L’intervento di Luciano Canfora oggi a Oxford testimonia il continuo interesse della comunità scientifica internazionale
Artemidoro, il falso nascosto nel proemio
L’introduzione, la nozione di «Lusitania», i brani di Marciano: le tracce di un testo «moderno»
Il testo pubblicato qui di seguito è una sintesi della relazione preparata dal professor Luciano Canfora per un convegno sulla vicenda del papiro di Artemidoro che si tiene oggi in Inghilterra. L’incontro, in programma presso il Saint John’s College dell’Università di Oxford, è un’ulteriore dimostrazione dell’interesse che la polemica ha suscitato nella comunità internazionale degli studiosi di antichità classiche.
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 13.06.08)
Colui che creò l’«Artemidoro» intendeva palesemente e, oserei dire, quasi legittimamente incominciare con un proemio. E anche sulla scorta dell’«ipotesto» - cioè dell’Einleitung di Carl Ritter, come ha dimostrato Maurizio Calvesi - scelse le parole ovvie, quelle indicanti appunto l’atto e il fatto dell’incominciare: «Colui che si accinge ad un’opera geografica », ton epiballòmenon geographia («Dans l’introduction à un ouvrage etc.» scriveva Ritter). E perciò nel 2006 gli editori del catalogo memorabile, Le tre vite del Papiro di Artemidoro (Mondadori Electa), non poterono che tradurre «chi intende dedicarsi alla geografia » (p. 157).
Non prevedevano in quale ginepraio si fossero cacciati con tale davvero onesta traduzione. Essa confermava quello che risulta chiaro dall’intero proemio: che cioè si tratta per l’appunto di un proemio generale, di una apertura dell’intera opera, di un testo che cerca, a modo suo, di spiegare che cos’è la geografia, dunque di un testo che non può immaginarsi collocato - come accade nel famigerato papiro - al principio del secondo libro (la Spagna). No, è un testo di apertura, e perciò la parola esordiale, «colui che si accinge », intendeva essere per l’appunto un termine denotante l’inizio.
Ma così cadeva in pezzi tutta la ricostruzione: che rotolo era mai questo, nel quale - a tacer d’altro (disegni para- michelangioleschi e bestiari e zodiaci, paesaggi e vignette) - il proemio generale si trova accanto alle prime righe del libro II? La ragionevolezza spinse Bärbel Kramer a proporre una via d’uscita: «Il rotolo contiene estratti!». Così essa scrisse nel suo saggio del 2006, di cui oggi l’edizione Led di Artemidoro suggerisce di non tener conto.
Ma la teoria «estratti» era catastrofica: oltre tutto come si sarebbe potuto dimostrare che erano estratti presi tutti dal medesimo autore? Insomma, veniva meno ogni ragione per rifilare all’innocente Artemidoro quel proemio bizantino-ottocentesco. E il grande reperto di «estese porzioni della Geografia di Artemidoro» svaniva nel nulla (a tacere, ripetiamo, delle innumerevoli ragioni che escludono si possa rifilare al vero Artemidoro le colonne IV e V: su ciò cfr. Il papiro di Artemidoro, Laterza). Ecco allora la trovata disinvolta: cambiamo la traduzione! E così oggi nell’edizione Led (p. 196) «chi intende dedicarsi» è diventato «colui che si dedica»: simpatico sforzo volto a far scomparire l’esplicita nozione di inizio, di cominciamento. Come dire: si fa quel che si può.
Per circa dieci anni - dal lontano 1998 - gli editori hanno assunto come cardine e architrave della loro avventura artemidorea che la colonna IV (righi 1-14) del papiro corrisponde al fr. 21 Stiehle. Sul modo in cui quel frammento è tramandato avevano le idee a dir poco confuse, per non dire aberranti. Quello che doveva restare fuori discussione era che fr. 21 essendo Artemidoro, anche col. IV (e dunque tutto il papiro) è Artemidoro. (Ovviamente il ripiegamento Kramer verso l’ipotesi «estratti» faceva traballare la deduzione estesa all’intero papiro). Per circa due anni abbiamo documentato con dovizia di prove che fr. 21 è Marciano (un brano tratto dalla Epitome artemidorea, edita da Marciano sotto il nome di Artemidoro). Tale constatazione, che si accorda perfettamente con le analisi svolte da Margarethe Billerbeck sul testo di Stefano di Bisanzio, comportava che, se colonna IV, 1-14 = fr. 21 (i.e. Marciano), anche colonna IV, 1-14 è Marciano. Dunque, addio Artemidoro (e addio papiro dell’età di «Cleopatràs lussuriosa»). La risposta a questa palmare verità fu, per lungo tempo, la sordità totale.
Avevamo anche con insistenza mostrato che col. IV, 1-14 presenta ritocchi (peggiorativi) ed errori di fatto rispetto a fr. 21. Non ripeteremo qui la dimostrazione. Il lettore può trovarla riassunta in Quaderni di storia 67, pp. 287-294. Questo genere di ritocchi peggiorativi ed errori porta recta via all’attribuzione di col. IV, 1-14 (e quindi del contesto) ad un falsario moderno. Oltre all’inclusione, in quei 14 sventurati righi, di due errate congetture moderne e di un vero e proprio errore di stampa, si trattava anche di un marchiano errore storico: l’inclusione nella Hispania Ulterior dell’«intera Lusitania».
Via via che il tempo scorreva ci rendemmo conto che l’escamotage disperato avrebbe potuto essere un repentino «contrordine», e cioè: fr. 21 è Marciano ( Deo gratias!) ma colonna IV, 1-14 è Artemidoro proprio perché qua e là diverso...
Prevedendo tale gesto disperato fornimmo, al principio di gennaio 2008, il quadro chiaro delle conseguenze paradossali di un tale improvviso revirement (Quaderni di storia 67). Tra l’altro si perveniva all’assurdo di far dire ad Artemidoro quella sciocchezza sulla Hispania Ulterior e di far dire invece l’esatto contrario al suo epitomatore (fr. 21).
L’edizione Led (p. 213) ha compiuto il miracolo. Ciò che avevamo previsto si attua: fr. 21 diventa Marciano, con una levitas e naturalezza degna del manniano cavalier Cipolla, mentre colonna IV, 1-14 è Artemidoro proprio per quelle diversità che invano avevamo segnalato per due anni. Ma ovviamente il cavalier Cipolla non si perde d’animo: ciò che gli scomoda non esiste, e dunque Quaderni di storia 67 non appare mai nella pur straripante bibliografia del mastodonte Led, né si tiene alcun conto di quegli adynata che l’adozione dell’ipotesi disperata inevitabilmente comportava. E poiché la questione Lusitania è troppo ingombrante, due parole andavano dette: la soluzione adottata, alquanto surreale, è stata che con «Lusitania tutta» l’autore intende far riferimento alla nozione geografica, non politica, di Lusitania! Non si rendono evidentemente conto del fatto che la «nozione geografica» di Lusitania è di gran lunga più vasta del territorio incluso, da Augusto in avanti, nella ormai provincia di Lusitania: il che renderebbe l’affermazione di col. IV, 13-14 (la Ulterior comprende «la Lusitania tutta») ancora più inverosimile.
E questo basterebbe. Diceva il grande Paul Maas che un solo argomento davvero probante basta, cento deboli non servono.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Artemidoro
IL DIBATTITO. Spataro e Canfora replicano
L’accusa: il papiro è una patacca
di RQuotidiano (Il Fatto, 21.12.2018)
Nel 2004, la Compagnia di San Paolo acquista per 2,7 milioni il Papiro di Artemidoro datato Primo secolo dopo Cristo. Il professor Salvatore Settis lo considera autentico e ne consiglia l’acquisto. Ma nel 2013, lo storico Luciano Canfora presenta un esposto alla Procura di Torino sostenendo che è un falso. Si occupa dell’inchiesta per truffa direttamente il procuratore Armando Spataro. Pochi giorni prima di andare in pensione, Spataro chiede l’archiviazione: i possibili reati sono ormai prescritti ma, scrive Spataro, è accertato che il papiro è falso. Risponde sul Fatto Salvatore Settis e osserva che la valutazione di Spataro si basa solo sulla denuncia di Canfora senza perizie di esperti terzi e che molti esperti internazionali hanno riconosciuto l’autenticità del papiro del Primo secolo. Settis non è stato ascoltato nell’inchiesta.
Spataro e Canfora replicano qui sotto.
Caro Direttore,
ho letto il lungo articolo del prof. Salvatore Settis che, giovandosi di ampio spazio, si è diffuso in “quasi offese” nei confronti di chi scrive, di cui, evidentemente, non conosce il metodo di lavoro. Anzi, mostra di non conoscere neppure come la giustizia procede nell’accertamento dei fatti. Soprattutto, non elenca o non approfondisce, gli elementi posti a base del giudizio di falsità del Papiro Artemidoro.
Il magistrato - è vero - non può sostituirsi allo studioso o allo storico, non avendone capacità e cultura. Ma deve obbligatoriamente, in caso di notizia di reato, approfondire - come è stato fatto nel caso in questione - le conclusioni cui sono pervenuti tutti gli esperti, pur se di diverse opinioni. E deve anche arricchire il quadro delle notizie da valutare, come è stato possibile nella inchiesta torinese, con altri accertamenti e dichiarazioni fuori dalla portata degli studiosi, i quali, insomma, non bastano e non hanno l’ultima parola. Anche loro, infatti, possono essere truffati, ma spesso non se ne accorgono o non lo ammettono se legati a doppio filo alle proprie incrollabili convinzioni. Queste, però, possono fare la fine del ponte Morandi di Genova, se lo studioso dimostra disinteresse per l’iter di accertamento dei fatti: in questi casi, anzi, incorre inevitabilmente in una possibile colposa presunzione.
Non intendo ribattere alle “quasi offese” del Settis, che alla fine mi interessano poco (ne ho ricevute di peggiori in oltre 40 anni di lavoro), né riprodurre la storia delle indagini e l’iter argomentativo del mio Ufficio (cioè di tre pubblici ministeri), peraltro condiviso da un giudice. Voglio invece manifestare la mia sorpresa per come il professore non prenda in considerazione molti argomenti sottoposti al vaglio del giudice: dalla inesistenza di qualsiasi documentazione attestante la provenienza del reperto (il che depone per la sua falsità) agli ammonimenti di competenti Autorità Egiziane che hanno fatto rilevare l’impossibilità di esportare legalmente dall’Egitto, nell’anno dichiarato, un bene autentico di valore culturale (il che avrebbe violato la Convenzione Unesco del 1970 e basterebbe di per sé a configurare la truffa); dalla accertata falsità del fotomontaggio del cosiddetto Konvolut “contenitore” da cui il papiro proverrebbe (affermazione avente il fine di documentare l’origine dell’“Artemidoro” e di sostenerne l’autenticità) al fatto che il reperto è stato tenuto a lungo “in cantina” (sei anni nel Deposito di Venaria Reale), circostanza anomala per un reperto di così alto valore e non altrimenti spiegabile se non con le forti riserve sulla sua autenticità; dalla circostanza che il Museo di Antichità Torinese di via XX Settembre, che dopo averlo “preso in carico” nel 2012 a seguito del rifiuto del Museo Egizio, lo espone con l’avviso che potrebbe trattarsi di un falso, fino all’esito dei primi accertamenti disposti dal Mibact sulla composizione degli inchiostri usati per il papiro Artemidoro risultata decisamente diversa da quella degli inchiostri usati nei papiri egiziani che coprono il periodo dal I al VI secolo.
Il Settis, inoltre, cita l’esito neutro delle indagini dei carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale di Roma, tacendo del tutto su quelle condotte da altro presidio dei carabinieri di Torino.
Potrei dire molto altro, ma mi limito a un commento sull’irridente chiusura del prof. Settis, il quale dice: “Se il il dr. Spataro, con la sua dissertazione, aspira a una laurea in papirologia, la sentenza è questa: bocciato”. Vero, finirebbe certamente così. Ma io non ho mai pensato a quella laurea, anche perché, talvolta, competenze e conseguenze che ne derivano e che si vedono in giro non mi paiono esaltanti.
Armando Spataro
L’inconsistenza dell’intervento apologetico del professor Settis pubblicato su questo quotidiano traspare già da alcune cifre. Evoca 200 studiosi sostenitori (a suo dire) dell’autenticità dello pseudo-Artemidoro. Ma questo stuolo rassomiglia alla fantomatica armata di 30.000 combattenti pronti a tutto che Alessandro Pavolini garantiva al Duce in fuga essere pronti alla lotta in Valtellina. Basta scorrere le pagine dell’Année Philologique per smentirlo.
Resta comunque in piedi la domanda: da quando in qua i problemi scientifici si risolvono a maggioranza?
L’argomento - se così può definirsi - che scorre monotono da un capo all’altro dell’intervento apologetico è la “chiamata di correo” della cosiddetta “comunità scientifica”: va da sé dislocata tutta “a nord di Chiasso”. Vengono però chiamati per nome soltanto due colleghi purtroppo defunti, i quali - a onor del vero - erano intervenuti prima che la gran parte delle argomentazioni demolitrici dello pseudo-Artemidoro venissero pubblicate.
A ogni modo prendiamo atto che, evidentemente, studiosi quali Richard Janko, Germaine Aujac, Peter van Minnen, Herwig Maehler, Daniel Delattre, ecc. - che dallo pseudo-Artemidoro non furono abbagliati - non fanno parte della comunità scientifica (o forse sono nati a sud di Chiasso).
La fabbricazione di un fotomontaggio - il comicissimo Konvolut, che avrebbe dovuto raffigurare lo pseudo-Artemidoro in statu nascenti anzi nella vita prenatale ed è però effigiato su carta fotografica prodotta anni dopo lo smontaggio - resta uno dei punti più alti nella lunghissima storia dei falsi. Fare un falso per salvarne un altro. Un flop, autentico.
Non credo che valga la pena sprecare ancora tempo su di un testo (la colonna 1 dello pseudo-Artemidoro) che comincia con parole che si ritrovano in opere moderne: dalla ottocentesca Geografia di Carl Ritter al manuale settecentesco di pittura sacra di Dionigi di Furnà. Libro prediletto da Costantino Simonidis autore dello pseudo-Artemidoro. Il burlone volle poi anche disseminare qua e là nello pseudo-Artemidoro frasi tratte da suoi scritti.
Insomma, suggerirei al loquace difensore di seguire il consiglio cristianissimo del suo pseudo-Artemidoro: “Soppesare l’anima prima di accingersi alla geografia”, “tenendo ben strette intorno a tutto il corpo tali e tante armi mescolate”. Che mattacchione quello pseudo-Artemidoro, o, come mi scrisse un dotto collega, “un perfetto cretino”.
Luciano Canfora
Il vero papiro e i falsi esperti
di Salvatore Settis *
E poi dicono che la magistratura ha poco ascolto in Italia. È bastato che il procuratore Spataro diramasse alle agenzie una fatwa sul Papiro di Artemidoro perché i giornali italiani, senza eccezioni, celebrassero la chiusura del caso, la verità che trionfa, il crimine sgominato. Nemmeno uno si è chiesto se un magistrato abbia in proprio la competenza per pronunciarsi sull’autenticità di un reperto archeologico, ignorando la comunità scientifica di riferimento e dichiarando “inutile disporre una consulenza”.
Da Chiasso in su, tira un’ altra aria: quando Luciano Canfora, apostolo della falsità del papiro, ha postato su papylist, la mailing list per i papirologi di tutto il mondo, un comunicato sulla “definitiva chiusura del caso” nelle stanze della Procura torinese, Andrea Jördens, presidente dell’ Associazione internazionale papirologi, gli ha chiesto: “Ma che c’ entra questo con la scienza?”.Vediamo gli antefatti. Il Papiro di Artemidoro è un rotolo papiraceo emerso nel 1971 in mano al dott. Simonian (che ha venduto molti papiri alle università di Treviri, Heidelberg, e a Milano il famoso Posidippo).
Come spesso accade ai papiri, il luogo di rinvenimento non è noto: in Germania arrivò entro un ammasso di cartapesta. È un papiro singolare, per le dimensioni (è lungo due metri e mezzo), ma soprattutto perché oltre a cinque colonne di testo greco contiene una carta geografica e due serie di disegni, di animali e di figura umana. Seppi che era sul mercato verso il 1997, dopo i necessari accertamenti sull’ autenticità e la liceità della vendita provai ad acquistarlo per il Getty Research Institute (Los Angeles), di cui ero allora direttore.
