PAROLE COME PIETRE
LA VERGOGNA DI PARLARE SENZA VERGOGNA
di Tullio De Mauro (l’Unità, 03.01.2010)
Nella simpatica trasmissione di Corrado Augias, gli ospiti finiscono col parlare delle cose più varie. Nella puntata più recente Umberto Galimberti, già valente studioso di psicologia, è apparso ancora su un terreno suo quando ha cominciato a parlare di vergogna. In effetti si legge ancora utilmente l’articolo “vergogna” che scrisse molti anni fa nel suo bel «Dizionario di psicologia». C’è ancora il sentimento della vergogna? Conduttore e ospite sono scivolati verso la sociologia d’arrembaggio e hanno detto concordi che quel sentimento va scomparendo.
Del vero ci deve essere se in questi anni il francese ha avuto fortuna una nuova parola, riecheggiata in altre lingue: “extimitè”, il contrario di “intimità”, per indicare la propensione a esibire sfacciatamente momenti e atti della propria intimità fisica e sentimentale. E tuttavia vien fatto di osservare che l’esibizione sfacciata ha senso solo perché sfida un persistente senso comune di discrezione. Se l’intero pubblico fosse fatto da svergognati abituali non avrebbero audience trasmissioni che illustrano le recondite fattezze e assai private movenze di qualche grande fratello o sorella (i ladri, diceva Chesterton, sono i più convinti assertori del diritto di proprietà). E colpisce che personalità inclini all’esibizione del loro privato si segnalino per la loro abitudine, quasi un tic irrefrenabile, di gridare ripetutamente in pubblico fino allo spasimo «Vergogna! Vergogna! Vergogna» a interlocutori con cui non concordino. Dunque anche per loro il senso della vergogna non è ancora morto.
Nella trasmissione di Augias lo psicologo e ora filosofo
della storia si è avventurato a dire con aria grave:
«Del resto, l’etimologia della parola vergogna è “vereo
gognam”, temo la gogna». E qui le cose da ricordare
sono parecchie.
La prima, nota anche a studenti di
latino diligenti, è che in latino si dice “vereor” e non
“vereo” (il verbo è cioè un “deponente”).
La seconda è
che “gogna” non è parola latina, ma italiana moderna.
La terza osservazione è che “vergogna” (diversamente
da “gogna”) appartiene alle parole di più sicura
etimologia ed è la continuazione popolare del vocabolo
“verecundia”, un sostantivo latino tratto da
“vereri” (come “facundia” era tratto da “fari”, parlare).
Queste sono cose che si dicono con (appunto) un po’ di vergogna a causa della ovvietà che hanno per chiunque tenga a portata di mano, non diciamo un vocabolario etimologico (chiaro, accessibile, aggiornato è quello di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli), ma un qualsiasi buon vocabolario italiano. Sono cose banali e non è un peccato mortale ignorarle. Ma forse è una piccola vergogna, se si impiega e si dissipa l’autorità guadagnata in altri campi per spacciare notizie etimologiche senza fondamento.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
Una lezione di educazione civica di Eduardo De Filippo - da L’oro di Napoli (YOUTUBE)
Un linguista democratico
di Luca Serianni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 07 gennaio 2017)
Di poche personalità si può dire, come di Tullio De Mauro, che abbiano segnato in modo indelebile la cultura italiana dell’ultimo cinquantennio. E lo si può dire senza timore di incorrere nel rischio di una celebrazione postuma, cedendo alla pur comprensibile retorica della circostanza.
De Mauro è stato prima di tutto un linguista, un grande linguista. L’opera di maggiore risonanza internazionale, una risonanza riconosciuta dalle numerose lauree honoris causa, è forse l’edizione, con un ricco commento, del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (1962), il testo che espone, con la chiarezza e l’affabilità di un docente che parla ai suoi studenti, i principi dello strutturalismo: ossia di un indirizzo che ha segnato il Novecento euroamericano, non solo nella linguistica ma anche in diverse altre scienze umane, dalla storia all’antropologia alla critica letteraria.
Ho sempre pensato che lo stile espositivo di Saussure, tutto proiettato sull’interlocutore e alieno dall’autocompiacimento dell’intellettuale, fosse un tratto che accomunasse Saussure e il suo interprete: davvero i grandi, le «persone che vagliono molto - come diceva Leopardi - hanno le maniere semplici».
L’opera che in Italia ha segnato uno spartiacque, tra un prima e un poi, è la Storia linguistica dell’Italia unita (1963). Per la prima volta un tema di stretta pertinenza linguistica, l’evoluzione dell’italiano (anzi: la costruzione di “un” italiano, nel quadro estremamente frammentato e pluridialettale del tempo), viene affrontato con ampio ricorso alla demografia e alla statistica e dunque a scienze che fino a quel momento erano rimaste estranee all’orizzonte del cultore di studi latamente letterari.
