tardi in seguito a un’ingiunzione giudiziaria voluta dal ministro della Giustizia dell’amministrazione Nixon. Sui “Papers” torneremo.
Non c’è dubbio che la Storia assegni al Times il ruolo assolutamente principale negli eventi. Infatti fu il quotidiano newyorkese il primo a ricevere le fotocopie dei documenti, consegnate al suo giornalista Neil Sheehan, nel marzo 1971; per primo li analizzò e ne verificò l’autenticità; per primo esplorò le implicazioni giuridiche legate alla loro eventuale pubblicazione e, infine, fu il primo a pubblicarli e ad affrontare sia la rabbia di Nixon e dei suoi uomini, sia l’ingiunzione di interrompere la pubblicazione, sia la trafila che portò la vicenda alla Corte Suprema.
La “primogenitura” del Times non è negata nel film; ma la sua presenza e il suo ruolo, a parte l’innesco iniziale, sono sempre ai margini del filo principale della trama. Ha qualche buona ragione l’avvocato Goodale nel giudicare il film “cattiva storia”. In fondo, scrive, fu il New York Times a vincere il premio Pulitzer per il ruolo avuto nella vicenda e “non condivise il premio con il Post”, esattamente come poi il Post non condivise con il Times il premio ricevuto per il ruolo avuto nella storia del Watergate. Il lavorio complesso e difficile sui Papers, cui giornalisti ed esperti del Times dedicarono tre mesi, il film li miniaturizza, per così dire, nei pochi giorni in cui il Washington Post entrò in scena, focalizzando la narrazione sulle figure cardine di Katharine Graham-Streep e di Ben Bradlee-Hanks e sugli spazi ristretti entro cui si muovevano: le loro abitazioni e la redazione del giornale, con poche altre locations di contorno.
Quella tra Graham e Bradlee non è presentata, neppure allusivamente, come una storia d’amore; ma narrativamente è come se lo fosse: espelle dalla vista il più ampio contesto della guerra stessa e della sua ormai del tutto decaduta “popolarità”. Nel giugno 1971, infatti, la guerra non è ancora finita. Nixon, eletto nel novembre 1968 grazie anche alla promessa di una “pace con onore” in Vietnam, ha ormai quasi dimezzato il numero dei militari statunitensi sul campo, ma ha invaso la Cambogia nel ’70 e il Laos in quello stesso ’71, suscitando nuove ondate di proteste. E a marzo, mentre a Neil Sheehan venivano consegnati i Documenti del Pentagono, il tenente William Calley veniva riconosciuto colpevole del massacro di centinaia di civili compiuto tre anni prima nel villaggio di My Lai. Anche quell’evento e le imputazioni mosse contro Calley erano stati tenuti segreti e fu solo alla fine dell’anno successivo che il pubblico ne venne a conoscenza, grazie al giornalista Seymour Hersh e anche in quel caso al New York Times.
Il film si apre con due scene poste a premessa, protagonista un giovane di nome Ellsberg. La prima si svolge durante un’azione di guerra in Vietnam e la seconda sull’aereo che lo riporta in patria. E’ il 1966: la escalation voluta da Johnson è in atto e le truppe di terra statunitensi stanno ormai combattendo da più di un anno. Di Ellsberg non viene detto nulla e a lui, lì, spetta soltanto il ruolo di testimoniare per lo spettatore che le “verità” ufficiali sulla situazione in Vietnam nascondono la realtà: gli Stati Uniti e i loro alleati sudvietnamiti sono impantanati in una guerra che non potranno vincere. Quando poi si avvia la narrazione si vedrà che Daniel Ellsberg - studioso di qualità e ora analista presso la Rand Corporation, che possiede i Documenti - porta fuori segretamente le carte dagli schedari in cui sono custodite e le fotocopia pezzo dopo pezzo, insieme all’amico Anthony Russo e alla di lui fidanzata. Sono i “Pentagon Papers”, fotocopiati di notte a partire dal 1° ottobre 1969. Nella realtà, Ellsberg cercherà poi di contattare personalità diverse (tra cui anche Henry Kissinger) per dare pubblicità ai documenti, senza successo fino a quando troverà ascolto presso Neil Sheehan.
Niente più salti temporali, ora. Siamo nel 1971, sono i giorni che precedono la pubblicazione dei Papers da parte del quotidiano newyorkese, quando nella redazione del Post si subodora che i rivali del Times stiano preparando uno scoop. Il direttore Ben Bradlee sarà colto di sorpresa, quando vedrà la prima pagina e le sei successive che il giornale rivale dedica alla pubblicazione di una prima parte dei documenti. Mentre parte l’affannosa ricerca di entrare in possesso degli stessi documenti, una piccola parte di essi verrà recapitata anonimamente al Post. Subito dopo, grazie all’iniziativa del suo giornalista Ben Bagdikian, sarà rintracciata la loro “fonte”, appunto Daniel Ellsberg (che dopo avere affidato a Bagdikian una copia delle Carte scomparirà dal film).
A quel punto si porrà il problema se pubblicarli oppure no, vista la pericolosa ostilità dell’amministrazione Nixon. La scelta è ovvia per il giornalista Bradlee; è invece angosciosa per Katharine Graham, circondata da consiglieri di amministrazione timorosi (anche perché il giornale sta cercando di raccogliere nuovi azionisti a Wall Street), condizionata dai propri rapporti con l’élite sociale e politica della capitale (incluso lo stesso ministro McNamara, amico di famiglia) e tuttavia sensibile sia alla logica giornalistico-concorrenziale del suo direttore, sia alle sollecitazioni della propria coscienza civile. La sua decisione finale sarà la pubblicazione, e quindi lo schieramento solidale con il New York Times e l’assunzione dei rischi della sfida al governo Nixon. I suoi patemi e le incertezze che precedono la messa in moto delle rotative - il “dado è tratto” cui è dedicato uno degli attimi epici del film - costituiscono la colonna vertebrale della vicenda. La sua conclusione sarà l’esito trionfale della causa giudiziaria “New York Times vs. United States”, in cui anche il Post e gli altri giornali che ne avevano seguito l’esempio pubblicando stralci dei documenti saranno coinvolti: il 30 giugno la Corte Suprema rovescerà, con una maggioranza di sei voti contro tre a favore dei giornali, l’ingiunzione al silenzio voluta da Nixon.
Così come l’autoritaria negazione della libertà di parola della stampa era stata un fatto senza precedenti, quella decisione della Corte Suprema avrà un valore storico. Le parole del giudice Hugo Black sono citate solo in parte nel film: “Con il Primo Emendamento i Padri fondatori diedero alla stampa libera la protezione che essa deve avere per svolgere il suo ruolo essenziale nella nostra democrazia. La stampa doveva servire i governati, non i governanti. Il potere del governo di censurare la stampa fu cancellato, in modo che la stampa rimanesse per sempre libera di censurare il governo. La stampa fu protetta in modo che potesse disvelare i segreti del governo e informare il popolo. [...] Nella mia opinione, lungi dal meritare una condanna per i loro giornalismo coraggioso, il New York Times, il Washington Post e altri giornali dovrebbero ricevere un encomio per avere assolto il compito indicato così chiaramente dai Padri fondatori. Rivelando l’operato del governo che ha condotto alla Guerra nel Vietnam, i giornali risposero nobilmente e in pieno alla fiducia e alle aspettative dei Padri fondatori nei loro confronti”.