Ma il prezzo richiesto era più alto di quanto disponevo in bilancio. Il grande paleografo Guglielmo Cavallo, a conoscenza del Papiro, mi mise in contatto con Claudio Gallazzi, papirologo dell’ Università di Milano, e questi con Bärbel Kramer, papirologa a Heidelberg.
Anni dopo, convinto come ero e sono che un documento di tale importanza debba essere in una collezione pubblica, ne parlai con Giuliano Urbani, allora ministro dei Beni culturali, che ne suggerì l’ acquisto alla Compagnia di San Paolo, perfezionato nel 2004. Prima dell’ edizione critica (2008), il Papiro fu presentato in tre mostre, a Torino e poi ai Musei Egizi di Berlino e di Monaco. Un articolo di Canfora sul Corriere della Sera (15 settembre 2006) ne sostenne la falsità, e io gli risposi su Repubblica.
Da allora parte una controversia: da un lato gli studi scientifici, centinaia in tutto il mondo, dall’ altro la campagna mediatica (quasi soltanto italiana). Canfora interviene sul tema con un’ intensità (qualcosa come 10 libri, 6 fascicoli di una sua rivista e 40 articoli di giornale) con cui non saprei mai scendere in gara.
Questa campagna, fortunata nei media nostrani, non ha avuto successo nella letteratura scientifica: dei circa 200 studiosi che se ne sono occupati, se si escludono da un lato Canfora e il suo gruppo di lavoro, dall’ altro gli editori del Papiro (me compreso) e collaboratori, la stragrande maggioranza si è espressa in favore dell’ autenticità.
Per citare solo due grandissimi grecisti, Martin West ha definito “disingenuous” (in mala fede) l’ argomentare di Canfora, e Wofgang Luppe ha scritto sull’ autorevole rivista Gnomon che la genuinità del Papiro è fuori discussione. Molti aspetti del Papiro sono oggetto di dibattito scientifico: Giambattista D’ Alessio ha dimostrato che i segmenti del rotolo vanno rimontati in un ordine diverso da quello del restauro eseguito a Milano; alcuni studiosi attribuiscono tutto il testo del Papiro ad Artemidoro di Efeso, altri ritengono che sia sua solo una parte. Temi specialistici, che non mettono in dubbio l’ autenticità del Papiro e la sua datazione al I secolo d.C., confermata da analisi paleografiche, fisiche e chimiche.
Ma che cosa ha da dire il procuratore Spataro? Il suo documento, che accusa di truffa Simonian fondandosi su un esposto di Canfora (2013), non è una “sentenza”, come qualche giornale ha scritto, ma una richiesta di archiviazione (accolta dal Gip): invitiamo a leggerlo online sul fattoquotidiano.it. La struttura argomentativa è tutto un ragionare sulle colpe dell’ accusato, per poi dire all’ ultima pagina che il reato (se c’ era) è caduto in prescrizione. Su 34 pagine, metà sono dedicate a divagazioni o a testimonianze su fatti che nulla hanno a che vedere con l’ autenticità del Papiro.
Fra i testimoni ascoltati, l’ unico papirologo è Gallazzi, che ne riafferma l’ autenticità. Ma in sede di conclusioni si assumono come inoppugnabili le asserzioni di Canfora (l’ unico di cui si citino le opere), in quanto “sostiene motivatamente” la falsità. Spataro confessa di non aver esaminato le 700 pagine dell’ edizione critica, bastandogli “alcune pagine, reperibili sul web, acquisite agli atti del procedimento”; né ha cognizione dell’ abbondante bibliografia e degli argomenti degli studiosi che si sono pronunciati a favore dell’ autenticità. Ricorda che i carabinieri del Nucleo Tutela del patrimonio culturale di Roma raccomandarono di “nominare un consulente scientifico ‘terzo’”, ma ci rivela che lo ritenne inutile.
Spataro proclama che la foto dell’ ammasso papiraceo “è risultata un clamoroso falso”, e che “tale conclusione non è più contestata”, ma cita solo l’ esperto di Canfora (il vicequestore Silio Bozzi) e ignora le confutazioni del grande filologo Jürgen Hammerstaedt e degli esperti di fotografia Paolo Morello e Hans Baumann. Sposa la tesi canforiana che il Papiro sarebbe l’ opera di un falsario del sec. XIX , tal Simonidis, quando poi lo svedese Tommy Wasserman, che ha studiato i papiri notoriamente falsificati dal Simonidis, lo esclude espressamente.
Valorizza la testimonianza di Eleni Vassilika, già direttrice del Pelizaeus-Museum di Hildesheim, perché “fece emergere dei dubbi sull’ autenticità di vari reperti lì allocati, che erano stati acquistati dal Simonian”, ma tace che il tribunale tedesco si pronunciò a favore di Simonian, e la Vassilika fu allontanata dalla direzione del museo (Die Welt, 25 marzo 2004).
Spataro eredita poi da Canfora un approccio schizofrenico: sostiene che il Papiro è un falso, ma anche che l’ Egitto dovrebbe rivendicarlo come autentico. Immagina che le illazioni di Canfora sugli inchiostri usati nel papiro siano confermate da “accertamenti tecnici recentemente disposti dal MiBAC”, per poi riconoscere una pagina dopo che “tali analisi sono ancora in corso”. E ignora i risultati delle analisi pubblicate da Pier Andrea Mandò e altri su riviste scientifiche internazionali, che vanno in direzione opposta a quanto asserito da Canfora.
È sulla base di questo zoppicante argomentare che Spataro si è convinto che ogni perizia è inutile, poiché “la certezza del fatto è abbondantemente provata, quanto meno sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti”. Ma tali indizi erano davvero abbastanza per non consultare esperti, per ignorare la letteratura scientifica, per non ascoltare nemmeno Simonian, accusato di truffa? Ed era proprio inevitabile far scattare i termini della prescrizione, impedendo così al Simonian di poter chiedere una perizia di parte? Emettendo di fatto, al riparo della prescrizione, un giudizio di colpevolezza senza ascoltare pareri terzi?
Insomma, il documento Spataro non aggiunge nulla a quel che si sapeva sul Papiro, e adotta l’ opinione di un solo studioso ignorando quasi tutta la bibliografia scientifica. Eppure è su questa base che molti hanno scritto sui giornali con vari gradi di stoltezza, fingendo di scambiare un pronunciamento di tal fatta per un meditato giudizio scientifico. Quanto al dottor Spataro, se con la sua dissertazione aspira a una laurea in papirologia, la sentenza è questa: bocciato.
Luciano Canfora "Io, Artemidoro e la mia guerra ai falsari geniali"
Dopo la sentenza della Procura di Torino, parla lo studioso che aveva considerato il Papiro sin dall’inizio una truffa. "Chi ha studiato con me è stato vittima di pressioni e minacce. Salvatore Settis? Lo considero ancora un amico"
Intervista di Dario Olivero (la Repubblica, 12.12.2018)
Questa storia si può raccontare, come tutte le storie, in molti modi. Uno è quello della procura di Torino: il Papiro di Artemidoro è un falso, non si procede per truffa solo perché il reato è caduto in prescrizione. Un altro è quasi conradiano: il Papiro di Artemidoro è il campo di battaglia di due duellanti, Salvatore Settis che ne ha perorato l’acquisto e difeso l’autenticità fino all’ultimo sangue e Luciano Canfora che fin dall’inizio l’ha messa in dubbio. Un terzo è la detective story con tutti gli ingredienti del noir: un falsario geniale, un venditore oscuro, un acquisto affrettato, svariate autopsie filologiche e scientifiche, misteri, depistaggi, esperti entrati e usciti di scena, molti soldi. E, naturalmente, un investigatore ossessionato dalla verità.
Professor Canfora, perché ha dedicato tredici anni della sua vita a dimostrare che il Papiro di Artemidoro è falso? È ossessionato?
«Per nulla», risponde al telefono da Bari il giorno dopo la notizia arrivata dalla procura di Torino che gli dà ragione. «Semmai sono uno curioso che desidera sempre andare a fondo. Mi sono occupato e mi occupo di tante cose con la stessa curiosità e, visto che non esistono ossessioni multiple, il Papiro non è la mia ossessione.
Nessuno lascia a metà una ricerca o un problema, bisogna lavorare con disciplina rispettando lo stile che richiede una materia come la filologia».
Ma perché proprio il Papiro?
«Mi imbattei nel Papiro mentre lavoravo su tutt’altro. La mia ricerca mi portò a studiare i modi di ritrovamento e acquisto dei materiali papiracei negli anni Venti e Trenta, un periodo di grande fioritura. Un fondo si trovava a Milano al centro Achille Vogliano. Lì vidi dei lucidi che raffiguravano il cosiddetto Papiro di Artemidoro. Era il 2006, mi chiesero di esprimermi e scrissi un articolo in cui esortavo alla cautela sulla sua autenticità».
E come mai la storia non finì lì?
«L’Enciclopedia italiana, di cui faceva parte anche Settis, mi chiese di scrivere la voce "Papiro" con la precisa richiesta di dare molto spazio a questa novità appena esposta a palazzo Bricherasio. Allora approfondii lo studio e pubblicai sui Quaderni di storia i miei rilievi e li mandai a Settis che mi disse che anche lui all’inizio aveva avuto dei dubbi. Dopo alcune settimane, lo dissi anche in un’intervista. Due giorni dopo su Repubblica apparve un pezzo molto polemico del mio amico che mi chiamava in causa. A quel punto ritenni fosse mio dovere proseguire le indagini».
Lo chiama amico, lo siete ancora?
«Sì, lo siamo tuttora. I rapporti personali non possono essere intaccati da una disputa accademica».
C’è chi insinua che la sua battaglia fosse motivata dal risentimento per non essere stato chiamato alla Normale di Pisa.
«Ma certo che no. Quell’anno nessuno venne chiamato. Inoltre credo sinceramente che Settis mi fosse favorevole».
È vero che avete condiviso una stanza quando eravate studenti?
«Da studenti abbiamo dormito nella stessa stanza di un pessimo albergo di Taranto, ci stavamo laureando e avevamo ricevuto una colossale borsa di studio da 25mila lire per seguire un convegno. Mi ricordo che Settis chiese una birra ma non avevano neanche quella. Stiamo parlando del ’63: c’era ancora Togliatti».
Ma dai tempi di Togliatti quante volte vi siete sentiti negli ultimi tredici anni?
«Le ripeto, ci siamo visti spesso, per esempio nel consiglio scientifico della Treccani».
Mi aiuti a ricostruire la storia. Partiamo dal gallerista armeno, Serop Simonian, che vendette il Papiro all’allora Compagnia di San Paolo nel 2004 per 2 milioni e 750 mila euro. Lo ha mai incontrato?
«No, mai. Ha una galleria d’arte ad Amburgo, ma il personaggio è sospetto. Pensi che quando Eleni Vassilika, che poi avrebbe rifiutato il Papiro in comodato d’uso all’Egizio di Torino, era direttrice a Hildesheim aveva già avuto a che fare con lui ed ebbe molti problemi sull’autenticità e provenienza delle opere che trattava. Avemmo con lui due contatti: il primo fu quando Silio Bozzi, un dirigente della polizia scientifica, gli chiese il negativo di una foto scattata al Konvolut, cioè l’involucro da dove sosteneva provenisse il Papiro, e lui disse di no. La seconda per un invito a un convegno sul Papiro. Non venne».
Veniamo al secondo personaggio: il falsario. Si chiamava Simonidis, non le sarà sfuggita l’assonanza dei nomi dei due protagonisti.
«In effetti deve essere la provvidenza che si è divertita a mettere insieme un greco e un armeno di due secoli diversi nella stessa storia. Simonidis è un personaggio colossale. Non conosciamo né l’anno di nascita né quello di morte. Anzi, diffuse la notizia di essere morto ma in realtà si era ritirato in Egitto, secondo il Times (che non ne era del tutto certo) pare che sia morto in Albania nel 1890».
Falsificò la sua morte?
«Era un genio. Studiò sul Monte Athos dallo zio che era igumeno di uno dei monasteri. Imparò a disegnare teste, profili, imparò la composizione degli inchiostri antichi. Poi andò ad Atene dove pubblicò opere di argomento geografico con uno stile che imita quello bizantino. Studiò teologia a Istanbul, poi finì in Russia e cercò di smerciare una lista di testi greci che sosteneva aver portato dall’Athos ma l’Accademia di Pietroburgo li respinse. Erano tutti testi geografici come il Papiro».
Professore, se non sapessi che stiamo parlando del Papiro di Artemidoro, direi che lei stima questo falsario come certi detective ammirano i delitti di quelli a cui danno la caccia.
«Non mi sono invaghito, però in effetti so benissimo che la frequentazione assidua porta all’immedesimazione, Plutarco docet. Simonidis riuscì quasi a beffare l’Accademia delle scienze di Berlino. Ma, come diceva il grande filologo tedesco Wilamovitz: "Un falsario moderno per quanto bravo tradisce sempre la sua modernità"».
E torniamo al Papiro. E alla vittima. Perché la Compagnia di San Paolo lo acquistò? Non c’erano segnali che potesse trattarsi di una imprudenza?
«Nel 2004 nessuno aveva sospetti. C’era uno studio parziale tedesco del ’98. Certo, si tentò di venderlo anche in Spagna ma la Fondación Pastor sconsigliò, così come il Getty. Ma allora non era ancora scoppiato il caso. L’acquirente non aveva voci critiche che lo potessero allarmare».
Ma anzi, aveva il parere favorevole di Settis. Cosicché decise di esporlo in mostra.
«Esatto. Con tanto di sontuoso catalogo dal titolo Le tre vite del Papiro, oggi quasi introvabile».
Immagino non per lei.
«Io ne ho due o tre copie».
Comunque incominciò la sfida che è durata fino a oggi.
«Ma se io non fossi stato sollecitato ad occuparmene non lo avrei mai fatto. Uno deve disciplinare le energie».
L’archiviazione della procura di Torino sembra chiudere la storia. Eppure, come in un thriller, c’è un’autopsia ancora in corso. In questo momento il Papiro è a Roma all’Istituto centrale per il restauro. I proprietari, che hanno deciso di non intraprendere nessuna iniziativa legale, vogliono continuare a studiarlo. Ci aspettano nuovi colpi di scena?
«L’Istituto è un’eccellenza italiana, è giusto che procedano alle analisi, che sono soprattutto sugli inchiostri; ma ha già fornito indicazioni che vanno verso l’accertata modernità del papiro. Essendo scienziati procederanno con dei raffronti su pezzi di scavo per completare il referto».
Ma è giusto studiare un falso?
«Ma il Papiro è un eccellente prodotto moderno come altri prodotti del Simonidis ».
Quanti caduti ha lasciato sul campo la guerra del Papiro di Artemidoro?
«Mi ha colpito che studiosi di grande qualità in ognuno dei rispettivi ambiti siano stati bersaglio di attacchi e ostilità. Oltre alla ex direttrice dell’Egizio e Bozzi ci sono stati altri casi, restauratori, esperti, studiosi. Sono state fatte pressioni su di loro, alcuni costretti a lasciare il lavoro, altri trasferiti».
Pressioni da parte di chi?
«Posso citare Di Maio che oggi va tanto di moda?».
Se crede.
«Una manina misteriosa non so di chi».
E dal mondo accademico ha avuto più solidarietà, ostilità o indifferenza?
«Quando Mussolini fu arrestato il 25 luglio del ’43 un vicino di casa abbraccia un noto antifascista del suo stesso palazzo e gli dice commosso: finalmente. E il vicino gli risponde: me lo dovevi dire prima».
Artemidoro ultimo atto, il papiro è un falso
di Maurizio Assalto (La Stampa, 11.12.2018)
Artemidoro, chi si risente. Il giallo sul celebre papiro attributo al geografo greco fiorito nel 104 a.C., sulla cui autenticità era divampata a partire dal 2006 una battaglia storico-filologica mai vista e ampiamente seguita dai media, d’improvviso torna alla ribalta. Ma questa volta non si parla più di «affaire Artemidoro»: adesso si parla apertamente di «truffa», e il giallo ha un colpevole (il commerciante amburghese - di origine armeno-egiziana - Serop Simonian, oggi 76enne) e una parte lesa (la Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo, che nel 2004 acquistò il documento per la cifra record di 2,75 milioni).
