di Roberto Andreotti (Il manifesto/Alias, n. 23 del 10.06.2006)
Dopo oltre vent’anni, un’occasione per riprendere in mano il "Sistema della moda" (1967), alloggiato naturalmente non accanto a George Simmel e alle enciclopedie dell’abbigliamento, e neanche nel reparto psicopatologico e feticistico de "Il corpo incompiuto" di Bernard Rudofsky o della "Métaphysique du strip-tease" di Denys Chevalier, ma nello scaffale, miscellaneo, «Roland Barthes». La terza edizione italiana Einaudi (1977), col quadrato blu «Paperbacks», la ritrovo cicatrizzata di sottolineature dai diversi colori, freccette, schemini, annotazioni a margine, spie di accensioni di lettura e incomprensioni, come si faceva sempre con Barthes, per memorizzare i passaggi decisivi delle dimostrazioni raffreddando eventualmente le incandescenze stilistiche, e anche per familiarizzare con una certa terminologia. Dei libri di Barthes, via via sgranati soprattutto nella traduzione di Lidia Lonzi, che penetravano come gas leggeri e stordenti nei seminari di facoltà, il "Sistema" è stato da sùbito il più perseguitato, come un’ingombrante macchina celibe difesa e amata solo da chi vi sentiva cantare il motore strutturalista, anche quando girava in folle. In fondo quella messa a punto cerimoniale e strategica della semiologia `saussuriana’ di Barthes si prestava a essere accantonata con simmetrico capo d’accusa: spropositato l’allestimento di mezzi intellettuali, per un oggetto in fondo sfuggente. Scriveva Barthes in premessa: «questo libro è un libro di metodo». È il punto. Un «metodo ispirato dalla scienza generale dei Segni, che Saussure aveva postulato sotto il nome di semiologia». Oggetto della ricerca, «l’analisi strutturale dell’indumento femminile quale oggi [cioè allora] è descritto dalle riviste di moda», «Vogue», «Elle», «L’Echo de la Mode», «Jardin des Modes», ecc. Poi, abbastanza presto, una precisazione che ora staglia bene quel frenetico alternarsi di messe a punto di statuto, negli annali dello strutturalismo: osserva Barthes che questo suo lavoro «non sulla Moda reale ma sulla Moda scritta» o «descritta» nelle riviste femminili (didascalie, non foto!) si era svolto in realtà qualche anno prima, tra il ’57 e il ’63 (cioè dopo l’uscita in volume delle Mythologies); e adesso che vedeva la luce appariva già superato, al punto da generare l’icastica excusatio, molto citata, di «una sorta di vetrata un po’ ingenua», in cui lèggere «non le certezze di una dottrina ...ma piuttosto le credenze, le tentazioni, le prove di un apprendistato». Già troppo saussuriana e rigida l’illusione di ricostruire i sistemi dei discorsi sociali (moda, letteratura, spettacolo)? Oggi intravvediamo il precoce tramonto d’autore del Sistema della Moda nel catalogo delle restrizioni a monte: «In un primo momento - spiegherà successivamente Barthes - avevo pensato di elaborare una socio-semiologia del Vestito nel suo complesso... poi, sulla base di un’osservazione privata di Lévi-Strauss, ho deciso di omogeneizzare il corpus e di attenermi al vestito scritto». È l’esito di un meraviglioso dispendio protocollare, che merita di essere almeno ricordato: delimitare bene il campo, attraversarlo, tagliarlo, attrezzarlo, per poi finalmente girare la chiave del programma... Questo ruminare metalinguistico cioè, dentro il libro e anche fuori, nelle dichiarazioni coeve, con tutto il meticoloso lavoro protocollare durato anni: fuochi e filosofia di Francia, e di un «io critico» esposto soggettivamente come prima nessuno. A riprendere il mattone iperstrutturalista di Barthes induce la fresca uscita nella Pbe argento, a cura di Gianfranco Marrone, de "Il senso