Massarenti, Armando,
Il LANCIO DEL NANO e altri esercizi di filosofia minima,
Introduzione di Umberto Eco,
Milano, Il Sole 24 Ore, 2007, pp. 203, E. 7.90.
Nota di Federico La Sala (30.08.2007)
Banalmente, per cominciare. La Terra gira - "il pendolo di Foucault" ce lo prova!!! - e le cose cambiano. E se talvolta o spesso tornano, tornano contro noi stessi e stesse. E non per far tornare i conti. Senza l’oste, i conti non tornano - nemmeno nel gioco del "lancio del nano"!!! Ciò che qui si lancia, che viene lanciato è solo il "se stesso".... e non per comunicare, ma per vincere, e vincere... e, ancora, a con-vincere al proprio "gioco".
L’eterno ritorno dello "stesso" è un’altra cosa - è proprio un altro gioco. E non lo si comprende e non lo si può giocare allo specchio, ma solo al di là - altrove. Dove solo può scoppiare la scintilla (Platone, VII lett.), l’"incendio" - non degli incendiarii e dei piromani (armati con "fiammiferi" di "bustine di minerva") - dei "pazzi", dei "santi" e dei "mistici", l’"illuminazione" - o l’estasi, che dir si voglia - dei ri-nati e delle ri-nate in vita!!! Che sanno di se stessi e di se stesse e del "mistero profondo" - dell’Io, e non in senso psicologico (Wittgenstein). E dei "500 millisecondi"(Benjamin Libet, Mind Time).
Così, per tutti e per nessuno, come aveva capito Nietzsche - ma non ancora il prof. Ratzinger, e purtroppo anche gli stessi Co-Autori (Armando Massarenti e Umberto Eco) del lancio del ri-lancio de "Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima" (Massarenti, Guanda, Parma 2006).
Dal "diario minimo" - via "bustina di Minerva" - alla "filosofia minima". Massarenti riconosce la maestria e il magistero di Eco e, a sua volta, Eco riconosce la maestria e la magisterialità di Massarenti e, finalmente, viene chiarita la "nanità" del sogno.
Una brillantissima introduzione (anticipata sul Sole 24 ore di domenica 26.08.2007, in una altrettanto luminosissima pagina di "Scienza e filosofia" - di cui è responsabile lo stesso Massarenti, con il titolo - "Le filosofie minime di Massarenti. Questi ’nani’ rilanciano il pensiero", accompagnata da altri sapienti interventi: "Buona divulgazione. Idee per la vita di ogni giorno"; "Un progetto per la scuola. Come motivare i ragazzi"; "Ontologia dei consumi. Passaggio al supermarket") dal titolo, appunto, "Il sogno del nano", lancia la ristampa de "Il lancio del nano" - distribuito, poi, il martedì successivo nelle edicole - e tributa "urbe et orbi" il più alto onore a se stesso, al suo Alter Eco, al teorico della "filosofia minima", a Massarenti, proponendolo così come il cavaliere dei cavalieri, il nuovo "Re Artù" dell’ ordine della "Bustina di Minerva"...
Ma qual è "il sogno del nano" o, diversamente e meglio, la "nanità" del sogno dell’uno e dell’altro sognatore?! Eccolo, in soldoni. Nelle parole dello stesso Eco, che lo riprende dal libro-"scatola dei fiammiferi" di Massarenti e lo riconsegna (con la "cattiveria" del "caso" e della "necessità" del "ruolo") allo stesso Massarenti, per il loro divertimento e per la nostra "scontata" entusiastica nano-mania:
Che fare delle loro "scatole di fiammiferi", delle loro "bustine di minerva" e delle loro "filosofie minime"?
Certamente - non buttarle nei boschi o, peggio, nelle discariche. Già troppi sono gli incendi "spontanei" - degli uni e delle altre!!! Ma nemmeno fare come se non fossero o non le avessimo a nostra disposizione - è meglio sapere che ci sono, che le abbiamo, e che talvolta ci possono essere utili sia per illuminar-ci, sia per accender-ci una sigaretta sia per accendere un fuoco per riscaldarci o per cucinare... Insomma - cum grano salis, è possibile ed è augurabile che ne facciamo un buon-uso!!! Senza farsi prendere la mano o farsi accecare da doni di falsi Ulisse per presunti Troiani, e continuare a sognare sogni da nani, per nani, e contro i nani...
E’ vero che i nani, per quanto possano salire sulle spalle dei giganti, restano sempre nani... e i giganti sempre giganti. Ma i nani, se giganti vogliono diventare, lo possono, condizione necessaria e sufficiente è che essi stessi devono imparare a far buon-uso del tradimento e a saper-si accendere, sì da "ardere" fino a a lanciar-si e a portar-si altrove, oltre - oltre questo mondo di mezzi uomini, e mezzo talpe... O no?! Boh e Bah?!
Ad ogni modo, al di là di ogni metafisica futura, monotona e monoculare - ciclopica, del rispecchiamento e del labirinto. Sul filo della metafora... del lancio ma non del nano, e non tra nani - quali non sono, i protagonisti... per una filosofia - al massimo, di "due soli" - e non di uno, solo con il nano - un altro nano nascosto nella stiva o sotto il tavolo (come usano i migliori teologi sia del super-mercato sia della chiesa del latinorum: come si sa, Dio è "Mammona" - Deus "caritas" est, per loro)!!!
Federico La Sala
Massarenti, Armando,
Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima.
Parma, Guanda, 2006, pp. 197, € 12,00, ISBN 8882469506.
Recensione di Francesca Rigotti - 12/11/2006 *
La maggior parte degli esercizi di filosofia minima di Armando Massarenti - raccolti insieme in questo volume dopo essere usciti singolarmente sui supplementi domenicali del Sole24 Ore - si occupa di dilemmi morali, il che è alquanto plausibile per un tipo di intervento che vuole invitare alla riflessione su questioni dei nostri giorni. Condensate e concentrate nelle dimensioni di poco più di un aforisma, queste pillole o briciole - avrebbe detto Kierkegaard - di filosofia affrontano temi etici presenti nel dibattito attuale, invitando il lettore delle amatissime pagine color rosa antico del quotidiano, e ora di quelle bianche del libro, a un momento di meditazione.
I soggetti che danno il la al commento sono, ripeto, strettamente legati al presente e al contemporaneo, a ciò che accade o è accaduto da poco nel mondo e in Italia, ma essi vengono poi analizzati alla luce delle considerazioni offerte in casi analoghi dalla tradizione filosofica.
Di alcuni dei piccoli saggi si percepisce addirittura che sono stati scritti ancora in epoca berlusconica, quando molti di noi usavano le piccole o grandi palestre del loro esercizio scritto o orale per criticare quel triste e tristo - pur nella sua ridicolaggine - periodo della storia d’Italia, caratterizzato dai peggiori «ismi»: neooscurantismo, cesarismo, populismo, scientismo, pressappochismo e così via. Ne è un esempio l’elogio della critica dei cattivi governi, contenuto nel saggetto dal titolo Come far morire le nostre idee al nostro posto.
Uno dei filoni ricorrenti, degno di grande apprezzamento, della posizione filosofica di Massarenti, laica, illuminata, liberale nel miglior senso dei tre aggettivi, è la critica all’oscurantismo religioso, nella forma per esempio del creazionismo; quest’ultimo ama infatti scagliarsi contro l’evoluzionismo armato «di quel ferro vecchio della teologia naturale che è il cosiddetto argomento del Progetto Intelligente», confutabile su tutti i piani, filosofico, teologico e scientifico (cfr. Il sogno segreto del creazionista).
Del resto la teoria della congettura, della verifica e della confutazione - caposaldo di quello che definirei un liberalismo non solo politico ma anche sociale e pure scientifico - non è certo appannaggio della mentalità religiosa, che continua a sostenere che senza la presenza di Dio l’etica e la morale diventano discipline prive di significato e di impatto sul comportamento della gente.
Al contrario, afferma Massarenti in un altro dei suoi esercizietti filosofici (Dio è morto, viva la morale!), se togliamo di mezzo Dio, l’etica «può svolgere meglio i suoi servigi a chiunque, indipendentemente dal credo religioso di ciascuno». Si può togliere di mezzo Dio dall’etica, aggiungerei, pur essendo credenti. E’ difficile ma non impossibile. Se poi il mio Dio e la mia religione mi confermano in un determinato quadro etico, tanto di guadagnato.
Potrebbe essere questa una premessa per cessare di definire l’a-teo (purtroppo non so come altro chiamarlo) come una persona che «non ha» qualcosa, proprio come la teoria e la pratica femminista sono quasi riuscite a far considerare le donne persone dotate di statuto proprio, non esseri umani che «non sono» maschi e «non hanno» qualcosa.
La definizione delle persone nasce infatti da quel (poco) che hanno e sanno, non da quel tantissimo, come diceva Socrate, che non hanno e non sanno. Il fulcro dei valori etici di una persona è dato dal suo senso morale, dalla correttezza di comportamento, dalla sua virtù e bontà, (vedi La fortuna (e la sfortuna) di essere buoni), e basta ed è già molto.
Insomma, esercitarsi in questa filosofia minima («compact philosophy», mi viene da chiamarla), porta molto lontano con le riflessioni, ben più lontano del nano lanciato nei pubs australiani (ma sarà vero?) e che dà il titolo alla raccolta.
Indice
Domande che fanno senso
Il lancio del nano. Uno sport inumano?
Smettere di fumare: Aristotele contro Platone
Istruzioni su come prenderla
Bevanda al gusto di latte macchiato
E se la vita fosse solo un sogno?
Come si vive se non si crede a niente
Fatti e valori a prova di imbecille
Leggi della fisica e della libertà
Siate precisi quando insultate
Gödel e il teorema di incompletezza della costituzione americana
E Alessandro incontrò il Diogene indiano
Il miracolo della gomma bucata
Il Lotto, la più nobile tra le entrate dello Stato
Quando un cieco comincia a vedere
Morto che parla
Profezie che si autoavverano
Il mondo è «blerde», il mondo è «vlu»
Permetta che mi presenti: Mister Pollo
Che cosa sapeva veramente Mister Pollo
Meglio essere chiaroveggenti o induttivisti?
