Saussure: il dialogo, in principio.
DUE PERSONE CHE DISCORRONO...
Il punto fermissimo della ricerca saussuriana *
di Federico La Sala *
Compito preliminare per la comprensione adeguata di un testo dovrebbe essere quello di individuare (analisi) all’interno del testo stesso, quel punto di vista (ipotesi) da cui partendo sia possibile recuperarne (deduzione) l’unità e la totalità (sintesi). Tale operazione è fondamentale ove si voglia determinare «la logica specifica dell’oggetto specifico» e non saccheggiare il testo alla ricerca di qualche ipotesi-tesi a proprio uso e consumo. E questo soprattutto con testi d’ordine scientifico. Ad essi occorre applicare il loro stesso metodo. Solo movendosi nel senso del loro movimento è possibile comprenderne la logica. Ed è solo da questa comprensione che. dovrebbe partire l’utilizzazione del testo (e dei suoi elementi), non viceversa. Anche se questo modo di leggere le cose può sembrare faticoso, è da ricordare che nel regno della conoscenza non esistono vie regie, scorciatoie e simili. Solo attraverso il lavoro di appropriazione del testo in tutti i suoi particolari, e attraverso una serie di movimenti induttivi-deduttivi, è possibile: trovare quel determinato puntò di vista (l’ipotesi giusta) che permetterà la ‘riscrittura’ del testo stesso. Altrimenti ciò che ci si troverà dinanzi.- nell’assenza dell’occhio per vedere - sarà solo un ammasso caotico di elementi vari.
Il C.L.G. [= Corso di Linguistica generale], soprattutto perché ci è giunto in un certo stato (cioè, ricostituito a partire dagli appunti degli alunni e da note sparse dello stesso Saussure), è un testo che vuole essere letto in questo modo, nel suo modo. Quello stesso secondo il quale Saussure ha “letto” i fatti del linguaggio. Contribuire a una lettura quanto più sia possibile coerente e organica di questo importantissimo testo è quanto qui ci si propone. Intenzione specifica è - percorrendo abbastanza dettagliamene il testo - mettere in luce determinati livelli della ricerca saussuriana, la socialità e la scientificità.
Le nostre considerazioni si manterranno perciò e per lo più in questo ambito di problemi. Ciò non vuol dire naturalmente che esse saranno unilaterali. Anzi si crede che proprio questo ambito (sociale-scientifico) sia quello che più di tutti dia la possibilità di cogliere meglio l’organicità (e con essa il peso) della ricerca saussuriana.
Cominciamo. Socialità e scientificità sono coordinate fondamentali dell’orizzonte teorico di Saussure. E questo non a caso o per motivi personali, ma necessariamente, essendo l’area di ricerca per costituzione sociale. Si potrebbe dire (e ne siamo indirettamente autorizzati) che in Saussure, proprio perché «il linguaggio è fatto sociale» e proprio perché, «nella vita degli individui e delle società» è «un fattore più importante di ogni altro», nasce l’esigenza di sottrarlo alle fantasticherie e alle faccende private di qualche specialista (p. 16). Esigenza questa naturalmente non nata di colpo, ma storicamente data e storicamente condizionata.
«La linguistica non nasce tutta armata dalla testa di Saussure, né si produce da sola, per una sorta di misteriosa partenogenesi., Essa si viene invece formando nel giro di più anni, e si precisa e definisce principalmente come effetto della reazione di Saussure all’impostazione teorica della linguistica ottocentesca.
La tradizione linguistica precedente gli appare infatti come un ammasso di "idees fantastiques, mythologiques", sostanzialmente impressionistiche, che testimoniano di due deficienze di base: i) anzitutto la linguistica ottocentesca non ha idee chiare "sur la natùre de l’objekt de la linguistique"; ii) in secondo luogo essa è sostanzialmente priva di metodo, e non si pone altri problemi che non siano quelli di accumulo di materiali»(1).
Il problema dell’oggetto (objekt) e del metodo è determinante per una ricerca che voglia essere scientifica. E per Saussure cosa prioritaria e fondamentale da fare è, appunto perché si possa «costituire la vera scienza linguistica», «determinare la natura del suo oggetto di studio» (p. 12). Senza questa operazione elementare - egli rileva - una scienza è incapace di crearsi un metodo (p. 12). Senza questo momento è come se l’oggetto di studio non esistesse affatto. E ciò è tanto vero che, fatta l’operazione, ci sembra che «l’oggetto stesso, lungi dal precedere il punto di vista», sia stato «creato dal punto di vista» stesso (p. 17).
In Saussure esiste una precisa consapevolezza del rapporto tra l’oggetto-punto di vista e il metodo, «della connessione diretta fra la delimitazione dell’oggetto di una scienza e la costituzione metodologica della scienza stessa» (2). Ciò che egli si propone è l’analisi scientifica di un campo specifico di fenomeni, l’analisi determinata di un fatto sociale, il linguaggio. A questo scopo è necessario definire il punto di vista (che è poi l’oggetto stesso) e darsi il metodo adeguato.
Ecco come si presenta nel C.L.G. il movimento di individuazione dell’oggetto-punto di vista. Dato che “la materia (matière) della linguistica è costituita anzitutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun periodo non solo del linguaggio corretto e della “lingua buona”, ma delle espressioni di ogni forma”(p. 15) e che “preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico; esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale; non si lascia classificare in alcuna categoria di fatti umani, poiché non si sa come enucleare la sua verità”(p. 19), si pone il problema di trovare, all’interno di essa (matière), quell’oggetto-punto di vista da cui è possibile-necessario partire per dare ordine al caos dei fatti linguistici e creare l’oggetto steso.
Qual è l’oggetto che Saussure all’interno dei fatti del linguaggio individua? O, come egli si domanda, “qual è l’oggetto a un tempo integrale e concreto della linguistica?”.
Analizzate varie possibilità, visto che «da qualunque lato si affronti il problema, da nessuno ci si presenta l’oggetto integrale della linguistica» e che «se studiamo il linguaggio sotto parecchi aspetti in uno stesso momento, l’oggetto della linguistica ci appare un ammasso confuso di cose eteroclito e senza legame reciproco», anzi, «procedendo in tal modo si apre la porta a parecchie altre scienze» senza che queste dicano nulla della dimensione specifica del linguaggio stesso, non resta per Saussure che «una soluzione a tutte queste difficoltà: occorre porsi immediatamente sul terreno della lingua e prenderla per norma di tutte le altre manifestazioni del linguaggio». Infatti, egli prosegue, «soltanto la lingua sembra suscettibile di una definizione autonoma e fornisce un punto di appoggio soddisfacente» (p. 18).
La lingua, dunque, pur essendo uno tra i tanti possibili oggetti del linguaggio, è l’oggetto che all’analisi si mostra come il più importante, come l’essenziale. Questa sua importanza viene confermata immediatamente dal fatto che «dal momento in cui le assegniamo il primo posto tra i fatti dei linguaggio», permette di introdurre «un ordine naturale [cioè interno, proprio, fls] in un insieme» che prima in base ad altre ipotesi-punti di vista non si era potuto classificare-ordinare (p. 19). Fra i tanti possibili oggetti del linguaggio solo questo oggetto, la lingua, permette di fare una classificazione unitaria ed organica: «è la lingua che fa l’unità del linguaggio» (p. 20).
Soltanto da questo oggetto si ha e si può avere un ottimo punto di vista. In questa sua privilegiata posizione la lingua viene ad essere nello stesso tempo «una totalità e un principio di classificazione» (p. 19), appunto un oggetto e un punto di vista. Un punto di partenza e un punto di arrivo: nell’indagine è il punto di partenza, il punto di vista, l’ipotesi che ci guida e fa distinguere fra l’essenziale e il non-essenziale, una totalità astratta; nell’esposizione essa è il punto di arrivo, l’oggetto, una totalità concreta (per il pensiero), logicamente unita e dimostrata. Questi due movimenti (indagine ed esposizione: il punto di vista che diventa oggetto e l’oggetto che diventa punto di vista) sono due movimenti di uno stesso movimento: il metodo scientificamente corretto.
È con questo metodo che Saussure è avanzato tra i fatti del linguaggio e della lingua. È per essersi mosso in questo senso scientificamente corretto, pur se con limiti e contraddizioni, che egli è divenuto il fondatore della scienza linguistica propriamente detta, «quella il cui unico oggetto è la lingua» (p. 30). A questo rigore è dovuto il grande fascino di un libro come il C.L.G. che solo approssimativamente ci restituisce «la pensée definitive de son auteur». È in ciò la grande e degna vicinanza del suo Autore a un Galileo o a un Marx.
Saussure, individuato l’oggetto-guida, si mette in viaggio. Il cammino è nello stesso tempo facile e difficile. La guida stessa (la lingua in quanto ipotesi) indica la strada e dice quali luoghi visitare e quali no... se si vuole giungere a conoscerla com’è nella sua interezza. Ciò che essa pretende dal viaggiatore è solo una cosa, intelligenza e soprattutto agilità, piedi leggeri. Essa è un tipo un po’ bizzarro, molto unito ma anche molto distinto, tutta piena di polarità (rapporti oppositivi interdipendenti). Occorre per comprenderla muoversi (pensare) allo stesso modo. E Saussure vi riesce. Tanto è vero che la sua relazione di viaggio (il C.L. G.) è segnata da un “carattere profondamente dialettico”(3).
Vediamo di ricostruire un po’ questo “strano viaggio” dalla lingua alla lingua. Il percorso di Saussure è facilmente ricostruibile. Il suo punto di partenza è un fatto determinato, un preciso fatto sociale. Citiamo direttamente dal C.L.G.:
«Per trovare nell’insieme del linguaggio la sfera che corrisponde alla lingua, occorre collocarsi dinanzi all’atto individuale che permette di ricostituire il circuito delle parole. Questo atto presuppone almeno due individui, il minimo esigibile perché il circuito sia completo. Siano, dunque, due persone che discorrono: A e B.
Il punto di partenza del circuito è nel cervello di uno dei due individui, per esempio A, in cui i fatti di coscienza, che noi chiamiamo concetti, si trovano associati alle rappresentazioni dei segni linguistici o immagini acustiche che servono alla loro espressione. Supponiamo che un dato concetto faccia scattare nel cervello una corrispondente immagine acustica: è un fenomeno interamente psichico, seguito a sua volta da un processo fisiologico: il cervello trasmette agli organi della fonazione un impulso correlativo all’immagine; poi le onde sonore si propagano dalla bocca di A all’orecchio di B: processo puramente fisico. Successivamente, il circuito si prolunga in B in un ordine inverso: dall’orecchio al cervello, trasmissione fisiologica dell’immagine acustica; nel cervello, associazione psichica di questa immagine con il concetto corrispondente. Se B parla a sua volta, questo nuovo atto seguirà - dal suo cervello a quello di A - esattamente lo stesso cammino del primo e passerà attraverso le stesse fasi successive...”(p. 21).
Partire da questo punto socio-linguistico semplice non è casuale. Esso è il punto determinato in cui un movimento di indagine (l’analisi di un fatto sociale complesso, il linguaggio) di cui esso è il risultato (l’elemento più semplice, il minimo esigibile) e un movimento di esposizione di cui esso è il cominciamento si saldano organicamente.
Questo punto, a sua volta sottoposto ad analisi, ci conduce dinanzi al nostro oggetto di studio, la lingua. Infatti cos’è che rende possibile la parlata tra A e B? Evidentemente l’uso da parte dei due parlanti della stessa lingua. I quali possono comunicare, perché si muovono all’interno di uno stesso universo di segni, usano «gli stessi segni uniti agli stessi concetti» (p. 23). Segni (poi, significanti) e concetti (poi, significati) naturalmente non infusi in loro da qualche Spirito, ma appresi (e prodotti) all’interno della comunità in cui vivono [o che cosituiscono]. E apprendimento possibile grazie a una componente specifica della loro facoltà di linguaggio: «la facoltà di associazione e coordinazione». Questa facoltà svolge «il ruolo più grande» (ruolo che per ben comprenderlo, rileva Saussure, «occorre uscire dall’atto individuale, che è solo l’embrione del linguaggio, e abbordare il fatto sociale», p. 23) nel lavoro di organizzazione della lingua in sistema. Infatti «è attraverso il funzionamento della facoltà ricettiva e coordinativa che si formano nei soggetti parlanti alcune impronte che finiscono con l’essere sensibilmente le stesse in tutti».
E continuando: «Come bisogna rappresentarsi questo prodotto sociale perché la lingua appaia perfettamente depurata dal resto? Se potessimo abbracciare la somma delle immagini verbali immagazzinate in tutti gli individui, toccheremmo il legame sociale che costituisce la lingua. Questa è un tesoro depositato dalla pratica della parole nei soggetti appartenenti a una stessa comunità, un sistema grammaticale esistente virtualmente in ciascun cervello o, più esattamente, nel cervello d’un insieme di individui, dato che la lingua non è completa in nessun singolo individuo, ma esiste perfettamente soltanto nella massa. Separando la lingua dalla parole, si separa a un sol tempo: 1, ciò che è sociale da ciò che è individuale; 2; ciò che è essenziale da ciò che è accessorio e più o meno essenziale» (p. 23).
Citando ancora dal testo, ricapitoliamo i caratteri della lingua:
«1. È un oggetto ben definito nell’insieme eteroclito dei fatti di linguaggio. La si può localizzare nella parte determinata del circuito in cui un’immagine uditiva si .associa a un concetto. È la parte socia1e del linguaggio, esterna all’individuo, che da solo non può né crearla né modificarla; essa esiste solo in virtù d’una sorta di contratto stretto tra i membri della comunità. D’altra parte, l’individuo ha bisogno d’addestramento per conoscerne il gioco;. il bambino l’assimila solo a poco a poco. Essa è a tal punto una cosa distinta che un uomo, privato dell’uso della parole, conserva la lingua,purché comprenda i segni vocali che ascolta.
2. La lingua, distinta dalla parole, è un oggetto che si può studiare separatamente... La scienza della lingua può non solo disinteressarsi degli altri elementi del linguaggio, anzi è possibile soltanto se tali altri elementi non sono mescolati ad essa.
3. Mentre il linguaggio è eterogeneo, la lingua cosi delimitata è di natura omogenea: è un sistema di segni in cui essenziale è soltanto l’unione del senso e dell’immagine acustica ed in cui le due parti del segno sono egualmente psichiche.
4. La lingua, non meno della parole, è un oggetto di natura concreta, il che è un grande vantaggio per lo studio. I segni linguistici, pur essendo sostanzialmente psichici, non sono astrazioni; le associazioni ratificate dal consenso collettivo, che nel loro insieme costituiscono la lingua, sono realtà che hanno la loro sede nel cervello. Inoltre i segni della lingua sono, per dir cosi, tangibili; la scrittura può fissarli in immagini convenzionali, mentre sarebbe impossibile fotografare in tutti i loro dettagli gli atti della parole; la produzione fonica di una parola, per quanto piccola, comporta una infinità di movimenti muscolari estremamente difficili da conoscere e da raffigurare. Nella lingua, al contrario, non v’è altro che l’immagine acustica, e questa può tradursi in una immagine visiva costante...» (pp. 24-5).
Il discorso è chiaro e non ha bisogno di molti commenti. Per Sassure la lingua non è un’entità metafisica o altro, essa «non esiste che nei soggetti parlanti» (p. 14). In quanto tale, essa è «allo stesso tempo un prodotto sociale della facoltà di linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentir:e l’esercizio di questa facoltà negli individui» (p. 19). La lingua è cioè un prodotto e uno strumento sociale entro e grazie al quale agli individui è possibile realizzarsi come soggetti parlanti, esseri sociali. Non esiste una lingua senza una comunità di individui. È la comunità, la socialità a fondare e ad attuare «la facoltà di costituire una lingua, vale a dire un sistema di segni distinti corrispondenti a delle idee distinte» (p. 20), non viceversa. «La facoltà - naturale o no - di articolare paroles non si esercita se non mercé lo strumento creato e fornito dalla collettività» (p. 20).
Come non esiste prima l’individuo isolato e poi la società (come somma di più individui che fanno un contratto e si mettono insieme), così non esiste prima la parole e poi la langue (come somma di paroles).
Per il rapporto parole-langue vale per Saussure (nonostante alcune ambiguità, non di fondo e tutto sommato solo iniziali) quanto scrive Marx sui rapporto individuo-società: «È da evitare innanzitutto di fissare ancora la società come una astrazione di fronte all’individuo. L’individuo è ente sociale. La sua manifestazione di vita - anche se non appare nella forma diretta di una manifestazione di vita comune, compiuta a un tempo con altri - è quindi una manifestazione e una affermazione di vita sociale. La vita individuale e la vita generica dell’uomo non sono distinte, per quanto - e necessariamente - il modo di esistenza della vita individuale sia un modo più particolare o più generale di vita generica, e la vita generica una più particolare o più generale vita individuale»(4).
La parole è - pur nella sua specificità di fatto individuale - già parole sociale, fatto di langue. Entrambe, pur nella loro distinzione, non sono separabili dualisticamente. In Saussure, pur se talvolta si trovano luoghi che possano generare equivoci, è ben presente la consapevolezza della connessione ‘dialettica’(o, meglio, chiasmatica) tra langue e parole. E fondamentalmente non incorre in errori d’ipostatizzazione, né della langue, né della parole, né della facoltà di linguaggio.
Su questo rapporto tra langue e parole ecco una pagina molto chiara del C. L. G.: «Lo studio del linguaggio comporta, dunque, due parti: l’una, essenziale, ha per oggetto la lingua, che nella sua essenza è sociale e indipendente dall’individuo; questo studio è unicamente psichico; l’altra, secondaria, ha per oggetto la parte individuale del linguaggio, vale a dire la parole, ivi compresa la fonazione; essa è psicofisica. Senza dubbio, i due oggetti sono strettamente legati e si presuppongono a vicenda: la lingua è necessaria perché la parole sia intelligibile e produca tutti i suoi effetti; ma la parole è indispensabile perché la lingua si stabilisca; storicamente, il fatto di parole precede sempre. Come verrebbe in mente di associare un’idea a un’immagine verbale se non si cogliesse tale associazione anzitutto in un atto di parole? D’altra parte, solo ascoltando gli altri apprendiamo la nostra lingua materna; essa giunge a depositarsi nel nostro cervello solo in seguito a innumerevoli esperienze. Infine, è la parole che fa evolvere la lingua: sono le impressioni ricavate ascoltando gli altri che modificano le nostre abitudini linguistiche. V’è dunque interdipendenza tra la lingua e la parole; la prima è nello stesso tempo lo strumento e il prodotto della seconda. Ma tutto ciò non impedisce che esse siano due cose assolutamente distinte» (p. 29).
Se si tiene ferma questa chiara presa di posizione tanti luoghi del discorso saussuriano finiscono di apparire contraddittori (o di dare il via a ipotesi-tesi fantastiche). Che la lingua venga per cosi dire isolata è solo una necessità metodologica, per studiarla. E’ un’operazione propria del lavoro scientifico: astrarre dai fatti che sono esterni all’oggetto in esame.
Ecco al riguardo un altro e chiaro luogo del C.L.G.: «La lingua è un sistema che conosce soltanto l’ordine che gli è proprio». E Saussure, per essere ancora più chiaro, fa ricorso agli scacchi: «Un confronto col gioco degli scacchi farà capire meglio tutto ciò, poiché in tal caso è relativamente facile. distinguere ciò che è esterno da ciò che è interno: il fatto che il gioco sia passato dalla Persia in Europa è d’ordine esterno; ed è interno al contrario, tutto ciò che concerne il sistema e le regole. Se si sostituiscono dei pezzi di legno con dei pezzi di avorio il cambiamento è indifferente per il sistema: ma se aumenta o diminuisce il numero dei pezzi, questo cambiamento investe profondamente la ‘grammatica’ del gioco. Nondimeno è vero che occorre una certa attenzione per fare distinzioni del genere. Quindi dinanzi a ogni singolo caso ci si porrà la questione della natura del fenomeno, e per risolverlo si osserverà questa regola: è interno tutto ciò che intacca il sistema a qualsiasi livello» (pp. 33-34).
In questo come in ogni altro lavoro scientifico (compresa la lettura di un testo), se non si stabilisce e non si coglie il preciso livello d’astrazione in cui operare e ci si trova, si corre il rischio (o piuttosto la certezza) di non poter comprendere nulla e di mettere insieme cose che assolutamente insieme non stanno. Saussure molto correttamente inquadra la sua area di indagine e la sottopone ad analisi. Il suo oggetto di studio è un segmento determinato del circuito della parole, la langue. La lingua è il sociale della parole. In quanto tale, la lingua, per Saussure, non è assolutamente né qualcosa che stia lassù tra le nuvole né una realtà autofondantesi e simili, ma una realtà che, pur nella sua specificità (l’arbitrarietà), è fondamentalmente costituita di altro (la socialità).
Il polo sociale dell’oggetto lingua è interno all’oggetto stesso (“La sua - della lingua, fls - natura sociale è uno dei suoi caratteri interni», p. 96) e non esterno. Questo è un nodo essenziale della ricerca saussuriana (e da cui crediamo non si siano ancora tratte tutte le conseguenze). Anzi riteniamo che nell’essersi Saussure mosso in questo difficile equilibrio dinamico tra l’arbitrio e la socialità, poli entrambi costitutivi dell’oggetto-lingua, nell’aver quindi evitato una teoria ipostatizzante, cosa che avrebbe comportato e comporta l’esclusione nello stesso tempo del piano di fondazione e di una parte determinante dello stesso oggetto in esame (il sociale), il tutto riducendo ovviamente. a una proposta non scientifica e piattamente ideologica, sta gran parte del merito suo e del suo lavoro.
