Il successo di massa con i film. Fu anche grande talent-scout
Vita e arte del re della sceneggiata.
Il ricordo del critico musicale *
Di umili origini e abituato fin da ragazzino a sbarcare il lunario con i lavori più disparati (è stato aiuto cuoco prima, scaricatore di porto in seguito), Mario Merola si dedicò da sempre alla canzone, ma giunse in realtà al teatro quasi per caso, dopo aver inciso una canzone dai toni violenti, «Malu Figlio». Il brano entrò a far parte di una sceneggiata che lo vide protagonista. Il grande successo ottenuto convinse Mario Merola a optare definitivamente per lo spettacolo e grazie a lui la sceneggiata inizia a imporsi fuori dai confini di Napoli, affermandosi anche all’estero, persino nel Nordamerica. Il primo film interpretato da Merola è Sgarro alla camorra del 1973.
Merola raggiunge in questo periodo la massima popolarità, e ottiene i suoi migliori ruoli, in una serie di pellicole dirette per la maggior parte da Alfonso Brescia. Fra queste Guapparia (1984), Torna (1984), Giuramento (1982), Lacrime napulitane (1981), Napoli, Palermo, New York il triangolo della camorra (1981), I figli... so’ pezzi ’e core (1981), Carcerato (1981), La tua vita per mio figlio (1980), Zappatore (1980), Il Mammasantissima (1979), I contrabbandieri di Santa Lucia (1979), Napoli... la camorra sfida, la città risponde (1979), Sbirro, la tua legge è lenta... la mia no! (1979), Da Corleone a Brooklyn (1978).
In una instancabile attività lavorativa cui era costretto sia dall’altissimo tenore di vita suo e del suo seguito, sia dalla sua passione per il gioco d’azzardo, già negli anni ’60 realizzava dischi, si esibiva in spettacoli, matrimoni, feste private.
E fu anche talent-scout contribuendo tra l’altro al lancio del giovane Massimo Ranieri. Tra gli anni ’70 e ’80 rilancia la tradizionale sceneggiata napoletana, un canovaccio teatrale ispirato a una canzone del repertorio popolare e di solito basato sulla triangolazione «isso, essa e ’o malamente» (cioè: lui, lei e il mascalzone). Aveva festeggiato i settant’anni il 18 settembre del 2004 con un mega party organizzato al Molo Beverello. E tutti i colleghi di varie generazioni, noti e meno noti, erano andati a rendergli omaggio. A cantare per lui, fra gli altri, Gigi D’Alessio, Valentina Stella, Mirna Doris, Tullio De Piscopo, Mariano Apicella e molti altri.
A fare gli auguri a Mario Merola andarono pure il governatore Antonio Bassolino e il sindaco Rosa Russo Iervolino, mentre la torta alla panna - guarnita con dei cornetti rossi portafortuna - fu portata sul palco da Gigi D’Alessio vestito da pasticciere.
I due cantarono insieme «Cient’anne», il brano scritto nel ’92 proprio per Merola. Una festa popolare e trasversale com’era sempre stato lui. Eppure l’uomo che aveva trasformato la sceneggiata e il personaggio dello «Zappatore» in una epopea internazionale aveva avuto riconoscimenti impensati. Poco prima dell’estate 2004, Hugo Race, ex chitarrista dei Bad Seeds (la band di Nick Cave) ha messo in commercio «The Merola matrix», un cd di brani lounge ed elettronici realizzati con canzoni e frammenti di dialoghi tratti dai film di Merola. Un disco diventato subito un hit tra il pubblico «alternativo».
«Merola è unico - ha detto Gigi D’Alessio - come Totò. Ha portato la canzone napoletana nel mondo. Ha seminato. Se noi riusciamo ad andare avanti lo dobbiamo a lui». Era una personaggio che amava l’esagerazione. Come lui stesso racconta nell’autobiografia «Napoli solo andata... il mio lungo viaggio» pubblicata nel 2005 da Sperling e Kupfer. La vita di Mario Merola assomiglia molto alle sue applaudite sceneggiate: fortuna, drammi, successi e lacrime.
Mario Luzzatto Fegiz
* Corriere della Sera, 13 novembre 2006
Addio a Merola, l’Arte della strada
di Leoncarlo Settimelli *
È ovvio, Merola lascia un vuoto nel panorama della canzone napoletana. Per quanto gli altri facessero a gara a pennellare aggraziati gorgheggi, ad apparire fedeli ad una tradizione di discreto canto da salotto, lui no, lui irrompeva nella melodia con la forza di uno scaricatore, qual’era stato al molo Beverello, finendo per interpretare il ruolo di duro, di scardinatore del pentagramma, di personaggio di una Napoli tutta core, passione e dramma. Non a caso lo chiamavano il re della sceneggiata, cioè di quel genere un po’ truculento e molto drammatico che costituisce un modello del teatro musicale napoletano. Un modello di cui ’O zappatore è forse l’esempio più classico ma anche d’impianto più semplice.
Mentre il resto - cioè le altre sceneggiate - è tagliato alla grossa: si prende cioè una canzone e se ne amplia il nocciolo, puntando su alcune figure classiche, per esempio isso essa e ’o malamente, dove quest’ultimo è naturalmente il cattivo, colui che approfitta della bontà degli altri ma che alla fine soccombe, per la gioia dello spettatore che urla contro i cattivi e applaude i buoni e che vuol tornare a casa contento di aver visto il bene trionfare. Merola era «’o malamente»?
Il suo volto, la forza che esprimeva il suo corpo, lo stile pieno di aggressivi melismi che scaturivano dalla sua gola, potevano farlo credere. Ma sarebbe stato troppo semplice. Eppoi «’o malamente» non entra mai nel cuore del pubblico, come invece Merola aveva saputo fare, anche se i suoi atteggiamenti pubblici qualche volta potevano apparire confinanti con le figure di quella Napoli violenta esibita in scena.
Non è un mistero che girasse armato e noi stessi, una sera, lo avevamo visto sbattere sul tavolo un’arma, che lui si affrettava a dichiarare gli servisse solo per difendersi. Dunque, preferiva il ruolo della vittima, a quello che - parliamo sempre di sceneggiata - sembra trascinato dal Destino verso la sconfitta ma che poi si riscatta rivelando che il colpevole è l’altro, inondando di lacrime il palcoscenico e soprattutto facendo svuotare le sacche lacrimali degli spettatori.
Ed eccoli i titoli delle sue sceneggiate, da Malu figlio (e subito si intuisce il plot drammatico del discendente che prende una cattiva strada) a Camorra (tema assai popolare, no?), da Mamma addò sta? a I figli so’ piezz’’e core, da ’O vendicatore fino appunto a ’O zappatore, dove due poveri contadini si svenano per mandare il figlio a studiare a Napoli, ma lui spende tutto in frivolezze a tabarin e quando i genitori piombano nel locale per riportarlo sulla buona strada, lui fa finta di non conoscerli, perché si vergogna di loro. E poi Guapparia, Lacreme napuletane.
Valori ancestrali, figure semplici tipici di una società con regole incerte e incerto futuro che se non trova giustizia nella realtà vuole almeno vederla trionfare nella finzione. Genere difficile per il quale occorrono figure di forte spessore, come Merola, che si era fatto strada con fatica e sudore. Era nato a Sant’Anna alle Paludi, da padre ciabattino e madre a casa che doveva preparare il pranzo anche per altri quattro figli, aiutata dal piccolo Mario. Intanto non può andare a scuola e imparerà da solo a leggere e a scrivere.