Come far morire le nostre idee al nostro posto
Elezioni e liti di condominio
11 settembre 2001. L’FBI sapeva di sapere?
L’ulcera dei moderni e dei postmoderni
Veronesi e la scienza senza autorità
Il poeta della materia
Così lo tsunami mi ha reso felice
E’ lecito sognare la morte dell’odioso capufficio?
La luce è un’onda o una particella? Decidete voi
Curiosità fuori luogo
Perché Salieri è grande quanto Mozart
Il Rinascimento di Galileo
Il senso del tempo battuto a macchina
Come un filosofo può diventare scienziato
Tutta la verità secondo Lessing
La scelta del fatalista
L’embrione, il libero arbitrio e i mali del mondo
Il pluralismo secondo G. Marx
Che cos’è la verità? Chiedetelo ai leopardi
La verità sono io
L’arte di ingannare se stessi
Dio è morto, viva la morale!
Sant’Agostino e il tanga di Pinocchio
Non basta il pensiero
Prove dell’esistenza di Babbo Naale
Ma lo scientismo non è la scienza
Einstein pacifista guerrafondaio
Educare gli italiani: «Vaste programme!»
Siamo santi o navigatori?
Creazionisti, figli di un Dio minore
La buona e la cattiva eutanasia
Una piccola (ma completa) lezione di bioetica
Prima regola della morale: sii felice dell’altrui felicità
Da Zapatero parole sante sulla libertà religiosa
La sorte morale della ricerca scientifica
I mezzi e i fini secondo Kant
Siamo liberi di rinunciare alla libertà?
Come muore un laico. Anzi due.
Deconstructing Jackie
E il signore disse ad Abramo: «Innanzitutto, niente giornalisti!»
Votare, ecco il segreto della felicità
Il paradosso del razzista
Una società decente per gli immigrati
Mettere la freccia. Metafisica delle intenzioni
«Siore e siori, provate la macchina dell’esperienza!»
La ragione ha bisogno di simboli
Il vantraggio di essere masochista
Viaggio senza fine
Il sogno segreto del creazionista
L’etica della coda
Istruzioni per riconoscere chi dice scempiaggini
Perché Ratzinger non è fondamentalista
La scelta impossibile di Hannah
Gli atei la sanno più lunga?
Ricchi ereditieri, fatevi da voi
Il senso morale (universale) a portata di Google
Troppe decisioni complicano la vita?
Importante è la salute. Anzi, la felicità
La responsabilità civile dei robot
Perché sappiamo così tanto (anzi, così poco)
I paradossi delle buone maniere
Quanto è diabolica la natura umana?
La fortuna (e la sfortuna) di essere buoni
Il «Moggi’s problem»: è possibile mentire a se stessi?
Roger Scruton, John Stuart Mill e il bigotto che si sente offeso
Stregoni di destra e di sinistra
Conseguenze desiderate. O forse no
La morale dell’essere brevi
Indice dei nomi e degli argomenti
L’autore
Armando Massarenti vive e lavora a Milano. E’ responsabile delle pagine Scienza e filosofia del supplemento culturale «Il Sole 24 Ore Domenica».
* RECENSIONI FILOSOFICHE, N. 13 - DICEMBRE 2006
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UMBERTO ECO E IL POPULISMO DI "FORZA ITALIA"
Federico La Sala
Filologia Antropologia Teologia e Pedagogia. "On The Shoulders Of Giants" (OTSOG): "Senza di loro non vedremmo nulla, su di loro vediamo più lontano di questi San Cristoforo" (cfr. U. #Eco, Introduzione all’edizione italiana: "Dicebat Bernardus Carnotensis" del libro di Robert K. #Merton, "Sulle spalle dei giganti", Il Mulino, 1991).
QUALE #IMITAZIONE DEL #MAESTRO DI #GRAMMATICA? QUALE IMITAZIONE DI "SAN CRISTOFORO"? La #via dell’#umiltà (cristoforo-#bambino) o della #superbia (gigante-nano)? :
“NANI SULLE SPALLE DI GIGANTI: "[...] Che cosa significa l’#aforisma? Umberto Eco spiega, nel suo saggio sul #Medioevo di #Federico Motta Editore, qual è il valore di questa espressione. La prima #domanda da porsi è se si tratti di una ammissione di #umiltà oppure di una manifestazione di #superbia. Ma soprattutto, che senso aveva per i medievali paragonare se stessi a dei nani e gli antichi a dei giganti. Un indizio può venire dal contesto in cui è inserita la #massima: Bernardo parlava infatti di #grammatica. In particolare, criticava gli allievi che copiavano pedissequamente gli antichi; al contrario si doveva prenderli a modello, per scrivere altrettanto bene ed essere un domani ammirati al pari loro. È quindi possibile riconoscere un invito all’#autonomia. Come dirà più tardi #Sigieri di #Brabante, rifarsi a un’autorità non basta. Gli antichi erano pur sempre uomini, per cui nulla vieta ai #posteri di dedicarsi anch’essi alla ricerca razionale."
Sul tema, una "vecchia" recensione di #Franco Marcoaldi del lavoro di Robert K. #Merton,"Sulle spalle dei Giganti".
ANCHE IL GIGANTE INCIAMPA
Rispondere a una lettera, magari anche gradita, e fosse pure soltanto con le canoniche "due righe", sembra essere diventato eroico esercizio cui ci si sottopone a malincuore. Con le dovute eccezioni, naturalmente. Robert (Bob) Merton, ad esempio, docente alla Columbia University e stella di prima grandezza della sociologia contemporanea, in risposta alla succinta missiva dell’ amico Bernard (Bud) Baylin, ha inviato non una, ma mille lettere. Che hanno finito per comporre un libro: folle, geniale ed enigmatico, di cui è pressoché impossibile dare un resoconto rapido, e minimamente sensato.
D’ altronde, lo stesso sottotitolo, "poscritto shandiano", indica chiaramente come in omaggio a Vita e opinioni di Tristam Shandy di #Lawrence #Sterne, si intenda procedere qui in modo altrettanto digressivo ed errabondo. Affidandosi alla #serendipity: la capacità di trovare una cosa avendone a lungo cercata un’ altra. Il che non ci consente, comunque, di menare a spasso per altre tre cartelle l’ eventuale acquirente del volume, senza provare a dirgli, almeno a grandi linee, e in modo necessariamente vago, di cosa - in definitiva - il libro tratti. E allora, vediamo di tornare alla letterina che Bud invia all’ amico Bob, chiedendogli informazioni più precise riguardo al celebre aforisma da sempre attribuito a #Newton: "se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle dei giganti".
Siamo proprio così sicuri, si chiede Bud, che sia stato lui, a inventarlo? Detto e fatto. Bob si mette a tavolino, e affidandosi alla sua prodigiosa erudizione, risponde con una lettera (fantastica) di duecentonovanta pagine, che dà forma a quella sarabanda intellettuale raccolta ora in Sulle #spalle dei #giganti (prefazione di #UmbertoEco, Il Mulino, lire 30.000).
Incredibile a dirsi, ma la semplice ricerca à rebours della genealogia di quella minuscola frasetta, consente a Merton di sollevare una infinita serie di questioni. Di immensa, e infima grandezza. Trattate tutte con eguale rispetto, ed eguale irriverenza. Ma, tanto per cominciare, quando compare per la prima volta il celebre Aforisma? In una lettera che #Newton invia a #Hooke nel bel mezzo di una accesa controversia sulla paternità delle rivoluzionarie scoperte relative all’ ottica e alla meccanica celeste.
Da qui Merton prende le mosse, e da qui comincia a sparare una gragnuola senza fine di domande. Chi ha scoperto, cosa e quando? Come la mettiamo con il problema del plagio, delle influenze consce e inconsce? E con quello del rapporto con la tradizione? Gli uomini, su questo punto, mica l’ hanno pensata sempre allo stesso modo. E ancora, i nani (quelli che vedono più lontano), stanno seduti o in piedi, sulle spalle dei giganti? E come fanno "a mantenersi in equilibrio in quell’ imbarazzante posizione"?
Che accade, infine, nel caso in cui i giganti inciampino o cadano bocconi? Se si aggiunge, che nel frattempo, Merton riesce a discutere pure dei vantaggi di "cercare la verità in un dibattito a quattr’ occhi piuttosto che in una discussione pubblica". A proporci le virtù di tal John Aubrey nel definire le persone a partire da colore e taglio degli occhi. E a scoprire un sorprendente plagio di Sterne ai danni di #Burton, proprio nella pagina in cui il primo si avventa contro questa insana abitudine, beh, si capirà bene che c’ è da perdere la testa. Noi, beninteso. Non Merton, che al contrario tesse le fila del suo folle tappeto con perfetto controllo di sé, conscio dei labilissimi confini che separano, nel mondo dell’ #erudizione, #sanità e #pazzia. Talmente conscio da non perdere l’ occasione per stilare una puntuale tassonomia nosografica delle turbe cui la medesima erudizione conduce: l’ adumbrazionismo denigratorio (nulla di nuovo sotto il sole, tutto è già stato detto nell’ antichità); la correlativa sindrome anatopica (occultamento delle versioni antiche); l’ onesta criptomnesia (far passare per proprie idee scovate altrove); l’ insanabile scribendi cacoethes (quella frenesia del pubblicare da cui ci si può curare solo seguendo il consiglio di Thomas Fuller; riempiendo fogli e fogli di carta unicamente all’ inizio della riga). E così via pazziando. Ma non cadiamo pure noi nelle seduzioni digressive dello stile shandiano. E vediamo di concludere.