della moda - Forme e significati dell’abbigliamento (Einaudi, pp. XXVII-147, € 15,50), che del "Sistema" costituisce anzitutto i prolegòmeni, e indirettamente anche una sorta di commento genealogico. Vi troviamo allestiti una ventina di testi tra saggi e articoli pubblicati a partire dal 1957, inclusi a valle tre interviste all’autore dopo l’uscita del "Sistema" in Francia (1967, abbiamo detto), e una manciata di excerpta di argomento affine da opere maggiori, come lo stesso "Sistema", i "Frammenti di un discorso amoroso", il "Sade". Domanda: non risulta troppo `rotonda’, per Barthes, una compilazione del genere? Va sùbito dichiarato che questo organismo postumo, gradevole come il biscotto che scatena la memoria, è in realtà un ready-made, persino nel titolo (evidentemente non di R.B.): cioè una costola estratta pari pari dagli "Scritti" che lo stesso Marrone riunì nel ’98, sempre per Einaudi; e basterà una semplice collazione a svelarci che la costola è stata un po’ rimpinguata, ad esempio con l’annessione di uno scritto sugli hippies e le citate interviste (uscite a suo tempo ne "La grana della voce"), per cui l’unico inedito sono le due paginette su "La calza e l’idea" (ma ormai ce la sogniamo, la seduzione del nylon anni sessanta). Le ragioni di questo patchwork a tema appaiono dunque poco chiare, infatti qualcuno ha già invocato una ristampa del "Sistema" (l’ultima, credo, risale al ’91) e chissà se non seguiranno a breve altre costate: la bestia è grossa. Sarà per via della nuova disastrosa linea leggera dell’università - che ha abbassato il livello dei libri, anche come spessore -, ma ci si chiede come mai la Einaudi non si è mai decisa ad avviare, sulla scia dei francesi (1993-’95), la pubblicazione delle opere complete di Barthes, dove decine di articoli dispersi, pietre ancora incandescenti di un’eruzione ultratrentennale, si trovano opportunamente riuniti accanto ai libri di Barthes. Non ho sottomano le indagini storiche sulla Casa, di Luisa Mangoni ed Ernesto Ferrero, ma se in un primo tempo si poteva pensare a una strategia di valorizzazione commerciale del catalogo - la flottiglia dei singoli titoli autografi dal "Grado zero" alla "Camera chiara" -, ormai le mosse dell’ultimo decennio smentiscono de facto, incentivando tra l’altro la spartizione contenutistica, per cui ci ritroviamo un Barthes teatrale da Meltemi, uno filmico dal Melangolo, e ora, appunto «tutta la moda». Veniamo allora a quest’ultimo tralcio. Si diceva del titolo: "Senso della moda" suona certo più morbido e accettabile, oggi, di «sistema», e su questa sorta di denegazione-evoluzione, cronologicamente già `alta’, nella messa a punto di una scienza dei segni, Marrone fornisce per l’ennesima volta, con chiarezza, la genesi, lo status, gli sviluppi: in estrema sintesi, lo studio barthesiano di codici, paradigmi e sistemi lascia assai presto il posto a quello di testi, sintagmi, processi. (In termini di teoria linguistica, il fattore-Benveniste prende il sopravvento, perfezionandolo, su Saussure). Alla fine degli anni cinquanta il Barthes «mitologo» affermava dunque perentoriamente, sviluppando un’intuizione del principe Trubeckoj, «la moda è linguaggio». E almeno su questo apoftegma tutto novecentesco, che in realtà è un articolato programma teorico, non sembra tramontato il sole quarant’anni dopo. Linguaggio però, occorre precisare per i più giovani, va inteso in senso strettamente «funzionale» - secondo la ormai classica distinzione strutturalista tra fonetica e fonologia; per cui, per esempio, nell’analisi del vestito, il costume `sociale’ sta alla langue come l’abbigliamento individuale sta alla