Poi viene il pallone, tra le riserve del Napoli, quindi il servizio militare, l’aiuto cuoco e infine lo scaricatore. Qui la sua voce si dispiega e, non si sa come, incide un disco che riscuote un certo successo e che lo convince a lasciare la fatica del porto per il teatro. Esordisce al Sirena ma presto fa il giro di tutti i teatri napoletani, partecipa ai festival partenopei del ’65, ’66, del ’67, del ’68 e diventa un personaggio che è tutt’uno con le sue canzoni.
Nel 1976 sfida Milano con le sue sceneggiate, ottenendo un grande successo in una città che sembrava inespugnabile per un genere prettamente meridionale. Ormai Merola dilaga, ormai è una figura centrale della canzone napoletana che sfonda anche in Canada, e che in America - dopo aver portato al successo presso gli italiani la sua versione di ’O zappatore - viene ricevuto dal presidente Ford. Intanto ha sposato Rosa Serrapiglia, che gli darà tre figli. Alla morte di lei, per cancro, sposerà la sorella Enzina, che ne mette al mondo altri tre. Polemico ed aggressivo, compare più volte in tv per dimostrare ai critici di bocca delicata che lui ha un pubblico sterminato.
Sullo schermo interpreta una serie di film musicali, tutti di taglio drammatico e fortemente popolare: Napoli serenata calibro 9, Da Corleone a Brooklin. Tradimenti, guappi, figlie che perdono l’onore e mamme in lacrime, figli traviati e padri in carcere, sparatorie e sangue ne sono i principali ingredienti. Roberta Torre lo fa apparire in Sud Side Story e nel 2003 Merola presta la voce anche per il cartoon Totò Sapore e la Magica Storia della Pizza.
La salute però comincia a tradirlo e qualche anno fa viene dato per spacciato. Ma torna sui palcoscenici, un po’ malconcio ma sempre aggressivo. La morte sembra spaventata da tale personaggio e rimanda la sua chiamata. Forse preferirebbe raccoglierlo in mezzo a una strada, in uno scenario simile a quello delle sue sceneggiate, con il puzzo della polvere da sparo e il sangue che scorre sul selciato. Invece è in uno scenario famigliare che, forse per aver mangiato delle cozze, inizia l’ultimo viaggio, senza drammi e senza «’o malamente» che gli tende l’agguato.
* www.unita.it, Pubblicato il: 13.11.06 Modificato il: 13.11.06 alle ore 13.22
In migliaia ai funerali del re della sceneggiata. Tra la folla la Napoli di mezzo, quella che si arrangia
Salutava il boss e Falcone, adorava padre Pio e Sinatra
di Michele Serio (Liberazione, 15.11.2006)
Napolinostro servizio. Di solito le cerimonie funebri servono a trasformare il defunto, chiunque sia, in un santo. Nelle omelie dei parroci, i pregi del caro estinto superano di gran lunga i difetti, la sua vita diventa pura come un cristallo di Boemia. Ma Mario Merola non merita davvero di essere sottoposto a un rituale così stantìo. Egli era un’icona di Napoli, come Totò, come Eduardo. E Napoli è una città che non accetta eroi senza macchia. Anzi, da queste parti, la macchia in un certo senso diventa il marchio dell’eroe. Ecco il motivo per cui, ai funerali di Merola celebrati nella chiesa del Carmine, si raccolgono migliaia di persone, mentre una televisione locale riprende l’evento in diretta proiettandolo su un maxischermo. Molti artisti decantano la debordante capacità comunicativa del defunto mentre i politici, da un po’ di tempo in disgrazia, cercano di approfittare del momento di commozione per accumulare qualche bonus che giustifichi la loro ignavia. Insomma è stato messo in piedi il solito, trito baraccone mediatico. Eppure basta aggirarsi tra la folla per comprendere per chi Merola davvero cantava e da chi era davvero ritenuto grande.
La gente raccolta innanzi alla chiesa è composta per lo più da persone comuni, cioè quelle che si barcamenano tra le clientele, ormai radicate, del potere politico e l’invasione sempre più proterva della camorra. Questi individui di solito, non ricevono benefici né dall’una né dall’altra parte, ma vivono ai margini, raccattando schegge di benessere un po’ qua e un po’ là.
Ebbene Mario Merola era proprio l’eroe di questa Napoli di mezzo, cioè quella che si arrangia. Non a caso nella sceneggiata egli interpretava indifferentemente il ruolo dello scafista che contravveniva alle leggi proclamando nello stesso tempo la sua onestà in nome del principio: «Bisogna pur dare da mangiare alla famiglia». E magari, nel lavoro successivo, senza sentirsi in contraddizione, offriva il suo volto all’emigrante onesto, costretto a lasciare la città nativa per cercare fortuna «in terre assaje luntane», proprio per sfuggire alla minaccia della criminalità organizzata.
Anche nella vita privata Mario Merola non si sottraeva alle sirene dell’ambiguità: egli dichiarava a ogni pie’ sospinto l’amore per la famiglia e in particolare per la moglie. Eppure, dettando la sua autobiografia, ha confessato candidamente di aver avuto innumerevoli scappatelle extraconiugali: «L’uomo è cacciatore; la donna, se vuole, può essere preda». Raccomandava ai suoi fan di non deviare mai dalla retta via anche se lui, nel frattempo, aveva dilapidato sui tavoli di gioco una fortuna che ammontava a parecchi miliardi di vecchie lire, giustificandosi così: «Se non giochi, che fai? Mangi, bevi e ti vai a coricare?».
Merola aiutò Gigi d’Alessio, Nino d’Angelo, giovani che avrebbero potuto fargli ombra, dimostrando una generosità che in campo artistico è rara come il quadrifoglio che fiorisce sulla sabbia. Però ha lasciato i suoi figli in una situazione economica niente affatto florida, come se la sua generosità fosse destinata al pubblico, mentre nella vita privata preferiva la pratica dell’avarizia.
Nel corso di innumerevoli interviste rilasciate ai giornali, ricordava con orgoglio di avere stretto la mano dello spietato boss di camorra Michele Zaza ma anche quella del giudice Falcone, che combatté l’illegalità a prezzo della vita. Si compiaceva di aver avuto il privilegio di conoscere di persona Padre Pio che venerava, ma anche Frank Sinatra, l’ambigua star collusa con la mafia, che pure ricordava con uguale ammirazione.
Per diventare ‘‘o core ‘e Napule” egli doveva per forza accettare le contraddizioni del suo popolo. Per ottenere la gloria degli altari, occorre dimostrare a questa città di saperne mangiare la polvere. Non a caso l’unico rivoluzionario che ha partorito Napoli nella sua storia è stato Masaniello che da pezzente si trasformò, per volere del popolo, in vicerè. E finì trucidato proprio in piazza Mercato, a pochi metri di distanza dai luoghi dove il re della sceneggiata mosse i primi passi della sua carriera. Anche Totò si dichiarò principe per nascita e divenne clown per necessità. Ferdinando quarto di Borbone, che re lo era davvero, imparò a parlare solo in dialetto e si mescolava ai lazzari per partecipare ai loro turpi traffici. Per non parlare di Maradona, il più grande calciatore di tutti i tempi che divenne fuoriclasse sul campo e, fuori dal campo, cocainomane perso. Merola, al pari degli eroi suoi predecessori, amava i concittadini senza avere la presunzione di giudicarli: «Io sono rimasto, io sono qua. O andiamo a fondo tutti o ci salviamo tutti insieme, senza fuì».