Il punto di partenza di Saussure è, dunque, un fatto socio-linguistico determinato: due persone che discorrono. Analizzando questo fatto, egli individua il suo oggetto di studio, la lingua. Che egli parta dal presente è un fatto di straordinaria rilevanza. Infatti proprio il partire da questo punto porta Sausure a rovesciare totalmente (G. Mounin parla di rivoluzione copernicana) l’ipostazione dello studio della linguistica.
Vediamo in che cosa consista questo capovolgimento. Riprendiamo il C.L.G. “La prima cosa che colpisce - rileva l’Autore - quando si studiano i fatti di lingua è che per il soggetto parlante la loro successione nel tempo è inesistente: il parlante si trova dinanzi a uno stato. E cosi il linguista che vuol comprendere tale stato deve fare tabula rasa di tutto ciò che l’ha prodotto e ignorare la diacronia. Egli può entrare nella coscienza dei soggetti parlanti solo sopprimendo il passato. L’intervento della storia non può che falsare il suo giudizio» (p. 100):
A e B possono comunicare perché usano la stessa lingua, non una lingua in generale, ma uno stato determinato di essa. Non esiste cioè la lingua, ma soggetti che parlano, qui ed ora, in una lingua determinata: «la massa parlante è l’unica realtà» (p. 109).
Questo preciso e concreto punto di partenza per lo studio dell’oggetto integrale della linguistica da una parte sbarra la strada a fantastiche disquisizioni sulla Lingua e sulle sue origini, e dall’altra impone un punto di vista contemporaneo al qui ed ora dei parlanti. Solo astraendo (“sopprimendo il passato”) dal movimento complessivo che ha prodotto quel determinato stato di lingua ne è possibile lo studio. Solo collocandosi nel determinato stato di lingua dei parlanti è possibile coglierne la lingua. La lingua «non è possibile né descriverla né fissarne le norme d’uso se non collocandosi in un certo stato» (p. 101), quello stesso dei parlanti.
A e B per parlare, e il linguista per descriverne la lingua, non hanno alcun bisogno della conoscenza del curriculum di quella lingua stessa. Anzi è da dire che, se vogliamo comprendere in modo veramente storico gli stati precedenti a quello in cui A e B parlano, occorre comprendere questo stato presente. Con questo, dunque, Saussure da una parte stabilisce la fondamentale distinzione (metodologica non sostanziale) tra due punti di vista nello studio dei fatti dell’oggetto-lingua, il sincronico e il diacronico (secondo se si voglia studiare uno stato di una lingua o «i fenomeni che fanno passare la lingua da uno stato all’altro», p. 100), dall’altra dà la precedenza al punto di vista sincronico. E ciò, come si comprende, è di eccezionale e fondamentale importanza.
Infatti se il linguista, rileva Saussure, «si colloca nella prospettiva diacronica», come si è fatto finora, non potrà percepire che «una serie di avvenimenti che modificano» la lingua (avvenimenti, è da dire, che, non conoscendosi lo status della lingua, non possono essere distinti e valutati adeguatamente per l’evoluzione della lingua stessa).
Pertanto, proprio l’esser partito in modo scientificamente corretto alla ricerca dell’oggetto integrale della linguistica e l’aver stabilito il giusto rapporto tra massa parlante e lingua, tra parole e langue, porta Saussure a rovesciare l’impostazione della linguistica precedente; anzi, cosa determinante per lo studio scientifico, lo conduce a stabilire il «primato teorico e metodologico della linguistica sincronica sulla linguistica diacronica»(5). Ed è proprio a partire da questo fondamentale rovesciamento (in primo piano lo studio dei rapporti nel sistema e in secondo quello dei rapporti nel tempo dell’oggetto-langue) che alla linguistica è data la possibilità di costituirsi criticamente come scienza rigorosa e nuova.
NOTE:
* [A celebrare (il ritrovamento e) la traduzione in italiano degli Scritti inediti di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (con introduzione, traduzione e commento di Tullio De Mauro, Editori Laterza, Bari 2005), riprendo qui un mio breve testo del 1975, come pubblicato dalla rivista “Euresis” (VIII, 1992, pp. 111-117) del Liceo Classico “M. Tullio Cicerone” di Sala Consilina, Salerno]. Si presentano qui alcune note di lettura, e per la lettura, dell’opera di Ferdinand de Saussure, Corso di Linguistica generale, introduzione, traduzione e çommento di Tullio De Mauro, Bari, Laterza, 1970 (prima edizione riveduta. La prima. edizione è del 1967, e l’ultima ristampa è del 1991).
1. R. Simone, Introduzione, p. 8, in Ferdinand De Saussure, Introduzione al 2° corso di Linguistica Generale, Roma, Astrolabio, 1970.
2. R. Simone, op. cit., pp. 8-9.
3. G. Mounin, Saussure, Firenze, Sansoni, 1971, p. 80.
4. K. Marx, Opere Filosofiche Giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 228.
5. G. Mounin, op. cit., p. 60.
* Il Dialogo, Martedì, 05 luglio 2005
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
Federico La Sala
LA TERRA, VISTA DALLO SPAZIO, IL DISAGIO NELLA CIVILTA’, UN PROBLEMA ANTROPOLOGICO DI "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE" (SAUSSURE): IL "SORGERE DELLA TERRA" ("EARTHRISE").
Due note a margine di due riflessioni relative alla storia delle idee e all’immaginario biblico della tradizione culturale mediterranea:
A) SU CATTOLICESIMO E ANTISEMITISMO:
Sollecitati dal recente film di Polanski , “L’ufficiale e la spia”, sul caso Dreyfus molti sono tornati a interrogarsi sulle ragioni dell’irrazionalità delle persecuzioni degli ebrei.
Bisogna ricordare, a chi non lo sapesse o volesse dimenticarlo, che la diffidenza verso gli ebrei (etichettati come «deicidi» in alcuni testi) è stata parte non secondaria del senso comune cattolico. Per fortuna ciò appartiene al passato e non tutto il mondo cattolico ne è stato coinvolto.
Ricordo che ancora nel 1958 nella liturgia cattolica del Venerdì santo il fedele diceva la preghiera che riporto in latino e in italiano.
Dopo vari aggiustamenti e rimozioni delle parti più imbarazzanti solo nel 1973 la preghiera viene riformulata in maniera radicale:
Chiarissimo prof. Franco Lo Piparo, un ricordo di cinque anni fa che è ancora carico di "radioattività" e sollecita a riflettere: condivido. Tuttavia, detto che "dopo vari aggiustamenti e rimozioni delle parti più imbarazzanti - come egli scrive - solo nel 1973 la preghiera ["per i pefidi giudei"] viene riformulata in maniera radicale" (cit.), non si può non affermare che si resta sempre nell’orizzonte di una vecchia "alleanza" cosmoteandrica, di una concezione molto tragica e poco "olimpica"di una "storia" come quella di Melchisedeck e dei "tre anelli" (del Decamerone" di Boccaccio), e, con essa, della incapacità dell’intera #umanità di pensare - come "principio" - il #Logos e la sua #Armonia ("in-dic-azione", già di Eraclito di Efeso).
Sostenere - come i leader israeliani colpiti da un «mandato d’arresto» - che una condanna dei loro crimini è «antisemitismo», è un gesto di arroganza così sfacciata da sconfinare nella stupidità. (Ed è in questa tenaglia che rischia di consumarsi il «suicidio di Israele» di cui parla Anna Foa).
E’ come dire che il Popolo Eletto non PUO’ commettere alcun crimine perché è «legibus solutus» come il sovrano hobbesiano, al di sopra di ogni legge umana e divina, e che se mai è razzista chi pretende di condannare crimini a loro dire inesistenti.
Il vero ebreo, l’ebreo pensoso che non straparla e non bestemmia con la parola Elezione ma ne porta il peso, sa quanto è assillante il rischio di deviare dalla Via, di allontanarsi dalla Legge, il rischio eterno dell’«adulterio» (essendo l’Elezione un’idea nuziale, l’idea di un esigentissimo eros divino) e della «vendetta» di un Dio giusto e «geloso» (che è poi, più in profondità, la legge metafisica di chi si allontana dalle «acque nutrienti» e si perde nel nulla). Il rischio insomma di «profanizzare» Israele, trasformando il mistero dell’«elezione» nel peggiore dei suprematismi etnici. Già il pensoso Scholem la temeva negli anni ’30, quella «vendetta».
I profeti biblici sarebbero inorriditi di fronte a questi pseudo-nipoti in puro delirio. Un nuovo Elia, forse, evocherebbe la pioggia di fuoco non più sui culti fenici ma su quel capolavoro di empietà arrogante che è l’attuale politica israeliana (longa manus, fin dall’inizio, del più cinico espansionismo anglosassone). (Flavio Piero Cuniberto).
SVEGLIARSI DAL COSMOTEANDRICO #LETARGO (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, 94) NARCISISTICO, CONNESSO CON LA "#CADUTA" IN PICCHIATA CON LA "#TESTA" PER "#TERRA", USCIRE DALLO "STATO DI MINORITà" (#KANT, #Koenigsberg 1784 / #Kaliningrad 2024), E #RINASCERE ANTROPOLOGICAMENTE ("SANO E SALVO"), FORSE, E’ ANCORA POSSIBILE....
Federico La Sala
UNA #HAMLETICA #QUESTIONE FILOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA DI #LUNGADURATA E
UN GRANDE SEGNAVIA PER USCIRE DALL’INFERNO, CON #DANTE E #PASOLINI...
Per Pasolini «chi ama è egoista, e vorrebbe tutta per sé la persona amata» (cfr. Emanuela Monini, "Tu sai che chi ama è egoista", "insula europea", 17 novembre 2024 ); ma, pur avendo capito, come scrive nel sonetto 110, che
HA difficoltà ad andare oltre sé stesso e riconoscere che "quel qualcosa che non aveva prezzo" è solo la "gaiezza" sua, non della "persona amata".
Il grande #dono della sua vita, forse, sta nel segnalare il "tradizionale" #nodo tragico del non riconoscere alla "persona amata" (gr."#Filomena") la sua #autonomia e la sua #libertà di #amare (gr. "#Filousa").
La sua passione per #DanteAlighieri lo ha portato, oltre la "#ego-logica" di san Paolo, sulla stessa strada e, deposto il suo "vorrebbe", gli ha permesso di giungere a consapevolezza della #dirittavia e a proseguire coraggiosamente il suo viaggio.
A ben distinguere e a ben unire, non è possibile confondere antropologicamente e filologicamente l’amore "prezzolato" (quello con il suo "#caro-prezzo"), la "#caritas", con quell’#amore, quel "qualcosa che non aveva prezzo, / ed era unico: non c’era codice né Chiesa / che lo classificasse", la "#charitas". Un grande segnavia, a mio parere, per uscire con Dante dall’inferno.
ANTROPOLOGIA, LINGUISTICA, E PSICOANALISI:
SULLE ALI PARADIGMATICHE DI UN MATRIMONIO, UN "VIAGGIO IN SICILIA" (#GOETHE) CON #DANTE, #SAUSSURE, E #FREUD.
A NON SOTTOVALUTARE l’importanza del lavoro di Franco Lo Piparo, "Sicilia isola continentale. Psicoanalisi di una identità" (Sellerio 2024), forse, è opportuno tenere presente il punto di vista (e di partenza) e l’oggetto (il punto di arrivo, il risultato) della ricerca, che riesce a riannodare strutturalmente e magistralmente (senza ricadere dentro lo "strutturalismo") insieme #lingua #istituzioni e #società.
IL SEGNAVIA è una formula di #matrimonio in volgare siciliano scritta in caratteri greci, forse, degli anni 1259/1266, durante il #regno di Manfredi di Svevia. Un percorso illuminante, a mio parere.
Per non sprecare questa occasione "storica", credo che sia opportuno non lasciarsi accecare (edipicamente) dal legame (per lo più giocastico) con la propria "santissima" #Mamma, la "Madre mediterranea", e accogliere al meglio cio’ che appare essere una straordinaria "risposta" di un "alunno" alle lezioni dei suoi "maestri" (a cominciare da Renato Guttuso, da Tullio De Mauro, e da Umberto Eco->), e, in particolare, una sollecitazione (da un "alunno" diventato "maestro", a pieno titolo) a ri-leggere antropologicamente il "Corso di Linguistica Generale" di Ferdinand de #Saussure, riprendendo il filo dal "circuito della #parole": "Siano, dunque, due persone che discorrono: A e B."!.
PLATONE E NOI, #OGGI (*):
"IL COLTELLO E LO STILO" E IL "CONCETTO". UNA RIFLESSIONE INTORNO A TEMI DI ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT, 1724-2024) E DI #COSMOTEANDRIA PLATONICA, PAOLINA ED HEGELIANA.
COME NASCONO I #BAMBINI, COME NASCONO LE #IDEE, COME NASCONO I #SOGNI? SE E’ VERO COME E’ VERO CHE « [...] Platone non può #concepire la “pura teoria” che come transito, necessario ma provvisorio, verso una restaurazione del dominio: un dominio certo fondato ora non sull’immediatezza della forza ma sulla cogenza di una verità neutralizzata, perciò necessariamente valida in universale.» (M. Vegetti, "Il coltello e lo stilo. Le origini della scienza occidentale", il Saggiatore, Milano 1996, p. 74), è possibile continuare a usare il "coltello" e lo "stilo" e, addirittura, a sezionare cadaveri all’inferno?! E’ mai possibile continuare a costruire piramidi come il "#Sapiente" (1510), ancora teorizzato da #Bovillus e dalla ecclesiastica "#Scuola di Atene" di #Raffaello (1509-1511) e a seguire sul piano di un #androcentrismo ateo e devoto la lezione teologico-politica di Paolo di Tarso?!
LEZIONE ANDROCENTRICA DI #TEOLOGIA-POLITICA DI #PAOLO DI #TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. PLATONE: ILLUMINISTA O TOTALITARIO?! PLATONE E NOI, OGGI.
ANTROPOGENESI FILOLOGIA E FILOSOFIA: CHE GRANDE "PREISTORIA" DELL’INTERA #UMANITA’ DEL PIANETA TERRA!
RIPARTIRE DA CAPO, E IMPARARE A #CONTARE, A #CALCOLARE...
INDIVIDUO E SPECIE: "L’ONTOGENESI RICAPITOLA LA FILOGENESI" (ERNST #HAECKEL).
MA QUALE "RICAPITOLAZIONE", COME DA #ANTROPOLOGIA COSMICA, QUALE QUELLA DI #DANTE ALIGHIERI ("L’#AMOR CHE MUOVE IL #SOLE E LE ALTRE #STELLE") O COME QUELLA (DELL’ATTUALE #PRESENTE STORICO) DA #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DA "#CAVERNA" PLATONICA E PAOLINA)?!
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1784). NON E’ IL CASO DI CORRERE AI RIPARI E, FINALMENTE, uscire dall’orizzonte della #tragedia e dal #letargo epistemologico e #correggere un’operazione #matematica "sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#Franca Ongaro #Basaglia, 1978)!!!
COSMOTEANDRIA E STORIA. LA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio [ ὅτι παντὸς ἀνδρὸς ἡ κεφαλὴ ὁ Χριστός ἐστιν, κεφαλὴ δὲ γυναικὸς ὁ ἀνήρ, κεφαλὴ δὲ ⸀τοῦ Χριστοῦ ὁ θεός.]"(1 Cor. 11, 1-3).
FILOSOFIA LINGUISTICA ANTROPOLOGIA E CRITICA:
UNA HAMLETICA QUESTIONE DI TEMPO E DI RAPPRESENTAZIONE (KANT).
SE, COME SCRIVE ERACLITO DI EFESO, "Il tempo [#aìon] è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo" (fr. 52), E, COME SCRIVE SHAKESPEARE NEL SUO "AMLETO", "il tempo è fuori dai cardini" ("The time is out of joint": "Hamlet", I.5), RICORDANDO KANT (1724-1804), E CONSIDERANDO "IL TEMPO ESAURITO" (Enrico Castelli, 1900-1977), alla luce di una sintetica "lezione" grafica di Umberto Eco, forse, è opportuno una ripresa di riflessione sul tema.
MEMORIA E STORIA. LA sollecitazione viene da una importante testimonianza di Franco Lo Piparo: "Mi sono ricordato di una vignetta filosofica sul tempo che Eco ideò in occasione di una mia conferenza all’Università di San Marino. Era il 26 gennaio 1995 [...]" (cfr. "UNA VIGNETTA FILOSOFICA DI ECO SUL TEMPO E ALTRE ANCORA",16 agosto 2024):
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA"). Umberto Eco, oso pensare (#sàpereaude!"), rendeva "silenziosamente" omaggio a Kant e alla sua "Critica della ragion pura": forse, egli aveva cominciato a lavorare intorno al libro che uscirà due anni dopo, "Kant e l’ornitorinco" (Bompiani 1997 - La nave di Teseo 2016) e stava già riflettendo sul rapporto "essere e tempo" e "tempo ed essere" a livello antropologico (nel tentativo di gettare luce sul lavoro di Kant e, infine, anche di Heidegger).
NOTA:
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA, PSICOANALISI, E CIVILTA’ (KANT 2024): CRITICA DELLA COSMOTEANDRIA OCCIDENTALE.
RIATTIVARE IL "CIRCUITO DELLA PAROLE". Oltre il lacanismo (e il paolinismo), l’omaggio di Sigmund Freud a Marie Bonaparte:
"La grande domanda, alla quale nemmeno io ho saputo rispondere, è questa: che cosa vuole la donna?” (Freud 1933). *
PIANETA TERRA: ALLA LUCE DEL "CANTICO DEI CANTICI" (è "l’amor che move il sole e le altre stelle"), DOPO MILLENNI DI COLONIZZAZIONE DEL " LOGOS" (DIVENTATO UN "#LOGO"), e, dopo aver gettato in pasto all’algoritmo la "lingua" ("#langue" ) del "Corso di linguistica generale" di Ferdinand de #Saussure, forse, è ora di ri-attivare antropologicamente il "circuito della #parole", e, al contempo, fare chiarezza sulle #ideologie falloforiche nelle loro tragiche pretese androcentriche e platonizzanti e passare alla "commedia" (#DanteAlighieri): almeno dai lavori di #Michelangelo Buonarroti, per riflettere teologicamente sul tema, le Sibille camminano insieme ai #Profeti nella Volta della #CappellaSistina e l’ amore di ogni "Maria" e ogni "Giuseppe" cerca di illuminare non solo il cammino di ogni loro bambino e di ogni loro bambina ("Gesù"), ma anche le loro stesse comunicazioni e le loro stesse relazioni tra di loro e con tutti gli esseri umani (e non solo).
Note:
CON DANTE ALIGHIERI, UN PASSO FUORI DALLA RAGNATELA "OLIMPICA" DELLA TRAGEDIA...
ANTROPOLOGIA, ARTE, COMUNICAZIONE, LINGUISTICA, PSICOANALISI, E FILOSOFIA. Quella di Louise Bourgeois è, a mio parere, una lezione di #antropologia culturale che manda in frantumi la piramide "androcentrica" del "Sapiente" (1509-1510) di #Bovillus (v. allegato), e, con essa, in "pensione" la "#ScuoladiAtene" di #Raffaello (1509-1511), grandi "manifesti" di "propaganda e fede" della tradizione teologico-politica occidentale (e non solo) e sollecita a riequilibrare il campo della #relazione antropologica e a rendere giustizia alla arte critica di ogni mitica "Aracne" (#Ovidio, "Metamorfosi").
DIVINA COMMEDIA. Dante Alighieri aveva capito: "In principio era il #Logos", non un #Logo, ed è "l’amor che move il Sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145).
NOTE:
INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (S. FREUD, 1899) E DEI NOMI (W. STEKEL, 1911): PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, LINGUAGGIO, E REALTA’.
NEL PROPORRE LA TRADUZIONE DELL’ARTICOLO DI WILHELM STEKEL (Vienna 1868 - Londra 1940), "Il vincolo dei nomi" ("Il passo psicoanalitico", 16 giugno 2024 ), #Michele #Lualdi premette una breve nota di chiarimenti storiografici di contestualizzazione per meglio far comprendere sia il lavoro di Stekel sia i rapporti dello stesso Stekel con il lavoro di Freud e degli altri psicoanalisti: l’articolo, proposto per la rivista "Zentralblatt für Psychoanalyse", nata nel 1910 e diretta da Freud, fu pubblicato invece sulla "Zeitschrift für Psychotherapie und Medizinische Psychologie" nel 1911.
MEMORIA. Detto che si tratta di "[...] un breve articolo sul rapporto tra nome (e cognome) di una persona da un lato e sintomi, abitudini, scelte di vita e d’amore dall’altro", Lualdi richiama e ricita da un suo precedente lavoro la interessante testimonianza di Stekel, proprio sul tema della pubblicazione dell’articolo: «“Freud indirizzò il suo primo veto contro di me; concerneva un saggio intitolato Il vincolo del nome”... prevedeva che i lettori avrebbero riso di me e conformemente al nostro accordo esercitò la sua prima opposizione. Allora io pubblicai l’articolo in un’altra rivista psicologica. Non vi furono né scherni né derisioni; al contrario, giunsero conferme da parte di molti ardenti freudiani.” (Lualdi, 2015, 245-56).» (op. cit.).