Le analisi quantitative dei fatti di lingua rappresentano una cifra caratteristica del suo profilo di studioso: Parole e numeri, come recita il titolo di una bella raccolta di saggi, curata insieme con la sua allieva Isabella Chiari e apparsa nel 2005. Ripubblicando in quello stesso anno due scritti di glottologia apparsi quasi cinquant’anni prima (sui casi greci e il nome del dativo), De Mauro osserva che in quelle pagine compaiono «molte cifre assolute e percentuali, molte tabelle, molti di quei numeri che non piacciono agli studenti delle facoltà umanistiche»; aggiungendo poi, con una punta di ben legittimo orgoglio, che quando quelle pagine erano state pensate «la statistica linguistica o meglio l’interpretazione linguistica dei dati statistici aveva mosso solo i primissimi passi», e solo fuori d’Italia.
De Mauro aveva una straordinaria curiosità intellettuale e la capacità (questa davvero rara) di adeguarsi ai tempi, in primo luogo attraverso il ricorso alle grandi risorse tecnologiche che si sono sviluppate soprattutto nel nostro secolo e che hanno cambiato, anche per gli umanisti, lo stesso modo di immaginare e di concepire una ricerca scientifica, non solo quello di svolgerla.
Di qui la descrizione del lessico di una lingua attraverso l’indicazione delle frequenze d’uso e l’individuazione del vocabolario di base, ossia di quelle parole che ricorrono più spesso in qualsiasi produzione orale e scritta. È uno dei principi che ispira il Grande vocabolario italiano dell’uso (1999) che, con i suoi 250mila lemmi, tutti marcati in base al livello d’uso (a seconda che appartengano al lessico fondamentale, a quello tecnico-specialistico, regionale e così via), è il più ampio repertorio esistente dell’italiano contemporaneo.
Una parte non secondaria delle sue energie intellettuali è stata spesa in direzione della scuola: quella frequentata da bambini e adolescenti, certo, ma anche quella che dovrebbe coinvolgere quegli adulti privi di un’istruzione adeguata e a forte rischio di regressione sia quanto a comprensione delle informazioni contenute in un testo scritto sia, e a maggior ragione, nella capacità di argomentazione, anche elementare: la Literacy e il Problem Solving degli anglosassoni.
Nel 1973 l’impulso di De Mauro è stato decisivo nel promuovere l’attività del GISCEL («Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica») e il suo nome resta legato alle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica (1975), vigorosa affermazione di principi civili ancor prima che pedagogici, che ebbe ampie ricadute negli insegnanti del tempo.
Tra queste tesi c’è anche l’idea di dare concreta applicazione all’art. 3 della Costituzione, là dove si parla di uguaglianza dei cittadini “senza distinzione di lingua”, in rifermento sia alle lingue minoritarie (De Mauro fu l’ispiratore di una legge del 1999 che diede concreta tutela alle minoranze linguistiche storiche), sia alla deprivazione linguistica, per carenza di cultura, da parte di italofoni nativi.
Ancora di scuola, un impegno mai dismesso, De Mauro era tornato a occuparsi in seno all’Accademia dei Lincei, come attivo membro del Consiglio scientifico di una Fondazione che si propone di rinnovare la didattica di italiano, matematica e scienze attraverso regolari e capillari incontri con gli insegnanti: una strada dunque, anche per il ponte lanciato tra discipline letterarie e scientifiche, ben demauriana.
L’attività di studioso si è sempre accompagnata in lui a quella di intellettuale attivo, e potremmo proprio dire militante. Presidente della Fondazione Bellonci, legata al premio Strega, il più importante premio letterario per la narrativa italiana, De Mauro ne aveva rinnovato gli indirizzi, cercando di far sì che la lettura diventasse sempre più un’abitudine condivisa.
Ma, per chi abbia avuto con lui una lunga consuetudine come nel caso di chi scrive, è difficile separare la sua statura scientifica e intellettuale dallo spessore umano. Con la sua sorridente ironia e autoironia, in cui sembravano precipitare, in senso chimico, l’origine partenopea (era nato a Torre Annunziata nel 1932) e il lungo soggiorno romano; col rispetto e l’attenzione per l’interlocutore, chiunque fosse. Ed è impossibile non ricordare il suo sguardo, mobile e vivacissimo, quando parlava o ascoltava; e abituarsi per davvero al fatto che non ci sia più.
Un gramsciano lontano dall’accademia
di Franco Lo Piparo (Il Sole-24 Ore, 05 gennaio 2017)
Tullio De Mauro aveva diverse qualità. Una era ineguagliabile. Il suo stile di vita corrispondeva alla sua produzione scientifica. Quando da giovane laureato sono andato a presentarmi da lui per fargli leggere la tesi fui accolto come mai nessuno dei professori cosiddetti democratici mi aveva accolto. Mi sono sentito subito a mio agio.
