Saussure: il dialogo, in principio.
DUE PERSONE CHE DISCORRONO...
Il punto fermissimo della ricerca saussuriana *
di Federico La Sala *
Compito preliminare per la comprensione adeguata di un testo dovrebbe essere quello di individuare (analisi) all’interno del testo stesso, quel punto di vista (ipotesi) da cui partendo sia possibile recuperarne (deduzione) l’unità e la totalità (sintesi). Tale operazione è fondamentale ove si voglia determinare «la logica specifica dell’oggetto specifico» e non saccheggiare il testo alla ricerca di qualche ipotesi-tesi a proprio uso e consumo. E questo soprattutto con testi d’ordine scientifico. Ad essi occorre applicare il loro stesso metodo. Solo movendosi nel senso del loro movimento è possibile comprenderne la logica. Ed è solo da questa comprensione che. dovrebbe partire l’utilizzazione del testo (e dei suoi elementi), non viceversa. Anche se questo modo di leggere le cose può sembrare faticoso, è da ricordare che nel regno della conoscenza non esistono vie regie, scorciatoie e simili. Solo attraverso il lavoro di appropriazione del testo in tutti i suoi particolari, e attraverso una serie di movimenti induttivi-deduttivi, è possibile: trovare quel determinato puntò di vista (l’ipotesi giusta) che permetterà la ‘riscrittura’ del testo stesso. Altrimenti ciò che ci si troverà dinanzi.- nell’assenza dell’occhio per vedere - sarà solo un ammasso caotico di elementi vari.
Il C.L.G. [= Corso di Linguistica generale], soprattutto perché ci è giunto in un certo stato (cioè, ricostituito a partire dagli appunti degli alunni e da note sparse dello stesso Saussure), è un testo che vuole essere letto in questo modo, nel suo modo. Quello stesso secondo il quale Saussure ha “letto” i fatti del linguaggio. Contribuire a una lettura quanto più sia possibile coerente e organica di questo importantissimo testo è quanto qui ci si propone. Intenzione specifica è - percorrendo abbastanza dettagliamene il testo - mettere in luce determinati livelli della ricerca saussuriana, la socialità e la scientificità.
Le nostre considerazioni si manterranno perciò e per lo più in questo ambito di problemi. Ciò non vuol dire naturalmente che esse saranno unilaterali. Anzi si crede che proprio questo ambito (sociale-scientifico) sia quello che più di tutti dia la possibilità di cogliere meglio l’organicità (e con essa il peso) della ricerca saussuriana.
Cominciamo. Socialità e scientificità sono coordinate fondamentali dell’orizzonte teorico di Saussure. E questo non a caso o per motivi personali, ma necessariamente, essendo l’area di ricerca per costituzione sociale. Si potrebbe dire (e ne siamo indirettamente autorizzati) che in Saussure, proprio perché «il linguaggio è fatto sociale» .e proprio perché, «nella vita degli individui e delle società» è «un fattore più importante di ogni altro», nasce l’esigenza di sottrarlo alle fantasticherie e alle faccende private di qualche specialista (p. 16). Esigenza questa naturalmente non nata di colpo, ma storicamente data e storicamente condizionata. «La linguistica non nasce tutta armata dalla testa di Saussure, né si produce da sola, per una sorta di misteriosa partenogenesi., Essa si viene invece formando nel giro di più anni, e si precisa e definisce principalmente come effetto della reazione di Saussure all’impostazione teorica della linguistica ottocentesca. La tradizione linguistica precedente gli appare infatti come un ammasso di "idees fantastiques, mythologiques", sostanzialmente impressionistiche, che testimoniano di due deficienze di base: i) anzitutto la linguistica ottocentesca non ha idee chiare "sur la natùre de l’objekt de la linguistique"; ii) in secondo luogo essa è sostanzialmente priva di metodo, e non si pone altri problemi che non siano quelli di accumulo di materiali»(l).
Il problema dell’oggetto (objekt) e del metodo è determinante per una ricerca che voglia essere scientifica. E per Saussure cosa prioritaria e fondamentale da fare è, appunto perché si possa «costituire la vera scienza linguistica», «determinare la natura del suo oggetto di studio» (p. 12). Senza questa operazione elementare - egli rileva - una scienza è incapace di crearsi un metodo (p. 12). Senza questo momento è come se l’oggetto di studio non esistesse affatto. E ciò è tanto vero che, fatta l’operazione, ci sembra che «l’oggetto stesso, lungi dal precedere il punto di vista», sia stato «creato dal punto di vista» stesso (p. 17).
In Saussure esiste una precisa consapevolezza del rapporto tra l’oggetto-punto di vista e il metodo, «della connessione diretta fra la delimitazione dell’oggetto di una scienza e la costituzione metodologica della scienza stessa» (2). Ciò che egli si propone è l’analisi scientifica di un campo specifico di fenomeni, l’analisi determinata di un .fatto sociale, il linguaggio. A questo scopo è necessario definire il punto di vista (che è poi l’oggetto stesso) e darsi il metodo adeguato.
Ecco come si presenta nel C.L.G. il movimento di individuazione dell’oggetto-punto di vista. Dato che “la materia (matière) della linguistica è costituita anzitutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun periodo non solo del linguaggio corretto e della “lingua buona”, ma delle espressioni di ogni forma”(p. 15) e che “preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico; esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale; non si lascia classificare in alcuna categoria di fatti umani, poiché non si sa come enucleare la sua verità”(p. 19), si pone il problema di trovare, all’interno di essa (matière), quell’oggetto-punto di vista da cui è possibile-necessario partire per dare ordine al caos dei fatti linguistici e creare l’oggetto steso.
Qual è l’oggetto che Saussure all’interno dei fatti del linguaggio individua? O, come egli si domanda, “qual è l’oggetto a un tempo integrale e concreto della linguistica?”.
Analizzate varie possibilità, visto che «da qualunque lato si affronti il problema, da nessuno ci si presenta l’oggetto integrale della linguistica» e che «se studiamo il linguaggio sotto parecchi aspetti in uno stesso momento, l’oggetto della linguistica ci appare un ammasso confuso di cose eteroclito e senza legame reciproco», anzi, «procedendo in tal modo si apre la porta a parecchie altre scienze» senza che queste dicano nulla della dimensione specifica del linguaggio stesso, non resta per Saussure che «una soluzione a tutte queste difficoltà: occorre porsi immediatamente sul terreno della lingua e prenderla per norma di tutte le altre manifestazioni del linguaggio». Infatti, egli prosegue, «soltanto la lingua sembra suscettibile di una definizione autonoma e fornisce un punto di appoggio soddisfacente» (p. 18). La lingua, dunque, pur essendo uno tra i tanti possibili oggetti del linguaggio, è l’oggetto che all’analisi si mostra come il più importante, come l’essenziale. Questa sua importanza viene confermata immediatamente dal fatto che «dal momento in cui le assegniamo il primo posto tra i fatti dei linguaggio», permette di introdurre «un ordine naturale [cioè interno, proprio, fls] in un insieme» che prima in base ad altre ipotesi-punti di vista non si era potuto classificare-ordinare (p. 19). Fra i tanti possibili oggetti del linguaggio solo questo oggetto, la lingua, permette di fare una classificazione unitaria ed organica: «è la lingua che fa l’unità del linguaggio» (p. 20). Soltanto da questo oggetto si ha e si può avere un ottimo punto di vista. In questa sua privilegiata posizione la lingua viene ad essere nello stesso tempo «una totalità e un principio di classificazione» (p. 19), appunto un oggetto e un punto di vista. Un punto di partenza e un punto di arrivo: nell’indagine è il punto di partenza, il punto di vista, l’ipotesi che ci guida e fa distinguere fra l’essenziale e il non-essenziale, una totalità astratta; nell’esposizione essa è il punto di arrivo, l’oggetto, una totalità concreta (per il pensiero), logicamente unita e dimostrata. Questi due movimenti (indagine ed esposizione: il punto di vista che diventa oggetto e l’oggetto che diventa punto di vista) sono due movimenti di uno stesso movimento: il metodo scientificamente corretto.
È con questo metodo che Saussure è avanzato tra i fatti del linguaggio e della lingua. È per essersi mosso in questo senso scientificamente corretto, pur se con limiti e contraddizioni, che egli è divenuto il fondatore della scienza linguistica propriamente detta, «quella il cui unico oggetto è la lingua» (p. 30). A questo rigore è dovuto il grande fascino di un libro come il C.L.G. che solo approssimativamente ci restituisce «la pensée definitive de son auteur». È in ciò la grande e degna vicinanza del suo Autore a un Galileo o a un Marx.
Saussure, individuato l’oggetto-guida, si mette in viaggio. Il cammino è nello stesso tempo facile e difficile. La guida stessa (la lingua in quanto ipotesi) indica la strada e dice quali luoghi visitare e quali no... se si vuole giungere a conoscerla com’è nella sua interezza. Ciò che essa pretende dal viaggiatore è solo una cosa, intelligenza e soprattutto agilità, piedi leggeri. Essa è un tipo un po’ bizzarro, molto unito ma anche molto distinto, tutta piena di polarità (rapporti oppositivi interdipendenti). Occorre per comprenderla muoversi (pensare) allo stesso modo. E Saussure vi riesce. Tanto è vero che la sua relazione di viaggio (il C.L. G.) è segnata da un “carattere profondamente dialettico”(3).
Vediamo di ricostruire un po’ questo “strano viaggio” dalla lingua alla lingua. Il percorso di Saussure è facilmente ricostruibile. lIl suo punto di partenza è un fatto determinato, un preciso fatto sociale. Citiamo direttamente dal C.L.G.:
«Per trovare nell’insieme del linguaggio la sfera che corrisponde alla lingua, occorre collocarsi dinanzi all’atto individuale che permette di ricostituire il circuito delle parole. Questo atto presuppone almeno due individui, il minimo esigibile perché il circuito sia completo. Siano, dunque, due persone che discorrono: A e B. Il punto di partenza del circuito è nel cervello di uno dei due individui, per esempio A, in cui i fatti di coscienza, che noi chiamiamo concetti, si trovano associati alle rappresentazioni dei segni linguistici o immagini acustiche che servono alla loro espressione. Supponiamo che un dato concetto faccia scattare nel cervello una corrispondente immagine acustica: è un fenomeno interamente psichico, seguito a sua volta da un processo fisiologico: il cervello trasmette agli organi della fonazione un impulso correlativo all’immagine; poi le onde sonore si propagano dalla bocca di A all’orecchio di B: processo puramente fisico. Successivamente, il circuito si prolunga in B in un ordine inverso: dall’orecchio al cervello, trasmissione fisiologica dell’immagine acustica; nel cervello, associazione psichica di questa immagine con il concetto corrispondente. Se B parla a sua volta, questo nuovo atto seguirà - dal suo cervello a quello di A - esattamente lo stesso cammino del primo e passerà attraverso le stesse fasi successive...”(p. 21).
Partire da questo punto socio-linguistico semplice non è casuale. Esso è il punto determinato in cui un movimento di indagine (l’analisi di un fatto sociale complesso, il linguaggio) di cui esso è il risultato (l’elemento più semplice, il minimo esigibile) e un movimento di esposizione di cui esso è il cominciamento si saldano organicamente. Questo punto, a sua volta sottoposto ad analisi, ci conduce dinanzi al nostro oggetto di studio, la lingua. Infatti cos’è che rende possibile la parlata tra A e B? Evidentemente l’uso da parte dei due parlanti della stessa lingua. I quali possono comunicare, perché si muovono all’interno di uno stesso universo di segni, usano «gli stessi segni uniti agli stessi concetti» (p. 23). Segni (poi, significanti) e concetti (poi, significati) naturalmente non infusi in loro da qualche Spirito, ma appresi (e prodotti) all’interno della comunità in cui vivono. E apprendimento possibile grazie a una componente specifica della loro facoltà di linguaggio: «la facoltà di associazione e coordinazione». Questa facoltà svolge «il ruolo più grande» (ruolo che per ben comprenderlo, rileva Saussure, «occorre uscire dall’atto individuale, che è solo l’embrione del linguaggio, e abbordare il fatto sociale», p. 23) nel lavoro di organizzazione della lingua in sistema. Infatti «è attraverso il funzionamento della facoltà ricettiva e coordinativa che si formano nei soggetti parlanti alcune impronte che finiscono con l’essere sensibilmente le stesse in tutti». E continuando: «Come bisogna rappresentarsi questo prodotto sociale perché la lingua appaia perfettamente depurata dal resto? Se potessimo abbracciare la somma delle immagini verbali immagazzinate in tutti gli individui, toccheremmo il legame sociale che costituisce la lingua. Questa è un tesoro depositato dalla pratica della parole nei soggetti appartenenti a una stessa comunità, un sistema grammaticale esistente virtualmente in ciascun cervello o, più esattamente, nel cervello d’un insieme di individui, dato che la lingua non è completa in nessun singolo individuo, ma esiste perfettamente soltanto nella massa. Separando la lingua dalla parole, si separa a un sol tempo: 1, ciò che è sociale da ciò che è individuale; 2; ciò che è essenziale da ciò che è accessorio e più o meno essenziale» (p. 23).
Citando ancora dal,testo, ricapitoliamo i caratteri della lingua:
«1. È un oggetto ben definito nell’insieme eteroclito dei fatti di linguaggio. La si può localizzare nella parte determinata del circuito in cui un’immagine uditiva si .associa a un concetto. È la parte socia1e del linguaggio, esterna all’individuo, che da solo non può né crearla né modificarla; essa esiste solo in virtù d’una sorta di contratto stretto tra i membri della comunità. D’altra parte, l’individuo ha bisogno d’addestramento per conoscerne il gioco;. il bambino l’assimila solo a poco a poco. Essa è a tal punto una cosa distinta che un uomo, privato dell’uso della parole, conserva la lingua,purché comprenda i segni vocali che ascolta.
2. La lingua, distinta dalla parole, è un oggetto che si può studiare separatamente... La scienza della lingua può non solo disinteressarsi degli altri elementi del linguaggio, anzi è possibile soltanto se tali altri elementi non sono mescolati ad essa.
3. Mentre il linguaggio è eterogeneo, la lingua cosi delimitata è di natura omogenea: è un sistema di segni in cui essenziale è soltanto l’unione del senso e dell’immagine acustica ed in cui le due parti del segno sono egualmente psichiche.
4. La lingua, non meno della parole, è un oggetto di natura concreta, il che è un grande vantaggio per lo studio. I segni linguistici, pur essendo sostanzialmente psichici, non sono astrazioni; le associazioni ratificate dal consenso collettivo, che nel loro insieme costituiscono la lingua, sono realtà che hanno la loro sede nel cervello. Inoltre i segni della lingua sono, per dir cosi, tangibili; la scrittura può fissarli in immagini convenzionali, mentre sarebbe impossibile fotografare in tutti i loro dettagli gli atti della parole; la produzione fonica di una parola, per quanto piccola, comporta una infinità di movimenti muscolari estremamente difficili da conoscere e da raffigurare. Nella lingua, al contrario, non v’è altro che l’immagine acustica, e questa può tradursi in una immagine visiva costante...» (pp. 24-5).
Il discorso è chiaro e non ha bisogno di molti commenti. Per Sassure la lingua non è un’entità metafisica o altro, essa «non esiste che nei soggetti parlanti» (p. 14). In quanto tale, essa è «allo stesso tempo un prodotto sociale della facoltà di linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentir:e l’esercizio di questa facoltà negli individui» (p. 19). La lingua è cioè un prodotto e uno strumento sociale entro e grazie al quale agli individui è possibile realizzarsi come soggetti parlanti, esseri sociali. Non esiste una lingua senza una comunità di individui. È la comunità, la socialità a fondare e ad attuare «la facoltà di costituire una lingua, vale a dire un sistema di segni distinti corrispondenti a delle idee distinte» (p. 20), non viceversa. «La facoltà - naturale o no - di articolare paroles non si esercita se non mercé lo strumento creato e fornito dalla collettività» (p. 20).
Come non esiste prima l’individuo isolato e poi la società (come somma di più individui che fanno un contratto e si mettono insieme), così non esiste prima la parole e poi la langue (come somma di paroles). Per il rapporto parole-langue vale per Saussure (nonostante alcune ambiguità, non di fondo e tutto sommato solo iniziali) quanto scrive Marx sui rapporto individuo-società: «È da evitare innanzitutto di fissare ancora la società come una astrazione di fronte all’individuo. L’individuo è ente sociale. La sua manifestazione di vita - anche se non appare nella forma diretta di una manifestazione di vita comune, compiuta a un tempo con altri - è quindi una manifestazione e una affermazione di vita sociale. La vita individuale e la vita generica dell’uomo non sono distinte, per quanto - e necessariamente - il modo di esistenza della vita individuale sia un modo più particolare o più generale di vita generica, e la vita generica una più particolare o più generale vita individuale»(4).
La parole è - pur nella sua specificità di fatto individuale - già parole sociale, fatto di langue. Entrambe, pur nella loro distinzione, non sono separabili dualisticamente. In Saussure, pur se talvolta si trovano luoghi che possano generare equivoci, è ben presente la consapevolezza della connessione ‘dialettica’(o, meglio, chiasmatica) tra langue e parole. E fondamentalmente non incorre in errori d’ipostatizzazione, né della langue, né della parole, né della facoltà di linguaggio.
Su questo rapporto tra langue e parole ecco una pagina molto chiara del C. L. G.: «Lo studio del linguaggio comporta, dunque, due parti: l’una, essenziale, ha per oggetto la lingua, che nella sua essenza è sociale e indipendente dall’individuo; questo studio è unicamente psichico; l’altra, secondaria, ha per oggetto la parte individuale del linguaggio, vale a dire la parole, ivi compresa la fonazione; essa è psicofisica. Senza dubbio, i due oggetti sono strettamente legati e si presuppongono a vicenda: la lingua è necessaria perché la parole sia intelligibile e produca tutti i suoi effetti; ma la parole è indispensabile perché la lingua si stabilisca; storicamente, il fatto di parole precede sempre. Come verrebbe in mente di associare un’idea a un’immagine verbale se non si cogliesse tale associazione anzitutto in un atto di parole? D’altra parte, solo ascoltando gli altri apprendiamo la nostra lingua materna; essa giunge a depositarsi nel nostro cervello solo in seguito a innumerevoli esperienze. Infine, è la parole che fa evolvere la lingua: sono le impressioni ricavate ascoltando gli altri che modificano le nostre abitudini linguistiche. V’è dunque interdipendenza tra la lingua e la parole; la prima è nello stesso tempo lo strumento e il prodotto della seconda. Ma tutto ciò non impedisce che esse siano due cose assolutamente distinte» (p. 29).
