Il linguaggio sulla soglia tra umano e non umano
In un libro di Francesco Ferretti per Laterza, titolato «Perché non siamo speciali», l’ipotesi che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie di ancorarsi al mondo fisico e a quello sociale
di Telmo Pievani (il manifesto, 29.06.2007)
Nei Taccuini della trasmutazione, i primi appunti di un giovane naturalista da poco rientrato da un viaggio di cinque anni attorno al mondo, Charles Darwin costruisce passo dopo passo l’impianto centrale della sua teoria alternando momenti di esaltazione e di sconforto. Nel luglio del 1838, quando ormai è quasi giunto alla formulazione dell’idea di selezione naturale, lo assale un dubbio pessimistico: «Forse non saremo mai capaci», scrive nel Taccuino C, «di ricostruire gli stadi attraverso i quali l’organizzazione dell’occhio, passando da uno stadio più semplice a uno più perfetto, conserva le proprie relazioni. Questa forse è la difficoltà più grande di tutta la mia teoria».
Il pericolo di cui Darwin si accorse fin dagli esordi consisteva nella possibile contraddizione fra due principi cardine della spiegazione evoluzionistica: se il cambiamento avviene gradualmente, senza soluzioni di continuità, e la selezione naturale ha bisogno di riconoscere, ad ogni stadio, un vantaggio adattativo per quanto infinitesimale, per svolgere quale funzione si sviluppano gli stadi incipienti di organi particolarmente complessi come un occhio o un’ala? Difficile immaginare che un abbozzo di ala possa servire per spiccare il volo...
Due ipotesi per un rompicapo
Il problema è che l’evoluzionista non può rinunciare né all’uno né all’altro dei principi di partenza: non può ipotizzare che l’occhio si sia formato tutto in un colpo, né che all’inizio la natura lo stesse plasmando finalisticamente «in vista» della sua utilità futura. Darwin, per risolvere il rompicapo, nella sesta edizione dell’Origine delle specie del 1872 è costretto ad avanzare due ipotesi ad hoc: o meglio, due predizioni rischiose, e come tali eventualmente falsificabili dai suoi avversari (il che rende giustizia delle antiche pregiudiziali di alcuni epistemologi contro lo statuto di scientificità, vedi falsificabilità, della teoria dell’evoluzione).
La prima ipotesi è la seguente: se la teoria è corretta, nota Darwin, dovremmo trovare nel caso dell’occhio e degli altri «organi di estrema complessità e perfezione» una gradazione di passaggi in cui la funzione originaria viene progressivamente implementata. Ma non è tutto, aggiunge il naturalista inglese. È anche possibile (seconda ipotesi) che la selezione naturale favorisca un organo per una o più funzioni iniziali, oppure che una funzione sia assolta da più organi. In virtù di questa ridondanza, la selezione potrà successivamente «convertire» o «cooptare» una struttura per svolgere una funzione anche completamente diversa.
Ne deriva l’intuizione, oggi di grande attualità, che la selezione non agisca soltanto come un ingegnere che ottimizza i suoi modelli, ma più spesso come un artigiano che rimaneggia il materiale a disposizione al variare delle circostanze. La perfezione, conclude Darwin, è sempre relativa a un contesto di pressioni selettive contingenti e non sempre l’utilità attuale di un organo o comportamento corrisponde alla sua origine storica.
Un secolo e mezzo dopo sappiamo che le due predizioni erano azzeccate. La mole schiacciante di prove morfologiche e genetiche a favore dei due processi allora ipotizzati è tale da rendere del tutto anacronistico il richiamo al «problema del 5% di un’ala» - oggi ribattezzato «problema della complessità irriducibile» - da parte dei sostenitori della dottrina teologica del «Disegno Intelligente». Eppure, l’argomento della presunta impermeabilità alla spiegazione evoluzionistica di alcune strutture particolarmente complesse non ha affascinato soltanto i creazionisti.
Ce lo ricorda, nel suo ottimo volume Perché non siamo speciali, il filosofo del linguaggio Francesco Ferretti: nel 1988, è niente meno che il linguista Noam Chomsky a farvi ricorso. In Language and Problems of Knowledge, nella convinzione che il linguaggio non abbia nessi di continuità con il resto del mondo animale, giunge alla conclusione che «nel caso di sistemi come il linguaggio o le ali non è facile nemmeno immaginare uno sviluppo della selezione che abbia dato loro origine. Un’ala rudimentale, per esempio, non è ’utile’ per il movimento, anzi è più un impedimento. Perché mai dunque deve svilupparsi quest’organo negli stati primitivi dell’evoluzione?». È una versione dell’argomento della «complessità irriducibile» del linguaggio, da cui Chomsky trarrà la profezia - non ancora abbandonata da tutti i suoi colleghi - secondo cui «la teoria dell’evoluzione ha poco da dire su questioni di tale natura».
Il linguaggio, troppo complesso per essere spiegato in termini evoluzionistici, è dunque il candidato ideale per rappresentare quella soglia qualitativa radicale che distingue l’umano dal non umano. Il libro di Ferretti illustra efficacemente il paradosso in cui si sono infilate le scienze cognitive negli ormai venti anni che ci separano dalla profezia antievoluzionista di Chomsky, la cui impostazione prevede fin dall’inizio che il linguaggio sia un’abilità specializzata e ampiamente pre-programmata, un «istinto» per dirla con Steven Pinker.
L’argomento della povertà dello stimolo ha percorso una lunga strada, illuminando per differenza la ricchezza della mente umana fin dalla nascita. Oggi sappiamo, anche grazie agli studi di etologia cognitiva, quanto le menti umane e di molti altri animali siano equipaggiate con articolati repertori di competenze innate e con sofisticati sistemi di selezione dei dati pertinenti.
Queste «dotazioni» vengono solitamente descritte come innate, adattative e specie-specifiche: tre caratteristiche tipiche di ciò che è frutto di una storia naturale. Ma non si era detto che l’evoluzione era incompetente al riguardo?
Il paradosso antievoluzionista
Se il modello standard delle scienze sociali entra in crisi, nota Ferretti, portandosi dietro il suo relativismo linguistico, anche la tradizione chomskiana deve fare i conti con il paradosso del suo peccato originale antievoluzionista. Se ne esce, sostiene l’autore coniando uno slogan efficace, «darwinizzando Chomsky», cioè rinunciando all’idea dell’assoluta eccezionalità umana: abbiamo bisogno di una teoria del linguaggio e della mente che unisca gli elementi di continuità naturale della nostra specie e gli elementi di indiscussa specificità.
L’ipotesi che Ferretti esplora al riguardo si basa su due movimenti teorici fondamentali. Il primo è quello di ricollegare la competenza linguistica all’intelligenza generale - intesa come un adattamento biologico della nostra specie condiviso con il resto del mondo naturale - a partire dal riconoscimento dello «sforzo cognitivo» che l’acquisizione del linguaggio richiede. In particolare, Ferretti recupera il ruolo dell’intelligenza generale nella capacità linguistica definendo la prima come un equilibrio adattativo fra due macrosistemi di elaborazione distinti: l’intelligenza ecologica e l’intelligenza sociale. Nel far ciò valorizza due direzioni di ricerca oggi molto feconde in ambito neuroscientifico e aderisce all’idea, alquanto plausibile, che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie - come di altre - di ancorarsi al mondo fisico (linguaggio spaziale) e al contempo al mondo sociale (pragmatica del linguaggio).
Il secondo movimento, che dovrebbe dar conto della specificità umana ed è ispirato ai lavori di Dan Sperber, consiste nell’effetto di ritorno che il linguaggio, una volta acquisito, avrebbe avuto sull’intelligenza umana, innescando la comparsa di facoltà inedite come l’autoriflessione. Il linguaggio avrebbe quindi riorganizzato e ristrutturato a sua volta l’intelligenza umana, in un processo di coevoluzione. Il problema di compatibilità fra questa definizione di intelligenza (con tutta la sua flessibilità, la creatività, l’improvvisazione) e la teoria modulare della mente attualmente dominante - dove i moduli sono intesi come sistemi di elaborazione automatici e dominio specifici - viene provvisoriamente aggirato considerando l’intelligenza generale come la capacità di stabilire un equilibrio adattativo tra sistemi di elaborazione in cooperazione o competizione fra loro.
Qui si nota allora un’altra torsione del ragionamento di Ferretti, che apre lo sguardo su un orizzonte teorico oggi alquanto movimentato e interessante. Nella comunità degli studiosi della mente che hanno accettato di considerare la «continuità nella specificità» dell’evoluzione umana stanno emergendo in questi anni due sensibilità differenti, che in qualche modo, sorprendentemente, attingono proprio alle due ipotesi ad hoc con le quali Darwin aveva risposto in anticipo alla profezia pessimistica di Chomsky.
Autori come Steven Pinker, Paul Bloom e Daniel Dennett sembrano prediligere la prima risposta darwiniana, centrata sull’azione ottimizzante e permeante della selezione naturale. I loro modelli evoluzionistici, per quanto diversi, si basano su categorie funzionaliste forti: specializzazione e divisione in tratti adattativi discreti. L’adattazionismo duro dell’«ingegneria inversa» di Dennett, e di gran parte della psicologia evoluzionista contemporanea, compendia perfettamente questo approccio alla spiegazione dell’architettura evoluta della mente umana: il metodo consiste nell’immaginare i problemi adattativi che i nostri antenati paleolitici avrebbero incontrato nel loro ambiente ancestrale e nel dedurre gli adattamenti psicologici che si sarebbero evoluti per risolverli. L’architetto celeste dell’intelligent design viene sostituito dal «progettista della natura: la selezione naturale», scrive Pinker. Qui Chomsky viene non soltanto «darwinizzato», ma «ultradarwinizzato».