Siamo nell’autunno del 1969 nell’Università di Palermo. De Mauro non era solo un bravo professore. Era un intellettuale che interveniva sui giornali e creava opinione. Era noto fuori d’Italia. Aveva al suo attivo opere fondamentali, tradotte in varie lingue, e su cui molte generazioni di linguisti e filosofi del linguaggio si formeranno, non solo in Italia: Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; Introduzione alla semantica, 1965; traduzione e commento del Cours de inguistique générale di Ferdinand de Saussure, 1967.
Era anche cattedratico giovanissimo e questo lo rendeva ancora più affascinante. Almeno a noi che respiravamo l’aria del Sessantotto. Naturalmente quello che per noi era fattore attrattivo non era ben apprezzato dai colleghi glottologi anziani. Amava raccontarmi con una punta di orgoglio che fu bocciato da arcigni e ignoti professori al suo primo concorso universitario. Il pezzo forte delle sue pubblicazioni era quello che da tutti è considerato un classico della storiografia linguistica: Storia linguistica dell’Italia unita. La motivazione della bocciatura fu che non si trattava di opera scientifica ma di un pamphlet politico.
La stupidità, tutta accademica, degli arcigni professori a modo suo aveva visto bene. De Mauro fu un linguista gramsciano, quanto di più lontano si possa immaginare dall’accademia. Quell’opera valutata negativamente dall’accademia, oltre che una inedita ricostruzione della storia delle vicende linguistiche dell’Italia unita, è anche un programma teorico che affonda le sue radici nei Quaderni di Gramsci.
L’ascendenza gramsciana, però, di quell’opera l’ho capita dopo, molto dopo. È accaduto quello che accade ai classici. Intercettando lo spirito profondo e nascosto di altri classici (i Quaderni nel caso specifico) costringono a rileggere con sensibilità nuova i testi che hanno ispirato il nuovo approccio. Un virtuoso corto circuito.
Alcune delle colonne portanti dell’approccio gramsciano di De Mauro alle lingue provo a elencarle.
(1) Le lingue esistono in quanto sono parlate o sono state parlate. Sembra banale ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e credo che non ne siano ancora del tutto chiare tutte le implicazioni teoriche. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti.
(2) Non esiste la lingua ma la coppia lingua-parlanti. E i parlanti parlano e/o scrivono non per eseguire regole grammaticali ma per affrontare problemi che linguistici non sono.
(3) Ciò vuol dire che il senso delle parole e dei modi di dire è il protagonista delle vicende linguistiche. La semantica è la parte del linguaggio che guida le altre.
De Mauro questo lo spiega già in opere giovanili come l’Introduzione alla semantica e nella interpretazione che dà del Cours di Saussure e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lo approfondirà ancora meglio in Minisemantica (1982), altra opera di diffusa circolazione internazionale.
I tre pilastri esposti qui in maniera sommaria sono riassumibili nella costitutiva natura politica delle lingue. Erano due gli autori da cui De Mauro traeva suggerimenti e ispirazioni.
Uno era l’Aristotele che faceva derivare la specificità delle lingue storiconaturali dal fatto che l’uomo è animale che può vivere solo come parte di una città. “Città” in greco polis, donde la definizione di uomo come animale politikón che letteralmente significa per l’appunto “animale per natura cittadino”. L’altro era Antonio Gramsci che spiega diffusamente e analiticamente come nessun potere-egemonia può essere esercitato senza la cooperazione linguistica e, per questo, chiarisce in maniera incontrovertibile la politicità di ogni questione linguistica.
La lettura in parallelo della Storia linguistica di De Mauro e dell’ultimo Quaderno a noi noto, scritto da Gramsci nella clinica Cusumano nell’aprile 1935, è molto illuminante. Il titolo di quel quaderno era, se mi è consentito di invertire il prima e il dopo, molto demauriano: Lingua nazionale e grammatica.
L’impalcatura filosofica che qui ho tratteggiato De Mauro l’ha declinata in numerosi saggi di alta teoria ma l’ha anche tradotta impegno politico quotidiano. Convinto che la crescita individuale e collettiva non è separabile dalle abilità linguistiche è stato un attentissimo analista dei livelli culturali in cui è stratificata una società.
Penso proprio che De Mauro aveva ragione ad essere orgoglioso della bocciatura al concorso universitario perché linguista politico. Non sapendo gli arcigni glottologi che col loro giudizio univano De Mauro con Aristotele.