Alla fine della cerimonia religiosa, il feretro viene trasportato a braccia fuori dalla chiesa tra due ali di folla plaudente mentre, dal campanile più alto della storica chiesa, risuonano i lugubri rintocchi delle campane a morto. Poi all’improvviso accade qualcosa di strano. Uno scoppio di petardi copre lo scroscio degli applausi e il suono delle campane. A Napoli, dovete sapere, nei vicoli si sparano di continuo fuochi d’artificio, per festeggiare uno sposalizio, una comunione, ma anche per annunciare ai pusher che è arrivato un nuovo carico di droga, oppure per inneggiare alla liberazione di un guaglione appena uscito dal carcere. Lo scoppio dei fuochi di artificio è il modo di comunicare della città nascosta, quella di cui nessuno osa parlare ma con cui tutti fanno affari. E anche stavolta, in occasione dei funerali di “o core ‘e Napule”, essa non ha mancato di farsi sentire. E’ seccante ammetterlo, ma forse solo in questo momento si può davvero affermare che, davanti alla bara di Mario Merola, si inginocchia l’intera città.
I FUNERALI A NAPOLI FUOCHI D’ARTIFICIO E VENTIMILA PERSONE SULLA STRADA
Urla e spintoni in chiesa intorno alla bara di Merola
di Enzo La Penna (La Stampa, 15/11/2006)
NAPOLI Fuochi d’artificio ed emigranti tornati dall’America, le lacrime di migliaia di persone. E poi ressa, urla e spintoni nella basilica del Carmine a pochi minuti dall’inizio del rito. La vedova si sente male, e qualcuno cerca di allontanare la gente che preme sulle transenne per fotografare con il cellulare la bara.
Arriva Gigi D’Alessio, e la ressa ricomincia. Il parroco interviene dal microfono e invita tutti alla calma. «Siamo nella casa di Dio, fatelo per Mario», dice più volte. Sembra che la Napoli della sceneggiata, quella colorata e sofferente, quasi sempre eccessiva, raccontata nelle sue canzoni esista ancora intatta, e sia radunata tutta qui, ad omaggiare Mario Merola. Sono in 20 mila a partecipare ai funerali del cantante napoletano. In chiesa ci sono i gonfaloni delle istituzioni. «Viviamo oggi un grande, tangibile e popolare dolore. Con Mario Merola scompare una persona di famiglia», dice il sindaco Rosa Russo Iervolino. Tanti i rappresentanti del mondo dello spettacolo partenopeo.
All’appello, i nomi della canzone napoletana ci sono tutti: Nino D’Angelo, Mario Maglione, Gigi Finizio. «Napoli ha perso il suo Papa», spiega Gigi D’Alessio, che per tutta la notte ha vegliato il feretro del «maestro». Un manifesto fa il giro della chiesa, c’è scritto «Oggi se ne è andato il sole». Sulla bara anche un mazzo di carte da gioco, per un’ultima partita a chemin de fer con Michele, detto Saint Vincent. L’omelia è breve: Merola è già in Paradiso, assicura don Alfredo Di Cerbo. La chiesa dove nel 1967 si svolsero i funerali di Totò è addobbata da fiori, oltre cinquanta le corone che scompaiono fra la folla, a caccia di un qualsiasi ricordo. E poi decine di striscioni («Napoli saluta Merola, Merola sei stato e resterai per sempre il re, ’O Zappatore nun ’sa scorda a mamma»).
Non mancano le lacrime di emigranti giunti dall’America. «Quando partii per l’America - ricorda Antonio - portai con me un suo disco. Ricordo quanta sofferenza e quanta nostalgia in quel periodo, ma ricordo anche quanta compagnia e quanta della mia terra c’era in quel disco. Come la cantava lui “lacrime napulitane” non la canterà mai nessuno».
LA CAMERA ARDENTE ULTRÀ, CASALINGHE, CANTANTI: UNA FOLLA ENORME HA RESO OMAGGIO AL SIMBOLO DELLA SCENEGGIATA NELLA BASILICA DEL CARMINE MAGGIORE
«Core mio si’ mmuorto...»: show di Napoli per Merola. E la chiesa diventa l’ultimo palcoscenico per «’o rre»
di Fulvio Milone (La Stampa, 14/11/2006)
NAPOLI. Protagonista muto dell’ultima sceneggiata senza lieto fine, Mario Merola riposa in una bara di mogano intarsiato davanti all’altare della Basilica del Carmine Maggiore, circondato da una folla di comparse dallo sguardo dolente. Un vecchio, Giuseppe Del Piano, fissa la folla e ricorda quando fra queste stesse navate la città venne a dire addio a un altro volto di Napoli, Totò: «Allora morì il principe della risata, oggi se n’è andato il re della sceneggiata».
Se da qualche parte «’o rre» può osservare quanto sta accadendo nella chiesa gremita, di certo un sorriso soddisfatto attraverserà il suo faccione da guappo dal cuore buono. Non avrebbe potuto sperare in una rappresentazione migliore, lui che come nessuno sapeva toccare le corde più profonde di una città che, l’amore ricevuto, glielo sta restituendo tutto: fino all’ultima stilla, ostentando il proprio cordoglio senza timidezze, in modo plateale, e trasformando la veglia funebre in una sorta di rappresentazione popolare in cui gli attori recitano con passione, con il cuore. Le comparse sfilano davanti alla bara su cui sono state poste due sciarpe azzurre (una degli ultrà del Napoli Calcio, l’altra con su scritto: «Le tue fans») e una cornice d’argento con la foto di Merola in divisa da carabiniere: «La indossò tanti anni fa nella sceneggiata che forse preferiva: Tuppe tuppe Marescia’», spiega un marcantonio del servizio d’ordine mentre invita i napoletani che formano una fila lunghissima a non sostare per più di pochi secondi davanti al feretro. Ma come si fa a a spingere via la vecchia Carmela mentre protende le braccia oltre le transenne che separano il pubblico dalla bara e grida: «Core mio, core mio si’ mmuorto»? Come si può impedire a un distinto signore di mezz’età di fermarsi e omaggiare «’o rre» con un «Mario sei grande, sei Napoli»? E come mai sarebbe possibile interrompere i singhiozzi di Luciano Caldore, cantante neomelodico gratificato dai fans con il titolo di «sex symbol vesuviano»?
La pattuglia dei neomelodici recita un ruolo importante in quest’ultima dolente sceneggiata meroliana. In lacrime, ostentano il volto pallido e le occhiaie di chi ha trascorso una notte insonne. Tutti si ritengono un po’ figli di «’o rre», che di questo particolarissimo stile musicale tutto napoletano è stato il caposcuola. Antonio Ottaiano, Mimmo Dany, Ciro Riggione, Franco Ricciardi: nomi che al mercato discografico nazionale dicono poco o niente, ma che sulla piazza vesuviana hanno grande seguito. Molti di loro ora sono qui, un po’ per sincera partecipazione, un po’ perché la Basilica del Carmine, in questo giorno, è un palcoscenico da cui è impensabile mancare. Qualcuno, a capo chino, intona a voce bassa qualche strofa di «Cient’anne», la colonna sonora dell’omonimo film in cui recitarono fianco a fianco Merola e un’altra icona neomelodica, Gigi D’Alessio: «No, senz’e te fernesce Napule, sultante tu la sai difendere... Napule è mamma, ma ce vuo’ tu pecchè si’ ’o papà».