La reazione a questo programma di ricerca assume talvolta toni esacerbati. Jerry Fodor, nel criticare l’adattazionismo dell’«ingegneria inversa», clamorosamente si spinge fino a dubitare che l’adattamento stesso sia il meccanismo attraverso cui avviene l’evoluzione, cadendo così nuovamente in un’opzione antievoluzionista. Altri, come i filosofi della biologia David Buller e John Dupré, pur evitando questi eccessi, non mancano di far notare le debolezze teoriche ed empiriche delle narrazioni selezioniste spesso infalsificabili della psicologia evoluzionista, prediligendo un darwinismo «esteso» che fa invece tesoro della seconda ipotesi proposta da Darwin, quella relativa alla sub-ottimalità dei tratti adattativi, ai vincoli strutturali e agli effetti di ridondanza che rendono le strategie evolutive più diversificate. Verso la soluzione di un mistero
Si viene così organizzando una sensibilità darwiniana alternativa. Non è un caso che proprio Chomsky abbia co-firmato nel 2002 un celebre articolo con Marc Hauser e Tecumseh Fitch in cui l’evoluzione del linguaggio viene spiegata come una cooptazione di funzioni adattative precedenti, se non addirittura come uno «spandrel», cioè un pennacchio architettonico: la metafora che Stephen J. Gould aveva utilizzato per rappresentare i caratteri degli organismi che si sviluppano senza alcuna funzione adattativa originaria - in quanto effetti di struttura o dismissioni - e che poi vengono ingaggiati opportunisticamente dalla selezione naturale. Il nuovo quadro evoluzionistico in cui è immerso il programma minimalista dell’ultimo Chomsky si fonda sull’idea, cara a Gould, di una selezione naturale che agisce come un bricoleur in un contesto di vincoli strutturali interni, come spiega bene il giovane biolinguista di Harvard Cedric Boeckx nel suo Linguistic Minimalism del 2006.
L’ipotesi funzionalista e l’ipotesi strutturalista, avanzate congiuntamente da Darwin nel 1872 per rispondere al problema della complessità adattativa, sembrano dunque rincorrersi ancora l’un l’altra. Dal loro riverbero nascerà probabilmente una «psicologia evoluzionista di seconda generazione» che, emancipandosi dalle rigidità teoriche della prima, saprà forse avvicinarsi di un altro passo ancora al mistero delle origini delle nostre più elusive facoltà.
Per andare alle fonti
Titoli per un sentiero di lettura
Il libro di Francesco Ferretti è titolato «Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana» (Laterza, 2007).
La profezia di Noam Chomsky è in «Linguaggio e problemi della conoscenza» (Il Mulino, 1991).
L’esistenza di grammatiche di complessità intermedia è argomentata da Steven Pinker in «L’istinto del linguaggio» (Mondadori, 1997) e in «Come funziona la mente» (Mondadori, 2000).
Il metodo dell’ingegneria inversa è esposto da Daniel Dennett in «L’idea pericolosa di Darwin» (Bollati Boringhieri, 1997).
Una raccolta italiana recente sulla psicologia evoluzionista è M. Adenzato, C. Meini (a cura di), «Psicologia evoluzionistica» (Bollati Boringhieri, 2007).
Due buoni esempi di argomentazione critica sulla psicologia evoluzionistica: John Dupré, «Human Nature and the Limits of Science» (Oxford University Press, 2001); David J. Buller, «Adapting Minds» (The MIT Press, 2005).
Gli articoli di Hauser, Chomsky e Fitch sull’evoluzione della facoltà del linguaggio: «The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?», in «Science», 298, pp. 1569-79; «The Evolution of Language Faculty: Clarifications and Implications», in Cognition, 97, pp. 179-210.
Spunti brillanti per una darwinizzazione soft del minimalismo chomskiano si ritrovano in Cedric Boeckx, «Linguistic Minimalism» (Oxford University Press, 2006).
Il darwinismo esteso è ampiamente descritto e argomentato da Stephen J. Gould in «La struttura della teoria dell’evoluzione» (Codice edizioni, 2003).
DUALISMO E BIOLOGISMO (SENZA UN "GRADINO" DI "DIFFERENZA"). Daniel Dennet:: “Questo atteggiamento profondamente antiscientifico del dualismo è, a mio avviso, la sua caratteristica più squalificante [...]. Non che io pensi di riuscire a dare una di quelle dimostrazioni che stendono al tappeto la tesi avversaria, che proclami il dualismo, in tutte le sue forme, falso e incoerente. Ma, visto il modo in cui il dualismo sguazza nel mistero, accettare il dualismo significa rinunciare a capire”. ("Coscienza. Coscienza. Che cosa è").
Tra Darwin e Chomsky, c’è Saussure. Forse varrebbe la pena rileggerlo. Sul tema, in rete, si cfr.:
DUE PERSONE CHE DISCORRONO. Il punto fermissimo della ricerca saussureana
FLS
Chomsky non rifiuta più il neodarwinismo: una buona notizia
Resta un giallo la comparsa del linguaggio
di Telmo Pievani (Corriere della Sera, La Lettura, 16.10.2016)
Un abisso separa Homo sapiens da tutti gli altri animali: il linguaggio. In quanto abisso, la sua evoluzione resta un mistero, anzi un giallo. In Perché solo noi (Bollati Boringhieri) due autorevoli linguisti del Mit di Boston, Robert Berwick e Noam Chomsky, provano a cercare il colpevole e pensano di averlo finalmente trovato. Innanzitutto chiariscono che cosa si è evoluto, cioè il nocciolo della facoltà linguistica umana espressa nei suoi minimi termini. Noi parliamo grazie a principi computazionali semplici e ottimali. L’organo del linguaggio è un processo cerebrale basato su un minimo di regole trasformazionali, uniformi e geneticamente fissate in tutti gli esseri umani moderni, indipendentemente dalla lingua specifica che poi istintivamente impariamo da piccoli. Questa grammatica generativa trova il suo fulcro nella struttura gerarchica della sintassi, che ricorsivamente ci permette di esprimere combinazioni potenzialmente infinite di frasi.
Va da sé che, una volta definita la facoltà del linguaggio in questi termini minimalisti e computazionali, come una macchina interna perfetta, una capacità del genere ce l’abbiamo solo noi: nessuna speranza di avvicinamento a questo modello sintattico gerarchico per gli uccelli canori, i cetacei, i primati. E nemmeno per i cugini stretti neanderthaliani.
Tutto il resto, cioè l’esternalizzazione del linguaggio, è secondario. La relazione col mondo esterno, attraverso vocalizzazioni o segni, è condivisa con altri animali in vario grado, ma non è decisiva, perché il linguaggio non si è evoluto per la comunicazione, secondo Berwick e Chomsky. Ciascuna delle innumerevoli lingue di cui abbiamo traccia scritta negli ultimi 5.000 anni è come una stampante che trascrive in modo ogni volta diverso il lavoro dello stesso computer: ciò che conta è il processore interno, che è universale.
Ma come si è evoluta la capacità innovativa di assemblare gerarchicamente le strutture sintattiche? Chomsky rinuncia alla vecchia idea secondo cui il linguaggio sarebbe troppo complesso per essersi evoluto gradualmente come pensava Darwin. -Non rifiuta più in blocco il neodarwinismo, e questa è una buona notizia per riaprire un dialogo tra evoluzionisti e linguisti (chomskiani). La nuova ipotesi è che il linguaggio si sia evoluto come effetto casuale propagatosi in un piccolo gruppo, come una mutazione innovativa emersa per deriva genetica più che per selezione naturale. Insomma, una combinazione di circostanze rare e fortunate.
Più precisamente lo scenario è quello di un leggero e rapido ricablaggio neurale (si suppone la chiusura ad anello di un fascio di fibre tra aree ventrale e dorsale), cioè un bricolage evolutivo a partire da circuiti corticali già esistenti, innescatosi a partire da una piccola mutazione genetica accaduta intorno a 80 mila anni fa in un ristretto gruppo umano africano, di cui siamo tutti discendenti. Un piccolo cambiamento biologico con grandi effetti mentali.
Così nacque secondo i due autori la capacità generativa ricorsiva potenzialmente infinita del linguaggio umano, che portò Homo sapiens a uscire dall’Africa e a dominare il mondo, estinguendo le altre forme umane come Neanderthal e Denisova, che non avrebbero avuto questa riorganizzazione cerebrale. Il vantaggio non fu quello di comunicare meglio, ma di pensare meglio, attraverso un collante cognitivo interno che integrò in modo nuovo gli altri sistemi percettivi e cognitivi. Il linguaggio quindi si sarebbe evoluto per il pensiero, permettendoci combinazioni infinite di simboli e la creazione mentale di mondi possibili. Solo successivamente si diversificarono le lingue, come espressioni contingenti di questa capacità.
La congettura è suggestiva e fa leva su indizi interessanti, anche se ve sono altrettanti che sembrano smentirla: per esempio i segni crescenti di intelligenza simbolica in Neanderthal e forse anche in specie più antiche. L’ipotesi stessa di Berwick e Chomsky prevede in molti passaggi la selezione naturale e non è vero che la biologia moderna «si è allontanata dall’originaria concezione darwiniana dell’evoluzione come cambiamento adattativo risultante dalla selezione tra individui».
Il problema maggiore di questa impostazione sta nel presupporre ancora che la teoria evoluzionistica odierna implichi uno stretto gradualismo funzionalista, con l’obbligo di ipotesi che prevedano successioni di modificazioni lievi e numerose, su tempi lunghissimi. Ma quello è solo il darwinismo stereotipato difeso da alcuni divulgatori come Richard Dawkins e Steven Pinker, che è sbagliato identificare come esponenti della «biologia mainstream ».
L’evoluzione è un gioco complesso di relazioni ecologiche, mentre nel libro non si fa alcun cenno al contesto reale in cui tutta questa bellissima storia sarebbe avvenuta. Il giallo, dunque, continua.
Le parole che abbiamo in testa
Esiste una mappa del linguaggio nascosta nel nostro cervello
Gli scienziati dell’università di Berkeley hanno scoperto che in punti precisi della corteccia cerebrale trovano casa i vocaboli che adoperiamo per comunicare. È il primo passo per costruire un dizionario dei pensieri?