De Mauro, la lingua batteva dove l’Italia duole ancora
Dalla lotta contro l’analfabetismo negli anni ’60 a quella contro gli anglismi e le volgarità dei politici
di Giuseppe Conte *
Tullio De Mauro è stato un protagonista della vita italiana dell’ultimo mezzo secolo, nel campo della ricerca scientifica e universitaria, e poi nel campo della politica e della organizzazione culturale.
Insigne linguista, ministro della Pubblica Istruzione, Presidente della Fondazione Bellonci e del comitato direttivo del Premio Strega: una carriera tutta nel cuore del potere, ma gestita con una certa indipendenza di giudizio, una vita costellata di successi, ma non senza drammi, se si pensa alla uccisione del fratello Mauro De Mauro, giornalista all’Ora di Palermo, rapito e ucciso dalla mafia nel settembre del 1970.
Il giovane De Mauro si laurea in Lettere Classiche e intraprende subito l’attività universitaria, insegna filosofia del linguaggio e glottologia, prima di arrivare alla cattedra di Linguistica generale presso l’Università La Sapienza di Roma. Sua opera importante è la curatela completa, introduzione, traduzione e commento, al Trattato di linguistica generale di Ferdinand De Saussure, nel 1967, che contiene i fondamenti essenziali di quello strutturalismo che stava per esplodere negli studi non solo linguistici, ma in tutto il campo della critica letteraria, condizionando una intera stagione molto fervida di novità, anche se presto risolta in niente più che una moda. De Mauro, nonostante questo suo lavoro così importante, non fu uno strutturalista. Non partecipò alla appena successiva ondata semiologica. I suoi interessi di studioso lo portano ad ancorare la linguistica alla società e alla storia. Lo testimonia il suo saggio Storia linguistica dell’Italia unita, uscito nel 1963, ripreso molti anni dopo in Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, pubblicato nel 2014 da Laterza. Oltre a tanti altri saggi, che presto virano dal linguistico al sociologico, bisogna ricordare la sua direzione del Grande dizionario italiano dell’uso, in otto volumi (UTET, 2007).
Tullio De Mauro fu risoluto nel combattere l’analfabetismo di ritorno, in un Paese dove pare che soltanto il 20 per cento delle persone adulte siano in grado di seguire un discorso che presenti anche minime difficoltà semantiche e di compiere operazioni matematiche un po’ al di sopra di quelle elementari. Nonostante la difesa dell’italiano, De Mauro non fu mai contrario ai dialetti, li ritenne una ricchezza e una risorsa. Se nel 1974 il 51 per cento degli italiani parlavano il dialetto, oggi la percentuale è scesa al 5. Ma in compenso sono aumentati quelli che lui chiama gli «alternanti», cioè coloro che usano indifferentemente italiano e dialetto, passando dal 18 per cento del 1955 al 44 del 1995. Questa alternanza può diventare miscela, carburante per nuove forme di espressività. Forse come nel «vigatese», forma ibrida di italiano e siciliano di Andrea Camilleri, con cui non a caso De Mauro firma un volume.
De Mauro interviene anche su fenomeni del linguaggio tipici del nostro tempo. Per esempio, prende in esame il turpiloquio dei politici recenti, o la smania di ostentare frequenti e inappropriati anglismi, e giudica entrambi i fenomeni come prove della scarsa capacità di usare al meglio le risorse di una lingua come l’italiano, complessa sin dai tempi di Dante (che per altro nell’«Inferno» non disdegna il turpiloquio, ma certo con una potenza e necessità espressiva che le parolacce udite in Parlamento non hanno). La storia linguistica diventa per De Mauro storia di una comunità e del suo evolversi. Nella prefazione a Le parole di Einstein. Comunicare scienza tra rigore e poesia, di Daniele Gouthier e Elena Ioli, De Mauro scrive: «Per Einstein il richiamo al linguaggio comune a ogni essere umano forniva anzitutto un argomento decisivo per affermare la natura profondamente sociale della conoscenza e della cultura». Così, il genio della fisica offre al linguista italiano una conferma delle proprie posizioni.
Era forse fatale che la piega sociologica presa dagli interessi di De Mauro, oltre la sua disposizione all’impegno, lo portasse non soltanto verso la pubblicistica militante, su organi di stampa come Il Mondo, Paese Sera, L’Espresso, ma anche verso la politica vera e propria. Nel 1975 De Mauro è eletto nel consiglio regionale del Lazio, nelle liste del Pci, nel 1976 diventa assessore alla cultura e lo rimane sino al 1978. Dopo un ventennio, dalla ribalta regionale passa a quella nazionale, diventando ministro dell’Istruzione nel secondo governo Amato, dall’aprile 2000 al giugno 2001. Troppo poco per lasciare un vero segno in un campo come quello della scuola, dove si susseguono i disastri, e dove per la stessa ammissione di De Mauro quelle che il governo Renzi ha chiamato riforme sono niente più che «provvedimenti collaterali».