A mettere la parola fine alla vicenda è il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, dopo che nei giorni scorsi il presidente della sezione gip del Tribunale di Torino, accogliendo la sua richiesta, aveva disposto l’archiviazione per intervenuta prescrizione del procedimento per truffa aggravata a carico di Simonian ( aperto nel 2013 dall’allora procuratore capo Gian Carlo Caselli). «La certezza del falso è abbondantemente provata, quanto meno sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti», ha scritto Spataro, che fa riferimento alla «evidenze preliminari» risultanti dalla documentazione fornita dalla «Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura» (nuova denominazione della Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo), in particolare «agli accertamenti svolti sulla composizione degli inchiostri usati per il papiro di Artemidoro, che appare decisamente diversa da quella degli inchiostri usati nei papiri egiziani» dell’epoca.
Tra gli indizi acquisiti nel corso dell’indagine c’è anche una lettera del 2 marzo 2004 con cui dalla Germania si confermava che non era necessaria l’autorizzazione a esportare il documento, in quanto «non appartiene ai beni artistici di valore per la storia tedesca». Come mai gli acquirenti italiani non si erano insospettiti? In ogni caso, spiega Spataro, «è stato ritenuto inutile disporre una consulenza tecnica, tanto più che i costi di questa non potrebbero essere giustificati», considerando che il fatto è ormai caduto in prescrizione.
Dunque il reato è riconosciuto, anche se non è più perseguibile. Alla medesima conclusione si era già arresa la Compagnia di San Paolo che, dopo avere in un primo tempo strenuamente difeso il suo acquisto, se ne era poi disimpegnata. E ieri, in una nota, ha preso atto delle dichiarazioni di Spataro, sottolineando che «la Fondazione ha intrapreso un percorso parallelo per valutare il reperto: dal mese di ottobre 2018 il papiro è stato trasferito presso l’Istituto di Patologia del Libro di Roma dove si stanno eseguendo indagini scientifiche da parte dei laboratori di tecnologia, chimica e biologia». Aggiungendo che «i risultati raggiunti fino ad ora dimostrano che si tratta comunque di un reperto dall’innegabile valore storico-artistico che potrebbe essere oggetto di studio per la comunità scientifica attenta a questi temi». Pertanto, chiarisce, la Compagnia «non intende intraprendere azioni legali a sua tutela». Vicenda chiusa, almeno dal punto di vista processuale.
«Viva la filologia!», esulta Luciano Canfora, il grecista che per primo, fin dall’inizio, aveva diffidato. Le cose erano andate così: dopo che la Compagnia di San Paolo, nell’ottobre del 2004, aveva annunciato l’acquisto del papiro per darlo in comodato gratuito alla neonata Fondazione del Museo Egizio, nel febbraio del 2006, in coincidenza con le Olimpiadi invernali, il reperto era stato esposto in pompa magna a Torino in una mostra a Palazzo Bricherasio, visitata anche dal Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi (che negli anni 40 si era laureato a Pisa in letteratura greca). «Sfortunatamente» tra i visitatori ci fu anche Canfora, che già soltanto esaminando il papiro nella teca si era accorto che qualcosa non quadrava.
Il documento era stato presentato come recuperato da una maschera funeraria tardo-tolemaica di papier-maché (un impasto di papiri di scarto, colla e gesso) acquistata da un collezionista tedesco che poi, incuriosito da alcuni dettagli, l’aveva fatta disfare scoprendovi diversi testi antichi. Quello più rilevante, che sarebbe stato composto in una bottega di scribi all’inizio del I secolo dell’era volgare, riportava uno dei pochi passi superstiti del trattato Tà gheographoúmena di Artemidoro di Efeso, relativo alla Penisola iberica, oltre a un preambolo «filosofico» fino a quel momento sconosciuto. Ma soprattutto era accompagnato da una serie di disegni, tra i quali spiccava quella che sarebbe stata la più antica carta geografica pervenuta fino a noi. Tale da giustificare il prezzo pagato dalla Compagnia, quando alla fine del secolo scorso il papiro era tornato sul mercato.
Tanto più che se ne faceva garante un’autorità mondiale nel campo dell’archeologia classica come Salvatore Settis, che già l’avrebbe voluto acquistare quando dirigeva il Getty Institute di Malibu, dovendovi rinunciare per insufficienza di budget. Su sollecitazione dell’allora ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani, e sulla scorta di una perizia affidata al papirologo milanese Claudio Gallazzi e alla tedesca Bärbel Kramer, la Fondazione torinese riuscì a farlo suo.
Ma Canfora sospettò subito l’inganno: svarioni storici e geografici - «impensabili per un autore al cui confronto Strabone era un puro compilatore» -, disegni che ricordavano troppo immagini di epoca più tarda, espressioni greche improbabili, altre prese paro paro da autori del IV secolo e successivi. «La filologia è un’arma efficace, anche se spesso poco considerata», commenta adesso lo studioso, «ma questa volta celebra il suo trionfo, grazie a un’analisi linguistica, sintattica e contenutistica». Alla fine Canfora era riuscito anche a ipotizzare il nome del falsario, tale Constandinos Simonidis, un geniale greco vissuto nell’800, dottore in teologia e filosofia, pittore e paleografo. Ed era risalito fino all’ultimo anello della catena, il commerciante Serop Simonian, già implicato in oscuri traffici di antichità con tanto di un fratello morto ammazzato negli Stati Uniti.
Risultato: l’allora direttrice dell’Egizio, Eleni Vassilika, già scottata dall’antiquario tedesco quando curava il «Roemer und Pelizaeus Museum» di Hildesheim, non volle saperne di accoglierlo nel museo torinese, e così il papiro finì malinconicamente nel Centro di Restauro della Venaria. Ma soprattutto, dal 2006 in poi, Canfora ha avviato sul caso Artemidoro un fitto fuoco di fila, con decine di pubblicazioni in diverse lingue, conferenze in tutto il mondo e perfino un tour di interventi nei licei, a metà tra il missionario e l’agit-prop della sua causa filologica. Dall’altra parte si è risposto con altri studi, oltre 200, e con l’edizione critica del papiro, presentata con grandi squilli di tromba nel marzo del 2008 all’Ägyptisches Museum di Berlino: un maxi cofanetto di 20 chili e 480 euro di prezzo.
E la battaglia è proseguita - producendo, va detto, una mole di contributi la cui rilevanza scientifica va anche al di là del caso in questione. Adesso siamo davvero alla svolta conclusiva? Sentiamo l’altro duellante, Salvatore Settis «Non sempre la verità processuale e la verità storica coincidono. Per me conta solo quella storica. Io la conosco, perché ho studiato il papiro. E ribadisco che non è un falso. Ne sono assolutamente certo, dal punto di vista storico, archeologico, filologico, papirologico e paleografico».
L’impressione è che di Artemidoro sentiremo ancora parlare.
"È falso, una truffa". La fine del Papiro di Artemidoro
La procura di Torino dà ragione a Luciano Canfora sul manufatto acquistato per quasi tre milioni di euro: è del XIX secolo. Il reato è prescritto, ma resta il riscatto degli studiosi e dei funzionari coraggiosi che denunciarono
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 11.12.2018)
Il vero contro il falso. La più che decennale battaglia di Luciano Canfora per dimostrare la falsità del cosiddetto papiro di Artemidoro era diventata, per chi ne conosceva i termini evidenti e i meno palesi retroscena, un gigantesco simbolo. Tale ormai resterà nella storia degli studi, e non solo: in quella della cultura, e anche, forse, della politica; ammesso che tra le due cose, impegno politico e impegno culturale, si possa fare distinzione.
Quella per la verità è una lotta solitaria, disinteressata e proprio per questo ostacolata da una così folta e intricata selva di interessi da renderla una rocambolesca odissea.
Eppure, la procura di Torino ora ha mostrato che l’ostinazione e l’onestà alla fine sono destinate a vincere. Che il vero può prevalere sul falso, sulla disinformazione, sulla fake news, sulla disonestà, materiale e, peggio, intellettuale. Le perizie raccolte nell’inchiesta della procura e diffuse ieri stabiliscono in via definitiva che il Papiro è una truffa destinata tuttavia a rimanere penalmente impunita poiché il procedimento è stato archiviato per intervenuta prescrizione.
Che quel goffo manufatto fosse falso in cuor loro lo sapevano ormai quasi tutti nel mondo degli studi e probabilmente anche in quello della finanza.
Venduto alla Compagnia di San Paolo (che ha fatto sapere che non intraprenderà nessuna azione legale per tutelarsi), con la malleveria scientifica di studiosi stimati come Salvatore Settis e come il papirologo Claudio Gallazzi, dall’ambiguo mercante d’arte Serop Simonian nel 2004 («dopo molti rifiuti tra cui quello del Getty», ricorda Canfora) per 2 milioni e 750 mila euro, era stato subito rifiutato dall’allora direttrice del Museo Egizio di Torino, Eleni Vassilika: «Nonostante le pressioni fortissime», commenta Canfora, «e non è un mistero che la sua estromissione dall’Egizio sia stata la poco elegante risposta a tanta serietà e coraggio». Molti altri tentativi di testimonianza scientifica onesta sarebbero costati a studiosi, giovani e meno, scienziati, funzionari e pubblici ufficiali di vari rami intimidazioni, sanzioni e arretramenti di carriera.
La grossolanità della contraffazione con l’andare degli anni si mostrava così evidente, e su una tale quantità di livelli, che solo per malafede o semplicemente per codardia sembrava si potesse perseverare a negarla.
Dall’anacronismo del greco in cui era scritto, palesemente tardobizantino se non neogreco, alla ripresa letterale di un modello ottocentesco identificato subito da uno studioso del calibro di Maurizio Calvesi con l’introduzione alla Geografia generale di Carl Ritter, alla sequela di ancora più palesi anacronismi concettuali, storici, geografici e iconografici, inclusi i bizzarri cicli di figure animali dalle didascalie sgrammaticate e dai tratti modernissimi.
L’intuizione iniziale di Canfora che il falsario fosse il famigerato - ai papirologi e in generale agli antichisti - Konstantinos Simonidis (1820-1890 ca.), inventore di fake su pergamena e papiro di argomento teologico e/o geografico, appunto come lo pseudo-Artemidoro, era stata rafforzata dal ritrovamento e dalla pubblicazione di suoi scritti in greco che coincidevano alla lettera con espressioni o frasi presenti nel cosiddetto Papiro di Artemidoro: «È stato un vero acquisto per la scienza l’avere pubblicato presso le Edizioni di Pagina il primo robusto volume delle opere greche di Simonidis, rigurgitanti di falsi geografici e corredate dalla lista autografa di opere false barattate per vere che offrì nel 1850 all’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo», commenta Canfora. «Un’ispezione nel museo di Liverpool, compiuta dieci anni fa, aveva già consentito l’identificazione degli strumenti tecnici con cui Simonidis realizzava i suoi papiri finto-antichi».
Anche della foto del presunto Konvolut, ossia di quel preteso conglomerato papiraceo di partenza che avrebbe dovuto documentare la provenienza di scavo di un manufatto in realtà allestito a tavolino, era stata rapidamente accertata la falsità - un fotomontaggio su cui erano state grossolanamente spalmate alcune lettere greche tratte dal testo di Simonidis, come avevano dimostrato studiosi quali Silio Bozzi e la sua squadra - e con ciò smascherata la malafede del venditore.
Innumerevoli altre prove erano state fornite, ricorda Canfora, dalle ricerche a tappeto e dalle pubblicazioni «dei non molti che hanno parlato chiaro fin dal primo momento, come Luciano Bossina, Federico Condello, Rosa Otranto, Claudio Schiano, Stefano Micunco». Un pugno di studiosi per lo più giovani, non messi in soggezione dai padrini accademici dell’affare, dai suoi illustri garanti scientifici.
La metodicità di Canfora e della sua équipe non aveva però giovato alla dimostrazione. Nel moderno gioco di specchi della comunicazione e dell’immagine, meno è più. Più gli studiosi scrivevano, più accumulavano argomenti, più, su quella strana interfaccia di gioco, avvantaggiavano l’avversario. Per inoppugnabili che fossero, le prove della falsità meglio erano argomentate meno risultavano comprensibili ai non specialisti - il che anche in generale dovrebbe far riflettere sui meccanismi del consenso nella modernità.
Grottescamente, più il dossier si ingrandiva, meno accessibile era all’opinione pubblica, e gli accaniti difensori del falso si sentivano al sicuro, riservandosi pochi ma ben organizzati colpi d’immagine - una grandiosa mostra, un prestigioso convegno - con la collaborazione di finanziatori e sponsor accademici indulgenti. Il capitale, si sa, può molto.
Eppure, in questo caso, ha perso. Hanno perso i falsari, ha vinto la giustizia, garantita, anche in una fattispecie così peculiare, da un altrettanto ostinato, onesto e solitario cercatore di verità: il procuratore capo Armando Spataro, che il giorno prima di andare in pensione ha deciso di illuminare a giorno e sottoporre al giudizio pubblico l’oscuro dossier su cui da quando è arrivato a Torino ha minuziosamente indagato.
La parola finale è truffa. Certo, la frode del mercante non è più perseguibile. Neanche la hybris degli intellettuali coinvolti è certo perseguibile - se non dal legittimo risentimento dei banchieri beffati - ma è e resterà, nella nostra memoria, imprescrittibile.
Polemiche
Le conclusioni della procura di Torino
«Falso il papiro di Artemidoro» La conferma della magistratura
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 11.12.2018)
Nel 2006 fu il filologo Luciano Canfora, sul «Corriere della Sera» e sulla sua rivista «Quaderni di Storia», a negare per primo l’autenticità del «papiro di Artemidoro», il rotolo comprato nel 2004 dalla Compagnia di San Paolo e presentato come risalente al I secolo avanti Cristo. Oggi non solo la magistratura, messa in moto da Canfora dopo ulteriori ricerche, conferma pienamente quel giudizio per bocca della Procura di Torino, guidata ad Armando Spataro, ma la stessa Compagnia di San Paolo, che a suo tempo acquistò il papiro per 2.750.000 euro da Serop Simonian, mercante d’arte egiziano d’origine armena e residente in Germania, prende atto in una nota che il relativo procedimento «si è concluso con la dimostrazione della falsità del reperto». Nessuno tuttavia verrà processato per la vicenda: il fascicolo è stato infatti archiviato dal gip, su richiesta della magistratura inquirente, in quanto il reato di truffa aggravata si è estinto per avvenuta prescrizione.
L’esistenza del reperto venne segnalata per la prima volta nel 1998, sulla rivista «Archiv für Papyrusforschung», dagli studiosi Claudio Gallazzi e Bärbel Kramer, i quali poi, insieme a Salvatore Settis, ne attestarono l’autenticità, datandolo intorno al I secolo a.C. e attribuendo il testo all’antico geografo Artemidoro di Efeso. Di conseguenza la Compagnia di San Paolo acquistò il reperto, lungo due metri e mezzo e largo 32,5 centimetri, ovvero i circa cinquanta frammenti messi in vendita da Simonian, che su un lato contengono un testo in greco antico e disegni di mani, piedi e volti, mentre sull’altro sono raffigurati degli animali.
Nel 2006 il rotolo fu esposto a Torino in una mostra, a cura di Gallazzi e Settis, organizzata a Palazzo Bricherasio. E subito dopo si accese la polemica. «Rilevai alcune vistose anomalie linguistiche, per cui il papiro risultava scritto in un greco impossibile, e avanzai delle perplessità anche sulle figure, che mi ricordavano i dipinti del pittore spagnolo Francisco Goya», dichiara Canfora al «Corriere».
La discussione s’inasprì, ricorda il filologo: «Ricevetti risposte piccate da Settis e da altri studiosi, ma le successive indagini hanno confermato la fondatezza della mia posizione, specie per quanto riguarda l’inchiostro usato, diverso da quello disponibile nel I secolo a.C., e l’inattendibilità della foto che avrebbe ritratto il cosiddetto Konvolut (l’ammasso papiraceo da cui si diceva provenisse il rotolo), sicuramente successiva alla data indicata per lo smontaggio dello stesso Konvolut. Questo senza contare le osservazioni dello storico dell’arte Maurizio Calvesi, che ha negato l’origine antica dei disegni presenti sul reperto e ha messo in luce la strana somiglianza fra il testo e un’opera del geografo tedesco Karl Ritter, vissuto nell’Ottocento».