«Mario non era un napoletano, era Napoli», mormora fra le lacrime Patrizio, fisico smilzo alla Nino D’Angelo, capelli incollati al cranio con un’overdose di gel. E Giuseppe del Piano, il vecchio che ricorda il funerale di Totò, fa su e giù con il capo: «E’ vero, quando andava all’estero il Maestro era il biglietto da visita di questa città. Lui era tutti noi, e noi eravamo lui. Se lo conoscevo? Certo, era un di noi, ’nu puveriello.
Da ragazzo Mario abitava qui vicino, nel rione Case Nuove: ce l’ho ancora davanti agli occhi, quel ragazzo grande e grosso che faceva lo scaricatore e giocava nella squadra di calcio parrocchiale del Carmelo. Poi fece fortuna, diventò un artista, ma ogni tanto lo incontravo e insieme parlavamo dei vecchi tempi».
La fila scorre lentamente. E’ lunga, lunghissima. Casalinghe e pensionati, giovanissimi con le teste rasate e ragazzine con l’ombelico a vista si abbandonano al rito poco consono all’occasione della foto alla bara con il cellulare. Fuori, nella piazza Mercato, migliaia di persone aspettano di entrare in chiesa. Sono le stesse che al mattino si sono presentate davanti alla cappella dell’ospedale di Castellammare di Stabia, dove la salma di Merola è stata portata prima del trasferimento a Napoli. C’era tanta folla, lì, che i carabinieri hanno chiuso le porte per concedere un po’ di privacy alla vedova del cantante, Rosetta, e ai figli Roberto e Francesco. E ora la gente si è spostata davanti alla Basilica, costretta dalle transenne a formare un lungo serpente che attraversa la piazza i cui muri sono tappezzati da manifesti listati a lutto: «E’ mancato l’artista del popolo, il grande Mario Merola di anni 72». L’ultima, grande sceneggiata in onore dell’uomo che delle sceneggiate è stato il re va in scena anche qui, in strada, dove Napoli rappresenta se stessa nel bene ma pure nel male. Agli sguardi addolorati e partecipi delle famigliole in attesa di entrare in chiesa si alternano quelli, famelici e disperati, dei tossicomani che in piazza Mercato non mancano mai, e che chiedeno qualche spicciolo per rimediare la dose quotidiana. C’è pure qualcuno che sfiora la gente in fila reggendo fra le mani una borsa piena di cd taroccati con i maggiori successi di Merola. Ma Napoli è così. D’altro canto, come dice Roberto, il figlio di «’o rre», «papà amava tutto di questa città, ne accettava gli splendori e le miserie».
L’ADDIO ALL’ARTISTA L’intera città si stringerà stamane attorno al cantante e attore padre della sceneggiata, morto domenica sera dopo sei giorni di agonia, per l’ultimo saluto nella chiesa del Carmine Maggiore
Napoli piange l’amico Merola
di Virgilio Celletti (Avvenire, 14.11.2006)
Tutta Napoli darà l’ultimo addio questa mattina alle 11 a Mario Merola. La chiesa del Carmine Maggiore e la grande piazza Mercato saranno troppo piccole per la folla che lo piange da domenica sera, quando la morte ha chiuso nell’ospedale di Castellammare di Stabia un’agonia durata sei giorni. La chiesa è la stessa in cui 39 anni fa si svolsero i funerali di un altro grande napoletano, Totò. Ma la scelta è piuttosto da collegare al fatto che della Madonna a cui è dedicata, Merola era particolarmente devoto. E qui, dove la sua salma è esposta, ieri c’è stato un incessante afflusso di gente, aperto dalla visita del sindaco Rosa Russo Iervolino.
Tutti attorno alla vedova Rosetta e ai figli. Questa partecipazione massiccia (il traffico a Napoli ieri è andato in tilt, persino sulle tangenziali) è la dimostrazione di quanto Merola fosse un personaggio. Lui, che il successo l’aveva ottenuto quasi per caso, quando aveva già superato i trent’anni. Di origini umili, aveva trascorso la giovinezza secondo l’arte di arrangiarsi, ma senza mai infrangere il diaframma che separa l’onestà da tutto il resto, ignorando gli ambienti che saranno solo il contesto delle sue "sceneggiate". Aveva fatto i mestieri più disparati per sopravvivere, coniugando alla lettera il verbo lavorare che nel dialetto partenopeo si traduce con faticà: dall’aiutante cuoco allo scaricatore di porto.
Nessuno si sarebbe azzardato ad usare per lui il termine artista, eppure è diventato un numero uno. Oggi nessuno può negare a Merola la definizione di artista, sia pure di quella particolarissima forma d’arte che è la sceneggiata: un unicum a cui Merola arriva quasi interpretando la propria vita; e un genere che fonde la tradizione popolare con una forte dose di melodramma, e dove la componente sentimentale delle vicende narrate (e delle canzoni) si unisce a un pesante fatalismo e persino alle impennate della malavita.
Sceneggiata che Merola è riuscito a portare anche al cinema con p ellicole come L’ultimo guappo, Da Corleone a Brooklyn, Carcerato, Guapparia e, soprattutto, Zappatore. Con Merola il genere esce dallo stretto ambito degli appassionati e si afferma anche nel continente americano, soprattutto in Usa, patria di tanti italiani, tanto che ieri i maggiori giornali italiani del Nord America (America Oggi e il Corriere Canadese) sono usciti listati a lutto per la sua morte.
L’emergenza criminalità aveva colpito al cuore in questi giorni Merola. «Adesso - aveva detto - voglio rappresentare soltanto la Napoli del dolore, di chi esce ogni mattina per guadagnarsi la giornata, della mamma che si mette tra il figlio e il proiettile del delinquente che spara a un altro come lui; la Napoli dei lavoratori, che soffrono veramente».
IN 20MILA A NAPOLI PER SALUTARE MEROLA *
NAPOLI - Un rito semplice, con pochi canti, poche parole, tanti fiori, moltissima gente: così Napoli ha dato il suo ultimo saluto a Mario Merola, cantante ma sopratutto uomo di fede che se ne va con una messa solenne. Fuori, sopra Piazza Mercato, all’uscita il corteo funebre viene accolto da fuochi d’artificio, che colorano una giornata piena di sole. Secondo le forze dell’ordine hanno partecipato complessivamente alla celebrazione, che si poteva seguire anche su un maxischermo installato in piazza, oltre 20mila persone.
La folla composta, che ha porto un saluto anche personale al re della sceneggiata, affrontando lunghe ore di fila, dalle prime ore del mattino, per entrare in chiesa, poggiare uno sguardo sulla bara, e uscire fuori entro l’inizio della messa. Il rito, celebrato da padre Alfredo Di Cervo, comincia con 20 minuti di ritardo: Rosetta, moglie del cantante, si sente male e quasi sviene. La ’favola’ del giudizio universale con la separazione di coloro che in vita sono stati giusti e di quanti invece no, si presta ad una omelia che immagina Mario Merola già accolto in Paradiso. La sua vita, dice il sacerdote, è stata vissuta e cantata nei suoi colori più umani, il Signore avrà accolto in Paradiso Mario, anche per ogni volta che le sue note hanno toccato il cuore di qualcuno, aiutando a scegliere la pace e il bene.