Una delle ultime battute del film è quella di una stanca, ma anche orgogliosa, Katharine Graham che si dice contenta che quella prova sia stata superata, anche perché non sarebbe in grado di sopportarne un’altra simile. Subito dopo, la scena conclusiva: nell’oscurità della notte, una guardia che sta facendo il suo giro di controllo nel corridoio di un grande complesso edilizio si accorge che una delle porte è stata forzata e che nelle stanze del Comitato nazionale democratico c’è qualcuno. La ripresa stacca sull’esterno dell’edificio e si sente il contenuto della telefonata con cui la guardia avverte che un furto è in corso “nel Watergate”. La storia non è dunque finita, Graham, Bradlee e il loro giornale stanno per affrontare una prova ancora più difficile. Lo stesso sarà vero anche per Daniel Ellsberg, il quale, individuato dall’FBI, sarà denunciato come spia e traditore e sottoposto a un processo, da cui sarebbe però uscito assolto nel maggio 1973. E “lo spiacevole Nixon”, come lo ha definito lo storico Richard Hofstadter, sarà sconfitto di nuovo e costretto, lui, a dimettersi dalla presidenza.
Sembra improbabile che sia stata casuale la scelta di Spielberg di interrompere la lavorazione di un’altra pellicola per dedicarsi interamente a realizzare The Post tra il maggio e il novembre 2017: un film su un giornale che all’inizio di marzo dello stesso 2017 aveva posto sotto la propria testata il motto Democracy Dies in Darkness, “Nell’oscurità muore la democrazia”. Era passato poco più di un mese dall’entrata in carica dell’oscurantista Donald Trump, negatore accanito di ogni verità a lui sgradita e “nixonianamente” ostile verso i media che non siano suoi sostenitori dichiarati. Sia Spielberg, sia il Washington Post hanno negato che le loro scelte siano state motivate dall’esito delle elezioni presidenziali del 2016, ma è difficile credergli.
La guerra di Indipendenza che inventò gli americani
Storia. Solo l’esigenza di combattere un nemico comune fece mettere in secondo piano le enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie: questa la tesi di Alan Taylor in «Le rivoluzioni americane»
di Francesco Benigno (il manifesto, 04.02.2018)
La Guerra d’indipendenza americana, atto di nascita degli Stati Uniti d’America, è stata a lungo raccontata dalla storiografia, ma anche dalla letteratura e dal cinema, come la rivoluzione vittoriosa del popolo americano, unito e determinato, contro il tirannico dominio britannico. Ma, soprattutto, è stata tradizionalmente narrata in contrapposizione alla rivoluzione francese e, in controluce, a quella russa: se queste sono state segnate dalla tragicità della violenza e da una radicalità politica smisurata, capace di condurre a esiti inumani, la prima è stata per lo più presentata come una rivoluzione moderata, positiva, portatrice di valori universali, non guastati dall’assolutezza ideologica.
Più conflitti convergenti
Ora, il nuovo libro di Alan Taylor, Rivoluzioni americane Una storia continentale 1750-1804 (Einaudi, pp. XII-640, euro 35,00) smonta completamente, e con buoni argomenti, queste rassicuranti certezze. Taylor, autorevole storico dell’università della Virginia, già vincitore di due premi Pulitzer e di un National Book Award, ha scritto infatti un’opera programmaticamente revisionista, sin dal titolo: l‘uso del plurale rivoluzioni al posto del singolare vuole segnalare subito come l’evento di cui si parla non vada considerato come risultato di un conflitto a senso unico, quello di un popolo oppresso che si scrolla di dosso un ingombrante oppressore, bensì come una sorta di punto di convergenza di una serie di conflitti diversi e non omogenei fra loro; la cronologia qui utilizzata, poi, estesa agli anni 1750-1804, significativamente slargata rispetto agli anni veri e propri della guerra d’indipendenza, combattuta tra il 1775 e il 1783, va anch’essa controcorrente; l’aggettivo continentale, infine, segnala un significativo allargamento spaziale, abbracciando anche gli avvenimenti del Canada, della Louisiana e dei grandi spazi del West e le politiche degli imperi concorrenti: francese e spagnolo.
Il risultato di questo riposizionamento è felice. Decostruita la lettura nazionalistica, che vorrebbe la rivoluzione americana come prima manifestazione di un popolo americano già esistente - la sua epifania - Taylor porta a considerarla, viceversa, come l’essenziale processo di gestazione che ne forgia la fisionomia e ne determina la nascita. In verità, un parto doloroso: a scontrarsi non furono solo l’esercito americano e quello inglese ma anche sezioni contrapposte della società americana.
Da una parte i patrioti, una minoranza radicale e dall’altra i lealisti filo-britannici, un’altra minoranza ancor più esigua, con in mezzo la maggioranza di una popolazione a lungo indecisa. Sarà anzi proprio la lunga guerra, distruttiva e tragica - non limitata cioè ai combattimenti degli eserciti schierati, ma fatta di saccheggi, devastazioni e repressioni che colpivano la popolazione civile - a determinare l’orientamento maggioritario a favore del fronte patriota; e comunque, alla fine del conflitto, ben 60.000 lealisti fuggiranno dal paese come esuli.
La cosiddetta Guerra d’Indipendenza è stata in realtà, ci dice Taylor, come tutte le rivoluzioni, una guerra civile, e anzi la prima guerra civile americana. Quando, nel 1777, il Congresso adottò gli articoli di Confederazione e Unione, essi furono più una temporanea alleanza di stati che l’espressione di una nazione coesa. Solo l’esigenza di combattere insieme un nemico comune e soverchiante fece valere gli elementi condivisibili a scapito delle enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie.
Le conseguenze di questo orientamento sono importanti: non sono gli americani ad avere fatto la rivoluzione ma è la rivoluzione ad avere «inventato» gli americani. Una testimonianza di Benjamin Franklin del 1775 è rivelatrice: «non ho mai sentito in nessuna conversazione qualunque persona, ubriaca o sobria, manifestare la minima espressione di desiderio di secessione, o l’opinione che una tale manovra possa essere positiva per l’America».
All’epoca in cui questa frase fu pronunciata il conflitto armato si era già - in modo strisciante - avviato, ma si presentava come la somma di una serie di contrasti su questioni nodali agitate dai patrioti contro le pretese del parlamento britannico di intervenire negli affari americani, e non come la richiesta di una sovranità autonoma. In gioco c’era, certo, lo statuto costituzionale delle colonie e la contestazione americana di tasse imposte da organismi privi di propri rappresentanti (secondo lo slogan No taxation without representation) ma non solo.