Si può, in definitiva, sapere quando e come l’ Aforisma nasce, e magari pure quando muore? Sì, in un certo senso, si può saperlo. Nasce nel dodicesimo secolo, con Bernard de Chartres. E muore con #Freud. Quando quel rompiscatole di #Stekel, allievo mitomane e indesiderato, convinto di aver superato di gran lunga il suo maestro, fa un uso davvero smodato dell’ Aforisma. Tanto che il gigante (Freud) è costretto a rispondere al nano (Stekel): "Questo può anche essere vero, ma un pidocchio sulla testa di un astronomo non può farlo".
Il rebus, dunque, è risolto? Per modo di dire: morte, e soprattutto nascita dell’ Aforisma, restano comunque fittizie, aleatorie. Stabilire che il primo e assoluto ideatore sia stato Bernard significherebbe infatti, rammenta Merton, negare la validità dello stesso Aforisma. Forse che quando lo creò, "non era lui stesso posto sulle spalle dei suoi predecessori?". Insomma, è solo per rispettare il noto detto, "un bel gioco dura poco", che Merton la finisce qui. Se fosse per lui, magicamente afflitto dall’ insanabile desiderio di scrivere, sarebbe ancora lì, a giocare. Con la dovuta serietà, naturalmente. Convinto, con Auden, che "soltanto attraverso la commedia, si può davvero essere seri".
(FRANCO #MARCOALDI, "Anche il gigante inciampa", la Repubblica, 10 dicembre 1991).
* Post precedenti:
A) #ANTROPOLOGIA CULTURALE (Gregory Bateson) #PSICOANALISI (Sigmund Freud) E #FILOLOGIA (#LorenzoValla).
Ulteriori appunti...
Benché sull’amletica #question antropologica ("essere, o non essere?"), #Kant ("#Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’#idealismo materialistico o il #materialismo idealistico ha continuato nel suo cosmo-te-andrico edipico #sogno. #GregoryBateson, "all’#enigma della #Sfinge", ha dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo" (così in una conferenza del 1979), ma non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della #tragedia e dalla città di #Edipo: l’#enigma di (dove poggia il piede) san #Cristoforo (S. #Freud, "#Psicologia delle masse e analisisi dell’io", "4. #Suggestione e #libido") non l’ha sciolto:
B) #PSICOANALISI, #FILOLOGIA, #ANTROPOLOGIA E #STORIOGRAFIA: LA #SUGGESTIONE, L’ #ENIGMA DI SAN #CRISTOFORO, E LA "#PSICOLOGIA DELLE #MASSE E #ANALISI DELL’IO" (S. #FREUD, 1921).
Per meglio comprendere il grande rilievo del contributo di #Stekel, al lavoro e alle "#costruzioni nell’analisi" (1937) di #Freud, molto utile anche la lettura del testo della seduta del 1903, pubblicata come articolo con il titolo "Il ’Piccolo Kohn’" (tradotto e curato dal dr. Michele Lualdi):
Kant e quell’irrinunciabile fatica del pensare
di TERESA SIMEONE
Un bel libro di Carlo Sini e Telmo Pievani, pubblicato qualche mese fa, E avvertirono il cielo, riprende un’espressione di Gianbattista Vico con cui si fa riferimento al nascere della cultura. Cultura, ovviamente, è il segno che lascia l’intelligenza umana ogni volta che, davanti a un problema, si sforza per trovarvi una soluzione. Il che non è contrario alla natura, ma obbedisce alle prerogative della natura stessa, quella umana. -Non si tratta cioè di espungere la cultura dalla natura o viceversa, ma di individuare un ponte, come ha scritto Cavalli-Sforza, tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. La questione, dunque, non è stabilire un primato tra ciò che è naturale e ciò che è culturale perché non possiamo fare a meno di comportarci come esseri dotati di ragione e dunque di una forza che cerchi di regolamentare le pulsioni istintuali, tenendo a bada la dimensione strettamente biologica, quanto piuttosto cercare le connessioni tra le due sfere.
Kant ha colto molto bene la bidimensionalità dell’essere umano nella necessaria tensione tra sensibilità e ragione che si svolge in campo pratico: noi siamo sempre in lotta tra due forze che vorrebbero prevalere l’una sull’altra e che dobbiamo equilibrare. In questo sta la nostra essenza di esseri liberi e morali. Se fossimo soltanto istinto non avremmo alcun merito o demerito nel comportarci in un certo modo perché non ci sarebbe libertà: un animale è determinato ad agire dalla sua natura e, come tale, non può essere giudicato secondo categorie morali. Non c’è un leone cattivo da un lato e una cerbiatta buona dall’altro, né un agnello tenero e un lupo crudele: i loro comportamenti sono insindacabili perché fuori dagli schemi concettuali e morali introdotti dall’essere umano. Allo stesso modo, se fossimo mossi soltanto dalla ragione, una ragione assolutizzata e sublimata, non saremmo meritevoli per le azioni corrette, dal momento che in noi agirebbe sempre tale pienezza di giudizio che non ci farebbe commettere errori. Saremmo nella “santità”. Non fallibili né condannabili e dunque non responsabili. Eticamente non connotati.
Nonostante sia guidato, ma non determinato dalla ragione, l’essere umano non segue, perciò, un piano razionale predefinito: essa procede per tentativi e, proprio per questo, suo compito è sviluppare le disposizioni naturali, pur nella consapevolezza che l’uomo, il cui tempo è insufficiente, non riuscirà mai a completarle in vita. Se la natura gli ha dato la ragione, scrive Kant, è perché ha voluto che fosse più destinato alla stima razionale di sé che al benessere, più a rendersi degno della felicità che a conseguire la felicità stessa.
In tal senso la morale non è la dottrina che ci insegna come dobbiamo farci felici, ma come dobbiamo diventare degni della felicità. L’uomo si agita nel mondo, lotta nella storia, mosso da ambizione, vanità, orgoglio non per conseguire felicità, ma per esprimere i propri talenti e rivendicare diritti. La terra, anche secondo Kant, non è, dunque, un’arcadia pacificata, ideale, metastorica ma uno spazio di contrasti e affermazioni di sé, come vuole e spinge la naturale, problematica e critica razionalità dell’uomo. E la moralità, infatti, altro non è che una costrizione che sentiamo operante dentro di noi. È una legge: universale, assoluta, incondizionata.
Eppure, anche se per Kant è incondizionata, agisce sempre all’interno di un essere umano finito e dunque influenzato dalla sua condizione. Ecco perché la ragione è sempre in lotta con la parte sensibile dell’uomo che le oppone una resistenza e fa sì che tale legge morale assuma la forma del “dovere”. Nello sforzo con cui l’uomo riesce a de-condizionarsi rispetto alla propria natura istintuale è la misura della sua moralità.
Sappiamo bene che quella di Kant è un’etica prescrittiva, non descrittiva: non riguarda l’uomo qual è, ma l’uomo quale dovrebbe essere, non come si comporta ma come dovrebbe comportarsi. Eppure questa necessità non nega la libertà, anzi la potenzia: nella tensione tra ragione e sensibilità c’è la consapevolezza che si debbano vincere le proprie inclinazioni naturali ma che vi si possa anche cedere così come possano essere violate le disposizioni che impone la ragione. Che, non dimentichiamolo, implica sempre l’assunzione di un rischio.
D’altronde Kant non sottovaluta i limiti della condizione umana, opponendosi al fanatismo morale di chi crede che sia possibile la perfezione etica. La santità, come realizzazione compiuta della virtù, non è di questo mondo. La virtù è “intenzione morale in lotta” e non adesione naturale spontanea.
Come hanno giustamente sottolineato a proposito della filosofia kantiana Abbagnano e Chiodi, la moralità non è la razionalità necessaria di un essere pensante infinito, ma la razionalità possibile di un essere che può decidere di assumere o non assumere la ragione come guida della condotta. A più riprese il filosofo salernitano ha ricordato che "se l’Illuminismo aveva portato dinanzi al tribunale della ragione l’intero mondo dell’uomo, Kant si propone di portare dinanzi al tribunale della ragione la ragione stessa, per chiarirne in modo esauriente strutture e possibilità"[1]. In questo senso, nella Critica della Ragione pura “la critica è “della” (der) ragione sia nel senso che la ragione è ciò che viene resa argomento di critica, sia nel senso che essa è ciò che mette in atto la critica”[2].
Ugualmente conclude Pietro Chiodi quando sottolinea che l’intento di Kant è proprio quello di "reperire nel limite della validità la validità del limite"[3]. Niente a che vedere con la ragione infinita di un Cartesio, giusto per intenderci, ma anche andando oltre gli stessi intenti dei philosophes.
Questo amor hominis intellectualis che impronta l’opera kantiana, l’impossibilità di “togliersi di dosso la qualità di uomo”, è il riconoscimento della grandezza/piccolezza dell’essere umano il cui pensiero è finito, certamente, ma, pascalianamente, consapevole di esserlo. La sua dignità è un dato incontrovertibile: affonda nella coerenza interiore, presupposto essenziale di ogni comportamento virtuoso, di ogni azione, cioè, la cui forza non sia nella conformità alla legge esterna, alle convenzioni, ai precetti religiosi, ma unicamente alla norma il cui fondamento è nella ragione. Si può, pertanto, essere d’accordo o dissentire riguardo al suo ferreo, quasi glaciale, rigorismo ma le pagine che ha scritto nella Fondazione della metafisica dei costumi, nella Critica della ragion pratica e negli altri scritti morali sul senso alto della dignità difficilmente hanno un riscontro altrettanto chiaro in altre opere filosofiche.
Innumerevoli sono gli esempi di agire morale che porta in esse. Anche da un punto di vista pragmatico, le formule dell’imperativo categorico, proprio perché formali e non condizionate da alcun contenuto, possono costituire una guida valida in ogni tempo e sganciata da situazioni storiche precise. Così quando scrive “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale“[4], non ci dice cosa dobbiamo fare nello specifico ma, proprio per questo, ci dà un riferimento valido per qualsiasi nostra azione.