Dopo i funerali alcune centinaia di persone non hanno ancora abbandonato piazza Mercato a Napoli e sostano dinanzi al sagrato della Basilica del Carmine, dove dagli altoparlanti allestiti, insieme ad un maxischermo per consentire a tutti di assistere alla cerimonia funebre, vengono diffusi i classici del repertorio del re della sceneggiata.
* ANSA2006-11-12 21:56
MEROLA: DOMANI A NAPOLI I FUNERALI
NAPOLI - Saranno celebrati domani nella chiesa del Carmine a Napoli i funerali di Mario Merola. La salma ha lasciato poco dopo le 9 la camera ardente dell’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia, dove il cantante e’ morto ieri sera ed e’ diretta nella chiesa di piazza Mercato. Fino alle tre di questa notte una folla commossa di fan ha reso omaggio alla salma del popolare cantante.
NAPOLI SI FERMA
L’anima della sua citta’, la lotta tra il buono e ’’o malamente’’, Mario Merola li ha sempre raccontati: con il sorriso. Lui, il re della sceneggiata, metteva il cuore, la passione in tutto quello che faceva. Era impetuoso, diretto e forse non e’ un caso se la sua morte sia arrivata proprio nel giorno in cui, dopo tanto, aveva aperto gli occhi. Quasi un segnale, l’ennesimo, della sua voglia di vivere. E’ morto cosi’, a 72 anni, Mario Merola. Tra l’affetto di chi durante tutta la sua carriera non lo ha mai abbandonato.
Come i suoi fan che lo hanno seguito in tutto il mondo. E che anche in questi giorni, da quando martedi’ scorso era stato ricoverato all’ ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia (Napoli), il loro amore lo avevano scritto su degli striscioni: ’’vivi per te e per noi’’. Ci ha provato, il re della sceneggiata, a vivere. Ma questa volta la storia non e’ finita come nel luglio scorso, quando si era diffusa la notizia che fosse morto e invece proprio lui aveva risposto al telefono di casa. E a chi chiedeva notizie di Mario Merola, senza batter ciglio, aveva risposto: ’’No, non sono morto. Anzi, a dire la verita’, oggi mi sento proprio bene’’.
Ieri, invece, non e’ andata cosi’. Il ’’combattente’’, come lo aveva definito qualche giorno fa il presidente della Regione Campania Antonio Bassolino, ha smesso di combattere. Del resto, lui alla vita dura, alla vita vissuta, e’ sempre stato abituato. Da quando, da aiuto cuoco a scaricatore di porto, la vita e’ stato costretto a guardarla dritto in faccia. Come dire: la prima sceneggiata di cui e’ stato protagonista e’ stata, in fondo, la sua stessa vita. C’e’ chi, come l’attore Gino Rivieccio, alla notizia della sua morte ha detto che se ne va la Napoli buona, generosa. ’’E’ come se, aprendo la finestra di casa mia non vedessi piu’ il Vesuvio’’, ha esordito. Si’ perche’ Mario Merola, in fondo, ha da sempre rappresentato il volto di Napoli, quello che sorride. Che racconta con gli occhi, prima ancora che con le parole, l’amore, la mamma, il tradimento, l’amicizia e anche la malavita. ’’Era straordinario interprete dell’anima popolare di Napoli’’, ha detto stasera il governatore Bassolino, ’’se ne va una bandiera’’, ha sottolineato il presidente del Consiglio regionale della Campania Sandra Lonardo.
In tanti, tantissimi, immediatamente dopo la sua scomparsa, sono accorsi all’ospedale San Leonardo. In tanti, centinaia, soprattutto giovani, hanno voluto dedicargli un ultimo saluto e hanno riempito la cappella dell’ospedale adibita a camera ardente. C’e’ anche chi, a Merola, stasera, gli ha portato una pizza con sopra scritto ’’Grande Mario’’. Gente comune accanto a comici come Angelo Di Gennaro, Alessandro Siani, cantanti neomelodici. Nel reparto di rianimazione del nosocomio napoletano, Merola era arrivato martedi’ scorso, per problemi cardiorespiratori. Il direttore del centro di rianimazione Aniello De Nicola ha parlato di uno ’’schock cardiogeno a seguito di una fortissima gastrinterite’’. Il suo cuore era malato da tempo e oggi proprio non ce l’ha fatta a subire ben quattro arresti cardiaci. Da allora, da quel giorno, Napoli, la Campania, l’Italia intera e’ stata con il fiato sospeso. Nel pomeriggio di oggi, ad un certo il punto, Merola ha aperto gli occhi. Il figlio Francesco ha urlato: ’’papa’ si e’ svegliato’’. Poche ore dopo, alle ore 21.30, Merola ha deciso di chiudere quegli stessi occhi. Per sempre. La figlia ha urlato ’’Tu si nu mito’’. In quel momento, Napoli, tutta intera, ha sicuramente pianto e forse, anche se a bassa voce, avra’ cantato, in suo onore, quelle sue canzoni che hanno segnato la storia, ’’I figli so piezz ’e core’’ e ’’Lacrime napulitane’’. Che hanno segnato la sua storia come quella di tanti, tantissimi altri.
* ANSA, » 2006-11-12 21:56
’CIENT’ANNE’, MEROLA PASSA IL TESTIMONE A GIGI D’ALESSIO *
Volto unico e leader di una citta’ ed una cultura, tanto calda quanto spaesata, la figura di Mario Merola restera’ scolpita nella memoria del popolo italiano come simbolo della cultura musicale partenopea, della sceneggiata, e di una tradizione artistica molto apprezzata anche all’estero.
Un pellegrinaggio e un affetto senza limiti di eta’ ha accompagnato lo spirare di questa grande icona, piu’ volte al confine tra il mito e la realta’.
Sempre in prima fila, subito accorso all’ospedale alla notizia della sua malattia, Gigi D’Alessio, ’leggittimo figlio d’arte’ di Merola. D’Alessio viene infatti lanciato alla ribalta dal maestro grazie al brano interpretato da entrambi, ’Cient’anne’: un successo strepitoso che segna il passaggio del giovane Gigi dal “dietro le quinte” alla platea nella veste di cantautore.
“Cient’anne”
MARIO MEROLA
stasera t’aggia ricere na cosa
ca tanto tiempo te vuleve di
a ’napule aggiu fatte tutt’e cose
si ’marrapuose
nun a fa suffrì
miettele sempre rint’a na canzona
comme pe cinquant’anne aggie fatt’ ì
e quan’ ’ncontra a chi ne parle male
cantale sta canzona e po capi’
si ’o vere me prumiett’e fa sti cose’
pe nat’ e cinquantann’e a fai campa’
GIGI D’ALESSIO
No, senz’e te
fernesce Napule
sultante tu ta sai difennere
si sulu tu
si pari e sta citta’
stann’ emigranne a t’aspetta’
pe sunna’
no
sient’a me
nu po’ mai nascere
niscune te puo’ assumiglia’
l’e’ ritte sempe
Napule e mamma
ma ce vuo tu
pecche’ tu si papa’
MARIO MEROLA
si e vote pe fatiche mai luntane
n’a cartuline appriesso ti a purta
te serve spicialmente rind’a nuttata
quanne te siente sulo e vuo’ turna
fanne tesore e tutte sti cunsigli
pecche’ niscune mai
l’a rata ’mme
lasse pavata assai na cartuline
quann’ in da nebbia a forza era canta’
guaglio’
si o vere me prumiette e fa sti cose
pe nate e cinquant’anne a fai canta’
GIGI D’ALESSIO
No, senz’e te
fernesce Napule
sultante tu ta sai difennere
si sulu tu
si pari e sta citta’
stann’ emigranne a t’aspetta’
pe sunna’
no
sient’a me
nu po’ mai nascere
niscune te puo’ assumiglia’
l’e’ ritte sempe
napule e mamma
ma ce vuo tu
pecche’ tu si papa’
guaglione nun t’ho scurda’
quanne vai pe fore
na cartulina te li ’a purta’
rint’a nuttata
te viene a nostalgia vuo turna
nun t’o scurda’
mo puo’ parti va va.....
cient’anne..... cient’anne....cient’anne.