Sette volontari sono stati analizzati con risonanza magnetica mentre ascoltavano la radio Fonetica, sintassi e struttura narrativa saranno oggetto delle prossime ricerche
di Elena Dusi (la Repubblica, 28.04.2016)
Ogni parola ha la sua casa, nel cervello. E da oggi il sistema semantico che usiamo per parlare non è più un “hic sunt leones”. Un atlante del linguaggio è stato disegnato dai neuroscienziati dell’università di Berkeley. Un migliaio di termini hanno trovato la loro casa in un punto preciso (in alcuni casi più di uno) della corteccia cerebrale, la parte più esterna, evoluta del nostro organo del pensiero. La scoperta conferma che tutto il cervello - e non, come voleva il vecchio mito, solo l’emisfero sinistro - è coinvolto nel linguaggio. E dimostra che, sia pur tra le differenze individuali, la “cartina stradale” delle nostre parole resta uguale tra una persona e l’altra.
Gli scienziati di Berkeley che oggi pubblicano il loro studio sulla copertina di Nature sono partiti da una radio accesa. Il “Moth Radio Hour” è un programma di successo americano in cui una persona sta in piedi in una stanza con una luce puntata sul viso e un microfono davanti alla bocca. Attorno ha un gruppo di estranei cui deve raccontare un episodio della propria vita. Trasmessi via radio, i racconti sono stati ascoltati a Berkeley da sette volontari, con gli occhi bendati, chiusi per un paio d’ore in una risonanza magnetica.
Mentre i narratori del “Moth Radio Hour” raccontavano, i volontari ascoltavano e la risonanza magnetica registrava quali gruppi di neuroni della corteccia cerebrale si “accendevano” a ogni parola. Tutta questa mole di dati è finita in una mappa del cervello a tre dimensioni, con i termini dal significato simile raggruppati in genere - ma con diverse eccezioni - in una stessa area. Accanto alla tempia destra, per esempio, racchiusi in uno spazio di pochi millimetri cubici, hanno la loro dimora pa-che role come “moglie”, “madre”, “incinta”, “famiglia”. «A volte - scrivono i ricercatori - questo atlante diventa intricato.
Non sempre a un termine corrisponde una sola localizzazione». La parola “moglie”, infatti, compare anche in un’altra area della corteccia, accanto a “casa” e ad altri vocaboli relativi a luoghi. La voce inglese “top” si ritrova in ben tre punti: fra “vestiti” e altri lemmi relativi all’aspetto fisico, in un gruppo di parole che descrivono lo spazio e gli edifici e infine tra i numeri e le unità di misura. Altri esempi sono raccontati in un video disponibile su www. nature. com. L’atlante semantico del cervello, in tutti i suoi dettagli e i suoi colori sgargianti può anche essere percorso online sul sito http:// gallantlab. org/ huth2016.
Come atlante sembrerebbe piuttosto caotico, ma il fatto che appaia molto simile fra tutti i volontari studiati suggerisce che una logica debba pur esserci. «Abbiamo trovato per esempio - spiega il coordinatore della ricerca, il neuroscienziato di Berkeley Alexander Huth - che i termini relativi ai numeri sono collocati vicino alla corteccia visiva, in un’area deputata anche al ragionamento spaziale. E questo ha molto senso».
Sarà forse prematuro oggi pensare a un dizionario in grado di decodificare i pensieri. «Ma nel momento in cui abbiamo una carta geografica delle nostre parole - spiega Stefano Cappa, professore di neurologia all’Istituto universitario di studi superiori (Iuss) di Pavia - possiamo ipotizzare di usarla per decodificare ciò che una persona sta pensando». Leggendo quali punti del cervello si illuminano in un determinato istante, un apparecchio simile alla risonanza magnetica potrebbe associarlo al termine relativo, permettendoci di leggere nel pensiero - come suggeriscono anche i ricercatori di Berkeley nel loro studio - di quelle persone cui una malattia impedisce di parlare.
Non è un caso che alla mappatura del cervello e delle connessioni fra i suoi 100 miliardi di neuroni - qualcuno li paragona al numero di stelle - siano dedicati due fra i più grandi programmi scientifici del momento: lo Human Brain Project, avviato nel 2013 e finanziato dall’Unione Europea con un miliardo di euro, e la Brain Initiative, annunciata sempre nel 2013 dal presidente americano Barack Obama e finanziata finora con svariate centinaia di milioni di dollari.
L’idea che una facoltà così complessa e per molti versi indecifrabile come il linguaggio possa essere racchiusa in una “cartina stradale” incontra ovviamente anche molte perplessità. «Mappare il nostro dizionario è un sogno che coltiviamo da tempo » spiega Andrea Moro, che allo Iuss insegna linguistica generale. «Ma prima di cercare come è organizzato il linguaggio nel cervello, bisogna capire come lo è nella mente». Se lo studio di Berkeley ha mappato un migliaio di termini, perlopiù concreti, «dove collocheremmo il verbo essere o una particella così complessa come “se”?» si chiede Moro. «Prima dei neuroscienziati, devono essere i linguisti a stilare una sorta di tavola periodica della facoltà del parlare, che descriva quali sono gli elementi primitivi del linguaggio».
Paolo Leonardi, che insegna filosofia del linguaggio all’università di Bologna, trova molte domande rimaste senza risposta nello studio americano: «Non si spiega ad esempio come le aree associate alle varie parole siano coinvolte nella produzione linguistica. O come siano collegate alle aree dove registriamo la percezione degli oggetti che queste parole nominano».
Per Alessandro Treves, fisico di formazione e docente di “Basi neurali della conoscenza” alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste, «l’informatica e l’uso di algoritmi sempre più avanzati ci permettono di ottenere risultati così raffinati. Ma dobbiamo pensare al linguaggio come a un concerto che coinvolge varie aree del cervello. La corteccia va considerata come un tutt’uno. Associare una parola a un punto isolato rischia di portarci fuori strada».
Il fatto che tutti i volontari dello studio (fra cui lo stesso Huth) abbiano mostrato di avere lo stesso “atlante del linguaggio” sembrerebbe suggerire che nel nostro cervello esistono basi innate per la parola. Ma per dimostrarlo bisognerebbe estendere l’esperimento a persone di lingue o culture diverse, e soprattutto alla sintassi.
«La partita fra chi appoggia la teoria della grammatica universale di Noam Chomsky e chi propende per la tesi del linguaggio come frutto di apprendimento si gioca infatti sulla sintassi, non sulla semantica» spiega Treves.
Fonetica, sintassi e struttura narrativa saranno i prossimi tasselli da studiare, annunciano oggi i ricercatori di Berkeley. Il loro atlante è una prima rappresentazione di come il cervello organizza il suo linguaggio. Altri esploratori adesso dovranno occuparsi di tracciarne i dettagli.
Ma le emozioni che ci fanno unici resteranno un mistero
di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 28.04.2016)
Come studiare il cervello, e il modo in cui comprende le parole e le storie? Non è affatto detto che la domanda sia ben posta: ma certo è necessario porsela almeno qualora si voglia trovare una possibile scorciatoia che colleghi ciò che fisicamente accade nel nostro corpo agli stimoli linguistici che riceve. La si può chiamare “scorciatoia”, perché in effetti taglia fuori tutto il regime del simbolico (per dirla con Jacques Lacan). Il presupposto è che quelli linguistici siano appunto stimoli, recepiti dal corpo (sia pure nella sua parte ritenuta più nobile): basterebbe trovare il punto di passaggio fra l’uno e gli altri per risolvere ogni questione. La psiche non è rilevata dagli strumenti diagnostici a disposizione e quindi viene espulsa dalla considerazione scientifica.
Ma sarà proprio così? Ed è davvero il “cervello”, inteso come organo anatomico, a comprendere il linguaggio? Le componenti chimiche emanate da un fiore raggiungono i recettori del nostro olfatto e vengono poi categorizzate dalla nostra mente: con le macchine giuste si può capire quali zone del cervello reagiscano agli stimoli olfattivi. Cosa succeda poi quando uno ascolta la canzone che fa «Fiori rosa, fiori di pesco», o quando assaggia una «petite madeleine » con Proust o ancora, con Mallarmé, sente levarsi «l’absente de tout bouquets» proprio non si sa, o almeno non se ne trova segno univoco nei tracciati della risonanza magnetica.
Il punto di partenza della ricerca pubblicata da Nature è che il «sistema semantico» sia «collettivamente riconosciuto» come corrispondente a certe «regioni della corteccia cerebrale», che occorre determinare. Punto di partenza: dunque presupposto, se non pregiudizio. È questa un’idea come un’altra, che però pone nel nulla almeno un secolo di riflessioni e analisi sul linguaggio come associazione psichica di significanti e significati (Ferdinand de Saussure, primo Novecento), e interrelazione di potenzialità associative e capacità combinatorie: una facoltà appresa socialmente, mobile, flessibile. Anche tipicamente umana, perché l’uomo è una creatura che viene al mondo precocemente e prolunga la duttile fase del proprio apprendimento sino a farne della capacità di variare il proprio comportamento il suo migliore atout.
La evoluzione dell’uomo (come specie e individuo) è appunto consegnata a questa strenua capacità di adattamento. L’ipotesi che si può fare, a partire dalle tesi linguistiche e semiotiche di Saussure, Hjelmslev, Jakobson, Eco e da quelle evoluzionistiche di uno Stephen Jay Gould, è che quanto la specie umana ha di formidabile è la capacità eclettica dei suoi apparati.
Se uno dei maggiori misteri dell’antropologia è il linguaggio è proprio perché esso risiede in una sorta di “cloud”, raggiungibile da ogni organismo umano, appartenente a nessuno. Roger Caillois pensava che la differenza fra gli uomini e gli altri animali è che fra l’uomo e l’impulso che lo raggiunge esiste sempre “un’immagine interposta”. Il linguaggio sta lì, in quella zona intermedia. Difficile trovare scorciatoie. Detto questo, in bocca al lupo a chi le cerca.
Chomsky è il fondatore della linguistica generativa, secondo cui ciascuno nasce con una conoscenza innata delle regole di una «grammatica universale». Tale teoria si contrappone a quelle funzionaliste, per cui è appunto la funzione comunicativa che modella e trasforma il linguaggio.
Chomsky: è solo apparente la diversità delle lingue umane
Struttura innata. «Il sistema che plasma il significato è semplice e piuttosto uniforme in tutti gli idiomi»
Scienza e politica. «Le mie idee libertarie derivano forse anche dall’attenzione verso ogni tipo di creatività»
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera, 6.12.2015)
È dal 19 novembre disponibile in libreria il volume La scienza del linguaggio (Il Saggiatore), basato su alcune lunghe interviste con Noam Chomsky, realizzate dall’insigne linguista canadese James McGilvray. Corredato da numerose appendici, glossari e note a piè di pagina, il libro ripercorre in modo accessibile a un pubblico non specialista lo sviluppo delle idee di Chomsky, cioè di colui che alcuni considerano il massimo linguista di ogni tempo e che è di fatto il più citato intellettuale vivente.