L’OMBELICO DEL "NOME": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA, LINGUISTICA, E TEOLOGICO-POLITICA. A cercare di illuminare le ragioni dell’uno (Freud) e dell’altro (Stekel) e di riprendere la riflessione teorica sul "vincolo dei nomi", forse, è opportuno ricollocare la questione all’interno del problema di memoria culturale e antropologica di lunga durata (cfr. #DanteAlighieri, "De Vulgari eloquentia"), che affonda le sue radici nel "biblico" dare il nome alle cose (#Genesi, 2.19) da parte di #Dio e da parte di #Adamo il nome agli animali (#androcentrismo prima della nascita di #Eva e dopo la "cacciata" di entrambi dall’#Eden) , e nella tradizione filosofica greca, nel "#Cratilo" del "so-cratico" e demiurgico #Platone.
L’OMBELICO DEL SOGNO: IL MONDO NON E’ IL MAPPAMONDO. Se si ripensa e si accoglie la scelta di epistemologia critica propria e già di Freud (1899), che «ogni sogno ha un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto» ("Interpretazione dei sogni"), riconoscendo ovviamente a Stekel tutto il valore della sua ricerca, oggi, forse, è meglio pensare che i nomi delle persone (i #bambini), come la "rappresentazione" dei #sogni "sognati" (e delle #idee "pensate"), hanno il loro ombelico e, che è opportuno ri-considerare antropologicamente la "nostra semenza" (#Dante, Inf. XXVI, 118 ), come la #semenza altrui (e quella degli stessi sogni e delle stesse idee di ogni essere umano).
NOTA:
CITTADINANZA ATTIVA, FACOLTA’ DI GIUDIZIO, E ANTROPOLOGIA: #SAPEREAUDE! (#KANT2024).
LA LINGUA (LA COSTITUZIONE) BATTE DOVE I DENTI (I PARTITI) DOLGONO. *
Tutte le articolazioni del "corpo mistico" della democratica società italiana scricchiolano alla grande, a tutti i livelli, e da tempo: e la radice è non solo locale, ma globale (antropologica, teologica, e cosmologica)!
*
TEATRO, METATEATRO, ANTROPOLOGIA E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: CON SHAKESPEARE E DANTE ALIGHIERI, OLTRE LA TRAGEDIA DI EDIPO E GIOCASTA...
HEGELISMO, PLATONISMO, FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA)*
"MENSCHWERDUNG" ("DIVENTARE UN ESSERE UMANO"). "Dio è amore" ("Deus charitas est"), condivido (è una questione di "h": "Charitas", gr. "Xapitas"). Hegel ha messo il dito nella piaga: "La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’#amore ["ein Spielen der Liebe"] con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio ["Arbeit"] del negativo" ("Fenomenologia dello Spirito", §19).
A ben "orientarsi nel pensiero" (Kant) e, al contempo, nel sollecitare una ri-considerazione unitaria della "Prefazione" ("Vorrede") della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel e la figura della profetessa di Mantinea, Diotima, a mio parere, emerge chiaramente il #nodo antropologico di fronte a cui Hegel si è trovato e che ha sciolto in modalità tragica, edipica e paolina, con tutta la "socratica" potenza di un #Napoleone (Alessandro Magno); non con lo spirito del #Logos (di Eraclito e dell’evangelista Giovanni) né della #Giustizia di Parmenide, egli ruba "alla #Platone" l’anima a Diotima ("Simposio") e ripropone una demiurgica e demogorgonica #cosmoteandria t(al)ebana: "[...] che il vero sia effettuale solo come sistema o che la sostanza sia essenzialmente soggetto ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’#assoluto come #spirito - elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua #religione" (Fenom. d. spir., § 22).
A che gioco giochiamo, a che giogo vogliamo continuare a giocare? Non è meglio, forse, riprendere il filo proprio da Diotima e, con Dante Alighieri ("Due Soli") e portarsi fuori dalla tragedia dei "Tempi moderni" (Charlie Chaplin)?
P. S. 1 - «Senza Hegel non sarebbe stato possibile neppure Darwin, afferma Nietzsche, e l’avrebbe potuto dire anche di se stesso; infatti chi si ammali una volta di hegelite - così mordacemente si era espresso un decennio prima - non ne guarirà mai del tutto. E che cosa sarebbe la critica alla religione di Fuerbach e di Marx, o anche quella odierna di Ernst Bloch e Georg Lukács senza Hegel?» (Hans Küng, "Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia", Queriniana, 1972).
P. S. 2 - EUROPA: CRISTIANESIMO CATTOLICESIMO COSTITUZIONE E SPIRITO DI ASSISI (1986). Quando Benedetto Croce pubblicò il suo «Perché non possiamo non dirci "cristiani"» (1942), don Giuseppe De Luca ’confessò’ al Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: si è "rincristianito per dispetto". Come concordato...!!!
*
FILOLOGIA. "STRUMENTI DELLA COMUNICAZIONE" (MARSHALL MCLUHAN), E COSMOTEANDRIA: LOGOS (LINGUA) E CHARITAS (AMORE) ED "ECCE HOMO" (QUESTIONE ANTROPOLOGICA). In memoria di Galileo Galilei e di Ferdinand de Saussure
Una nota* a margine della seguente "biblica" riflessione di Franco Lo Piparo:
*
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ED "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888). Dopo il sussurro "elianico" del CLG ("Corso di Linguistica Generale"), a quanto pare, stentiamo ancora a capire l’alfa e l’omega della parola ("parole") e della lingua ("langue"), e, continuiamo a cadere dalla padella del Vasaio alla brace del Sofista, nella "polifemica" caverna del Mentitore istituzionalizzato (Platone), il "regista" dell’Occidente e dell’intero Pianeta Terra: "Il Dio biblico non è un artigiano (artigiani e artisti erano gli dei creatori del mondo nella mitologia greca) ma un oratore. Crea con la parola."(Franco Lo Piparo).
FISICA, METAFISICA, ED ETICA: NICEA (325 - 2025)?! Dopo la vittoria di Galileo (Keplero: "Vicisti, Galilaee", 1611), il canto alla luna, "alla nuova luna" (Salvatore Quasimodo, 1958 ->Maturità 2023) è, forse, un segnale per cambiare rotta, uscire con Dante dall’inferno, rinascere nell’Infinito (Giacomo Leopardi), e riprendere a comunicare bene, nel giardino terrrestre?!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (KANT, 1800), "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888), E INFERNO EPISTEMOLOGICO.
IMMAGINARE, STORIOGRAFICAMENTE (E FILOSOFICAMENTE) CHE "la galileiana matematizzazione della natura" sia innanzitutto un’operazione contro Galileo, così come lo strutturalismo linguistico alla Lacan sia soprattutto una saussuriana matematizzazione del linguaggio" contro Saussure, è un bell’esempio di permanenza nel letargo (Par. XXXIII, 94) dell’inferno epistemologico della tragedia - contro la commedia e contro Dante.
Enrico Redaelli, nel suo libro "Judith Butler. Il sesso e la legge", "un attraversamento delle opere e del pensiero della femminista, attivista Lgbtq+, intellettuale militante e filosofa statunitense", nello sforzo di offrire un contributo critico alla discussione, scrive:
SE è VERO, come è vero CHE "La questione è più complessa e non priva di paradossi", non per questo è necessario costringere nelle vecchie botti della cosmoteandria platonico-heideggeriana l’acquisizione della relatività galileiana-einsteiniana, della consapevolezza antropologica dell’io che "non è padrone nemmeno in casa sua" e che le sue spiegazioni non sono interpretazioni di sogni, ma, a tutti i livelli, "costruzioni nell’analisi", sia in fisica sia in metafisica - criticamente, con Kant, Freud, e Franca Ongaro Basaglia.
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu
Giorgio R. Cardona: lo storico, l’orco e l’umano
di Corrado Bologna (Doppiozero, 7 Gennaio 2023)
Il suo pensiero era una rete di ragno lieve, mobilissima: in un istante annodava e connetteva idee, parole, conoscenze e realtà distanti anni luce. Al pari degli artisti, e come il mago e lo sciamano di Ernesto de Martino, Giorgio Raimondo Cardona era «il signore del limite, l’esploratore dell’oltre, l’eroe della presenza».
Convivevano in lui Mercurio e Vulcano, divinità complementari e contrapposte: «Mercurio la sintonia, ossia la partecipazione al mondo intorno a noi; Vulcano la focalità, ossia la concentrazione costruttiva», secondo la splendida formulazione che il suo amato Italo Calvino affidò alla lezione americana sulla Rapidità. Non so se Giorgio abbia avuto il tempo di leggerla, poiché il libro uscì da Garzanti il 7 luglio 1988, e lui scomparve il 14 di agosto, stroncato con furia dal fato. Ma mi piace pensare che sì, l’abbia letta, Giorgio, quella pagina mercuriale e vulcanica: lui che di Calvino raccoglitore di fiabe aveva colto, in un saggio del 1983 su Culture dell’oralità e culture della scrittura (lo si trova nel volume postumo I linguaggi del sapere che curai nel 1990 per Laterza), alcuni tratti che sembravano i suoi riflessi in uno specchio, velato da una leggera ironia: «stilista e riscrittore, ebanista di trame e percorsi, curioso del potere evocativo di suoni e parole, generatore di una lingua armoniosa ma freddamente imperturbabile e non localizzabile».
Giorgio Cardona creava ponti fra i saperi e le pratiche culturali. Volava, attraversava fulmineo spazi e tempi in cerca dell’umano nascosto nelle “cose”, perché, ripeteva con Marc Bloch, il vero storico «somiglia all’orco della fiaba: egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Fin da giovanissimo si era imposto come un maestro favoloso (insegnava glottologia e armeno classico, ma conosceva una decina di lingue orientali, africane, amerindie), e anche come un divulgatore di classe, misurato e appassionante, seducente e rigoroso. Accendeva luce, e continua ad accenderla nel pensiero che conserviamo vivo di lui, della sua vita e della sua opera.
Indimenticabili le sue lezioni affollatissime alla “Sapienza”, ma anche le sue interviste televisive e radiofoniche, le mostre da lui curate e presentate, come quella sulla scrittura, molto originale per i tempi (Charta, dal papiro al computer, 1988), o l’altra dedicata a restituire lo spaccato storico, antropologico, memoriale di un paese, Barbarano Romano, che nel 1979 si trasformò, grazie a Giorgio, a sua moglie Barbara Fiore, a Giovanna Antongini e Tito Spini, a Piero Berengo Gardin, in un laboratorio-fucina di possente vitalità, risonante della poesia a braccio cantata in ottave, con incredibili tenzoni all’osteria fra il sindaco del paese e un pastore analfabeta, chiamato “Barabba”, il quale creando all’impronta ricordava e “usava” a memoria Dante, l’Ariosto e il Tasso. Così Giorgio scovava l’umano, lo illuminava, lo salvava nell’arca della memoria scritta.
Per Giorgio Cardona scrivere, insegnare, pensare, significava accompagnare alla pari l’Altro in impensabili attraversamenti delle frontiere e nell’invenzione di rotte e di piste mai prima tentate, intricate come labirinti eppure nitidissime nel disegno che lui riusciva a delinearne. Qualche volta (come per l’etnolinguistica, l’antropologia della scrittura, la scienza della vocalità) questo superatore dei confini diventava anche un eccellente sistematore di saperi appena sbocciati. Con solidissima e sterminata erudizione e con rigore di grande filologo-antropologo fondò campi di ricerca impensati in Italia, si addentrò in foreste culturali ancora vergini, come un Livingstone coraggioso e curiosissimo. Quei saperi, quei territori stranieri, li accoglieva nella sua riflessione innovativa, integrandoli e importandoli in una cultura sostanzialmente ferma, sul piano della linguistica e dell’antropologia, all’esplosione dello strutturalismo.
Era nato il 7 gennaio 1943, e quindi proprio oggi compirebbe 80 anni, se il destino spietato non se lo fosse preso nel cuore della maturità, a 45 anni. Ma in realtà gli anni continua a compierli, vivo anche se invisibile, ogni volta che si legge una sua pagina, che si rammenta il suo pensiero. Ricordarlo significa soprattutto richiamarne lo spirito calorosamente ironico, l’entusiasmo per la ricerca e per l’insegnamento, la curiosità inesauribile. E questo in primo luogo per i più giovani che non lo hanno conosciuto di persona e che non sempre, ormai, hanno la possibilità di leggere i suoi libri meravigliosi, ancora di grande originalità nei nostri tempi di neuroscienze e di multidisciplinarità.
C’è assoluto bisogno di ripubblicare opere sue introvabili, come I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza e La foresta di piume. Manuale di etnoscienza, usciti insieme nel 1985 da Laterza. Un grande studioso lontano dall’orizzonte disciplinare di Giorgio quale Cesare Segre, in Notizie dalla crisi (1993), riprendendo l’idea fondativa di questi libri, che vede «il corpo umano come struttura fondamentale della condizione umana», salutò con piena adesione le sottili riflessioni di Cardona sul nesso «fra l’orientamento del corpo nello spazio e le preposizioni» e sulla «specularità fra l’uomo e il mondo», sull’«antropomorfizzazione del mondo e delle cose». E non a caso Giorgio si richiamava all’adorato Leonardo del Codice Trivulziano: «Ogni omo sempre si trova nel mezzo del mondo e sotto il mezzo del suo emisperio e sopra il centro d’esso mondo»: la postura eretta dell’Homo sapiens era già, per lui, l’Homo copernicanus che sfora con la testa oltre le nuvole, pronto a misurare anche l’immisurabile.
Io vorrei che i giovani potessero cercare in libreria, ripubblicata da qualche editore intelligente, anche la splendida Storia universale della scrittura (Mondadori, 1986), dove sbocciano fra l’altro, con strepitosa invenzione davvero calviniana, «la scrittura corporea» (oggi anche in Occidente il tatuaggio è diventato «un messaggio scritto» di forte connotazione sociale), «la scrittura colorata» («la nostra è un’epoca colorata quanto altre mai», rilevava Cardona), «la scrittura sognata» (mirabile la storia del sultano Njoya che sogna l’invenzione dell’alfabeto e così diviene l’eroe mitico di Fumban), addirittura «la scrittura inesistente» (un fantastico fuoco d’artificio di sapienza e di geniale serendipity).
Si può trovare di nuovo, per fortuna, l’Antropologia della scrittura (1981), riedita nel 2009 nella collana di Utet diretta da Vincenzo Matera, con una prefazione di Armando Petrucci, uno dei più grandi paleografi del nostro tempo. E quando leggiamo, dedicate a Cardona, le parole in cui Petrucci condensa il valore dell’esistenza di un uomo totale, non possiamo non pensare anche a lui, così vicino a Giorgio, che alla scrittura dedicò l’intera vita di studioso, con uno spirito radicalmente civile e politico: «Nessuno poteva seguirlo attraverso la fitta trama delle sue molteplici competenze, tutte apparentemente centrifughe e fra loro lontane; tutte, in realtà, centripete e guidate dalla sua suprema capacità di sintesi, verso un grumo unitario consistente nel confronto e nel rapporto fra attualità linguistico-grafiche e società». Entrambi, il maturo rifondatore della paleografia come scienza umana e il giovane maestro di linguistica come disciplina antropologica, ci hanno insegnato a ripercorrere a ritroso il movimento che va, nell’evento della scrittura, dalla mente alla mano, traducendo l’idea in azione e cosa, in testimonianza e eredità. Entrambi hanno messo in luce i più segreti aspetti antropologici, sociologici, letterari, artistici, celati nei sistemi di comunicazione grafica, facendo risaltare l’importanza del rapporto fra il pensiero istantaneo e il lento moto della mano che, inseguendo quel flusso sfolgorante, crea semplici manufatti e opere d’arte, allinea lettere per dare alle idee corpo vocale di parola.
Per Cardona, come per Petrucci, la scrittura non è solo un’invenzione tecnica destinata alla comunicazione e alla conservazione, appunto, di parole e idee: ma una struttura complessa, di valore anche ideologico e simbolico, su cui le società edificano e controllano i sistemi di conoscenza e di manipolazione della realtà. Studiare una scrittura cogliendone le valenze gnoseologiche, sacrali, magiche, divinatorie, significa apprezzarne il radicamento entro una civiltà, nella sua visione del mondo. Come dice in Antropologia della scrittura, il ricorso all’atto di scrivere si collega immediatamente all’acquisizione da parte della civiltà umana di «un collegamento tra pensiero e simboli materiali; per la prima volta la specie veniva a istituire un rapporto simbolico tra operazioni mentali e simboli esterni, eseguiti volontariamente. Se il rapporto tra pensiero e utensile è un rapporto sostanzialmente operativo (lo strumento non solo rendeva possibili certe operazioni, prima soltanto pensate, ma ne permetteva anche altre, prima non pensabili), quello tra pensiero e immagine è eminentemente simbolico: l’immagine viene caricata di un significato che essa restituirà in un qualsiasi momento, non appena riconsultata. L’attività grafica rappresenta quindi un ampliamento delle capacità conoscitive, ed è anche una caratteristica esclusiva della specie homo sapiens, visto che né il linguaggio né lo stesso uso di utensili lo sono».
Ho ricordato poco fa Marc Bloch, maestro di pensiero della storia come storia dell’umano. Nella dedica a Lucien Febvre dell’Apologia della storia Bloch indicava la rotta dell’umanesimo di ogni ricerca storica: «A lungo e concordemente abbiamo lottato per una storia più ampia e più umana». E Cardona, insieme con Petrucci e i loro comuni allievi, condivise nei fatti la definizione del lavoro di storico che lo stesso Bloch cesellò con grande umiltà: «il memento di un artigiano che ha sempre amato meditare sul proprio compito quotidiano, il taccuino di un operaio che, pur avendo a lungo maneggiato tesa e livello, non si crede, per ciò, un matematico». Cardona e Petrucci, facendo convergere le loro discipline, la paleografia e la linguistica, in dimensioni mai in precedenza esplorate, ci insegnarono a risalire sempre dalle tracce ai loro produttori, dalle testimonianze ai tempi, ai luoghi e alle condizioni in cui esse hanno preso forma. Su questo orizzonte vale per loro la splendida autodefinizione di Henri Pirenne riferita da Bloch: «“Se io fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma io sono uno storico. È per questo che amo la vita”». E tanto più il commento di Bloch: «Questa capacità di afferrare il vivente, ecco davvero, in effetti, la qualità sovrana dello storico».
«Afferrare il vivente» è lo scopo dello storico, dell’antropologo, del linguista, del paleografo, in misura somma di studiosi dalla natura mercuriale e vulcanica come Giorgio Cardona: cercare di percepire, ancora pulsante dopo secoli di immobilità e di silenzio o nascosti nelle pieghe di una civiltà lontana e diversissima, il «fremito della vita umana».
Un’altra riflessione di Cardona nell’Antropologia della scrittura ribadisce che l’attività grafica di ogni scrivente costituisce la modellizzazione primaria non tanto della parola, quanto appunto del pensiero: ed è questo lo scopo finale dell’antropologia della scrittura. «La comprensione della funzione grafica [è] per noi seriamente limitata dal presupposto che si debba partire dalla codificazione della lingua. Considerando questa la prima e più importante funzione della scrittura, ci si impedisce di cogliere all’opera la funzione grafica come modellizzazione primaria del pensiero». E ancora: «La scrittura fornisce a chi la possiede anche un modello organizzativo e classificatorio delle conoscenze, una sorta di casellario in cui disporre le cose da ricordare. [...] È [...] abbastanza ovvio che per noi studio, applicazione mentale, sforzo intellettuale siano sinonimi soprattutto di parola scritta, di righe di testo con cui ci si confronta per molte e molte ore della propria vita. Questa simbiosi con la forma scritta è per noi ormai così avanzata che, salvo in rarissimi casi, l’organizzazione stessa di un contenuto mentale [...] richiede che i nostri pensieri assumano forma scritta per potervi riflettere. [...] Così anche l’attività mentale, speculativa, raziocinante, analitica, è, in buona parte e per molti, riflessione in margine a un testo scritto, sia pure da noi stessi prodotto, e lo spostare una virgola o sottolineare una parola ha per noi il valore di un atto di pensiero e di riflessione. Dunque buona parte delle nostre attività conoscitive e mentali in genere ha come punto di partenza il riferimento al modello della scrittura».
Insomma: pensiamo come scriviamo, e scriviamo come pensiamo. Il moto del pensiero, ondulatorio e desultorio quanto si voglia, viene per così dire messo in riga nell’esecuzione dell’atto conoscitivo, quasi fosse una scrittura. Al di là dei tantissimi specialismi che dominava, Giorgio desiderava sopra ogni cosa fare esperienza diretta della mente umana. Voleva penetrare il suo macchinismo e il suo organismo, cogliere la struttura-base del suo funzionamento, del suo agire, delle sue forme. Come pensa l’uomo? Qual è la forza, quali sono i modelli che plasmano e muovono il pensiero, fra la sperimentazione del mondo e la sua conoscenza ordinata? Il tema e il modo del ricercare in Giorgio si inseguivano, si corrispondevano esattamente. Avanzava la forza limpida della sua argomentazione, proprio come fluisce liquido il pensiero nel solco della scrittura.