Meno indagati dalla storiografia sulla guerra d’Indipendenza, ma non per questo meno importanti, almeno due altri temi scottanti erano sul tappeto. Il primo era relativo alle terre delle popolazioni indiane, l’immenso spazio libero al di là della catena dei monti Appalachi, il famoso West con la sua mitica frontiera mobile, in perenne avanzamento. Se la causa dei Sons of liberty ebbe successo fu anche grazie all’incerta gestione inglese delle terre d’occidente occupate dalle tribù dei «pellerossa»; una linea oscillante fra il precipitoso tentativo di frenare la spinta alla colonizzazione, le impopolari concessioni a franco-canadesi cattolici e le pratiche di appalto di intere zone a un ceto di accaparratori di terra corrotti e inaffidabili. Non per caso gli indiani dell’ovest combatterono largamente a fianco degli inglesi mentre i pionieri coloni si schierarono in maggioranza con i patrioti.
C’è poi la questione degli schiavi neri. La posizione dell’opinione pubblica inglese era avversa al regime di schiavitù, contrario alla tradizione liberale cui essa si ispirava. Fu famosa la causa vinta davanti a un tribunale inglese da uno schiavo di Boston portato in Inghilterra: questi aveva sostenuto che, una volta in Gran Bretragna, andava affrancato perché su quel suolo la schiavitù non è ammessa e gli schiavi che lo calcano divengono ipso facto uomini liberi.
Ancora una volta la posizione oscillante del governo britannico, incapace di promulgare un editto di affrancamento degli schiavi neri ma tendenzialmente favorevole ad ascoltare le ragioni della popolazione afroamericana in catene, e giunto perfino a minacciarne la liberazione, produsse un esito simile: mentre diverse migliaia di schiavi in fuga si arruolarono per combattere a fianco delle truppe di Sua Maestà, gran parte del ceto di proprietari di piantagioni del sud finì per sposare la causa patriota.
Principi e negati
La contrapposizione partitica successiva fra i federalisti alla Hamilton e i repubblicani alla Jefferson, trattata nell’ultima parte del volume, non è di conseguenza che l’esito e lo specchio di questo insieme di contraddizioni, che continueranno a segnare, almeno fino alla guerra civile - tra il 1861 e il 1865 - la vita politica statunitense. Tra esse ce n’è una trattata dal libro con garbo e ironia: vale a dire la distanza irrisolta tra gli enunciati che innervano l’autorappresentazione della libertà americana e la prassi politica concreta.
Mentre la proclamazione universale dei diritti faceva della rivoluzione americana il caposaldo di una nuova legittimità centrata sul potere popolare e sul diritto inalienabile di ciascuno alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, nella pratica questi principi erano negati agli indigeni americani, espropriati di tutto, e agli schiavi neri, mantenuti in catene.
Quando la Chiesa amava tutti gli uomini esclusi gli africani
Il libro di un prete nigeriano svela il ruolo dei papi nella pratica dello schiavismo fino al 1839
di Rita Monaldi Francesco Sorti (La Stampa, 12.11.17
I papi hanno abusato della Bibbia per lucrare sul traffico di schiavi». Queste parole non vengono da qualche autore di thriller trash a base di scandali vaticani, ma da uno storico serio che sul tema vanta una doppia legittimazione. È nigeriano (quindi partie en cause) e soprattutto è un prete cattolico. Si chiama Pius Adiele Onyemechi ed esercita da 20 anni il suo ministero in Germania, nella regione del Baden-Württemberg.
La sua innovativa indagine The Popes, the Catholic Church and the Transatlantic Enslavement of Black Africans 1418-1839 (pp. XVI/590., €98 Olms, 2017), che tra gli storici già suscita discussioni, capovolge il vecchio dogma secondo cui il Papato è stato sostanzialmente estraneo alla più grande strage di tutti i tempi: la tratta degli schiavi. Una tragedia secolare che - come ricorda il grande scrittore danese Thorkild Hansen nella sua classica trilogia sullo schiavismo - ha seminato oltre 80 milioni di morti.
Una sorpresa
Proprio in questi mesi la prestigiosa Accademia delle Scienze di Magonza ha concluso un colossale progetto di ricerca sulla storia della schiavitù durato ben 65 anni, con la collaborazione di studiosi di primo piano come il sociologo di Harvard Orlando Patterson (egli stesso discendente di schiavi) e lo storico dell’antichità Winfried Schmitz. Quasi a suggello è arrivato il libro di don Onyemechi: una radiografia minuziosa del ruolo dei papi nel commercio di schiavi in Africa dal XV al XIX secolo, l’epoca dorata del business schiavistico.
Per la prima volta a suon di date, fatti e nomi don Onyemechi punta il dito su responsabilità morali e materiali, avviando un regolamento di conti col passato proprio nel momento in cui la Chiesa di Roma, nella sua tradizione secolare di sostegno ai più deboli, chiama alla solidarietà verso i migranti. Come riassume l’autore, i risultati «fortemente sorprendenti» venuti alla luce «affondano un dito nelle ferite di questo capitolo oscuro della Storia, e nella vita della Chiesa cattolica».
«La Chiesa», spiega il religioso, «ha abusato del passo biblico contenuto nel capitolo 9 della Genesi», in cui si afferma che tutti i popoli della terra discendono dai figli di Noè: Sem, Cam e Iafet. Dopo il diluvio, Cam rivelò ai fratelli di aver visto il padre giacere ubriaco e nudo. Noè maledisse Cam insieme a tutti i suoi discendenti, condannandoli a diventare servi di Sem e Iafet. La Chiesa allora affermò che gli africani sarebbero i discendenti di Cam. Pio IX, ancora nel 1873, inviterà tutti i credenti a pregare affinché sia scongiurata la maledizione di Noè pendente sull’Africa.
Documenti scomparsi
Nel nostro romanzo Imprimatur abbiamo reso noto il caso di Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689), che possedeva schiavi, era in affari con mercanti negrieri e vessava i forzati in catene sulle galere pontificie. I documenti che lo provano, pubblicati nel 1887, sono poi misteriosamente scomparsi. Certo, nel Seicento i moderni diritti umani erano di là da venire, ma poi papa Odescalchi è stato beatificato nel 1956, e in predicato per la canonizzazione nel 2002.
Di simili contraddizioni don Onyemechi ne ha scovate a migliaia. Il commercio di schiavi in origine toccava Cina, Russia, Armenia e Persia; mercati internazionali si tenevano a Marsiglia, Pisa, Venezia, Genova, Verdun e Barcellona. Col tempo queste rotte sono tutte scomparse, tranne quelle africane. Come mai? Sarebbe stata la Chiesa a giocare il ruolo decisivo, raccomandando a sovrani e imperatori di «preferire» schiavi africani. Lo fecero vescovi e perfino Papi come Paolo V.