A immortalare inoltre il passaggio di testimone fra i due, la pellicola intitolata ’Cient’anne’, commedia di Nini’ Grassia in cui Merola, che interpreta se stesso, e’ il padre adottivo di D’Alessio. Nel cast anche Giorgio Mastrota: ’Merola a Napoli e’ trattato come un papa - ha detto l’attore milanese - ’quando cammina per le strade del centro gli chiedono di benedire i bambini’.
Cient’anne (1999)
Un film di Nini Grassia. Con George Hilton, Gigi D’Alessio, Mario Merola, Giorgio Mastrota, Cristina Parovel, Alessandra Monti, Angelo Maresca. Genere Drammatico, colore, 110 minuti. Produzione Italia 1999.
* ANSA » 2006-11-13 12:05
"PER UN FUTURO OLTRE QUESTA NOTTE"
Nelle Voci di dentro di Eduardo De Filippo qualcuno ha "ucciso il sonno" [...] Soltanto un personaggio conosce sonni tranquilli, se non felici [...] Gli altri personaggi [...] non dormono: o dormono male, con sonni brevi, interrotti, spezzati [... ] e la mattina si svegliano colle ossa rotte e le membra sudate. Mentre dormono, i sogni li assaltano: l’immenso mondo infero guarda il nostro mondo, lo spia, lo ascolta, si insinua dentro di esso e lo aggredisce con violenza. [...] Quando non invia i sogni, il mondo infero manda in terra i morti ammazzati". Così scrive, con la sua solita grande sensibilità e intelligenza, Pietro Citati, oggi (15.11.2006), sulla Repubblica (pp. 54-55), nel commentare (UNA NAPOLI CHE SEMBRA PIETROBUGO)la commedia di Edoardo, messa in scena da Luca De Filippo.
Nella stessa Repubblica, di oggi e a partire dalla prima pagina, c’è un articolo (qui sotto riportato) di Giuseppe D’Avanzo, sui funerali di Mario Merola, che esprime opinioni - a mio parere - ovvie e convincenti, ma che - sempre a mio parere, e a ben vedere - alquanto sfocate rispetto all’evento stesso. Mi sembra che dica solo mezze verità (per di più del passato) e finisca per non cogliere quanto di anomalo e tuttavia di possibile-nuovo c’ è stato e c’ è nel fatto che il "re della sceneggiata" abbia potuto e saputo portare il suo spettacolo nel "centro" di Napoli e abbia "invitato" a prendervi parte gli stessi Attori (al di là delle loro "debolezze") delle Istituzioni democratiche , manca proprio la sensibilità e l’intelligenza (culturale e politica) per capire la complessa realtà napoletana ... e nea-politana. Nella "rappresentazione malinconica della finis Neapoli" non tutto era morto .... alla fine - come scrive Citati ne lsuo articolo - la scena è stata "illuminata" dai bengala verdi del sogno".
In breve. NAPOLI SIAMO NOI .... QUESTO "OCCORRE CAPIRE", SE VOGLIAMO CAPIRE PERCHE’ MEROLA e’ DIVENTAto UN EROE. Se NON ABBIAMO ANCORA CAPITO IL FASCISMO E IL BERLUSCONISMO (abbiamo ancora in giro un partito che si chiama "forza Italia", con tutti i suoi ben noti "alleati"), e TUTTI SIAMO ANCORA SUCCUBI DELLA CULTURA DI "MAMMASANTISSIMA", e, ancora, NON SAPPIAMO PIU’ ne’ dormire ne’ SOGNARE, E’ chiaro ... che alla fine sappiamo solo SPARARE - NEL BUIO - CONTRO noi stessi"!!! Boh e bah!
Federico La Sala
Se Merola diventa un eroe
Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 15.11.2006)
Se c’era bisogno (e non ce n’era bisogno) di una rappresentazione malinconica della finis Neapolis, la città ha inflitto a se stessa anche un’ultima desolante scena con i funerali di Mario Merola. Decine di migliaia di persone teatralmente dolenti in piazza del Carmine, palloncini sospesi in aria con fili viola a precedere il feretro, lacrime, grida, canti, gorgheggi improvvisati, ressa, cantanti, calciatori, emigranti fasulli, impostori sperimentati, "zappatori" improbabili, il ricordo dell’ultimo chemin de fer di un tale chiamato "Saint Vincent" (e sabot sistemato sulla bara).
E alla fine, per non far mancare nulla all’indimenticabile occasione storica, fuochi d’artificio come a Piedigrotta nell’illusione collettiva e tragica che questa recita, la contemplazione soddisfatta di se stessi, possa ancora incantare qualcuno dentro e fuori la città. Come se questa rappresentazione di napoletaneria potesse produrre qualcosa di diverso dalla stanchezza, lo sconforto, la vergogna. Mario Merola, con tutta l’indecorosa ammuina, non c’entra nulla. Dicono fosse un uomo buono. Con chi ne aveva bisogno, generoso di sé e delle proprie ricchezze. Pace trovi, ora, e riposo: avrebbe meritato più rispetto e silenzio nell’ora dell’addio. La Napoli plebea e ormai culturalmente egemone si è come aggrappata alle sue spoglie per trovare ragione di se stessa, una nobiltà nella miseria dell’oggi, un’identità forte nella battaglia per il domani, la volontà di ripetere ancora in faccia a tutto il mondo e a tutti i napoletani spaventati: questa è Napoli e Napoli siamo noi.
Raffaele La Capria dice spesso che «sapere "dove si è" non è certo facile a Napoli». Da oggi, non è più legittimo pensarlo. Non è più possibile pensarlo. Sappiamo dov’è Napoli perché mai con tanta clamorosa visibilità le istituzioni cittadine, il ceto politico, gli intellettuali hanno accettato di riconoscere, inchinandosi, la maligna mutazione lazzara che distrugge Napoli, sotto gli occhi di tutti, nel silenzio impaurito di molti, nell’inerzia di troppi. Per accettare quest’atto di sottomissione, le élites cittadine hanno dovuto santificare Mario Merola, trasformarlo in un’icona culturale della città, del suo spirito morale e civico, del suo pensiero, delle sue attitudini, del suo stare nel mondo.
Si è assistito a una corsa patetica e trafelata alla retorica "monumentalizzazione" del cantante. «Merola è un grande punto di riferimento, un grande simbolo per Napoli e il Mezzogiorno» (Antonio Bassolino). «Il cantore della Napoli verace» (Clemente Mastella). «Un ambasciatore positivo della migliore tradizione popolare napoletana» (l’assessore alla cultura, Nicola Oddati, un Bassolino in erba e rampatissimo). Si è superata Rosa Russo Iervolino, la sindaca della città: «Merola era un prepotente buono. Dobbiamo recuperare la guapparia nella misura in cui è orgoglio».