Se si tiene ferma questa chiara presa di posizione tanti luoghi del discorso saussuriano finiscono di apparire contraddittori (o di dare il via a ipotesi-tesi fantastiche). Che la lingua venga per cosi dire isolata è solo una necessità metodologica, per studiarla. E’ un’operazione propria del lavoro scientifico: astrarre dai fatti che sono esterni all’oggetto in esame.
Ecco al riguardo un altro e chiaro luogo del C.L.G.: «La lingua è un sistema che conosce soltanto l’ordine che gli è proprio». E Saussure, per essere ancora più chiaro, fa ricorso agli scacchi: «Un confronto col gioco degli scacchi farà capire meglio tutto ciò, poiché in tal caso è relativamente facile. distinguere ciò che è esterno da ciò che è interno: il fatto che il gioco sia passato dalla Persia in Europa è d’ordine esterno; ed è interno al contrario, tutto ciò che concerne il sistema e le regole. Se si sostituiscono dei pezzi di legno con dei pezzi di avorio il cambiamento è indifferente per il sistema: ma se aumenta o diminuisce il numero dei pezzi, questo cambiamento investe profondamente la ‘grammatica’ del gioco. Nondimeno è vero che occorre una certa attenzione per fare distinzioni del genere. Quindi dinanzi a ogni singolo caso ci si porrà la questione della natura del fenomeno, e per risolverlo si osserverà questa regola: è interno tutto ciò che intacca il sistema a qualsiasi livello» (pp. 33-34).
In questo come in ogni altro lavoro scientifico (compresa la lettura di un testo), se non si stabilisce e non si coglie il preciso livello d’astrazione in cui operare e ci si trova, si corre il rischio (o piuttosto la certezza) di non poter comprendere nulla e di mettere insieme cose che assolutamente insieme non stanno. Saussure molto correttamente inquadra la sua area di indagine e la sottopone ad analisi. Il suo oggetto di studio è un segmento determinato del circuito della parole, la langue. La lingua è il sociale della parole. In quanto tale, la lingua, per Saussure, non è assolutamente né qualcosa che stia .lassù tra le nuvole né una realtà autofondantesi e simili, ma una realtà che, pur nella sua specificità (l’arbitrarietà), è fondamentalmente costituita di altro (la socialità). Il polo sociale dell’oggetto lingua è interno
all’oggetto stesso (“La sua - della lingua, fls - natura sociale è uno dei suoi caratteri interni», p. 96) e non esterno. Questo è un nodo essenziale della ricerca saussuriana (e da cui crediamo non si siano ancora tratte tutte le conseguenze). Anzi riteniamo che nell’essersi Saussure mosso in questo difficile equilibrio dinamico tra l’arbitrio e la socialità, poli entrambi costitutivi dell’oggetto-lingua, nell’aver quindi evitato una teoria ipostatizzante, cosa che avrebbe comportato e comporta l’esclusione nello stesso tempo del piano di fondazione e di una parte determinante dello stesso oggetto in esame (il sociale), il tutto riducendo ovviamente. a una proposta non scientifica e piattamente ideologica, sta gran parte del merito suo e del suo lavoro.
Il punto di partenza di Saussure è, dunque, un fatto socio-linguistico determinato: due persone che discorrono. Analizzando questo fatto, egli individua il suo oggetto di studio, la lingua. Che egli parta dal presente è un fatto di straordinaria rilevanza. Infatti proprio il partire da questo punto porta Sausure a rovesciare totalmente (G. Mounin parla di rivoluzione copernicana) l’ipostazione dello studio della linguistica. Vediamo in che cosa consista questo capovolgimento. Riprendiamo il C.L.G. “La prima cosa che colpisce - rileva l’Autore - quando si studiano i fatti di lingua è che per il soggetto parlante la loro successione nel tempo è inesistente: il parlante si trova dinanzi a uno stato. E cosi il linguista che vuol comprendere tale stato deve fare tabula rasa di tutto ciò che l’ha prodotto e ignorare la diacronia. Egli può entrare nella coscienza dei soggetti parlanti solo sopprimendo il passato. L’intervento della storia non può che falsare il suo giudizio» (p. 100):
A e B possono comunicare perché usano la stessa lingua, non una lingua in generale, ma uno stato determinato di essa. Non esiste cioè la lingua, ma soggetti che parlano, qui ed ora, in una lingua determinata: «la massa parlante è l’unica realtà» (p. 109).
Questo preciso e concreto punto di partenza per lo studio dell’oggetto integrale della linguistica da una parte sbarra la strada a fantastiche disquisizioni sulla Lingua e sulle sue origini, e dall’altra impone un punto di vista contemporaneo al qui ed ora dei parlanti. Solo astraendo (“sopprimendo il passato”) dal movimento complessivo che ha prodotto quel determinato stato di lingua ne è possibile lo studio. Solo collocandosi nel determinato stato di lingua dei parlanti è possibile coglierne la lingua. La lingua «non è possibile né descriverla né fissarne le norme d’uso se non collocandosi in un certo stato» (p. 101), quello stesso dei parlanti. A e B per parlare, e il linguista per descriverne la lingua, non hanno alcun bisogno della conoscenza del curriculum di quella lingua stessa. Anzi è da dire che, se vogliamo comprendere in modo veramente storico gli stati precedenti a quello in cui A e B parlano, occorre comprendere questo stato presente. Con questo, dunque, Saussure da una parte stabilisce la fondamentale distinzione (metodologica non sostanziale) tra due punti di vista nello studio dei fatti dell’oggetto-lingua, il sincronico e il diacronico (secondo se si voglia studiare uno stato di una lingua o «i fenomeni che fanno passare la lingua da uno stato all’altro», p. 100), dall’altra dà la precedenza al punto di vista sincronico. E ciò, come si comprende, è di eccezionale e fondamentale importanza. Infatti se il linguista, rileva Saussure, «si colloca nella prospettiva diacronica», come si è fatto finora, non potrà percepire che «una serie di avvenimenti che modificano» la lingua (avvenimenti, è da dire, che, non conoscendosi lo status della lingua, non possono essere distinti e valutati adeguatamente per l’evoluzione della lingua stessa).
Pertanto, proprio l’esser partito in modo scientificamente corretto alla ricerca dell’oggetto integrale della linguistica e l’aver stabilito il giusto rapporto tra massa parlante e lingua, tra parole e langue, porta Saussure a rovesciare l’impostazione della linguistica precedente; anzi, cosa determinante per lo studio scientifico, lo conduce a stabilire il «primato teorico e metodologico della linguistica sincronica sulla linguistica diacronica»(5). Ed è proprio a partire da questo fondamentale rovesciamento (in primo piano lo studio dei rapporti nel sistema e in secondo quello dei rapporti nel tempo dell’oggetto-langue) che alla linguistica è data la possibilità di costituirsi criticamente come scienza rigorosa e nuova.
NOTE:
* A celebrare (il ritrovamento e) la traduzione in italiano degli Scritti inediti di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (con introduzione, traduzione e commento di Tullio De Mauro, Editori Laterza, Bari 2005), riprendo qui un mio breve testo del 1975, come pubblicato dalla rivista “Euresis” (VIII, 1992, pp. 111-117) del Liceo Classico “M. Tullio Cicerone” di Sala Consilina, Salerno]. Si presentano qui alcune note di lettura, e per la lettura, dell’opera di Ferdinand de Saussure, Corso di Linguistica generale, introduzione, traduzione e çommento di Tullio De Mauro, Bari, Laterza, 1970 (prima edizione riveduta. La prima. edizione è del 1967, e l’ultima ristampa è del 1991).
1. R. Simone, Introduzione, p. 8, in Ferdinand De Saussure, Introduzione al 2° corso di Linguistica Generale, Roma, Astrolabio, 1970.
2. R. Simone, op. cit., pp. 8-9.
3. G. Mounin, Saussure, Firenze, Sansoni, 1971, p. 80.
4. K. Marx, Opere Filosofiche Giovanili, Roma, Ediiori Riuniti, 1969, p. 228.
5. G. Mounin, op. cit., p. 60.
* Il Dialogo, Martedì, 05 luglio 2005 - (cliccare sul rosso, per una diversa e più curata versione grafica).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
AMARE NEL MARE DELLA VITA. Riprendere la navigazione ...
Una nota *
SE è VERO CHE “La ricerca del grande amore si fa ormai soltanto on line” (Laura Vasselli, "InLibertà", 29 giugno 2020), e, al contempo, che “La truffa esiste anche in danno della vita sentimentale” (L. V., "InLibertà", 10 giugno 2020), in una società “liquida” - dove non c’è più né un Giardino per Adamo ed Eva né una Itaca per Ulisse e Penelope - il problema su cui fare chiarezza e “chiudere l’argomento” è : “se è vero che nella vita è necessario amare innanzitutto sé stessi, come si fa a lasciare posto all’amore per qualcun altro ?”.
CONOSCER-SI : IN PRINCIPIO ERA LA “PAROLA” (IL “LOGOS”). RICORDATO CHE “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima : così profondo è il suo lògos" (Eraclito, fr. 45), E, insieme, RIGUARDATA LA FOTO (vedi sopra: accanto al titolo, sul dito “indice” di “due persone” l’immagine di “due ancore”), RIPARTIRE PROPRIO DA QUI : DAll’ancoraggio di “due navi”, di “DUE PERSONE CHE DISCORRONO” (Ferdinand De Saussure). Mi sembra proprio una (bella riflessione e una) buona indicazione!
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan -
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
FLS
ISLANDA
La lingua fossile
L’islandese moderno è quasi identico a quello parlato dai vichinghi mille anni fa. È il risultato dell’isolamento, ma anche di un continuo sforzo collettivo di conservazione e adattamento
The Economist *
Non sorprende certo che gli islandesi abbiano un nome diverso per ciascuno dei molti tipi di pesce che pescano da secoli nelle acque che lambiscono l’isola. Sorprende di più che abbiano non un solo termine ma tre per indicare il celacanto: dopotutto, questo fossile vivente degli abissi dell’oceano Indiano non c’entra proprio niente con il loro ambiente atlantico. E poi, se un islandese avesse proprio bisogno di parlare del celacanto, perché non usare il termine greco come fanno altri popoli? Il fatto è che gli islandesi adorano coniare nomi e mai si sognerebbero di adottare semplicemente la traslitterazione di un termine straniero. Perciò il celacanto lo chiamano skúfur, che significa “nappa”, oppure skú-fuggi, “pinna-nappa”, o a volte anche forniskúfur, “antica nappa”.
Gli islandesi sono estremamente fieri della loro lingua e partecipano attivamente alla sua manutenzione. In occasione della giornata della lingua islandese celebrano, tra i loro 340mila connazionali, quelli che si sono impegnati di più per difenderla. La amano perché li lega al loro passato. L’islandese medio si diverte a usare nella vita quotidiana frasi tratte dalle saghe, scritte circa otto secoli fa. Quando un commentatore sportivo, riferendosi a una squadra di calcio che si batte strenuamente in barba a tutti i pronostici, dice che bítur skjaldarrendur (addenta i bordi dello scudo), fa un’operazione del tutto normale: prende in prestito un’immagine tratta dai racconti delle antiche gesta dei vichinghi. Quella stessa metafora si trova scolpita nell’avorio di tricheco di cui è fatta la torre degli scacchi di Lewis, conservati al British Museum, che risalgono al dodicesimo secolo.
Il risultato è davvero unico: una lingua allo stesso tempo moderna (perfettamente in grado di esprimere concetti come “podcast”), pura (prende in prestito pochissime parole da altre lingue) e antica (è molto più vicina al suo antenato norreno rispetto alle cugine danese e norvegese, che invece se ne allontanano sempre di più). La sua complessa grammatica non è praticamente cambiata in quasi mille anni e mantiene un carattere prettamente antico. Insomma, se l’islandese è un fossile vivente, come il forniskúfur, di sicuro è un fossile in piena salute.
Fu Ingólfur Arnarson a condurre i primi coloni dalla Norvegia in Islanda nell’874 dopo Cristo. Parlavano la lingua usata in tutta la Scandinavia, spesso chiamata donsk tunga (lingua danese) ma talvolta indicata anche con una qualche variante di “nordico” (da cui originano i termini norreno, norvegese e normanno). Ben presto cominciarono a usarla anche in forma scritta, tanto che molto di ciò che conosciamo della cultura vichinga deriva proprio da testi islandesi.
Nel tredicesimo secolo Snorri Sturluson pubblicò l’Edda in prosa, una delle prime e più importanti narrazioni delle imprese di Thor, Frigg, Loki e compagni. Inoltre gli islandesi ricostruirono attentamente la loro storia creando le saghe: racconti a metà tra storia e mito che si estendono per diverse generazioni e trattano di questioni familiari, fuorilegge, onore e vendetta. Secondo lo scrittore ceco Milan Kundera le saghe potrebbero essere considerate a buon diritto “un’anticipazione, se non la fondazione, del romanzo europeo”, se solo non fossero state scritte in una lingua che nessun altro parlava. Anche opere di carattere religioso furono messe per iscritto su cartapecora. Nell’undicesimo secolo, in seguito a una travagliata decisione dell’Alþingi (assemblea), gli islandesi rimpiazzarono Odino con la Trinità.
Ben presto i testi ecclesiastici furono tradotti in islandese. Secondo il linguista Kristján Árnason, la lingua parlata diventò una “rispettabile alternativa al latino” già secoli prima che la riforma protestante introducesse un cambiamento simile nel resto d’Europa. Prima di Dante
L’idea che studiosi ed ecclesiastici dovessero prendere sul serio la lingua parlata nella vita di tutti i giorni non fu unicamente islandese: Dante Alighieri propose la stessa tesi nel De vulgari eloquentia, ma lo fece in latino, e all’inizio del trecento. Il Primo trattato grammaticale islandese, uno studio pionieristico sulla possibilità di scrivere l’antico nordico con l’alfabeto latino, fu realizzato 150 anni prima da un autore sconosciuto. La ricchezza di quella precoce letteratura ed erudizione in volgare è una delle ragioni per cui l’islandese conserva ancora oggi la sua forma antica, con una grammatica complessa che altre lingue scandinave hanno ormai perduto. Possiede tre generi e quattro casi, che determinano le desinenze di sostantivi e aggettivi a seconda della loro funzione nella frase. Invece le lingue scandinave continentali generalmente hanno perso uno dei tre generi e quasi tutto il sistema delle declinazioni. In islandese i verbi hanno sei forme diverse per le sei persone grammaticali, mentre le altre lingue scandinave hanno ridotto la coniugazione a un’unica forma.
Un altro fattore di preservazione fu semplicemente l’isolamento. L’Islanda è separata da 700 chilometri di acque tumultuose dalla più vicina terra abitata, le piccole isole Fær Øer, dove si parla un’altra lingua scandinava dalla grammatica antica. Uno studio condotto su più di duemila lingue ha stabilito che quelle caratterizzate da pochi parlanti, diffuse in aree piccole e con pochi vicini tendono ad avere precisamente il tipo di complessità che l’islandese e il faroese hanno mantenuto, e che il danese ha perso. Anche lingue più “grandi”, come il russo, possono conservare la stessa complessità dell’islandese, ma sono un’eccezione.
Un altro motivo è che al momento della colonizzazione l’Islanda era disabitata. Di solito le conquiste lasciano influssi di “sostrato” nella lingua dei conquistatori. Inoltre le classi sociali erano quasi irrilevanti: la prestigiosa lingua scritta era parlata sia dalle persone istruite sia dagli analfabeti. Il risultato, a quanto dicono molti islandesi, è che oggi tutti riescono a leggere le saghe del tredicesimo secolo “con la stessa facilità di un quotidiano”. Simili affermazioni vanno prese con le molle: la grammatica sarà anche cambiata poco, ma per comprendere le saghe bisogna conoscere i legami di parentela e i miti che oggi gli islandesi imparano a scuola. Secondo alcuni per un islandese leggere le saghe è come per un anglofono leggere Shakespeare. Ma è comunque una cosa straordinaria, dato che le saghe non sono state scritte al tempo di Shakespeare, ma un secolo prima di Chaucer, nel duecento.
Se la stabilità dell’islandese è oggetto di dibattiti e congetture, la sua purezza lessicale è più facile da spiegare. Nel corso della storia ha mutuato molti vocaboli da altre lingue, ma nel seicento gli intellettuali islandesi cominciarono a eliminarli. Basta aprire un dizionario danese-islandese per capire quanto queste due lingue cugine si siano differenziate. Il danese ha accolto una serie di termini paneuropei come passiv, patent e pedicure; gli equivalenti islandesi sono hlutlaus, einkaleyi e fótsnyrting.
Quasi tutte le lingue d’Europa condividono un enorme numero di vocaboli dalle radici latine e greche, da “telefono” a “indirizzo”. In islandese invece “telefono” si dice sími, dal termine norreno per “ilo”, mentre “indirizzo” è heimilisfang, che letteralmente significa “il luogo dove si può essere trovati in casa”. Di solito davanti alla segnaletica islandese monolingue uno straniero non riesce a decifrare neanche una parola.