La giustificazione veniva non solo dalla Bibbia ma anche da Aristotele, per il quale alcuni popoli erano semplicemente «schiavi per natura». Una visione poi ripresa da San Tommaso e dall’influente facoltà teologica di Salamanca nel XV e XVI secolo. Padri della Chiesa come Basilio di Cesarea, Sant’Ambrogio, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e lo stesso Sant’Agostino invece giustificavano la schiavitù come frutto del peccato originale.
Il Portogallo
A metà del XV secolo il portoghese Niccolò V concesse al suo Paese di origine il diritto di evangelizzare, conquistare e deportare «in schiavitù perenne» gli africani, bollati come nemici della Cristianità insieme ai saraceni (che in verità erano ben più pericolosi e martoriavano, loro sì, i regni cristiani). I successori Callisto III, Sisto IV, Leone X e Alessandro VI non fecero altro che confermare e ampliare i diritti concessi al Portogallo. Altri Pontefici (Paolo III, Gregorio XIV, Urbano VIII, Benedetto XIV) nelle loro Bolle ufficiali si schierarono contro la schiavitù degli Indiani d’America, ma non contro quella degli africani.
Dallo schiavismo la Chiesa ha avuto un concreto ritorno economico. Attivissimi i missionari portoghesi e soprattutto i gesuiti, che compravano gli schiavi per impiegarli nelle loro piantagioni in Brasile e nel Maryland. Oppure li rivendevano con la loro nave negriera «privata», che trasportava la merce umana da Congo, Luanda e São Tomé verso il Brasile.
Don Onyemechi cita il contratto con cui nel 1838 il Provinciale dei Gesuiti del Maryland, Thomas Mulledy, vendette 272 schiavi africani. Prezzo: 115.000 dollari al «pezzo». L’evangelizzazione consisteva per lo più nel battezzare in fretta e furia gli schiavi prima di imbarcarli. Anzi, tutto il meccanismo faceva sì che essi venissero tenuti ben lontani dalla parola di Cristo. I profitti venivano reinvestiti in nuove campagne di aggressione e deportazione.
Riconoscimento tardivo
«Solo nel 1839 la Chiesa ha riconosciuto gli africani come esseri umani al pari di tutti gli altri», ricorda lo storico di origine nigeriana. Lo sancì una Bolla di Gregorio XVI, in verità piuttosto tardiva: i commerci di schiavi erano stati già aboliti da quasi tutti gli Stati tra 1807 e 1818 e gli Inglesi ne avevano preso le distanze sin dalla fine del Settecento. Don Onyemechi ha lavorato su fonti originali nell’Archivio Segreto Vaticano e negli archivi di Lisbona (per decifrare i manoscritti lusitani ha imparato da zero il portoghese) e ha dato un contributo duraturo (realizzato con routine teutonica ogni giorno dalle 3 alle 8 del mattino) alla ricerca della verità storica. A Roma non dovrebbe riuscire sgradito, vista l’attenzione di papa Francesco - anche lui gesuita - per i popoli d’Africa.
IL POPULISMO DELLA POST-VERITA’, EPIMENIDE, E LA LEZIONE ITALO-AMERICANA. In memoria di Italo Calvino***
Siamo nella post-verità da sempre, a quanto pare!
SIAMO PROPRIO CONCIATI MALE, MALISSIMO!
Dopo ventanni di berlusconismo stiamo ancora a commentare i giochini di mentitori istituzionalizzati. E a riflettere sulle “spine del C17 - spine nel fianco di un pingue potere” (https://www.alfabeta2.it/2017/01/21/c17-spine-nel-fianco-un-pingue-potere/).
DOPO IL 1917, E DOPO IL 1922, ANCORA NON SAPPIAMO NULLA DELLA “MORTE NERA” (cfr.: Massimo Palma,”Waler Benjamin, l’inquilino in nero; cfr.: https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/) E DELLA MISTICA FASCISTA (cfr.: mia nota a “Infanzia salentina”, pagine del lavoro di Nicola Fanizza, “Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini” - https://www.nazioneindiana.com/2017/01/21/infanzia-salentina/).
Tanto tempo, in un’isola del Mediterraneo, un tale chiamato EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, gridò infuriato: “Tutti i cretesi mentono”! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome “Forza Creta”, e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE LEGALMENTE, IL SUO GRIDO AI CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA “BATTUTA” FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: “GUAI AI VINTI”!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO TUTTI E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... “TUTTI I CRETESI MENTONO” ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
Federico La Sala
Il discorso di addio di Barack Obama
Che cosa ha detto stanotte il presidente uscente degli Stati Uniti, nel suo ultimo commosso discorso da tale
di Francesco Costa*
A quasi dieci anni dal freddissimo 10 febbraio del 2007 in cui annunciò per la prima volta la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama martedì 10 gennaio - in Italia era la notte tra martedì 10 e mercoledì 11 - ha pronunciato il suo discorso di saluto da presidente degli Stati Uniti; il 20 gennaio, infatti, si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca il suo successore, Donald J. Trump, che ha vinto le elezioni dello scorso 8 novembre. Barack Obama ha parlato da Chicago, la sua città di origine, a pochi chilometri dal parco in cui festeggiò la sua vittoria dopo le elezioni del 2008.
Nel suo discorso, interrotto più volte dagli applausi e durante il quale si è commosso, Obama ha parlato dei risultati ottenuti nel corso dei suoi due mandati ma si è dedicato soprattutto a un tema, lo stato della democrazia americana, parlando del perché va preservata ed elencando quattro cose che la minacciano. Ha parlato circa un’ora dopo la diffusione del nuovo dossier su Trump e la Russia, ma non ha fatto riferimenti a questa storia nel suo discorso. Obama ha usato alcune frasi che aveva pronunciato altre volte in altri importanti discorsi della sua carriera; davanti a sé aveva, oltre alla sua famiglia e a quella del vicepresidente Joe Biden, tantissime persone che avevano lavorato alle sue due campagne elettorali e poi nella sua amministrazione alla Casa Bianca. Il discorso di Obama in tre minuti:
Queste sono le cose più significative che Obama ha detto nel corso del suo discorso.
L’inizio
Sia «life, liberty and the pursuit of happiness» che «a more perfect union» sono formule utilizzate nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. I Padri Fondatori sono i firmatari della Dichiarazione e le persone che scrissero la Costituzione americana.
***
Se otto anni fa vi avessi detto
La frase sull’asticella in inglese era: «you might have said our sights were set a little too high». È una citazione del discorso che Obama fece nel 2008 dopo aver vinto le prime primarie della campagna elettorale, in Iowa.
***
Non è ancora abbastanza
***
Una forza potente e spesso divisiva
Lo spirito di questo passaggio del discorso di Obama è quello che descrisse in un altro famoso discorso della sua campagna elettorale del 2008, quello cosiddetto “sulla razza”, nel quale parlò della complessità di sentimenti di molti benintenzionati bianchi e neri d’America raccontando del pastore della sua chiesa, un afroamericano molto arrabbiato con i bianchi, e di sua nonna, una donna bianca che aveva paura quando la sera per strada passava accanto a un gruppo di afroamericani. Anche quel discorso, peraltro, era costruito a partire dai vari passaggi della Costituzione americana.