Antonio Cassese dedica al filosofo di Kӧnigsberg passi importanti: nel suo I diritti umani oggi scrive che tra i tanti pensatori, leader religiosi e politologi, chi ha colto meglio il concetto di dignità umana è stato proprio Immanuel Kant che nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) osserva come “Nel regno dei fini, tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcosa d’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenze, è ciò che ha una dignità.[...] L’umanità è essa stessa una dignità: l’uomo non può essere trattato dall’uomo (da un altro uomo o da se stesso) come un semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine”.
L’uomo come homo phaenomenon, elemento del mondo sensibile, è mediocre, modesto, un essere naturale come tutti gli altri, ma come homo noumenon, membro del mondo intellegibile, non può essere considerato come un mezzo per i fini altrui o anche per i propri fini.
A tale proposito, Cassese riporta un episodio che fa capire quanto il discorso di Kant non rimanga su un piano puramente astratto, ma possa essere applicato alla vita reale ben più diffusamente di quanto si possa credere.
Nel 1991, in Francia, nella cittadina di Morsang-sur-Orge, il titolare di una discoteca decise di inserire tra le sue attrazioni il “lancio del nano”, con cui permetteva ai clienti di “giocare” e di vincere a chi l’avesse lanciato più lontano. Il sindaco vietò l’attrazione ma i proprietari si rivolsero al tribunale amministrativo di Versailles che diede ragione alla società. Il primo cittadino impugnò la sentenza davanti al Consiglio di Stato che a sua volta l’annullò in nome di quella che può essere definita la nozione di “dignità umana”. Rifacendosi alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, oltre che alla giurisprudenza francese, il supremo organo di giustizia osservò che utilizzare “come proiettile una persona affetta da un handicap fisico, e presentata come tale [...], lede la dignità della persona umana”. È vero, si riconobbe, che il nano aveva scelto liberamente di sottoporsi al lancio e che invocava il principio del “diritto al lavoro” e la “libertà dell’impresa e del commercio” ma si ritenne, altresì, che il rispetto della persona umana dovesse prevalere sia sulla volontà del nano sia sui diritti di libertà da lui accampati.
Kant avrebbe risposto che il nano non poteva accettare di ridurre se stesso a mezzo di divertimento di altri perché doveva considerarsi un fine in sé. [5] Nessuno, cioè, può rinunciare volontariamente alla propria dignità e fare della propria umanità merce di profitto.
Non è tanto lontano dai mille casi della vita l’etica rigorosa di Kant: lo vediamo anche in questi giorni quando il concetto di libertà è da alcuni assolutizzato e contrapposto a quello della sicurezza che lo limiterebbe e quando ci si chiede cosa significhi moralità in un sistema democratico, se scegliere di proteggere chi si sente vulnerabile o rivendicare fino in fondo le proprie libertà individuali.
Kant non è comodo, anzi è scomodissimo nell’impedire che ci costruiamo alibi per i nostri comportamenti o le nostre ipocrisie, quando riteniamo di tacitare la coscienza elargendo un obolo a chi mendica o sostituendo il rispetto, doveroso per ogni essere umano, anche il più riprovevole, con la pietà autoassolutoria.
Scomodissimo quando sostiene che non è la religione a fondare la morale, ma la morale, tutt’al più, la religione e che barattare una buona azione con l’ingresso in Paradiso non ha nulla di etico o quando bolla come immorale un’azione fatta nella fredda applicazione di una legge positiva e non come adesione al principio etico che dovrebbe informarla, quando stigmatizza la necessità di sanzioni là dove l’azione dovrebbe essere libera da imposizioni esterne, quando ci richiama a un’autonomia morale che un obbligo, quale quello di un controllo eteronomo, renderebbe condizionata.
È scomodo quando biasima il nostro bisogno di tutori, pur maggiorenni di età; quando ci ammonisce dall’affidare ad altri la salvezza della nostra anima o la cura della nostra mente; quando smaschera la speranza in qualcuno che ci guidi come attitudine a seguire piuttosto che ad assumerci l’onere della scelta. “Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me - scrive nel saggio Che cos’è l’illuminismo? - un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno dì pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”.
Ci schermiamo tutti gridando che vogliamo essere “il capitano della nostra nave” salvo poi, alla prima occasione, quando guidare significa assumersi responsabilità, applaudire all’homme fatal, affidarci al capo-padre-signore, quello che ci protegge dagli sbagli e decide per noi dove dobbiamo andare.
Non è il caso di scomodare filosofi che hanno individuato nella scelta la fonte dell’angoscia e vissuto la libertà come condanna per capire quanto ansiogena sia la condizione dell’uomo che ha fatto del “Sapere aude!” la massima della propria condotta. Eppure è in quell’atto di coraggio, che apre a nuove possibilità, che diventa Sprung, cioè salto verso il futuro[6], la fonte della nostra dignità. È lì, nell’autonomia intellettuale e morale con cui la volontà si conforma alla razionalità, affrancandosi dall’eteronomia di un condizionamento.
La morale kantiana non è esente da critiche: molti sostengono che alla sua etica del dovere, per cui un’azione è buona in sé, indipendentemente dalle conseguenze, si dovrebbe preferire un’etica utilitaristica come quella di Bentham, ad esempio, ben più adatta a una realtà in cui si deve pur agire in vista di un principio di convenienza comune, sulla base, cioè, di un calcolo dei vantaggi e degli svantaggi e della ricerca della “massima felicità per il maggior numero di persone”. In tale dibattito più attuale potrebbe essere il ricorso a Weber e alla sua distinzione tra “etica della convinzione” e “etica della responsabilità”. Col riferimento alla prima, come sappiamo, Weber valuta l’agire in base alle intenzioni che ne sono a monte, ai convincimenti interiori, senza badare ai mezzi e alle conseguenze legati alla loro realizzazione; per quanto riguarda la seconda, invece, l’agire si giudica in base alle conseguenze esteriori che produce e ai mezzi utilizzati. Per il carattere “realistico”, quest’ultimo risulta una specie di equivalente etico dell’agire razionale rispetto allo scopo e quindi, in qualche modo, più consono all’agire politico anche se, quando scrive “Pertanto l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche, ma si completano a vicenda, e solo formano il vero uomo, quello che può avere la ‘vocazione alla politica’”, egli finisca per ammettere non una separazione ma una possibile integrazione tra le due forme.
Nell’essere umano agiscono tante forze: Hume, uno dei riferimenti culturali di Kant, parla di simpatia, il sentimento morale “comune a tutta l’umanità”, che si basa sulla percezione dell’utilità o dannosità di un’azione per i suoi simili per cui si può scegliere un’azione buona anche se non vantaggiosa per noi. Kant, in realtà, non sottovaluta che ci siano altri agenti alla base dei comportamenti umani ma nega che possano costituire una legge morale la quale, per essere tale, deve avere il carattere dell’universalità. Questa condizione è assolta dalla ragione che è presente in tutti gli uomini e che prescrive in maniera rigorosa di rinunciare a ogni piacere o vantaggio individuale. “La dignità del dovere non ha a che fare col godimento della vita; il dovere ha la sua legge speciale, ed anche il suo speciale tribunale”[7].
Per Kant ciò che è giusto è un bene perché è giusto, non giusto perché è un bene. Esclude, pertanto, una serie di giustificazioni che vorremmo addurre per i nostri comportamenti individuali: “Egli giudica dunque di potere fare qualche cosa, perché è conscio di doverlo fare, e conosce in sé la libertà che, altrimenti, senza la legge morale, gli sarebbe rimasta incognita”[8].
D’altronde, “Soddisfare il comando categorico della moralità è sempre in potere di ognuno”[9]. È per questo che il Devi! si accompagna al Puoi: “Devi, quindi puoi!” È nel comando che scopro la possibilità di non obbedirgli e quindi la mia libertà.
Solo l’uomo, d’altronde, si rappresenta il dovere di agire per il dovere; solo l’uomo è soggetto a pressioni psicologiche che possono assoggettare la sua volontà e solo l’uomo può pensarsi come tenuto a vincerle. Solo l’uomo, cioè, è capace di pensare come un dovere assoluto il dovere di essere libero.[10]
E allora ciò che farà, come agirà non sarà condizionato da un luogo, da una situazione, da un’occasione ma dall’imperativo che sentirà in sé e al quale, non per interessi, sentimenti o vantaggi particolari, risponderà. Quante volte, dopo un’azione scorretta, abbiamo cercato di autoassolverci, trovare degli alibi al senso di colpa, vincere quel fastidio, pungente, sotterraneo, insuperabile. È lì, in quel disagio, che è rappresentato quello che siamo, la nostra moralità e la nostra libertà: se avvertiamo quella sensazione d’inadeguatezza è perché sentiamo che nel fondo della nostra coscienza avremmo potuto comportarci diversamente, scopriamo che eravamo, che siamo liberi.
La persona che cercasse di rispondere a quel comando, che volesse obbedire alla legge morale vivrebbe le mille difficoltà di un’esistenza sempre in bilico tra scacco e sacrificio, difficilmente felice. Ma, d’altronde, non è la felicità il fine della vita umana, di chi non può fare a meno di essere com’è, di chi tra la comodità della superficialità e la fatica dell’approfondimento, sceglie di essere, lo aveva già annunciato un illustre efesino, tra gli svegli. Di chi sceglie di resistere, in nome di una tensione ideale, di una pulsione di verità sempre più difficile da sostanziare in un’epoca di cedimento come quella che stiamo vivendo.
Eppure c’è ancora chi resiste e cerca di non dimenticare che dopo di lui c’è una generazione che si troverà in eredità un mondo in cui dovrà poter continuare a vivere e a credere. In questo senso l’esempio di vita proprio di uno studioso di Kant, Pietro Chiodi, combattente e difensore della libertà, risalta limpido: egli stesso racconta, nella sua opera-diario Banditi, di come scelse di diventare partigiano dopo aver attraversato una strada piena di sangue, aver visto un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto e aver ascoltato un cantoniere che diceva: “È meglio morire che sopportare questo”. Di come non avrebbe potuto continuare ad accettare qualcosa che non l’avrebbe reso più degno di vivere. Perché c’è qualcosa in ognuno di noi che ci aiuta a non smarrire la strada e, anche se a fatica, a vigilare sulla nostra come sull’umanità di tutti gli esseri pensanti.