Lunghissime parole composte come hjúkrunarfræðingur (infermiere) non hanno elementi familiari: hjúkrun deriva dalle radici “servire” e “accudire”, mentre fræðingur indica un professionista. Aggiungono un tocco di esotismo le due lettere ð e þ, che rappresentano due suoni tra loro simili: il primo è l’equivalente del “th” sonoro dell’inglese, come in this; il secondo è il corrispettivo sordo, come nell’inglese three . Alcuni vocaboli islandesi sono simili ai loro corrispondenti inglesi: bók, epli e brauð significano rispettivamente “libro”, “mela” e “pane” (book, apple, bread). Questo perché le lingue scandinave e le lingue germaniche occidentali (inglese, neerlandese, tedesco) discendono tutte da un unico progenitore, detto protogermanico. Altre sovrapposizioni lessicali derivano dal fatto che gli invasori vichinghi lasciarono in Inghilterra alcune parole: knife, leg, husband, window e perino il pronome they (che corrisponde al þeir sia norreno sia islandese moderno). Ciò significa che a un orecchio inglese molte parole non suonano né straniere come hjúkrun, né semplici come bók, ma familiari ed estranee al tempo stesso.
La tata di Tolkien
Alcune di queste somiglianze possono trarre in inganno. una persona che parla inglese e sa che dóm è imparentato con il termine doom (destino terribile) l’edificio di Reykjavík su cui si legge Dómsmálaráðuneytið può apparire sinistro. In realtà si tratta del ministero della giustizia. Anche in inglese un tempo doom significava semplicemente “giudizio, sentenza”, e solo in seguito assunse il significato attuale. Non è chiaro in che senso J.r.r. Tolkien intendesse questa parola quando chiamò Mount Doom (monte Fato) il luogo cruciale del Signore degli anelli. Di certo, essendo un filologo esperto di norreno e di altre lingue antiche, nonché amante degli arcaismi, l’islandese lo conosceva di sicuro. Per dirne una, il nome del mago Gandalf è tratto dall’Edda. La bambinaia islandese dei Tolkien, Adda, non si occupava solo dei figli: aiutava lo scrittore anche a esercitarsi con l’islandese. La signora Tolkien non ne era affatto contenta.
Anche il poeta W.h. Auden, appassionato del Signore degli anellI, era incantato dalle storie e dalla lingua dell’Islanda; lo incantavano molto meno l’agnello affumicato e il pesce secco, a cui preferì, durante il suo soggiorno islandese negli anni trenta, innumerevoli caffè e sigarette. Inoltre era decisamente disgustato da altri ammiratori dell’isola: in una lettera a un amico raccontava di aver preso un autobus “pieno di nazisti che parlavano incessantemente della Schönheit des Islands (la bellezza dell’Islanda) e dei tratti ariani di quel popolo”.
Ecco il rovescio della medaglia della purezza isolata e incontaminata: il paese continua a essere oggetto delle attenzioni indesiderate dei fascisti. Come ha detto David Duke, ex leader del Ku klux klan, “ormai resta solo un paese completamente bianco, l’Islanda. E l’Islanda non basta”. Paul Fontaine, giornalista del reykjavík Grapevine, racconta che sulla pagina Facebook del giornale i suprematisti bianchi ammoniscono l’Islanda a non “commettere gli stessi errori” di altri paesi: fare entrare i richiedenti asilo e i musulmani. È uno dei motivi per cui Ari Páll Kristinsson, direttore del Consiglio per la pianificazione linguistica dell’isola, rabbrividisce all’idea di “purezza” linguistica e preferisce parlare di “tradizione lessicale islandese”. Ma Ari Páll si adopera per mantenere la lingua il più vicino possibile a un antico nordico incontaminato. In confronto ad altri paesi che hanno lo stesso obiettivo, lui e i suoi collaboratori se la cavano molto meglio.
In Francia, i quaranta dotti dell’Académie si pronunciano su ciò che è o non è francese corretto, e i comitati ministeriali per la terminologia sono occupatissimi a coniare parole nuove. Ma i francesi li ignorano e continuano imperterriti a liker (mettere like) i post su Face book e a bruncher (fare un brunch) con i loro amici. Ari Páll e i suoi collaboratori invece ascoltano le richieste della gente e la gente li ascolta. Il consiglio ha una cinquantina di gruppi informali di appassionati dell’islandese e di argomenti come i motori, l’ingegneria elettrica, i computer o il lavoro a maglia, che suggeriscono nuovi vocaboli con solide radici norrene, seguendo le indicazioni del consiglio su come renderli compatibili con la fonetica e la grammatica della lingua nazionale.
L’esempio forse più famoso di questa creatività purista risale agli anni sessanta, quando serviva un vocabolo per “computer” e gli esperti coniarono tölva, combinando tala (numero) e völva, un antico termine per “profeta”. Quando i medici cominciarono a parlare di aids usando la sigla inglese al posto della sua lunga traduzione letterale islandese (heilkenni áunnins ónæmisbrests), il comitato coniò due alternative più brevi: alnæ-mi, all’incirca “pan-suscettibilità”, e eyðni, che suona simile al termine inglese, ma deriva dall’islandese eyða, “distruggere”. Quando gli islandesi cominciarono a dire pod cast, il consiglio rispose con hlaðvarp, dalle radici che significano “caricare” e “lanciare”.
L’Islanda rifiuta i vocaboli provenienti dall’estero, ma non gli stranieri. I nati all’estero sono ormai più del 10 per cento dell’intera popolazione. Molti vengono dall’Europa dell’est (e non hanno bisogno di visti, benché l’Islanda non faccia parte dell’unione europea), ma ci sono anche tailandesi e filippini. Nel 2004 un gruppo di razzisti statunitensi insorse contro il Reykjavík Grapevine, che aveva messo in copertina la foto di una keniana con indosso il costume nazionale islandese. Secondo il presidente dell’Islanda, Guðni Jóhannesson, l’industria nazionale della pesca crollerebbe senza manodopera straniera. L’Islanda sarà anche l’unico paese al mondo con un Museo storico dell’aringa (Síldarminjasafn), ma la lavorazione del pesce sopravvive principalmente grazie ai polacchi, disposti a sopportare le dure condizioni delle fabbriche.
Gli immigrati sono una minaccia per la lingua islandese? Non ancora, ma i timori aumentano. I corsi di lingua sovvenzionati dallo stato esistono, ma sono insufficienti, dichiara Nichole Mosty, una statunitense naturalizzata islandese che fino a poco tempo fa sedeva nell’Alþingi. Il suo accento è stato criticato da alcuni islandesi. Ci vuole grinta per superare le difficoltà iniziali di apprendimento. Quando l’attuale first lady Eliza Reid si trasferì in Islanda dal Canada con il marito, nel 2003, si mise subito a studiare l’islandese sul serio. Ma gli islandesi, non abituati a sentire la propria lingua parlata da stranieri, passavano all’inglese appena apriva bocca. Per evitarlo imparò a dire subito “sto studiando la lingua nazionale”.
Minaccia tecnologica
Non tutti i nuovi arrivati si trattengono così a lungo. Al pari dei due milioni di turisti che visitano l’Islanda ogni anno, anche i lavoratori temporanei provenienti da paesi dell’unione europea scoprono che non occorre imparare la lingua. La legge impone che i cartelli riservati principalmente agli islandesi siano scritti in islandese. Ma gran parte di Reykjavík non sembra più “riservata principalmente agli islandesi”.
È possibile che una minaccia ancor più grande degli stranieri sia la tecnologia. Per esempio, gli islandesi non possono usare Siri sui loro farsímar, né Alexa a casa, perché l’islandese non è tra le lingue supportate da Apple e Amazon. Un ingegnere islandese di Google è riuscito a convincere l’azienda ad aggiungere negli smartphone Android il riconoscimento vocale della sua lingua, operazione che ha richiesto la registrazione e la trascrizione di migliaia di ore di parlato islandese. Google ha reso poi questi dati disponibili gratuitamente anche ad altre aziende, ma non si sa in che misura saranno usati. Eiríkur Rögnvaldsson, dell’università d’Islanda, racconta che Windows ha aggiunto abbastanza presto l’islandese, ma la traduzione era così scadente che molti utenti hanno preferito continuare a usarlo in inglese. In seguito è stato migliorato, ma recentemente, quando Rögnvaldsson ha chiesto agli studenti islandesi del suo corso quanti di loro usassero Windows in islandese, la risposta è stata nessuno.
Il fatto che l’inglese sia la lingua della tecnologia rafforza tra i giovani l’idea che sia alla moda, pratica e internazionale, mentre l’islandese sarebbe pesante, difficile e locale. I ragazzi ripetono le affermazioni dei genitori sulla necessità di mantenere la lingua pura, ma in realtà adorano l’inglese. Nel 2017 Stefanie Bade, dottoranda tedesca presso l’università d’Islanda, ha scoperto che gli islandesi, ascoltando registrazioni della loro lingua parlata con accenti diversi, giudicavano la pronuncia locale la più “attraente” e “rilassata” ma l’accento americano più “intelligente”, “affidabile” e “intrigante”, assegnandogli la valutazione più positiva.
Gli islandesi sono sopravvissuti all’isolamento, al ghiaccio e ai vulcani per più di un millennio, e non saranno certo i turisti, i lavoratori stranieri o Siri a costringerli ad abbandonare il loro retaggio culturale più caro. In quale altro paese al mondo, per indicare un inatteso colpo di fortuna, si usa un termine più curioso dell’islandese hvalreki, una “balena spiaggiata” che offre da mangiare per mesi?
Gli islandesi non commetteranno l’errore di trattare la loro bella lingua come un dono del destino: è una conquista che va custodita gelosamente. Sarà anche un fossile vivente, ma per loro tenerlo in vita è insieme un dovere e un piacere.
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The Economist, Regno Unito
internazionale, 03.02.2018
Ferdinand de Saussure (1857-1913)
«Langue» e «parole» di nuovo in dialogo
A cent’anni dal «Cours de linguistique générale», l’approccio storico torna ad essere ricompreso nella scienza linguistica
di Lorenzo Tomasin (Il Sole-24 Ore, Domenica, 02.10.2016)
I capolavori della scienza, come quelli letterari, si prestano spesso a interpretazioni così divaricate da muovere in direzioni impreviste le idee dei loro autori. Se ciò è vero in genere, è tanto più vero per la pietra angolare della linguistica moderna, quel Cours de linguistique générale che a partire dagli appunti delle lezioni ginevrine di Ferdinand de Saussure, nel 1916 fu pubblicato postumo dai suoi allievi Bally e Sechehaye.
È ben noto che dal Cours saussuriano si suole far partire lo strutturalismo, e che lo strutturalismo si suole contrapporre al cosiddetto paradigma storico della linguistica ottocentesca. Quello della glottologia, per intendersi, e della storia comparata delle lingue genealogicamente raggruppate (indoeuropee, romanze...).
Dalla risoluta distinzione saussuriana fra studio diacronico e studio sincronico della lingua vista come sistema statico nella comunità di parlanti ancorati al loro presente discende l’affrancamento novecentesco dall’ipoteca o dal primato della linguistica storica. Quest’ultima sarebbe stata per l’addietro incapace di distinguere lo studio del divenire linguistico da quello, per Saussure prioritario, della lingua come sistema sincronico, che va letto prescindendo dai suoi stati anteriori, perduti e assenti alla coscienza del parlante. Portando alla estreme conseguenze questo aspetto della riflessione di Saussure, si è arrivati a discorrere addirittura di una detronizzazione della storia nella scienza linguistica.
I limiti della contrapposizione netta tra sincronia e diacronia sono stati tra i primi e più facili bersagli della riflessione sul Cours, fino a quando - negli anni ’50 - Eugenio Coseriu ha mostrato come la lingua sia da intendere essa stessa come cambiamento continuo, dimodoché il concetto di stato di lingua come entità isolabile dal moto incessante del cambio si rivela un’astrazione chimerica. La lingua è nella storia, e la storia è attiva nei parlanti non meno della grammatica, cioè dei rapporti che reggono il sistema.
Ancora, il profondo storicismo dell’impianto del Cours è stato reclamato con intelligenza da Tullio De Mauro (responsabile della sua non facile edizione critica): il carattere radicalmente arbitrario e insieme sociale di tutte le lingue fa tutt’uno con il loro carattere radicalmente storico.
Inoltre, la frattura che separerebbe Saussure dai glottologi ottocenteschi si è attenuata riconducendo l’uno e gli altri alla filiera che Michele Loporcaro ha chiamato dell’immanentismo linguistico. In questione è la fiducia, comune a positivisti e strutturalisti tramite Saussure, giù giù fino alla linguistica generativa, nella possibilità d’individuare meccanismi di razionalità immanenti alla lingua - anzi della langue, in termini appunto saussuriani - e perciò separati, o almeno autonomi, dalla società e dalla cultura dei parlanti. «La linguistica ha come unico e vero oggetto la lingua considerata in sé stessa e per sé stessa», è la frase con cui gli allievi fecero terminare il Cours.
Col che Saussure, in compagnia con lo strutturalismo, ma anche con la linguistica storico-comparativa da cui egli peraltro proveniva per curriculum di studi, si contrapporrebbe piuttosto a una visione della lingua espressa nel Novecento dalla sociolinguistica. Questa lettura, affascinante e persuasiva, mette in evidenza la matrice idealistica (anzi proprio platonica) della visione saussuriana (langue/parole) non meno che dell’innatismo dei generativisti.
Ma ancora una volta è forse una lettura parziale. La natura sociale e perciò storica della lingua è esplicitamente richiamata da Saussure stesso come necessario bilanciamento alla nozione di arbitrarietà che regge i rapporti tra significante e significato, cioè del segno linguistico. Nel famoso esempio saussuriano, il concetto di «albero» e l’immagine acustica (cioè la sequenza di suoni) del termine albero si legano in modo del tutto arbitrario, assolvendo alla funzione che in altre lingue svolgono i significanti Baum o tree. E ciò avviene solo per il consenso sociale dei parlanti.
Ma il tacito consenso sociale altro non è in effetti se non quella storia che il Cours avrebbe detronizzato, dichiarando che la sincronia è per il parlante l’unica vera realtà. L’altro famoso esempio saussuriano della parola sœur, che per nessuna ragione logica o naturale è collegabile al concetto di ’sorella’ più di quanto lo sia Schwester, è riformulabile in questi termini: la sola ragione per cui sœur significa ’sorella’ è in effetti che in latino soror (da cui sœur deriva direttamente, cioè per tradizione ininterrotta da parlante a parlante) significava appunto ’sorella’. Il che tra l’altro sottrae all’arbitrarietà la somiglianza non fortuita, tra sœur e sorella, o tra Schwester e sister, che anche il parlante più ingenuo ha ben chiara.
Il problema non è semplicemente spostato più a monte, ma ricondotto a quella inscindibilità tra verità sincronica e verità diacronica - come le chiamava Saussure, sforzandosi di tenerle separate - che rende la sua distinzione tanto fragile quanto, per paradosso, ancora stimolante. Uno dei fronti su cui, cento anni dopo, si ripropone l’attualità del Cours è forse oggi quello tra le ragioni ineliminabili della storia e la tipica tentazione novecentesca di spiegare il presente col presente, facendo a meno della storia.
Neuroni mirror e facoltà di negare
Il potere tellurico del linguaggio non smette di interrogare l’intersoggettività
di Paolo Virno (il manifesto, 17.09.2016)
L’indagine sulla negazione linguistica è, sempre, una indagine antropologica. Spiegare le prerogative e gli usi del segno «non» significa spiegare alcuni tratti distintivi della nostra specie: la capacità di distaccarsi dagli avvenimenti circostanti e dalle pulsioni psichiche, l’ambivalenza degli affetti, l’attitudine a trasformare repentinamente le condotte più abituali.
In una gocciolina di grammatica, diceva Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia. Ciò vale in primo luogo per quella nuvola cumuliforme che è la grammatica del «non»: da essa è possibile ricavare qualche notizia sul modo di stare al mondo del primate Homo sapiens, nonché una chiave per decifrare l’insieme di sentimenti e comportamenti che ci fanno parlare, a seconda delle inclinazioni, di disagio della civiltà o di attualità della rivoluzione.
Per dare il giusto risalto al ruolo che svolge il connettivo logico «non» nella forma di vita umana, propongo tre ipotesi concatenate sull’indole sociale, anzi pubblica, della nostra mente. A essere più precisi: tre ipotesi il cui tema è la singolare discontinuità tra il fondamento biologico di questa socialità e i suoi tortuosi sviluppi linguistici, segnati per l’appunto dal potere tellurico della negazione.
In origine era il «noi»
Prima ipotesi. L’animale umano intuisce i propositi e le emozioni dei suoi simili in virtù di una intersoggettività originaria, che precede la stessa costituzione dei soggetti individuali. Il «noi» si fa valere prima ancora che venga alla ribalta un «io» autocosciente. La relazione tra i membri della stessa specie è, innanzitutto, una relazione impersonale. Sull’esistenza di un ambito di esperienza pre-individuale hanno insistito pensatori come Vygotskij, Winnicott, Simondon.
Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, ha riformulato la questione in modo particolarmente incisivo, incardinando l’anteriorità del «noi» rispetto all’«io» al funzionamento di un’area del cervello. Per sapere che qualcuno soffre o gode, cerca riparo o rogne, sta per aggredirci o baciarci, non abbiamo bisogno di proposizioni, né tanto meno di una barocca attribuzione di intenzioni alla mente altrui. Basta e avanza l’attivazione di un gruppo di neuroni situati nella parte ventrale del lobo frontale inferiore.
Scrive Gallese: «Il nostro gruppo ha scoperto nel cervello di scimmia l’esistenza di una popolazione di neuroni premotori che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (per esempio afferrare un oggetto), ma anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo (uomo o scimmia che fosse). Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni mirror”». Di lì a poco, si è constatata la presenza di neuroni mirror anche nel cervello umano.
Allorché vediamo un manifestante sotto la sede della Goldman Sachs che compie una azione di cui parleranno i giornali, «nel nostro cervello sono reclutati a scaricare i medesimi neuroni che scaricherebbero se fossimo noi stessi, in prima persona, a compiere quell’azione». Comprendo il pianto dell’uomo che mi sta di fronte perché le mie stesse ghiandole lacrimali cominciano a innervarsi. Questo sentire all’unisono, o con-sentire, è chiamato da Gallese «simulazione incarnata».