***
Una base comune di fatti
***
Tutto questo dipende dalla nostra partecipazione
***
I ringraziamenti finali
Il rapporto tra Obama e Biden è considerato tra i più stretti e personali che si siano mai visti tra un presidente e un vicepresidente nella storia americana. Questo è il discorso che Obama pronunciò al funerale del figlio di Biden, Beau Biden, morto nel 2015 a 46 anni per un tumore al cervello: è quello in cui Obama dice di considerarsi ormai un Biden.
***
La conclusione
“Si può fare” è naturalmente la traduzione di “Yes we can”, forse lo slogan più famoso tra quelli usati da Obama nel corso della sua carriera politica. Lo slogan fu usato per la prima volta dopo le primarie che nel 2008 Obama perse in New Hampshire contro Hillary Clinton.
Obama lascia la Casa Bianca a 55 anni, uno dei più giovani ex presidenti di sempre. Il suo tasso di popolarità e approvazione è molto alto. Per il momento resterà con la sua famiglia a Washington, per dare modo alla figlia minore Sasha di concludere gli studi al liceo. Poi dovrebbe tornare a Chicago, dove ha ancora casa e dove sarà inaugurata tra qualche anno la sua biblioteca presidenziale.
* IL POST, 11.01.2017 (ripresa parziale, senza immagini).
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
Domani il discorso di addio del presidente uscente in vista dell’insediamento del presidente eletto
L’addio di Obama
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 09 gennaio 2017)
I riti in democrazia sono importanti e hanno la capacità di cementare una comunità. Al di là dei conflitti che la lacerano, testimoniano la continuità nella diversità delle scelte politiche, certificano la saldezza delle istituzioni sulla volatilità dei comportamenti e degli umori popolari.
Se ne erano accorti anche i padri fondatori della nuova repubblica americana quando, all’interno di una lotta politica che vedeva all’opera tutta la gamma possibile della retorica populista, ritenevano il passaggio di potere da un presidente all’altro come il momento della sospensione del conflitto e della ricerca dell’unità del paese.
Certo alla fine del Settecento anche nei primi decenni dell’Ottocento, tutto era relativamente più semplice: in fondo i candidati appartenevano alla stessa élite economico-sociale, condividevano la stessa cultura politica di fondo pur facendo riferimento a un elettorato già composito dal punto di vista economico, religioso ed etnico. Non a caso, il primo vero e proprio terremoto politico si ebbe con l’elezione dell’«uomo del popolo», piuttosto rozzo e volgare (o quantomeno così dipinto all’epoca), per quanto eroe di guerra, Andrew Jackson, il quale aprì la Casa Bianca al popolino che si gettò sulle bevande e sul cibo, travolgendo tutto sotto lo sguardo attonito dei rappresentanti delle élite che osservavano la nuova calata dei barbari.
Gli ultimi atti della presidenza di Barack Obama per certi versi sembrano voler segnare la distanza siderale fra la sua amministrazione e i nuovi barbari che si apprestano a entrare alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo. D’altronde, è una presidenza, quella Obama, che si conclude senza che siano emersi scandali o casi controversi che abbiano messo in discussione la caratura morale del presidente. La classe non è acqua, sembrano voler dire gli Obama a un popolo americano che ha eletto Trump a novembre, ma che allo stesso tempo continua a dare un giudizio estremamente positivo del presidente uscente e della sua first lady. Lo ha espresso Michelle Obama nel suo ultimo discorso, ribadendo che la forza dell’America, nonostante la rabbia di chi ancora non si rassegna all’evidenza, è la sua diversità di religioni, colori e valori. Una riaffermazione di tipo patriottico rivolta soprattutto a quei giovani che pure avevano tradito gli Obama e il partito democratico l’8 novembre, spronandoli a prendere in mano il loro destino, ma anche ad assumersi la responsabilità delle loro scelte e delle loro convinzioni.
Lo farà Barack Obama domani, 10 gennaio, nel suo ultimo discorso che, non casualmente, si terrà laddove tutto era cominciato, a Chicago. Sul sito della Casa Bianca, è pubblicata una foto, che ritrae la coppia, elegantemente vestita che guarda al di là del lago lo skyline della Windy City (come è definita Chicago). Un’immagine estremamente glamour che irriterà ancora di più quell’elettorato bianco infastidito da tutto ciò che è associato alle élite culturali più che a quelle economiche, come l’elezione di Trump ha ampiamente dimostrato.
Il Farewell Address è una tradizione, avviata con il famoso discorso di George Washington che invitava gli Stati Uniti a non lasciarsi coinvolgere negli affari europei, anche se non sempre è stata rispettata.
Obama ha scelto di seguire una tradizione che vede nel discorso d’addio un modo per il presidente uscente di riaffermare la propria eredità politica e invitare il successore a tener conto che non può fare tabula rasa del recente passato. Lo stile, ovviamente, diverge a seconda dei contesti e dei presidenti. Clinton celebrò i successi economici dei suoi due mandati, i 22 milioni di nuovi posti di lavoro, il tasso di disoccupazione più basso degli ultimi 30 anni, la diminuzione dei reati. Bush Jr., invece, non poteva che concentrare il suo discorso sull’impatto dell’11 settembre e sulle minacce di attacchi terroristici che rimanevano incombenti (ribadendo così la correttezza delle sue scelte), invitando l’America a rispondere alla sfida con «moral clarity».
Obama utilizzerà quest’ultimo spazio per ribadire i successi della sua amministrazione dal punto di vista politico interno e internazionale, rispondendo a coloro che hanno giudicato fallimentare la sua politica, difendendo a spada tratta la riforma sanitaria e invitando a tenere fede ai valori americani di rispetto delle differenze e del dialogo fra le tante Americhe che compongono il mosaico sociale e politico. E, tuttavia, il discorso di Obama è atteso per quello che può far intravedere rispetto alle strategie future del presidente uscente.
Di fronte a un Congresso pronto a smantellare programmi che neppure Reagan aveva mai messo in discussione come il Medicare, tanto che, come ha osservato Immanuel Wallerstein, persino Trump è preoccupato da un radicalismo che rischia di provocare una rivolta sociale, Obama è costretto a difendere la sua eredità politica. Se nella conferenza stampa di fine anno, aveva dichiarato di vedere il suo ruolo come quello di «counsel and advice» per il partito democratico, adesso il suo impegno è estremamente più ambizioso.
Di fronte a un’elezione che ha azzerato il partito democratico, il compito primo è quello di ricostruire la leadership del partito. Per fare questo però Obama si pone un obiettivo che, in realtà, dovrebbe essere caro a leader che ambiscono ad avere una visione politica che duri più di uno spazio di tweet e che siano meno affascinati dalle sirene della post-verità (qualunque cosa essa significhi): quello della costruzione e formazione di una classe politica, di una classe dirigente. Un investimento di lungo periodo che deve accompagnarsi a un lavoro politico sul territorio che porterà Obama a visitare proprio quelle contee che Hillary Clinton aveva trascurato, pagandone amaramente il prezzo.