Ho chiesto a McGilvray quale impressione o sensazione abbia ricavato da queste sue interviste. Mi dice: «Noam è stato un’incessante ricarica delle mie batterie intellettuali. Lui è sempre stimolante e spesso produce in chi lo intervista, senza volerlo, un sentimento di inferiorità intellettuale».
In questa mia intervista con Chomsky mi sono tenuto su temi più generali di quelli trattati nel libro con McGilvray. La mia prima domanda è se sia corretto sintetizzare la sua opera, sviluppata in oltre mezzo secolo, come l’esplorazione, in fondo, di una singola idea centrale.
«Forse la singola idea - risponde Chomsky - è ben sintetizzata dal titolo di un mio prossimo libro: Che tipo di creature siamo?. Il nucleo del mio lavoro, infatti, è stato la natura del linguaggio, una proprietà essenziale che ci definisce in quanto esseri umani, ma ovviamente le considerazioni via via sviluppate vanno ben al di là».
Gli chiedo adesso di riassumere gli ultimissimi sviluppi della sua teoria, quello che c’è di nuovo, da due o tre anni a questa parte.
«La proprietà basilare di ogni lingua umana - mi risponde - è un processo generativo che porta a emettere e comprendere una schiera potenzialmente infinita di espressioni aventi una struttura interna gerarchica. Ciascuna di queste determina una stretta corrispondenza tra suoni (o gesti, nel linguaggio gestuale dei sordi) e significati. In questi ultimi anni è diventato realistico avanzare una tesi piuttosto radicale: il nucleo del sistema che determina il significato è estremamente semplice e assai prossimo a essere uniforme in tutte le lingue. La complessità delle lingue e la loro diversità sono in un certo senso apparenti. Scaturiscono da un sistema secondario, un sistema sensorio e motorio, che determina le forme manifeste, cioè suoni o gesti. Il mio lavoro attuale sul linguaggio è essenzialmente dedicato a perseguire fin dove possibile questo programma di ricerca».
In gennaio uscirà negli Stati Uniti per l’editore Mit Press un libro di Noam Chomsky e di Robert Berwick essenzialmente centrato sul problema dell’evoluzione biologica del linguaggio. Il titolo è Why Only Us? («Perché solo noi?»). Lo si deve intendere: perché solo noi esseri umani abbiamo il linguaggio?
Come ben spiegato nelle sue interviste con McGilvray, Chomsky esclude che i molteplici e a volte raffinati sistemi di comunicazione animale siano da considerarsi parenti delle lingue umane. Gli chiedo se può riassumere il «messaggio» centrale di questo imminente libro.
«Il titolo è assai rivelatore. Berwick ed io cerchiamo di mostrare che la componente centrale di quanto abbiamo appena visto qui sopra è emersa una sola volta nella storia degli organismi viventi. Questa ha prodotto i tratti fondamentali della natura umana e ci distingue nettamente dalle altre specie viventi. L’emergenza è stata probabilmente assai subitanea e piuttosto recente nella scala evolutiva. Non c’è stata alcuna evoluzione successiva in questo nucleo. L’apparente diversità e la complessità delle lingue, come dicevo qui innanzi, sono scaturite dal bisogno di connetterci, mediante il sistema sensorio-motorio, con i nostri simili. Il sistema interno è fondamentalmente atto a pensare, non a comunicare. La complessità scaturisce dall’uso di questo sistema per comunicare».
La sua teoria, anzi spesso l’intero suo modo di trattare il linguaggio, sono stati a lungo e da più parti ferocemente criticati. Chomsky ha inflessibilmente ripetuto che il suo approccio è nient’altro che l’applicazione al linguaggio dei normali metodi scientifici. Come mai, allora, tante critiche e spesso tanta acrimonia?
«Questo modo di trattare il linguaggio - osserva lo studioso americano - va contro un buon numero di dottrine molto radicate, in filosofia, in psicologia e nella linguistica tradizionale. Quanto più viene sviluppato, tanto più decisamente si scontra con queste dottrine, almeno a mio avviso. Quanto alle alternative proposte, io stesso e vari colleghi abbiamo sempre puntualmente e direi persuasivamente risposto, ma occorre che ciascuno giudichi di testa propria.»
I suoi saggi di linguistica non parlano mai di politica e i suoi saggi di politica non parlano mai di linguistica, ma ci si può chiedere se e come, ad un livello profondo, il suo pensiero linguistico e il suo pensiero politico trovino un fattore comune. -Così mi risponde Chomsky: «Forse, andando abbastanza in profondità, si tratta di speculazioni sugli aspetti fondamentalmente creativi della natura umana. Queste idee trovano espressione tanto nel pensiero sociale e politico di stampo libertario quanto nello studio del linguaggio. I primordi si possono rintracciare, andando indietro nel tempo, all’alba della rivoluzione scientifica, in Galileo, Cartesio e altre figure-guida del pensiero moderno. Le ramificazioni e le implicazioni sono numerose e significative ancora ai nostri giorni, in ambedue queste aree».
Troviamo nel volume di Chomsky appena pubblicato in Italia e nei suoi due libri di prossima pubblicazione negli Stati Uniti precisazioni e argomentazioni su tutti questi temi, qui solo brevemente ricapitolati.
Funzioni cerebrali
I neuroni della cultura
Il cervello grazie ai processi evolutivi ha sviluppato la facoltà d’incorporare la storia, ma lo fa senza seguire un disegno intelligente
di Jean-Pierre Changeux (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.05.2015)
Esiste un aspetto fondamentale delle funzioni cerebrali umane: la loro capacità di “incorporare” la storia. Questa attitudine non è molto (o lo è molto poco) condivisa dalle altre specie animali e si trova inscritta nel genoma umano per via della sua storia evolutiva. L’organizzazione del cervello risente dell’ambiente sociale e culturale, del processo storico di socializzazione, del lavoro storico delle generazioni successive. Ma vorrei mettere in rilievo un concetto particolare. Il quadro anatomico e funzionale nel quale tale capacità si sviluppa non è né minimale né razionale e ancor meno ottimale.
Mi spiego. È vero che il cervello si apre all’incorporazione della storia, ma non lo fa né come un pezzo di cera che si modella perfettamente su ciò che avviene, né come una macchina organizzata in modo ideale che cattura il percorso oggettivo della storia. Il cervello conserva, in effetti, nella sua struttura anatomica organizzazioni testimoni di un passato evolutivo irregolare piuttosto che di «una concezione ottimale» sul piano funzionale o di un «disegno intelligente». È così che, sviluppandosi, la corteccia cerebrale ha incorporato e poi spinto verso l’interno architetture limbiche o talamiche che avevano un significato comportamentale maggiore nell’anatomia delle specie che l’hanno preceduta. L’arbitrarietà delle circostanze con le quali l’organismo si è misurato nel corso della sua evoluzione si trova conservata in una sorta di irragionevolezza organizzativa e funzionale della sua architettura cerebrale. L’irragionevolezza è inscritta nei nostri neuroni allo stesso titolo della nostra capacità di ragionare.
Il sovradimensionamento della corteccia cerebrale è stato certamente un modo efficace e rapido di cortocircuitare le antiche strutture e di acquisire nuovi dispositivi senza sconvolgere quelli precedenti, incorporandoli. Ha permesso, per esempio, l’aumento della capacità e delle performance dello spazio cosciente, la capacità di riconoscere i membri di un gruppo sociale, la capacità di imitare e di comprendere le interazioni sociali.
Il territorio cerebrale più direttamente interessato da questa evoluzione è stata la corteccia prefrontale, che il neuropsicologo Luria definiva «l’organo della civilizzazione». Ma, per quanto essa sia efficiente, non può occultare totalmente - anzi avviene spesso il contrario - le funzioni delle strutture soggiacenti, più antiche, a volte antagoniste. Potrà tuttavia inibirle in modo selettivo facendo sì che la ragione vinca sull’irragionevolezza.
La storia non è incorporata nel cervello su un terreno vergine. Come sottolinea il sociologo Pierre Bourdieu, le tracce della sua filogenesi sono presenti quanto quelle che derivano dalla storia epigenetica dell’individuo. Le connessioni sinaptiche fra le cellule nervose non si attivano come i circuiti stampati di un computer, ma con un processo di prove ed errori che attiva una serie di selezioni.
Il modello proposto non presuppone soltanto un processo di selezione in un’unica tappa, ma un meccanismo locale che si applica ai numerosi circuiti che si interconnettono progressivamente dallo stadio embrionale fino all’adulto, in cui i neuroni e le sinapsi continuano a svilupparsi. Circoscritte dal contenitore genetico della specie, le principale vie nervose si mettono in attività progressivamente nello spazio e nel tempo in modo innato.
Ma i primi contatti non si stabiliscono con l’esatta precisione che caratterizza i contatti definitivi. Si produce un’esuberanza transitoria delle connessioni che crea una tappa di sviluppo in cui la diversità e quindi le possibilità comportamentali sono al massimo. In questo stadio, l’attività della rete, spontanea endogena o evocata dall’interazione col mondo interno, stabilisce in modo selettivo le distribuzioni particolari delle sinapsi e ne elimina altre.
Il cervello dell’individuo acquisisce con l’apprendimento dei tratti propri della storia sociale e culturale del gruppo umano al quale egli appartiene. L’epigenesi delle connessioni assicura la genesi della cultura e la sua trasmissione attraverso le generazioni successive. Una disposizione biologica maggiore, ancora una volta eccezionalmente sviluppata nell’uomo, favorisce questa evoluzione: lo sviluppo post-natale prolungato, in cui la proliferazione e l’eliminazione sinaptica proseguono ben al di là della pubertà.