Sempre nuovi elementi si sono dunque aggiunti nel corso degli anni a sostegno della tesi della contraffazione. Ma già dall’inizio Canfora aveva indicato il nome del probabile falsario, il greco Costantino Simonidis, vissuto nel XIX secolo e famoso per i suoi raggiri.
«Nel 2013 - aggiunge Canfora - sottoposi i risultati delle mie ricerche a Gian Carlo Caselli, allora procuratore capo di Torino e ora l’inchiesta giudiziaria certifica che si tratta di una contraffazione ottocentesca». Lo scrive a chiare lettere in un lungo comunicato Spataro, successore di Caselli: «La certezza del falso è abbondantemente provata, quanto meno sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti».
Il procuratore ricorda per esempio la testimonianza di Eleni Vassilika, ex direttrice del Museo Egizio di Torino, che rifiutò di esporre il papiro di Artemidoro nonostante fosse stato acquistato proprio per destinarlo a quella autorevole istituzione. E sottolinea come vadano nella direzione indicata da Canfora le ulteriori analisi affidate dalla Compagnia di San Paolo all’Istituto centrale per la conservazione e il restauro del patrimonio archivistico e librario (Ipcral). Anche se quell’esame non è ancora terminato, «le evidenze preliminari sembrano supportare la tesi del falso più di quella dell’autenticità», soprattutto per quanto riguarda la composizione degli inchiostri, assai differenti da quelli adoperati per i papiri egiziani nell’epoca alla quale si asseriva risalisse il reperto.
La Procura, precisa Spataro, ha ritenuto inutile «disporre una consulenza tecnica», anche perché la prescrizione del reato ipotizzato a carico di Simonian renderebbe ingiustificati i relativi costi. Tuttavia una copia della richiesta di archiviazione è stata trasmessa alla Compagnia di San Paolo «per ogni eventuale azione a propria tutela». Quest’ultima però annuncia nella sua nota che non intraprenderà iniziative giudiziarie a questo scopo.
Il Papiro di Artemidoro è un falso. Venne pagato quasi tre milioni di euro
Terminata l’inchiesta di Spataro, non ci sono dubbi. Fu comperato nel 2004 dalla Compagnia di San Paolo
di OTTAVIA GIUSTETTI (la Repubblica, 10 dicembre 2018)
Che il Papiro di Artemidoro sia un falso non ci sono ormai più dubbi. Anche gli accertamenti disposti dal ministero dei Beni culturali sugli inchiostri utilizzati per tracciare la pergamena a lungo considerata documento di inestimabile valore storico, hanno invece decretato che i disegni sono di epoca certamente successiva al I secolo a.C., molto probabilmente un falso dell’Ottocento attribuibile al greco Costantino Simonidis.
Fu perciò una gigantesca truffa ordita dal mercante d’arte d’origine armena, nato in Egitto e residente in Germania, Serop Simonian, consumatasi grazie alla “leggerezza” dei suoi interlocutori, tra cui studiosi, politici e amministratori degli enti culturali, quella che portò la Fondazione per l’arte della Compagnia di San Paolo ad acquistarlo come autentico nel 2004, al prezzo di 2 milioni e 750 mila euro per esporlo al Museo Egizio. Il procuratore di Torino, Armando Spataro, pochi giorni prima di andare in pensione e lasciare la magistratura, rende ufficiale quel è l’esito di questa sua indagine, una di quelle a lui più care, avviata al proprio insediamento nonostante i fatti sui quali ha cercato delle risposte fossero probabilmente già prescritti all’epoca. Ma il valore della verità storico-culturale sull’autenticità del papiro va oltre la rigorosa ricerca dei reati e chiude un dibattito durato anni tra studiosi di opinioni differenti.
I punti dell’inchiesta sono moltissimi, ma uno su tutti fa sobbalzare: tra i documenti allegati all’acquisto del papiro (che si trovava in Germania) - che la procura ha acquisito nel corso della lunga indagine - c’è una lettera del 2 marzo 2004 con il cui il delegato del governo federale per l’Istruzione e la Comunicazione di Bonn, Rosa Schmitt-Neubauer, conferma che non è necessaria alcuna autorizzazione all’esportazione del documento che in effetti “non appartiene ai beni artistici di valore per la storia tedesca”. Non è considerato, insomma, patrimonio culturale da tutelare nonostante si trovi in territorio tedesco. Vi è poi allegata l’istanza per la concessione dell’autorizzazione all’esportazione di oggetti antichi presentata all’Istituto per la Cultura nazionale del Museo d’Egitto, nell’aprile 1971, con cui sarebbe stato esportato dall’Egitto, e nella traduzione si legge che il materiale è descritto come “sacco di carta in parte con immagini in oro” senza altri particolari. Vi si precisa anche che il suo valore è di 20 lire egiziane. .
Lo sviluppo di questa inchiesta, che potrebbe essere oggetto di un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio - dal I secolo a.C., all’Ottocento, a oggi, attraverso Italia, Germania, Grecia ed Egitto - prende le mosse da un esposto del 2013 dello studioso Luciano Canfora “circa la falsità del papiro di Artemidoro”. Molte perplessità sono state sollevate in questi anni sul caso, e la consapevolezza della truffa da record in cui le istituzioni piemontesi erano cadute, sembra essere affiorata pian piano, ma oggi è la stessa Compagnia di San Paolo a voler fare chiarezza sul reale valore del documento, e ad aver chiesto di sottoporre il papiro a un test definitivo sulla composizione degli inchiostri e su alcuni frammenti selezionati. “Si annunciano ulteriori approfondimenti - ha scritto Piero Gastaldo poco prima di lasciare la presidenza della Fondazione - ma diciamo che, pur non essendo di fronte alla “pistola fumante”, le evidenze preliminari sembrano supportare la tesi del falso più di quella dell’autenticità. Per quanto riguarda gli inchiostri la composizione appare decisamente diversa da quelli usati nei papiri egiziani del periodo dal I al VI secolo e i frammenti sembrano far emergere l’ipotesi che il papiro sia stato posizionato su una rete metallica zincata e sottoposto ad azione di acidi, un trattamento che ha determinato il trasferimento dello zinco alla rete metallica. Si chiude così definitivamente l’acceso dibattito che ha animato il mondo accademico negli ultimi dieci anni sul caso. Un dibattito che vendeva fin dall’inizio molte voci scettiche ma che, non si comprende perché, ha visto gli interessati propendere sempre per la tesi dell’autenticità, senza controlli né verifiche.
Canfora, filologo dell’Università di Bari, ha esaminato in dettaglio sia il testo greco che i disegni di cui il papiro è ricco, intervenendo in convegni di alto livello e con importanti e ampi studi pubblicati nel corso degli anni e ha dichiarato fin dal 2006 che il papiro era semmai attribuibile a un esperto falsario ottocentesco. Anche a livello internazionale molti studiosi hanno messo in discussione l’autenticità del documento. L’allora direttrice del Museo Egizio, Eleni Vassilika, che era entrata in forte contrasto con i suoi superiori per essersi opposta all’esposizione nel “suo” museo del documento donato dalla Fondazione, conosceva bene il mercante Simonian perché aveva venduto dei clamorosi falsi al museo di Hildesheim, l’istituzione che lei dirigeva prima di arrivare a Torino. Inoltre sapeva che Simonian faceva entrare in Germania i reperti, tramite “duty free” svizzeri, e che quelli più grandi li faceva addirittura segare. Eppure per molto tempo ha continuato a riscuotere maggior credito il gruppo degli storici che si sono schierati per difendere il valore dell’opera, come Salvatore Settis, che nel 1999 ne aveva già trattato l’acquisto per Getty Foundation di Los Angeles, di cui era direttore, e il papirologo dell’Università Statale di Milano, Claudio Gallazzi, che per primo insieme a Barbel Kramer dell’Università di Treviri segnò la scientifica attribuzione dei contenuti del papiro ad Artemidoro di Efeso.
Oggi l’indagine viene ufficialmente chiusa con una richiesta di archiviazione e solo per estinzione del reato di truffa, per prescrizione. Ma “la certezza del falso - scrive il procuratore - è abbondantemente provata, sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti”. Spataro chiude le 33 pagine del suo atto bacchettando direttamente la Fondazione per l’Arte della Compagnia cui dispone siano restituiti gli atti “ferma restando l’opacità assoluta dell’intera vicenda/trappola in cui la fondazione stessa è intercorsa e che sarebbe stata verosimilmente evitabile attraverso accertamenti, studi e consulenze affidabili prima dell’acquisto del” cosiddetto papiro di Artemidoro.
Papiro di Artemidoro
L’appello di Canfora: serve l’esame scientifico
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 01.04.2016)
Luciano Canfora incontrerà oggi il ministro per i Beni e le attività culturali, Dario Franceschini, per chiedergli un esame scientifico dell’inchiostro dei disegni del verso (il retro) del cosiddetto Papiro di Artemidoro, per alcuni studiosi un documento autentico del geografo antico Artemidoro di Efeso e databile tra I secolo avanti Cristo e II secolo dopo Cristo: Canfora lo attribuisce invece con certezza a Costantino Simonidis, celebre falsario e avventuriero dell’Ottocento.
Lo ha annunciato ieri dopo un affollato incontro al teatro Piccolo Eliseo organizzato dalla sezione romana del Fai, Fondo ambiente italiano.
Canfora ha ripercorso la sua decennale polemica, aperta sul «Corriere», elencando le ragioni scientifiche che lo portano alla certezza del falso e ha concluso: «Dal 2007 chiedo che venga sottoposto ad analisi l’inchiostro delle figure di animali del verso , palesemente recenti. La Fondazione per l’Arte della Compagnia San Paolo, proprietaria del documento, si è sempre mostrata disponibile. Eppure, per misteriose ragioni, l’analisi non è mai stata fatta».
A novembre la Procura di Torino ha aperto un’indagine sull’acquisto del pezzo, esposto al Museo di antichità torinese con didascalie che registrano i tanti dubbi sull’autenticità.
Colpiva pure dall’oltretomba il “papà” di Artemidoro
Geniale falsario, nazionalista greco anti-tedesco, agente di disturbo: Costantino Simonidis, presunto autore del controverso Papiro, per continuare ad agire indisturbato fece credere di essere morto
di Luciano Bossina (La Stampa 27.08.2015)
Sotto la guida di Wilhelm Stieber la polizia di Lipsia fece irruzione nell’appartamento: lo trovarono ben vestito, lo sguardo impassibile di chi non ha dubbi, la valigia già pronta alla fuga, il denaro della truffa mai speso, i libri in cui cercava ispirazione e tutti gli strumenti del mestiere: pergamene, inchiostri, calami e agenti chimici. Era il 1° febbraio 1856. Per tutta la vita Costantino Simonidis, il più grande falsario di testi antichi, produsse e diffuse manoscritti greci: ma quella volta era riuscito a ingannare addirittura l’Accademia Prussiana, il tempio della filologia classica. Il suo nome è tornato di attualità in questi anni per la querelle scoppiata intorno al Papiro di Artemidoro (presentato a Torino nel 2006 e acquistato a carissimo prezzo) tra chi lo ritiene un genuino prodotto ellenistico e chi lo attribuisce invece al genio di Simonidis. Ma i suoi falsi non erano solo atti di venalità: nessuno come lui seppe unire al talento la sfrontatezza, al cinismo l’ideale.
Protettori altolocati
Che intervenisse Stieber in persona è sintomatico: capo della polizia berlinese, esperto di spionaggio, specialista di reati politici. Che da Berlino si precipitasse a Lipsia (dove non aveva giurisdizione) dimostra che il caso Simonidis non riguardava solo dei manoscritti falsi. Scucire 2000 talleri a un filologo come Wilhelm Dindorf per un palinsesto fatto in casa, spacciare una propria opera come Storia dei re egizi di Uranio, superare persino i controlli al microscopio sulle due scritture del palinsesto, attestava una perizia impareggiabile, e dimostrava che i professori tedeschi erano stati raggirati da un autodidatta greco. Ma non era solo questo. Soltanto in apparenza Simonidis agiva come un cane sciolto: alle spalle, in tutta la sua carriera, ebbe sempre protezioni altolocate, dal partito conservatore greco al patriarcato russo, dalla massoneria inglese ai servizi segreti.
Non era solo un falsario: era un agente di disturbo.
Nacque sull’isola di Simi negli anni Venti dell’800. Più precisi non si può essere: anche la data di nascita è falsa. Né si sa quando e dove morì. Quando s’accorse d’essere «bruciato» per le troppe truffe, fece diffondere sui giornali la notizia della propria morte, per agire indisturbato: si scrisse ch’era morto in Egitto, nel 1867, in un lazzaretto di Alessandria. Note autografe successive, e un falso papiro di Eschilo messo in circolazione molti anni più tardi, provano che Simonidis sapeva scrivere dall’oltretomba. E così lo scorso anno, quando l’Università di Vienna gli ha dedicato un convegno, non ha potuto far altro che scherzare sull’impossibile ricorrenza, sulle cifre che non saranno mai tonde («in occasione del presunto 194° anniversario»...).
Il tesoro nascosto
Cruciale fu in gioventù la frequentazione del Monte Athos. Nelle ricche biblioteche di quei monasteri imparò l’arte dei copisti bizantini, trafugò codici pregiati, ne tagliò i fogli più preziosi per rivenderli ai musei europei (come le carte geografiche di Tolomeo), inventò una leggenda che gli servì sempre da copertura. Raccontava di un tesoro nascosto, fatto non d’oro ma di manoscritti, nascosti dai monaci dell’Athos per sottrarli ai crociati, custoditi per secoli in un rifugio inaccessibile, riscoperti da uno zio immaginario e a lui lasciati in eredità. Per tutta la vita, ogni volta che esibirà le sue creazioni, millanterà sempre di averle trovate su quel monte. La sua missione era chiara: conciliare la fede ortodossa con l’eredità dei classici, per rinsaldare il nazionalismo ellenico. Nato negli anni della Rivoluzione, era questo il suo modo di servire la patria.
Quando approdò ad Atene aveva poco più di vent’anni, la borsa piena di falsi, e un risentimento insanabile per la Germania. Alla Grecia era stata imposta una monarchia tedesca, un re bavarese e un primo ministro luterano. Le rivendicazioni nazionalistiche non tardarono a manifestarsi (ciclicità della storia). Simonidis militò subito per il partito clericale e filorusso, agendo su un doppio fronte: l’invenzione del passato e la polemica nel presente. L’arma era sempre la stessa: i falsi. Riversò sul mercato meraviglie di ogni sorta: Omero, Anacreonte, Saffo, Esiodo. E mentre le commissioni governative valutavano quei tesori, Simonidis scatenò l’artiglieria pesante contro un missionario americano, Jonas King, che voleva convertire i Greci al calvinismo. Dichiarò ai giornali di aver assistito alle «orge» del missionario: donne discinte ed essenze odorose, icone date alla fiamme e bestemmie alla Madonna. Tutto inventato. Atene scese in piazza, King dovette scappare; i processi durarono anni; le più alte cariche dello Stato vi furono coinvolte: ministri, ambasciatori, persino il Re. Poi al largo del Pireo comparve una nave da guerra americana: nove colpi di cannone, e il caso King fu archiviato.
Un colpo da maestro
Ma intanto Simonidis era già a Costantinopoli. Lì cercò di piazzare una fantomatica Storia dei Fenici, un’ignota Storia degli Armeni, un Aristotele in alfabeto cario. Tutte opere inverosimili: più tardi imparò la prudenza. Nelle maggiori biblioteche europee, da Parigi a Lipsia e poi a Londra, si confrontò con la filologia più attrezzata, affinò le tecniche materiali. A collezionisti inglesi di dubbia moralità, metà vittime e metà complici, vendette decine di papiri, in parte ancora visitabili, altri spariti nel nulla (dove saranno?). Mantenne intatti gli interessi di sempre: geografia, pittura, teologia. E imparò a spiazzare gli avversari.