Ci può essere un prepotente buono? E che cosa è un guappo? Che "cultura" era quella di Mario Merola? Quando sul finire della prima guerra mondiale fu scritta Guapparia (nello stesso periodo si celebrava a Viterbo il processo Cuocolo, il primo processo alla camorra), il guappo - sono parole di Domenico Rea - «era uno dei protagonisti principali della vita della città, uno dei più ambìti ideali femminili, il paladino plebeo, il giustiziere, circondato di omertà e di protezione, al di sopra della giustizia statale». Nelle sceneggiate, che lo hanno visto protagonista, Mario Merola «ha soltanto provato a giustificare i comportamenti delinquenziali con la necessità del sopravvivere, a fare intravedere una "morale" nell’uomo delinquente, una sua sostanziale bontà e un attaccamento alla famiglia e ai figli da difendere anche a costo di rompere e infrangere le regole sociali e dello Stato» (Isaia Sales, Le strade della violenza). Il guappo di Merola, che non si fa scrupolo di uccidere, di presentarsi al pubblico plaudente con le mani sporche di sangue, chiede comprensione se vive nell’illegalità, scava un solco tra l’illegalità e la criminalità. Sono gli stessi argomenti lamentosi e ipocriti che si raccolgono a Scampia, Melito, Secondigliano. Spacciare droga non è "criminale", dicono tante sante madri di Napoli che adorano i figli piezz’e core, è soltanto un modo per andare avanti. Illegale sì, ma ci dobbiamo arrangiare.
Può essere l’illegalità tenuta al riparo dalla criminalità? Può essere l’illegalità un valore culturale da esibire, evocare, esaltare nella Napoli violenta di oggi? Può avere un qualche senso sventolare il vessillo di una sceneggiata che racconta come sia sempre la donna, femmina pittata e traditrice, a mettere l’uomo nei pasticci, a costringerlo a ucciderla per salvare il proprio onore, il valore supremo della comunità del vicolo? Non è che Mario Merola, pace all’anima sua, non aderisse a questo armamentario sottoculturale. Nella sua biografia «Napoli solo andata... il mio lungo viaggio», spiega che «l’uomo può sbagliare, si può prendere una sbandata, ma poi deve tornare in famiglia. Diverso, quando a sbagliare è la donna. No, non lo accetto. Se sbaglia una donna è finita. Nella mia comportazione, e in quella di tutto il popolo che conosco e frequento, ‘a femmina che sbaglia ha due scelte: o se ne va o vene accisa o perlomeno sfriggiata (sfregiata)».
Indignarsi per il triste spettacolo offerto dalle élites napoletane, con le loro parole o con la loro imbarazzata indifferenza, è a buon mercato e serve a poco. Occorre capire. È necessario che soprattutto capiscano i napoletani come quel ceto politico, quelle istituzioni pubbliche cittadine siano ormai - per cinismo, per opportunismo, per viltà, per timore - "conquistate", colonizzate, incapaci di comprendere (e quindi giudicare) il passato, inabili anche soltanto a immaginarlo, un futuro oltre questa notte.
Napoli, Amato scopre l’evasione dall’obbligo scolastico
E intanto Castellammare di Stabia acquista 2.100 copie del libro Gomorra di Saviano da donare agli istituti di scuola superiore della città, dove saranno attivati laboratori didattici sul testo
di Antonella Palermo (Liberazione, 15.11.2006)
Napoli nostro servizio- La Calabria come Napoli. Un patto per la Calabria sicura come il Patto per Napoli Sicura. E’ l’idea che si esporta fuori regione. Ma come va all’ombra del Vesuvio a dieci giorni dalla firma del Patto? L’80% delle misure contenute nel patto per la sicurezza avrà un’immediata attuazione, mentre, il restante 20% sarà «cadenzato nel tempo», assicura il viceministro all’Interno, Marco Minniti, nel corso di una audizione alla Commissione Affari costituzionali della Camera.
Così la cronaca della giornata di ieri racconta subito di un omicidio mancato e di diversi arresti. I carabinieri della Compagnia Napoli Centro hanno fermato per tentato omicidio, Gaetano Russo, 33 anni, ritenuto a capo dell’omonimo clan camorristico operante nei quartieri Spagnoli e un affiliato al clan, Vincenzo Melotti, 38 anni, dopo una sparatoria in pieno centro. Sullo sfondo, come sempre, il controllo del narcotraffico. I due, per acquisire il controllo dello smercio di droga in un’area dei quartieri, avevano sparato dieci colpi di arma da fuoco contro un pregiudicato 39enne della zona che è riuscito, però, a sfuggire all’agguato. Nel corso delle prime indagini i carabinieri hanno già sequestrato nella casa di Melotti le due pistole semiautomatiche usate per compiere il raid.
Ancora in pieno centro, nella bella villa comunale, una pattuglia di poliziotti a cavallo, ha arrestato Rosario Villacidro, di 39 anni, per il reato di tentato furto aggravato. Gli agenti del reparto a cavallo hanno notato l’uomo mentre stava cercando di rubare un’auto parcheggiata alla Riviera di Chiaia. Boss e ladruncoli, macro e microcriminalità per una Napoli sotto i riflettori della cronaca e della politica dopo l’ennesima escalation di violenza. Così è arrivato Prodi, e poi è arrivato Amato, e con loro il Patto per una città più sicura mentre non sono più sicuri i cittadini che, forse anche per questo, gradiscono, secondo i dati dell’Ipr Marketing, meno di un anno fa l’attuale classe dirigente.
«Obiettivo del piano - ha spiegato Minniti - è dare risposte organiche, strutturali e permanenti nel tempo e non legate all’emergenza». E così ora l’arrivo dei mille uomini in più lo vedi quasi ad ogni angolo di strada. Ma le risposte organiche, strutturali e permanenti non vanno né in gazzella né a cavallo, né sulle moto nuove acquistare per inseguire malviventi nei vicoli dei quartieri. Lo sa pure il ministro Giuliano Amato che, in commissione affari costituzionali, dice: «Il solo intervento delle forze dell’ordine a Napoli non basta pur essendo necessario». Ci vogliono le scuole, dice ancora l’inquilino del Viminale. E ci vuole lavoro.
A Napoli e nel suo hinterland, riferisce in commissione, «esiste a Napoli un problema di adempimento dell’obbligo scolastico», che pretenderebbe «un incremento delle ore di lezione per i bambini in modo da tenerli in un ambiente più idoneo a dare loro il senso di un’educazione collettiva che non trovi più nel camorrista il modello di riferimento». Poi, continua il ministro, «c’è una situazione del mercato del lavoro, in cui la criminalità è molto spesso nelle condizioni di offrire ciò che non si trova altrimenti». Sarà anche per questo che proprio l’altro ieri Romano Prodi ha firmato l’Unità per lo sviluppo di Napoli e della Campania, lavoro sinergico tra Stato ed Enti locali, che ha lo scopo «di incrementare il tasso di occupazione e dotare la città delle risorse infrastrutturali necessarie a garantirne lo sviluppo».