Bourdieu, con il suo concetto di habitus, non intende però un automa programmato «dal suo essere condizionabile» dal suo ambiente sociale e culturale. L’habitus «restituisce all’agente un potere generatore e unificatore, costruttore e classificatore». Per esempio, l’attivazione di tracce neuronali che determinano l’uso di una particolare lingua, parlata o scritta, non significa che, se il carattere generativo del linguaggio vi si trova iscritto, tutti i prodotti di questa generatività siano stabilite a priori in esse. Del resto, l’attivazione di dispositivi epigenetici, attraverso la selezione, non implica una stabilizzazione “casuale”.
Le popolazioni di neuroni che “rappresentano” gli oggetti del mondo esterno possono essere stabilizzate da processi di apprendimento per ricompensa. La stabilizzazione selettiva delle prime rappresentazioni labili e fugaci conduce alla selezione delle mappe «delle relazioni funzionali comuni» proprie a un oggetto di senso. Così, per prove ed errori, grazie a continui «giochi cognitivi», il bambino prima e poi l’adulto costruiranno progressivamente l’universo semantico che servirà loro per le comunicazioni sociali.
L’«interesse», nel senso utilizzato da Bourdieu, assicurerà pertanto in primo luogo la sopravvivenza dell’individuo messo di fronte al suo ambiente fisico. Quello dell’organismo sottomesso all’imperativo delle sue emozioni primordiali, nel senso impiegato da Denton, che è quello di soddisfare la fame, la sete, la riproduzione sessuale... Poi sarà la sopravvivenza all’interno del gruppo sociale, in cui “il potere simbolico” si sovrappone al precedente senza escluderlo, comunque con interessi differenti. Questi interessi si concentreranno quindi sull’”economia” delle relazioni fra gli individui nel gruppo sociale e in questo modo interesseranno la stabilità e la sopravvivenza del gruppo sociale stesso.
L’interpretazione neurale delle idee di Bourdieu è chiara. Il corpo dipende da processi non coscienti del nostro cervello, presenta alcune disposizioni innate dell’individuo; le aspettative collettive, le rappresentazioni coscienti del nostro spazio di lavoro neuronale, si inscrivono in posizioni. La relazione tra le disposizioni e le posizioni non prende sempre la forma di un aggiustamento miracoloso. Le strutture e i meccanismi dello spazio sociale o dei campi che accedono allo spazio cosciente sono dunque prodotti di una storia che non si ritrova necessariamente nella storia incarnata non cosciente dell’habitus individuale.
La mente e la lingua
Il nostro codice interno
La competenza linguistica non deve essere indagata in modo diverso da altre capacità umane. Come la visione, è definita biologicamente, e come tale va indagata
di Noam Chomsky (Il Sole 24 Ore Domenica, 19.01.2014)
L’autore di un saggio critico sulla mia ricerca esordisce lamentando il fatto che sembra che io creda in un solo -ismo, il truismo. C’è molto di vero in questo; tuttavia è importante aggiungere una chiarificazione. Quelli che io ritengo truismi sono comunemente giudicati come sbagliati o stravaganti. Lascerò ad altri il compito di rispondere alle domande che ciò solleva.
Nel titolo di questo intervento troviamo un esempio, ossia la parola internalismo. Mi pare che un termine migliore per definirlo potrebbe essere truismo, sebbene la difesa dell’internalismo sia considerata quantomeno controversa e questo approccio sia rifiutato dalle correnti filosofiche dominanti, dove regna piuttosto l’esternalismo. Ciò nondimeno, ritengo che l’internalismo rimanga un truismo.
Prendiamo ad esempio l’apparato digerente. I ricercatori hanno descritto il cosiddetto "secondo cervello", il "cervello viscerale". Recentemente è stato detto che il cervello viscerale «si distingue dalle altre componenti del sistema nervoso periferico, in quanto controlla e regola il comportamento di organi indipendentemente da comandi provenienti dal cervello», in un modo abbastanza complesso. Il cervello intestinale può soffrire delle stesse patologie del cervello, come morbo di Alzheimer, Parkinson e autismo, e persino mostrare «tipi propri di psiconevrosi». Ha i propri trasduttori sensoriali e il proprio apparato regolatore, che lo rendono adatto a svolgere compiti specifici in interazione con altri organi, ma certamente non ogni compito. Ovvero, il cervello intestinale ha un ambito definito e limiti definiti determinati dalla sua natura interna, come nel caso di ogni sistema organico. Questo ambito definito, tuttavia, deve essere inteso come mutabile in certa misura in certe condizioni.
Lo studio del cervello viscerale è internalista. Il funzionamento dell’apparato digerente certamente dipende da fattori esterni ad esso, alcuni interni all’organismo, altri al di fuori della pelle, ad esempio le sostanze chimiche prodotte dalla casa farmaceutica Monsanto. Gli scienziati studiano la natura del sistema interno, e le sue interazioni esterne, e questo non genera particolari dilemmi o dibattiti filosofici.
Torniamo al "primo cervello", e a certe sue componenti, come il sistema visivo, o quello motorio, o il linguaggio. Essi differiscono per aspetti cruciali, ma non vedo motivo per cui la ricerca su di essi non dovrebbe essere internalista tanto quanto quella sul cervello viscerale.
Anche in questo caso, ci sono certamente interazioni esterne, ma non appare chiaro il motivo per cui queste dovrebbero suscitare problemi speciali. Tyler Burge ha sostenuto che la teoria della percezione visiva di David Marr integra proprietà del mondo esterno nel sistema visivo stesso, ma io credo che questo sia un fraintendimento. Certamente Marr parla di proprietà del mondo esterno, ma per un motivo. Ciò diventa chiaro quando guardiamo alla ricerca sperimentale, che non utilizza stimoli come giraffe o tavoli, bensì prevalentemente immagini tachistoscopiche. Se il nervo ottico potesse essere indagato direttamente, le indagini si baserebbero su questo. Il lavoro teorico più importante, prendiamo il principio di rigidità di Stephen Ullman, rimane completamente internalista. Lo stesso vale per l’organizzazione motoria. C’è uno studio internalista del sistema e di come esso funziona, e, come nel caso del cervello viscerale o della visione, ci sono ulteriori ricerche sulle interazioni con altre parti dell’organismo e il mondo esterno.
È difficile comprendere perché un approccio simile dovrebbe essere controverso nel caso del linguaggio. Il fatto che io parli una certa varietà di ciò che è comunemente chiamato inglese piuttosto che un’altra varietà di inglese, o una varietà di italiano, è semplicemente una proprietà interna, primariamente del mio cervello. Interna a me c’è una procedura computazionale G che genera una gamma infinita di espressioni strutturate che corrispondono a interpretazioni assegnate a livello dell’interfaccia sensorimotoria (per l’uso esterno del linguaggio) e dell’interfaccia concettuale-intenzionale, e che forniscono un "linguaggio del pensiero" - presumibilmente l’unico linguaggio del pensiero esistente, ma questo è un altro discorso. Possiamo dunque definire questa procedura come la Proprietà Base del linguaggio.
Una delle espressioni generate da G sottende la frase (1): «Quale dei suoi dipinti hai detto ai tuoi amici che ciascun artista preferisce?» G determina la pronuncia di (1) e il suo significato, per esempio il fatto che il pronome "suoi" si interpreti come riferito a "ciascuno", cosicché la risposta a (1) potrebbe essere la frase (2): «Il primo che ha dipinto», intendendo un dipinto differente per ogni artista. Da questo punto di vista la frase in (1) differisce dalla frase (3): «Quale dei suoi dipinti ha convinto i tuoi amici che ogni artista ama i fiori?», che pure è strutturalmente simile a (1), ma dove la risposta non può essere (2). Osservazioni di questo tipo valgono per un’infinità di espressioni, come risultato di proprietà interne a me.
Conseguentemente, il nucleo centrale dello studio del linguaggio è la cosiddetta "Lingua I", dove I sta per interna, individuale, e intensionale: abbiamo a che fare con le procedure computazioni concrete che soddisfano la Proprietà Base, una proprietà biologica dell’individuo a cui la Lingua I appartiene. Lo stesso vale, mutatis mutandi, per altri sistemi dell’organismo, che si tratti del cervello viscerale o del sistema visivo o del sistema immunitario o di altro.
La Lingua I non va confusa con la nozione di idioletto, che manca della cruciale disposizione alla formulazione intensionale propria della Proprietà Base - ossia di ciò che converte la discussione sul linguaggio in una impresa che ora può essere perseguita in tutti i suoi aspetti con una profondità di gran lunga maggiore che in passato, come la ricerca degli ultimi anni ha dimostrato ampiamente.
(traduzione di Valentina Bambini)
Noam Chomsky
“Quello che siamo e facciamo sono soltanto linguaggio"
Intervista all’intellettuale americano che spiega le sue teorie e le sue radicali opinioni politiche
di Federico Capitoni (la Repubblica, 18.01.2014)
«Non penso che ci sia un politico che abbia mai prestato una qualche attenzione a ciò che scrivo, dico o faccio». A 85 anni, Noam Chomsky si rende bene conto che pure essere uno degli intellettuali più ascoltati del pianeta, non cambia la direzione che il mondo ha preso. Il grande linguista americano, a partire dagli anni Settanta, ha scelto seriamente la strada del pensiero e dell’attivismo politico che lo ha portato oggi a essere l’interlocutore privilegiato nei dialoghi sui problemi di ordine mondiale. Una raccolta dei suoi saggi politici, I padroni dell’umanità (Ponte alle Grazie, in libreria il 23), mette ora in fila tutte le sue risposte, generalmente volte a condannare i sistemi neoliberisti e neocolonialisti.
Nel frattempo la sua idea di una grammatica universale (facoltà mentale comune a tutti gli individui) e la teoria della grammatica generativa (l’insieme, finito, delle regole che danno luogo alle potenzialmente infinite formulazioni delle frasi) hanno iniziato a camminare da sole: «La grammatica generativa è ormai una scienza, - dice - e come tale raccoglie i risultati prodotti dalla partecipazione collettiva di tanti studiosi».
Il 25 gennaio a Roma, all’interno del Festival delle Scienze, Chomsky terrà una lezione magistrale in cui parlerà del linguaggio e della mente. Ma il pubblico italiano potrà incontrarlo anche la sera prima in un curioso spettacolo musicale, Conversazioni con Chomsky, una talk-opera multimediale del compositore Emanuele Casale, ove il linguista parteciperà a «una sessione di domande sugli argomenti della linguistica, dell’economia e della politica, anche italiana»...