Ultimo viene lo Strega. L’impressione è che lì De Mauro abbia svolto il proprio ruolo cercando meritoriamente di cambiare qualcosa. Ma senza quella vera passione che cambia le cose davvero.
Neuroni mirror e facoltà di negare
Il potere tellurico del linguaggio non smette di interrogare l’intersoggettività
di Paolo Virno (il manifesto, 17.09.2016)
L’indagine sulla negazione linguistica è, sempre, una indagine antropologica. Spiegare le prerogative e gli usi del segno «non» significa spiegare alcuni tratti distintivi della nostra specie: la capacità di distaccarsi dagli avvenimenti circostanti e dalle pulsioni psichiche, l’ambivalenza degli affetti, l’attitudine a trasformare repentinamente le condotte più abituali.
In una gocciolina di grammatica, diceva Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia. Ciò vale in primo luogo per quella nuvola cumuliforme che è la grammatica del «non»: da essa è possibile ricavare qualche notizia sul modo di stare al mondo del primate Homo sapiens, nonché una chiave per decifrare l’insieme di sentimenti e comportamenti che ci fanno parlare, a seconda delle inclinazioni, di disagio della civiltà o di attualità della rivoluzione.
Per dare il giusto risalto al ruolo che svolge il connettivo logico «non» nella forma di vita umana, propongo tre ipotesi concatenate sull’indole sociale, anzi pubblica, della nostra mente. A essere più precisi: tre ipotesi il cui tema è la singolare discontinuità tra il fondamento biologico di questa socialità e i suoi tortuosi sviluppi linguistici, segnati per l’appunto dal potere tellurico della negazione.
In origine era il «noi»
Prima ipotesi. L’animale umano intuisce i propositi e le emozioni dei suoi simili in virtù di una intersoggettività originaria, che precede la stessa costituzione dei soggetti individuali. Il «noi» si fa valere prima ancora che venga alla ribalta un «io» autocosciente. La relazione tra i membri della stessa specie è, innanzitutto, una relazione impersonale. Sull’esistenza di un ambito di esperienza pre-individuale hanno insistito pensatori come Vygotskij, Winnicott, Simondon.
Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, ha riformulato la questione in modo particolarmente incisivo, incardinando l’anteriorità del «noi» rispetto all’«io» al funzionamento di un’area del cervello. Per sapere che qualcuno soffre o gode, cerca riparo o rogne, sta per aggredirci o baciarci, non abbiamo bisogno di proposizioni, né tanto meno di una barocca attribuzione di intenzioni alla mente altrui. Basta e avanza l’attivazione di un gruppo di neuroni situati nella parte ventrale del lobo frontale inferiore.
Scrive Gallese: «Il nostro gruppo ha scoperto nel cervello di scimmia l’esistenza di una popolazione di neuroni premotori che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (per esempio afferrare un oggetto), ma anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo (uomo o scimmia che fosse). Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni mirror”». Di lì a poco, si è constatata la presenza di neuroni mirror anche nel cervello umano.
Allorché vediamo un manifestante sotto la sede della Goldman Sachs che compie una azione di cui parleranno i giornali, «nel nostro cervello sono reclutati a scaricare i medesimi neuroni che scaricherebbero se fossimo noi stessi, in prima persona, a compiere quell’azione». Comprendo il pianto dell’uomo che mi sta di fronte perché le mie stesse ghiandole lacrimali cominciano a innervarsi. Questo sentire all’unisono, o con-sentire, è chiamato da Gallese «simulazione incarnata».
I neuroni mirror sono il fondamento biologico della socialità della mente. A essi si deve la formazione di uno «spazio noi-centrico». Con una avvertenza: il pronome «noi» non indica, qui, una pluralità di «io» ben definiti, ma designa un insieme di relazioni pre-individuali, ossia «una forma paradossale di intersoggettività priva di soggetto».
Questo «non» è un uomo
Seconda ipotesi. Di questa intersoggettività preliminare, appannaggio di tutte le scimmie antropomorfe, il linguaggio non è affatto una potente cassa di risonanza. Anziché ornarlo di mille raffinatezze, le nostre enunciazioni retroagiscono distruttivamente sullo «spazio noi-centrico» istituito dai neuroni mirror. La padronanza della sintassi intralcia, e talvolta sospende, l’empatia neurofisiologica. La socialità della mente umana è modellata dall’intreccio, certo, ma anche dalla tensione duratura e dalla periodica divaricazione, tra «simulazione incarnata» e pensiero verbale.
Il linguaggio si distingue dai codici comunicativi basati su indizi e segnali, nonché dalle prestazioni cognitive taciturne (sensazioni, immagini psichiche ecc.), perché è in grado di negare qualsivoglia rappresentazione.