Proprio l’individuazione di una nuova generazione di politici democratici sembra il compito principale della Fondazione Obama che ha sede a Chicago e che vorrà, quindi, essere qualcosa di più che non la sede della presidential library. Non a caso, a capo della fondazione è stato chiamato uno stretto collaboratore di Obama, fin dalla campagna elettorale del 2008, David Simas, che in precedenza aveva lavorato per l’ex governatore democratico del Massachusetts, uno di quegli Stati che, per alcuni, devono costituire la rampa di lancio per la controffensiva del Partito democratico dal punto di vista sia delle scelte politiche sia della costruzione del consenso. Nel consiglio di amministrazione della fondazione, poi, fa parte lo stratega elettorale del 2008, David Plouffe, oltre ad altri esponenti di primo piano del partito.
Obama, quindi, ricomincia da tre, per riprendere il titolo del film del mai troppo compianto Massimo Troisi: dalle vittorie nelle primarie nel 2008, nelle presidenziali del 2008 e del 2012. Non si accontenterà, sembra, di fare il citizen-diplomat onorario come Carter, ma vorrà essere un citizen-activist. Di certo il lavoro non gli mancherà.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’INTERVISTA. I timori dello scrittore di fronte all’avanzata del tycoon: “Incita alla violenza come faceva Hitler”
IL PUNTO DEBOLE Agli occhi di molti è più una Clinton che una donna: come se non fosse arrivata da sola. Ma oggi siamo pronti per una presidente
Franzen: “Io sto con Hillary ma ci sarà una guerra civile”
di Wieland Freund (la Repubblica, 05.11.2016)
L’otto novembre si vota. Abbiamo alle spalle un anno di campagna con protagonista Trump. Come è stato per Lei?
«La campagna mi ha disgustato. Mi sono autoinflitto la tortura di seguire il secondo dibattito presidenziale e dopo avevo la sensazione che mi avessero puntato contro un idrante spruzzandomi addosso acqua di fogna per un’ora e mezza. Sono nauseato dalla quantità delle infami menzogne di Trump. E ora, dopo il disgustoso comportamento del direttore dell’FBI sono terrorizzato e nauseato al pensiero che Trump trovi il modo di vincere».
Trump ha attirato tutta l’attenzione. Sorprende che invece si parli pochissimo del fatto che, stando ai sondaggi, l’America sarà governata da una donna. Come mai?
«Non sappiamo cosa succederà, ma io penso che sia arrivato il momento di un presidente donna, come era arrivato il momento di un presidente afroamericano. Molte delle mie amiche più anziane sono entusiaste di Hillary perché è donna. Se Hillary non riscuote un favore più universale è perché non rappresenta solo un genere - rappresenta i Clinton, e agli occhi di molti americani è più una Clinton che una donna. Si ha la sensazione che non sia arrivata in alto con le sue sole forze e per questo le femministe fanno fatica a tifare per lei».
Quando Hillary Clinton si è sentita male non ho potuto fare a meno di ricordare una frase che ha detto 8 anni fa, durante le primarie: “Nessuno dice che Obama non è adatto al ruolo perché è nero, ma si sente ancora dire che una donna alla presidenza non è una buona idea”. E’ così ancora oggi?
«Sono solo i sostenitori di Trump a dirlo. Il nucleo del suo elettorato è rappresentato da uomini bianchi non laureati, ossia proprio la fascia demografica che nutre una visione più tradizionale dei ruoli di genere. Se il tuo posto di lavoro è a rischio, il tuo reddito in calo, se ti senti sempre più una minoranza in un Paese un tempo bianco, tendi a compensare facendo uno sfoggio esagerato di virilità. Per questo tipo di americano la misoginia di Trump, i suoi abusi sulle donne non sono colpe. Sono virtù positive».
All’epoca ha vinto Obama. Gli ha fatto leggere in anteprima il suo romanzo “Libertà” e lui l’ha invitata alla Casa Bianca. Che ricordo avrà di lui?
«Non dimenticherò mai la facilità di dialogo. Avevamo a disposizione solo venti minuti ma dopo avrei voluto che il colloquio fosse durato cinque ore. Non approvo tutto quello che ha fatto, ma sono certo che nella mia vita non avrò più occasione di vedere un altro presidente così compatibile con me sotto il profilo sia culturale che intellettuale ».
Obama è stato presidente in un periodo difficile. Ha agito bene? Nonostante i raid dei droni? Nonostante la Siria?
«Obama è stato il primo presidente - ma, temo, non sarà l’ultimo - a dover governare il Paese in società con un partito che rifiuta sempre più il concetto stesso di governo. Tutto considerato penso che abbia fatto staordinariamente bene. E’ vero, la Siria è un disastro e la guerra dei droni è disgustosa ma non credo a nessuno che dica di avere in tasca una soluzione chiara».
Il fenomeno Trump sarebbe stato immaginabile senza Obama?
«Il fenomeno Trump è inimmaginabile senza Internet e i social media. Internet ha creato un mondo in cui si può vivere immersi nella la propria realtà virtuale senza doversi mai confrontare con la realtà nel vecchio senso del termine. E Twitter non fa che peggiorare le cose, perché non consente sfumature né complessità. Verrebbe da pensare che postare dei tweet detestabili su una ex Miss Universo alle tre di notte squalifichi un candidato alla presidenza, ma nel mondo di Twitter non esiste distinzione tra pubblico e privato. Se si vive in quel mondo il tweet di Trump, carico d’odio nel cuore della notte, sembra perfettamente normale. Si apprezza Trump perché è “vero”».
In che cosa consiste il fenomeno Trump?
«Consiste in parte nel rimpiazzare i valori politici con quelli dell’intrattenimento, in parte nell’eliminare la distinzione tra pubblico e privato, e in parte nel disprezzo crescente per i fondamentali processi di governo. Sono convintissimo che il motivo per cui questo fenomeno si manifesta proprio ora, nel 2016, ha carattere tecnologico; senza Twitter non ci sarebbe Trump. Ma va anche notato che questo tipo di populismo rispecchia una reale e giustificata frustrazione nei confronti delle élite di ogni genere. A disgustarmi non sono i frustrati dei ceti popolari, bensì il mezzo che hanno scelto per esprimere la loro frustrazione: un sociopatico narcisista, rampollo di una ricca famiglia di costruttori».
Lei conosce bene la Germania: vede paralleli fra Trump e l’estrema destra dell’AfD?
«Non so se sia utile paragonare Trump a Frauke Petry (leader dell’AfD ndr.). Sono seriamente convinto che il paragone più valido sia con Hitler. Trump incita alla violenza, è esplicito nel suo disprezzo per il sistema elettorale e si è scelto il motto “Io solo posso salvare l’America”. E’ molto lontano da Petry che, con tutte le sue pecche, non ha un atteggiamento messianico».