Professor Chomsky, lei parteciperà a un’opera musicale. Si dice spesso che la musica sia un linguaggio universale. Ma, innanzi tutto, la musica è un linguaggio?
«Il concetto di linguaggio nell’uso comune è vago e informale. È comunque possibile formulare almeno alcune chiare domande. Per esempio quali relazioni ci sono tra musica e linguaggio umano? Ci sono studi su questo e molte idee interessanti ma la domanda generale non ha risposta. È come domandarsi se gli aeroplani volino (certo, ma non come le aquile) o se i sottomarini nuotino (non proprio come delfini). Sono faccende che hanno a che fare con le metafore che scegliamo di accettare, non sono questioni fattuali».
Cosa differenzia il linguaggio verbale dagli altri sistemi di segni (suoni, figure, gesti)?
«È importante ricordare che il linguaggio umano non è necessariamente verbale. Può essere espresso attraverso suoni, il modo più comune, o segni grafici. Come abbiamo scoperto in anni recenti, molti linguaggi simbolici che sono nati nel mondo sono particolarmente simili ai linguaggi orali. A ogni modo il linguaggio umano differisce da altri sistemi di segni in alcuni importanti aspetti: struttura, uso, rappresentazione neuronale. È stato anche scoperto che lo stesso gesto può funzionare in maniera diversa se viene usato in un sistema di segni o se in un contesto non linguistico. Le proprietà fondamentali del linguaggio umano appaiono uniche e sono probabilmente emerse relativamente di recente rispetto al processo evolutivo. La facoltà del linguaggio sembra essere ampiamente dissociata da altri sistemi cognitivi umani e completamente differente dai sistemi di comunicazione animali».
Se il linguaggio è generato dalla grammatica e la grammatica fondata su strutture foniche, si potrebbe dire che il linguaggio si origina più probabilmente dal suono che dal segno?
«Quello che possiamo dire è che il suono è solo una delle forme di esternalizzazione del linguaggio e non sembra essere essenziale della sua natura. Concordo con la tradizione che tende a considerare il linguaggio primariamente uno strumento del pensiero e la sua esternalizzazione, in una o un’altra modalità, un processo secondario. È tuttavia vero che i segni grafici sono cosa piuttosto recente nella storia dell’uomo, tra l’altro solo in certe culture, e che non possano essere collegati all’origine del linguaggio».
Cosa pensa delle recenti ricerche neurolinguistiche? I risultati scientifici mettono a tacere la lunga diatriba tra “innatismo” e “comportamentismo”?
«Nonostante io abbia sempre trovato fuorviante parlare di dibattito tra “comportamentismo” e “innatismo” (e soprattutto su questa parola bisognerebbe accordarsi, perché non ha un significato ben definito), non si può seriamente dubitare che ci sia un alto numero di fattori innati che entrano in ogni aspetto della funzione cognitiva. L’unica alternativa è la magia. Il lavoro scientifico è determinare questi fattori:per esempio, qual è la dote biologica che rende il bambino, e non un altro organismo, in grado di sviluppare le capacità che io e lei stiamo usando ora? E così domande simili sulle facoltà mentali e non. Anche i comportamentisti ormai credono a fattori innati».
Se il linguaggio dà forma all’esperienza, quanto i problemi del mondo dipendono dal linguaggio?
«Difficile pensare che esista un’attività umana in cui il linguaggio non sia direttamente coinvolto. Dire che ci sia una dipendenza dal linguaggio è plausibile ma è una questione davvero troppo seria e indefinita per esaminarla».
Il suo ultimo libro si intitola I padroni dell’umanità. Chi sono costoro?
«I centri corporativi delle società industriali avanzate vogliono farsi ricordare come i padroni dell’umanità. Il termine è preso in prestito da una frase di Adam Smith: “la vile massima dei padroni dell’umanità: tutto per noi, niente per gli altri”. È esattamente la proprietà istituzionale delle società capitaliste ».
Lei scrive che potere e verità sono in conflitto e che gli intellettuali o ricercano la verità o comandano. È dunque impossibile il governo dei filosofi sognato da Platone?
«Bakunin predisse che il governo dalla classe emergente della scientific intelligentsia avrebbe portato alle peggiori e brutali autocrazie della storia umana. È risultata un’osservazione lungimirante. Non c’è dunque ragione per aspettarsi che il governo dei filosofi, o quello di una qualsiasi altra élite, sia migliore».
Tra i temi che le stanno più a cuore c’è l’ambiente. Quali rischi dobbiamo temere maggiormente?
«Ci sono due ombre scure che incombono su ogni considerazione riguardo al futuro: la catastrofe ambientale e la guerra nucleare. La prima è già tristemente una realtà; l’altra è un rischio sempre presente che non accenna a dissolversi, è quasi un miracolo che siamo scappati a un disastro nucleare non così tanto tempo fa. Pessimismo e ottimismo sono questioni soggettive, non sono importanti: qualunque sia il proprio stato d’animo, le azioni da intraprendere sono essenzialmente le stesse».
Darwin il milanese
Decisivi i legami tra la città e «il Galileo della biologia»
di Peppe Aquaro (Corriere della Sera, 3.06.2009)
Conosciuto, senz’altro. Qualche volta contestato, quasi sempre sostenuto. Charles Darwin non fece mai tappa a Milano (la moglie, Emma Wedgwood, sì, particolare, forse, che di scientifico ha ben poco), ma i contatti tra lo scienziato e il mondo accademico meneghino risultarono decisivi per lo sviluppo della teoria dell’evoluzione delle specie. Lo mette in evidenza la mostra «Darwin 1809-2009», promossa dal Comune di Milano, prodotta da Palazzo Reale, «Codice. Idee per la cultura» e Civita, con la partnership di Intesa Sanpaolo, che da domani al 25 ottobre approda nel capoluogo lombardo, alla Rotonda della Besana, dopo la tappa a Roma.
L’esposizione - mille metri quadrati, più ampia della prima versione curata a New York da Niles Eldredge e Ian Tattersall, prosecutori dell’opera del genio britannico - presenta, tra l’altro, alcune lettere della corrispondenza tra lo scienziato inglese e i colleghi milanesi. Su tutti: Giovanni Omboni, Angelo Andres e Tito Vignoli. Tra le chicche, una delle primissime segnalazioni, sulla rivista milanese «Il Politecnico » del 1860, un anno dopo la pubblicazione, di «On the Origin of Species», di cui è mostrata anche l’edizione originale (ne furono stampate solo 2.500 copie), prestata al Museo di storia naturale di Milano. A Vignoli, storico direttore del Museo, appartiene la sentita commemorazione funebre del celebre scienziato (1882): «Egli è certamente e sarà il più grande uomo del nostro secolo, e come io ebbi l’onore di scrivergli qualche anno fa, egli è il Galileo delle scienze biologiche». Pochi anni prima, sempre lo stesso museo aveva battuto sul tempo la concorrenza di Modena e Napoli, nominando Darwin socio onorario.
«Quando si parla di Darwin e dei suoi rapporti con il mondo italiano, non si tratta soltanto di analogie fra studiosi, ma di vere e proprie anticipazioni alle teorie darwiniane - osserva Eldredge - come quella del geologo bassanese Giambattista Brocchi il quale, già a inizio Ottocento, affermava che le specie nascono, hanno una storia e alla fine muoiono». Una scoperta nella scoperta, il rapporto tra l’Italia e Darwin. «Nel 1879 lo scienziato riceve il premio Bressa, e lui che fa? Ne devolve il ricavato alla Stazione zoologica di Napoli», ricorda Telmo Pievani, filosofo della scienza, allievo di Eldredge e Tattersall e curatore della mostra che vuole essere essenzialmente un omaggio alla figura di Darwin e all’importanza della scoperta scientifica.
Il viaggio del visitatore alla ricerca delle proprie origini è lo stesso di quello compiuto dal naturalista inglese, dal 1831 al 1835, a bordo del brigantino Beagle. Quei cinque anni che sconvolgeranno il mondo scientifico costituiscono la parte centrale di un percorso che parte dal mondo prima di Darwin - si riteneva che la Terra avesse soltanto 6.000 anni di vita, una visione sostenuta dal rigido e passatista mondo vittoriano - continua con un Darwin adolescente, ossessionato dai coleotteri. «Suoni e colori diversi accompagnano il visitatore tra una sezione e l’altra - spiega Pievani - non appena si entra nel Viaggio intorno al mondo, dalla Terra del Fuoco all’arcipelago delle Galápagos, è tutto un caleidoscopio di colori». Protagonisti sono gli animali vivi, come l’armadillo e l’iguana verde dell’Amazzonia, o estinti, come il gliptodonte gigante, ricostruito sulle forme del fossile custodito al Museo di storia naturale di Milano.
Il giro prosegue alla volta di Londra: a dominare sono le tonalità grigie, che avvolgono come nebbie i cinque anni in cui Darwin elabora le proprie idee. «Da questo momento si entra nella mente dello scienziato, che comincia a sviscerare i suoi taccuini, rivedendo gli appunti del viaggio», ricorda Niles Eldridge nella prefazione del catalogo della mostra newyorkese del 2005 «Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita», quello disegnato nei taccuini esposti. «In alto a sinistra, in una delle pagine si legge ’I Think’: accelerazioni, ripensamenti evidenziano quanto Darwin sia vicino alla meta», aggiunge Pievani.
Ma esiterà a pubblicare. Sui tentennamenti di Darwin è interessante andare a rileggersi la lettera-risposta del 1844 (esposta nella mostra milanese) spedita dallo stesso scienziato a un collega geologo: «Sono sicuro di aver capito, ma non me la sento di pubblicare il tutto. Sarebbe come confessare un omicidio». Quell’omicidio lo confesserà solo nel 1859, preferendo dedicarsi, fino ad allora, ad anni di studio forsennato chiuso a Down House: d’effetto la ricostruzione a grandezza naturale del suo studio, con libri, microscopio e la celebre poltrona a rotelle su cui trascorse, ormai infermo, gli ultimi anni. «Ma noi non facciamo morire Darwin - conclude Pievani - se a New York l’epilogo erano i funerali, qui si entrerà in una scenografia luminosa, il sandwalk, lo spazio dei pensieri da percorrere per approdare a ’L’evoluzione oggi’, il ritorno al presente».