Andando a caccia dell’«organizzazione stessa del pensiero», Giorgio Cardona capì, dieci o vent’anni prima di Oliver Sacks, Gerald M. Edelmann e António Damásio, che la mente non è solo linguistica, ma visiva, emozionale, passionale: i segni linguistici, diceva in La foresta di piume, «non ci danno automaticamente l’immagine del campo noetico corrispondente, perché non tutti i nuclei concettuali devono necessariamente trovare riflesso in un segno; tra il piano noetico soltanto e quello linguistico non c’è necessariamente isomorfismo». Il titolo del libro parla chiaro: il linguaggio “poggia” sul pensiero, lo plasma, prende forma in esso, lo indirizza e lo fa fluire. Ma non coincide con esso, così come un albero può essere coperto di uccelli senza mutare la sua natura, ma accogliendo, sostenendo, i volatili che vi si posano.
Come «la scrittura sognata», che unicamente il suo acume poteva scovare, il pensiero stesso si rivela prosa del mondo, «messa in forma dei significati del mondo che abbiamo cercato e desiderato nella veglia, e che solo nel sogno prende contorni e suddivisioni» (Storia universale della scrittura). E questo dare contorni, suddividere, articolare la realtà, è l’opera del linguaggio, «elemento primario nella vita di una comunità, strumento fondamentale dell’interazione tra uomo ed uomo» (Introduzione all’etnolinguistica, 1976, riedita per UTET da Vincenzo Matera, con una introduzione di Marco Mancini, nel 2006).
Fra gli strumenti più fini, quasi invisibili, di controllo e di interazione sociale Giorgio Cardona individuava i giochi di parole, i proverbi, gli insulti, i richiami, gli indovinelli: stili di pensiero, ritmi musicali che la voce innesta nel tempo quotidiano ritagliandovi la sospensione della prosa, e facendovi balenare il tempo del mito, il fulmine della poesia.
LINGUISTICA, ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, E APOCALISSE [1, 8]: "L’INFINITO", IL "CONOSCI TE STESSO", E IL TEMPO DELL’AORISTO.
Una domanda all’altezza dei tempi:*
Brillantissima, epocale domanda, questa di Salvo Micciché! Una sollecitazione straordinaria a svegliarsi da un letargo più che millenario e a prendere la parola: annuncia, forse, un grande Natale2022, un BuonAnno2023? Boh? Bah?!
Dalle profondità oceaniche, dalla fossa labirintica di ogni M-Arianna, intanto, egli ha riportato spiritosa-mente - alla luce di una generale coscienza caduta in un sonno dogmatico profondo - l’implicito e l’indeterminato tempo del γνῶϑι σεαυτόν "conosci te stesso", di ogni comunicazione di ogni essere umano: l’A e l’O... risto [Ap. 1, 8].
*
"Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./ Ma sedendo e mirando, interminati/ spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quïete/ io nel pensier mi fingo; ove per poco/ il cor non si spaura. E come il #vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa #voce / vo comparando: e mi sovvien l’#eterno, /e le morte stagioni, e la presente /e viva, e il suon di lei. Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio: /e il naufragar m’è dolce in questo mare" (Giacomo Leopardi, "L’Infinito").
FLS
Chi ricorda la fatina muta?
di Pietro Barbetta (Doppiozero, 20 Novembre 2022)
Ricordo che, in prima elementare, sui muri della classe, erano appese alcune tavole di cartoncino bianco, simili a quelle di un test proiettivo, come le macchie di Rorschach. In ognuna di queste tavole c’era un’immagine. Rivedo con nitidezza il dado che rappresenta la letterina D dell’alfabeto. Ma, tra le altre, ricordo anche una strana tavola, inquietante, o, come direbbe uno psicoanalista, perturbante: la fatina muta, che rappresenta un fonema afono, la lettera H della lingua italiana. Esiste tra le ventuno, come ottava lettera dell’alfabeto, ma non si pronuncia. Pensare alla negazione mi riporta a questa immagine, a interrogare, quindi, il linguaggio e il suo rapporto con quel che gli sta fuori: il corpo, l’immaginario e il niente.
La fatina muta potrà servire al lettore per cogliere intuitivamente la realtà complessa di questo strano fenomeno: quello di un suono assente. Aspetto relativo alla negazione che silenziosamente si mostra durante l’apprendimento della lingua materna.
Nel 2007 è stata pubblicata per Quodlibet la traduzione di un testo di Daniel Heller-Roazen, Ecolalie: l’autore, in questo volume ci parla in modo completo di tutti quei fenomeni linguistici che somigliano alla fatina muta. Il processo infantile di apprendimento della lingua è inevitabilmente una perdita, la caduta di un’enorme quantità di fonemi dallo spazio cognitivo dell’infante. Così esordisce Heller-Roazen: “I suoni prodotti dal bambino nelle onomatopee rappresenterebbero forse gli ultimi scampoli di un balbettio altrimenti dimenticato, o non sarebbero piuttosto i segni di una lingua di là da venire?”
In prima elementare, quando non sentiamo la presenza evidente della fatina muta, cosa stiamo perdendo? Da un caotico sistema di rumori, suoni, versi e fonemi, che la voce può emettere, per apprendere la lingua materna bisogna eliminarne alcuni. Mentre si crea un ordine linguistico, dunque, si riducono drasticamente le potenzialità fonetiche del soggetto. Questo è apprendere.
Il termine “ecolalie”, usato da Heller-Roazen, si riferisce al suo maestro Roman Jakobson, autore di Linguaggio infantile, afasia ed universali fonologici, apparso nel 1971 per Einaudi in Il farsi e il disfarsi del linguaggio. Linguaggio infantile e afasia.
Il paradosso della negazione linguistica è che, quando si perdono le competenze linguistiche di base, emergono le ecolalie, suoni inusitati. Quei fonemi che avevamo perduto durante l’apprendimento della lingua materna riemergono, senza significato, assieme a uno strano modo di gesticolare. Heller-Roazen conclude che la lingua madre non basta a se stessa: “È qui che la lingua, gesticolando oltre se stessa in un discorso che non può dirsi tale, si apre a una non-lingua che la precede e la segue”.
Queste ricerche insistono sulla relazione tra il corpo e il linguaggio, come se, questi due fenomeni dell’esistenza, corpo e linguaggio, non fossero due, ma uno solo: tra corpo e linguaggio vi è reciproca immanenza, ce lo insegnano i corpi teneri dei neonati e dei feriti, che gridano, lamentano, gioiscono e non si lasciano comprendere nel loro dirci, con espressione. Qualcosa che per l’altro rimane oscuro.
Che cosa accade durante la prima infanzia e nella patologia? Suoni strani, inusitati, vengono emessi dell’infante e, nella patologia, recuperati.
Nel linguaggio psicopatologico viene imposta una distinzione tra ecolalia e glossolalia. Per ecolalia si intende, di norma, una ripetizione senza senso di alcune frasi o parole, udite dal paziente; con glossolalia invece ci si riferisce a una sorta di nuovo linguaggio idiosincrasico inventato dal paziente. Nel caso ecolalico si parla di afasia, un danno al sistema nervoso; la glossolalia invece riguarda la follia, ma anche l’esperienza religiosa pentecostale, o i canti delle donne durante i funerali. In entrambi i casi però la questione riguarda la produzione di rumori, suoni, versi, grida che evocano fonemi negati al discorso, cioè alla lingua ufficiale del parlante. Ma anche esperienze del corpo; le tarantate di Galatina, studiate da Ernesto De Martino, per esempio, producono glossolalie e movimenti eco-gestuali, simili a quelli delle bambine quando l’adulto le rimprovera di stare “composte”.
Le ecolalie perdute durante l’apprendimento della lingua materna riemergono nei fenomeni afasici conseguenti ai danni focali di un’ischemia o di una violenta contusione alla testa oppure, nelle glossolalie, di un paziente schizofrenico, quale fu Antonin Artaud, che ne ricavò forme poetiche, o non schizofrenico, quale fu James Joyce in Finnegans Wake.
Negli anni Sessanta, presso le scuole elementari si insegnava l’alfabeto a partire da un rapporto biunivoco tra il segno e la pronuncia. In quel contesto, tutto funziona bene fin quando ci si trova di fronte alla “fatina muta”.
L’infante alle prese con la parola scritta si chiede che senso ha una lettera che non si emette, una funzione che serve solo a rendere dure un paio di consonanti gutturali. Il testo di Heller-Roazen indaga questo fenomeno sul piano ontogenetico, nei primi due capitoli - quando scrive intorno alla crescita/perdita infantile - e filogenetico, quando parla, con grande competenza, della creazione storico sociale delle lingue. Le lingue sono tali perché esiste un’indefinita quantità di suoni che vengono negati. Un po’ come nella Biblioteca di Babele raccontata da Jorge Luis Borges.
Esiste un modo per ricreare quel tempo perduto? Forse sì, ma bisogna cambiare epistemologia.
FREUD E LACAN: ATTO PSICOANALITICO, METAFISICA DELL’ESPERIENZA ED ETICA DELLA PSICOANALISI. Un omaggio al prof. di Filosofia, H. J. PATON, amico di Wilfred Bion ...
RIPARTENDO DA LONDRA, (J. Lacan, "LA PSICHIATRIA INGLESE E LA GUERRA", 1947) E RITENENDO IMPORTANTE OGGI PIù DI IERI, QUANTO SCRITTO nell’editoriale degli "Appunti" della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del Campo Freudiano (Giugno 2016), che l’atto_analitico è "un concetto nuovo" che si deve a Lacan: “L’atto psicoanalitico, mai visto né sentito se non da noi, vale a dire mai notato, e ancor meno messo in discussione, ecco che invece noi lo poniamo come il momento elettivo del passaggio dello psicoanalizzante a psicoanalista”; “Ciò che chiamiamo la seduta è un lasso di tempo in cui si tratta dello stabilirsi di un rapporto con la dimensione fuori tempo dell’inconscio [...]” (cfr. SLPcf), FORSE, POTREBBE essere una buona idea, per riflettere di nuovo sul "tempo e l’atto nella pratica della psicoanalisi", mettere a disposizione in lingua italiana le opere di H.J. PATON: 1). "Kant’s Metaphysics of Experience (1936); 2) "The Categorical Imperative" (1947).
STORIA E STORIOGRAFIA: "APPRENDERE DALL’ESPERIENZA". A ben vedere, il titolo dell’opera di W. R. BION offre una indicazione-chiave, carica di teoria: richiama "ovviamente" l’amicizia di Wilfred R. Bion con Herbert James Paton e le sue indicazioni sulla via critica dell’imperativo categorico e della metafisica dell’ esperienza di Kant" (e, freudianamente e assolutamente, non la via paolina del "Kant con Sade" di Lacan).
Federico La Sala
SCIENZA NUOVA:
NUOVO ANNO ACCADEMICO E NUOVO RETTORE ALL’UNIVERSITÀ DI MACERATA.
UN OMAGGIO A John McCourt - in ricordo dell’omaggio di James Joyce a Giambattista Vico...
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"The Vico road goes round and round to meet where terms begin. Still anappealed to by the cycles and onappaled by the recourses, we fill all serene, never you fret, as regards our dutyful cask... before there was a man in Ireland there was a lord in Lucan" (James Joyce, "Finnegans Wake").
"La strada di Vico gira e rigira per congiungersi là dove i termini hanno inizio. Tuttora inappellati dai cicli e indisturbati dai ricorsi, sentiamo tutti sereni, mai preoccupati al nostro doveroso compito... Prima che vi fosse un uomo in #Irlanda c’era un lord in Lucania" (Vico ha abitato per vari anni a Vatolla, poco distante da Paestum, Agropoli, Elea e Palinuro). ***
UNIMC: ORTO DEI PENSATORI E CORTILE DELLA FILOSOFIA. *
Chiarissimo John McCourt, augural-mente, per ben iniziare i lavori e meglio illuminare il cammino nella nuova #direzione, ripensando al profondo legame di James Joyce con Giambattista Vico (vissuto per quasi dieci anni in Lucania, oggi Cilento), forse, non è male ricordare di considerare la particolare rilevanza per il "Dip. di Scienze della formazione, dei beni culturali e del turismo", dell’antica città di Elea - Velia /Ascea), invitare a rileggere il "Poema" di Parmenide e a ripercorrere la strada che portava sull’acropoli, al tempio della Dea Giustizia (Dike): come si sa, la via non passa e non è mai passata attraverso la cosiddetta "Porta Rosa", ma attraverso il ponte, il viadotto che passa appunto sopra la cosiddetta "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa). Contrariamente a quanto pensava Platone (e hanno pensato nei secoli i suoi "nipotini"), il #Logos della città di Parmenide, non il Logo del padrone di una #caverna, era ed è il fondamento stesso del dialogo, «l’unico ponte tra le persone» (Albert Camus). Moltissimi auguri. Buon inizio...
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ARCHEOLOGIA, PSICOANALISI, E PLATONISMO PER IL POPOLO:
Osare mettere il dito nella "piaga" e interrogarsi sulla storia del nome della "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa#Storia). A mio parere, la "cosa" è carica di teoria e qui è opportuno (per capire) ricollegarsi a Freud e andare oltre Lacan: è una questione di immaginario e di una "logica" più che bimillenaria e ... di "fretta".
L’Archeologo, probabilmente troppo eccitato dalla scoperta, ha voluto rendere omaggio alla propria compagna, alla luce della propria e generale tragica tradizionale concezione della donna (un vicolo cieco in cui mettere il proprio seme e far fiorire la pianta), senza fare i conti con le spine della Dea Giustizia (Dike) e la Costituzione (il Logos) materiale e spirituale della stessa città di Elea (come della Repubblica Italiana): "Il dialogo è l’unico ponte tra le persone" (Albert Camus)!
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QUESTIONE ANTROPOLOGICA: L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!! E CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINI E CITTADINE D’ITALIA!
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, LOGICA PSICOANALISI E COSTITUZIONE: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (non il Logo di una fattoria).
DIO E LE LETTERE DELL’ALFABETO. Questa storiella dello Zohar "nasconde" una grande lezione di logica e matematica, antropologia e teologia (e, a mio parere, offre la chiave per meglio capire il senso stesso del riferimento di Baruch Spinoza al detto Homo Homini Deus Est e il messaggio dell’ impresa di Dante Alighieri).
Quando si comincia a contare, da dove bisogna cominciare, per iniziare bene ed essere gà a metà dell’opera?! Chi è che conta e da dove inizia. Perché (come qui, nella storiella dello Zohar) dalla Bet?
Premesso che le lettere dell’alfabeto ebraico sono anche numeri e, quindi, hanno un valore numerico, è opportuno ricordare che alef vale zero (= 0) e che bet vale uno (= 1); e, quando si comincia a contare, si comincia a contare da uno (= 1), appunto, da bet.
Per non perdere la #bussola e, ancor di più, per non lasciarsi sopraffare dalla narcisismica terremotante tentazione di truccare le carte e il conto, però, occorre tenere ben presente che al "Dio" che conta, in un altro testo decisivo della tradizione biblica (Apocalisse di Giovanni), è attribuita la seguente importantissima frase: "Io sono l’alfa e l’omega" (greco koinè: "ἐγὼ τὸ Α καὶ τὸ Ω"). La precisazione è decisiva...
Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). A ben riflettere sull’apocalittica frase, si apre la porta di una chiara #comprensione sul Chi (= X) lega e sa legare "il principio e la fine" (Apocalisse 21:6, 22:13) e, al contempo, sul buon messaggio stesso della "Divina Commedia": "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
L’alfa (il principio) e l’omega (la fine), e la bet ("la prima lettera dell’alfabeto), la lettera che indica ""il verso giusto del cammino"!
Bet, la lettera di Benedizione ....
LA PIETRA FONDAMENTALE E LA PIETRA ANGOLARE: "ECCE HOMO". Ogni Uno (=1), Ognuno (ogni Eva e ogni Adamo, ogni Maria e ogni Giuseppe), Ogni Essere umano (Everyman, così Dante Alighieri per Ezra Pound), è antropologicamente e linguistica-mente la lettera dell’alfabeto, la Bet, la lettera di Benedizione e Bereshìt, la Parola che sta "Nel Principio": "Nel Principio era il Logos". L’amor che move il sole e le altre stelle....
PSICOANALISI E FILOSOFIA.
SU FREUD: RIPARTIRE DAL PRINCIPIO.
Per comprendere meglio Freud e la sua "rivoluzione psicoanalitica" ("Die Frage der Laienanalyse",“Il Problema dell’analisi profana”: «Non succede nulla di strano, i due si parlano. [...] L’analista dà appuntamento al paziente a una certa ora del giorno, lo lascia parlare, lo ascolta, poi gli parla e gli chiede di ascoltare ciò che ha da dirgli»"), c’è solo da salire su una grande nave, scendere nella stiva, e rileggere il "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano" di Galileo Galilei: a partire da Copernico, da qui (da questa opera) prende il via la navigazione nell’oceano celeste (Keplero) e si apre la strada alla relatività di Einstein (e non al relativismo culturale dell’antropologia culturale e di Gregory Bateson!), alla rivoluzione copernicana di Kant, e alla rivoluzione di Ferdinand de Saussure, proprio da "due persone che discorrono" ("Corso di Linguistica Generale").
Per andare oltre le robinsonate (Marx) e oltre l’edipo (Freud), e uscire dal terrapiattismo non c’è altra via: con Elvio Fachinelli, superare la claustrofilia (1983), portarsi "sulla spiaggia" (1985), andare oltre le colonne d’Ercole (di Edipo), e non naufragare (come Ulisse), ma uscire dall’inferno (Dante 2021) e rinascere! O no?!.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE E SAUSSURE: UNA SOLA TEORIA, QUELLA DEI "DUE SOLI". Ipotesi di lavoro
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA: SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO *:
"Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista
«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
diss’io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’esser fuia.
Dunque la voce tua, che ‘l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,
perché non satisface a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
Dante Alighieri, Paradiso IX, 70-81.
* Sul tema, nel sito, cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
FLS
Recensione a:
Sappiamo che Socrate amava intrattenere conversazioni con i concittadini nell’agorà di Atene, ponendoli ironicamente di fronte a insolite questioni e sollecitandoli a spiegare e giustificare le proprie affermazioni al riguardo. Il filosofo non intendeva insegnare qualcosa ai suoi interlocutori e introiettare in loro una qualche conoscenza dall’esterno, bensì condurli a trovare la verità nascosta in se stessi, portandola alla luce attraverso l’interrogazione e lo sradicamento delle false doxai. Lo scopo era, cioè, quello di aiutare il soggetto a partorire la propria verità, seguendo la celebre metafora della maieutica proposta dallo stesso Socrate. L’obiettivo è realizzabile nel corso di una vita fatta di riflessione, interrogazione continua e messa in discussione dei convincimenti più radicati, poiché proprio dietro la più proclamata sicurezza può nascondersi una subdola ignoranza della verità. Solo a partire dalla conoscenza di se stessi e dal riconoscimento dei propri limiti, risulta possibile dare alla luce la verità. Precisamente in virtù dell’attività socratica, la filosofia inizia a delinearsi come conversazione dialettica e come disciplina caratterizzata da lineamenti precisi.
Non è un caso che la personalità di Socrate attraversi e accompagni la totalità della riflessione di Hannah Arendt, fornendo all’autrice un vivo esempio per la formulazione di tesi che ruotano intorno al controverso rapporto tra filosofia e politica, alla coscienza individuale e al tema del male.
Il saggio Socrate compare per la prima volta in traduzione italiana nel 2015, figurando in origine come terza e ultima parte di un corso tenuto presso la Notre Dame University nel 1954.
Il testo si apre con un’introduzione a cura di Ilaria Possenti, la quale contestualizza il contributo arendtiano nel contesto della produzione letteraria dell’autrice, e che nelle sue considerazioni prende avvio da una lettera indirizzata da Arendt a Karl Jaspers nell’estate del 1956, dove l’autrice individua nel processo a Socrate il principio del conflitto tra filosofia e politica. Ricostruendo la genesi di questa contrapposizione, Possenti spiega che Arendt non condanna la polis ateniese, bensì chiama in causa Platone, l’allievo di Socrate. Egli avrebbe lasciato in eredità alla storia del pensiero occidentale due convinzioni fondamentali: “che la politica, così come Atene l’aveva intesa, fosse una pericolosa fonte di ingiustizia; e che i criteri per porre rimedio all’ingiustizia dovessero essere trovati altrove, al di fuori e al di sopra della polis” (p. 9). Ciò è evidente se ci rivolgiamo alla Repubblica: la città ideale delineata nel dialogo si regge su un ideale statico di giustizia, definito a priori, che deve la sua realizzazione nel contesto sociale alla reggenza dei filosofi, coloro che, distanti dalla polis, hanno dedicato la loro vita al puro pensiero inteso come noein, come intuizione e contemplazione della verità.
Secondo Arendt, Platone definì “i termini del conflitto tra filosofia e politica” (p. 10), generando uno iato tra le due, di cui l’autrice lo accusa direttamente. L’allievo fallì così nel cogliere l’eredità del maestro, in cui filosofia e politica risultano invece coessenziali: “così facendo, Platone inaugura la ‘grande tradizione’ rendendo immortale la figura di Socrate e marginale il suo pensiero politico” (p. 11).