parole. È un’analisi di ordine sintattico, per una «sociologia» (acquisizione storicamente rimarchevole) che «si occupi di valori oppositivi e socialmente significanti»: opposizioni, dunque, non «lessico»!Ancora. «Inventariare non immagini o tratti di costume, ma rapporti e valori», insiste Barthes: che davanti a una ridda di significanti per «romantica» - la mussolina, il pizzo, la batista, il ricamo, la rensa, l’organza, le balze, le velette e le strisce - si trova nella posizione «del linguista che fa l’inventario delle differenti marche del plurale». Più che mai oggi, retrospettivamente, molti di questi interventi appaiono preparatorii dell’opus maius, soprattutto «Storia e sociologia del vestito», uscito sulle «Annales» nel ’57, che sbaraglia il campo disciplinare con sottile, elegante violenza propositiva, mandando fuori giri `classici’ della Moda come Richardson-Kroeber, Flügel, gli Hiler. Osserva giustamente Marrone che l’importanza di questa schidionata di testi non si esaurisce nella parabolica `intorno’ al Sistema, perché in realtà essi convogliano anche varianti concettuali - per esempio una sintattica del ritmo e del successo -, sotto titoli un po’ fané come «Quest’anno è di moda il blu», «Dal gioiello al bijou», «Tempo e ritmi dell’abbigliamento»; e soprattutto «Il match Chanel- Courrèges», autentico scontro grammaticale, perché - osserva R.B. - mentre «lo chic inalterabile di Chanel ci dice che la donna ha già vissuto ... il nuovo ostinato di Courrèges ci dice che essa sta per vivere». Di fronte a questa riproposta per forza di cose spaesata, non si può rinunciare a chiedersi quale uso si possa fare dei `vari’ Barthes stratigrafici, quanto meno per un’interpretazione altrettanto stringente - cioè ribelle alla dittatura del segno, e alle convenzioni mitologiche borghesi - della Moda oggi, o meglio della moda descritta oggi. Moltissimo è cambiato, e infatti nell’introduzione Marrone raccoglie tre obiezioni alla `attualità’ della barthesiana lettura delle «pratiche vestimentarie»: 1) il ruolo innovativo e dilagante delle fotografie nelle riviste, 2) l’influenza di piccoli gruppi e individui nel dettare il guardaroba annuale all’industria produttrice e agli stilisti, 3) la cancellazione di un’idea di unicità e autoritarietà della Moda - direttamente legata al mondo e al modo dei consumi. Un avvocato di Barthes probabilmente risponderebbe senza scomporsi con un assunto d’autore non smentibile: «Impossibile pensare un oggetto culturale al di fuori del linguaggio articolato, parlato e scritto, in cui è immerso». Chissà. Ma certo persino una lettura «postuma», anch’essa inevitabilmente fané, troverà quasi intatto il valore del dispendio teorico - come intuisce per tempo lo stesso R.B. nell’intervista a Laurent Colombourg (la più intelligente delle tre) sul "Sistema della Moda": l’aver costruito in fondo «un oggetto intellettuale con nulla», montandolo proprio «sotto gli occhi del lettore». Anche a causa di questo sperpero ermeneutico, se vogliamo, possiamo ripetere col vecchio Genette che «l’etica del segno» barthesiana è stata «un atto militante di contestazione e di valutazione, il solo ricorso possibile, la sola difesa contro l’assedio dei segni». Nessuno si sognerebbe di rimettere indietro le lancette, però che dire allora della «ri-lessicalizzazione» della Moda, la riproposizione aggiornata del fantasma sociologico che Barthes aveva contribuito a sgonfiare? E gli attuali analisti, in fondo, non hanno armi spuntate, senza alcuna prensilità ideologico- formale? Quanto agli studiosi di retorica, linguistica e sociale, loro si sono ritirati: lasciando il campo ai Cultural Studies.