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 3.06.2009)
Se il celebre resoconto della sua avventura «sulla regia nave Beagle» era davvero Il viaggio di un naturalista intorno al mondo, quel capolavoro scientifico che è L’origine delle specie è la storia di un viaggio nei labirinti della spiegazione di quello che all’epoca era «il mistero dei misteri»: perché tante forme viventi «bellissime e meravigliose» presentano analogie che risultano inspiegabili, se si crede che ogni specie animale o vegetale sia uscita così com’è, una volta per tutte, dalla volontà del Creatore? Del resto, la migliore definizione dell’Origine delle specie l’ha data Darwin stesso: «un lungo ragionamento » che affianca a ipotesi audaci domande e obiezioni. Spesso sembra di ascoltare Darwin in persona che rimugina tra sé e sé, dubbioso e perplesso. Questo è l’aspetto dell’Origine che mi ha maggiormente colpito fin dalla prima lettura: era l’edizione italiana presentata dal grande biologo Giuseppe Montalenti e pubblicata nella «Universale scientifica» Boringhieri (1967).
Avevo recuperato in un cineforum il film di Stanley Kramer, dedicato al «processo delle scimmie » (1925) in cui era incappato un insegnante di una cittadina del Sud degli Stati Uniti per aver dichiarato ai suoi allievi che l’uomo è parente prossimo degli scimpanzé più che degli angeli. Il titolo della versione italiana era E l’uomo creò Satana, mentre l’originale alludeva alla Bibbia: Eredita il vento (1960). La crosta terrestre «è un grande museo» di reperti fossili, ma le sue collezioni sono «terribilmente incomplete »: perché mai, se le specie non sono fisse, ma derivano da altre attraverso impercettibili gradazioni, non disponiamo di tutte le forme intermedie? E se la natura sottopone a «severo scrutinio» le variazioni del vivente, perché mai tale selezione naturale «produce da una parte un organo di importanza trascurabile come una coda di una giraffa che serve per scacciare le mosche e dall’altra un organo così meraviglioso come l’occhio umano?». Le trappole che avvocati maligni tendono all’imputato nel corso del processo non erano diverse da quelle che, con grande onestà intellettuale, Darwin esponeva come «difficoltà della propria teoria».
A quel punto non mi interessava più se l’imputato se la fosse cavata con i suoi inquisitori, ma come Darwin fosse riuscito a tramutare le pretese confutazioni in vittorie della sua concezione. Era una vicenda affascinante almeno quanto qualsiasi bel racconto d’avventure.
Aspettavo la conclusione con la stessa impazienza con cui di mese in mese attendevo... la nuova puntata di Tex! Darwin aveva compreso che «il tempo profondo» del nostro Globo giustificava le lacune nelle testimonianze fossili. E l’occhio? «Quando per la prima volta fu detto che la Terra gira intorno al Sole, il senso comune del genere umano dichiarò che la dottrina era falsa; ma il vecchio detto Vox populi vox Dei, come ogni filosofo sa, non vale nella scienza. La ragione mi dice che se si può dimostrare l’esistenza di numerose gradazioni da un occhio semplice e imperfetto a uno complesso e perfetto, tutte utili alla sopravvivenza ed ereditabili da una generazione all’altra, la cosa non è più una smentita della nostra teoria, anche se pare insuperabile per la nostra immaginazione». Ma proprio questo vuol dire liberarsi dai pregiudizi: se non se ne è capaci davvero «eredita il vento »! È un’arte di cui Darwin si rivela, nell’Origine, grande maestro; ma lui con modestia avrebbe detto: «È la mia natura, non posso fare altrimenti». Sembra quasi Lutero alla Dieta di Worms, quando sfidò insieme Papato e Impero. Darwin, invece, si era limitato a contrastare l’ortodossia dominante entro la stessa comunità scientifica, cambiando così la nostra concezione del posto dell’uomo nella natura.
La doppia vita del dottor Charles
Dopo aver girato il pianeta a bordo della Beagle, si ritirò in campagna
di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 3.06.2009)
«Rivedere la caduta delle foglie, udire il gorgheggio dei pettirossi come nelle campagne di Shrewsbury, provare ancora la dolce monotonia delle cose consuete, l’assenza delle chiassose novità che affaticano gli occhi e la mente». Scorre il piacere nelle parole di Charles Darwin ricordando l’emozione della vita nella nuova casa di Down. E aggiunge: «È il luogo più tranquillo in cui io abbia mai vissuto. A Est e ad Ovest vi sono delle valli invalicabili, a Sud solo un sentiero molto stretto, e a Nord, attraverso il villaggio , altre due stradicciole: è come se ci trovassimo all’estremo limite del mondo».
È difficile immaginare l’altra anima di Darwin, quella che lo aveva portato ad esplorare veri e remotissimi luoghi del pianeta a bordo della nave Beagle. Eppure quando entra nella palazzina di tre piani immersa nel verde, il ritmo dell’esistenza cambia e tutto il suo orizzonte è segnato dalle piante che vede dalla finestra, dal sentiero che ogni mezzogiorno percorre cinque volte meditando e che per questo lui chiama il «viottolo del pensiero» ma soprattutto dalla famiglia, dalla moglie Emma Wedgwood e dai sette figli che cresce leggendo le favole di Dickens. Altri due bimbi muoiono poco dopo la nascita e uno di questi, appena entrati nella nuova casa di Down.
Poi perderà anche l’amatissima figlia Annie a soli 10 anni di età e la sua scomparsa segnerà ogni giorno seguente preoccupato che il suo matrimonio con la cugina Emma avesse condannato la sorte dei figli. Così non fu, in realtà, perché tutti i sopravvissuti crebbero in salute conquistando talvolta posizioni di prestigio.
Ma dove erano l’ebbrezza che lo aveva portato ad imbarcarsi con i pescatori di ostriche di Newhaven quando era ancora studente o il coraggio di affrontare il lungo periplo del pianeta a bordo della piccola nave comandata da Robert Fitzroy, come il botanico ed entomologo John Stevens Henslow gli aveva suggerito?
Partì dopo gli studi a Cambridge contro il volere del padre che giudicava il viaggio previsto di due anni soltanto una perdita di tempo. Rimase in navigazione cinque anni e al ritorno nel 1836 era già famoso perché durante la spedizione inviava lettere e materiali che venivano fatti conoscere.
La lunga traversata sugli oceani era stata ardua. Non solo perché Darwin soffriva terribilmente il mare, ma anche perché mentre Fitzroy scandagliava i fondali delle coste sudamericane per costruire le nuove mappe ordinate dall’ammiragliato di sua Maestà, Charles scendeva a terra ed esplorava i territori quasi sempre inospitali dai quali rubava i campioni in seguito preziosi per la sua rivoluzionaria teoria.
Al rientro aveva 27 anni e vivendo per lo più a Londra iniziava a dare forma alle sue idee come rivelano i diari. Per poco, però. Intanto scrive del suo viaggio ma la pressione degli impegni lo ammala. Accusa «sconfortanti palpitazioni del cuore» e i medici lo obbligano a sospendere il lavoro. L’anno successivo, nel 1838 sta ancora peggio: mali di stomaco, dolori di testa, cuore alterno; tutti guai che si trascinerà per l’intera vita senza mai scoprirne la causa. Nemmeno le cure, talvolta drastiche e spiacevoli come bagni d’acqua gelida, l’aiuteranno.
Intanto sposa Emma e Londra diventa insopportabile. Con lei cerca casa lungo la nuova linea ferroviaria che gli permetterà di andare in città, se necessario, e tornare in giornata per cenare in famiglia. La troverà nel 1842 appunto nel villaggio di quaranta tetti di Down e in due ore poteva sedersi alle riunioni della Royal Society quando serviva.
Nella quiete delle stanze piene di libri, carte e giochi dei bambini definisce scrive «L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale». Ma chiuso nel suo piccolo mondo non è intenzionato a parlarne perché ne teme le conseguenze. Si rende conto di quanto le sue intuizioni fossero rivoluzionarie. Le darà alle stampe soltanto nel 1859 quando scopre che il più giovane Russel Wallace, anche lui dopo un viaggio avventuroso, era giunto alle sue stesse conclusioni.
E come era facilmente intuibile l’anno successivo inizieranno gli attacchi del vescovo Samuel Wilberforce che giudicava la teoria un’idea eretica perché contro la creazione. In quel momento nasceva il creazionismo tutt’ora forte e a sua volta evoluto nel tempo per contrastare la rivoluzione darwiniana.
Accanto alla casa Charles costruirà una piccola serra con piante tropicali e altri reperti: era il suo laboratorio domestico, forse l’angolo dei ricordi. E tra quelle pareti e quelle passeggiate trascorrerà quarant’anni distaccato dal clamore che i suoi scritti scatenavano. A Londra andava sempre meno, solo nelle occasioni eccezionali e l’unica concessione era un liquorino dopo cena fino a che i medici non glielo proibivano. Non amava i conflitti e le discussioni in pubblico sempre più frequenti soprattutto dopo la pubblicazione «Sull’origine dell’uomo» che portava allo scoperto l’evoluzione umana nel contesto naturale e il suo legame con i primati. Immerso nel verde e nel silenzio di Down House si sentiva protetto.
Ne uscirà solo nel 1882 quando moriva a 73 anni e il suo corpo era sepolto nell’Abbazia di Westminster accanto ad un altro grande rivoluzionario, Isaac Newton, che prima di lui aveva sconvolto, ma con minori conflitti, i cieli.