Anche l’evidenza percettiva che ci fa dire «questo è un uomo» dinanzi a un immigrato cessa di essere incontrovertibile allorché è soggetta all’opera del «non». Nel linguaggio mette radici il fallimento del reciproco riconoscimento tra conspecifici. Grammaticalmente impeccabile, dotato di senso, a portata di ogni bocca è l’enunciato «questo non è un uomo». Soltanto l’animale che parla ha la capacità di non riconoscere il suo simile.
Il vecchio ebreo è roso dalla fame e piange per l’umiliazione. L’ufficiale nazista sa che cosa prova il vecchio per mezzo della «simulazione incarnata». Ma è in grado di disattivare, almeno parzialmente, l’empatia generata dai neuroni mirror.
Per capire come avviene questa disattivazione, consideriamo un tipico requisito della paroletta «non». Il tratto caratteristico degli enunciati negativi («Ada non mi ama», «Giorgio non è andato a Roma») consiste nel riproporre con segno algebrico rovesciato il medesimo contenuto semantico del corrispondente enunciato affermativo. L’amore di Ada e il viaggio a Roma di Giorgio sono pur sempre nominati, e così conservati come significati, nel momento stesso in cui vengono verbalmente soppressi. Supponiamo che l’ufficiale nazista pensi: «le lacrime di questo vecchio ebreo non sono umane».
La sua proposizione conserva e sopprime a un tempo l’empatia neurofisiologica: la conserva, giacché si parla comunque delle lacrime di un Homo sapiens, non di un umidore qualsiasi; la sopprime, togliendo alle lacrime dell’ebreo quel carattere umano che, pure, era implicito nella loro designazione.
Soltanto grazie a questa attitudine ad abrogare ciò che nondimeno si ammette, il segno «non» può ledere un dispositivo biologico «sub-personale» qual è il con-sentire. La negazione non impedisce certo l’attivazione dei neuroni mirror, ma ne rende ambiguo il senso e reversibili gli effetti. Il pensiero verbale, dimostrando una notevole perizia nel mandare in rovina l’empatia neurale, costituisce la condizione di possibilità di ciò che Kant ha chiamato il «male radicale».
La sfera pubblica? Una cicatrice
Terza ipotesi. Il linguaggio non manca di procurare un antidoto al veleno che ha inoculato nell’innata socialità della mente. Oltre a sabotare in tutto o in parte l’empatia prodotta dai neuroni specchio, esso offre anche un rimedio (anzi, l’unico rimedio adeguato) ai danni così arrecati. Il sabotaggio iniziale può essere a sua volta sabotato.
La sfera pubblica, nicchia ecologica delle nostre azioni, è il risultato instabile di una lacerazione e di una sutura, della prima non meno che della seconda. Somiglia dunque a una cicatrice. Detto altrimenti: la sfera pubblica trae origine dalla negazione di una negazione. Se a qualche lettore ripugna il sapore dialettico di questa espressione, ne sono desolato, ma non so che farci. A scanso di equivoci, conviene aggiungere che la negazione della negazione non ripristina la primitiva sintonia pre-linguistica. Sempre di nuovo eluso o neutralizzato, il rischio del non-riconoscimento è però iscritto irreversibilmente nell’interazione sociale.
Lo «spazio noi-centrico» e la sfera pubblica sono i due modi, affini e però incommensurabili, in cui si manifesta la socialità della mente prima e dopo l’esperienza della negazione linguistica. Prima di questa esperienza, l’infallibile e impersonale con-sentire neurale; dopo, conflitti senza quartiere, patti, promesse, norme, istituzioni mai stabili, progetti collettivi dagli esiti imponderabili.
Neuroni mirror, negazione linguistica, intermittenza del reciproco riconoscimento: sono questi i fattori, coesistenti e però anche dissonanti, che definiscono la mente sociale della nostra specie. La loro dialettica destituisce di fondamento ogni teoria politica (per esempio, quella di Noam Chomsky) che opponga la naturale «creatività del linguaggio» all’iniquità e alla brama di sopraffazione degli apparati di potere storicamente determinati.
La fragilità dello «spazio noi-centrico», da imputare giustappunto alle perturbazioni che il linguaggio e la sua «creatività» portano con sé, deve costituire lo sfondo realistico di ogni movimento politico che miri a una drastica trasformazione dello stato di cose presente. Un grande e terribile filosofo della politica, Carl Schmitt, ha scritto con evidente sarcasmo: «Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana».
È venuto il tempo di smentire questa equazione maliziosa. Una analisi accurata della mente sociale permette di impiantare «il radicalismo ostile allo Stato» e ai rapporti di produzione capitalistici sulla pericolosità della natura umana (pericolosità alimentata dall’uso polivalente del «non»), anziché sulla sua immaginaria mitezza.