Arendt individua, invero, precisamente nella prospettiva socratica un’alternativa a una filosofia ormai esaurita, inserendola peraltro nella sua visione fenomenologica. Nell’ottica arendtiana, l’unica realtà è data dall’apparire e dal mondo comune, lo stesso mondo comune a cui si rivolgeva il filosofo greco. La sua concezione della “condizione umana, in qualche modo intesa come condizione ‘politica’, [...] dovrebbe aiutarci a ripensare da capo il senso della vita della polis [...] e l’oggetto stesso della ‘meraviglia’ filosofica - la pluralità che ci unisce, ci distingue e ci attraversa” (p. 18): è precisamente in ciò che possiamo individuare il fulcro delle riflessioni arendtiane contenute in Socrate.
Il saggio si apre con Il processo di Socrate e la replica di Platone. L’autrice inizia le sue considerazioni partendo dal contesto di appartenenza del filosofo, dominato dall’arte della persuasione, l’arte più elevata e più prettamente politica, che rappresenta ciò in cui fallì Socrate, non riuscendo a persuadere i giudici della sua innocenza. Il filosofo non avrebbe dovuto mirare a far partorire una verità che i giudici non erano disposti ad accogliere, bensì a persuaderli della validità del suo punto di vista.
Nell’ottica platonica, la causa della sconfitta del maestro è da ricercare nel fatto che Socrate si rivolse ai giudici nello stesso modo in cui era solito conversare con gli Ateniesi, secondo il metodo dialettico, e non retorico: il dialeghesthai, però, risulta possibile solo come dialogo tra due soggetti, mentre peitho si rivolge sempre a una moltitudine, ragione per cui Socrate avrebbe dovuto ricorrere alla persuasione piuttosto che alla dialettica. Ciò condusse Platone a dubitare del valore del peithein e con esso anche della doxa, che il maestro cercava di far esprimere agli interlocutori: “è lo spettacolo di Socrate che sottopone la propria doxa alle opinioni irresponsabili degli Ateniesi, e che viene infine sconfitto da una maggioranza, a spingere Platone al disprezzo delle opinioni e a fare di lui un ardente fautore di criteri assoluti” (pp. 26-27).
L’adesione platonica a una normatività suprema è, dunque, motivata da Arendt in base alla delusione provata di fronte alla condanna del maestro. A una politica basata sull’opinione plurale, Platone sostituì principi univoci e inequivocabili che non possono essere oggetto di persuasione. Ma egli andò ben oltre la vendetta del maestro affidando il governo ai filosofi, a quei sophoi che per definizione esulano dalla sfera degli affari della città, ribaltando il vecchio aneddoto di Talete deriso dalla servetta perché caduto nel pozzo, in quanto troppo intento a guardare il cielo. Cionondimeno, se Socrate fu il primo filosofo a rivestire un ruolo politico, Platone fu l’ultimo.
Nella seconda parte del saggio Arendt passa a discutere in maniera sistematica la posizione di Socrate. Nella ricostruzione arendtiana, egli fu indubbiamente il primo a ricorrere al dialeghesthai, ma senza considerarlo la controparte di peitho e della doxa, come arrivò invece a fare l’allievo.
Nella prospettiva socratica, la doxa corrisponde alla comprensione che ognuno ha del mondo, della maniera in cui la realtà si apre e si mostra al soggetto particolare, a seconda del posto occupato in essa. È lo stesso mondo comune a rivelarsi, presentandosi però a ciascuno in modo diverso. Ciò spiega perché la dialettica socratica prenda avvio da una serie di domande attraverso le quali il filosofo cerca di capire quale sia la posizione del suo interlocutore nella realtà, al fine di aiutarlo poi a portare alla luce la propria verità: “Socrate voleva rendere la città più veritiera facendo partorire a ogni cittadino la propria verità. Il metodo per farlo è il dialeghesthai, ma quest’arte dialettica [...] non distrugge la doxa, l’opinione; al contrario, ne rivela la veridicità” (p. 35).
La maieutica di Socrate assume dunque i tratti di un’attività politica, che mira a rendere migliori i cittadini, facendo di loro in ultima istanza degli amici, in contrasto con lo spirito agonale regnante nella polis, costituente una minaccia per il bene comune. In particolare, l’aspetto politico dell’amicizia risiede nel fatto che l’amico è capace di comprendere il modo in cui la realtà si apre all’altro, attraverso il dialeghesthai socratico: si tratta della stessa virtù dell’uomo politico, il quale dovrebbe dimostrarsi in grado di comprendere lo spettro più ampio possibile di realtà, al fine di rendere evidente l’essere-in-comune del mondo e formare su tale base una comunità, costruendola sulla comprensione propria degli amici.
È sul tema della philia che Arendt struttura la parte più dinamica del saggio, La scoperta del “due-in-uno”. -Premessa indispensabile di questo capitolo è il precetto delfico “Gnôthi sautón”, esemplificato dalla personalità socratica. Nell’ottica arendtiana, l’invito alla conoscenza di se stessi comporta che il principio guida del soggetto deve tradursi nella comprensione veritiera della propria doxa e nell’accordo dell’individuo con se stesso, ossia nella philia interiore. La paura di incorrere in questo genere di contraddizione è giustificata in base al fatto che ognuno di noi può parlare con se stesso: nel pensiero ognuno di noi è due-in-uno, e l’armonia di questa dualità si pone come la condizione imprescindibile per l’accordo con l’altro; la paura della contraddizione, dunque, altro non è che timore della scissione e della perdita della coerenza. La pluralità si rivela così come una condizione ineliminabile della natura umana, dacché è sì possibile l’allontanamento da qualsiasi forma di organizzazione sociale, ma mai dall’altro dentro di noi.
Ciò implica la convivenza con un testimone di tutte le azioni individuali, con uno spettatore giudicante a cui non è possibile sfuggire: è quel tribunale che la modernità chiamerà coscienza. L’io è così sdoppiato in imputato e testimone, in esecutore e pubblico.
Vista l’impossibilità della separazione da quest’ultimo, per il soggetto è preferibile essere in disaccordo con l’intera società piuttosto che con se stesso, col quale deve sempre convivere: si tratta precisamente della tesi affermata da Socrate nel Gorgia, dove egli dimostra peraltro con forza che è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla (Gorg. 482b). Il compimento di un atto malvagio comporta la convivenza obbligata con un individuo che vorremmo invece evitare e col quale non è possibile essere in armonia, dacché nessuno sceglierebbe di accompagnarsi a un criminale. Ciò costituisce dunque una situazione di disaccordo interiore, accentuata dalla presenza di un testimone che giudica negativamente le nostre azioni malvagie.
La pluralità esterna può anzi distrarci dalla molteplicità più angosciante, rappresentata dal due-in-uno. Nella discussione, inoltre, l’altro ci riconosce come singolo, come una sola voce.
Poste queste premesse, abbiamo modo di comprendere in che modo le presenti considerazioni si pongano in stretta relazione con quanto affermato relativamente alla philia. Solo chi, vivendo l’esperienza del dialogo interiore, è in accordo con se stesso e una persona affidabile, che in quanto tale può diventare un amico, definito in termini aristotelici come un altro se stesso, secondo a quello che abbiamo dentro di noi. Se, cioè, l’individuo supera il giudizio del tribunale della coscienza presieduto da se medesimo, dimostrandosi un compagno leale, può rapportarsi con l’altro in quanto uno, in qualità di soggetto coerente con se stesso e degno di fiducia.
Nella quarta parte, La sconfitta di Socrate, Arendt riflette sulle conseguenze tangibili della visione socratica analizzata nelle pagine precedenti. “Il conflitto tra la filosofia e la politica, tra il filosofo e la polis, esplose dopo che Socrate, più che svolgere un ruolo politico, aveva voluto rendere la filosofia rilevante per la polis” (p. 48): l’opposizione si concluse con la sconfitta della filosofia e determinò la separazione tra pensiero e azione, conducendo la figura del filosofo a disinteressarsi degli affari della polis.
Nella lettura arendtiana, la filosofia venne così a trovarsi di fronte a un bivio: interpretare l’esperienza filosofica secondo le categorie degli affari umani, oppure giudicare quanto rientra nella sfera politica alla luce della visione filosofica. È in questa seconda direzione che è andato Platone, costruendo una polis retta dai filosofi. Nella parabola della caverna egli condensa la biografia del filosofo, il quale si trova ad attraversare emblematici momenti di ribaltamento del proprio essere.
Ma Platone non ci spiega perché il filosofo decida di intraprendere questo percorso. Per risolvere la questione, Arendt richiama quanto si legge nel Teeteto, dove Platone individua l’elemento alla base della nascita della filosofia: “la meraviglia è ciò che appassiona di più il filosofo, poiché non c’è altra origine della filosofia diversa dalla meraviglia” (Thaet. 155d). Ed è proprio con la questione del thaumazein che Arendt chiude questo scritto. A suo avviso, la meraviglia nell’ottica platonica consiste in un pathos, in qualcosa rispetto a cui il soggetto è passivo e che non può trovare espressione nelle parole, ma che consente al soggetto di cogliere l’autentico significato della formula socratica “So di non sapere”. Nel momento in cui l’individuo subisce il thaumazein, capisce cosa significa non sapere. Da tale consapevolezza deriva l’impulso alla filosofia e alla continua interrogazione socratica. Arendt conclude il saggio rivolgendosi ai filosofi contemporanei, i quali, se vorranno raggiungere una nuova filosofia politica in seguito al conflitto con la polis, dovranno “però assumere come oggetto del thaumazein la pluralità degli uomini, dalla quale sorge [...] l’intera sfera degli affari umani” (p. 62).
I due saggi critici di Adriana Cavarero e Simona Forti, in appendice al testo di Arendt, rappresentano un interessante ausilio alla riflessione sul saggio. Cavarero nel suo commento, Il Socrate di Hannah Arendt, si concentra sulla comparsa della personalità socratica in due particolari momenti della riflessione arendtiana, ripercorrendo anche le differenze originarie rispetto allo sviluppo platonico: la prima scena colloca Socrate all’origine di una “pratica filosofica e insieme genuinamente politica” (p. 73), e individua nell’antitesi tra il maestro e l’allievo la scissione della filosofia dalla sfera politica e la conseguente fuga del sophos da tale contesto; l’altra situazione riconosce in Socrate il fondatore di un modello di pensare critico, l’ideatore della coscienza moderna, intesa nei termini di un tribunale interiore in cui il soggetto si interroga e deve rendere conto di sé a se stesso.
Se, però, nelle sue riflessioni Arendt ci ha convinto a difendere Socrate, Cavarero nel suo commento prende invece le parti di Platone, il quale è messo sotto inchiesta nel saggio arendtiano. Nelle pagine precedenti, infatti, ci siamo imbattuti nella disamina delle colpe metafisiche dell’allievo, che si possono riassumere in ultima analisi nel sacrificio di quella pluralità al cuore dell’insegnamento socratico a favore del totalitarismo dell’Uno, che si pone come l’oggetto supremo della conoscenza muta e contemplativa del filosofo. Cionondimeno, Cavarero ricorda al lettore che l’istante della contemplazione è sì presentato da Platone come la forma più elevata del pensiero, ma il filosofo ammette l’esistenza anche di altre articolazioni del conoscere, tra cui quella del “dialogo senza voce che l’anima fa con se stessa” (Soph. 263e). Tuttavia, Arendt sembra attribuire questo riconoscimento esclusivamente a Socrate, ma risulta evidente la presenza del dialogo silenzioso nell’interiorità dell’individuo anche nel contesto della riflessione platonica. La lezione che indubbiamente è doveroso trarre dall’insegnamento socratico, a discapito dell’allievo, è quella di “ripensare l’umanità, o forse pensarla per la prima volta nei suoi tratti concreti [...] registrare la pluralità che rende ciascun essere umano un essere unico, diverso da ogni altro” (p. 97).
Il saggio di Simona Forti, Letture socratiche. Arendt, Foucault, Patočka, è dedicato alle interpretazioni posteriori della figura di Socrate, in particolare, all’analisi dei tratti di quella “grande tribù del socratismo novecentesco della filosofia come forma di vita” (p. 100). Questa corrente individua in Socrate una testimonianza vivente di una condotta “che si singolarizza scegliendo per quanto possibile lo spazio indeterminato della libertà” (p. 100), distaccandosi da un’etica fondata su regole universali che definiscono a priori il bene e il male, delineandosi peraltro come una soggettività immanente che si assume la responsabilità delle azioni individuali di fronte all’altro e al soggetto stesso. In particolare, l’autrice individua un’affinità concettuale tra la prospettiva socratica sul daimon e la parresia e la riflessione di Hannah Arendt, Michel Foucault e Jan Patočka, commentatori novecenteschi del filosofo greco.
Se al centro della riflessione arendtiana vi è la scoperta del due-in-uno, al cuore dell’indagine di Foucault vi è, invece, la parresia, sulla quale Arendt non si sarebbe soffermata, secondo la lettura di Forti. La parresia può dischiudere uno spazio etico nuovo in cui l’interiorità si apre all’altro e alla collettività, delineandosi come una prassi politica in antitesi con l’adulazione e la retorica tipiche delle strutture di potere, dacché assume ad oggetto la verità.
Per quanto concerne l’altra figura al centro del commento di Forti, Patočka, citato dallo stesso Foucault in un corso tenuto nel 1984, concepisce la cura di sé, dell’anima, come radice della cultura europea, nei termini di una pratica filosofica di continua riflessione e interrogazione del soggetto su se stesso, suscettibile di aprirsi alla prassi e così alla dissidenza nei confronti dei meccanismi di potere.
In ultima analisi, ciò che unisce i tre volti novecenteschi nel loro confronto con Socrate è “la convinzione che l’azione politica [...] deve essere la manifestazione visibile di un’etica [...] l’effetto collaterale di un ethos, di una postura e di una condotta che si radicano saldamente nelle pieghe del ‘modo di vita’ del singolo” (p. 117). Ritornare a Socrate costituisce, dunque, un richiamo alla possibilità del soggetto di opporre resistenza alla forza delle circostanze, “è il nome della possibilità, del potere di ciascuno di resistere a un altro potere” (p. 123).
* Fonte: Discipline Filosofiche.
RICORDANDO IL “MISTICO” WITTGENSTEIN (“L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”, Quaderni 1914-1916) E LA MADRE-LINGUA CHE VERRA’...
Una nota a margine di "Letteratura e mistica" *
“[...] 3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[...] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua [...]. La sua è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva” (Francesca Caraceni, “Letteratura e mistica” , Nazione Indiana, 9 luglio 2020).
SOLO “UNA SPONDA SICURA”, QUELLA DELLA “PAROLE”, NON BASTA. Se la Musa “non rispetta le regole convenzionali della lingua [...] è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura”, COME PUO’ PORTARE ALLA SPONDA DELLA “LANGUE”, “al centro del problema della generazione poetica” e, al contempo, ” rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva”?! Non è, forse, meglio ri-tornare sugli storici passi fatti fino al corrente antropocene, ri-seguire le indicazioni dei “profeti” e delle “sibille” e, ri-evitando gli edipici scogli di Scilla e Cariddi, portarci con l’Ulisse di Dante e Joyce, nell’oceano cosmico (Keplero) di una creatività antropologica all’altezza del pianeta Terra? “Sàpere aude!” O no?!
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AMARE NEL MARE DELLA VITA. Riprendere la navigazione ...
Una nota *
SE è VERO CHE “La ricerca del grande amore si fa ormai soltanto on line” (Laura Vasselli, "InLibertà", 29 giugno 2020), e, al contempo, che “La truffa esiste anche in danno della vita sentimentale” (L. V., "InLibertà", 10 giugno 2020), in una società “liquida” - dove non c’è più né un Giardino per Adamo ed Eva né una Itaca per Ulisse e Penelope - il problema su cui fare chiarezza e “chiudere l’argomento” è : “se è vero che nella vita è necessario amare innanzitutto sé stessi, come si fa a lasciare posto all’amore per qualcun altro ?”.
CONOSCER-SI: IN PRINCIPIO ERA LA “PAROLA” (IL “LOGOS”). RICORDATO CHE “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima : così profondo è il suo lògos" (Eraclito, fr. 45), E, insieme, RIGUARDATA LA FOTO (vedi sopra: accanto al titolo, sul dito “indice” di “due persone” l’immagine di “due ancore”), RIPARTIRE PROPRIO DA QUI : DAll’ancoraggio di “due navi”, di “DUE PERSONE CHE DISCORRONO” (Ferdinand De Saussure). Mi sembra proprio una (bella riflessione e una) buona indicazione!
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan -
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
FLS
AMARE NEL MARE DELLA VITA. Riprendere la navigazione ...
Una nota *
SE è VERO CHE “La ricerca del grande amore si fa ormai soltanto on line” (Laura Vasselli, "InLibertà", 29 giugno 2020), e, al contempo, che “La truffa esiste anche in danno della vita sentimentale” (L. V., "InLibertà", 10 giugno 2020), in una società “liquida” - dove non c’è più né un Giardino per Adamo ed Eva né una Itaca per Ulisse e Penelope - il problema su cui fare chiarezza e “chiudere l’argomento” è: “se è vero che nella vita è necessario amare innanzitutto sé stessi, come si fa a lasciare posto all’amore per qualcun altro?”.
CONOSCER-SI: IN PRINCIPIO ERA LA “PAROLA” (IL “LOGOS”). RICORDATO CHE “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima : così profondo è il suo lògos" (Eraclito, fr. 45), E, insieme, RIGUARDATA LA FOTO (vedi sopra: accanto al titolo, sul dito “indice” di “due persone” l’immagine di “due ancore”), RIPARTIRE PROPRIO DA QUI: DAll’ancoraggio di “due navi”, di “DUE PERSONE CHE DISCORRONO” (Ferdinand De Saussure). Mi sembra proprio una (bella riflessione e una) buona indicazione!
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FILOSOFIA E FILOLOGIA. IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS: CHARITAS....
Tesi di Laurea
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
SOMMARIO Introduzione .................................................................................................................
1 Sezione 1: il versante ermeneutico ....................................................................... 5
1.1 La genesi agostiniana del principio .................................................................... 7
1.2 L’illuminismo tedesco e il nesso linguaggio-mondo ................................. 23
1.2.1 Wilhelm von Humboldt: “Sprachansicht als Weltansicht” ................................................................... 27 -APPENDICE Georg Friedrich Meier e il “Versuch einer allgemeinen Auslegungkunst” .................................. 43
1.3 La linea ontologica dell’ermeneutica contemporanea .............................. 53
1.3.1 Martin Heidegger e l’analitica esistenziale di “Sein und Zeit” ................................................ 55
1.3.2 Hans-Georg Gadamer e l’ermeneutica ontologica di “Warheit und Methode“ ........................ 69
Sezione 2: la riflessione logica .............................................................................. 85
2.1 Fondamenti teorici della carità in logica ....................................................... 87
α ) La riflessione filosofica di Ludwig Wittgenstein ......................................... 89
β) L’ipotesi della relatività linguistica............................................................ 100
2.2 Willard van Orman Quine e l’argomento di “traduzione radicale” ............................................................... 113
2.3 Donald Davidson e l’interpretazione radicale ..................................................................................... 137
Conclusione .............................................................................................................. 157
Bibliografia ............................................................................................................... 161 -Sitografia................................................................................................................... 163
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INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da
carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione.
Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus
dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovverocareo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello»,kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino”1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
** UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA.
Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo, Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco,
Laureando: GANDELLINI Francesco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il "principle of charity", il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "The Nature of Rationality", 1993) *
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE *
1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.
2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.
Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. -La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.
Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]
3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.
In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).
4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. -Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. -A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.
6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.
I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. -Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.
Spesso i bambini - ma anche gli adulti! - amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano...: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.
7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).
Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.
8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.
La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.
Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. -Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.
9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.
Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.
I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.
10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Lettera apostolica. Papa Francesco a Greccio: ecco il vero significato del presepe di Mimmo Muolo, Avvenire, 30.11.2019 (ripresa parziale).
LINGUISTICA GENERALE (SAUSSURE) E MATEMATICA (RUSSELL), E LA "CORRISPONDENZA BIUNIVOCA" SCOMPARSA. Una questione antropo-logica epocale... *
Mathone. Pillole di matematica per comprenderla meglio ogni giorno
La matematica conta: storia dei primi numeri
di Paolo Boldrini *
Leggere, scrivere e contare sono tra le attività più importanti che la nostra mente riesce a svolgere e costituiscono la base dello sviluppo umano. In questo articolo analizzeremo l’operazione di contare e il concetto strettemente legato di numero naturale. Mentre lettura e scrittura sono invenzioni relativamente recenti, diffuse a partire dal 3000 a.C. l’usanza del contare ha radici molto più antiche.
1 Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
2 Piccole e grandi quantità
3 Il corvo conta fino a 5
4 Terzetti e numeri naturali
5 Un’apparente tautologia
6 Cosa significa contare?
Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
Le prime tracce di conteggi risalgono addirittura al paleolitico. I principali reperti che testimoniano questa capacità sono un osso di lupo risalente al 40000 a.C e il cosiddetto osso di Ishago, risalente al 20000 a.C. Entrambi i ritrovamenti presentano delle tacche incise. Mentre per il primo non si può escludere si trattasse di una funzione decorativa; nel caso dell’osso di Ishago, l’asimmetria delle incisioni rende concordi gli studiosi nell’affermare che la finalità non fu estetica ma pratica.
Ma che cosa contavano gli uomini nella preistoria? Non è difficile immaginare quali possano essere le utilità di un tale strumento: per un cacciatore era fondamentale sapere quante lance avesse a disposizione, mentre un raccoglitore era interessato a sapere quanti frutti era stato in grado di trovare in una giornata.