«L’idea base che personalmente mi ha affascinato in Darwin, e che mi guida da sempre, è quella della metamorfosi»
Un poema sullo scienziato
E il nonno Erasmus mi ha insegnato la polifonia culturale
di Luigi Trucillo (Corriere della Sera, 3.06.2009)
Come nasce un libro? Basandomi sulla mia ultima esperienza direi che bisogna sempre fare affidamento sui nonni, intesi qualche volta come antichi maestri. Cioè, in altri termini, sulla catena delle affabulazioni. A prescindere dall’ammirazione per i suoi scritti, infatti, probabilmente la prima idea di scrivere un libro di poesie su Darwin mi è balenata scoprendo che il nonno, il medico Erasmus Darwin, oltre a inventare i pozzi artesiani aveva rappresentato in versi la teoria dell’evoluzione di Lamarck. Se quell’approccio alla scienza era stato possibile allora, perché non riprovarci adesso? Sappiamo che l’attrazione che la natura esercita sulla psiche umana è innata e si definisce biofilia: come lasciar cadere la possibilità di una sua rappresentazione estetica? A ben guardare, le intuizioni di Darwin fanno capolino dappertutto, quindi anche all’interno della poesia. Certo, non tutto è stato semplice, credo che per ogni scrittore sia stranissimo calarsi nell’opera di uno scienziato, perché si vede costretto a fare i conti con un tessuto di teorie sistematiche percepite dalla scrittura come una materia sottile del linguaggio, una specie di sostanza segreta già apparentemente confezionata che germoglia di nuovo nella propria elaborazione.
L’idea base che personalmente mi ha affascinato in Darwin, e che mi guida da sempre, è quella della metamorfosi. Ne ho fatto quasi un’epica profonda, e mi sembrava interessante riversare la spaziosità di quest’epica contro l’idea di controllo così incombente nelle scienze applicate. E Darwin con la sua natura stupita e profondamente democratica era evidentemente un esploratore più che un erogatore di controllo. Secondo me, ad esempio, la sua idea di ereditarietà che allude nel tempo all’asse familiare evoca, attraverso la teoria delle piccole progressioni del cambiamento, un sistema orizzontale, di passaggio fraterno, opposto in ultima analisi alla verticalità edipica e metafisica attribuita di norma alla trasmissione. La metamorfosi come elemento fraterno: non è questa un’idea bellissima, vicina in qualche misura al fondamento della poesia? Non è il barlume di una speranza non gerarchica? E gli scienziati, quelli veri, non sono immersi nell’elemento creativo? Per me quindi valeva la pena tentare di aprire la materia di una teoria scientifica all’apporto di alcuni elementi classici come la tragedia, il mito, la metafora, cercando a tentoni il varco verso un’epistemologia inconscia. Del resto proprio uno scienziato, Bateson, elaborando la sua fittissima struttura che connette ha parlato di una complessità organizzativa del vivente che non consente meccanicismi. E ha invitato a una metaforizzazione della scienza. Io non ho fatto altro nei miei versi che imbucarmi in quest’idea di polifonia culturale. Ha detto Bateson che «la natura pensa per storie, racconta storie». E l’evoluzione allora non è per noi poeti una versione delle Mille e una notte che le specie si raccontano per non morire? Alla fine nella teoria di Darwin circola un ascolto profondo delle leggi naturali che è anche un invito all’apertura, all’attenzione verso ciò che ci appare, nudo, dinanzi. Per chi sa respirare i mutamenti è un percorso verso la riconciliazione. (Con «Darwin», Quodlibet, Trucillo ha vinto il Premio Napoli per la poesia 2009)
L’intervista.
Lo studioso racconta il suo ultimo libro sul padre dell’evoluzione
Richard Dawkins.
"Darwin, antidoto all’ignoranza"
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 19.02.2010)
Il suo libro, "Il più grande spettacolo della terra. Perché Darwin aveva ragione" in uscita per Mondadori, riporta sondaggi inquietanti, secondo cui il 20% degli italiani nega che l’uomo discenda in qualunque modo dagli animali, e il 32% pensa chei primi uomini siano vissuti all’epoca dei dinosauri! Come spiega, professor Dawkins, una tale ignoranza scientifica in un’epoca tecnologica e in un paese sviluppato?
«Purtroppo non è un problema solo italiano, ma europeo e statunitense. E non riguarda solo l’evoluzione: una percentuale analoga, del 24% in Italia, pensa che la Terra impieghi un mese a girare attorno al Sole! Il che significa che c’è un’ignoranza scientifica generalizzata». Ma con l’evoluzionismo ci sono ovviamente ragioni particolari, non crede? «Certamente, soprattutto tra i fedeli della cosiddetta Chiesa Bassa dei paesi protestanti. Sarei sorpreso che fosse così in un paese a maggioranza cattolica. Mi sembra che la Chiesa accetti l’evoluzione, almeno ufficialmente, a parte l’origine dell’anima umana: se ho ben capito, secondo loro a un certo punto ci dev’essere stato qualcuno che aveva un’anima, mentre i suoi genitori non l’avevano».
A dire il vero, l’enciclica di Pio XII Humani generis dice esplicitamente che un cattolico deve credere all’esistenza reale, e non metaforica, di Adamo ed Eva.
«Questa non la sapevo! Mi faccia controllare in rete. Ohibò, è vero! Molto interessante. Io sono stato criticato per aver attaccato i fondamentalisti, invece che i "veri" teologi, ma qui abbiamo addirittura un papa recente che dice queste cose! Affascinante, lo userò d’ora in poi».
Il papa attuale, Benedetto XVI, e il suo allievo Christian von Schönborn, cardinale di Vienna, si sono invece espressi apertamente a favore del Disegno Intelligente. Lei cosa ne pensa?
«Molti aspetti del mondo vegetale e animale mostrano che, se ci fosse un Disegno, sarebbe non intelligente! E’ più sensato pensare che non ci sia stato nessun Disegno, e che la Natura sia il prodotto di un’evoluzione storica».
E il Principio Antropico, secondo cui viviamo in universo fatto apposta in modo da permettere la nostra esistenza?
«Oh, quella è un’altra faccenda, da tenere ben distinta dalla precedente, benché le due cose vengano spesso mescolate. Il Principio Antropicoè un argomento ateo, che isola scientificamente le condizioni necessarie alla vita».
Anche il Disegno Intelligente, però, non è necessariamente teistico.
«E’ vero. Si può pensare che la pianificazione sia stata fatta da alieni, ad esempio, come nella teoria della panspermia difesa nientemeno che da Francis Crick nel suo libro La vita stessa. Ma naturalmente questo è solo un Disegno locale, che non spiega l’origine degli alieni che avrebbero dato origine alla vita terrestre».
Vogliamo ora passare alle prove dell’evoluzione? Per cominciare, inizierei da quelle che già Darwin aveva dato, a partire dall’analogia con la selezione artificiale.
«E’ un esempio eccellente, che oggi viene usato meno di quanto si dovrebbe. In fondo, la selezione artificiale non è altro che la verifica sperimentale della selezione naturale: in parte effettuata coscientemente nei laboratori oggi, ma in parte effettuata inconsciamente nel corso dei secoli da coltivatori e allevatori. Darwin amava molto gli esperimenti sui piccioni, ma a me sembra che l’esempio più spettacolare di quanti cambiamenti si possano produrre in poco tempo sono i cani, dal chihuahua all’alano».
Darwin ha anche refutato fin da subito l’obiezione creazionista dei cosiddetti "organi complessi", come l’occhio.
«Sì, facendo notare che spesso non è vero che un organo complesso funziona soltanto come sistema integrato di tutte le sue parti: anche un quarto, o addirittura un centesimo, di occhio vedono meglio che nessun occhio! E nel regno animale si trovano esempi di vari stadi di evoluzione incompleta dell’occhio, che lo dimostrano».
Darwin fece anche notare le tracce lasciate dall’evoluzione negli organi vestigiali, come le ali degli uccelli che hanno smesso di volare.
«Quegli organi non più funzionanti sono esempi meravigliosi ed eleganti di un avvenuto cambiamento, di cui forniscono una testimonianza storica. Oggi poi sappiamo che ci sono non solo organi, ma anche geni vestigiali: i cosiddetti pseudogeni, che hanno tutta l’apparenza dei geni normali, ma non sono più nemmeno trascritti. Sono un po’ l’analogo dei frammenti di programmi e di file che rimangono sull’hard disk del nostro computer, benché non siano più accessibili».
Vorrei ora passare alle prove che ai tempi di Darwin non avevano sufficiente evidenza, tipo i fossili.
«Di fossili animali ce n’erano già allora, naturalmente, ma mancavano quelli umani: è a quelli che ci si riferiva, parlando di "anelli mancanti". In seguito ne sono stati trovati un’enormità: soprattutto in Africa, che era il luogo in cui già Darwin aveva capito si sarebbero dovuti cercare, a causa della grande somiglianza degli uomini con le scimmie africane quali gli scimpanzè e i gorilla, più che con le scimmie asiatiche quali gli oranghi e i gibboni».
Ci sono poi argomenti che Darwin non poteva addurre, perché si basano su scoperte successive, come la genetica.
«Effettivamente, se c’è un campo nel quale Darwin si sbagliò, fu certamente la genetica. Dopo la scoperta della doppia elica da parte di Watsone Crick, direi che la genetica è diventata una branca dell’informatica: una sequenza di DNA è simile a un nastro di computer, benché in un alfabeto quaternario invece che binario, e si legge e si trascrive nello stesso modo».
Nonostante tutte queste prove, come mai i creazionisti insistono a non considerare l’evoluzione una teoria scientifica?
«Forse perché la considerano una teoria storica, parte dell’umanesimo invece che della scienza (benché, ironicamente, quasi tutti i creazionisti siano umanisti). Ma sbagliano, perché invece è basata su evidenza sperimentale, predittiva, e verificabile o refutabile: ad esempio, l’evoluzionismo prevede che non si possano trovare fossili di mammiferi negli strati del devoniano, e un loro ritrovamento sarebbe una confutazione della teoria».
C’è un’ultima obiezione, proposta da un paio di fisici balzani, secondo cui l’evoluzionismo non sarebbe scientifico perché non descritto da formule matematiche.
«Questa, poi! Il neodarwinismo moderno è basato sull’idea che la frequenza dei geni nelle popolazioni cambia nel tempo, e le principali ipotesi necessarie al cambiamento, e dunque all’evoluzione, si derivano da una famosa formula dovuta a Hardy e Weinberg. La moderna genetica evolutiva è altamente matematica, piena di formule: ci sono addirittura riviste scientifiche interamente dedicate ai fondamenti matematici della teoria. Anche questa obiezione, come tutte le altre, è semplicemente disinformata».