NOTE
[1] Abbagnano-Fornero, La ricerca del pensiero, Paravia, 2B, pag. 164.
[2] Abbagnano-Fornero, La ricerca del pensiero, Paravia, 2B, pag. 173.
[3] Kant, Scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino, 1970, pag. 13.
[4] Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, 2012, pag. 65.
[5] Antonio Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, 2005, pp. 54-58.
[6] L’espressione è di Fenoglio: Il partigiano Johnny, Einaudi, 2014, pag. 22.
[7] Kant, Critica della ragion pratica, pp. 193-195.
[8] Kant, Critica della ragion pratica, pag. 65.
[9] Kant, Critica della ragion pratica, pag. 81.
[10] I. Kant, Fondazione di una metafisica dei costumi, a cura di Vittorio Mathieu, Rusconi, pag. 23.
* Fonte: MicroMega, 23 ottobre 2020.
Fino a che punto possiamo interpretare?
Da Foucault a Eco
di Francesco Bellusci (DoppioZero, 05 marzo 2017)
Cinquant’anni fa uscivano in Francia gli atti del Colloquio di Royaumont, svoltosi tre anni prima, che avrebbero segnato i destini della filosofia “continentale” all’insegna della Nietzsche-Renaissance: una rinascita dell’interesse per la figura e l’opera di Nietzsche, definitivamente riscattato dalle strumentalizzazioni naziste, preparata anche dalla pubblicazione nel 1961 del poderoso corso di Heidegger e, soprattutto, dall’edizione critica nel 1964 delle opere di Nietzsche, curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Tra gli interventi di quel convegno, quello di Michel Foucault, che, ricordiamolo, poco prima di morire sulle pagine di Les Nouvelles littéraires dichiarerà di essere sempre stato “semplicemente un nietzschiano”, presenta una singolarità. Nietzsche, nel saggio, è in compagnia degli altri “maestri del sospetto”, Marx e Freud, che, a differenza di Ricoeur, non sono visti da Foucault tanto come coloro che dubitano della coscienza trasparente a se stessa, di cartesiana memoria, e l’allargano demistificandone i pregiudizi o i condizionamenti che su di essa operano l’ideologia borghese, le pulsioni libidiche o i valori della tradizione morale e metafisica. Gli autori della Nascita della tragedia e della Genealogia della morale, del Capitale e dell’Interpretazione dei sogni non mettono in campo un soggetto che accede a una verità più profonda di se stesso, ma un nuovo sistema di interpretazione, una nuova possibile ermeneutica, che coglie il senso profondo nell’esteriorità, che decifra, cioè, i segni disposti sulla “superficie” dei rapporti di produzione, dei sintomi e dei lapsus, delle pulsioni vitali alla base di sentimenti morali, idee, valori, che trascendono il soggetto e lo costituiscono. Ma, nello stesso tempo, Marx, Freud e Nietzsche, che fa da capofila in questo, ci consegnano questo compito dell’interpretazione come infinito, senza la possibilità di un compimento che attinga un’origine o un fondamento ultimo. Infatti, scrive Foucault, “se l’interpretazione non può mai giungere a compimento, è semplicemente perché non c’è niente da interpretare. Non c’è niente di assolutamente primario da interpretare, perché in fondo, tutto è già interpretazione, ogni segno è in se stesso non la cosa che si offre all’interpretazione, ma interpretazione di altri segni”.
Quindi, ogni interpretandum è di per sé già intepretans. Così, Marx interpreta i meccanismi del capitalismo interpretati come “naturali” dall’economia politica classica; Freud scopre dietro i sintomi non traumi originari ma fantasmi carichi di angoscia, che sono già nodi interpretativi. In questa prospettiva, l’interpretazione è obbligata ad auto-interpretarsi sempre e a investire l’interprete stesso, chi ha posto l’interpretazione, in un gioco di rimandi speculari e di inversioni (ma anche di lotte), per cui, se Marx ha ragione, Nietzsche è un fenomeno della borghesia del suo tempo, oppure, se Freud ha ragione, bisogna indagare l’inconscio di Nietzsche. E così via. Pertanto, se l’interpretazione precede il segno e il segno è già un’interpretazione che non si dà come tale, “la morte dell’interpretazione - concludeva Foucault - è credere che ci sono dei segni che esistono primariamente, originariamente, realmente, come marche coerenti, pertinenti e sistematiche. La vita dell’interpretazione, al contrario, è credere che non ci sono che interpretazioni.
Mi sembra che bisogna comprendere bene questa cosa che troppi nostri contemporanei dimenticano: l’ermeneutica e la semiologia sono due feroci nemiche. Una ermeneutica che si pieghi di fatto su una semiologia crede all’esistenza assoluta dei segni: abbandona la violenza, l’incompiuto, l’infinità delle interpretazioni, per far regnare il timore dell’indizio, e sospettare il linguaggio. Riconosciamo qui il marxismo dopo Marx. Al contrario, un’ermeneutica che si avvolge su di sé entra nel campo dei linguaggi che non cessano di auto-implicarsi, la regione mitica della follia e del puro linguaggio. È qui che riconosciamo Nietzsche”. Si può dire che, per Foucault, l’evento della filosofia nietzschiana non coincideva con l’ultimo atto della storia della metafisica, secondo la nota lettura di Heidegger emersa in quegli anni, ma nell’approdo più consapevole e coerente di due “sospetti” che hanno sempre accompagnato le culture indo-europee: il sospetto che il linguaggio voglia dire altro rispetto a ciò che dice e il sospetto che ci sia linguaggio all’infuori del linguaggio. Fedele fino alle estreme conseguenze al “lieto messaggero” della morte di Dio, che decretò anche la fine della “cosa in sé” e dell’esistenza dei fatti in nome del gioco infinito e conflittuale delle interpretazioni, Foucault opponeva allora l’ermeneutica, con il suo portato demolitore rispetto alla concezione della verità come corrispondenza alle “cose” fuori di essa, alla semiologia di stampo desaussuriano, dove c’è un codice a stabilire l’equivalenza tra segno e significato già dati.
Sempre alla fine degli anni sessanta, Umberto Eco avviava però gradualmente una rifondazione della semiotica, facendo riferimento non tanto a De Saussure ma a Peirce, lungo la parabola che lo porterà, da La struttura assente (1968) al Trattato di semiotica generale (1975), a vedere nel segno ciò che interpreta un altro segno, a sua volta ancora interpretabile, in un processo illimitato di semiosi, che coinvolge sempre triadicamente il segno, l’oggetto e l’“interpretante”, inteso come costrutto culturale o convenzione socialmente pattuita. Ma, a differenza del Foucault di Royaumont, questo percorso conduce Eco a ritenere che la condizione di possibilità dell’ermeneutica stia nei limiti che l’essere o il reale pongono al discorso interpretativo piuttosto che nella loro assenza: “Se assumessimo che dell’essere si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura nella sua interrogazione continua. Basterebbe parlarne a caso. L’interrogazione continua appare ragionevole e umana proprio perché si assume che c’è un Limite” (Kant e l’ornitorinco, 1997). Infatti: davvero non c’è “nulla” da interpretare e non si dà mai un interpretandum? Davvero l’interpretazione è sempre risucchiata in un circolo infinito nel quale può solo riprendere continuamente se stessa e generarsi, per così dire, per partenogenesi? Se non c’è una “realtà” che si offra all’interpretazione per essere decifrata nel suo senso ultimo, non c’è forse almeno una realtà che c’impedisce certe interpretazioni e certi percorsi di senso?
È proprio quest’ultima, infatti, la tesi di Umberto Eco. Una certa conformazione del nostro corpo c’impedisce d’interpretare il cacciavite come qualcosa di utile per grattarci un orecchio; l’esperienza c’impedisce di interpretare un grave come qualcosa capace di muoversi alternativamente verso il pavimento o il soffitto della nostra casa (lo può fare un poeta, ma in riferimento a un mondo possibile). In questi casi, il reale si oppone e resiste a certe nostre interpretazioni, che dovranno prendere altre direzioni; in altri termini, non c’è una “cosa in sé”, ma di sicuro si manifesta una “cosa che dice no”. In conclusione, per Eco, “ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette” (Di un realismo negativo, 2012).
Ma a parte la differenza sul modo di intendere, in senso assoluto o limitato, il compito infinito dell’interpretazione, è indubbio che entrambi, Foucault ed Eco, hanno incarnato con il loro lavoro non solo scientifico, ma giornalistico, civile e politico, due esempi di quel “coraggio di dire il vero”, inteso come abito intellettuale e comportamentale, di quello stile parresiastico, in attrito con il “vero” imposto dai poteri dominanti e dall’ordine del discorso, a cui Foucault s’interessò anche nei suoi lavori genealogici, durante i corsi al Collège de France, poco prima della morte.
Questo sì, da intendere a maggior ragione come un compito infinito, per Foucault, perché, come dichiarò in una delle sue ultime interviste, “niente è più inconsistente di un regime politico che è indifferente alla verità; ma niente è più pericoloso di un sistema politico che pretende di prescrivere la verità. La funzione del ‘dire il vero’ non deve prendere la forma della legge, così come sarebbe vano credere che risieda a pieno titolo nei giochi spontanei della comunicazione. Il compito del dire il vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un obbligo di cui nessun potere può fare economia. Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù” (Le souci de la verité, “Magazine littéraire”, maggio 1984).