In seguito, con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, divenne ancora più importante saper contare: un pastore deve conoscere esattamente la quantità di pecore nel suo gregge, altrimenti rischia di dimenticarne qualcuna! Ah di pecore e numeri naturali ne avevamo parlato anche qui Numeri Naturali: dalle pecore al concetto di numero .
Piccole e grandi quantità
Nonostante il contare abbia risposto originariamente a problemi pratici, si tratta di un’operazione astratta e tutt’altro che naturale. Essa non va confusa con la capacità di distinguere piccole quantità di oggetti; per comprendere la differenza è sufficiente un rapido esperimento.
Quanti oggetti contengono i seguenti gruppi?
Ovviamente è molto semplice distinguere le differenze, senza la necessità di mettersi effettivamente a contare quante figure sono presenti in ogni insieme.
Questo però funziona solo con piccole quantità: prova a valutare il numero degli oggetti nei seguenti insiemi:
In questo caso è stato certamente più difficile capire il numero “a colpo d’occhio” e probabilmente sarà stato necessario contare le forme a piccoli gruppi di due o tre elementi per avere la certezza del numero totale.
Mentre la capacità di contare sembra essere prerogativa umana, la distinzione tra piccoli gruppi di oggetti è diffusa anche in alcuni animali, soprattutto uccelli. A questo proposito è interessante riportare un racconto risalente al Settecento.
Il corvo conta fino a 5
Un contadino voleva uccidere un corvo che aveva nidificato in cima a una torre, dentro ai suoi poderi. Ogni volta che si avvicinava, però, l’uccello volava via, fuori dalla portata del suo fucile, finché il contadino non si allontanava. Solo allora l’animale ritornava nella torre, riprendendo le incursioni sui terreni dell’uomo. Il contadino pensò allora di chiedere aiuto a un suo vicino. I due, armati, entrarono insieme nella torre e poco dopo ne uscì soltanto uno. Il corvo però non si lasciò ingannare, e non ritornò al nido finché non fu uscito anche il secondo contadino. Per riuscire ad ingannarlo entrarono poi tre uomini e successivamente quattro e cinque. Ma il corvo ogni volta aspettava che fossero usciti tutti prima di far ritorno al nido. Soltanto in sei finalmente, i contadini ebbero la meglio, infatti il corvo aspettò che cinque di loro fossero usciti e quindi fiducioso rientrò sulla torre, dove il sesto contadino lo uccise.
Stimolati da questo racconto, diversi studiosi si sono interessati dell’effettiva capacità di conto di alcuni animali, in particolare l’etologo tedesco Otto Koehler dimostrò con una serie di esperimenti che il suo corvo, Jacob era in grado di contare fino a 6, quindi al contadino per stanarlo sarebbe servita una persona in più rispetto a quelle del racconto!
Terzetti e numeri naturali
É giunto il momento di interrogarci sul vero significato del contare [**]. Fino ad ora abbiamo dato per scontato un legame tra il processo di conteggio e i numeri naturali. Essi sono talmente basilari che raramente ci soffermiamo sul loro reale significato.
L’idea, apparentemente banale, che sta alla base dei numeri naturali e di conseguenza del conteggio è che un terzetto di pecore, un terzetto di mele e un terzetto di pietre hanno una cosa in comune: il numero 3!
Tuttavia, come spiega il filosofo e matematico Bertrand Russell, nel suo saggio “Introduzione alla filosofia matematica”, non bisogna commettere questo fraintendimento: “Un terzetto d’uomini è un esempio del numero tre, e il numero tre è un esempio di numero; ma il terzetto non è un esempio di numero“.
Tutti i terzetti hanno in comune il numero 3, ma nessuno dei terzetti costituisce il numero 3. Essi sono ben distinti dai duetti e dai quartetti, e ciò che li distingue è proprio il fatto di essere 3. Quindi un numero è la caratteristica comune a tutti gli insiemi costituiti da quel determinato numero di elementi. Il numero 7 per esempio è tecnicamente definito come l’insieme degli insiemi di 7 elementi.
Un’apparente tautologia
Questa affermazione sembra tautologica: come posso sapere il “numero di elementi di un insieme” se non conosco la definizione di numero e non so nemmeno cosa significhi contare?
Immaginiamo di avere duetti, terzetti e in generale insiemi di n elementi, come posso raccogliere tutti quelli con lo stesso numero di elementi senza effettivamente contarli?
Russell utilizza il criterio della corrispondenza biunivoca. Dati due insiemi, essi hanno la stessa cardinalità (numero di elementi) se e solo se è possibile creare una funzione biunivoca tra i due. Ovvero una funzione che ad ogni elemento del primo insieme associa uno e un solo elemento del secondo.
In questo modo è possibile raggruppare gli insiemi con la stessa cardinalità senza presupporre la capacità di contare. Fatto ciò è sufficiente dare un nome agli insiemi di insiemi (1 a quelli di 1 elemento, 2 a quelli di 2 e così via). In questo modo abbiamo definito i numeri in maniera consistente!
Cosa significa contare?
A questo punto resta solo da capire cosa significhi contare. Anche in questo caso è utile ragionare in termini di corrispondenze biunivoche. Soffermiamoci sul caso dell’osso di Ishago, su di esso ogni tacca sta a rappresentare un’unità. Non si sa cosa sia stato contato in questo modo, supponiamo i frutti raccolti durante la giornata. Ad ogni frutto corrisponde una tacca, quindi esiste una corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei frutti e l’insieme delle tacche. Astraendo possiamo asserire che l’operazione di contare non è nient’altro che creare una corrispondenza biunivoca tra l’insieme degli oggetti da contare e un sottoinsieme dei numeri naturali!
Se vuoi approfondire ti consiglio l’articolo GEORG CANTOR: QUANTO È INFINITO L’INFINITO? in cui Lorenzo spiega come contare insiemi di infiniti elementi!
Spero che questo articolo ti sia piaciuto, nel prossimo vedremo come il concetto di numero si è evoluto nelle diverse culture. Ospite speciale: il numero 0!
Se ti interessa l’argomento dei numeri, del contare e la matematica più in generale ti consiglio questo libretto leggero ma interessante: L’uomo che sapeva contare.
* Fonte: Mathone (ripresa parziale - senza immagini).
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RILEGGERE SAUSSURE. UN "TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO" RIDOTTO A UN BANALE "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE"!!!
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!! La punta di un "iceberg": una "nota" del "disagio della civiltà"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
Michel Foucault: “Cosa importa chi parla?”
di Francesco Bellusci (Doppiozero, 15.10.2019)
Dopo un periodo di distaccamento all’Università di Tunisi durato due anni, dal 1° ottobre 1966 alla fine di settembre 1968, Michel Foucault rientra a Parigi, con l’incarico di insediare il dipartimento di filosofia al Centro universitario sperimentale di Vincennes. Agli inizi dell’anno successivo, si ripropone di fronte al parterre intellettuale francese, presso la Société française di philosophie, con una breve e singolare conferenza, intitolata: “Che cos’è un autore?” (oggi in: M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli 2004, pp. 1-21). Sulle prime, l’esposizione di Foucault appare una professione di ortodossia strutturalista che intona il mantra dell’irrilevanza dell’autore, già inaugurato dalla “nouvelle critique” di Roland Barthes, che prescindeva dalle referenze biografiche e psicologiche dell’autore a favore dell’analisi delle strutture interne del testo e del gioco della loro articolazione interna, e su cui confessa di avere ancora meno remore di quante ne mostrasse in Le parole e le cose di due anni prima, dove l’archeologo del sapere s’immergeva nello scavo del sottosuolo epistemico per rintracciare le “regole” di formazione di concetti e teorie, dentro grandi unità discorsive o campi disciplinari, rispetto alle quali la menzione di autori e persino delle opere appariva ancora la concessione a un vezzo inutile e fuorviante (un tema sensibile per Foucault, visto che implica l’esigenza di mettere in discussione lo statuto stesso della sua parola e la sua posizione rispetto al suo lavoro teorico, come dimostra la prima parte di una “Introduzione” all’Archeologia del sapere, scritta nel 1966 e poi abbandonata, che qui sotto pubblichiamo per la prima volta). Ma, non si tratta adesso di ribadire di nuovo che il discorso precede l’autore, quasi in controcanto al motto (“l’esistenza precede l’essenza”) di quegli esistenzialisti che, con il loro “soggetto” sovrano, sono stati già scalzati sul piano dell’egemonia culturale e travolti dallo Sturm und Drang strutturalista.
La mossa di Foucault è anche politica. Quell’egemonia deve diventare ora accademica e la partita si gioca proprio in quei mesi, sull’onda degli strascichi del movimento studentesco del Maggio 68. Con la contestazione della nozione di autore, Foucault sceglie un tema con cui è consapevole di potersi sintonizzare con lo “spirito” di Maggio 68, che in un primo tempo aveva indotto alcuni, in prima fila Sartre e poi altri come il sociologo e drammaturgo Jean Duvignaud (autore dello slogan “Siate realisti, chiedete l’impossibile!” ed entusiasta sostenitore degli studenti in rivolta), a decretare prematuramente la fine e la morte dello strutturalismo, in nome dell’irruzione della storia, dell’evento, della novità irriducibile e dell’azione creativa e rivoluzionaria. Invece, quando la contestazione giovanile si sposta contro i “mandarini” della Sorbona e dell’accademismo e contro la tradizione imperante degli studi umanistici, proprio per i propugnatori delle scienze umane di stampo strutturalista si apre l’opportunità di uscire dall’anonimato e rivendicare una piena cittadinanza nel sistema universitario. Non solo.
Consapevole di essere di fronte a un uditorio già predisposto benevolmente verso la tesi di fondo della conferenza (tra tutti spicca la presenza di Lacan, oltre che di Goldmann, Ormesson, Ullmo), la seconda mossa di Foucault è di affrontare originalmente il tema. Il filosofo francese si pone come l’uomo folle del celebre aforisma di La gaia scienza di Nietzsche, che s’imbatte con la schiera degli atei sarcastici di fronte al suo annuncio della morte di Dio, a loro modo di vedere superfluo e tardivo. Foucault, infatti, sembra dire: “Bene, avete, abbiamo, assassinato l’autore, ma non ne abbiamo ancora calcolato tutte le conseguenze!” e, quindi, procedere, in ragione di quest’indecisione, a smascherare gli uditori presenti come “strutturalisti incompleti”, così come l’uomo folle di Nietzsche smaschera nella schiera degli atei del suo tempo, presumibilmente positivisti, l’esitazione nascosta dei “nichilisti incompleti”. Lo dimostra la persistenza di nozioni, come quella di “opera”, che ritardano in effetti il congedo definitivo da quella di autore, quantunque ci si prefigga esplicitamente di analizzare l’opera nella sua struttura e architettura, senza preoccuparsi di situarla, e in questo modo rintracciarne il significato, nelle esperienze e nella vicenda dell’autore. Non ci sono, forse, infatti, fogli, documenti, contratti, lettere, narrazioni e così via che non consideriamo “opere”, proprio perché non li colleghiamo a un autore, ma a un firmatario o a un redattore o a un blogger e così via?
Il punto è, secondo Foucault, che se vogliamo abbandonare il fantasma dell’autore, col suo gesto sovrano di soggetto animatore e padrone dei segni, della parola, del discorso e, parimenti, l’immagine speculare dell’opera come ‘espressione’ di questo soggetto (pensiamo alla centralità di questa nozione nell’estetica e critica crociana, così influente in Italia), dobbiamo trattare l’autore come una funzione che permette di classificare un gruppo di discorsi e di descrivere un modo di esistere e di circolare di questi discorsi, in una data società e in una data cultura. Assunta quest’angolazione, l’analisi di Foucault chiarisce come l’autore emerge tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo, quando la necessità di individuare e colpire penalmente il responsabile di discorsi “trasgressivi” dà luogo a un sistema giuridico e istituzionale che, comunque, sancisce e protegge la proprietà dell’opera. Oppure, chiarisce come essa non si esercita uniformemente e nella stessa maniera su tutti i discorsi, in tutte le epoche e in tutte le culture. Infatti, se, fino al Medioevo, l’anonimato non costituisce un problema nel mondo letterario, mentre l’attribuzione delle opere scientifiche a un autore (Ippocrate, Plinio, Aristotele...) è condizione indispensabile per la certificazione di veridicità delle asserzioni in esse contenute, la situazione si rovescia a partire dall’età moderna, quando a diventare insopportabile è l’anonimato letterario, mentre la funzione-autore diventa irrilevante per i discorsi scientifici. E, d’altra parte, più che per individuare una persona reale, la funzione-autore opera come punto di coagulo di un insieme di discorsi, in quanto indice di un’unità stilistica o di una coerenza concettuale o valoriale e, quindi, come nodo di una rete di soggetti parlanti o scriventi quei discorsi.
Ma oltre alla funzione-autore dell’autore del testo di un libro o di un’opera, Foucault pone l’attenzione sui “fondatori di discorsività”, cioè sugli autori di teorie o tradizioni o discipline all’interno delle quali altri libri e altri autori potranno prendere posto, rendendo sempre possibile un ritorno al loro gesto instauratore, anche nelle differenze e trasformazioni e non solo nelle analogie. E fa l’esempio di Marx e Freud. Chiara l’intenzione di Foucault, a questo punto della conferenza, di fare eco ai “ritorni” dello strutturalismo: il ritorno a Saussure dei linguisti; il ritorno a Marx di Althusser; il ritorno a Freud di Lacan. Quest’ultimo, in effetti, trarrà dalla conferenza l’ispirazione e la piattaforma per la sua teoria dei quattro discorsi. Ma ciò che traspare dalla conferenza di Foucault è anche il suo vivo interesse per la presa di coscienza della caducità della categoria di autore così come matura già nella letteratura contemporanea, prima ancora che nello strutturalismo. Il che lo avvicina per tutti gli anni Sessanta allo scrittore Maurice Blanchot, per il quale un’opera non è affatto la forma di espressione di un’individualità particolare, ma comporta sempre, per così dire, la scomparsa stessa dell’autore, nel momento in cui essa s’inserisce in modo autosufficiente nel flusso nudo e anonimo del linguaggio. “Il linguaggio - aveva detto Foucault, qualche anno prima, proprio con ascendenza blanchotiana - ha assunto la sua statura sovrana; sorge come venuto da un altrove, da un luogo dove nessuno parla; ma si dà un’opera solo quando, volgendo indietro al suo proprio discorso, parla nella direzione di quest’assenza” (Dits et écrits I. 1954-1975, p. 230).
Michel Foucault: “Cosa importa chi parla?”
di Francesco Bellusci (Doppiozero, 15.10.2019)
Non è affatto un programma. Tanto meno un bilancio. È pertanto un libro di secondo livello: si definisce interamente per i rapporti che intrattiene con studi già fatti, con altri che saranno compiuti forse un giorno, con altri il cui progetto sarà presto cancellato. Se le cose fossero semplici, sarei al centro del mio lavoro. Abbastanza avanti per dire ciò che ho voluto fare: per riafferrare ed enunciare certe evidenze che non avevo formulato a tempo, sia perché non chiare ai miei occhi, sia perché le ho immaginate, a torto, generalmente molto riconoscibili; per far apparire, in ciò che facevo, ciò che si è effettuato un poco malgrado me, senza che io l’abbia voluto sul momento, ma senza che oggi mi senta il meno di tutti irresponsabile o estraneo; per rigettare ciò che riconoscevo ora come errore, imprudenza, facilità, dimenticanza più o meno compiacente di ciò che mi ero proposto; per restituire una curva laddove c’erano forse solo puntini di circostanze; in breve, per dare la figura d’insieme di ciò che fu, in una misura molto difficile da decidere, per una parte occasione e per un’altra disegno. Dovrò anche poter dominare dall’alto il tempo che mi resta per abbozzare il futuro: circoscrivere da lontano i campi di ricerche, indicare in anticipo ciò che sarà oggetto di studi, mettere in campo i concetti essenziali, dare loro nomi e regole d’uso, enunciare i principi generali che, formulati una buona volta qui, non dovranno più essere ripetuti altrove. Dopo tutto ho quarant’anni. Quindi, mi rendo conto che non sono in questa posizione privilegiata. Non sto a strapiombo né su ciò che ho fatto, né su ciò che posso ancora avere da dire (ma, a pensarci bene, in virtù di quale obbligo, o in obbedienza di quale legge?). Senza dubbio, so che su queste pagine bianche in attesa, al mio fianco, dovrò parlare di ciò che ho scritto altre volte e che è stato pubblicato sotto il mio nome; so che ne parlerò come cose fatte, come libri allineati tra milioni di altri sui ripiani della biblioteca universale. Li tratterò senza dubbio come mi è piaciuto, un tempo, trattare questi libri di economia, di grammatica, di medicina, o questi registri di ospedale o di prigione da cui ho scrollato la polvere e che mi davano l’impressione, illusoria ma piacevole, di aprirsi per la prima volta allo sguardo di un lettore; mi succederà di parlare dei miei libri personali come se, intimo con essi come nessun altro, fossi quasi il solo a conoscerne i segreti; mi succederà pure di evocare progetti come se fossero cantieri già aperti, come se potessi alla cieca riconoscerne da lontano le possibilità e gli ostacoli. Ma, senza dubbio, non sarà niente più che un’apparenza. In questo momento in cui scrivo e in cui mi manca così crudelmente la certezza di poter fare un libro, di riuscire a tenere insieme, sotto una forma coerente e leggibile, le frasi che decido, non cerco di confortarmi voltando la testa e di gettare gli occhi indietro verso questi libri già fatti che potrebbero forse rassicurarmi sulle mie possibilità attuali.
Al contrario: scrivo, oggi e qui, a partire dallo loro inesistenza e dal vuoto che essi hanno lasciato in me. So (e penso che molti nel mio caso lo direbbero o l’hanno già detto) che non ho mai scritto libri. Ciò che nel corso dei giorni (e attraverso un esercizio così faticoso, che lo perseguivo, credo, nella speranza chimerica di raggiungere il momento in cui si trasformerà in gioco o diventerà perfettamente leggero, invisibile, regolare, come la respirazione di chi dorme) ho depositato in segni minuti su fogli di carta, ciò che in una maniera assai sorprendente si è trovato preso nell’istituzione della stampa, dell’edizione, della lettura e della critica, non erano libri, ma questo di sotto della scrittura che doveva rendere possibile un libro. Come molti, credo, scrivo per pervenire a questo libro al singolare. È un sogno che s’incontra facilmente: libro principale a cui tutti gli altri devono ricondursi, - libro eponimo, epopea fondatrice, bibbia, parola di Dio, contratto arcaico di cui ogni libro, qualunque esso sia, può essere solo il commento, la riscoperta, la delucidazione, la ripetizione paziente o il riprovevole tradimento; libro ultimo che rende tutti gli altri inutili, che li rimanda al silenzio e li brucia con la sua luce folgorante, istantanea, definitiva. Potrebbe darsi che il dilemma incendiario di Omar chiarisca ironicamente tutti i libri che si perderanno nelle nostre biblioteche. Per quanto mi riguarda, tutto ciò che ho redatto fino ad oggi non era nient’altro che la condizione per un certo libro. Non mi facevo un’idea di ciò che fosse - né del suo oggetto, né del tipo di discorso al quale appartenesse, neppure del suo stile.
Pensavo solamente (come nelle leggende) che, tra tante brutte copie cominciate, l’avrei riconosciuto non appena fosse stato presente, non appena avrebbe cominciato a prendere forma sulla mia carta. Ingenuamente (e, senza dubbio, con compiacimento) immaginavo che, imponendo a ciò che avevo già fatto la forma usurpata dei libri, entrando nella temibile istituzione dell’edizione e della biblioteca, completavo questa preparazione, avvicinavo il mio lavoro alla sponda promessa, mimavo un po’ maldestramente il vero Libro, imparavo a indovinarne la forma: stava venendo il giorno in cui la prima parola scritta in alto in una pagina bianca avrebbe creato la meraviglia di un libro che, da questo istante iniziale, sarebbe stato aperto per accogliere silenziosamente tutte le frasi a venire. A partire da qui, si sarebbe scritto quasi da solo: le parole già impiegate da me, le frasi già dette si sarebbero ricomposte senza che la mano dovesse insomma intervenire; tutte le cose non dette che scorrevano sotto la mia chiacchiera si sarebbero levate come spontaneamente, esse avrebbero preso corpo da sole, avrebbero acquisito una visibilità perfetta, piena ed energica come i resuscitati di Signorelli; e così, si sarebbe spiegato serenamente come un discorso anonimo. Ora, ciò che mi intraprendo a scrivere attualmente, sostituisce questo libro. Lo sostituisce: vale a dire che non è esso e non ha la pretesa di esserlo. Lo riconosceva come sbarrato per il momento, e senza dubbio definitivamente escluso. Parla della sua impossibilità e a partire da essa; significa che è interamente abitato da questa impossibilità e reso da essa a sua volta quasi impossibile. Dovrebbe essere più vicino di ogni altro al libro di cui tutti gli altri non erano che l’ombra, il frammento, l’indice parziale, lo schizzo lontano; e difatti lo sarà, è già più lontano di ogni altro da ciò che deve essere un libro. Sin da adesso ne ho la certezza: non solamente perché la felicità e la facilità di scrivere mi sfuggono più che mai (al punto stesso che il mio sogno vacilla, che l’età dell’oro promessa si trasforma insensibilmente in paradiso da lungo tempo perduto, e che ho la convinzione, credo menzognera, di essere stato altre volte felice di scrivere), ma soprattutto perché l’anonimato spontaneo in cui vedevo la ricompensa del mio discorso si è rivelato improvvisamente inaccessibile.