Le polemiche ci sono e non mancano mai. La riduzione dei commissariati e l’istituzione dei presidi, previste dal patto, hanno fatto storcere il naso dei sindacati. A loro Amato manda a dire: «Bisogna saper accettare moduli organizzativi che comportano qualche sacrificio, evitando che venga dipinto come un sacrificio alla sicurezza. Abbiamo pensato che si potessero utilizzare meglio le articolazioni che avevamo in città con 20 commissariati, trasformandone una metà in presidi, il che permette di moltiplicare le pattuglie sulle strade, mantenendo il presidio che dà alla popolazione la certezza del luogo fisico dove incontrare la polizia».
Più poliziotti, più lavoro e più maestri, dunque. E intanto il Comune di Castellammare di Stabia ha acquistato 2.100 copie del libro Gomorra, di Roberto Saviano, da donare agli istituti di scuola superiore della città, dove saranno attivati laboratori didattici sul testo.
Il "Mario Merola" di D’Avanzo (se non sbaglio e se non abbiamo la memoria cortissima) è diventato un eroe .... a ROMA - in ITALIAnda!!!. Se vogliamo, e lo vogliamo, esser chiari NAPOLI ha farro resistenza e la Resistenza !!! A Napoli, Mario Merola era, è stato, ed è Mario Merola ... e ha saputo conquistarsi fiducia e stima, e aprirsi aldialogo con l’altra parte della città e della società!!! Dove è "la fiera della volgarità"?! (fls)
di Furio Colombo *
Non so se sia vero che Vannino Chiti ha offerto un dialogo alla Lega, la Lega Nord, quella di Bossi e del tricolore nel cesso, quella di Calderoli e delle forbici da giardiniere per immigrati, quella di Borghezio, che ha dato fuoco a dei poveretti che dormivano sotto i ponti a Torino, quella di Gentilini, sindaco e prosindaco della ricca ma disonorata Treviso, dove va parlando di vagoni piombati e di trattamento da cacciagione per i lavoratori che a lui non sembrano veneti. Non so se sia vero che ha detto, come riporta La Padania del 16 novembre in prima pagina, «spero che diventi come il partito catalano. Utile al Paese e anche al centrosinistra».
So, per testimonianza oculare, che quello stesso 16 novembre, al Senato, i due leghisti Castelli e Calderoli si sono impegnati a staffetta per mostrare quanto si possa essere volgari nei confronti del Premio Nobel Senatore a vita Rita Levi Montalcini e dei due ex Presidenti della Repubblica Ciampi e Cossiga. Sia chiaro che i due non erano isolati in un’aula in cui destra e sinistra condividevano costernazione per un simile comportamento, molto al di là di ogni possibile polemica o scontro parlamentare, una vera piazzata.
Lo spettacolo era questo. Buona parte della intera ex Casa delle Libertà era in piedi a urlare insulti ai Senatori a vita (il grido più mite era «vergogna, vergogna»), salvo alcuni di cui vedevi bene disagio e imbarazzo e la voglia di essere altrove.
Vorrei spiegare la ragione del senso di disorientamento che si prova in un Senato che diventa improvvisamente violento, mentre sono disponibili tutte le possibilità espressive, incluso, ovviamente, il più netto dissenso.
Nonostante l’ordine del giorno recasse l’approvazione urgente di una legge (che infatti non si è potuta approvare), il presidente Marini ha dato la parola a ciascun gruppo (misteriosamente, due per i leghisti).
Nonostante il livello imbarazzante del comportamento, non c’è stato, anche per l’esperienza ormai maturata nel centrosinistra, alcun tentativo di cadere nella trappola della controdimostrazione.
Nonostante la clamorosa divaricazione fra le opinioni dei Senatori comizianti e quanto è scritto nella Costituzione e nel regolamento del Senato, le disperate corde vocali dei nostri oppositori continuavano a urlarci che i Senatori a vita non hanno diritto di voto, come se fossero privi dei diritti civili.
Nonostante l’intervento netto di Anna Finocchiaro, capogruppo dell’Ulivo, avesse fatto notare che i nostri oppositori erano stati battuti anche senza contare gli onorati e graditissimi voti dei Senatori a vita, la manifestazione di alta inciviltà è continuata a lungo mentre dalle tribune il pubblico (di solito scuole e visitatori stranieri) si affaccciava incredulo o temeva il colpo di Stato.
Ci sono in questa storia alcuni dettagli particolarmente sgradevoli. Uno è che, più ancora di quanto non si noti in televisione, l’aula del Senato è piuttosto piccola. I Senatori a vita siedono davanti, in un banco nell’emiciclo. In questo modo, come in un film espressionista, le facce stravolte di coloro che gridano e conducono l’insensata rivolta ti appaiono di fronte e a pochi metri, aggiungendo alla scena sgradevole uno spunto di particolare imbarazzo.
Scene del genere erano tipiche ai tempi del "Teatro dell’assurdo" da Genet a Pinter, dal Living Theatre all’Open Theatre. Raramente (diciamo pure: mai) avvengono in quella Camera Alta che esiste in molte democrazie e che si chiama Senato. Che sia per questo - ovvero, conoscendo se stessi - che gli uomini di Berlusconi si erano dati da fare per ridurre il Senato a un accampamento di leghisti?
Ma c’è un fatto in più e vale la pena di ricordarlo. Il Senatore di An Ramponi aveva chiesto fin dall’inizio della seduta di parlare a proposito di allarmanti notizie sul riarmo del Libano. Quando ha parlato, si è capito che si trattava di una comunicazione importante. Ma ha parlato alla fine della mattina. Il rischio del Libano e la notizia di nuovi passaggi di armi ha dovuto aspettare che, da Storace in là, quella parte del Senato esponesse, con strati di urla sovrapposte, il concetto che i Senatori a vita non devono sapere, pensare. Possono, eventualmente, parlare nelle ricorrenze.
Purtroppo le televisioni dipendono, per le riprese, dalle telecamere di tipo bancario del Senato. Altrimenti sarebbe stato interessante suggerire un montaggio in cui le immagini della manifestazione urlata che si è autonegata ogni buon senso, si alternano con i volti di Rita Levi Montalcini, di Carlo Azeglio Ciampi, di Francesco Cossiga.
Erano tre espressioni diverse. Cossiga appariva ironico e aveva infatti di riserva un breve discorso per ciò che pensava dello "happening". Ciampi era incredulo. Rita Levi Montalcini sorrideva, non tanto agli urlatori stremati quanto a qualche suo pensiero un po’ più meritevole di attenzione.
Ma resta la frase attribuita a Chiti. A chi avrà pensato parlando di "partito catalano" e dunque di persone che erano già attive negli ultimi anni del franchismo, uniti dall’impegno di creare insieme democrazia e autonomia?
Quelli di noi che li hanno conosciuti ai tempi in cui il Gruppo 63 si riuniva a Barcellona, ricordano ammirazione e invidia. Cosa c’è di catalano nel gridare «vergogna» a Rita Levi Montalcini?
S’intende che capisco l’ansia di Chiti. È - come accade nei brutti momenti - la speranza di un miracolo. Questo miracolo in Senato, finora, non è accaduto.
* www.unita.it, Pubblicato il: 17.11.06 Modificato il: 17.11.06 alle ore 8.51
... abbiamo lavorato insieme, nel film Cient’Anne, era una persona buona e generona, mi rimarrà sempre nel cuore
Cristina Parovel
mi kiamo giovanna e o 15 anni e ancora non ci credo che mario merola non ci sia più ,mio padre ancora pensa a te,credo come tutti eri un secondo padre per lui ...le tue canzoni esprimono tanto per noi...e posso dirti di proteggerci tu che sei lassù ...addio mario ti voglio bene