SCUOLE APERTE DI POMERIGGIO. IDEA - PROGETTO: "ESERCIZI DI FILOSOFIA MINIMA" (fls)
Ufficio Stampa
Scuole aperte di pomeriggio, stanziati 64 milioni di euro
Fioroni ha firmato la circolare. Previsti anche 30 mln di euro per recupero debiti scolastici, 15 per i laboratori scientifici e 2 per Dante
Roma, 31 agosto 2007
A partire dal prossimo anno scolastico l’apertura pomeridiana delle scuole diventerà una realtà. Il Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni ha infatti firmato la circolare che, in applicazione della legge Finanziaria 2007, assegna 64 milioni di euro aggiuntivi per favorire l’ampliamento dell’offerta formativa e un pieno utilizzo degli ambienti e delle attrezzature scolastiche, anche in orario diverso da quello delle lezioni, a favore di studenti e genitori ma anche dei giovani ormai usciti dal circuito educativo e degli adulti interessati ad aggiornare la propria formazione e ad avvicinarsi ai nuovi saperi.
I fondi sono così suddivisi:
30 milioni di euro per attività di recupero dei debiti formativi, corsi di sostegno e di aiuto allo studio, di approfondimento e sviluppo per gli studenti motivati.
34 milioni di euro per la sperimentazione di metodologie didattiche innovative allo studio delle discipline curricolari. In particolare, 15 milioni sono destinati ai laboratori scientifici, 2 milioni ai percorsi di approfondimento dello studio di Dante, 2 milioni alla promozione di attività motorie e sportive, 2 milioni all’approfondimento della cultura e della storia locale, 2 milioni all’apprendimento pratico della musica e 9 milioni alla coperture delle spese di apertura, funzionamento e pulizia dei locali delle scuole.
"L’apertura pomeridiana delle scuole - scrive il Ministro Fioroni nella circolare - è lo strumento privilegiato per la lotta al disagio giovanile e alla dispersione scolastica. La scuola può così tornare il centro di promozione culturale, relazionale e di cittadinanza attiva nella società civile in cui opera favorendo il recupero scolastico e creando occasioni di formazione in grado di elevare il livello culturale e di benessere generale del territorio".
ETICA (responsabilità). Per l’"Avvenire", però, per seguire meglio il gioco e la corsa de Il Sole-24 Ore, è oppurtuno cominciare con un buon "mattutino" .... "abbandonare il pensiero troppo debole" e "ritornare alla seria, faticosa e sostanziosa riflessione" dopo!!!(fls)
MATTUTINO
pensieri svolazzanti
Nel suo cervello i pensieri svolazzavano come uccelli solitari attraverso nuvole vuote, senza stormo e senza lasciare traccia.
Aveva salvato la vita del giovane imperatore Francesco Giuseppe nella battaglia di Solferino (1859) e per questo era diventato, anche nei libri di storia, "l’eroe di Solferino". Ma la nobiltà e la dedizione un po’ retorica di questo personaggio, Joseph Trotta, si scontra con la sua discendenza che vede invece in scena un debole nipote, Carl Joseph, il vero protagonista del romanzo La marcia di Radetzky (1932) di uno scrittore austriaco ebreo, Joseph Roth, particolarmente amato dai lettori di questi ultimi decenni. Il cervello di quel giovane erede incapace e irresoluto è appunto attraversato da pensieri vani e inconsistenti, simili ai voli di uccelli solitari.
Ebbene, questo ritratto amaro sembra purtroppo adattarsi a molti la cui mente ospita solo pensieri svolazzanti, superficiali, pronti a cambiar rotta, senza mai lasciare una traccia nella vita. Aveva un bel dire il grande Pascal - l’autore di quel testo decisivo che s’intitola appunto I pensieri - che «il pensiero fa la grandezza dell’uomo», ma spesso quelle ideuzze vaghe che si agitano nelle scatole craniche di molti sono solo colpi di testa, soffi d’aria, traiettorie destinate a dissolversi come le scie della carena di una nave nel mare. Aveva ragione Leonardo da Vinci quando lapidariamente annotava: «Chi poco pensa, molto erra». Ecco, allora, la necessità di abbandonare il pensiero troppo debole e di ritornare alla seria, faticosa e sostanziosa riflessione. Perché - ed è ancora Pascal ad ammonirci - «impegnarsi a pensare bene è il principio della morale».
Gianfranco Ravasi
* Avvenire, 01 Settembre 2007
Superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, pigrizia (o accidia). Sono i nemici perenni della virtù, i seduttori della coscienza, le indicazioni per quella via larga che conduce alla perdizione. Un volume del biblista Gianfranco Ravasi ne ricostruisce la storia all’interno della cultura occidentale, fra teologia, arte e letteratura
Vizi capitali le porte del peccato
Il grande moralista francese Montaigne (1533-1592) nei suoi Saggi confessava di «trovare che la miglior virtù ha in sé qualche sospetto di vizio», mentre uno che proprio esemplare non era, come l’abate Giovanni Battista Casti (1724-1803) nelle sue Novelle galanti, in verità licenziose, osservava non a torto che «dentro giusti confin virtù si tiene, / se oltrepassarli vuol, vizio diviene»
dii Gianfranco Ravasi (Avvenire, 02.09.2007)
«Vitiis nemo sine nascitur»: stando alle Satire (1, 3, 68) di Orazio, nessuno nasce senza vizi, tesi accolta con entusiasmo da san Girolamo e dai pensatori medievali, che evidentemente rimandavano alla dottrina del peccato originale. La tesi sarà rielaborata a suo modo da Tacito, il quale nelle Storie (4, 74, 2), ribadiva: «Vitia erunt, donec homines», finché avremo sulla faccia della terra uomini e donne, i vizi non mancheranno mai. Come dice il proverbio, «Ogni farina ha la sua crusca» e nessuno, «dal più vecchio all’ultimo», può afferrare una pietra per colpire l’adultera, raccogliendo l’invito di Gesù: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra» (Gv 8,7.9). Il tema del vizio deve, dunque, interessare tutti, in teoria e nella pratica. Noi, prima di mostrare i vari volti che esso riesce ad assumere, cercheremo di individuarne il fondo comune, il genere permanente, la struttura costante.
Cominciamo da un tentativo di definizione, a partire dal nome che, in greco, di fatto era ed è assente, tant’è vero che si ricorreva a kakía o kakótes (termini che di per sé significano semplicemente cattiveria, malvagità, male) o, nella tradizione cristiana, a loghismói, pensieri, ragionamenti perversi. L’italiano, l’inglese e il francese attingono al latino vitium che genera le voci «vizio» e «vice». Quale sia l’etimologia è difficile dire, come ammoniscono nel loro fondamentale Dictionnaire étymologique de la langue latine (1931 e 19944) due importanti latinisti, Alfred Ernout e Antoine Meillet, che sbrigativamente concludono: «L’origine e la storia della parola sono troppo oscure perché si possa determinare con certezza il senso primitivo».
Nel tedesco Laster si ha un derivato del verbo lasten, gravare, per cui il vizio è un Last, un peso che opprime l’anima come un macigno. È curioso notare, però, che il nostro vocabolo «vizio» riesce a produrre una fioritura di termini non sempre negativi. Certo, ci sarà anche un «vizzo» e «avvizzito» che svelano l’esito finale di aridit à, di inconsistenza, di vuoto, di polvere che l’immoralità provoca; ma di altro tenore sono derivati eleganti e aggraziati come «vezzo», «vezzoso», «vezzeggiare », «vezzeggiativo», o più decisi ed efficaci come «avvezzare », «divezzare» o «svezzare».
Si dice, però, che da «vizio» discenda anche «vituperare», verbo che con larghezza i moralisti coniugheranno proprio per condannare i vizi. Naturalmente attorno al vocabolo centrale che stiamo studiando si dispone a corona una costellazione lessicale di sinonimi come peccato, male, colpa, immoralità, perversione, depravazione, degenerazione, corruzione, perdizione, errore, sbaglio, cattiva abitudine, ma anche, in tonalità minore, difetto, mania, malvezzo, capriccio, imperfezione, pecca, neo, magagna, alterazione, scorrettezza e così via, oltre ad aggettivi più corposi e vigorosi come traviato, dissoluto, scellerato e altri ancora. A questo punto s’impone una definizione. Proviamo a cercarla nel Dizionario etimologico della lingua italiana di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli (vol. 5, 1988): «Abitudine inveterata e pratica costante di ciò che è, o viene considerato, male».
Una conferma la troviamo nel Grande Dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia (vol. 21, 2002), che alla voce «vizio» recita: «Abituale disposizione al male, al peccato o, genericamente in modo abietto, ad assumere abitudini e comportamenti moralmente riprovati». Cogliamo in entrambe le definizioni il germe generatore del vizio, ossia l’abitudine maligna. Il vizio, anche se parte da un atto e si esprime in atti, è una tendenza perversa di base che si impasta con la persona stessa. Per questo la letteratura morale cristiana greca amava parlare di loghismói, cioè di stato mentale operativo, oppure di pnéumata, di principi perversi in azione. Il vizio è la ripetizione non occasionale del singolo peccato, è la tendenza a compierlo in modo sistematico. Questa particolare qualità se, da un lato, non esclude la colpevolezza e la responsabilità e tica, trattandosi di uno stato creato e alimentato da scelte libere, d’altro lato può introdurre in casi specifici e da vagliare di volta in volta una certa deresponsabilizzazione e, quindi, una diminuzione o anche un’assenza di colpa.
Proprio per tale dimensione di abitudinarietà, non è corretto identificare il vizio con il peccato in senso stretto: quest’ultimo è un atto cattivo singolo con le sue connotazioni proprie; l’altro è un costume acquisito, una disposizione abituale che è generata dal peccato iniziale e a sua volta genera peccati in modo costante e continuo. È più corretto, allora, conservare la dizione italiana comune dei «sette vizi capitali», rispetto alle altre lingue che adottano il termine «peccato»: les sept péchés capitaux, the seven deadly sins, die sieben Todsünden, los siete pecados capitales... Certo, il vocabolo «vizio» può assumere altre accezioni metaforiche. Così si parla di «vizio di mente» per designare uno stato di infermità mentale; in sede giuridica il termine può denotare una non conformità ai dispositivi di una legge o norma (per esempio, un «vizio di legittimità»); in ambito fisico può segnalare un’alterazione funzionale o ambientale («aria viziata»); in filosofia si parla di «circolo vizioso » quando si procede da premesse non dimostrate per approdare a una conclusione usata come argomento per dimostrare le premesse di partenza. È interessante notare - e lo ribadiremo quando entreremo nel territorio a luci rosse della lussuria - che nel linguaggio comune la parola «vizio» si è ristretta attorno alla depravazione sessuale: «vizio carnale», «vizio contro natura», «vizio solitario», «vizietto», «persona viziosa», «atti viziosi» evocano una sola dimensione, quella della colpa in ambito sessuale.