Quando Konstantin von Tischendorf rivelò al mondo di aver scoperto il codice Sinaitico della Bibbia, Simonidis annunciò gelido che non si trattava di un codice antico, ma di un prodotto suo. Un colpo da maestro: non solo passava per veri manoscritti falsi; passava per falsi i veri. I giornali inglesi si scatenarono, l’opinione pubblica si divise, missioni sul Sinai cercavano riscontri. Tischendorf commentò sprezzante: «Solo il popolo dei drammi shakespeariani può dar retta a Simonidis».
Ma il caso indicò un curioso paradosso: e cioè che talvolta è più facile smascherare il falso che provare il vero. Di ciò almeno si consolano i difensori del Papiro di Artemidoro: per provarne l’autenticità cercano di mostrare che non può essere di Simonidis (ma un cadavere non resuscita se il presunto assassino ha un alibi).
E così ancora oggi si è tornati a parlare di lui - e non solo come spettro del passato. Perché una sola cosa è certa: non si sa quando è nato, non si sa quando è morto, ma è ancora tra noi.
Nella sacra fabbrica dei falsi
Dal presunto Pietro alla «moglie di Gesù», fra trucchi e apocrifi
di LUCIANO CANFORA (Corriere della Sera, 15.12.2012)
Sono usciti quasi contemporaneamente due libri tra loro molto diversi che trattano - nell’ambito dell’inesauribile tema del «falso» - il medesimo problema: perché si fabbrica un falso. Si tratta del brillante ed efficace saggio di Bart Ehrman, Sotto falso nome (Carocci, pp. 266, 23) e dell’ironico e sottilmente melanconico romanzo di Sergio Valzania, La bolla d’oro (Sellerio, pp. 231, 13). Mentre uscivano questi libri si sgonfiava, risultando non più che un maldestro falso, il cosiddetto papiro (copto) della «moglie di Gesù», la cui gloria è durata poche settimane.
Nella Bolla d’oro, il potente accademico che proclama l’autenticità di un presunto crisobollo di Alessio III Comneno al fine di propiziare l’acquisto della «patacca» da parte di una banca, non esita di fronte al delitto. Per parte sua l’azienda investigativa incaricata di accertare la verità si limita ad ottenere la ritrattazione di costui in cambio del silenzio sull’omicidio. Se il fine del falsario è vagamente comprensibile, molto più chiaro è il fine dell’accademico che si è fatto garante dell’autenticità: denaro e potere. L’omertà tiene in piedi il sistema. Questo il senso della selleriana Bolla d’oro.
Il libro di Bart Ehrman ci porta invece molto indietro nel tempo, ci introduce nell’«officina» dei falsi presenti nelle «sacre scritture» pudicamente definiti apocrifi, o pseudepigrafi quando vengono rifiutati ma difesi a spada tratta la volta che siano entrati nel «canone». Perciò il titolo originale del libro appare più chiaro di quello adottato per la traduzione italiana: «Falsi: Scrivere in nome di Dio; perché gli autori della Bibbia non sono le persone che noi pensiamo che siano». Ehrman affronta con efficacia la questione partendo dalla massiccia attività di «falsari» che connota tutta l’antichità, né trascura la delicata questione dell’intenzionalità e dei fini che tali fabbricazioni si propongono. Quindi porta argomenti storici concreti e non esita a liquidare, con gli strumenti della filologia, l’attribuzione, meramente aprioristica e dommatica, all’apostolo Simone, detto Pietro, delle «Lettere» tramandate sotto il suo nome e entrate saldamente nel «Canone» neotestamentario.
Quale poteva essere l’obiettivo di colui che si faceva passare per «Pietro» e metteva in circolazione lettere scritte da lui? Evidentemente quello di far risalire il più indietro possibile nel tempo le tracce scritte delle origini cristiane. Il fine era dunque apologetico-dommatico e lo strumento era la creazione di testi da far passare come scritti da un uomo che fosse stato direttamente in contatto col protagonista principale (Gesù) ed attivo nella sua cerchia.
Nel 1861 Costantino Simonidis, il grande falsario greco tornato giustamente in auge in questi ultimi anni, il quale - oltre a prediligere Artemidoro ed altri geografi - era anche un esperto teologo, inventò, tra l’altro, un falso papiro contenente brani del Vangelo di Matteo. Abilmente vi mise dentro anche i righi finali, corredati di una data precocissima, vergata dal presunto antico copista. Il fine era sempre lo stesso: veniva così fabbricata la prova dell’esistenza, già a ridosso della morte di Gesù, di quel Vangelo. Scoppiò uno scandalo quando la falsificazione fu svelata, eppure, ancora qualche anno fa, il teologo Carsten Thiede, nel suo libro «Jesus: Life or Legend» (uscito nel 1990) difendeva l’autenticità del Matteo di Simondis. (Una causa, sia detto in parentesi, più nobile di quella dell’Artemidoro).
Invece, non più che un burlone, o solo un propagandista di Dan Brown, è stato colui che ha creato il recentissimo papiro copto in cui Gesù direbbe: «Mia moglie...». Si può vedere in proposito l’intervista di Karen King al «New York Times» dello scorso 18 settembre, A questo punto però è stato proprio «L’Osservatore romano» a sfoderare le armi della critica e della filologia, la più eversiva delle discipline, per liquidare il maldestro manufatto. La si comprende questa reazione: il canone non si tocca, quantunque e comunque farcito del corso della storia.
Qui la riflessione dovrebbe toccare le importanti sfumature presenti all’interno della galassia cristiana. Tolleranza verso la critica, ovvero chiusura nei confronti di essa, furono i poli della dialettica che attraversò la cristianità nei secoli che vanno dalla prima edizione critica del Nuovo Testamento ad opera di Erasmo da Rotterdam alla condanna oscurantistica del modernismo, da parte di Pio X, all’inizio del XX secolo. Tensioni non dissimili attraversarono il mondo protestante, ma suscitando forse minore clamore. Un mondo a parte, compatto e immobile, fu invece quello della chiesa greco-ortodossa, il cui atteggiamento verso il corpus delle «scritture» resta sostanzialmente pre-critico.
Nella Bolla d’oro, di cui s’è detto in principio, il problema del falso viene sviluppato su due diversi piani. Per un verso c’è la trama affaristico-accademica, tutta «occidentale» e profana. Per l’altro verso c’è la magnifica narrazione di un viaggio per i conventi dell’Athos, da parte del protagonista dilettante detective nel quale l’autore - buon conoscitore dell’Athos - in parte si identifica. Questo viaggio pone il dilettante di fronte ad un ben più massiccio problema di falsi: le impensabili «reliquie» conservate in quei conventi (la mano della Maddalena, la cintura di Maria fatta di peli di cammello e così via). Il timido ma acuto viaggiatore, pur frastornato dalla sua logorroica guida, solleva il problema, di fronte a così prorompente paganesimo cristiano: «Come fate ad essere sicuri della loro autenticità?». E si sente rispondere: «Vedi, il monte Athos va preso nella sua interezza. È l’insieme ad essere autentico, non questa o quella delle sue singole parti. Pensa ad un edificio antico restaurato in occasioni successive, non smette di essere quello che era stato; non ti interessa se ogni pietra ogni mattone sia davvero quello originale!».
Magnifica teoria che - se esportata dalle nostre parti - potrebbe dare rinnovato slancio agli impenitenti «collezionisti che preferiscono mantenere l’incognito» dai cui cassetti ci giungono papiri greci e copti dal contenuto non di rado esilarante. In tal caso ci sarà solo da sperare nella saggezza dei direttori dei Musei.
Patrioti, spie e Artemidoro la vera vita del re dei falsari
La figura rocambolesca di Simonidis nella ricostruzione di Luciano Canfora
LE SUE VITTIME. Beffò i più autorevoli esperti europei dell’800, in Inghilterra decise di dedicarsi ai papiri
FERVORE PATRIOTTICO GRECO. Tra i suoi protettori l’ambasciatore a Costantinopoli del Regno di Sardegna, fedelissimo di Cavour
di Silvia Ronchey (La Stampa, 30.08.2012)
Uno dei meriti della querelle sul cosiddetto papiro di Artemidoro è aver fatto conoscere al grande pubblico un personaggio che definire romanzesco è dir poco. Né un Dumas né un Gide né un Ambler avrebbero potuto concepire la sua vita rocambolesca con la genialità, la spregiudicatezza e la fantasia con cui la inventò, e la visse, il suo protagonista. Ma, si sa, la realtà ha sempre più immaginazione della letteratura, ed è anche per questo che il primo volume delle opere greche di Costantino Simonidis, ora pubblicato dalle Edizioni di Pagina (pp. 422, € 22) con un ampio saggio introduttivo di Luciano Canfora e una profusione di documenti di tale fantasmagorica bizzarria da sembrare usciti dalla penna di un Rabelais se non di un Borges, è molto più appassionante di qualsiasi romanzo.
Se fare della propria vita un’opera d’arte è già di per sé un fine per alcuni, ciò non impedisce di creare, nel suo corso, altri capolavori. Tali furono gli abilissimi falsi di Simonidis. Il cosiddetto Artemidoro non è certo il suo migliore, essendo anzi uno scarto, o meglio due, accantonati entrambi dall’autore e solo in seguito assemblati e riproposti, a più di un secolo dalla sua scomparsa, nella speranza che la memoria di «quel greco che si circondava di molto mistero», e che appariva e scompariva negli scenari accademici più paludati dell’Ottocento, fosse dileguata dalla sempre più corta memoria dei moderni.
Ben prima degli attuali autorevoli esperti, degli ignari acquirenti e del grande pubblico anzitutto torinese affluito alla mostra di Palazzo Bricherasio nel 2006 per l’ostensione del manufatto, altri e più genuini - ci si conceda l’ossimoro - falsi avevano beffato in passato i giganti della filologia. Uno per tutti, il competentissimo Wilhelm Dindorf, che con troppa sicurezza di sé avallò le fantastiche liste di re egizi del falso manoscritto di Uranios, aiutando Simonidis a piazzarlo all’Accademia delle Scienze di Berlino, e troppo precipitosamente ne allestì l’edizione critica addirittura per i tipi oxfordiani, con dotta prefazione e note latine, prima che l’inganno fosse svelato e l’ingannatore arrestato dal più celebre cacciatore di sovversivi della polizia di Berlino. Ma dopo pochi giorni il prigioniero si rifugiò in Baviera.
Le vittime della sua inesorabile maestria si contano in tutto il mondo, ma fu proprio il mondo accademico inglese a annoverarne il maggior numero. Perché fu qui che con funambolesca manovra Simonidis decise di non fabbricare più pergamene o palinsesti, ma di lanciarsi sulla grande novità del momento: i papiri, su cui si concentravano i compulsivi appetiti degli studiosi, dopo le scoperte di quelli di Iperide. E fu qui che trovò i suoi più sagaci complici nonché il suo mecenate e protettore Joseph Mayer, assieme ai quali è immortalato nella più rivelatrice delle fotografie che lo ritraggono: in piedi, la sigaretta tra le dita, i favoriti a incorniciare i tratti regolari e i profondi, bellissimi occhi, la redingote dall’immancabile bavero di velluto, la cravatta scura bene annodata sul nitore della camicia.
La prima fase della sua carriera, quella orientale, maturata nei grandi serbatoi di manoscritti dei monasteri greci, in cui si era infiltrato, aveva prodotto invece codici, ed epitomi «bizantine». Un «castello di erudizione virtuale» creato fin da quando, lasciata l’isola di Simi (dove era nato intorno al 1820), si era mosso tra l’Athos, cui era approdato insieme con il misterioso «zio» Benediktos ( chaperon, padre spirituale, forse amante), e il Sinai, Odessa e Costantinopoli. Qui aveva frequentato anche la famosa scuola teologica di Halki, oggi purtroppo sbarrata dallo Stato turco. Ad Atene si era perfezionato nella neonata Biblioteca Nazionale, simbolo del nuovo Stato greco, arricchita fra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento da un continuo e patriottico flusso di lasciti e donativi.
Se è vero che, come scrive Canfora, «per snidare un falsario bisogna entrare nella sua testa, familiarizzarsi con il suo ambiente, coi suoi meccanismi mentali», non è da sottovalutare il sottotesto patriottico delle gesta di Simonidis, che emerge carsicamente a volte nei suoi stessi testi: si pensi alle micidiali invettive antinglesi della prefazione ai (falsi) Kephalleniaka del (falso) Euliro; o alla denuncia delle «orge» del missionario King, che cavalcando i pubblici umori antiamericani divenne un vero e proprio affare di Stato.
È proprio nella Grecia insulare, lasciata relativamente autonoma dall’impero ottomano, che era nato il risorgimento greco: nella Patmiás, l’altra grande scuola teologica del mondo ortodosso durante la turcocrazia, si era formato Emmanuil Xanthos, che sull’isola di Patmos era nato ed era stato tra i fondatori della Filikì Etería proprio a Odessa. In questo centro nodale del patriottismo greco, e panortodosso covo di spie, Simonidis aveva trovato il suo grande sponsor nel potente e ambiguo Alexander Stourtzas, consigliere e segretario generale ( mystikos) dello zar Nicola, che lo impiegherà per missioni di intelligence e favorirà il suo addottoramento all’Università di Mosca con una dissertazione sul Chersoneso Cario, area geopolitica all’epoca scottante.
La natura fortemente politica dell’«eversione filologica» di Simonidis, il fervore patriottico greco e l’odio per le grandi potenze continentali, l’afflato neobizantino, insito peraltro fin da principio nell’Eterìa, sono còlti dai suoi avversari e smascheratori, non a caso studiosi prestati alla politica, o allo spionaggio: per esempio il grande Mordtmann, in quella stessa Costantinopoli in cui l’unico protettore di Simonidis resterà Romualdo Tecco, ambasciatore del Regno di Sardegna e fedelissimo di Cavour. Non è forse un caso se l’unico giornale che in quegli anni parla bene del falsario è proprio il Risorgimento: il quotidiano fondato da Cavour.
Artemidoro ultimo atto
Dopo una battaglia durata cinque anni, la sentenza: il papiro è falso.
E oltre a Simonis, che operò nell’800, spunta un secondo falsario: avrebbe agito di recente
di Silvia Ronchey (La Stampa, 15.11.2011)
TORINO Oggi all’Università di Torino «Ultime notizie sul cosiddetto papiro di Artemidoro» è il titolo del convegno ospitato oggi all’Università di Torino (ore 17, Aula magna di via Po 17), in occasione delle ultime pubblicazioni sull’annosa vicenda del controverso documento. Dopo il saluto del prorettore Sergio Roda interverranno Carlo Ossola, Luciano Canfora, Luciano Bossina, Federico Condello, Silvia Ronchey, Amedeo A. Raschieri e il vicequestore aggiunto della Polizia di Stato Silio Bozzi. C’ è un secondo falsario, oltre a Simonidis, nell’intrigo del cosiddetto Papiro di Artemidoro. Che in realtà non è un papiro ma a quanto pare sono tre. I tre falsi papiri confezionati nell’800 da Simonidis e rimasti a lungo chiusi nel fondo omonimo del Museo di Liverpool - ossia i «tre grossi sigari» descritti da James Farrer all’inizio del ‘900, poi risultati scomparsi - sono con ogni probabilità gli stessi che, accorpati tra loro, modificati e arricchiti di nuovi elementi grafici, ricompaiono a formare il cosiddetto Artemidoro. Che non è dunque quella «gigantesca unità» che ci è sempre stata presentata. Ma che un unicum è davvero, se ha dato filo da torcere agli studiosi di tutto il mondo e se da cinque anni, dal debutto sui media nell’autunno del 2006, ha incuriosito anche il grande pubblico. Il quale, dopo tanta attesa, merita dunque di conoscere la soluzione del mistero.
Che il caso sia risolto è ormai opinione scientifica diffusa. Non a caso l’Università di Torino ospita oggi una varietà di studiosi di disparate competenze e provenienze, a presentare le rispettive conclusioni in un confronto che pare dover portare a quella che in un romanzo di Agatha Christie sarebbe la scena finale, in cui Poirot, riunendo in una stanza i testimoni, illustra nei dettagli la soluzione e ricostruisce la dinamica del misfatto indicando a sorpresa il vero colpevole. Ma nei gialli che si rispettano le sorprese alla fine sono almeno due. Come quelle che verranno introdotte oggi dal prorettore Sergio Roda, a suggellare l’ipotesi che il manufatto sia frutto dell’assemblaggio dei tre «sigari» e delle aggiunte di un secondo falsario tardonovecentesco (la teoria del «Simonidis maggiorato» o «Simonidis auctus» già da anni diffusa tra i filologi dopo essere stata avanzata da Luigi Lehnus).