In “Forte movimento“, il suo secondo romanzo, descrive il clima che portò alla nascita del Tea Party. In ”Libertà“, 20 anni dopo, racconta di una famiglia che oggi senza dubbio voterebbe Trump. Che cosa è successo al partito repubblicano?
«Ormai è il partito di Lincoln solo di nome. Una casualità storica. I repubblicani sono diventati il partito della Confederazione americana a cui Lincoln dichiarò guerra. Oggi assistiamo alla recrudescenza del grave conflitto in seno alla società americana che diede origine alla Guerra Civile. In ultima analisi riguardava la schiavitù, ma non va dimenticato che prima della guerra i sudisti formulavano la loro difesa della schiavitù rivendicando i “diritti degli Stati”. A centocinquant’anni di distanza una consistente minoranza di americani, degli Stati che vanno dalla Georgia all’Idaho, non ha mai accettato l’idea di un governo federale. Per evitare l’oblio elettorale il partito repubblicano prese ad allinearsi con questi americani ai tempi della candidatura di Richard Nixon. La conclusione logica di questo allineamento è l’ostinazione del partito a definire ipso facto illegittima la presidenza di Obama. Ora temo che la candidatura di Trump abbia danneggiato in maniera così grave il tessuto della nostra nazione che Hillary, se verrà eletta, probabilmente dovrà passare il primo anno del suo mandato a sedare ribellioni armate da parte di gruppi che negano la legittimità della sua elezione. Credo che il problema potrebbe porsi a livello grave soprattutto negli Stati rurali occidentali. Anche se non si arriverà alla ribellione armata, prevedo che Hillary combatterà una sorta di infinita guerra civile a difesa del nostro sistema di governo».
( © Die Welt / Lena, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Emilia Benghi)
Il film sulla rivolta degli schiavi che fa discutere l’America
di F. C. (La Stampa, 16.10.2016)
La storia vera dello schiavo che, nell’estate del 1831, guidò, nella Contea di Southampton in Virginia, la ribellione contro le violenze dei padroni bianchi, rivive con tutta la sua drammatica crudezza, nel film di Nate Parker The Birth of a Nation, proiettato ieri alla Festa del cinema. L’episodio, finito in un mare di sangue, con l’uccisione di 55 bianchi cui seguì la reazione efferata dei signori della Contea, ha, oltre al valore storico, un profondo significato simbolico. Guidati dal loro leader carismatico, bambino autodidatta, poi divenuto Predicatore grazie alla profonda conoscenza della Bibbia, le vittime di orrori quotidiani, che comprendevano ogni tipo di umiliazione, trovarono la forza di alzare la testa, impugnare le armi, vendicarsi. «Mi sono chiesto - dichiara Parker - in quale modo avrei potuto essere più incisivo come regista nel sostenere la causa del mio popolo. Potevo andare avanti leggendo sceneggiature in cui la gente di colore viene rappresentata in base ai soliti stereotipi, oppure potevo scegliere di lanciarmi in un progetto che avesse la forza di cambiare il tono del dibattito, creando opportunità per lasciare un segno sulla realtà».
Il film, di cui Parker è interprete oltre che regista, ha vinto il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival, in settembre, a Toronto, è stato accolto con standing ovation e la Fox Searchlight ha acquistato la pellicola per una cifra che supera i 17 milioni di dollari. Una marcia trionfale, già orientata verso i prossimi Oscar, interrotta da una vecchia, brutta vicenda, risalente a 15 anni fa. Accusato di stupro, nel periodo in cui era studente universitario, Parker è poi stato scagionato e giudicato innocente, ma questo non ha impedito l’esclusione dal Festival di Los Angeles dove era stato invitato.
Nel ripetere la sua estraneità alla questione, Parker ha più volte sottolineato l’importanza politica di The Birth of a Nation: « Se dovessi tornare indietro e rifare il film, lo girerei esattamente nello stesso modo...Credo riesca a lasciare in chi lo vede quello che io speravo. e cioè la consapevolezza che, dovunque ci sia ingiustizia nel mondo, il nostro dovere è contrastarla»
SPETTACOLO
Steven Spielberg premiato da Barack Obama con la Medaglia per la Libertà
Il presidente Barack Obama ha consegnato ieri al regista cinematografico Steven Spielberg, alla cantante cubano-statunitense Gloria Estefan e al produttore musicale Emilio Estefan, fra gli altri, la Medaglia Presidenziale della Libertà, considerato il massimo riconoscimento civile negli Stati Uniti. "Oggi rendiamo omaggio a delle persone straordinarie, innovatori, artisti e leader che hanno contribuito alla grandezza degli Stati Uniti", ha dichiarato Obama nel corso della cerimonia di consegna dei premi alla Casa Bianca. Obama ha consegnato la Medaglia Presidenziale della Libertà a personalità del mondo della scienza, delle arti, della politica e la lotta per i diritti umani negli Stati Uniti.
Di Spielberg, Obama ha messo in risalto non solo l’aspetto di regista cinematografico ma anche la creazione della Fondazione Shoah, che "ha dato voce ai sopravvissuti del genocidio in tutto il mondo". "Steven ci ha presentato extraterrestri, archeologi cialtroni, squali assassini. Ci ha portato all’Isola che Non C’è, al Jurassic Park, ma anche nelle spiagge della Normandia e nei campi di concentramento nazisti", ha detto Obama riassumendo le principali pellicole di Spielberg, considerato uno dei più grandi registi del globo.
Tra i premiati anche Gloria ed Emilio Estefan. "Molti pensavano che fossero ’troppo latini per gli statunitensi e troppo statunitensi per i latini’. Poi però è risultato che tutto il mondo ama ballare e fare la conga. E insieme, la fusione dei loro suoni ha venduto più di 100 milioni di dischi. E da orgogliosi cubano-statunitensi promuovono la loro eredità culturale e ispirano i loro fan in tutto il mondo", ha detto Obama. Tra gli altri personaggi famosi che hanno ricevuto la Medaglia Presidenziale anche la cantante ed attrice Barbra Streisand, "la cui voce qualcuno ha ben descritto come ’diamanti liquidi’’", ha ricordato il presidente. Ancora, hanno ricevuto il riconoscimento l’ingegnere spaziale Katherine Johnson, l’ex congressista Lee Hamilton, il giocatore di basebal Willie Mays, la senatrice Barbara Mikulski, il violinista Itzhak Perlman, il compositore Stephen Sondheim, il cantautore e chitarrista James Taylor e i funzionari pubblici Bonnie Carroll e William Ruckshaus.