I neuroni mirror sono il fondamento biologico della socialità della mente. A essi si deve la formazione di uno «spazio noi-centrico». Con una avvertenza: il pronome «noi» non indica, qui, una pluralità di «io» ben definiti, ma designa un insieme di relazioni pre-individuali, ossia «una forma paradossale di intersoggettività priva di soggetto».
Questo «non» è un uomo
Seconda ipotesi. Di questa intersoggettività preliminare, appannaggio di tutte le scimmie antropomorfe, il linguaggio non è affatto una potente cassa di risonanza. Anziché ornarlo di mille raffinatezze, le nostre enunciazioni retroagiscono distruttivamente sullo «spazio noi-centrico» istituito dai neuroni mirror. La padronanza della sintassi intralcia, e talvolta sospende, l’empatia neurofisiologica. La socialità della mente umana è modellata dall’intreccio, certo, ma anche dalla tensione duratura e dalla periodica divaricazione, tra «simulazione incarnata» e pensiero verbale.
Il linguaggio si distingue dai codici comunicativi basati su indizi e segnali, nonché dalle prestazioni cognitive taciturne (sensazioni, immagini psichiche ecc.), perché è in grado di negare qualsivoglia rappresentazione.
Anche l’evidenza percettiva che ci fa dire «questo è un uomo» dinanzi a un immigrato cessa di essere incontrovertibile allorché è soggetta all’opera del «non». Nel linguaggio mette radici il fallimento del reciproco riconoscimento tra conspecifici. Grammaticalmente impeccabile, dotato di senso, a portata di ogni bocca è l’enunciato «questo non è un uomo». Soltanto l’animale che parla ha la capacità di non riconoscere il suo simile.
Il vecchio ebreo è roso dalla fame e piange per l’umiliazione. L’ufficiale nazista sa che cosa prova il vecchio per mezzo della «simulazione incarnata». Ma è in grado di disattivare, almeno parzialmente, l’empatia generata dai neuroni mirror.
Per capire come avviene questa disattivazione, consideriamo un tipico requisito della paroletta «non». Il tratto caratteristico degli enunciati negativi («Ada non mi ama», «Giorgio non è andato a Roma») consiste nel riproporre con segno algebrico rovesciato il medesimo contenuto semantico del corrispondente enunciato affermativo. L’amore di Ada e il viaggio a Roma di Giorgio sono pur sempre nominati, e così conservati come significati, nel momento stesso in cui vengono verbalmente soppressi. Supponiamo che l’ufficiale nazista pensi: «le lacrime di questo vecchio ebreo non sono umane».
La sua proposizione conserva e sopprime a un tempo l’empatia neurofisiologica: la conserva, giacché si parla comunque delle lacrime di un Homo sapiens, non di un umidore qualsiasi; la sopprime, togliendo alle lacrime dell’ebreo quel carattere umano che, pure, era implicito nella loro designazione.
Soltanto grazie a questa attitudine ad abrogare ciò che nondimeno si ammette, il segno «non» può ledere un dispositivo biologico «sub-personale» qual è il con-sentire. La negazione non impedisce certo l’attivazione dei neuroni mirror, ma ne rende ambiguo il senso e reversibili gli effetti. Il pensiero verbale, dimostrando una notevole perizia nel mandare in rovina l’empatia neurale, costituisce la condizione di possibilità di ciò che Kant ha chiamato il «male radicale».
La sfera pubblica? Una cicatrice
Terza ipotesi. Il linguaggio non manca di procurare un antidoto al veleno che ha inoculato nell’innata socialità della mente. Oltre a sabotare in tutto o in parte l’empatia prodotta dai neuroni specchio, esso offre anche un rimedio (anzi, l’unico rimedio adeguato) ai danni così arrecati. Il sabotaggio iniziale può essere a sua volta sabotato.
La sfera pubblica, nicchia ecologica delle nostre azioni, è il risultato instabile di una lacerazione e di una sutura, della prima non meno che della seconda. Somiglia dunque a una cicatrice. Detto altrimenti: la sfera pubblica trae origine dalla negazione di una negazione. Se a qualche lettore ripugna il sapore dialettico di questa espressione, ne sono desolato, ma non so che farci. A scanso di equivoci, conviene aggiungere che la negazione della negazione non ripristina la primitiva sintonia pre-linguistica. Sempre di nuovo eluso o neutralizzato, il rischio del non-riconoscimento è però iscritto irreversibilmente nell’interazione sociale.
Lo «spazio noi-centrico» e la sfera pubblica sono i due modi, affini e però incommensurabili, in cui si manifesta la socialità della mente prima e dopo l’esperienza della negazione linguistica. Prima di questa esperienza, l’infallibile e impersonale con-sentire neurale; dopo, conflitti senza quartiere, patti, promesse, norme, istituzioni mai stabili, progetti collettivi dagli esiti imponderabili.
Neuroni mirror, negazione linguistica, intermittenza del reciproco riconoscimento: sono questi i fattori, coesistenti e però anche dissonanti, che definiscono la mente sociale della nostra specie. La loro dialettica destituisce di fondamento ogni teoria politica (per esempio, quella di Noam Chomsky) che opponga la naturale «creatività del linguaggio» all’iniquità e alla brama di sopraffazione degli apparati di potere storicamente determinati.
La fragilità dello «spazio noi-centrico», da imputare giustappunto alle perturbazioni che il linguaggio e la sua «creatività» portano con sé, deve costituire lo sfondo realistico di ogni movimento politico che miri a una drastica trasformazione dello stato di cose presente. Un grande e terribile filosofo della politica, Carl Schmitt, ha scritto con evidente sarcasmo: «Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana».
È venuto il tempo di smentire questa equazione maliziosa. Una analisi accurata della mente sociale permette di impiantare «il radicalismo ostile allo Stato» e ai rapporti di produzione capitalistici sulla pericolosità della natura umana (pericolosità alimentata dall’uso polivalente del «non»), anziché sulla sua immaginaria mitezza.
L’azione politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presupposto positivo da rivendicare. Si impegna invece a sperimentare nuovi e più efficaci modi di negare la negazione, di apporre il «non» davanti a «non uomo».
Le parole che abbiamo in testa
Esiste una mappa del linguaggio nascosta nel nostro cervello
Gli scienziati dell’università di Berkeley hanno scoperto che in punti precisi della corteccia cerebrale trovano casa i vocaboli che adoperiamo per comunicare. È il primo passo per costruire un dizionario dei pensieri?
Sette volontari sono stati analizzati con risonanza magnetica mentre ascoltavano la radio Fonetica, sintassi e struttura narrativa saranno oggetto delle prossime ricerche
di Elena Dusi (la Repubblica, 28.04.2016)
Ogni parola ha la sua casa, nel cervello. E da oggi il sistema semantico che usiamo per parlare non è più un “hic sunt leones”. Un atlante del linguaggio è stato disegnato dai neuroscienziati dell’università di Berkeley. Un migliaio di termini hanno trovato la loro casa in un punto preciso (in alcuni casi più di uno) della corteccia cerebrale, la parte più esterna, evoluta del nostro organo del pensiero. La scoperta conferma che tutto il cervello - e non, come voleva il vecchio mito, solo l’emisfero sinistro - è coinvolto nel linguaggio. E dimostra che, sia pur tra le differenze individuali, la “cartina stradale” delle nostre parole resta uguale tra una persona e l’altra.
Gli scienziati di Berkeley che oggi pubblicano il loro studio sulla copertina di Nature sono partiti da una radio accesa. Il “Moth Radio Hour” è un programma di successo americano in cui una persona sta in piedi in una stanza con una luce puntata sul viso e un microfono davanti alla bocca. Attorno ha un gruppo di estranei cui deve raccontare un episodio della propria vita. Trasmessi via radio, i racconti sono stati ascoltati a Berkeley da sette volontari, con gli occhi bendati, chiusi per un paio d’ore in una risonanza magnetica.
Mentre i narratori del “Moth Radio Hour” raccontavano, i volontari ascoltavano e la risonanza magnetica registrava quali gruppi di neuroni della corteccia cerebrale si “accendevano” a ogni parola. Tutta questa mole di dati è finita in una mappa del cervello a tre dimensioni, con i termini dal significato simile raggruppati in genere - ma con diverse eccezioni - in una stessa area. Accanto alla tempia destra, per esempio, racchiusi in uno spazio di pochi millimetri cubici, hanno la loro dimora pa-che role come “moglie”, “madre”, “incinta”, “famiglia”. «A volte - scrivono i ricercatori - questo atlante diventa intricato.
Non sempre a un termine corrisponde una sola localizzazione». La parola “moglie”, infatti, compare anche in un’altra area della corteccia, accanto a “casa” e ad altri vocaboli relativi a luoghi. La voce inglese “top” si ritrova in ben tre punti: fra “vestiti” e altri lemmi relativi all’aspetto fisico, in un gruppo di parole che descrivono lo spazio e gli edifici e infine tra i numeri e le unità di misura. Altri esempi sono raccontati in un video disponibile su www. nature. com. L’atlante semantico del cervello, in tutti i suoi dettagli e i suoi colori sgargianti può anche essere percorso online sul sito http:// gallantlab. org/ huth2016.
Come atlante sembrerebbe piuttosto caotico, ma il fatto che appaia molto simile fra tutti i volontari studiati suggerisce che una logica debba pur esserci. «Abbiamo trovato per esempio - spiega il coordinatore della ricerca, il neuroscienziato di Berkeley Alexander Huth - che i termini relativi ai numeri sono collocati vicino alla corteccia visiva, in un’area deputata anche al ragionamento spaziale. E questo ha molto senso».
Sarà forse prematuro oggi pensare a un dizionario in grado di decodificare i pensieri. «Ma nel momento in cui abbiamo una carta geografica delle nostre parole - spiega Stefano Cappa, professore di neurologia all’Istituto universitario di studi superiori (Iuss) di Pavia - possiamo ipotizzare di usarla per decodificare ciò che una persona sta pensando». Leggendo quali punti del cervello si illuminano in un determinato istante, un apparecchio simile alla risonanza magnetica potrebbe associarlo al termine relativo, permettendoci di leggere nel pensiero - come suggeriscono anche i ricercatori di Berkeley nel loro studio - di quelle persone cui una malattia impedisce di parlare.
Non è un caso che alla mappatura del cervello e delle connessioni fra i suoi 100 miliardi di neuroni - qualcuno li paragona al numero di stelle - siano dedicati due fra i più grandi programmi scientifici del momento: lo Human Brain Project, avviato nel 2013 e finanziato dall’Unione Europea con un miliardo di euro, e la Brain Initiative, annunciata sempre nel 2013 dal presidente americano Barack Obama e finanziata finora con svariate centinaia di milioni di dollari.
L’idea che una facoltà così complessa e per molti versi indecifrabile come il linguaggio possa essere racchiusa in una “cartina stradale” incontra ovviamente anche molte perplessità. «Mappare il nostro dizionario è un sogno che coltiviamo da tempo » spiega Andrea Moro, che allo Iuss insegna linguistica generale. «Ma prima di cercare come è organizzato il linguaggio nel cervello, bisogna capire come lo è nella mente». Se lo studio di Berkeley ha mappato un migliaio di termini, perlopiù concreti, «dove collocheremmo il verbo essere o una particella così complessa come “se”?» si chiede Moro. «Prima dei neuroscienziati, devono essere i linguisti a stilare una sorta di tavola periodica della facoltà del parlare, che descriva quali sono gli elementi primitivi del linguaggio».
Paolo Leonardi, che insegna filosofia del linguaggio all’università di Bologna, trova molte domande rimaste senza risposta nello studio americano: «Non si spiega ad esempio come le aree associate alle varie parole siano coinvolte nella produzione linguistica. O come siano collegate alle aree dove registriamo la percezione degli oggetti che queste parole nominano».
Per Alessandro Treves, fisico di formazione e docente di “Basi neurali della conoscenza” alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste, «l’informatica e l’uso di algoritmi sempre più avanzati ci permettono di ottenere risultati così raffinati. Ma dobbiamo pensare al linguaggio come a un concerto che coinvolge varie aree del cervello. La corteccia va considerata come un tutt’uno. Associare una parola a un punto isolato rischia di portarci fuori strada».
Il fatto che tutti i volontari dello studio (fra cui lo stesso Huth) abbiano mostrato di avere lo stesso “atlante del linguaggio” sembrerebbe suggerire che nel nostro cervello esistono basi innate per la parola. Ma per dimostrarlo bisognerebbe estendere l’esperimento a persone di lingue o culture diverse, e soprattutto alla sintassi.
«La partita fra chi appoggia la teoria della grammatica universale di Noam Chomsky e chi propende per la tesi del linguaggio come frutto di apprendimento si gioca infatti sulla sintassi, non sulla semantica» spiega Treves.
Fonetica, sintassi e struttura narrativa saranno i prossimi tasselli da studiare, annunciano oggi i ricercatori di Berkeley. Il loro atlante è una prima rappresentazione di come il cervello organizza il suo linguaggio. Altri esploratori adesso dovranno occuparsi di tracciarne i dettagli.
Ma le emozioni che ci fanno unici resteranno un mistero
di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 28.04.2016)
Come studiare il cervello, e il modo in cui comprende le parole e le storie? Non è affatto detto che la domanda sia ben posta: ma certo è necessario porsela almeno qualora si voglia trovare una possibile scorciatoia che colleghi ciò che fisicamente accade nel nostro corpo agli stimoli linguistici che riceve. La si può chiamare “scorciatoia”, perché in effetti taglia fuori tutto il regime del simbolico (per dirla con Jacques Lacan). Il presupposto è che quelli linguistici siano appunto stimoli, recepiti dal corpo (sia pure nella sua parte ritenuta più nobile): basterebbe trovare il punto di passaggio fra l’uno e gli altri per risolvere ogni questione. La psiche non è rilevata dagli strumenti diagnostici a disposizione e quindi viene espulsa dalla considerazione scientifica.
Ma sarà proprio così? Ed è davvero il “cervello”, inteso come organo anatomico, a comprendere il linguaggio? Le componenti chimiche emanate da un fiore raggiungono i recettori del nostro olfatto e vengono poi categorizzate dalla nostra mente: con le macchine giuste si può capire quali zone del cervello reagiscano agli stimoli olfattivi. Cosa succeda poi quando uno ascolta la canzone che fa «Fiori rosa, fiori di pesco», o quando assaggia una «petite madeleine » con Proust o ancora, con Mallarmé, sente levarsi «l’absente de tout bouquets» proprio non si sa, o almeno non se ne trova segno univoco nei tracciati della risonanza magnetica.
Il punto di partenza della ricerca pubblicata da Nature è che il «sistema semantico» sia «collettivamente riconosciuto» come corrispondente a certe «regioni della corteccia cerebrale», che occorre determinare. Punto di partenza: dunque presupposto, se non pregiudizio. È questa un’idea come un’altra, che però pone nel nulla almeno un secolo di riflessioni e analisi sul linguaggio come associazione psichica di significanti e significati (Ferdinand de Saussure, primo Novecento), e interrelazione di potenzialità associative e capacità combinatorie: una facoltà appresa socialmente, mobile, flessibile. Anche tipicamente umana, perché l’uomo è una creatura che viene al mondo precocemente e prolunga la duttile fase del proprio apprendimento sino a farne della capacità di variare il proprio comportamento il suo migliore atout.
La evoluzione dell’uomo (come specie e individuo) è appunto consegnata a questa strenua capacità di adattamento. L’ipotesi che si può fare, a partire dalle tesi linguistiche e semiotiche di Saussure, Hjelmslev, Jakobson, Eco e da quelle evoluzionistiche di uno Stephen Jay Gould, è che quanto la specie umana ha di formidabile è la capacità eclettica dei suoi apparati.
Se uno dei maggiori misteri dell’antropologia è il linguaggio è proprio perché esso risiede in una sorta di “cloud”, raggiungibile da ogni organismo umano, appartenente a nessuno. Roger Caillois pensava che la differenza fra gli uomini e gli altri animali è che fra l’uomo e l’impulso che lo raggiunge esiste sempre “un’immagine interposta”. Il linguaggio sta lì, in quella zona intermedia. Difficile trovare scorciatoie. Detto questo, in bocca al lupo a chi le cerca.
Italiano addio?
Solo Internet ci può salvare
La lectio del linguista al Festival della Comunicazione
“Nel dopoguerra abbiamo vissuto una rivoluzione”
di Tullio De Mauro (La Stampa, 10.09.2015)
Nei centocinquant’anni di vita dello Stato unitario la realtà linguistica italiana ha conosciuto un rinnovamento profondo, accentuatosi nei settant’anni di vita democratica e repubblicana. È stato un rinnovamento che a buon diritto può chiamarsi una rivoluzione nel confronto con i mutamenti linguistici d’altre parti del mondo. In effetti, in particolare nell’ultimo mezzo secolo, tutti i paesi hanno conosciuto mutamenti intensi della loro situazione linguistica. In parte i mutamenti sono stati conseguenza di grandi fenomeni non linguistici: alcuni di natura politica, come la decolonizzazione o la crisi dello Stato tradizionale e la nascita di organismi «oltre lo Stato»; altri, del resto intrecciati ai precedenti, di natura economica e tecnologica, che hanno accentuato l’interdipendenza finanziaria e produttiva dei diversi paesi; altri di natura ancor più profonda, come la crescente migrazione dalle aree più povere verso le ricche o il risveglio della coscienza delle identità etniche e dei diritti linguistici d’ogni gruppo umano, anche minore.
L’uso dell’inglese
Nella complessiva realtà linguistica mondiale una delle conseguenze dei mutamenti è stata l’espansione dell’uso dell’inglese nei rapporti internazionali e, per una sessantina di paesi, anche nella vita amministrativa e pubblica. È il fenomeno più vistoso per l’osservatore comune. Negli Anni Settanta qualche sociologo si spinse ad affermare che l’anglizzazione di tutto il genere umano era ormai una realtà e che le migliaia di diverse lingue umane si sarebbero dissolte nel nulla. Così non è avvenuto e non sta avvenendo. Certamente sono in pericolo di estinzione (ma non per colpa dell’uso dell’inglese e non da questo sostituite) quelle lingue la cui base demografica, ristretta talora a poche decine di individui, è in via di dispersione o di assorbimento.