Il primo smascheramento riguarderà il lato B del cosiddetto papiro, l’unico nel manufatto a mostrare coerenza, in contrasto con il bislacco disordine che l’assemblaggio dei tre falsi originari sembra avere prodotto nel lato A. Nel rovescio invece si succedono disegni di animali, tanto strani quanto strategicamente disposti, si direbbe, a suggerire che i frammenti provengano da un supporto unico. Si tratta però, a quanto pare, di un lavoro malfatto: starà agli esperti mostrare definitivamente come questi disegni non solo siano opera di un falsario, ma siano stati prodotti nella seconda fase di falsificazione e cioè dopo l’accorpamento dei tre «sigari». In effetti anche agli occhi di un profano risalta la differenza tra i due ordini di figure: sul lato A, in quelle di gusto ellenistico tipiche dello stile di Simonidis, si apprezza un tratto ottocentesco che imita l’antico; sul lato B, negli animali fantastici come il cosiddetto «papero» o chenalopex, si scorge uno stile in cui qualche studioso è arrivato ironicamente a ravvisare l’influsso di Walt Disney.
Il che ci porta al secondo smascheramento annunciato per oggi pomeriggio. Già quanto anticipato finora suggerisce che il compito del secondo falsario novecentesco - far credere in un rotolo unico, «oggetto miracoloso» e strepitoso - puntasse a giustificarne il prezzo inverosimile, mai praticato nella storia del mercato dei papiri: i 2 milioni e 750 mila euro sborsati dalla Fondazione per l’Arte della malcapitata Compagnia di San Paolo di Torino e messi a disposizione come riportato da Bärbel Kramer e Claudio Gallazzi, due degli editori dell’Artemidoro a opera di un notissimo studio legale torinese.
Si arriverà oggi pomeriggio a identificare il secondo falsario, che avrebbe agito dopo l’acquisizione dei tre rotoli prodotti da Simonidis unificandoli e disseminando il collage di elementi introdotti ad hoc per depistare gli studiosi e distoglierli dall’attribuzione al falsario ottocentesco? Più che di un’identificazione si tratterà di un identikit. In quest’ipotesi, il secondo falsario - che si presuppone tuttora vivente e attivo - dev’essere un grande frequentatore della papirologia. Deve avere agito nell’ultimo ventennio del Novecento, in stretto contatto con quel «mercante» Simonian che ha venduto l’Artemidoro alla Compagnia torinese nel 2004, quando la sua reputazione era peraltro già incrinata dal contenzioso giudiziario avuto col Museo di Hildesheim negli Anni 80. Deve avere avuto il manufatto tra le mani per un congruo lasso di tempo. Se Ludwig Koenen, principe della papirologia mondiale, ha riferito di aver visto immagini del reperto che contenevano dettagli differenti da quelli della versione attuale, il cosiddetto papiro era noto agli egittologi Shelton e Grimm come rivelano gli stessi editori critici fin dal 1981: ben prima che uno di loro, Claudio Gallazzi, cominciasse a perorarne appassionatamente l’acquisto. Chi mai può corrispondere a questo identikit? Di chi è stato «uomo di paglia» l’armeno-amburghese Simonian? Ci si aspetta che il convegno di oggi getti su questi interrogativi un folgorante fascio di luce.
Luciano Canfora, il falso Artemidoro e il diritto alla verità
di Salvatore F. Lattarulo (Corriere del Mezzogiorno, 12.06.2011)
E’ la Sindone della storia della papirologia. Intorno al presunto papiro di Artemidoro è divampata negli ultimi cinque anni un’infuocata disputa filologica tra devoti fan di una reliquia antica ed eretici liquidatori di un falso moderno. La scoperta del malfamato rotolo ha alimentato un fiume d’inchiostro che ha rotto gli argini del ristretto campo degli addetti ai lavori ed è tracimato sulle pagine dei più titolati quotidiani nazionali ed esteri. Colpa o merito di Luciano Canfora che per primo ha allungato pesanti ombre sull’autenticità del manufatto.
A distanza di un lustro dalla divulgazione del suo scoop filologico, lo studioso barese torna ora sulla scena del delitto. La meravigliosa storia del falso Artemidoro è l’ultimo nato della saga editoriale sul papiro della discordia. Il titolo del libro, appena approdato in libreria per Sellerio, ha l’aria di assimilare la vicenda a un giallo storico degno della penna di Umberto Eco. Tanto più che l’oggetto incriminato è il secondo libro della Geografia composta dal grande scrittore efesino di età ellenistica. Lo stesso numero d’ordine, guarda caso, che ha quello perduto della Poetica di Aristotele nella ricostruzione fantasiosa de Il nome della rosa.
Coincidenze romanzesche a parte, il nuovo contributo firmato da Canfora sull’affaire Artemidoro usa il metro rigoroso a lui tanto congeniale del dicti studiosus, per dirla con il poeta latino Ennio. Il saggio è l’ennesimo affondo frontale contro il «falso del secolo» . Va bene che nel risvolto di copertina si legge che la contraffazione è «il sogno, e talvolta l’obiettivo, di più di un filologo di genio» . Ma l’autore non intende certo esorcizzare la missione che in un libro uscito un paio d’anni fa da Mondadori, Filologia e libertà, intestava alla «più eversiva delle discipline» : tutelare «il diritto alla verità».
Logica alla mano, Canfora dipana il filo di una matassa ingarbugliata. Ricostruisce passo passo la vexata quaestio aprendo un ventaglio di argomenti contro la tesi della genuinità del reperto. Che puzza già dalla testa, come mostrano prime due colonne di scrittura. Per il loro taglio generico si prestano a fare da capello iniziale di tutta l’opera che non da introduzione un libro intermedio che tratta della Spagna.
Vero è che nell’ecdotica antica non mancano casi di cosiddetti proemio al mezzo. Ma alla questione Canfora non accenna, benché della tecnica incipitaria dei testi classici si sia occupato in passato nel suo Tucidide continuato, monografia dedicata allo storico ateniese ritenuto «il più grande geniale creatore di falsi» per aver ideato i discorsi di Pericle. Il proemio dello pseudo-Artemidoro è comunque la pistola fumante.
L’analogia tra geografia e teologia contenuta in avvio riflette un modo di pensare «di epoca bizantina neo-greca» . Canfora fa le bucce anche all’apparato iconografico. Le illustrazioni di parti anatomiche maschili presenti nel recto del foglio dipenderebbero da manuali di disegno sette-ottocenteschi. Se fossero pitture di età ellenistica come si spiega la «totale omissione di figure nude» ? Per tacere della serie di errori linguistici nelle didascalie» che impreziosisce il bestiario per immagini collocato nel verso.
Ma il vero gioiello, si fa per dire, è la cartina della Spagna: «uno schizzo senza né capo né coda» . Insomma, basta inforcare gli occhiali per accorgersi che si è davanti a un prodotto artefatto. Realizzato con la tecnica del patchwork, cioè incollando pezzi diversi. L’autarchia delle singole parti (proemio, sezione iberica, mappa, album anatomico, tavole teriomorfe) ha generato «la favola» delle diverse «vite» avute nel tempo dal papiro.
A dirla tutta, la teoria del «rotolo miscellaneo» è stata già avanzata da Giambattista D’Alessio. Tuttavia secondo il docente al King’s College di Londra l’idea del prisma editoriale non indebolisce ma rafforza l’ipotesi di una datazione antica, che risulta anzi -scriveva sul Corriere della Sera dell’ 11 maggio 2009 -l a «più ovvia e convincente».
Obiezione di cui Canfora, pur citando D’Alessio un paio di volte, non dà conto nel libro. Anche perché per lui la mano che ha realizzato il «collage» non può che essere quella del barbuto Costantino Simonidis, in posa algida nella foto di copertina. Un greco vissuto nell’Ottocento, esperto incallito falsario, capace di piazzare sul mercato come originali manoscritti di Omero, Aristotele ed Eustazio confezionati nel suo atelier. I giornali dell’epoca lo descrivono profondo conoscitore di «tutti i ritrovati chimici e meccanici» e in grado di «imitare ingannevolmente tutte le possibili scritture persino per quel che riguarda l’inchiostro».
Ecco il neo. Se non c’è trucco e non c’è inganno perché «gli inchiostri del verso non sono stati analizzati quasi per nulla, o per nulla affatto» ? In ogni caso l’Artemidoro di Simonidis non è un oggetto contraffatto come un prodotto cinese. Nel suo genere è un capolavoro. Manipolando un po’ il titolo del libro viene da dire che è un’opera «meravigliosa» .
Un duello scientifico che dura da cinque anni *
Una bomba gettata in uno stagno. E’ l’effetto innescato cinque anni fa dalla pubblicazione di un articolo («Postilla testuale sul nuovo Artemidoro» ) di Luciano Canfora sulla sua rivista Quaderni di storia. L’ipotesi lì suggerita di un clamoroso falso era un cuneo inserito nella granitica certezza che il cosiddetto rotolo di Artemidoro fosse un’eccezionale scoperta. Come se le sabbie d’Egitto avessero restituito la maschera di Tutankhamon. Un paragone che calza bene, visto che si pensò che il papiro provenisse dall’involucro di una maschera funeraria. La Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo di Torino non esitò a pagare questa striscia lunga circa due metri e mezzo la bellezza di quasi tre milioni di euro. Finiva il luglio del 2004.
Due anni dopo il maxi-rotolo fu esposto con rulli di tamburo a Palazzo Bricherasio nel corso delle Olimpiadi ospitate nel capoluogo piemontese. Di quella pomposa mostra fu stampato da Electa il catalogo Le tre vite del papiro di Artemidoro. Ma chissà quante altre ancora gliene attribuiranno i contemporanei. La prima pubblicazione parziale del papiro fu curata da Claudio Gallazzi e Barbel Kramer sulla blasonata rivista Archiv für Papyrusforschung nel 1998. Tanto per capirci, una specie di bibbia dei papirologi.
In attesa che esca l’edizione critica completa, Canfora, dopo svariati libri scritti sull’argomento (Laterza, Edizioni di Pagina, Rizzoli, Stilos), mostra di avere sempre nuove frecce nel suo arco da scagliare contro gli esponenti del partito dell’autenticità. Primo fra tutti quel Salvatore Settis con cui il filologo barese ha da tempo intrecciato un duello rusticano a distanza. (s. f. lat.)
*Corriere del Mezzogiorno, 12.06.2011
Canfora e la prova finale sul falso storico del papiro di Artemidoro
DI ARISTIDE M ALNATI (Avvenire, 31.07.2009)
Prove dirimenti e di estremo peso scientifico si aggiungono a elementi già incontrovertibili a provare con una sicurezza ormai inoppugnabile che il famoso papiro erroneamente attribuito al geografo ellenistico Artemidoro di Efeso (II sec. a. C.) è in realtà un falso clamoroso di epoca moderna. Ancora una volta Luciano Canfora, il primo a dubitare dell’autenticità dello scritto e a sostanziare l’intuizione iniziale con una fattualità cogente, ha trovato espressioni del testo curiose, estranee all’uso linguistico greco antico e dunque inammissibili in un autore classico: «Sono degli autentici anacronismi - fa rilevare Canfora -. Ad iniziare da ’Atlanteios phòrtos’, ’una fatica degna di Atlante’.
Ebbene si tratta di un modo di dire mai attestato nella letteratura antica o medievale, in nessuna lingua. Il primo a usarlo fu Galileo, come conferma l’Accademia della Crusca; e subito entrò nell’uso quotidiano inglese tanto che enciclopedie, stampa e persino la gente comune d’Oltremanica nel 1700 e nel 1800 dicevano: ’Atlantean labour’, ricalcando il grande scienziato italiano.
Costantino Simonidis, erudito greco del 1800, verosimilmente autore del falso Artemidoro, influenzato dall’anglismo l’ha travasato nel testo da lui creato». A irrobustire la certezza di una mano moderna dell’opera, Canfora ha rilevato ulteriori anacronismi: per esempio l’espressione «thalatta emetera», «il mare che ci appartiene», riferita al Mediterraneo: «È un ’modus dicendi’ in uso solo da Cesare, sulla base della sua politica di conquiste (’mare nostrum’, «De Bello Gallico» libro V, capitolo I) e da lì arrivata fino alle lingue moderne. Artemidoro, che ha scritto quasi un secolo prima di Cesare, avrebbe dovuto scrivere ’thalatta e kath hemas’, ’il mare che sta dalla nostra parte’ in senso geografico: una differenza sostanziale».
Come se non bastasse, a sostegno definitivo della tesi di Canfora è arrivata l’analisi della fotografia, presentata nell’edizione critica del papiro come «Konvolut», un corposo ammasso di papiri, che avrebbe costituito la maschera di una mummia antica e nel quale sarebbe stato conservato l’ampio frammento artemidoreo; il presunto «Konvolut» sarebbe poi stato restaurato e i singoli papiri separati e distesi nella loro interezza. Ebbene l’équipe della Polizia scientifica di MarcheAbruzzo, diretta da Silio Bozzi, ha dimostrato con prove ferree che si tratta di un fotomontaggio, in cui sono state assiemate foto dei singoli papiri: «L’incoerenza principale riguarda i caratteri grafici - dice Bozzi -: i caratteri del ’Konvolut’ non sono soggetti a deformazione prospettica. Mi sarei aspettato, essendo il ’Konvolut’ un insieme di superfici curve e variamente deformate, di non poter sovrapporre i suoi caratteri con gli stessi sul papiro disteso, come invece è accaduto. Inoltre il sistema di luci e ombre appare incoerente: un’ombra in particolare sembra artefatta; così come singolare è che, nello scontornamento del ’Konvolut’, esso spesso ci appaia lineare». Tutti questi risultati, decisivi per confermare l’ormai certa falsità del papiro di Artemidoro, saranno presentati in «Quaderni di Storia» n. 70 in uscita i primi di settembre.
Pochi mesi dopo l’edizione critica, Salvatore Settis torna sul controverso manoscritto
Artemidoro e «il tigre»: così nel papiro spuntò uno strano francesismo
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 2.12.2008)
Georges Clemenceau divenne capo del governo francese il 16 novembre 1917. La guerra andava piuttosto male per l’Intesa, dopo la vittoria tedesca sul fronte orientale. Ci voleva un uomo di spietata capacità operativa, e tale fu il settantaseienne leader radical-socialista assurto al vertice nel momento del pericolo. Per i suoi aspri modi, fu popolarmente detto «le tigre ». Infatti «tigre » nella lingua francese è di genere maschile, come del resto maschile è la morte in tedesco e in greco. In Italia, specie dopo Caporetto, lo stile Clemenceau suscitava ammirazione. Il nomignolo tributatogli dai francesi fu subito adottato dalla nostra stampa e tradotto, col proposito di renderlo più intimorente, al maschile: «il tigre». Forma insolita nella nostra lingua, dove è più frequente «tigrotto» e più raro, invece, il femminile «tigretta». In greco antico l’unica forma è tigris, sia femminile che maschile; d’altra parte la radice, avestica, è tigri. Nel greco medievale la situazione non cambia, mentre nel greco moderno si ha tigris per il maschile e tigri per il femminile. Ecco perché ha fatto scalpore trovare sul verso del cosiddetto «papiro di Artemidoro » (ma il vero Artemidoro non c’entra) il disegno di una maestosa tigre rampante, ritta su di un supporto roccioso e denominata, da un’imbarazzante didascalia, tigros. Una novità assoluta, quasi un francesismo.
Nell’edizione Led del cosiddetto Artemidoro (a cura di Kramer-Gallazzi- Settis-Cassio-Soldati-Adornato) veniva prospettato, con movenze stilistiche solenni, che potesse trattarsi «verosimilmente » di «uno sbaglio dell’estensore » ( sic) più che di una «forma eteroclita dell’usuale tigris ». Fortuna che non è stata sfoderata, anche per il tigre, la spericolata àncora di salvezza dei «nomi di origine popolare» o, a piacer vostro, «locale», che spesseggia nel tomo Led ogni qualvolta una didascalia crea imbarazzo.