L’azione politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presupposto positivo da rivendicare. Si impegna invece a sperimentare nuovi e più efficaci modi di negare la negazione, di apporre il «non» davanti a «non uomo».
TWEET (18.09.2016).
L’ ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
INTERVISTA
Come è mutato il ruolo della menzogna nella postmodernità: ne parliamo con la filosofa Franca D’Agostini
Media & politica, gli emuli di Pinocchio
di Rossana Sisti (Avvenire, 13 dicembre 2012 )
Come si fa a capire quando qualcuno sta ingannandoci? Come si può smascherare la menzogna? Collodi aveva scovato un metodo infallibile: il naso di Pinocchio. Nella realtà però la questione è parecchio diversa. Certo possiamo notare il rossore sul viso di chi sta per imbrogliarci, percepirne l’inquietudine da un gesto delle mani o da uno sbattere di ciglia, ma non “vediamo” la menzogna, come non “vediamo” la verità.
«Il fatto è che - spiega Franca D’Agostini, filosofa, e autrice di Menzogna, appena pubblicato da Bollati Boringhieri nella collana I sampietrini (pagine 134; 9 euro) - la verità è invisibile, come la menzogna: ma mentre per la prima è un danno, per la seconda è un evidente vantaggio. Non saprò mai se qualcuno sta mentendo o no, a meno che la persona in questione non confessi, o io non abbia evidenze di prima mano. E anche in quel caso, il mentitore potrebbe convincermi che non ho visto quel che ho visto, o addirittura non sto vedendo quel che vedo. Anche i neuro-scanner, o la “macchina della verità”, non danno alcuna certezza: colgono solo l’emozione che accompagna il mentire».
Dunque, nessuna soluzione? Davvero siamo vittime designate degli ingannatori, sempre e comunque? La proposta di D’Agostini è semplice: si tratta di capire come funziona la menzogna, quali sono le sue formidabili risorse, e le sue debolezze. E naturalmente per capire tutto questo è essenziale conoscere il funzionamento del concetto di verità. Ecco dunque il programma del libro: «esaminare la menzogna dal punto di vista della verità».
Il primo risultato dell’analisi è l’“asimmetria” tra vero e falso: «Il rovescio della verità ha centomila aspetti e un campo indefinito», sosteneva Montaigne, «se la menzogna avesse una sola faccia saremmo in una condizione migliore». Centomila forse è un numero eccessivo ma certo è che, come spiega D’Agostini, «la verità è una, mentre il non vero ha molti aspetti diversi. In pratica, questo significa che esistono molti modi di mentire: si può mentire dicendo mezze verità strategiche, o approfittando dell’ignoranza o della fiducia di chi ascolta; si può far credere il falso per allusioni, o implicazioni, producendo false tracce, o cancellando le tracce vere».
Nel libro i diversi modi di mentire sono esplorati con grande dovizia di esempi, in gran parte tratti dalla nostra esperienza recente (specie italiana). Per esempio la “premenzogna” è una versione dei fatti sviante e pregiudiziale, in cui si intrecciano mezze verità e falsità assolute. Se ripetuta con sufficiente ostinazione questa menzogna “preparatoria”, per così dire, finisce per diventare realtà di riferimento, e di lì in avanti guida e giustifica i ragionamenti dei mentitori tanto quanto quelli degli onesti.
«Così funzionano le ideologie, dice D’Agostini, in quelle situazioni di inganno generalizzato che sono i regimi totalitari. Hannah Arendt ha descritto molto bene il meccanismo manipolatorio nazista, come sistematica violazione della “verità di fatto”, a vantaggio di una presunta verità fittizia che descriveva una realtà inesistente: quella degli ebrei come distruttori del benessere del popolo tedesco. Procedono così la costruzione del nemico, gli antagonismi, le avversioni sociali, che «si installano su pregiudizi già attivi in una comunità, e diventano una vera e propria prigione intellettuale e morale».
Un tipo particolarmente insidioso di menzogna è poi quella per allusione, o per “implicatura”, come dicono i filosofi. «L’esempio più divertente è suggerito dal filosofo americano Josiah Royce: il capitano di una nave, preoccupato perché il suo secondo ufficiale beve troppo, registra ogni giorno, sul diario di bordo "oggi il secondo è ubriaco"; il secondo legge il diario, e scrive, una sola volta: “oggi il capitano non è ubriaco”. Evidentemente, chi leggeva poteva facilmente dedurne: “oggi no, tutti gli altri giorni sì”. Ecco dunque un modo rapido per dire il vero, lasciando intendere il falso».
Nel libro si racconta anche l’aneddoto medievale di Sant’Atanasio, inseguito dai suoi persecutori, che intendono crocifiggerlo: questi non lo conoscono, e incontrandolo gli chiedono «dov’è Atanasio?», e il sant’uomo risponde «non lontano da qui». Astuzia perdonabile, o menzogna bella e buona? «Le vostre reazioni alla storiella denunciano quanto per voi è importante la verità», commenta D’Agostini.