Ma, pur meno vistosi e meno seguiti dall’informazione giornalistica, sono avvenuti fenomeni di segno contrario. Negli Anni Settanta le lingue affidate non solo all’oralità, ma alla scrittura erano poco più di settecento, oggi sono oltre duemilacinquecento. L’adozione nella scrittura accompagnata da un’estesa alfabetizzazione conferisce a una lingua una stabilità nel tempo e nello spazio sociale e culturale che lingue di uso solo orale non conoscono.
L’analfabetismo
Restino ancora gravi problemi di analfabetismo nelle aree povere, ma la scolarizzazione ha fatto passi da gigante tra Anni Cinquanta e Duemila: ha cambiato profondamente la faccia culturale e linguistica di molti paesi, dando nuova solidità e stabilità a lingue e tradizioni diverse.
I mutamenti linguistici che l’Italia unita e, poi, repubblicana hanno vissuto possono definirsi una rivoluzione: una rivoluzione epocale, anche se in parte nascosta e incompleta.
Una rivoluzione epocale. La rivendicazione dell’unità politica dell’Italia in nome dell’unità di lingua ebbe natura largamente mitologica, la competenza in lingua italiana essendo restata per secoli limitata alla parte più alfabetizzata della Toscana e della città di Roma e, fuori di queste due aree, a piccoli sottogruppi dell’esilissimo strato di persone colte, affiorante dal mare dell’analfabetismo e dei dominanti dialetti. Ma l’unificazione innescò poi processi che diffusero l’italofonia. L’accumulo di competenze restò sotto un terzo di popolazione fino al secondo conflitto mondiale.
Dagli Anni Cinquanta e Sessanta del Novecento il conseguimento diffuso della licenza elementare, l’avvio di una meno inconsistente scolarità media e, dagli Anni Novanta, mediosuperiore, l’inurbamento e spostamento della popolazione dalle regioni agricole e meridionali verso le città e il Centro-Nord e la diffusione dell’ascolto televisivo hanno concorso a un decisivo incremento della convergenza degli usi parlati verso il comune patrimonio linguistico italiano specie nella vita di relazione, dove l’adozione dell’italiano coinvolge ormai più del 90% della popolazione.
I dialetti
Nei tremila anni di storia anteriore documentata mai le popolazioni d’Italia conobbero un simile grado di convergenza verso una stessa lingua anche se ancor oggi per metà della popolazione sopravvive la possibilità di usare, accanto all’italiano, uno dei molti idiomi locali (dialetti affini all’italiano e lingue di minoranza). A questo multilinguismo endogeno si è aggiunto negli ultimi anni un gran numero di lingue, circa duecento, importate dall’immigrazione. Ma gli immigrati quasi tutti si assimilano rapidamente a italiano e parlate locali e per ora non paiono incidere sull’uso dell’italiano.
Una rivoluzione nascosta, non governata, poco compresa. La mitologia patriottica, il bellettrismo dominante della cultura «generale», la modestia della componente antropologica e demografica degli studi storici italiani hanno occultato nella coscienza anche dei ceti colti l’enorme rivolgimento linguistico vissuto dal e nel paese. Pasolini avvertì quel che andava accadendo, ma, mescolando a ciò errori (presunta morte dei dialetti, presunta tecnologicità dello stile ecc.) e urtando contro l’opaca disattenzione dei più, restò un caso isolato.
La vittoria del parlato
Una rivoluzione incompleta. L’adozione dell’italiano come lingua comune di riferimento ha vinto nel parlato, ma non si è accompagnata al possesso della lettoscrittura in italiano: e non perché vi siano state altre lingue di riferimento, ma per la povertà della lettura, per il peso dei residui di analfabetismo primario e per la formazione di imponenti sacche di analfabetismo di ritorno. Gli adulti, in una percentuale stimata tra il settanta e l’ottanta per cento, anche dopo aver raggiunto una buona scolarizzazione, dagli stili di vita sono portati a non praticare più la lettura e quindi hanno difficoltà di comprensione di un testo scritto, con conseguenti difficoltà di adoperare in modo appropriato una lingua di grammatica complicata e vocabolario fondamentale d’antica tradizione, che quasi per otto parole su dieci è fatto delle parole usate da Dante nella Commedia. Alcuni sperano che per le future generazioni questa stato di arretratezza alfabetica possa essere corretto dalla diffusione delle tecnologie informatiche. Come è successo altrove nel mondo, per esempio per gli inuit o per gli eroici curdi, la tradizione e Dante potrebbero trovare un alleato in internet.
Funzioni cerebrali
I neuroni della cultura
Il cervello grazie ai processi evolutivi ha sviluppato la facoltà d’incorporare la storia, ma lo fa senza seguire un disegno intelligente
di Jean-Pierre Changeux (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.05.2015)
Esiste un aspetto fondamentale delle funzioni cerebrali umane: la loro capacità di “incorporare” la storia. Questa attitudine non è molto (o lo è molto poco) condivisa dalle altre specie animali e si trova inscritta nel genoma umano per via della sua storia evolutiva. L’organizzazione del cervello risente dell’ambiente sociale e culturale, del processo storico di socializzazione, del lavoro storico delle generazioni successive. Ma vorrei mettere in rilievo un concetto particolare. Il quadro anatomico e funzionale nel quale tale capacità si sviluppa non è né minimale né razionale e ancor meno ottimale.
Mi spiego. È vero che il cervello si apre all’incorporazione della storia, ma non lo fa né come un pezzo di cera che si modella perfettamente su ciò che avviene, né come una macchina organizzata in modo ideale che cattura il percorso oggettivo della storia. Il cervello conserva, in effetti, nella sua struttura anatomica organizzazioni testimoni di un passato evolutivo irregolare piuttosto che di «una concezione ottimale» sul piano funzionale o di un «disegno intelligente». È così che, sviluppandosi, la corteccia cerebrale ha incorporato e poi spinto verso l’interno architetture limbiche o talamiche che avevano un significato comportamentale maggiore nell’anatomia delle specie che l’hanno preceduta. L’arbitrarietà delle circostanze con le quali l’organismo si è misurato nel corso della sua evoluzione si trova conservata in una sorta di irragionevolezza organizzativa e funzionale della sua architettura cerebrale. L’irragionevolezza è inscritta nei nostri neuroni allo stesso titolo della nostra capacità di ragionare.
Il sovradimensionamento della corteccia cerebrale è stato certamente un modo efficace e rapido di cortocircuitare le antiche strutture e di acquisire nuovi dispositivi senza sconvolgere quelli precedenti, incorporandoli. Ha permesso, per esempio, l’aumento della capacità e delle performance dello spazio cosciente, la capacità di riconoscere i membri di un gruppo sociale, la capacità di imitare e di comprendere le interazioni sociali.
Il territorio cerebrale più direttamente interessato da questa evoluzione è stata la corteccia prefrontale, che il neuropsicologo Luria definiva «l’organo della civilizzazione». Ma, per quanto essa sia efficiente, non può occultare totalmente - anzi avviene spesso il contrario - le funzioni delle strutture soggiacenti, più antiche, a volte antagoniste. Potrà tuttavia inibirle in modo selettivo facendo sì che la ragione vinca sull’irragionevolezza.
La storia non è incorporata nel cervello su un terreno vergine. Come sottolinea il sociologo Pierre Bourdieu, le tracce della sua filogenesi sono presenti quanto quelle che derivano dalla storia epigenetica dell’individuo. Le connessioni sinaptiche fra le cellule nervose non si attivano come i circuiti stampati di un computer, ma con un processo di prove ed errori che attiva una serie di selezioni.
Il modello proposto non presuppone soltanto un processo di selezione in un’unica tappa, ma un meccanismo locale che si applica ai numerosi circuiti che si interconnettono progressivamente dallo stadio embrionale fino all’adulto, in cui i neuroni e le sinapsi continuano a svilupparsi. Circoscritte dal contenitore genetico della specie, le principale vie nervose si mettono in attività progressivamente nello spazio e nel tempo in modo innato.
Ma i primi contatti non si stabiliscono con l’esatta precisione che caratterizza i contatti definitivi. Si produce un’esuberanza transitoria delle connessioni che crea una tappa di sviluppo in cui la diversità e quindi le possibilità comportamentali sono al massimo. In questo stadio, l’attività della rete, spontanea endogena o evocata dall’interazione col mondo interno, stabilisce in modo selettivo le distribuzioni particolari delle sinapsi e ne elimina altre.
Il cervello dell’individuo acquisisce con l’apprendimento dei tratti propri della storia sociale e culturale del gruppo umano al quale egli appartiene. L’epigenesi delle connessioni assicura la genesi della cultura e la sua trasmissione attraverso le generazioni successive. Una disposizione biologica maggiore, ancora una volta eccezionalmente sviluppata nell’uomo, favorisce questa evoluzione: lo sviluppo post-natale prolungato, in cui la proliferazione e l’eliminazione sinaptica proseguono ben al di là della pubertà.
Bourdieu, con il suo concetto di habitus, non intende però un automa programmato «dal suo essere condizionabile» dal suo ambiente sociale e culturale. L’habitus «restituisce all’agente un potere generatore e unificatore, costruttore e classificatore». Per esempio, l’attivazione di tracce neuronali che determinano l’uso di una particolare lingua, parlata o scritta, non significa che, se il carattere generativo del linguaggio vi si trova iscritto, tutti i prodotti di questa generatività siano stabilite a priori in esse. Del resto, l’attivazione di dispositivi epigenetici, attraverso la selezione, non implica una stabilizzazione “casuale”.
Le popolazioni di neuroni che “rappresentano” gli oggetti del mondo esterno possono essere stabilizzate da processi di apprendimento per ricompensa. La stabilizzazione selettiva delle prime rappresentazioni labili e fugaci conduce alla selezione delle mappe «delle relazioni funzionali comuni» proprie a un oggetto di senso. Così, per prove ed errori, grazie a continui «giochi cognitivi», il bambino prima e poi l’adulto costruiranno progressivamente l’universo semantico che servirà loro per le comunicazioni sociali.
L’«interesse», nel senso utilizzato da Bourdieu, assicurerà pertanto in primo luogo la sopravvivenza dell’individuo messo di fronte al suo ambiente fisico. Quello dell’organismo sottomesso all’imperativo delle sue emozioni primordiali, nel senso impiegato da Denton, che è quello di soddisfare la fame, la sete, la riproduzione sessuale... Poi sarà la sopravvivenza all’interno del gruppo sociale, in cui “il potere simbolico” si sovrappone al precedente senza escluderlo, comunque con interessi differenti. Questi interessi si concentreranno quindi sull’”economia” delle relazioni fra gli individui nel gruppo sociale e in questo modo interesseranno la stabilità e la sopravvivenza del gruppo sociale stesso.
L’interpretazione neurale delle idee di Bourdieu è chiara. Il corpo dipende da processi non coscienti del nostro cervello, presenta alcune disposizioni innate dell’individuo; le aspettative collettive, le rappresentazioni coscienti del nostro spazio di lavoro neuronale, si inscrivono in posizioni. La relazione tra le disposizioni e le posizioni non prende sempre la forma di un aggiustamento miracoloso. Le strutture e i meccanismi dello spazio sociale o dei campi che accedono allo spazio cosciente sono dunque prodotti di una storia che non si ritrova necessariamente nella storia incarnata non cosciente dell’habitus individuale.
Nascosta nel puzzle del Dna c’è l’origine delle lingue
Al via l’ambizioso progetto per studiare un milione di siti del Genoma
di Guido Barbujani (La Stampa TuttoScienze,24.10.2012)
Tanto per cambiare, l’idea l’aveva avuta Charles Darwin. Se riuscissimo a ricostruire, scriveva nel 1871, l’albero genealogico delle lingue parlate sulla Terra, otterremmo al tempo stesso l’albero genealogico dell’umanità. Secondo Darwin, le differenze linguistiche e biologiche si sono accumulate in parallelo nel corso del tempo. Perciò popolazioni che parlano lingue simili discendono da antenati comuni vissuti pochi secoli fa, popolazioni che parlano lingue meno simili hanno avuto antenati in comune più indietro nel tempo, e gli antenati di tutti (ma questo Darwin non lo sapeva) stavano in Africa intorno a 100 mila anni fa.
Un’idea brillante, che potrebbe aiutarci a capire perché siamo come siamo e parliamo la lingua che parliamo. Ma quell’albero genealogico Darwin non poteva ricostruirlo: molte lingue non le aveva ancora studiate nessuno, e il Dna, fondamentale per capire i rapporti biologici fra le popolazioni, non si sapeva neanche cosa fosse. E poi le cose erano e sono più complicate, se non altro perché la lingua cambia in fretta e i geni meno.
L’italiano di oggi non è più quello di 30 anni fa, mentre il Dna che riceviamo dai genitori è sostanzialmente lo stesso che trasmettiamo ai figli. Insomma, quella di Darwin era una previsione azzardata. Ma quando, negli Anni 80, nei laboratori americani di Robert Sokal e di Luca Cavalli-Sforza, si sono accumulati i dati necessari, si è visto che ci aveva preso. Ci sono eccezioni, ma di regola, più le lingue si assomigliano, più simili sono i Dna delle persone che le parlano.
Non tutti sono d’accordo, però. Per orientarsi, meglio ricordare che il Dna è identico in ogni cellula della stessa persona, mentre, prendendo due persone a caso sulla Terra (gemelli a parte), in media i loro Dna sono identici al 999 per mille.
Quel piccolo uno per mille che rimane è però importante, perché è lì che sono scritte le nostre differenze ereditarie nell’aspetto fisico, nel gruppo sanguigno e in altre cose, come la capacità di digerire il latte o il rischio di sviluppare molte malattie. Piccole differenze, quindi: ma il Dna è grande, ne contiene milioni, e da lì possiamo misurare quanto diversi siamo a livello biologico.
Con le lingue, in linea di principio, si può fare lo stesso. Si contano in due vocabolari quante parole si assomigliano (come naso e nose in inglese) e quante no (come bocca e mouth). Ma è facile sbagliarsi.
Per esempio, mucho in spagnolo e much in inglese sono quasi identiche e vogliono dire la stessa cosa molto ma hanno etimologie diverse. Queste false somiglianze confondono le acque, e poi le parole cambiano nel tempo; dopo un po’ di millenni le loro relazioni diventano ambigue. Perciò ha senso confrontare i vocabolari di lingue vicine, per esempio italiano e russo (entrambe lingue indoeuropee), ma non lontane come italiano e turco o ebraico (queste ultime, rispettivamente, altaica e afro-asiatica).
Confrontare lingue vicine, e cioè popolazioni che hanno in comune antenati recenti, è importante, ma sugli ultimi millenni abbiamo informazioni storiche precise e dati archeologici abbondanti. Il confronto fra lingue e geni servirebbe soprattutto a raccontarci un passato più lontano, su cui disponiamo di poche altre informazioni.
Ma come si fa? La soluzione l’hanno trovata due linguisti italiani, Giuseppe Longobardi dell’Università di Trieste (oggi a York) e Cristina Guardiano dell’Università di Modena, con un’idea semplice, ma tutt’altro che banale. Ci vuol poco perché entrino nel linguaggio termini come shopping, spread, e magari, all’estero, soprano e pizza. Non è però altrettanto facile che cambi la struttura della lingua: il posto del verbo nella frase o la presenza di un genere neutro. Forse, concentrandosi sulla grammatica e sulla sintassi, si può risalire più indietro nel tempo.
È nato così un progetto, finanziato per cinque anni dallo European Research Council, nel quale biologi (gli antropologi bolognesi diretti da Davide Pettener e Gianni Romeo) e linguisti (diretti da Longobardi e Guardiano) viaggeranno insieme per mezzo mondo: i primi a raccogliere campioni il cui Dna verrà studiato in dettaglio, i secondi per ricostruire nelle stesse popolazioni la struttura della lingua. Così, poco alla volta, si costruirà un archivio di dati, su cui lavoreranno i genetisti dell’Università di Ferrara.
Non sarà uno scherzo: si punta a studiare un milione di siti variabili del Dna. Moltiplicando questo milione di caratteristiche individuali per 40 popolazioni, per una ventina di persone ciascuna, viene fuori una quantità di dati enorme.
Ci aspettiamo spiegherò al Festival di Genova che si confermi che a grandi linee Darwin aveva ragione. Ma le eccezioni saranno importanti quanto la regola, perché da lì capiremo in che aree del mondo, e in che periodi, si è alterata la relazione fra cambiamenti della lingua e del Dna. Vorrà dire che certe popolazioni si sono mescolate fra loro o, al contrario, che certe barriere (geografiche, ma anche culturali, religiose o politiche) hanno impedito la migrazione. Vorrà dire che certe lingue sono rimaste impermeabili alle novità e altre sono cambiate più in fretta. Alla fine speriamo che capire meglio come sono si sono evolute, nei millenni, la nostra biologia e la nostra cultura, aiuti un po’ tutti a trovarsi a loro agio col patrimonio di differenze che rendono l’umanità così interessante.
Senza le parole l’uomo avrebbe colonizzato il Pianeta?
In Africa la culla delle lingue
Lo studio su “Science”: dai fonemi gli indizi di un’origine comune, tra 50 e 100 mila anni fa
“I modelli matematici hanno svelato come i suoni obbediscano alla stessa logica dei geni”
Le origini C’è una radice comune alla Babele delle parole di oggi?
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 11.05.2011)
Sono voci speciali quelle che risuonano nel Kalahari, tra i boscimani sempre più rari. Racchiudono come preziosi fossili i suoni arcaici della lingua primigenia, prima che l’umanità si condannasse alla deflagrazione babelica delle parole.
Sembra troppo bello per essere vero, eppure Quentin Atkinson, antropologo della University of Auckland, in Nuova Zelanda, sta mettendo sottosopra il micromondo dei linguisti con la sua teoria appena pubblicata sulla rivista «Science». Squarciando il velo su uno dei maggiori interrogativi di sempre, sostiene che è possibile andare indietro nel tempo e recuperare le tracce di ciò che si pensava irrimediabilmente perduto. Abbiamo inventato un idioma comune una sola volta - sostiene - e da quello, a cascata, sono sbocciati tutti gli altri, figli dei millenni e delle migrazioni.