Il vizio è, in sintesi, una categoria morale che denota una condotta negativa rispetto a un determinato sistema di valori, codificato a livello naturale (e quindi sulla base di un’antropologia filosofica) o a livello trascendente (qui entr a in causa la morale religiosa) o in ambito sociale e comportamentale.
La virtù è il suo antipodo, dato che essa è armonia con quelle norme o dominio della coscienza personale e della ragione su impulsi intimi o esterni. In entrambi i casi alla base c’è l’esercizio della libertà personale. Bisogna, però, riconoscere che esiste una lunga tradizione che ha cercato, e non a torto, un nesso o una certa continuità/discontinuità fra virtù e vizio. Avremo occasione di mostrare come una virtù impazzita, esasperata o ipocrita possa scivolare nelle paludi del vizio. È san Girolamo - il quale l’aveva desunto forse dal retore latino Quintiliano, e ripetuto più volte - che proclama: «Vicina sunt vitia virtutibus», ci sono vizi vicini alle virtù.
Infatti, le frontiere morali non sono cortine di ferro e, come diceva Seneca nelle sue Epistulae (120, 8), «ci sono vizi che confinano con le virtù». Talvolta, anzi, cercano di scimmiottarle, oppure le deformano nell’eccesso o nell’insufficienza. Il grande moralista francese Montaigne (1533-1592) nei suoi Saggi confessava di «trovare che la miglior virtù ha in sé qualche sospetto di vizio», mentre uno che proprio esemplare non era, come l’abate Giovanni Battista Casti (1724-1803) nelle sue Novelle galanti, in verità licenziose, osservava non a torto che «dentro giusti confin virtù si tiene, / se oltrepassarli vuol, vizio diviene». Non si deve, poi, dimenticare che talora accade quello che La Rochefoucauld nelle Massime esprimeva con realismo, ossia la consapevolezza che la fragilità della natura umana combina in sé pregi e limiti, senza possibilità di rigide e nette distinzioni: «I vizi entrano nella composizione della virtù, come i veleni nella composizione dei rimedi. La saggezza li mescola e li tempera e se ne serve utilmente contro i mali della vita».
Nel giudizio sull’immoralità di una persona non si deve, perciò, procedere in modo categorico e farisaico. Il detto popolare secondo il quale «ogni ladrone ha la sua devozione» ha un’indubbia anima di verità. Quando Torquato Tasso fu invitato a tenere la prolusione in occasione dell’«aprirsi dell’Accademia ferrarese», nella sua città di adozione, affermò fra l’altro: «Chiaramente si raccoglie che ’l vizio, ancorché sia reo per se stesso, e d’odiosa e malvagia natura, può aver però qualche compagnia e qualche congiunzione colle cose buone e lodevoli». Non è, poi, mai mancato anche nella morale tradizionale, oltre che nella prassi giudiziaria, il ricorso alle attenuanti: esse non giustificano radicalmente il comportamento corrotto, ma ne possono ridimensionare la gravità a causa del contesto, dei condizionamenti e delle scusanti. Certo, quando nelle sue Epistulae (116, 2) dichiarava che «non c’è vizio che non abbia scusa», Seneca voleva bollare l’ipocrisia del peccatore che accampa alibi e allega giustificazioni e motivazioni a sua discolpa. Questo, però, non esclude che la gravità di una colpa possa talvolta essere ridotta e fin annullata da una serie di ragioni addotte a spiegazione di uno stato particolare, nel quale la persona era priva delle condizioni perché ci fosse piena coscienza e responsabilità. Sta di fatto, comunque, che questa rimane un’eccezione - importante, certo, per un corretto e giusto giudizio morale - ferma restando la norma permanente.
Dopotutto, c’è un altro proverbio che non fa sconti: «Il lupo perde il pelo, ma non il vizio». Abbiamo, dunque, definito il vizio, ne abbiamo abbozzato la fluidità dei confini pur nella sua sostanziale identità negativa, ora dovremmo determinarne la classificazione: detto in termini più tradizionali e un po’ schematici, il numero. Il desiderio di elencazione fa parte di una primordiale aspirazione all’ordine e alla completezza. Si pensi, per esempio, che i primi papiri «scientifici» egizi, come quello denominato Anastasi, erano basati su lunghi elenchi, in cui ogni nome era una sorta di stampo definitorio che isolava e conteneva il singolo animale, vegetale o minerale a cui era assegna to. Questo procedimento valeva anche per le realtà morali. È il caso dei vizi, la cui codificazione fu appunto fissata attraverso il ricorso a un numero, il tipico settenario che, come è noto, nell’immaginario biblico e in un’antica simbologia numerologica era indizio di completezza e pienezza. A dire il vero, però, le cose in principio non andarono proprio così.
Era nato a Vienna nel 1903, ricevette il Nobel per la medicina nel 1973 e morì in Austria nel 1989: Konrad Lorenz, psicologo e zoologo, è, come molti sanno, il fondatore dell’etologia, cioè lo studio del comportamento degli animali in libertà e del loro «imprinting» o apprendimento istintivo e primordiale. Accanto a opere di grande successo come L’anello di re Salomone (1949) e uno studio sull’aggressività, Il cosiddetto male (1963), Lorenz ha composto un interessante studio di indole socio-antropologica intitolato Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (1973), mentre il filosofo Constantin Noica, appartato ma originale pensatore rumeno, aveva diagnosticato le Sei malattie dello spirito contemporaneo (1978).
Ora, il ricorso al numero otto per elencare i vizi capitali fa parte di un’antica tradizione cristiana orientale che forse attingeva all’etica stoica, la quale enumerava quattro passioni fondamentali (tristezza, paura, invidia, piacere) e quattro vizi opposti alle virtù (irrazionalità, pigrizia, ingiustizia e intemperanza).
Sta di fatto che uno degli autori spirituali più acuti e originali del IV secolo, il monaco Evagrio Pontico, nella sua opera Praktikós, composta di cento capitoli, propose una serrata analisi degli «otto pensieri generici», in greco loghismói, termine che, come già detto, era destinato a indicare i vizi capitali, concepiti come scelte coscienti della persona. La sua lista ha impostazione «ascendente», procede cioè dal minore per ascendere al male maggiore, forse anche sulla base di una tripartizione che l’autore aveva concepito nella sua analisi della vita spirituale: i l primo livello, la práxis, ossia il comportamento concreto e immediato, assorbiva i primi tre vizi; la deutéra theoría, la «riflessione secondaria» umana, contrastava i successivi tre e, infine, la theoría protéra, la «riflessione primaria », puntava contro i vizi peggiori, gli ultimi due. Ecco, comunque, l’elenco di Evagrio, che egli confermerà in un’altra sua opera, l’Antirrhetikos, di solito reso con il titolo Contro i pensieri maligni, giunto a noi nelle versioni siriaca e armena (dal greco) e costituito da un florilegio di citazioni bibliche da usare come base scritturistica per contrastare gli otto «pensieri» perversi, e che probabilmente lo stesso l’autore, ma la paternità dell’opera è discussa, confermerà nello scritto Gli otto spiriti di malvagità: Gola (gastrimarghía) Lussuria (pornéia) Avarizia (filargyría) Tristezza (lýpe) Ira (orghé) Accidia (akedía) Vanagloria (kenodoxía) Superbia (hyperefanía) Non è chi non veda che in questa lista si hanno scelte diverse rispetto all’elenco che passerà in Occidente e che verrà mediato attraverso un altro monaco, lo scita Giovanni Cassiano, vissuto a cavallo fra il IV e il V secolo a Betlemme e in Egitto, ordinato prete a Roma e fondatore di un monastero a Marsiglia.
La popolarità delle sue Istituzioni cenobitiche e delle Conferenze ai monaci - che contenevano appunto l’ottonario dei vizi (rispettivamente in 5, 1 e 5, 2) - fecero sì che via via si elaborasse un’altra classificazione, divenuta canonica con san Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, il quale isolò la superbia come sorgente di tutti i mali, unificò tristezza e accidia, e introdusse l’invidia. In pratica Gregorio aveva catalogato uno schema ottonario a 7 + 1, laddove la superbia rimaneva a sé stante come radice degli altri vizi. Fu solo nel Medioevo, con Ugo di San Vittore, un teologo morto nel 1141, che si superò ogni ambiguità e si optò per il settenario, sulla scia delle sette virtù (oltre che dei sette doni dello Spirito Santo, delle sette domande del Padre nostro e di altri settenari presenti nella Bibbia che, come si è detto, considera questo numero segno di pienezza). L’ordine dei vizi continuò a oscillare secondo i vari autori; alla fine prevalse quello che abbiamo anche noi seguito, che è di tipo «discendente »: si procede dal vizio maggiore, la superbia, seguendo una trama degradante che rimane, però, sempre moralmente grave e «mortale»: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, pigrizia.
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l’autore e il libro
Il biblista in questi giorni protagonista a Sarzana e Mantova
Gianfranco Ravasi (1942), sacerdote della diocesi di Milano dal 1966, è Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana, docente di esegesi biblica alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e membro della Pontificia Commissione per i Beni culturali della Chiesa. Esperto biblista ed ebraista, già impegnato in campagne di scavo nel Vicino Oriente, è autore di numerosi libri tra cui ricordiamo: Giobbe (1979), Il Libro dei Salmi (1981-84), Qohelet (1988), Il Libro della Genesi (1991), Il Cantico dei Cantici (1992), Apocalisse (1999), I Comandamenti (2002), Breve storia dell’anima (2003), Ritorno alle virtù (2005), Via Crucis al Colosseo con Benedetto XVI (2007). Collabora ad Avvenire, Il Sole-24 Ore, Famiglia Cristiana e Canale 5.