Speravo in un testo che si sarebbe intessuto di se stesso, senza alcun riferimento percepibile a colui che sono e che attualmente parla: io che ho cercato sempre di far estendere attraverso le parole altre (anche le meglio datate e situate, le più legate alla posizione del parlante) un discorso senza soggetto, avrei voluto sentirmi attraversato da un tale linguaggio; avrei voluto essere l’invisibile supporto di un testo che non avrebbe avuto nome. E questo linguaggio, il giorno in cui ho allestito abbastanza vuoto intorno a me e in me, per dargli accesso, ecco che mi giunge (con mia sorpresa, debbo dire, più che in mio dispetto) coniugato da un capo all’altro alla prima persona. Ci sono ben dieci pagine e più di una giornata in cui dico «Io», ostinatamente, senza essere capace, mi sembra, di pronunciare una sola frase impersonale. Devo tuttavia riconoscere che si tratta di un «io» astratto. Non è la mia biografia intellettuale che comincio, alla maniera di quell’esercizio intellettuale che le università tedesche un tempo praticavano con tanto compiacimento. Non cerco più di dare linguaggio a ciò che provo attualmente, né di restringere la mia scrittura il più vicino possibile al presente. Senza dubbio ho parlato di ciò che «volevo» fare; di ciò che avevo in «progetto»; di ciò che avevo «riconosciuto», «sperato», «ignorato»; ma se avessi voluto far apparire la mia vita o le mie esperienze (per quanto non siano interessanti, a dire il vero) nello spessore e sotto ciò che ho potuto fino ad oggi scrivere, non è così che avrei parlato. Questo «io» che ora appare un poco contro il mio gradimento, è molto più lontano di quanto non lo temessi quando lo vidi apparire; molto più vicino anche di ciò che ho scritto.
È senza dubbio questo piccolo granello di sabbia, questo minuscolo frammento irriducibile che m’impedisce di accedere a un discorso spontaneamente anonimo. È il supporto indelebile (benché inosservato da questo io, giacché ne distoglievo con ostinazione gli occhi) di tutto ciò che ho detto e di tutto ciò che dirò. Questo «io» non è la presenza della mia vita, l’oscurità della mia presenza che fa irruzione nel mio discorso e che tradisce così la regione inconscia da cui proviene. È una funzione del mio discorso, il compito cieco che gli permette di esistere e di parlare, ma che fa parte del suo tessuto, ne occupa un punto determinato e ne dispone intorno a sé gli elementi. Questo «io» si è fatto spazio fin da quando mi sono messo seriamente a scrivere il libro ed ecco che aveva percorso, senza mostrarsi quasi mai, (salvo infortunio, caso di forza maggiore, e in alcuni istanti di gioco) tutto ciò che avevo scritto; l’aveva reso possibile in un senso; ma in un altro, è interamente preso da questo discorso, infatti non esiste al di fuori di esso. Ciò di cui parlo attualmente, questo «io» a cui miro in quello che dico, ma che è già (o ancora presente) nelle frasi che utilizzo per reperirlo, non sono io: è il soggetto parlante del mio discorso. E proprio come il mio discorso non è l’espressione della mia vita o del mio pensiero, ma appartiene prima di tutto a un universo di discorso in cui trova posto (molto ridotto) e la sua funzione infima, questo «io» che cerco in questo momento di far sporgere, di far uscire dalla sua ombra essenziale, e di costituire come oggetto della mia parola, appartiene anch’esso all’universo dei discorsi, al campo del loro funzionamento e alla rete di tutti i soggetti parlanti che abitano l’insieme dei discorsi. Strano movimento, tutto sommato, che m’inquieta e mi rassicura. Nell’impossibilità in cui mi sentivo di mantenere la promessa di altri miei libri (vale a dire, di accedere finalmente a ciò rispetto a cui essi si davano come la pura e semplice condizione), ho creduto che potrei parlare solo dell’assenza di questo libro.
Ma per un istante ho temuto di poter riempire questo vuoto solo col racconto dei miei tentativi o fallimenti. Infatti, laddove attendevo un discorso puro, capace di ricoprire della sua necessità anonima l’insieme delle mie chiacchiere, è sicuramente un pronome personale che è apparso, ma un pronome senza «persona», un pronome che era condizione e funzione del discorso stesso. Anche se non parlerò «al di sopra» di ciò che ho detto altrove, o di ciò che dirò eventualmente (mettendomi a strapiombo su di esso con una lucidità superiore, o grazie allo sforzo di una ripresa metodologica); non parlerò più «al di sotto» dei miei propri testi per chiarirne il lato vissuto o cercare di scoprirne le determinazioni profonde; parlerò all’interno del mio proprio discorso, e sul suo stesso piano per cercare di dire chi parla in lui: di cosa è fatta questa voce che si esercitò in esso e che pertanto gli dà luogo. Non sarà dunque questione né di «me», né del mio «metodo», ma di questa funzione che è all’opera in ciò che dico, in ciò che si può cominciare a descrivere a partire da qui, ma che non può definirsi indipendentemente dal suo rapporto agli altri discorsi che gli sono anteriori o contemporanei. Ecco perché questa voce può certamente avere qualche singolarità e non essere, a causa di ciò, perfettamente anonima; essa non ha niente, per fortuna, di personale. Poiché è essa senza dubbio a impedire di scrivere il Libro (nella misura in cui è essa che scrive tutti i libri), ebbene, sia essa allora il soggetto di questo: ciò di cui parla e ciò che parla in esso.
LA COMUNE DI PARIGI, IL DESIDERIO DI RIVOLUZIONE, E IL “LADRO DI FUOCO”. Cento anni dopo (!971), una “risposta” alla “Lettera del Veggente” di Arthur Rimbaud *
mi dispiace ma l’offerta di un’ora di letteratura nuova non mi interessa. Sarò esecrabile ma Io non posso risponderti. Se lo facessi mi malediresti per tutta la vita... Ti ‘salverei’ ma tradirei me stesso e te pure. Non ti spedirò queste mie considerazioni-risposte. Le ragioni stanno soprattutto in chi fa l’offerta.
Io non ho bisogno di veggenti-preti, né voglio essere un poeta-prete. Non ho dato incarichi a nessuno.
Potrei pure considerare la Lettera un prodotto-merce e venderla bene, ma Io cosa ne otterrei, altre ore di letteratura, un po’ di soldi per te... e lo snaturamento del discorso stesso. I vecchi imbecilli continuerebbero a trovare dell’Io il significato falso, e tanti egoisti a proclamarsi autori. No, non ti risponderò!
Non mi importa dei tuoi ragionati esercizi di s-regolamento. L’ignoto è ignoto, non si vende né si compra. Sì, la proprietà è un furto! E il poeta-veggente è un ladro! Viva la lotta rivoluzionaria! Viva viva la Comune!
Per i nostri tempi non serve più il ladro di fuoco. Lo sai. Perché continui con vecchie teorie? “Il poeta è un ladro di fuoco” ... ma non è il fuoco, non produce fuoco. E noi oggi abbiamo bisogno di fuoco o, almeno, di scintille che diano fuoco alla pianura... Né di ladri, né di sognatori. La Comune insegna come si fa l’assalto al cielo. Fare come Prometeo rende schiavi e colpevoli, non libera.
Tu proponi una vecchia pratica, ricadi nella trappola dell’autore-egoista, anche se cambi il segno al movimento: l’Io è un altro! Chi parla non è qui, chi è qui non parla. Il linguaggio è votato allo scacco, tu all’impotenza. Il resto è sempre là fuori altrove inattingibile, laggiù-lassù. La muda del serpente: una pelle vuota e senza vita.
Lo so, lo so, caro Arthur, quanto bruci, ma la tua-mia lettera - dobbiamo rendercene conto - agli altri non fa né caldo né freddo. Perché? Perché a bruciare bruci da solo e poi mandi la cenere agli altri. Tutt’al più si possono riscaldare, ma come possono accender-si? Come vuoi che ti rispondano? È chiaro che essi - anche se saranno esecrabili - non ti daranno (come non ti darò Io) risposta.
È inutile che fai il disperato presuntuoso buffone: “Davanti a molti uomini, parlai a voce alta con un istante di una delle loro altre vite. - Fu così che amai un porco” (“Alchimia del Verbo”). La tua pretesa universalizzante di essere anima del mondo danna e pretifica. Il silenzio degli uomini è la severa condanna: l’aquila rode il fegato a Prometeo...
Per bruciare bisogna bruciare insieme. Per nascere bisogna nascere insieme. E per avere risposte bisogna porre domande... Ma, ma... ora capisco! Tu mi chiedi di risponderti! Tu poni domande! E io che non capivo... io che vedevo solo risposte. Sì, sì, ho capito! E’ possibile “trovare una lingua”: è possibile bruciare-nascere insieme!
Legato al mio-tuo piccolo-io, non vedevo il tuo-mio Io, di tutti e di nessuno: il Logos, il Verbo - il cerchio e la linea di Langue e Parole (Saussure)! Non ponevo a me stesso la domanda “dove sono Io?” e non riuscivo a venir “fuori testo”! In quel “Je est un autre” non ho visto esser-ci insieme la trappola-soluzione. Quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito. Nel capire che dinanzi a un altro occorreva porsi la domanda dov’ero, dove sono Io, ho trovato l’uscita e la soglia, la soluzione e la liberazione. Sono divenuto veggente-veggente, ho visto dov’ero, dove sono Je, tutt’intero. Scusami, non avevo capito, non mi conoscevo! Ti risponderò...
*
Federico La Sala (Salerno, 1971).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
(...) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (...)
FLS
di Francesco Laurenti (Alfabeta-2, 09.06.2019)
«L’uom che parla, non fa che tradurre le proprie idee, non perché le parole abbiano il potere di trasportare le sue idee nella testa di chi lo ascolta, ma perché idee analoghe alle sue vi si risveglino al suon delle parole ch’egli usa». In questi termini, già agli inizi dell’Ottocento, Giovanni Carmignani nella Dissertazione critica sulle traduzioni (un contributo di stampo traduttologico tanto originale quanto a oggi in pratica dimenticato), avviava la propria riflessione teorica nel tentativo di definire l’atto del tradurre.
Nello stesso illuminante contributo, vincitore del concorso bandito dall’Accademia Napoleone di Lucca nel 1806 (per un’indagine sui «danni e vantaggi arrecati alla letteratura dalle traduzioni» e sulle potenzialità di queste di trasportare in una nuova lingua «le idee e gli affetti» contenuti nell’opera originale), Carmignani auspicava, tra l’altro, una maggiore sistematicità degli studi sulla traduzione, attraverso un dialogo tra studiosi che evitasse il perpetuarsi d’indagini fondate esclusivamente sulla sensibilità personale e non sulle conquiste di una condivisa «scienza dei segni».
Secondo Carmignani dunque, ogni parlante, nell’atto stesso del parlare, agirebbe alla stregua di un traduttore.
Raramente, però, vi è una comunicazione esterna che non prenda le mosse dalla comunicazione interna all’individuo.
In linea con quest’assunto, un fermo sostenitore del legame inscindibile tra il “linguaggio interno” e il “linguaggio esterno” all’essere umano, Lev Vygotskij (la cui opera Pensiero e Linguaggio cadde nelle strette maglie della censura stalinista poco dopo la pubblicazione), nel 1934 sovvertì la tradizionale concezione del processo traduttivo, fondata sulle nozioni di significato statico e di equivalenza tra i significanti, estendendola ad altri atti linguistici.
Secondo le intuizioni dello psicologo sovietico, il linguaggio della mente sarebbe, infatti, il risultato di un processo di traduzione delle parole in pensieri e, viceversa, il linguaggio verbale si configurerebbe come la traduzione dei pensieri in parole. Non solo il parlare, ma anche il leggere e lo scrivere rappresenterebbero allora dei modi di tradurre, diremmo oggi, in maniera intersemiotica.
Ogni lettore infatti, agendo similmente a un traduttore, attuerebbe così in primo luogo una traduzione della lingua del testo letto in materiale mentale. Al pari ma in maniera inversa, nell’atto della scrittura ogni individuo realizzerebbe una traduzione dal proprio linguaggio interno a quello verbale.
Ne deriverebbe come conseguenza che qualsiasi traduzione interlinguistica, dunque tra due lingue diverse, sarebbe allora una “doppia traduzione”, che passa prima per la “traduzione della lettura” e poi attraverso la “traduzione della scrittura”.
Linguaggio e pensiero, secondo le intuizioni di Vygotskij, sono ancora indipendenti nella prima infanzia dell’individuo per integrarsi in seguito fino a stabilire una relazione di reciproca e imprescindibile influenza. Proprio per questo il ricercatore sovietico dedicò molta attenzione, nell’arco della sua troppo breve esistenza terrena, allo studio del linguaggio dei bambini. -Anche Octavio Paz s’interessò al linguaggio dei bambini che, forse, osservò a lungo prima di giungere alla sua nota affermazione che potremmo tradurre così: «imparare a parlare è imparare a tradurre: quando il bambino chiede alla madre il significato di questa o di quella parola, ciò che sta effettivamente chiedendo è che gli venga tradotto nel suo linguaggio il termine a lui sconosciuto». Per il Nobel messicano, convinto che todo es traducción, il tradurre, allora, rappresenterebbe per un essere umano anche l’utile e imprescindibile processo per imparare una lingua, quella propria.
La “squadra” di chi ha inteso la traduzione come un principio allargato, un processo innato all’homo traducens e congenito alla condizione umana, è certamente più ampia. Potrebbe includere, tra gli altri, Martin Heidegger («ogni parlare e ogni dire sono in sé un tradurre») e Peeter Torop (con la sua “traduzione totale”), Franco Volpi («la traduzione è un qualcosa d’inevitabile che ci portiamo addosso, anche quando non siamo traduttori»), Cesare Garboli («che tutto sia tradurre, è una verità fisiologica») e anche, con la “maglia da titolare”, Enrico Terrinoni.
Le riflessioni di Terrinoni sul tradurre inteso come paradigma “all-inclusive” si spingono in qualche modo oltre, in spazi d’ombra sinora poco esplorati, fino a prendere la forma di un libro e permearne quasi ogni sua pagina. In Oltre abita il silenzio. Tradurre la letteratura, appena pubblicato da il Saggiatore nella storica collana La Cultura, l’idea che il genere umano sia «contraddistinto dal gene traduttivo» è fondante e genera un testo di oltre duecento pagine da leggere quasi tutte d’un fiato.
Oltre abita il silenzio è un’ininterrotta “selva” di riflessioni e rimandi teorici affrontati con una gioiosità verbale di matrice joyciana (sembra che Terrinoni, passato per l‘ardua impresa della traduzione dell’Ulisse e la titanica resa del Finnegans Wake in italiano, sia rimasto contagiato da una joycity che quasi non concede pause). Il lettore, dopo un possibile iniziale smarrimento, rimane conquistato dall’incedere rapido delle originali riflessioni traduttive ed è accompagnato attraverso una moltitudine di connessioni spesso inattese («veniamoci incontro, miei simili, ippocratici lettori»...«Ma andiamo per gradi e torniamo sui nostri passi»). E così il lettore viene “tradotto” da Terrinoni, ragionamento dopo ragionamento.
Oltre abita il silenzio è costellato da una miriade di punti interrogativi, da una fitta successione di domande-stimolo le cui risposte generano spesso altre domande e altri dubbi (d’altronde, il primo punto fermo del tradurre non è forse quello interrogativo?). Quella di Terrinoni è una teoria che si dilata e che, com’è stato detto, sembra premere contro le sbarre in cui il genere vorrebbe rinchiuderla. Una teoria rafforzata da una moltitudine di aforismi sul tradurre, di massime figlie dell’esperienza che potrebbero essere assunte come illuminanti norme generali del tradurre. «Non dovremmo fare al testo degli altri quello che non vorremmo fosse fatto al nostro»; «Quando traduciamo non stiamo facendo altro che tradurre l’eterna metafora del nostro essere» e così, passando per «Converto ergo sum», fino a «la traduzione è impossibile, sì, ma ha da farsi, perché il farsi è la sua essenza», e oltre.
«Siamo tutti dei translating beings», ne è sicuro Enrico Terrinoni e si convince di ciò anche il lettore che giunga alla conclusione del libro.
Le posizioni di Terrinoni fanno quasi immaginare una nuova potenziale fase degli studi traduttivi. Una fase che, dopo l’importante svolta che ha privilegiato negli ultimi decenni la riflessione sugli aspetti culturali connessi al tradurre, si apra anche alla dinamica traduttiva intesa come modo di vivere, un agire che permea le nostre esistenze di esseri traducenti, perché forse «la traduzione è tutto quello che facciamo, da quando veniamo al mondo a quando ci dileguiamo nell’ignoto».
“Un punto solo m’è maggior letargo/ che venticinquesecoli a la ‘mpresa,/ che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo [...] Omai sarà più corta mia favella,/ pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/che bagni ancor la lingua a la mammella” (Dante, Par. XXXIII).
Mi sembra che, partendo da Omero, Ulisse, Socrate, Platone, Giambattista Vico, Giordano Bruno, James Joyce, e Samuel Beckett, giungendo là dove “Oltre abita il silenzio”, ri-troviamo finalmente un Dante ri-nato (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908). O no?!
Domenica di Pentecoste, 9 giugno 2019
Federico La Sala
FILOSOFIA, SCIENZA, E STORIA. PER UN NUOVO CNR. Il problema della comunicazione più importante di quello della produzione ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia è raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero [7 giugno 2019]...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
Lotman, la memoria come cultura
di Marco Dotti (Alfabeta-2, 16 novembre 2017) *
«Aspiravamo a seminare il sensato, il buono, l’eterno». Jurij M. Lotman concludeva così le pagine autobiografiche delle sue non-memorie (Ne-memuary, Non-memorie, a cura di Silvia Rubini e Alessandro Nievo, Interlinea 2001). Pagine in parte dettate, in altra registrate su un dittafono. Negli stessi anni, a cavallo fra gli Ottanta e Novanta, il semiologo registra - questa volta in video - una serie televisiva dal titolo Besedy o russkoj kul’ture, trasmessa sui canali televisivi estone e russo. Un lavoro importante, che mette in atto le sue altrimenti complesse e suggestive ricognizioni sul tema della cultura come testo e della memoria come condivisione.
Solo nel 1995, due anni dopo la morte di Lotman, la rivista “Tallinn” prese a pubblicare la trascrizione delle “lezioni televisive” del fondatore della Scuola di Tartu.
Benché fosse in scena da solo, osserva Silvia Burini nella premessa all’importante edizione italiana pubblicata da Bompiani, per l’attenta traduzione di Valentina Parisi, Lotman scelse il termine “conversazioni” rimarcando quella struttura dialogica che sempre aveva considerato fondamentale per il “funzionamento” dei sistemi culturali.
Il passaggio dall’orale e dal visivo - Lotman dialogava con il pubblico spesso ricorrendo a immagini - alla forma scritta impone un inevitabile passaggio dalla conversazione alla forma-lezione. Il ricchissimo materiale che il lettore italiano ha ora a disposizione ha assunto, appunto, questa forma. Ma è un forma dialogante, che in ogni suo punto ci ricorda come quelle conversazioni fossero inizialmente pensate per un pubblico non di nicchia; operaie e operai, in primo luogo. Fondamentali, nel discorso di Lotman, sono i concetti di memoria, trasmissione, semiosfera. E, soprattutto, quello di testo. Testo, per Lotman, è ogni manifestazione della cultura. Vi rientrano le mode, le immagini, i costumi, i giochi e il byt termine russo che definisce l’esperienza di vita vissuta nel quotidiano. Se la cultura è condizione sine qua non per l’esistenza di qualsiasi consesso umano, che cosa dobbiamo intendere per “cultura”?
Cultura è un insieme di informazioni non genetiche, memoria non ereditaria dell’umanità. La cultura, spiega Lotman nella prima lezione raccolta nel volume, «è memoria». Memoria attiva che dà forma, sia a livello del singolo, sia in una società, a quanto chiamiamo “cultura”.
La memoria assume così un ruolo determinante, attivo, dinamico, non meramente documentale: la distruzione della cultura passa dalla distruzione della memoria e la distruzione della memoria si attua attraverso l’annichilimento dei testi che la compongono e l’isolamento dei soggetti capaci di pensare - e organizzare - la trasmissione. La morte di un intellettuale al quale sia impedito di trasmettere è paragonata da Lotman alla distruzione della Biblioteca di Alessandria. Il fuoco distrugge, ma ancor più pericoloso del fuoco è il fumo che può saturare l’universo/ambiente culturale che avvolge l’uomo, ambiente dove le singole culture si relazionano, ibridandosi e favorendo la reciproca evoluzione.
Un’evoluzione che non è mero «progresso tecnico-scientifico», ma “ecologia” della società umana. Cultura, spiega ancora Lotman, in pagine densissime e di straordinaria chiarezza, è «quell’atmosfera che l’umanità crea attorno a sé per continuare a esistere, ovvero per sopravvivere. In questo senso, la cultura è una nozione spirituale» e, al tempo stesso, una tensione etica - fra sé e il mondo - ineludibile per l’intellettuale.