Sapevamo di essere figli dell’Africa, dopo le prove multiple raccolte con le ossa e con il Dna, ma adesso appare non meno clamorosa la nuova ipotesi: la mitica «lingua dell’Eden» è esistita davvero e ha inventato il proprio vocabolario nell’area sudoccidentale del continente, tra 100 mila e 50 mila anni fa, poco prima dell’«uscita» dei sapiens e dei loro avventurosi spostamenti nell’attuale Medio Oriente.
L’arma segreta
La colonizzazione del resto del Pianeta - ragiona Atkinson - non avrebbe potuto essere tanto veloce ed efficace senza la nuova arma segreta, appena messa a punto nelle pianure e sugli altopiani africani: è il linguaggio ad averci trascinato verso l’ignoto, trasformandoci nella specie più invasiva e anche pericolosa, capace di moltiplicare quasi all’infinito abilità e risorse, nonostante le deficienze dell’organismo. Applicando le logiche matematiche e statistiche (non particolarmente gradite dai colleghi), il professore neozelandese ha dedotto un modello da 504 lingue parlate oggi nel mondo. Al centro ci sono i fonemi - i suoni-base che costituiscono le unità specifiche di ogni parlata e che permettono di costruire parole distinte - e le loro fluttuazioni: obbediscono tutti a una stessa legge e si riducono progressivamente tanto più ci si allontana dalla culla della nostra specie. Se la grande famiglia antica del khoisan (a cui appartengono anche i dialetti dei boscimani) si articola su un centinaio di «mattoncini» sonori - i fonemi, appunto - l’inglese e il tedesco ne hanno soltanto la metà, mentre il mandarino si ferma a 32, il filippino scende a 23, il giapponese cala a 20 e l’hawaiano si deve accontentare di appena 13.
La «diversità decrescente legata alla distanza» (è questa la formula gergale) sembra sovrapporsi alla perfezione a un altro criterio, riconosciuto dai biologi e dai genetisti: è quello della diminuzione della variabilità del Dna rispetto alla distanza dall’Africa. Il processo è noto tra gli specialisti come «effetto del fondatore». Una popolazione che si origina da un piccolo gruppo di individui, fuoriuscito da uno più grande, paga lo scotto della separazione con un evidente assottigliamento della complessità genetica. E, di conseguenza, anche della ricchezza evolutiva. Geni e fonemi - nell’interpretazione di Atkinson - conducono così un balletto in parallelo, soggetto a rigide regole di arricchimento e di impoverimento.
«Una delle questioni più controverse è se ci sia stata una singola origine del linguaggio oppure se questo sia emerso in parallelo in aree differenti - osserva Atkinson -. Adesso abbiamo raccolto una serie di evidenze che sia esistita un’unica fonte». Mentre gli altri studiosi del settore si arrovellano sull’idea (che - com’è evidente - è parecchio provocatoria) e in molti l’hanno già contestata (c’è chi ritiene irrealistico che un’archeologia delle parole possa indagare un’era più antica di 10 mila anni fa), lo studioso neozelandese insiste e suggerisce che dai mucchi di parole delle 6 mila lingue attuali sarà possibile ricostruire anche i percorsi della colonizzazione dei continenti: una provvisoria conclusione è che l’Asia sia stata visitata molto prima dell’Europa, mentre nelle Americhe le tribù dei progenitori sarebbero approdate in tempi decisamente recenti.
L’organo virtuale
La capacità di esprimerci è rapidamente diventata il nostro «organo virtuale», quello che ha scatenato, tra le altre, le rivoluzioni dell’arte rupestre e di sofisticate tecniche di caccia, e - spiega con enfasi Atkinson - è l’unica e autentica innovazione culturale che ci contraddistingue. «Gli umani moderni sono un’unica e vasta famiglia genetica con un singolo antenato comune - scrive -. Uno degli aspetti che più mi piace delle mie ricerche è che, se il linguaggio rappresenta una peculiare forma di identità, allora tutti apparteniamo anche a un’unica e vasta famiglia culturale».
“È con l’immaginazione che siamo diventati invincibili”
La storia non scritta dei Sapiens, quando il mondo era popolato da molti “parenti”
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 21.11.2012)
Ian Tattersall è uno dei maggiori antropologi e il suo ultimo libro - «Masters of the Planet» - prova a spiegare il nostro trionfo di Homo Sapiens che equivale anche alla nostra solitudine. Abbiamo convissuto con altre quattro specie di ominidi, ma un po’ alla volta sono sparite. Gli ultimi sono stati i Neanderthal, spazzati via all’incirca 25 mila anni fa. Da allora la Terra è soltanto per noi e ne abbiamo approfittato anche troppo.
Chiacchieroni e soprattutto fantasiosi, dotati di un’immaginazione contagiosa, nel bene e nel male. Alla chiusura del Festival della Scienza di Genova, lo scorso 4 novembre, Tattersall ha raccontato le luci e le ombre di un patchwork di attitudini che hanno permesso la vittoria totale.
Professore, siamo stati più intelligenti o anche più cattivi? La violenza della nostra specie, in fondo, ci caratte rizza almeno quanto le no stre capacità intellettuali.
«E’ una domanda che sorge naturale. Sappiamo che agli albori della nostra storia di Sapiens c’erano ominidi diversi da noi in giro per il mondo. Poi, d’improvviso, quando acquisiamo le capacità simboliche moderne, le altre specie scompaiono. Credo che sia dovuto al fatto che possedere la capacità di costruire nella propria testa nozioni alternative del mondo, invece di limitarsi alla reazione alle situazioni, e immaginando così realtà differenti, permetta di pianificare molti tipi di comportamenti. Nessun altro ominide era stato capace di fare una cosa simile prima di noi. E’ questa abilità - tanto che si sia espressa con conflitti aperti quanto con forme di competizione economica - che ci ha permesso di conquistare rapidamente il mondo. Se poi si osserva il modo in cui ci comportiamo oggi, è molto improbabile che la conquista non abbia richiesto anche una certa dose di violenza, ma prove evidenti non ne abbiamo».
La nostra specie è vecchia di «sappena» 200 mila anni e tuttavia questa metamorfosi intellettuale si è verificata molto più tardi: perché?
«E’ successo in un periodo tra 100 e 60 mila anni fa. E’ significativo che la struttura fisica e la capacità della mente di manipolare l’informazione così come la conosciamo oggi sono apparse in coincidenza con la riorganizzazione dell’intero organismo che si verificò all’origine della nostra specie di Sapiens. Ma questo vasto potenziale era tutto da scoprire prima della sua effettiva utilizzazione. È un processo per alcuni aspetti analogo a quello degli antenati degli uccelli, che svilupparono le piume milioni di anni prima che si manifestasse l’attitudine al volo».
Che rapporto c’è tra questo impressionante salto evoluti vo e le migrazioni dei Sapiens fuori dall’Africa verso il Me dio Oriente e l’Europa?
«Devono aver lasciato l’Africa piuttosto presto, intorno a 100 mila anni fa. E le testimonianze archeologiche nel Levante dimostrano che erano ancora “pre-cognitivi”, vale a dire simili ai Neanderthal che vivevano in quell’area. L’esodo vero e proprio, invece, avvenne intorno a 60 mila anni fa, quando ormai erano diventati esseri “cognitivamente simbolici”. E fu allora che iniziarono a conquistare il mondo».
Eravamo pronti al viaggio da un continente all’altro perché il cervello era profondamen te cambiato?
«E’ così. Certo, non fu un viaggio intenzionale, semmai un’avventura opportunistica, probabilmente dettata da motivi demografici. Nel corso di questo processo - come dicevo - il pianeta era già popolato da altri tipi umani, altri “parenti”, ed è probabile che siano stati soppiantati in seguito al modo in cui i Sapiens avevano imparato a pensare e immaginare».
Ci si è molto interrogati sulle cause della nostra «rivoluzio ne neuronale»: lei è tra chi pensa che sia stato il linguag gio. Può spiegare?
«Penso che sia stato questo lo stimolo più probabile. Ce ne voleva uno di tipo culturale, capace di far capire ai Sapiens le proprie potenzialità ancora inespresse». Il linguaggio, anche tra i co siddetti «primitivi», è sofisti cato. Come esplose questo «stimolo»?
Si manifestò un pacchetto pronto o fu un’evoluzione sofferta?
«E’ una bella domanda e non ho una risposta certa! Ma sappiamo che il linguaggio può essere spontaneamente inventato: si è visto negli Anni 70 e 80, quando molti bambini sordi nicaraguensi furono riuniti per la prima volta in alcune scuole. Qui svilupparono una lingua dei segni, strutturata in modo simile a quella parlata. Credo, perciò, che il linguaggio sia un prodotto di una proprietà emergente del cervello, disegnato per generarlo: dev’essere rapidamente diventato un oggetto sofisticato e altrettanto velocemente si diversificò».
Ci fu un’unica lingua, frammentata poi in una confusio ne babelica?
«E’ difficile spingersi oltre la barriera di 5 mila anni fa. Ma, studiando i fonemi anziché le parole, si è scoperto che più ci si allontana dall’Africa e minore è il loro numero. È proprio ciò che ci si aspetta, se, com’è probabile, il primo linguaggio è nato là, nel continente delle nostre origini».
"In principio c’era la parola?", un pamphlet di Tullio De Mauro
Quando la lingua ci fa uguali
di Francesco Erbani (la Repubblica, 9.11.2009)
Basterebbero due parole, bu e ba, diceva il padre della linguistica moderna Ferdinand de Saussure, per fare una lingua. Bu e ba, aggiungeva, si dividerebbero tutti i significati possibili di cui avrebbe bisogno la comunità che con quella lingua si esprimesse. Era un paradosso. Ma neanche tanto, scrive Tullio De Mauro in In principio c’era la parola? (Il Mulino, pagg. 77, euro 9). Quell’annotazione fu considerata una bizzarria da chi mise insieme il Corso di linguistica generale, l’opera più importante di Saussure ricostruita sulla base delle sue lezioni a Ginevra. E infatti fu cassata. Per fortuna, grazie allo stesso De Mauro, di quel testo, che è all’origine della filosofia del linguaggio novecentesca, questa e altre parti sono state recuperate.
E questa è una parte molto importante nella natura di una lingua: sta a indicare che una lingua non è un sistema chiuso. Ha le sue regole, ma fra le regole fondamentali c’è che deve funzionare, cioè deve consentire alle persone di capirsi. Ed ecco perché, sottolinea De Mauro, il paradosso del bu e del ba rende evidenti i nessi fra lingua e società e, per altro verso, definisce quanto, attraverso l’elasticità di una lingua, ci si comprenda anche fra diversi. Con buona pace, scrive il linguista, di chi propone classi-ponte o direttamente classi-ghetto «per immigrati o meno dotati: un’idea non condivisibile, per non dire che è un’idea sciagurata».
L’adattabilità di una lingua è dimostrata dalla sua "onnipotenza semiotica" - come diceva un altro grande linguista, Luis Prieto. Una lingua ha una capacità illimitata di designare oggetti e concetti, può estendersi all’infinito esattamente come - riprendendo il paradosso di Saussure - può ridursi al minimo. Qualunque cosa è dicibile in una lingua, non solo grazie alle parole che la compongono, quelle vecchie e quelle che si possono creare (e tante, tantissime se ne creano in questi ultimi tempi), ma anche grazie alle innumerevoli possibilità combinatorie, oppure all’uso delle stesse parole in contesti diversi, che di per sé amplia i confini di una lingua (De Mauro fa l’esempio di parole come aria, forza, valore). O grazie alla grammatica. O, ancora, grazie a quello che si chiama metalinguaggio: la capacità che ognuno di noi ha di parlare della propria lingua, di dare e di condividere definizioni di parole. Come nel caso, suggerito da De Mauro, del romano che in un bar di Milano chiede un cornetto senza sapere che per i milanesi il cornetto è un fagiolino, mentre a Roma è una brioche. Un caso di incomunicabilità? Niente affatto: spiegando che cosa intende per cornetto, il romano riuscirà a farsi capire e il barista milanese sarà in grado di servirlo.
La condivisione di un senso, costruita attraverso la lingua, è indice di un legame all’interno di una comunità, che molto sarebbe piaciuto a don Lorenzo Milani. Ed è una esemplare operazione metalinguistica. Ma è anche il modo per dare attuazione nientemeno che a uno degli articoli fondamentali della Costituzione italiana, il numero 3, il quale stabilisce che tutti i cittadini abbiano pari dignità e siano uguali davanti alla legge senza distinzioni, fra le altre cose, di lingua.
Non esiste un io al di fuori del noi
Natura umana. L’anima del linguaggio sta nel riconoscimento reciproco. E il di più che ci differenzia da una scimma parlante sta nel fatto che il dire porta con sé l’esperienza del significato. Un libro di Daniele Gambarara titolato Bipede implume
di FELICE CIMATTI (il manifesto, 27.03.2005)
Quanto fa uno più uno? In aritmetica è facile, due. Nelle relazioni umane un po’ più di uno ma un po’ meno di due. È questa la tesi paradossale di Daniele Gambarara nel suo Bipede implume, appena pubblicato da Bonanno. Più di uno, perché la mente individuale non è tale nel senso di privata, chiusa e autonoma, e la soggettività umana non si definisce in isolamento dalle altre menti; ma anche meno di due, perché quella stessa mente non è nemmeno doppia, se non si trova racchiusa in qualche inattingibile interiorità non la possiamo ritrovare nemmeno fuori di essa. Lo spazio della mente è peculiare, non è uno spazio fisico, di cui si possano tracciare le coordinate. È uno spazio logico, che vive solo nel mondo della semiosi, ed è da essa inseparabile.
La riflessione di Daniele Gambarara è tutta dentro questo luogo paradossale, perché appunto non è un luogo, sebbene si voglia provare a delinearne i confini. Comprendere la natura di questo spazio significa comprendere la mente umana, impostare una possibile descrizione, contemporaneamente semiotica e biologica (e forse i due aggettivi sono, in realtà, sinonimi), della nostra natura. Perché la domanda che Gambarara insegue in questi testi è una domanda radicale, nel senso di fondamentale ma anche non ulteriormente scomponibile: chi è che parla, quando parla, e a chi ?
«La caratteristica dei sistemi semiologici è precisamente quella di non essere interamente spiegabili né in termini cognitivi individuali né in termini sociali». Più di uno, meno di due, appunto. Il nostro spazio, quello paradossale e non misurabile che si apre fra i nostri corpi e i nostri soggettivi pensieri, è uno spazio che non è già lì, come una qualsiasi entità materiale, bensì sorge, di colpo, senza mediazioni, senza passato evolutivo, quando si istituisce la trama arbitraria dei segni. Si istituisce: l’espressione va presa alla lettera: in realtà lo spazio oggettivo (perché non privato, non soggettivo) e pubblico sorge così come emerge una configurazione innovativa e imprevista dall’interazione di agenti individuali distinti; come si formano, ad esempio, le complesse e bellissime forme dinamiche che assumono, nel cielo, certi stormi di uccelli.
Ogni storno vola per conto suo, e anzi tiene le distanze da chi gli sta vicino, e per farlo deve volare nella sua direzione, proprio per evitare di scontrarsi con gli altri. Bastano queste due semplicissime regole, e noi vediamo quelle bizzarre e punteggiate figure muoversi plasticamente nel cielo: la coordinazione degli storni è impersonale, sorge da sé. Il termine tecnico per indicare questo processo, che sembra magico ed è invece affatto naturale, è proprietà emergente. Lo spazio pubblico del linguaggio, e quindi della società umana, è una proprietà emergente che nasce dall’interazione delle menti individuali e private. Lo spazio pubblico della semiosi ha allora una consistenza peculiare, non è mai, propriamente, dato, assodato. Una volta istituitosi deve ogni volta di nuovo essere re-istituito, proprio perché non ha, di suo, uno scheletro materiale su cui riposare, così come la figura che lo stormo assume nel volo non esiste più quando gli storni tornano sugli alberi.
Più di uno, meno di due. Come si ricrea questo processo, e chi vi partecipa? «Ciò che necessariamente compie il linguaggio verbale, indipendentemente dal contenuto di ogni singolo atto, è dichiarare la presenza di un soggetto umano che si rivolge ad un altro come tale, che a preferenza di mezzi immediatamente efficaci di agire su di lui, lo interpella, e gli chiede accordo e collaborazione nella sfera del simbolico». C’è stato, per ogni sapiens, un tempo in cui questo era l’unico mondo di esperienza. L’atto originario dell’antropogenesi è quello in cui quel piccolo sapiens viene accolto all’interno della comunità (atto che comincia prima ancora della nascita, ché prima ancora che ci sia un corpo può esserci un nome per quel corpo che si spera verrà).
All’inizio c’è allora un noi che tira dentro di sé quel corpo che non è, ancora, un io. Vale lo stesso, ancora una volta, per ognuno dei nostri storni: uno storno isolato, che voli discosto dagli altri, non partecipa in alcun modo alla figura che il resto degli storni sta dinamicamente costruendo. Non è nemmeno una individualità, in senso pieno, perché si può parlare di individualità solo in relazione ad una collettività da cui si distingue. Qui lo storno è solo e soltanto un «passero solitario». Poi entra nello stormo. Solo ora diventa, propriamente, una individualità (un io), e lo diventa proprio perché fa parte di un noi.
Torniamo allo spazio pubblico della semiosi. Il piccolo sapiens viene riconosciuto da chi già si trova al suo interno, da quel noi che a questo punto può cognitivamente individuare, perché gli è possibile confrontarsi-differenziarsi da esso: ora, appunto, è un io, ora nasce un io. Ma l’operazione non è a senso unico, c’è anche il verso contrario, dall’io al noi: «in quanto luogo di riconoscimento reciproco e di autocoscienza, il linguaggio per gli uomini è non soltanto utile, bensì indispensabile. Anzi comprendiamo ora il perché esso non sia, non possa essere immediatamente efficace: per raggiungere questa sua superiore ma mediata efficacia, deve rinunciare a quella prima, e porre in quella dimensione i suoi atti come gratuiti».