Il brano che qui pubblichiamo è tratto dal primo capitolo del nuovo volume di Ravasi Le porte del peccato. I sette vizi capitali (Mondadori, pagine 244., euro 17,50), che esce a giorni in libreria. Un viaggio acuto ed erudito nella comprensione delle realtà perenni che tentano l’uomo al male e alla rottura dell’amicizia con Dio.
Ravasi interviene oggi, alle ore 21, al Festival della Mente di Sarzana (Sp) sul tema «La Parola creatrice» e mercoledì 5 settembre al Festival della letteratura di Mantova (ore 18,15) su «Parola e ascolto».
Papa: ordina 6 nuovi vescovi
Tra loro spicca il biblista monsignor Ravasi *
(ANSA) - CITTA’ DEL VATICANO, 29 SET - In una solenne messa nella Basilica di San Pietro, Papa Ratzinger ha ordinato sei nuovi vescovi della Chiesa Cattolica.Tra loro ci sono mons. Gianfranco Ravasi, biblista, divenuto nuovo ’ministro’ della Cultura del Vaticano, e mons. Mieczyslaw Mokrzycki, gia’ segretario di Giovanni Paolo II. Tra i vari compiti dei vescovi - ha detto il Papa - vi e’ anche quello di difendere l’ordine del matrimonio, ’stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato’.
*ANSA» 2007-09-29 11:29
Noi, analfabeti seduti su un tesoro
di Armando Massarenti (Il Sole-24 ore/Domenica, 11 marzo 2012)
Due dati dovrebbero impressionarci come italiani, se vogliamo vederci (anzi, diciamo pure, venderci) come cittadini del mondo. Il primo è quello che riguarda la strepitosa immagine positiva che ancora siamo in grado di diffondere all’estero. Chiunque di noi si presenti come italiano in un qualunque ambiente di New York, Parigi, Tokyo, Pechino, Singapore, non riceverà che elogi e espressioni di ammirazione.
Perché? Perché nonostante tutto il nostro brand va fortissimo. E di che cosa è fatto questo brand? Vi sembrerà strano ma la parola che lo riassume è una sola: Cultura. Noi siamo il Paese della Cultura. Ovunque nel mondo. Nel mondo che conta e che si arricchisce. Lo dico con un’enfasi che non è la mia (e neppure l’uso disinvolto di parole del marketing come brand lo è, ma è per intendersi), perché non amo la retorica e per me cultura è anche tante altre cose assai più piccole (è anche ingegnosità minuta, fumetti, videogiochi, grafica, artigianato) e anche meno piccole ma in genere poco amate dagli umanisti: scienza, diritto, economia. Ma c’è poco da fare: è quello il brand che, quando siamo bravi, riusciamo a vendere, e dobbiamo andarne fieri. Anche nelle piccole cose: nel nostro design, nelle nostre automobili, nel nostro abbigliamento, nei nostri orologi di lusso, nei nostri mobili, in tutto il made in Italy c’è un riverbero della nostra gloriosissima storia, in un’immagine in cui lo straniero vede tutta la grandezza dell’antica Roma e del nostro Rinascimento, che condisce con i nostri musicisti, gli inventori dell’Opera lirica, i poeti, i grandi navigatori, i fondatori della scienza galileiana, cioè di quel metodo che è alla base del prodigioso progresso tecnico-scientifico degli ultimi quattro secoli in Europa e nel mondo. Ma di questo si parla nelle pagine centrali di questo numero, dove si può vedere bene, dati alla mano, che nei casi migliori la cultura «fattura», anche al nostro interno, nelle nostre regioni e province.
Passiamo dunque al secondo dato che dovrebbe impressionarci. Anzi, in questo caso, allarmarci. Noi italiani appariamo come primi ‐ primi assoluti! ‐ in una ben poco encomiabile lista. Tutto il mondo la può leggere e stupirsene. È pubblicata nella voce «functional illiteracy» di Wikipedia (la voce corrispondente «analfabetismo funzionale» non c’è nella versione italiana di Wikipedia, qualcuno la allestisca!), e dice che il 47 per cento degli italiani dai 14 ai 65 anni ha forti deficienze nella semplice comprensione di un testo. All’Italia seguono il Messico (43,2%), l’Irlanda (22,6%), Gran Bretagna (21,8), Usa (20), Belgio (18,4) giù giù (anzi su su) fino alla alfabetizzatissima Svezia (7,5%!).
Il 47 per cento di analfabeti vi sembra un’esagerazione? Prima di allarmarci potremmo provare a consolarci in due modi. Primo: obiettare che i dati della voce di Wikipedia si fermano al 2003. Magra consolazione. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ci ha ricordato, nel suo recentissimo Investire in conoscenza e sul Sole 24 Ore-Domenica di due settimane fa, che negli anni successivi gli analfabeti funzionali sono saliti all’80%! E un allarme simile è confermato da uno dei nostri massimi linguisti, Tullio De Mauro. Anche la tv, dopo aver fortemente contribuito alla crescita e unificazione linguistica del Paese, ora sta assecondando il movimento opposto.
Secondo modo di consolarci: si tratta di «analfabetsimo funzionale» e non di analfabetismo tout court, dal quale siamo usciti con un grande sforzo collettivo con la ricostruzione del secondo dopoguerra. Magra, magrissima consolazione anche questa, alla quale si può rispondere con la famosa battuta di Eugenio Montale, che aveva già capito tutto: «Il rapporto tra l’alfabetismo e l’analfabetismo è costante, ma al giorno d’oggi gli analfabeti sanno leggere». Sanno leggere ’tecnicamente’, nel senso che per lo più riconoscono i caratteri, e sanno maldestramente far di conto. Peccato che nell’80 per cento dei casi non capiscano quello che leggono e non dispongano di quel minimo di attrezzatura intellettuale utile a orientarsi nel mondo. Non sono in grado per esempio di capire e compilare un modulo in cui vengano richieste non solo informazioni anagrafiche, ma anche riguardanti la propria posizione professionale, previdenziale o fiscale. E se nei paesi civili la media dei cittadini di questo tipo si assesta sul 20%, da noi le percentuali sono invertite!
Dove può andare il Paese più ricco di opere d’arte del mondo, che futuro può immaginare per il suoi giovani, per la qualità della vita, per riattivare quel «circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione», se parte da questa miserevole dotazione di capitale umano?
Mettendo insieme le due immagini ‐ quella del brand e quella dell’analfabetismo ‐ viene da pensare al grande illuminista tedesco Ephraim Lessing, il quale suggellò il suo Grand Tour con una favola in cui i moderni italiani che si vantano di discendere dagli antichi romani vengono paragonati a vespe che uscendo dalla carogna di un cavallo esclamano: «Da quale nobile animale abbiamo tratto origine!». Quanto gli italiani sappiano diventare boriosi proprio in ragione della loro storia e al loro patrimonio lo ha poi ribadito un altro filosofo. «Il tratto principale del carattere nazionale degli Italiani - annotava Arthur Schopenhauer in un Taccuino del 1823 - è un’assoluta spudoratezza. Che consiste in questo: da un lato non c’è nulla di cui non ci si ritenga all’altezza, e quindi si è presuntuosi e arroganti; dall’altro non c’è nulla di cui ci si ritenga abbastanza esperti, e quindi si è codardi. Chi ha pudore, invece, è troppo timido per alcune cose, troppo orgoglioso per altre. L’Italiano non è né l’uno né l’altro, bensì, a seconda delle circostanze, o è pavido o è borioso».
Oggi dobbiamo avere l’umiltà di ricominciare da capo, di ripensare i saperi e le competenze, e acquisire piuttosto la consapevolezza di essere degli analfabeti seduti sopra un tesoro, sempre di più privi di quegli strumenti di base che ci permetterebbero non solo di capire, ma anche di far fruttare i formidabili talenti che ci circondano.
Smettiamola, con il nostro turismo d’accatto, di presentarci come degli straccioni che a un certo punto scoprono di avere il Colosseo (oggi usato come una specie di rotatoria per le automobili) e cercano di mungerlo il più possibile, senza aggiungerci nulla in termini di innovazione, intelligenza, conoscenza, capitale umano. Totò che vende la fontana di Trevi a un turista americano è un’altra immagine appropriata, e ancora attuale. Ci fa ancora ridere. Ridiamoci pure sopra. Ma allarmiamoci anche, perché Totò ci sta dicendo ancora la verità. Abbiamo capito che quell’opera ha un valore inestimabile, ma ne capiamo sempre meno il significato, mentre è proprio questo che gli altri Paesi civili ed emergenti comprendono e apprezzano, e spesso sfruttano economicamente, con maggiore lungimiranza, al nostro posto.
Ecco allora il vero senso di emergenza che il nostro Manifesto per la cultura vuole imprimere ai decisori pubblici attuali, e al Governo intero, che non possono sottrarsi a questa enorme responsabilità storica solo perché da trent’anni i loro predecessori lo hanno fatto. Il senso dell’urgenza sta in quei dati agghiaccianti, in quel misero 20% di italiani (8 milioni circa) che dispone di strumenti di lettura e scrittura minimi indispensabili. Siamo in gravissimo ritardo nel quadro internazionale e nell’ambito di una società globalizzata cosiddetta della «conoscenza». Se poi aggiungiamo i dati relativi ai ragazzi di 15-16 anni dei famosi test Pisa c’è da allarmarsi ancora di più.
Dunque prima ancora che dalla Cultura, partiamo dalle sue basi, dall’istruzione, e ripensiamola nei termini dell’unico possibile investimento per il nostro futuro dopo la crisi. Prendiamo il coraggio ‐ e i dati ‐ a due mani e diamoci da fare. Io sono certo, con la maggior parte di voi, che impegnandoci un po’ possiamo tranquillamente dimostrare che Lessing e Schopenhauer avevano torto.