Obama ha cosegnato anche alcuni riconoscimenti ’postumi’, come quello al giocatore di baseball Yogi Berra, la prima congressista afroamericana Shirley Chisholm, il leader nativo americano Billy Frank e il difensore dei diritti umani Minoru Yasui. La Medaglia Presidenziale della Libertà è la massima decorazione al merito civile che il presidente degli Stati Uniti concede a coloro che hanno dato "un contributo significativo alla sicurezza o agli interessi nazionali degli Stati Uniti, alla pace mondiale, alla cultura o con altri meriti privati o pubblici significativi".
Il premio è stato creato dal presidente Harry Truman nel 1945 come riconoscimento per gli atti compiuti durante la Seconda Guerra Mondiale. Il presidente John F. Kennedy istituì poi nuovamente la Medaglia della Libertà nel 1963. Fra coloro che hanno ricevuto in passato la Medaglia si distinguono Marlene Dietrich, Walt Disney, Madre Teresa di Calcutta, Frank Sinatra, Dick Cheney, Margaret Thatcher, Audrey Hepburn, Bill Cosby, Ted Kennedy, Muhammad Ali, Tony Blair, Álvaro Uribe, George H. W. Bush (padre), Nelson Mandela, Donald Rumsfeld, Henry Kissinger, Pau Casals, Plácido Domingo e Angela Merkel, fra gli altri. Postumo, lo hanno ricevuto John Wayne, il presidente Lyndon B. Johnson, Papa Giovanni Paolo XXIII, John F. Kennedy, Katharine Graham (editrice del "The Washington Post") e Martin Luther King, fra gli altri.
Addio James Hood, primo studente nero all’Università dell’Alabama
Insieme a una compagna sfidò il governatore. Grazie a Kennedy potè frequentare le lezioni
James Hood, che mezzo secolo fa ha contribuito a cambiare la storia degli Stati Uniti riuscendo ad essere ammesso come primo studente afroamericano all’ Università dell’Alabama, è morto ieri nella sua casa di Gadsden. Aveva 70 anni.
L’episodio che lo rese famoso risale all’11 giugno 1963. Quel giorno, determinato ad infrangere la barriera razziale nel suo stato, James Hood si presentò davanti all’ateneo a Tuscaloosa per iscriversi ai corsi, assieme ad una sua compagna, Vivian Malone, anche lei di colore.
A dispetto dell’ordine delle autorità federali di ammettere gli studenti neri, il governatore dell’Alabama, George Wallace (democratico e bianco) si oppose fisicamente all’ingresso dei due ragazzi nell’università dell’Alabama. Su ordine del presidente Kennedy, dovette intervenire la guardia federale per consentire infine ai due ragazzi di entrare e iniziare a frequentare i corsi insieme agli studenti bianchi.
Hood lasciò l’Università dell’Alabama dopo pochi mesi. Si trasferì in Michigan dove continuò i suoi studi, ma tornò a Tuscaloosa nel 1999 per conseguire il suo dottorato di ricerca.
Vivian Malone Jones, che quattro anni dopo divenne la prima laureata nera dell’Università, è morta nel 2005 a 63 anni.
* La Stampa, 18/01/2013
Calamandrei, educazione italiana
di Silvia Truzzi (il Fatto, 5.11.2011)
A chi si domanda perché riprendere in mano gli scritti dei vecchi, dei morti - invece che tenerli come santini in improbabili pantheon - sarà utile dare più di un’occhiata a “Lo Stato siamo noi” (Chiarelletere; 7 euro, 136 pagine) raccolta di scritti e discorsi di Piero Calamandrei. Giurista, azionista, padre costituente: perché Calamandrei oggi lo spiega Giovanni De Luna nella sua introduzione al volumetto, a proposito della fascistizzazione degli italiani. “Si era trattato, diceva Calamandrei, di un arido ventennio di diseducazione, passato sulle menti come una carestia morale’. Bisognava impedire che gli elementi essenziali di questa carestia transitassero intatti nella nuova Italia repubblicana”. Dice qualcosa? “Le macerie lasciate dal fascismo sono state quelle che ci hanno obbligato a riedeficare lo spazio pubblico con una religione civile”, spiega ancora De Luna. E tutti i comandamenti sono nella Costituzione. “La Carta è una cosa bellissima, però vive nella mente e nel cuore delle persone. Si deve incarnare nella concretezza di movimenti collettivi. Non è una conquista data una volta per tutte: va rinnovata in continuazione, attraverso la partecipazione politica”. Ma per sentirsi partecipi dello spazio pubblico della cittadinanza c’è bisogno di valori. Ci si domanda se alla bufera delle cricche, del potere e dell’individualismo, qualche forma di etica sia sopravvissuta. “Quello che è accaduto con la Seconda Repubblica”, conclude De Luna, “è stata una desertificazione dello spazio pubblico. Gli unici elementi di continuità sono stati gli interessi. Come se quella italiana fosse una sorta di cittadinanza bancomat. Una carta per accedere a beni, ricchezze, consumi, merci”. Bisogna ripartire. E bisogna ripartire da un’idea di democrazia che non è se non è inclusiva.
NEL LIBRO C’È un celebre discorso fatto da Calamandrei ai giovani. Parte dall’articolo 34 e dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nel-l’art. primo - «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» - corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale”.
Il testo è del 1955 eppure sembra scritto per i ragazzi della generazione mille euro che chiedono il diritto di essere, pienamente e non precariamente, persone. L’istruzione, il lavoro, l’uguaglianza sostanziale: ecco come avrete un’esistenza degna. Tutti: Calamandrei non dimentica mai gli ultimi. Come nel discorso in difesa - è proprio il testo di un’arringa difensiva pronunciata davanti al Tribunale di Palermo nel ’56 - di Danilo Dolci, accusato di manifestazione sediziosa e turbamento dell’ordine pubblico. Dolci aveva (addirittura) incitato al digiuno una comunità di pescatori, rimasti senza pesci nelle reti a causa del contrabbando. Digiunare vuol dire disturbare l’ordine pubblico. Ma l’ordine pubblico di chi? chiede Calamandrei ai giudici. E risponde: “L’ordine pubblico di chi ha da mangiare. Non bisogna disturbare con spettacoli di miseria e di fame la mensa imbandita di chi mangia bene”. Chissà che avrebbe detto dei “respingimenti”. Naturalmente nelle parole di questo libro ci sono anche il regime e la guerra civile. Quella frase diventata così famosa - “ora e sempre Resistenza” - è l’ultimo verso di un’epigrafe datata 4 dicembre 1952, scritta da Calamandrei per una lapide collocata nell’atrio del palazzo comunale di Cuneo, in protesta per la liberazione di Albert Kesselring, comandante delle forze di occupazione tedesche in Italia, condannato all’ergastolo nel 1947 ma liberato nel 1952 per “gravi” condizioni di salute. E ci sono anche i morti.
IN UN DISCORSO all’Assemblea Costituente, l’avvocato che elogiava i magistrati fa una domanda sui cittadini di domani: “Mi chiedo come i nostri posteri giudicheranno questa nostra Assemblea costituente. Se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi (...) che in questa nostra Assemblea, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Non dobbiamo tradirli”. Siamo in tempo?