Il riconoscimento reciproco è, in senso tecnico (aristotelico), l’anima del linguaggio, che rende possibile il fatto che quella forma acquisti di volta in volta vita, e diventi prassi. O meglio, il corpo del linguaggio consiste nell’«assunzione volontaria da parte dei corpi viventi e agenti di norme che li trascendono, eppure non hanno altra sostanza che quella dei corpi che ne sono i portatori. Gli abiti sono l’anima razionale dei corpi: essi sono gli insiemi di azioni possibili che eccedono le potenzialità del corpo in quanto corpo naturale. Quest’anima razionale non può nascere che dalle passioni.» È un punto molto importante, quest’ultimo, sul quale Gambarara insiste a ragione. Quando il piccolo sapiens diventa un io, all’interno del noi del linguaggio, ossia all’interno dello spazio pubblico che lo precede (cronologicamente ma soprattutto logicamente), in quel momento cambia tutta la sua corporeità. L’animale dotato di linguaggio non è semplicemente una scimmia che parla, perché parlare, cioè vivere l’esperienza del significato - e quindi del possibile, della menzogna, dell’errore - riguarda tutta la sua vita, tutto il suo essere, tutto il suo corpo.
Una passione può venire provata solo da chi vive, nella propria stessa carne (la carne simbolica di cui siamo impastati), la consapevolezza della morte, la coscienza del desiderio che non si può mai esaudire (proprio perché dietro ogni desiderio esaudito c’è sempre il possibile, ossia una diversa e imprevedibile deriva semiosica), la sensazione dolorosa che quella trama di sensi non la si potrà mai, per principio, percorrere tutta: «le passioni» presentano «la strutturazione dialogica fondamentale della comunicazione, anche senza, o prima del linguaggio verbale». Ma «la comunicazione stessa» ha anche «la natura fondamentale di una passione, la passione di essere creduti».
Conosciamo il giuramento come pertinente alla sfera del sacro e in seguito come istituto giuridico per lo studioso si tratta di una storia che in origine riguarda la parola
Le cose sono molto cambiate nel corso dei secoli e oggi si vive senza un patto giurato
In principio l’atto del giurare mette la lingua umana in relazione con quella divina
Quando si dice lo giuro
Un saggio di Giorgio Agamben
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 19.12.2008)
La molla intellettuale comune a molta parte delle ricerche di Giorgio Agamben è l’interesse per l’archeologia dell’essere umano, archeologia non come risalita della corrente del tempo verso le origini, ma come scoperta di principi costitutivi e fondativi: arcani, da arké, per l’appunto. C’è molta differenza tra queste ricerche e, per esempio, quella che si potrebbe dire di antropologia filosofica elementare di un Arnold Gehlen, in Italia noto soprattutto per il suo volume tradotto da Feltrinelli nel 1983, col titolo L’uomo. Qui si sviluppa un nucleo concettuale, l’idea dell’essere umano come eccesso di pulsioni che si "istituzionalizza" per tenerle sotto controllo e, su questa idea, si compone un sistema. Questo accenno serve per differenza. In Agamben, è il contrario. Egli, per così dire, segue segni e tracce, dovunque si trovino: certo nella preistoria o ultra-storia, nella storia e perfino nella "poststoria", ma anche nella filosofia, nella filologia, nella linguistica, nella teologia, nella politica, nella fisiologia, nella psicologia, nell’arte e perfino nel diritto. Insomma, un seguire le piste che conducono dovunque si possa trovare qualcosa di utile. Per muoversi così, occorre illimitata curiosità unita a eccezionale vastità del sapere. In ogni caso, sono travolte le consuete divisioni disciplinari accademiche, onde definire Agamben un "filosofo" è certo riduttivo.
Il risultato, secondo il titolo di un suo volume del 2003, è L’aperto, l’essere umano indefinito che viene definendosi, mai definitivamente, entro campi di tensione che, oggi, a differenza d’un tempo, mettono in questione l’esistenza stessa di una sostanza, un’ontologia minima, comune a tutti gli esseri umani e costante in ogni tempo. Davvero, l’uomo non è più una «natura umana», ma qualcosa da ridefinire continuamente attraverso scomposizioni e composizioni dall’esito sempre variabile. I campi di tensione sono i più diversi, determinati da forze materiali ed elaborati culturalmente: corporeità-spiritualità, macchina-organismo, tenebre-luce, tempo finito-tempo infinito, animalità-umanità, eccetera, fino al dualismo radicale vita-morte, proprio dell’epoca della biopolitica e della «nuda vita».
Nel libro che qui si presenta, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Laterza), l’essere umano è considerato nella tensione tra parola significante e oggetto significato. Nel momento in cui l’essere vivente si percepisce come parlante, percepisce anche una realtà esterna che deve essere in corrispondenza, deve essere "corrisposta" dal discorso. Ma non c’è nessuna garanzia di corrispondenza, c’è invece uno spazio vuoto, una distanza incolmabile che nessuna parola, nessuna moltiplicazione di parole può colmare: anzi, si potrebbe dire che il moltiplicare le parole moltiplica questi spazi. Poiché la parola detta non è detta soltanto per sé dal parlante, ma è detta in funzione della comunicazione con altri, per costoro la parola diventa a sua volta una "cosa", un significato che ha bisogno d’essere afferrato attraverso un significante, cioè un’altra parola. Questa può anche essere la medesima della prima, ma con questa entra in un rapporto di indeterminatezza analogo a quello che legava la prima parola alla cosa significata. In altri termini, il linguaggio umano e i rapporti sociali che esso stabilisce sono una somma di innumerevoli spazi intermedi di comprensioni incerte, di fiducia carente, di equivoci, di menzogne, di inganni possibili, di sospetti inevitabili. L’essere umano sta in questo vasto luogo incerto, che le sue parole delimitano da una parte, e la realtà cui il linguaggio si riferisce delimita dall’altra. Qui, in questo spazio, si collocano l’essere umano, in quanto "parlante", e il suo giuramento.
Il giuramento, così come lo conosciamo, è un istituto della religione e del diritto: un’affermazione (di un fatto o di una promessa), assistita dall’evocazione della divinità, o comunque di qualcosa di sacro, come testimone o garante, e da un’auto-maledizione in caso di spergiuro. L’apparato sanzionatorio è messo in moto da norme e strumenti religiosi o giuridici. Sempre secondo le idee ricevute, in base a un paradigma esplicativo di portata generale, in origine il giuramento sarebbe appartenuto alla sfera del sacro, poi, attraverso processi di differenziazione del diritto dalla religione, sarebbe divenuto un istituto giuridico.
Ma, secondo Agamben, la ricerca dell’arké ci porta altrove, rispetto alla religione e al diritto. Il giuramento, nella sua essenza, sarebbe una vicenda della parola, non dell’autorità. Religione e diritto intervengono semmai in un secondo momento, a supporto di un deficit di linguaggio. Il giuramento è una proposizione di validità della parola, cioè di rispondenza fedele del significante al significato; esso non riguarda, in origine, una promessa (di dire la verità, di adempiere un impegno preso) nei confronti dell’udente, ma riguarda il linguaggio stesso e, come tale, appartiene al suo "statuto" e alla condizione di parlante.
L’archetipo della parola è la parola di Dio, la parola creatrice. «E Dio disse: sia la luce. E la luce fu» (Gen 1, 3). La parola di Dio è vera, è la parola per eccellenza, perché essendo creatrice, non ha di fronte a sé "cose significate" cui deve corrispondenza, anzi non ha nulla «di fronte a sé», che non sia nella parola che realizza se stessa. La parola divina è l’esempio più chiaro di "performativo": l’atto linguistico che non descrive uno stato di cose, ma produce immediatamente un fatto, realizzando il suo significato. Sotto questo aspetto, si comprende che Dio non giuri, perché - si può dire - in verità ogni sua parola è un giuramento. Sotto un altro aspetto, si può aggiungere che ogni parola divina è miracolo. «Talità kum», fanciulla alzati, disse il Cristo alla figlia morta del capo della Sinagoga (Mc 6, 41) e la fanciulla si alzò. Ecco un altro esempio della potenza creatrice della parola divina.
Nel modo che è possibile, il giuramento degli esseri umani è un modo di mettere la loro lingua in comunicazione con quella divina, sotto l’aspetto che più d’ogni altro interessa: la corrispondenza tra significante (la parola) e il significato (la cosa), ciò che è alla base della fiducia, la risorsa essenziale per la costruzione di qualsiasi forma di convivenza tra gli umani. Un esempio di "performativo" nel linguaggio umano è certo linguaggio giuridico. «Uti lingua nuncupassit, ita ius esto», dicevano le XII Tavole (come correttamente sarà detto dalla parola, così sarà per il diritto). Un altro è il "sì" che si pronuncia davanti all’ufficiale dello stato civile che, di per sé, produce lo status coniugale. Un altro ancora è il linguaggio legislativo, quando esso determina situazioni giuridiche: l’extra-comunitario che entra nel nostro Paese, in assenza di determinate condizioni, è "clandestino".
Qui davvero le parole creano le cose, le situazioni. Ma si vede l’irriducibile differenza rispetto alla parola divina: mentre questa deriva da un potere totalmente fondato su se stesso (l’ «io sono colui che sono» del roveto ardente), la parola umana, per produrre i suoi effetti, ha sempre bisogno di fondare la sua validità su qualcosa, una norma (le XII Tavole o il codice civile) o un principio che la precede come un criterio di validità. Anche la legge è sottoposta a un test di validità. In un supremo esercizio di teologia politica, potremmo dire che lo Stato, assunto come assoluto, cioè come colui che ha detronizzato Dio, potrebbe ambire ad auto-assegnarsi la parola creatrice, la parola che non dipende che da se stessa: lo Stato che potesse auto-definirsi, per analogia, «io, lo Stato, sono colui che sono stato». Ma ciò non è nemmeno per le teorie più marcate in senso assolutistico: lo Stato di Thomas Hobbes è pur sempre e solo un Dio "mortale", di cui occorre comunque poter giustificare la sua "vita".
In breve, il giuramento è un performativo: vuole legare fino a far coincidere la parola con la cosa. Ma, per gli umani, occorre che il giuramento stesso risponda a un criterio di validità. Il criterio è: i giuramenti sono vincolanti. Ma il giuramento non esclude lo spergiuro; l’invocazione del nome di Dio non è garanzia ch’essa non sia "invano". Il perché i giuramenti fossero e dovessero essere vincolanti, per molti secoli è dipeso dalla presenza, testimoniale o vendicatrice, di Dio.
Oggi non è, palesemente, più così, in particolare nella sfera pubblica. Il giuramento, che Machiavelli metteva a base della gloria romana, più ancora che l’obbedienza alle leggi; il giuramento da cui, per Locke, poteva scaturire l’appartenenza al patto sociale, con la conseguenza che gli atei, che non potevano giurare, dovevano esserne esclusi; il giuramento, dunque, non figura più al posto d’onore delle istituzioni politiche, che la secolarizzazione ha reso autonome dalla dimensione del sacro. Dove residua, ha perso questo suo carattere, essendosi trasformato in una semplice «promessa solenne» (Corte costituzionale, sent. n. 334 del 1969), oppure essendo divenuto facoltativo (Corte costituzionale, sent. n. 117 del 1979).
L’integrità della parola è rimessa interamente alla auto-responsabilità verso gli altri, potremmo dire alla responsabilità politica di chi la usa. Forse, c’è un rapporto tra evanescenza del giuramento ed evanescenza di questa responsabilità. La menzogna, magari spudoratamente spergiurata; la parola detta e poi subito dopo contraddetta; la parola che vaga male-detta, indipendentemente da ogni legame con un significato: tutto ciò ha invaso la nostra vita e costituisce uno dei non minori segni di disfacimento di convivenza.
Il libro di Agamben inizia e termina con la citazione da Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente (1992). In questo libro si constatava che le nostre generazioni convivono, pur senza fondarsi su alcun patto giurato, e ci si chiedeva se la novità non dovesse indurre a riflettere su una capitale trasformazioni delle modalità di associazione politica. Agamben, riprendendo questo spunto, conclude con queste osservazioni la sua diagnosi circa la dissociazione tra parola e cosa, causa ed effetto di radicale de-responsabilizzazione del parlante rispetto al parlare e alle cose di cui parla, prima che rispetto all’ascoltatore: «da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall’altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un’esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un’esperienza politica diventa sempre più precaria». Anche questo è un tassello, non tra i meno preoccupanti, per la comprensione di che cosa sia quella materia mobile, aperta, che è l’essere umano.
Il potere delle parole. "Il sacramento del linguaggio"
Quando si rompe il giuramento
È fondamentale la relazione etica che si stabilisce tra il parlante e la sua lingua
Votandosi al "logos" l’uomo decide di mettere in gioco la sua vita e il suo destino
Pubblichiamo parte di un capitolo del nuovo libro di Giorgio Agamben, "Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento", che uscirà a giorni da Laterza (pagg. 107, euro 14)
di Giorgio Agamben (la Repubblica, 06.10.2008)
I linguisti hanno spesso cercato di definire la differenza fra il linguaggio umano e quello animale. Benveniste ha opposto in questo senso il linguaggio delle api, codice di segnali fisso e il cui contenuto è definito una volta per tutte, alla lingua umana, che si lascia analizzare in morfemi e fonemi la cui combinazione permette una potenzialità di comunicazione virtualmente infinita.
Ancora una volta, tuttavia, la specificità del linguaggio umano rispetto a quello animale non può risiedere soltanto nelle peculiarità dello strumento, che ulteriori analisi potrebbero ritrovare - e, di fatto, continuamente ritrovano - in questo o quel linguaggio animale; essa consiste, piuttosto, in misura certo non meno decisiva, nel fatto che, unico fra i viventi, l’uomo non si è limitato ad acquisire il linguaggio come una capacità fra le altre di cui è dotato, ma ne ha fatto la sua potenza specifica, ha messo, cioè, in gioco nel linguaggio la sua stessa natura.
Come, nelle parole di Foucault, l’uomo «è un animale nella cui politica ne va della sua vita di essere vivente», così egli è anche il vivente nella cui lingua ne va della sua vita. Queste due definizioni sono, anzi, inseparabili e dipendono costitutivamente l’una dall’altra. Al loro incrocio si situa il giuramento, inteso come l’operatore antropogenetico attraverso cui il vivente, che si è scoperto parlante, ha deciso di rispondere delle sue parole e, votandosi al logos, di costituirsi come il «vivente che ha il linguaggio».
Perché qualcosa come un giuramento possa aver luogo, è necessario, infatti, poter innanzitutto distinguere, e articolare in qualche modo insieme, vita e linguaggio, azioni e parole - e questo è precisamente ciò che l’animale, per il quale il linguaggio è ancora parte integrante della sua prassi vitale, non può fare. La prima promessa, la prima - e, per così dire, trascendentale - sacratio si produce attraverso questa scissione, in cui l’uomo, opponendo la sua lingua alle sue azioni, può mettersi in gioco in essa, può promettersi al logos.
Qualcosa come una lingua umana ha potuto, infatti, prodursi solo nel momento in cui il vivente, che si è trovato cooriginariamente esposto tanto alla possibilità della verità che a quella della menzogna, si è impegnato a rispondere con la sua vita delle sue parole, a testimoniare in prima persona per esse. E come il mana esprime, secondo Lévi-Strauss, l’inadeguatezza fondamentale fra significante e significato, che costituisce "la servitù di ogni pensiero finito", così il giuramento esprime l’esigenza, per l’animale parlante in ogni senso decisiva, di mettere in gioco nel linguaggio la sua natura e di legare insieme in un nesso etico e politico le parole, le cose e le azioni.
Solo per questo qualcosa come una storia, distinta dalla natura e, tuttavia, a essa inseparabilmente intrecciata, ha potuto prodursi. È nel solco di questa decisione, nella fedeltà a questo giuramento, che la specie umana, per la sua sventura come per la sua ventura, in qualche modo ancora vive. Ogni nominazione è, infatti, duplice: è benedizione o maledizione.
Benedizione, se la parola è piena, se vi è corrispondenza fra il significante e il significato, fra le parole e le cose; maledizione se la parola resta vana, se permangono, fra il semiotico e il semantico, un vuoto e uno scarto. Giuramento e spergiuro, bene-dizione e male-dizione corrispondono a questa duplice possibilità iscritta nel logos, nell’esperienza attraverso cui il vivente si è costituito come essere parlante.
Religione e diritto tecnicizzano questa esperienza antropogenetica della parola nel giuramento e nella maledizione come istituzioni storiche, separando e opponendo punto per punto verità e menzogna, nome vero e nome falso, formula efficace e formula scorretta. Ciò che era «detto male» diventa in questo modo maledizione in senso tecnico, la fedeltà alla parola cura ossessiva e scrupolosa delle formule e dei riti appropriati, cioè religio e ius. L’esperienza performativa della parola si costituisce e si separa così in un «sacramento del linguaggio» e questo in un «sacramento del potere».
La "forza della legge" che regge le società umane, l’idea di enunciati linguistici che obbligano stabilmente i viventi, che possono essere osservati o trasgrediti, derivano da questo tentativo di fissare l’originaria forza performativa dell’esperienza antropogenetica, sono, in questo senso, un epifenomeno del giuramento e della maledizione che l’accompagnava.
Paolo Prodi apriva la sua storia del "sacramento del potere" con la constatazione che noi siamo oggi le prime generazioni che vivono la propria vita collettiva senza il vincolo del giuramento e che questo mutamento non può non implicare una trasformazione delle modalità di associazione politica. Se questa diagnosi coglie in qualche misura nel vero, ciò significa che l’umanità si trova oggi davanti a una disgiunzione o, quanto meno, a un allentamento del vincolo che, attraverso il giuramento, univa il vivente alla sua lingua. Da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall’altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un’esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un’esperienza politica diventa sempre più precaria.