Ad ogni modo, questa trovata relativa al tigre non figura più nel recentissimo volume einaudiano Artemidoro. Un papiro dal I secolo al XXI, di cui qui brevemente diremo. Il volume sembra destinato a mandare in soffitta l’edizione Led, uscita appena nello scorso marzo e già offerta, ad un pubblico selezionato, a metà prezzo. Riprendendo la conferenza pronunciata a Berlino al cospetto della prima copia dell’edizione Led, Salvatore Settis ha infatti dato vita ad una sorta di epitome di quanto già si leggeva nelle 630 pagine della citata edizione Led: memore forse del peso che le epitomi hanno avuto nella storia del vero Artemidoro.
L’epitome è un genere letterario minore, ma dignitoso e altruista. Marciano, ad esempio, nel fare dopo cinque secoli l’epitome di Artemidoro, addirittura annullò se stesso, e fece circolare l’epitome senz’altro sotto il nome di Artemidoro. (Nel caso einaudiano, invece, sembra essere accaduto il contrario). L’epitome è anche un genere che non impone l’aggiornamento: deve rispecchiare il già detto. Ecco perché qui, nel novissimo volumetto einaudiano, non ci si è presi la briga di discutere quanto è stato scritto prima, durante e dopo l’edizione Led, sullo stesso argomento. C’è solo un elenco di titoli nel Post-scriptum. Meno male: così, almeno, il lettore può andarsi comunque ad informare su come stanno realmente le cose.
Rarissime le innovazioni rispetto al tomo di marzo: vediamo di che si tratta. Per tamponare il disastro rappresentato dal toponimo Obleuion (colonna V) era stata suscitata in luglio, su di un quotidiano, l’ipotesi che tale toponimo fosse nientemeno che «celtico». Si sa quanto si può cavare dai sostrati, specie se celtici. La trovata viene ora accolta nel novissimo volume einaudiano, e propinata in modo personale: avremmo, nel papiro, che tutto sommato è scritto in greco, «la forma latina del nome celtico ( Oblivio) ». L’idea è fantastica. I Celti, forse una pattuglia post-hallstattiana spintasi verso nord, avevano creato il toponimo Obleuion; i Romani lo imitarono e, vedi fortuna, imbroccarono, ciò facendo, una parola latina, oblivio, che peraltro aveva una sua propria autosufficiente origine (radice lei, che si ritrova in lino/levis etc.). Un vero miracolo. Più saggiamente Bärbel e Johannes Kramer scrivevano, neanche dodici mesi fa, che Obleuion «no es otro que la grafia griega de la palabra latina» ( Memorias de Clio, n. 5, 2007, p. 86).
Un’altra innovazione è, alla pagina 13, la foto di un grosso pezzo del papiro, addotto a testimoniare «le fasi dello smontaggio». Il bello è che quella foto, con altre quattro o cinque, la posseggo anch’io: mi giunse da un papirologo che la ebbe quando il cosiddetto Artemidoro giaceva, in grossi pezzi già distesi, in un box fuori Basilea in attesa di compratori. Ricordiamo che alcuni mesi addietro si parlava di almeno cinquanta piccoli frammenti risultati dallo smontaggio della «maschera» e sapientemente ricomposti col sudore della fronte. Come potrebbe lo smontaggio della «maschera» aver prodotto un pezzo così grande e in così buone condizioni? Il problema è che quanto scritto da Luigi Vigna sui Quaderni di storia (n. 68) e poi sul Giornale dell’arte di novembre in merito al totale silenzio degli editori sulle fasi di smontaggio dell’ex maschera funeraria da cui sarebbe sbucato fuori il cosiddetto Artemidoro costituisce un serissimo problema. È questo che induce a cercare rimedi peggiori del male.
Inutile dire che l’insormontabile inconciliabilità, da tempo e reiteratamente segnalata, tra la colonna IV del cosiddetto Artemidoro ed il già noto frammento 21 sussiste più che mai. Infatti nella colonna IV si legge, in contrasto con la realtà storica, che la provincia romana detta Spagna Ulteriore comprenderebbe (nell’anno 100 a.C.!) «tutta quanta la Lusitania», mentre invece, ben più correttamente, nel frammento si legge che quella provincia «si estende fino alla Lusitania». A lungo Kramer-Gallazzi-Settis sostennero che i due testi sono identici; ora invece riconoscono che sono diversi ( deo gratias) e che però, proprio perciò, il papiro può indisturbatamente essere Artemidoro mentre si deve ammettere (evviva) che il frammento è Marciano. Piroetta tragica. In questo modo finisce che l’autore dice una sciocchezza, mentre chi lo riassume dice il giusto. L’escamotage supremo, consistente nel dire che lì «Lusitania» è detto in senso «non amministrativo», è rovinoso, giacché la nozione «non ammini-strativa » ma geografica di Lusitania è molto più vasta, e di conseguenza l’inclusione di «tutta quanta la Lusitania» nella provincia romana già nel 100 a.C. diventa più che mai un’insostenibile assurdità.
Maas diceva che basta un solo argomento, purché forte. Noi non vorremmo essere così severi. Ci limitiamo a dire che l’eroica e vana difesa dell’«autenticità » del cosiddetto Artemidoro sta diventando un genere letterario. E questo parla da sé: per un papiro appena nato è proprio una sorte ria.
Sulla rivista «Storia dell’arte» Maurizio Calvesi conferma la tesi di Luciano Canfora
Artemidoro? Sembra proprio Dürer
Il papiro porta al falsario Simonidis, che s’ispirò all’artista tedesco
di Maurizio Calvesi (Corriere della Sera, 22.09.2008)
Lo sguardo dello storico dell’arte può aggiungere, all’esame «interno» del papiro di Artemidoro, qualche osservazione sul segno, che appare uniforme in alcune delle figure, nonché nella mappa. Si veda come il tratto ondulato e sottile dei fiumi si ripeta nella chioma del sapiente che è stampato di profilo nell’agraphon, davanti alla colonna di apertura. Almeno le due figure dell’agraphon sembrano della stessa mano della mappa (ovvero di quella di Simonidis).
Allievo di un allievo di David fu quest’ultimo, che è certamente l’autore del testo. Ma egli era, per l’appunto, anche un artista. Che il suo maggiore maestro sia stato alla scuola di David, lo ha lasciato scritto Callinico Jeromonaco nella notizia biografica posta al principio dei Symmiga (Mosca 1853).
La figura più grintosa del papiro è senza dubbio la testa posta di profilo di fronte alla prima colonna, in basso: lo sguardo fermo, il naso rincagnato nel primo tratto e poi sporgente, la bocca stretta, i capelli come anche la ruga della fronte e il sopracciglio delineati con un tratto più leggero, la barba riconfusa con i capelli, e presentata con tratti anche orizzontali. Questa strana barba, pettinata lungo la gota in direzione della nuca, è un elemento classico che possiamo trovare nella scultura romana (si veda il Pugile delle Terme, nel Museo Nazionale Romano) come nei disegni neo-classici, proprio di David, tenendo anche presente il gusto del maestro per i profili dell’antico; ma nel complesso a me sembra che l’impronta severa della figura richiami soprattutto Dürer, come potrebbe suggerire un confronto con la testa di Nicodemo nel Compianto di Monaco, Alte Pinakothek, o anche con alcune delle teste barbute che così frequentemente compaiono nella grafica düreriana.
Ancora nel recto, lemani e i piedi sono disposti con regolarità secondo un gusto accademico (non già «alla rinfusa» come vorrebbe Settis): quattro mani ordinate a losanga, la losanga che penetra nel triangolo formato dai tre piedi sottostanti. Il motivo delle mani ha un buon riscontro, nel libro di Canfora Il papiro di Artemidoro, con una tavola dell’Enciclopédie. Tuttavia il più famoso esempio di una composizione di quattro mani è quello visibile al centro del Gesù tra i dottori di Dürer (in collezione Thyssen) dove le quattro mani formano un quadrato e non una losanga, ma possono indurre l’imitatore a riprodurre un disegno geometrico e centrale formato da due mani sinistre e due destre, come nel papiro. È un motivo celebre che ha sedotto più pittori, anche della nostra stagione: una mano sinistra e una destra, una sinistra e una destra. E che una delle mani di Simonidis sia ricalcata - come propone puntualmente Canfora - da Raffaello, con il medio e l’anulare congiunti, il pollice aperto, e le fossette laddove la mano è più paffuta, è una conferma dell’attenzione accademica di Simonidis ai grandi maestri del Rinascimento.
Ma l’interesse per Dürer sembra decisamente confermato da un’altra figurazione del verso. Un cervo assale un lupo che gli punta contro le zampe come rattrappite. Canfora ha scovato un eccellente confronto con il centauro che assale un lupo nella Uranographia di Hevelius. Si tratta di una mappa delle costellazioni, che Simonidis - segnalo - può aver osservato anche in altre versioni, come quella, bellissima, di Andreas Cellarius (Keller) verso il 1660, dove il lupus prende il nome di fera, o in altre e forse soprattutto nel suo prototipo che risale proprio a Dürer, a una sua incisione dello stesso soggetto in cui il gruppo ( centaurus contro fera) assume una fisionomia altrettanto prossima all’immagine del papiro: è verosimile che proprio da qui Simonidis abbia attinto. Sostituita la testa del cervo a quella del centauro, la figura (dunque notissima) si è adattata pienamente alla fantasia del falsario.
Piccole glosse: l’elefante è detto «sterile» in Artemidoro-Simonidis. «Apprendiamo dalla didascalia che l’elefante che combatte con il serpente - scrive Stefano Micunco nel libro di Canfora - sarebbe steiros, sterile. L’unico possibile raffronto è con il testo del Physiologus, il quale afferma che l’elefante "non ha naturale desiderio di unione sessuale"».
È possibile aggiungere che una frase simile è reperibile anche nel Bestiaire di Philippe de Thaün (che del resto riprende dal Physiologus): l’elefante «non procrea spesso»; e nel Bestiaire di Gervaise: «Non si accoppia mai con la sua compagna se non ha deciso di generare». E veniamo alla mappa: «una carta geografica - l’unica del genere che si sia conservata dall’antichità»; «sarebbe in ogni caso l’unica mappa antica pervenuta, e per di più tramandata sullo stesso rotolo che conteneva il testo geografico. Ciò che non è ad oggi documentato né da altre testimonianze pervenuteci, né dalle fonti antiche. Le quali anzi informano che le mappe geografiche erano di norma riportate su supporti materiali autonomi »; «una fantasiosa mappa piena di impressionistiche vignette adattabili a qualunque parte del mondo fornita di fiumi». Forse la carta è di pura invenzione.
Se cerchiamo, nel disegno dei fiumi, qualcosa di vicino al tratto sottile e leggero, delicatamente ondulato, con cui i fiumi sono segnati nella mappa del papiro, potremmo guardare alla cartografia del Kircher. Qui ricorre frequentemente, per quel che può valere, anche quella biforcazione finale del segno- fiume che indica un delta e trova riscontri nella carta dell’Artemidoro simonideo. Kircher poteva essere un autore ben conosciuto da Simonidis, che era interessato ai geroglifici.
La polemica sul documento di Artemidoro
Un papiro di pieno Ottocento
Una serie di valutazioni storico-artistiche avvalorano la tesi secondo la quale quel reperto sarebbe un falso
Perplessità destano l’impaginazione per frammenti e lo scarto fra gli stili di alcune teste, stranamente presenti nella stessa bottega
Alcuni disegni rivelano un timbro arcaizzante (non arcaico) sulla scia di una ricerca neoprimitiva condotta fra diciottesimo e diciannovesimo secolo
di Anna Ottani Cavina (la Repubblica, 11.06.2008)
Sul papiro di Artemidoro si è tenuta poche settimane fa a Bologna, nelle sale dell’Archiginnasio, una discussione serrata, rigorosa, avvincente, sui temi e sul metodo. Lontana dagli antagonismi che i giornali hanno enfatizzato nella sfida fra i duellanti (noti ormai anche al grande pubblico, Salvatore Settis e Luciano Canfora), la disputa ha coinvolto archeologi classici, egittologi, storici, filologi, storici dell’arte.
Sembrava un’università d’altri tempi, studenti attentissimi e conquistati, docenti impegnati a riflettere e a farsi capire, sullo sfondo di una philological fiction (l’affondo è di Carlo Ginzburg) che presenta alcuni nodi difficili, all’incrocio di varie discipline.
C’era un varco per intervenire sul versante delle immagini, fino ad ora toccato soltanto di striscio da un’analisi che ha privilegiato il testo, la lingua, le mappe geografiche, il cartonnage. Le considerazioni che ho esposto in quella occasione avrebbero bisogno di spazi più ampi e sfumati. Servono comunque ad allargare il campo della discussione. Vertono sui disegni del recto, vale a dire sugli studi (pochissimi) di mani, di teste, di piedi presentati come «veri e propri esercizi di apprendistato eseguiti all’interno di una bottega» e datati al primo secolo d. C. in quella che viene raccontata come «la terza vita del papiro di Artemidoro» nell’Egitto greco-romano.
Dalla campionatura dei pochi disegni interposti nel testo emergono alcuni dati oggettivi, in primo luogo la qualità modesta degli studi, approssimati nella definizione anatomica (le mani), ridondanti, pieni di manierismi. Presentati nel catalogo di Torino come «disegni di squisita fattura», sono stati più tardi declassati (Settis, la Repubblica, 13 marzo) pur attribuendo loro un ruolo fondante per la conoscenza della grafica antica, di cui «non esistono confronti coevi rappresentativi» e nemmeno «riferimenti e informazioni nelle fonti letterarie» (pag. 473 della lussuosa edizione del Papiro appena pubblicata, 2008).
Risultano tuttavia sconcertanti sia l’impaginazione per frammenti (disegnati entro uno spazio libero, secondo tipologie che si codificano molto più tardi, come prova il confronto con le tavole settecentesche dell’Encyclopédie) che l’incongruità di alcuni gesti, difficilmente riconducibili alla gestualità classica.
Altro elemento di perplessità è lo scarto fra disegni descrittivi e veristi (quale la testa indicata come R2) e disegni abbreviati e di sintesi (la testa R 20): due stili diversi, lontani nei tempi e nei modi, stranamente presenti nello stesso momento e nella stessa bottega. La contiguità di due stili (che attestano due culture, due forme di pensiero antitetiche prima ancora che due diverse soluzioni espressive) mette in crisi l’idea di esercitazioni condotte dalla stessa bottega su calchi di statue che, in un medesimo ambito, sarebbero state percepite in maniera tanto difforme.
È questo rapporto fra i disegni e la statuaria classica il punto debole di un ragionamento che a me pare discutibile negli accostamenti, in gran parte fisionomici, che gli autori del volume propongono con raffigurazioni antiche di Metrodoro, Epicuro, Saturno, Apollo ecc. Sarà che, in tema di immagini, io frequento altri mondi e ho negli occhi il repertorio di secoli molto diversi, la tentazione è di introdurre una prospettiva per così dire capovolta. La percezione dell’antichità, nelle teste disegnate sul papiro, rivela a mio parere un timbro arcaizzante (non arcaico) sulla scia di una ricerca neoprimitiva che dalla fine del Settecento percorre gran parte dell’Ottocento.
Fatte le debite proporzioni (perché le teste disegnate sul papiro sono infinitamente meno intelligenti e geniali), l’idea è quella di risalire agli archetipi, alle forme primarie dei prototipi classici. Una sorta di regressione alla ricerca di forme originarie che John Flaxman ad esempio attinge attraverso un processo altamente intellettuale, la cui suggestione persiste negli esercizi pedanti e banali che si vedono sul papiro.
L’ipotesi di una datazione molto più tarda di questi disegni, in pieno Ottocento, sarebbe confermata, a mio parere, anche da quella testa di profilo, anomala e accattivante, più vicina alla sensibilità moderna (R 20), chiusa da un segno compendiario e deciso (la linea della fronte e del naso) e da un contorno falcato (nella definizione della parte inferiore del volto) che richiama quel modo di trascrivere la realtà, in termini stilizzati e antinaturalistici, che avvicina il purismo di Ingres all’estetismo di Gustave Moreau e dei Preraffaelliti (non c’è lo spazio per produrre le immagini).