Ma perché oggi parliamo tanto di verità e menzogna, sui media, nel dibattito politico, nel linguaggio comune? La ragione è piuttosto semplice, spiega D’Agostini: «In una cultura iper-comunicativa e iper-informativa come è la nostra, diventa più facile comunicare, dunque tanto trasmettere informazioni vere quanto ingannare, fuorviare, manipolare un gran numero di persone. Per questo avere fiducia nella verità e al tempo stesso essere scettici, ossia attenti a evitare di cadere in trappola, devono diventare requisiti essenziali e primari del nostro modo di vivere. In democrazia, come in fondo sapevano i greci, dobbiamo diventare tutti filosofi, cioè essere grandi esperti di verità e non verità».
L’idea di D’Agostini è che le risorse non manchino. Perché oggi, spiega la filosofia, stiamo uscendo dall’ondata nichilista che è iniziata nell’Ottocento, e ha dominato il secolo scorso. «La cultura digitale ha messo in grado ciascuno di noi di controllare grandi quantità di informazioni: ci sono dunque le condizioni per una rinascita senza precedenti della funzione-verità, sta a noi saperle usare. Crescita di informazione significa certo crescita del quantitativo di menzogne, ma anche aumento delle possibilità di confronti incrociati, smentite e smascheramenti».
Del resto la menzogna da sempre si nutre di verità: il mentitore ne ha bisogno per conoscere le sue vittime, il contesto in cui agire, il linguaggio da usare... E prima o poi quel vero di cui deve servirsi gli si rivolta contro. Questo fa ben sperare. La frase di Hölderlin «lungo è il tempo, ma il vero avviene», secondo D’Agostini si può proprio intendere così: ogni vantaggio acquisito dal mentitore può trasformarsi, alla lunga, in un vantaggio per la verità.
Il presidente della Repubblica e quello della Camera
hanno ricordato a Napoli la figura di Enrico DE Nicola
L’appello di Napolitano e Fini
"Coesione per gli interessi del Paese"
NAPOLI - Un appello alla coesione nazionale del presidente della Repubblica e del presidente della Camera, che si ispirano alla figura di Enrico De Nicola e chiedono di non smarrire, nelle polemiche politiche, "il senso dell’interesse generale". "La libera dialettica di posizioni e di ruoli tra maggioranza e opposizione - afferma il presidente della Repubblica - non esclude che si riproponga in momenti di serie prove per il Paese, l’esigenza di non smarrire il senso del comune interesse nazionale".
Il Capo dello Stato è intervenuto a Napoli alla commemorazione di Enrico De Nicola a 50 anni dalla sua scomparsa. Il capo dello Stato parla del primo presidente della Repubblica italiana. Il primo insegnamento di De Nicola, sottolinea Napolitano, è "il supremo tenace attaccamento alla necessità di un clima di unità nazionale". Una lezione dalla quale "abbiamo ancora molto da imparare". E poi la seconda lezione di De Nicola: "Io stesso cerco sempre di imparare da quel che gli fu contestato come incorreggibile ’formalismo’ e che in realtà era correttezza e rigore nell’esercizio, da parte di ogni soggetto istituzionale, del proprio ruolo e dei propri poteri, rispettandone sempre i limiti invalicabili". E’ qualcosa, insiste Napolitano che "provocava insofferenza in altri soggetti istituzionali: ma egli ci ha lasciato una lezione di serena fermezza e di ciò gli siamo egualmente grati".
Il presidente della Camera Fini ha ricordato De Nicola "e la sua costante attenzione agli interessi superiori del Paese, un prezioso insegnamento sulla via di un rinnovato senso della coesione nazionale, sulla riaffermata appartenenza di tutti gli italiani alla stessa comunità nazionale".
"Non c’è dubbio - continua Fini - che senza passione è difficile affermare la partecipazione dei cittadini, che si nutre anche delle legittime idealità di parte". "Ma oggi, l’affermazione di quella che è la cosiddetta democrazia dell’alternanza in Italia e la fine delle contrapposizioni ideologiche - continua - ripropongono l’esigenza di valori unificanti e condivisi essendo comunque accettata l’idea che in un sistema bipolare ciò che unisce è altrettanto importante di ciò che divide".
Il presidente della Camera ha sottolineato che lo statista napoletano si formò in un Italia liberale e giolittiana "assai distante da quella odierna". "Ma - avverte Fini - i valori e gli ideali di quell’Italia lontana devono poter essere riscoperti per vincere le nostre sfide di Nazione democratica".
* LA REPUBBLICA, 5 gennaio 2010