Quando il nesso etico - e non semplicemente cognitivo - che unisce le parole, le cose e le azioni umane si spezza, si assiste infatti a una proliferazione spettacolare senza precedenti di parole vane da una parte e, dall’altra, di dispositivi legislativi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui sembrano non avere più alcuna presa. L’età dell’eclissi del giuramento è anche l’età della bestemmia, in cui il nome di Dio esce dal suo nesso vivente con la lingua e può soltanto essere proferito "in vano".
E’ forse tempo di mettere in questione il prestigio di cui il linguaggio ha goduto e gode nella nostra cultura, in quanto strumento di potenza, efficacia e bellezza incomparabili. Eppure, considerato in se stesso, esso non è più bello del canto degli uccelli, non è più efficace dei segnali che si scambiano gli insetti, non può potente del ruggito con cui il leone afferma la sua signoria.
L’elemento decisivo che conferisce al linguaggio umano le sue virtù peculiari non è nello strumento in se stesso, ma nel posto che esso lascia al parlante, nel suo predisporre dentro di sé una forma in cavo che il locutore deve ogni volta assumere per parlare. Cioè: nella relazione etica che si stabilisce fra il parlante e la sua lingua. L’uomo è quel vivente che, per parlare, deve dire "io", deve, cioè, "prendere la parola", assumerla e farla propria.
La riflessione occidentale sul linguaggio ha impiegato quasi due millenni per isolare, nell’apparato formale della lingua, la funzione enunciativa, l’insieme di quegli indicatori o shifters ("io", "tu", "qui", "ora", ecc.) attraverso i quali colui che parla assume la lingua in un atto concreto di discorso. Ciò che la linguistica non è, però, certamente in grado di descrivere è l’ethos che si produce in questo gesto e che definisce l’implicazione specialissima del soggetto nella sua parola. E’ in questa relazione etica, il cui significato antropogenetico abbiamo cercato di definire, che il "sacramento del linguaggio" ha luogo. Proprio perché, a differenza degli altri viventi, l’uomo per parlare deve mettersi in gioco nella sua parola, egli può, per questo, benedire e maledire, giurare e spergiurare.
Alle origini della cultura occidentale, in un piccolo territorio ai confini orientali dell’Europa, era apparsa un’esperienza di parola che, tenendosi nel rischio tanto della verità che dell’errore, aveva pronunciato con forza, senza né giurare né maledire, il suo sì alla lingua, all’uomo come animale parlante e politico. La filosofia comincia nel momento in cui il parlante, contro la religio della formula, mette risolutamente in questione il primato dei nomi, quando Eraclito oppone logos a epea, il discorso alle parole incerte e contraddittorie che lo costituiscono o quando Platone, nel Cratilo, rinuncia all’idea di una corrispondenza esatta fra il nome e la cosa nominata e, insieme, avvicina onomastica e legislazione, esperienza del logos e politica.
La filosofia è, in questo senso, costitutivamente critica del giuramento: essa mette, cioè, in questione il vincolo sacramentale che lega l’uomo al linguaggio, senza per questo semplicemente parlare a vanvera, cadere nella vanità della parola. In un momento in cui tutte le lingue europee sembrano condannate a giurare in vano e in cui la politica non può che assumere la forma di una oikonomia, cioè di un governo della vuota parola sulla nuda vita, è ancora dalla filosofia che può venire, nella sobria consapevolezza della situazione estrema cui è giunto nella sua storia il vivente che ha il linguaggio, l’indicazione di una linea di resistenza e di svolta.
l’Unità 8.7.08
Manifesto scientifico. La bufala delle razze umane
di Pietro Greco *
Le razze umane non esistono. Sono un mito. Un mito pericoloso. Ogni uomo è geneticamente diverso da ogni altro. Ma l’umanità non è costituita da piccoli e grandi gruppi diversi per struttura genetica. È piuttosto una rete estesa di persone geneticamente e culturalmente collegate in maniera dinamica tra loro. E quell’aggettivo, dinamico, è da sottolineare. Perché di fatto, nessun popolo nel corso dei secoli può essere considerato isolato geneticamente.
E in particolare, è un mito senza fondamento che sessanta milioni di nativi dell’Italia discendano da famiglie che abitano la penisola da almeno mille anni. Il “meticciato” genetico e culturale è una caratteristica dell’Italia come dell’intera umanità. Di più, è un bene. Sia sul piano strettamente biologico, sia sul piano culturale.
È questo, in estrema sintesi, il contenuto del «manifesto antirazzista» che un gruppo di scienziati italiani - tra i primi firmatari Rita levi Montalcini, Enrico Alleva, Guido Barbujani, Laura Dalla Ragione, Elena Gagliasso Luoni, Massimo Livi Bacci, Alberto Piazza, Agostino Pirella, Frencesco Remotti, Filippo Tempia, Flavia Zucco - presenterà il prossimo 10 luglio a San Rossore nell’ambito di una tradizionale manifestazione della Regione Toscana, dedicata quest’anno alla mobilitazione «contro ogni razzismo».
Il «manifesto antirazzista» sarà illustrato dal biologo Marcello Buiatti e introdotto dal Presidente della Regione, Claudio Martini, a sessant’anni dalla pubblicazione, avvenuta il 14 luglio 1938, del «manifesto della razza» a opera di un gruppo di scienziati fascisti. Quello di San Rossore è un vero e proprio “contro-manifesto” in termini letterali. Perché a ciascuna delle dieci tesi del famigerato “manifesto della razza” oppone una tesi diversa, alla luce delle moderne conoscenze scientifiche. Dimostrando che con quel famigerato atto gli scienziati fascisti tradirono insieme la scienza, i valori della comunità scientifica e la loro stessa umanità.
Tradirono la scienza, perché già allora vi erano tutti gli elementi per affermare che il concetto biologico di razza è una pura invenzione. Oggi tutti gli studi genetici lo dimostrano al di là di ogni possibile dubbio.
La genetica, infatti, ha consentito di chiarire almeno cinque punti rispetto alla variabilità tra gli individui e all’esistenza delle razze umane:
1. Ogni uomo è geneticamente diverso da ogni altro. È un organismo biologico unico e irripetibile.
2. Se si considerano i singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. In pratica, la frequenza dei singoli geni di tutte le popolazioni umane è largamente sovrapponibile. E, in particolare, nessun gene specifico può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra. Le popolazioni umane sono geneticamente molto simili le une alle altre.
3. C’è invece una grande variabilità genetica tra gli individui, tra gli uomini. Nessuno di noi porta i medesimi geni di un altro uomo. Tuttavia la gran parte di questa variabilità è anteriore alla formazione delle diverse popolazioni ed è probabilmente persino anteriore alla formazione della specie sapiens. In ogni caso, diversi studi indipendenti hanno dimostrato che almeno l’85% della diversità genetica (ovvero dell’insieme dei geni umani) è presente in ogni popolazione del mondo, il 5% della variabilità genetica è presente tra tutte le popolazioni del medesimo continente, e il residuo 10% si verifica tra popolazioni di diversi continenti.
4. La variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. In pratica due italiani possono essere geneticamente molto diversi tra loro. Molto più di quanto non siano diversi un italiano medio e un etiope medio.
5. La contaminazione genetica tra le diverse popolazioni umane è costante ed elevatissima. Lo confermano persino gli ultimi sequenziamento dell’intero genoma umano. Nei mesi scorsi il premio Nobel per la biologia James Dewey Watson, scopritore con Francis Crick della struttura a doppia elica del Dna, ha pubblicato i risultati del sequenziamento del suo Dna. E non senza una sua certa costernazione - Watson aveva detto che i neri sono meno intelligenti dei bianchi - ha scoperto che il 9% dei propri geni ha un’origine asiatica e che uno dei suoi bisnonni o, comunque, dei sui antenati recenti era di origine africana.
Ma il “contro-manifesto” di San Rossore dimostra anche - e soprattutto - che gli scienziati fascisti tradirono non solo la scienza (intesa come conoscenza rigorosa), ma anche i valori fondanti della comunità scientifica, mettendo il loro sapere non al servizio dell’intera umanità - come indicava già nel ’600 Francis Bacon - ma al servizio di un’ideologia pericolosa che voleva dividere gli uomini gli uni dagli altri, per discriminarli.
E con ciò, quegli scienziati fascisti, si macchiarono della colpa più grave: tradirono la loro stessa umanità.
Il “contro-manifesto della razza” che gli scienziati italiani presenteranno a San Rossore il prossimo 10 luglio non ha, dunque, solo un valore storico e scientifico (e non sarebbe certo poca cosa). Ma ha un valore politico di stringente attualità. Troppe parole, troppi episodi, persino qualche disposizione di governo nel nostro paese stanno alimentando il fuoco della discriminazione razziale. È ora - ci dicono gli scienziati preoccupati di San Rossore - che questi venti cessino di soffiare e che il fuoco della discriminazione razziale venga definitivamente spento. Prima che scoppi, improvviso, un nuovo incendio.
Il documento: «Le razze non esistono. Ce n’è solamente una: quella umana»
Demografi, genetisti, filosofi, psichiatri e ricercatori: ecco l’appello contro le discriminazioni
«Il razzismo è contemporaneamente omicida e suicida. Gli ebrei italiani sono
ebrei e italiani»
I. Le razze umane non esistono. L’esistenza delle razze umane è un’astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze «psicologiche» e interpretate sulla base di pregiudizi secolari. Queste astratte suddivisioni, basate sull’idea che gli umani formino gruppi biologicamente ed ereditariamente ben distinti, sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne in «migliori» e «peggiori» e quindi discriminare questi ultimi (sempre i più deboli), dopo averli additati come la chiave di tutti i mali nei momenti di crisi.
II. L’umanità, non é fatta di grandi e piccole razze. È invece, prima di tutto, una rete di persone collegate. È vero che gli esseri umani si aggregano in gruppi d’individui, comunità locali, etnie, nazioni, civiltà; ma questo non avviene in quanto hanno gli stessi geni ma perché condividono storie di vita, ideali e religioni, costumi e comportamenti, arti e stili di vita, ovvero culture. Le aggregazioni non sono mai rese stabili da DNA identici; al contrario, sono soggette a profondi mutamenti storici: si formano, si trasformano, si mescolano, si frammentano e dissolvono con una rapidità incompatibile con i tempi richiesti da processi di selezione genetica.
III. Nella specie umana il concetto di razza non ha significato biologico. L’analisi dei DNA umani ha dimostrato che la variabilità genetica nelle nostra specie, oltre che minore di quella dei nostri «cugini» scimpanzé, gorilla e orangutan, è rappresentata soprattutto da differenze fra persone della stessa popolazione, mentre le differenze fra popolazioni e fra continenti diversi sono piccole. I geni di due individui della stessa popolazione sono in media solo leggermente più simili fra loro di quelli di persone che vivono in continenti diversi. Proprio a causa di queste differenze ridotte fra popolazioni, neanche gli scienziati razzisti sono mai riusciti a definire di quante razze sia costituita la nostra specie, e hanno prodotto stime oscillanti fra le due e le duecento razze.
IV. È ormai più che assodato il carattere falso, costruito e pernicioso del mito nazista della identificazione con la «razza ariana», coincidente con l’immagine di un popolo bellicoso, vincitore, «puro» e «nobile», con buona parte dell’Europa, dell’India e dell’Asia centrale come patria, e una lingua in teoria alla base delle lingue indo-europee. Sotto il profilo storico risulta estremamente difficile identificare gli Arii o Ariani come un popolo, e la nozione di famiglia linguistica indo-europea deriva da una classificazione convenzionale. I dati archeologici moderni indicano, al contrario, che l’Europa è stata popolata nel Paleolitico da una popolazione di origine africana da cui tutti discendiamo, a cui nel Neolitico si sono sovrapposti altri immigranti provenienti dal Vicino Oriente. L’origine degli Italiani attuali risale agli stessi immigrati africani e mediorientali che costituiscono tuttora il tessuto perennemente vivo dell’Europa. Nonostante la drammatica originalità del razzismo fascista, si deve all’alleato nazista l’identificazione anche degli italiani con gli «ariani».
V. È una leggenda che i sessanta milioni di italiani di oggi discendano da famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio. Gli stessi Romani hanno costruito il loro impero inglobando persone di diverse provenienze e dando loro lo status di cives romani. I fenomeni di meticciamento culturale e sociale, che hanno caratterizzato l’intera storia della penisola, e a cui hanno partecipato non solo le popolazioni locali, ma anche greci, fenici, ebrei, africani, ispanici, oltre ai cosiddetti «barbari», hanno prodotto l’ibrido che chiamiamo cultura italiana. Per secoli gli italiani, anche se dispersi nel mondo e divisi in Italia in piccoli Stati, hanno continuato a identificarsi e ad essere identificati con questa cultura complessa e variegata, umanistica e scientifica.
VI. Non esiste una razza italiana ma esiste un popolo italiano. L’Italia come Nazione si é unificata solo nel 1860 e ancora adesso diversi milioni di italiani, in passato emigrati e spesso concentrati in città e quartieri stranieri, si dicono e sono tali. Una delle nostre maggiori ricchezze, é quella di avere mescolato tanti popoli e avere scambiato con loro culture proprio «incrociandoci» fisicamente e culturalmente. Attribuire ad una inesistente «purezza del sangue» la «nobiltà» della «Nazione» significa ridurre alla omogeneità di una supposta componente biologica e agli abitanti dell’attuale territorio italiano, un patrimonio millenario ed esteso di culture.
VII. Il razzismo é contemporaneamente omicida e suicida. Gli Imperi sono diventati tali grazie alla convivenza di popoli e culture diverse, ma sono improvvisamente collassati quando si sono frammentati. Così é avvenuto e avviene nelle Nazioni con le guerre civili e quando, per arginare crisi le minoranze sono state prese come capri espiatori. Il razzismo é suicida perché non colpisce solo gli appartenenti a popoli diversi ma gli stessi che lo praticano. La tendenza all’odio indiscriminato che lo alimenta, si estende per contagio ideale ad ogni alterità esterna o estranea rispetto ad una definizione sempre più ristretta della «normalità». Colpisce quelli che stanno «fuori dalle righe», i «folli», i «poveri di spirito», i gay e le lesbiche, i poeti, gli artisti, gli scrittori alternativi, tutti coloro che non sono omologabili a tipologie umane standard e che in realtà permettono all’umanità di cambiare continuamente e quindi di vivere. Qualsiasi sistema vivente resta tale, infatti, solo se é capace di cambiarsi e noi esseri umani cambiamo sempre meno con i geni e sempre più con le invenzioni dei nostri «benevolmente disordinati» cervelli.
VIII. Il razzismo discrimina, nega i collegamenti, intravede minacce nei pensieri e nei comportamenti diversi. Per i difensori della razza italiana l’Africa appare come una paurosa minaccia e il Mediterraneo è il mare che nello stesso tempo separa e unisce. Per questo i razzisti sostengono che non esiste una «comune razza mediterranea». Per spingere più indietro l’Africa gli scienziati razzisti erigono una barriera contro «semiti» e «camiti», con cui più facilmente si può entrare in contatto. La scienza ha chiarito che non esiste una chiara distinzione genetica fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono state assolutamente dimostrate, dal punto di vista paleontologico e da quello genetico, le teorie che sostengono l’origine africana dei popoli della terra e li comprendono tutti in un’unica razza.
IX. Gli ebrei italiani sono contemporaneamente ebrei ed italiani. Gli ebrei, come tutti i popoli migranti ( nessuno é migrante per libera scelta ma molti lo sono per necessità) sono sparsi per il Mondo ed hanno fatto parte di diverse culture pur mantenendo contemporaneamente una loro identità di popolo e di religione. Così é successo ad esempio con gli Armeni, con gli stessi italiani emigranti e così sta succedendo con i migranti di ora: africani, filippini, cinesi, arabi dei diversi Paesi , popoli appartenenti all’Est europeo o al Sud America ecc. Tutti questi popoli hanno avuto la dolorosa necessità di dover migrare ma anche la fortuna, nei casi migliori, di arricchirsi unendo la loro cultura a quella degli ospitanti, arricchendo anche loro, senza annullare, quando é stato possibile, né l’una né l’altra.
X. L’ideologia razzista é basata sul timore della «alterazione» della propria razza eppure essere «bastardi» fa bene. È quindi del tutto cieca rispetto al fatto che molte società riconoscono che sposarsi fuori, perfino con i propri nemici, è bene, perché sanno che le alleanze sono molto più preziose delle barriere. Del resto negli umani i caratteri fisici alterano più per effetto delle condizioni di vita che per selezione e i caratteri psicologici degli individui e dei popoli non stanno scritti nei loro geni. Il «meticciamento» culturale é la base fondante della speranza di progresso che deriva dalla costituzione della Unione Europea. Un’Italia razzista che si frammentasse in «etnie» separate come la ex-Jugoslavia sarebbe devastata e devastante ora e per il futuro. Le conseguenze del razzismo sono infatti epocali: significano perdita di cultura e di plasticità, omicidio e suicidio, frammentazione e implosione non controllabili perché originate dalla ripulsa indiscriminata per chiunque consideriamo «altro da noi».
Enrico Alleva, Docente di Etologia, Istituto Superiore di Sanità, Roma; Guido Barbujani, Docente di Genetica di popolazioni, Università Ferrara; Marcello Buiatti, Docente di Genetica, Università di Firenze; Laura dalla Ragione, Psichiatra e psicoterapeuta, Perugia; Elena Gagliasso, Docente di Filosofia e Scienze del vivente, Università La Sapienza, Roma; Rita Levi Montalcini, Neurobiologa, Premio Nobel per la Medicina; Massimo Livi Bacci, Docente di demografia, Università di Firenze; Alberto Piazza, Docente di Genetica Umana, Università di Torino; Agostino Pirella, Psichiatra, co-fondatore di Psichiatria democratica, Torino; Francesco Remotti, Docente di Antropologia culturale, Università di Torino; Filippo Tempia, Docente di Fisiologia, Università di Torino; Flavia Zucco, Dirigente di Ricerca, Presidente Associazione Donne e Scienza, Istituto di Medicina molecolare, CNR.