Che cosa vorrei dire in realtà? Che, se si tratta di un falso, lo si può facilmente datare in base a quegli elementi contemporanei che, come si sa, il falsario inevitabilmente ingloba e che, a distanza di anni, emergono con maggiore evidenza. Elementi che si leggono senza difficoltà, perché le lacune del papiro non compromettono la comprensione dell’immagine, colpita parrebbe da bombe intelligenti che girano intorno agli studi di teste (si è perduto - non è grave - un ricciolo, il lobo di un orecchio), senza mai centrare il cuore del disegno. Esattamente come accade alle righe del testo greco, che corrono talvolta intorno ai buchi del papiro secondo quella che è una prova classica di falsificazione (Canfora).
Si avverte una difficoltà, espressa da molti archeologi, a inserire nel puzzle del mondo antico un unicum che sconvolgerebbe la conoscenza dei suoi metodi di produzione artistica. È possibile volgere in positivo questo disagio. Procedendo per analogie piuttosto che per confronti letterali, a me sembra che la cultura dell’Ottocento (messa in campo anche da altri studiosi che contestano l’autenticità del papiro da versanti diversi) possa dare una risposta plausibile. Almeno fino a quando «il buco nero» (Settis) del disegno antico non sarà colmato da ritrovamenti compatibili.
Domani un convegno a Roma. Molti studiosi concordano sull’autenticità
Ma quante falsità sul papiro di Artemidoro
Accertato che si tratta di un’opera del I secolo d.C., la ricerca ora si divide su altre questioni Sulla carta geografica e sul fatto che i disegni siano o no di bottega
di Salvatore Settis (la Repubblica, 26.11.2009)
Domani presso la Società Geografica Italiana si svolge il convegno «Geografia e Cartografia nel Papiro di Artemidoro», le cui conclusioni sono affidate a scienza e media, tema inesauribile. I giornali devono informare i lettori su temi di ricerca, ma come? "Semplificando", ma fino a che punto? Nel suo piccolo, l’Italia offre un esempio interessante. Luciano Canfora, autore di decine di libri e migliaia di articoli di giornale, si è convinto che il Papiro di Artemidoro (con testi e disegni del I secolo d.C.) sia opera di un falsario ottocentesco, tal Simonidis. Al tema ha dedicato cinque libri (un altro è in arrivo) e sette "puntate" (finora) di un romanzo-fiume sulla propria rivista, per oltre duemila pagine.
Da questo mare magnum germogliano decine di articoli sui giornali. Intanto, dopo le mostre a Torino, Berlino e Monaco (300.000 visitatori) e l’edizione critica (LED, 2008), gli studi sul tema si infittiscono, ma lo spazio mediatico è occupato quasi per intero da Canfora (su Repubblica del 22 settembre 2006 ho spiegato perché sui giornali non avrei risposto).
Questo martellamento ha avuto il curioso effetto di creare una doppia verità. Da un lato, le sofisticate ricerche sul Papiro, col loro linguaggio inaccessibile; dall’altro, nei media (solo in Italia) una vulgata che, poiché sui giornali nessuno "risponde", prende baldanza, canta vittoria. Miti ragionieri e affaccendati notai sono chiamati a giudicare su paleografia e archeologia, e sulla base solo di articoli di giornale. Se poi un addetto ai controlli aereoportuali sposa la sua teoria, Canfora ne esulta sull’ospitale Corriere (30 giugno 2009). Insomma, il battage mediatico dovrebbe fare del Papiro un falso a furor di popolo.
Questa vulgata ha tre punti principali. Primo, la sola cosa del Papiro che meriti discutere è se sia falso o autentico. Secondo, la partita è chiusa, le "prove" della falsità sono ormai "definitive" (Libero, 6 novembre). Terzo, si tratta di un duello fra Canfora e me. Nessuna di queste tre affermazioni è vera: saranno "semplificazioni", ma danno di fatto false informazioni. Ripercorriamole in ordine inverso. Non sono il solo responsabile dell’edizione del Papiro; vi hanno anzi lavorato molto più di me tre papirologi, (B. Kramer, C. Gallazzi e A. Soldati), un filologo classico (A. Cassio), un altro archeologo (G. Adornato), laboratori di analisi fisica e chimica.
Nella molta bibliografia sul Papiro, solo R. Janko ha dato ragione a Canfora, ricopiandone gli argomenti senza troppa fantasia. Per tutti gli altri, «nessun serio dubbio è possibile sull’autenticità» (W. Luppe su Gnomon). Secondo P. van Minnen (Bulletin of the American Society of Papyrologists), solo «some Italian "political" reason» può spiegare la posizione di Canfora. C. Lucarini (Londra) ha confutato gli argomenti di Canfora in Philologus, e prepara un’edizione di Artemidoro per la gloriosa Bibliotheca Teubneriana; B. Bravo (Varsavia) e I. Pajón (Madrid) ne hanno scritto nella Zeitschrift für Papyrologie.
In questi giorni, tre libri tornano sul tema. Images and Texts on the Artemidorus Papyrus (ed. Steiner) contiene gli atti di un seminario di Oxford: tutti gli autori, tranne Canfora, si pronunciano per l’autenticità: così M. West (che trova l’argomentare di Canfora disingenuous, disonesto), così P. Parsons, D. Obbink, R. Talbert, J. Elsner, G. Nisbet e M. Billerbeck; N. Wilson esprime qualche dubbio paleografico, subito fugato da Parsons. Il secondo libro in uscita, Intorno al Papiro di Artemidoro. Contesto, lingua e stile (ed. LED) contiene molte risposte a Canfora (a firma Gallazzi-Kramer), ma anche contributi di Cassio, Soldati, Parsons e Lucarini, e di altri studiosi illustri come J. Hammerstaedt, S. Colvin, D. Sedley, F. Montanari. Tutti convinti della genuinità del papiro.
Tutto a posto, dunque? Noi, editori del Papiro, abbiamo ragione in tutto e per tutto? No. Molti di questi studi non sono d’accordo con le nostre proposte, anzi le criticano severamente. Per esempio, Nisbet propone di "montare" i frammenti del Papiro in ordine diverso, e G. B. D’Alessio ha trovato in tal senso prove importanti, col risultato che Canfora lo ha iscritto d’ufficio al proprio partito (Corriere, 29 aprile), e D’Alessio ha dovuto smentire (simile disavventura è toccata ad Hammerstaedt). Più d’uno dubita che il Papiro, pur essendo del I secolo d.C., contenga un testo di Artemidoro, o pensa che a lui ne vada attribuita solo una parte. Alcuni ritengono che i disegni di animali non siano un "repertorio di bottega" (come abbiamo proposto), ma un prontuario per un trattato zoologico.
Grande disaccordo c’è sulla carta geografica del Papiro: nessuno sa davvero che cosa rappresenti, né come mai è non-finita, né se illustra il testo lì accanto. Con queste e cento altre domande (per non dire delle proposte di correzione del testo o dell’interpretazione), l’edizione del Papiro viene messa in discussione quasi a ogni pagina. Il dibattito scientifico sul Papiro non si svolge intorno alla sua genuinità (come vuole il pensiero unico di Canfora), ma su ben altri temi.
Su Geografia e cartografia nel Papiro di Artemidoro la Società Geografica Italiana ha organizzato un convegno. Discuteranno storici della geografia, linguisti e filologi, esperti dell’Iberia antica (di cui parla il Papiro), specialisti di Strabone e Tolomeo. Studiosi di sette Paesi (Prontera, Talbert, Pontani, Moret, García Bellido, Motta, Valerio, Marcotte, Guerra, Engels, Mittenhuber) si misureranno con le complessità di questo affascinante documento di età classica. Senza trionfalismi, senza "vittorie" in insussistenti "duelli", senza affigger proclami proveremo a capire qualche piccola cosa in più. Sarà solo qualche novità "da specialisti", o varrà la pena di raccontarla a un pubblico più vasto? È ancora presto per dirlo.
Canfora sul Papiro: è un falso
Tutti quei silenzi su Atemidoro
Viene taciuta anche la dimostrazione degli specialisti mai confutata del falso fotografico
di Luciano Canfora (la Repubblica, 30.11.2009)
Dal Simonidis! Questa è la più divertente uscita che ci si potesse aspettare, parlando dello pseudo-Artemidoro. Anche se chi si esprime così (su Repubblica del 26 novembre) dichiara di non essere un papirologo (ed effettivamente ciò è vero), resta il fatto che persone del calibro di Droysen, Burckhardt e Wilamowitz - per fare solo qualche nome - hanno parlato del greco falsario Simonidis come di uno dei maggiori "pericoli" in giro per l’Europa dell’Ottocento, e che Simonidis godette dell’appoggio di un critico forse non da poco come Sainte-Beuve. Peraltro, nei lavori che Settis troppo generosamente definisce miei "romanzi", abbiamo in questi anni documentato il grande rilievo, l’infaticabile lavoro e la duratura sopravvivenza dei «capolavori» su papiro disseminati da Simonidis come falsario. Ben prima di noi la sua figura era stata richiamata in un altro volume dal suggestivo incipit «Attenzione, i falsari sono tutt’ora all’opera»: nel volume posto in circolazione dalla Biblioteca Nazionale di Vienna in occasione del Congresso di Papirologia del 2001.
Le vicende di cui Simonidis fu a lungo protagonista anche dopo la simulata "morte" sono invero molto istruttive. E anche calzanti per il caso Artemidoro: autore al quale Simonidis dedicò molte cure, come sarà ben presto chiaro. Ricorderemo solo una vicenda: lo smascheramento del falso Palefato, paradossografo greco. Anche in questo caso Simonidis prese come base un testo già noto (la prefazione, tanto per cambiare, ed un estratto dalle pagine finali). Anche in questo caso il testo fatto giungere ad uno studioso italiano, bravo ma ingenuo, fu subito preso per buono. Girolamo Vitelli sollevò dubbi. Notò che due congetture moderne si ritrovavano nel papiro. E disse: «Sospetto una fabbricazione di Simonidis». Ciononostante, persino Giorgio Pasquali negò che i dubbi di Vitelli fossero fondati, e volle dirlo in un paio di pagine della Storia della tradizione (1934, invariata nel 1952). Invece Vitelli aveva perfettamente ragione. Sarebbe bastato cercare in un libro di Simonidis (Quattro trattati teologici, Londra 1863) per trovarvi pubblicata una lettera del celebre bibliofilo e collezionista Phillipps, uno dei principali acquirenti dei capolavori di Simonidis, in cui Phillipps rammemora a Simonidis di avergli offerto, tra l’altro, Palefato! Qualcosa di molto simile sarà tra breve documentato a proposito del cosiddetto «papiro di Artemidoro».
Anzi dello pseudo-Artemidoro. Usiamo ormai serenamente questa espressione, confortati proprio da quanto scrive Settis: parti del breve testo - egli ammette - è lecito pensare che non abbiano a che fare con Artemidoro! Egli ricorderà del resto che, in risposta al suo un po’ affrettato saggio pubblicato su la Repubblica il 16 settembre 2006, osservammo, e lo abbiamo replicato molte volte in molte sedi, che il principale problema è che «quel testo non è Artemidoro», bensì un prodotto più tardo, e che però il falsario entra in scena di necessità se ci ostina a dire che supporto, inchiostro e scrittura risalgono al I secolo. Insomma: benvenuto tra i dubbiosi.
Tanto più perciò appare curiosa la sua trovata retorica di accumulare, tra varie imprecisioni, una lista di nomi intesa a dimostrare che il papiro è buono, anche se magari non è più, almeno in parte, Artemidoro. Ma non è male ricordare che il teorema di Pitagora o le diagnosi mediche, matematiche etc. non si decidono a maggioranza e nemmeno invocando l’apporto dei notai e dei ragionieri, a torto malvisti dal Settis.
Curioso è anche che in tale lista appaiono singolari scivolamenti. Per esempio Margarethe Billerbeck, che ha scritto e riscritto il suo pensiero, viene "spostata di campo". Nigel Wilson, una vera autorità nel campo della paleografia e filologia greca, viene declassato a promotore di «qualche dubbio», sebbene abbia parlato chiaramente e autorevolmente di falsario, lasciando aperta la questione se sia Simonidis o altri. Il papirologo di Ann Arbor Richard Janko, che ha portato un contributo originale e del tutto autonomo alla dimostrazione che l’autore è Simonidis, viene declassato a ripetitore delle mie tesi. E si potrebbe continuare. Né par corretto "arruolare" il papirologo Van Minnen tra i fedeli visto che, sempre che si abbia la pazienza e il buon gusto di leggerlo, egli solleva sullo pseudo-Artemidoro pesanti dubbi.
Ma sorprende una serie di silenzi, nell’altalenante intervento del Settis. Viene taciuta la dimostrazione inoppugnabile e mai confutata, addotta da specialisti nel campo del falso fotografico, che la foto esibita in extremis e ben stranamente assente dal Catalogo Tre vite - il famigerato Konvolut, ex «maschera», ex «riempitivo di oggetto sconosciuto» etc. - è un fotomontaggio! Sappiamo quanto sia stato imbarazzante apprendere ciò. Ma la vera domanda è: perché si è sentito il bisogno di «ridursi a tale» per dirla con Leopardi? E perché piroettare intorno a dati fattuali quali la presenza di grafite (cioè di un prodotto post-medievale) nell’inchiostro del papiro? O dimenticare la imbarazzante presenza ad litteram dei primi righi della Geografia di Carl Ritter (1835) nei primi righi dello pseudo-Artemidoro? Insomma non rispondere a quesiti e contestazioni basilari e invece continuare a parlar d’altro non è buon metodo.
Quel giorno in cui scrissi che Canfora aveva ragione
di Anna Ottani Cavina (la Repubblica, 12.12.2018)
Un papiro colpito da "bombe intelligenti". Rovinato sì, ma con elementi che si leggono senza difficoltà, perché le lacune non compromettono la comprensione dell’immagine, girano senza mai centrare il cuore del disegno. Lo stesso accade alle righe del testo greco, che corrono talvolta intorno ai buchi del papiro secondo quella che è una prova classica di falsificazione, come - prima di tutti - con la sola forza dell’analisi filologica, stabilì Luciano Canfora.
Così mi appariva il Papiro di Artemidoro, la cui autenticità divenne oggetto di una battaglia culturale, combattuta nelle sale delle università. Ma anche sulle pagine dei principali quotidiani nazionali, che enfatizzarono la sfida tra i "duellanti" Canfora e Salvatore Settis, a favore della datazione antica. Su Repubblica intervenni il 6 novembre 2008, dieci anni fa, in seguito a una discussione rigorosa e avvincente che qualche settimana prima a Bologna, nelle sale dell’Archiginnasio aveva coinvolto archeologi classici, egittologi, storici, filologi, storici dell’arte.
Sembrava un’università d’altri tempi con gli studenti attentissimi e conquistati e docenti impegnati a riflettere e a farsi capire. Come allora cercavo di spiegare, sulla base della mia esperienza, quella di chi frequenta mondi e secoli molto diversi, quei disegni mi sembravano figli di una cultura visiva post-Ingres con un timbro arcaizzante e non arcaico, che rimandava a una ricerca neoprimitiva che dalla fine del Settecento percorre gran parte dell’Ottocento. In quel manoscritto, la trascrizione della realtà, nonostante la qualità relativa dei disegni era vicina all’estetismo dei preraffaelliti e di Gustave Moreau. In altre parole, il rapporto troppo debole tra queste immagini e la statuaria antica risultava sospetto. Nel puzzle del mondo antico, questi disegni sarebbero stati un unicum che avrebbe scompaginato la conoscenza dei metodi di produzione artistica. Anche l’impaginazione per frammenti disegnati in uno spazio libero, secondo una tipologia più moderna codificata dalle tavole dell’Encyclopédie, andava in questa medesima direzione.
«Non esistono confronti coevi rappresentativi» ammetteva d’altronde Salvatore Settis. Anche i disegni dunque, che pure sono un fatto marginale rispetto ai rilievi condotti sul testo, la lingua, le mappe geografiche, il cartonnage, confermavano quella "lettura" documentata e a tutto campo che del Papiro di Artemidoro aveva da subito proposto la competenza di Luciano Canfora.