Racconta Lotman che un giorno Tolstoj, giovane ufficiale di artiglieria reduce da Sebastopoli, arrivò a Pietroburgo nella redazione del “Contemporaneo”. Tolstoj irruppe nel corso di una disputa molto accesa fra liberali e democratici, ma non riuscì a capire le ragioni del contendere. Chiese allora lumi a Nekrasov, che gli rispose: le convinzioni! Discutiamo per le nostre convinzioni! Ma quali convinzioni, ribatté Tolstoj, queste sono solo parole: «le convinzioni sono quando uno sta in guardia impugnando un pugnale». Intendeva dire, Tolstoj, che non ogni parola è un’idea, non ogni idea - per quanto “bella”, “buona” e levigata - è una convinzione. Talvolta è un alibi.
Di contro, proprio la capacità di non darsi alibi, unendo vita e pensiero, osserva Lotman, è la caratteristica di ogni individuo pensante. La cultura sopravvive solo grazie a una mite intransigenza. «Parlare non costa nulla, fondere vita e pensiero invece è difficile perché la realtà impone spesso di sacrificare le proprie idee». L’intelligenza, d’altronde, è prima di tutto una qualità morale e in una lettera al fratello citata da Lotman, Cechov elenca le virtù che dovrebbe possedere un “uomo educato”, un intellettuale. La principale? «Temere la menzogna come si teme il fuoco».
*
Jurij Michajlovič Lotman
Conversazioni sulla cultura russa
a cura di Silvia Burini
traduzione di Valentina Parisi
Bompiani 2017
pp. 440, euro 20
Linguistica. Le controverse tesi dello studioso in un testo chiaro e aggiornato
Iniziazione a Chomsky in tre brevi saggi
di Lorenzo Tomasin (Il Sole-24 Ore, Domenica , 07.10.18)
Un libro come Il mistero del linguaggio, in cui Matteo Greco ha raccolto e Andrea Moro ha ottimamente introdotto tre brevi saggi recenti, di taglio divulgativo e per varie ragioni ricapitolativi della riflessione di Noam Chomsky, ha una grande utilità: esso offre con chiarezza e con esemplare onestà il punto della situazione su alcune questioni capitali che, note nei loro lineamenti generali, rischiano di confondere le idee di chi si avventuri nello sconfinato edificio della linguistica attuale.
Provo, in estrema sintesi, ad estrarre alcuni dei concetti che mi paiono portanti in un volume che, come spesso i libri migliori, è breve ma difficilissimo da riassumere. Ometto di qui in avanti formule tipo «secondo Chomsky» o «secondo l’attuale visione di Chomsky», dando per scontato la natura controversa, e spesso frutto di revisioni anche drastiche, di molti assunti.
La varietà delle lingue umane ha una radice comune nella facoltà di linguaggio. Essa è condivisa da tutti gli uomini ed è sostanzialmente immutata da quando homo sapiens ha sviluppato l’attuale struttura cerebrale. Ogni essere umano (a parte casi patologici, interessanti per cercare verifiche) può apprendere qualsiasi lingua, in particolare nella forma dell’apprendimento spontaneo infantile. In compenso, nessun animale può apprenderne alcuna.
Si tratta dunque d’una proprietà esclusiva della specie umana necessariamente radicata nel suo patrimonio genetico (e solo nel suo) e quindi nelle sue strutture fisiche (cioè nelle reti neurali cerebrali). Essa è indipendente sia dai caratteri specifici di questa o quella lingua, che non influiscono su tempi o modi dell’apprendimento dell’infante, sia dalla lingua dei genitori biologici.
Tale proprietà si sarebbe manifestata in homo sapiens per effetto d’una mutazione piuttosto repentina, non tràmite un processo evolutivo lungo. Lo suggerirebbe, tra l’altro, il fatto che non esisterebbero in natura “mezze sintassi” o abbozzi evolutivi del linguaggio, né tra gli animali - i cui sistemi di comunicazione non hanno la possibilità computazionale dalla produttività illimitata che presiede alla sintassi -, né tra gli uomini. Il linguaggio così inteso va quindi riguardato come un peculiare sistema di organizzazione del pensiero.
Idea centrale della teoria è che esso sarebbe fatto primariamente per pensare e solo secondariamente per comunicare. Esso nascerebbe dentro la mente e solo in un secondo momento verrebbe esternalizzato, di solito attraverso il suono, ma non necessariamente (si pensi alle lingue dei segni). Anche alcuni uccelli, in effetti, «cantano» in modo fisicamente e neurologicamente molto simile a come gli uomini emettono la voce, ma non possiedono sintassi, cioè la possibilità di formare un numero potenzialmente infinito di frasi con un numero finito di elementi.
Il fatto che sul piano dell’organizzazione logica, quindi sulla sintassi, si basi il concetto di linguaggio così concepito, comporta che la sintassi sia centrale nello studio delle proprietà generali del linguaggio, anche se non automaticamente di quelle specifiche delle lingue che parliamo e scriviamo da svariati millenni.
L’evoluzione biologica e la storia (delle lingue, che è in fondo la storia tout court) non vanno assolutamente confuse. Le lingue - snodo fondamentale - non si sarebbero mai evolute nel senso che questo termine ha in biologia: cioè non avrebbero mai prodotto modifiche geneticamente trasmesse nella specie umana. Tutta la loro storia si svolge a valle di un passaggio evolutivo già avvenuto, una volta per tutte, decine di migliaia di anni fa. Da allora - cioè in tutta la storia di tutte le lingue che conosciamo - per il linguaggio nihil sub sole novi: per cui occuparsi delle proprietà del linguaggio intese nel senso appena esposto significa indagare, di fatto, le potenzialità presenti - pur se non necessariamente espresse - in un ominide preistorico come in un postino newyorkese. Dal punto di vista appena chiarito, essi parlano la stessa lingua (o meglio: lo stesso linguaggio), con differenze superficiali che non interessano - ovviamente - chi s’incarichi d’indagare le proprietà generali della facoltà di linguaggio. Tutta la vicenda delle lingue si svolge dunque a valle di un passaggio evolutivo da cui la storia umana resta, di fatto, del tutto esclusa.
La teoria sintattica che va sotto il nome di Grammatica universale si rivela dunque al lettore di queste pagine come un generoso tentativo di indagare il funzionamento stesso di una parte (anzi di più parti tra loro collegate) del cervello umano e di quella che chiamiamo la mente. Il che dà un contributo importante, ma certo non risolutivo, a chi voglia rispondere a domande come: perché parliamo come parliamo?, oppure: perché scriviamo come scriviamo?
È chiaro che la linguistica intesa come studio del(la facoltà di) linguaggio e la linguistica come studio delle lingue sono due nozioni distinte, e pur indubbiamente collegate dal fatto di chinarsi concretamente sugli stessi oggetti, cioè sui prodotti linguistici. Sebbene le tappe che hanno portato allo stadio teorico qui descritto siano state segnate da contrasti talora feroci - come spesso capita, ma con il sovrappiù di asprezze dottrinali che speriamo solo novecenteschi -, si può finalmente confidare nel tramonto di una fase della linguistica iniziata forse al principio del secolo scorso, in cui si è assistito da un lato a una corsa per affermare che vi sono teorie linguistiche «più linguistiche» di altre, e dall’altro ad escludere progressivamente dalla «vera linguistica» (variamente intesa dagli adepti delle diverse obbedienze) ciò che «linguistica» non è o non sarebbe, pur applicandosi, fatalmente, allo studio delle lingue.
In altri scritti, Chomsky ha suggerito che l’ipotetico scienziato che giungesse da un altro mondo (magari, aggiungo, con un manuale di grammatica generativa sotto il braccio) potrebbe tornarsene a casa riferendo che sulla Terra vive una specie dotata di un linguaggio che, non ostanti minime differenze locali, è riconducibile a un’unica grammatica. L’immagine è provocatoria e sanamente urticante, come càpita ai paradossi ben formulati.
Un altro scienziato extraterrestre, a dire il vero, potrebbe riferire anche che il pianeta è caratterizzato da un’unica forma di vita, descrivibile secondo i principi generalissimi della genetica, che si manifesta in una varietà solo apparente.
Un resoconto se si vuole corretto, anche se un po’ riduttivo e, forse, insoddisfacente almeno per una parte degli organismi biologici (o se si preferisce addirittura degli ammassi di protoni, neutroni, elettroni) che leggono queste righe, immersi in quella che a loro appare - ma davvero si tratta d’un fenomeno marginale e secondario? - la decisiva varietà della storia e della vita.
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti"? ..... *
Antropologia.
Caleb Everett: Siamo tutti figli dei numeri
Sono fondamentali per lo sviluppo della civiltà, delle relazioni umane e della coscienza di sé. Parla l’antropologo che ha studiato le società primitive che non ne fanno uso
di Eugenio Giannetta (Avvenire, mercoledì 15 agosto 2018)
Che ore sono? Quanto è alto? Quanto pesa? Domande semplici, che richiedono una risposta semplice, perlopiù racchiusa in un numero. Eppure ci sono società, popoli diversi dal nostro, che vivono senza i numeri per come li conosciamo e utilizziamo quotidianamente. Tutto ciò è al centro del lavoro di Caleb Everett, docente di Antropologia all’Università di Miami, che ha ripercorso le tappe dell’invenzione dei numeri: «Un insieme fondamentale di innovazioni di carattere linguistico che hanno contraddistinto la nostra specie in modi che non hanno trovato adeguato riconoscimento».
I numeri in effetti sono un’invenzione umana che di fatto ha trasformato l’evoluzione della nostra esperienza, a partire appunto da domande semplici.
«Nella popolazione Munduruku dell’Amazzonia - spiega Everett -, non esistono parole esatte per i numeri superiori al ’due’. Nel caso di un altro popolo amazzonico, i Piraha, le parole per indicare i numeri non esistono affatto, nemmeno per il numero 1. Gli individui di queste popolazioni come fanno allora a rispondere alla domanda ’quanti anni hai?’, o ad altre domande che si basano sul concetto di numero e che per la maggior parte delle persone della nostra società riguardano aspetti fondamentali della vita?». Everett ricorda come i numeri siano protagonisti nel nostro presente, ma anche nel nostro passato, poiché segnano la cronologia degli eventi e la percezione del trascorrere del tempo. La sua analisi, però, non si limita a questo, tocca infatti altri aspetti, come quello simbolico, le concezioni numeriche di bambini in età pre-linguistica e le capacità numeriche di alcune specie animali.
È un lavoro antropologico tout court, che attraversa la storia dei numeri e del linguaggio, e che ne definisce appunto il tratto numerico e il valore della quantità, a partire da misurazioni primitive, quindi da unità di misura indicate inizialmente con parti del corpo umano, fino a un diverso e più sviluppato livello di astrazione. Il risultato finale di queste ricerche, che hanno portato Everett in Amazzonia e Nicaragua,- è il saggio I numeri e la nascita della civiltà. Un’invenzione che ha cambiato il corso della storia (Franco Angeli, pagine 282, euro 25), di cui abbiamo parlato con l’autore, la cui tesi, riferita già dal prologo del volume, rivela come i numeri abbiano nel tempo consentito una fioritura di tecnologie materiali e comportamentali:
«Nella vita quotidiana ci affidiamo a conoscenze che non sono propriamente nostre, che possiamo ricavare dalle menti altrui, e che in molti casi sono state acquisite casualmente e in modo violento nel corso dei millenni. Pensate ad alcuni esempi della vostra cultura: non avete dovuto inventare l’automobile, gli impianti di riscaldamento o il modo più efficiente per sfilettare il pollo: sono tecnologie e comportamenti che avete ereditato. Le vostre azioni sono state modellate attraverso gli altri e siete stati educati ai vostri comportamenti, sia in modo formale che informale, attraverso il linguaggio».
Riflessioni, quelle dell’autore, che sono il risultato di un approfondimento capillare di ulteriori studi condotti da archeologi, linguisti e psicologi, che negli ultimi anni hanno provato a mostrare come i numeri siano un’invenzione in primo luogo linguistica, spesso creati a partire dalla parola mano, che ha consentito di definire le quantità con minore approssimazione. Un passaggio non distante, ad esempio, da quanto accadde con l’invenzione delle parole per definire i colori.
Proviamo a immaginare: che cosa potrebbe accadere a una popolazione che si ritrovasse improvvisamente senza numeri?
«Ci vorrebbe molto tempo, a meno che non siano stati cancellati anche dalla mente delle persone, oltre che dalla lingua parlata e scritta. Ma presumendo che siano magicamente scomparsi, dovremmo lottare per gestire molte delle tecnologie che ci circondano, che richiedono una certa consapevolezza di quantità precise. Ad esempio, non saremmo in grado di comunicare il tempo in modo preciso, il che avrebbe un impatto su qualsiasi altra cosa. Le popolazioni anumeriche, o quelle con pochi numeri, non tengono traccia di cose come ore, minuti e secondi».
Senza i numeri, come sarebbe la nostra vita?
«Senza numeri le nostre vite sarebbero probabilmente molto più simili a quelle delle persone di cui parlo nel libro. Probabilmente saremmo cacciatori, raccoglitori e non indu-strializzati, dal momento che sia l’agricoltura che l’industrializzazione si basano sugli strumenti concettuali che chiamiamo numeri».
I suoi genitori erano missionari e si sono occupati della traduzione della Bibbia in varie lingue, cosa che le ha dato la possibilità di passare molto tempo tra le tribù dell’Amazzonia. La sua esperienza da bambino in quei luoghi e con quelle culture ha ispirato questo lavoro?
«Certamente, mi ha dato un’esperienza di prima mano con un gruppo di persone che non ha numeri, che alla fine mi ha portato a interessarmi a questo argomento, come ricercatore, anni dopo».
È possibile che cambi la cultura numerica di una popolazione?
«Le culture numeriche cambiano continuamente. Basta considerare quanto sia cambiata la cultura numerica dell’Europa, o più specificamente la regione che ora è l’Italia. Durante l’impero romano fu usato un insieme di numeri completamente diverso, che aveva alcuni svantaggi rispetto al sistema numerico indù-arabo che ora usiamo. Fibonacci lo riconobbe nel XIII secolo e, in parte per via del suo lavoro, i numeri che ora usiamo arrivarono alla diffusione in tutto il mondo. E hanno svolto un ruolo importante nella rivoluzione scientifica».
Nella nostra epoca numeri e dati sono sempre più importanti, basti ragionare sul concetto di big-data. Quanto emerge questo aspetto dal suo lavoro?
«Faccio ricerche anche su altri argomenti, ad esempio sui suoni prodotti dagli esseri umani. E questa ricerca richiede l’utilizzo di big data. In un recente lavoro con migliaia di linguaggi, ad esempio, il mio lavoro suggerisce che il clima potrebbe influire sul modo in cui le lingue evolvono».
È possibile pensare a numeri scollegati dalla loro rappresentazione linguistica?
«Potrebbe essere possibile, ma possiamo dire con certezza che, prima di essere annotati o espressi in altri modi non verbali, in ogni cultura i numeri venivano prima pronunciati».
C’è una differenza tra tradizione orale e scritta riguardo ai numeri?
«La tradizione orale ha il primato, ma tornando a Fibonacci, ad esempio, i numeri che ha introdotto avevano una storia diversa rispetto ai numeri parlati italiani»
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
CHI SIAMO NOI IN REALTA’? Relazioni chiasmatiche e civiltà: UN NUOVO PARADIGMA.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
COSTITUZIONE E MINORANZE LINGUISTICHE: L’ITALIA RIDOTTA AL SILENZIO.... *
L’allarme. Minoranze linguistiche, un patrimonio che rischia di finire nel silenzio
In Italia ce ne sono varie e molte vanno sparendo: walser, tabarchino, arbëreshë, ladino, grico, occitano. Ma in alcuni casi il recupero oltre che identitario diventa motore di sviluppo economico
di Chiara Zappa (Avvenire, venerdì 17 agosto 2018)
Da Pecetto, la più alta tra le nove frazioni di Macugnaga, dove finisce la strada che rimonta l’aspra valle Anzasca, Anne può ammirare ogni volta che ne ha voglia le maestose quattro cime della parete est del Monte Rosa. Da bambina, ricorda, «io e i miei fratelli andavamo a prendere i carichi di legna per l’inverno, perché non avevamo il riscaldamento, e mentre lavoravamo ci richiamavamo da un alpeggio all’altro con lo jutzu, il nostro jodel. Cantavamo sempre, qui si sentivano sempre voci nell’aria».
Quelli che hanno accompagnato l’infanzia di Anne, minuta signora di 91 anni, sono i canti walser, tramandati per generazioni dai discendenti dei coloni svizzeri che, nel XIII secolo, attraverso il passo del Monte Moro raggiunsero queste zone ostili all’uomo dell’attuale Piemonte, chiamati dai monasteri o dai feudatari che chiesero loro di bonificarle.
La lingua walser, nei suo diversi dialetti locali, si è conservata intatta, “ibernata” come in uno dei ghiacciai che dominano il panorama, tanto che gli svizzeri o i tedeschi che passano di qui sono felici di sentire parole che da loro non esistono più da secoli. Il walser è un idioma della memoria, un po’ come, nel cuore della Basilicata, l’arbëreshë, l’albanese portato nel ’500 dagli esuli in fuga dalla dominazione ottomana.
O come il tabarchino, che ufficialmente è solo una variante del dialetto genovese, ma ha un’identità assolutamente specifica e stupefacente: a parlarlo, in due isole sarde dell’arcipelago del Sulcis, sono gli eredi dei coloni genovesi giunti da Tabarka, in Tunisia, poco meno di trecento anni fa. Questi migranti avevano vissuto per due secoli nel regno dei Bey tunisini, impiegati dalla "madrepatria" ligure alla pesca del corallo, e lì avevano mantenuto la loro parlata assorbendo però alcune espressioni e molti aspetti della cultura locale, a cominciare dalla gastronomia: il cuscus ( cascà in tabarchino) è oggi un piatto tipico a Calasetta e Carloforte.
Le storie di queste isole linguistiche che resistono, ormai a fatica, in mezzo al mare dell’italiano, così come l’occitano e il grico del Salento, sono raccontate nel libro Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza (Ctrl Books; autori vari, pagine 124, euro 18,00), accompagnate dal suggestivo reportage fotografico di Emanuela Colombo. -«La lingua crea un’identità individuale e di gruppo», si legge nella prefazione. «La lingua, al contempo, può essere un elemento di differenza. E di conservazione delle differenze. Un antidoto a quel tipo di potere che, consciamente o inconsciamente, uniforma e appiattisce. Forse chi lavorò intorno alla Carta che avrebbe regolato la vita civile dell’Italia liberata dal fascismo aveva in mente qualcosa di simile: la Costituzione della Repubblica Italiana tutela, con l’articolo 6, le minoranze linguistiche. Nel momento di una nuova unificazione, i padri costituenti decisero di proteggere le differenze».
A 70 anni dall’entrata in vigore dello Costituzione, gli autori del libro compiono così un viaggio narrativo e per immagini, dalla Basilicata alle Alpi, in questa Italia sull’orlo del silenzio. Per scoprire quanto le parole siano inscindibili dalla cultura di una comunità.
A Carloforte i capi delle tonnare, che hanno fatto la fortuna dei tabarchini, si chiamano rais e sono figure quasi mitiche. Ad Alagna Valsesia le case sono costruite con la tecnica del blockbau, a incastro, tipica dei popoli germanici. La cultura ma anche la fede. Nella chiesa di San Costantino il Grande, a San Costantino Albanese, la messa si celebra in rito bizantino e in lingua arbëreshë. A Pomaretto (Lou Poumaré in occitano) all’imbocco della Val Germanasca, la maggioranza degli abitanti segue il culto valdese: questa valle sperimentò la pace, dopo secoli di terrore e persecuzioni, solo nel 1848, quando Carlo Alberto di Savoia riconobbe ai valdesi pieni diritti civili e politici.
Si tratta di identità ancestrali tanto preziose quanto, frequentemente, inconsapevoli. Chi parla una lingua in via di estinzione spesso non si rende nemmeno conto del patrimonio che mastica quotidianamente. Franco Bronzat, linguista nato a Torino da genitori della Val Chisone, se ne accorse casualmente al liceo. Nell’ora di letteratura, la professoressa aveva letto una poesia del grande trovatore provenzale Arnaut Daniel, spiegando che era scritta in occitano, «una lingua morta». Franco alzò la mano: «Sarà morta per lei. Ma a me sembra la stessa roba che parliamo noi a casa».
Una naturalezza che aumenta il rischio di lasciare scivolare via, piano piano, le parole e quello che significano: uno stile di vita, un’identità di singolo e di gruppo. Tutte le comunità minoritarie d’Italia, anche se in modi e a livelli diversi, stanno affrontando la sfida del declino. Gli anziani se ne vanno e si portano via i proverbi, le canzoni, i pezzi di un mondo. A meno che non ci sia qualcuno che, realizzato il valore di ciò che si sta perdendo, incoraggi la collettività alla riscoperta delle proprie radici.
In molti casi sta succedendo. Nello storico centro polifunzionale di Alagna, Davide Filié tiene un corso di titzschu, la versione locale del walser, per i ragazzini del paese. «Una lingua è ancora viva se due bambini, almeno due, la usano per giocare», afferma convinto. E i bimbi sono tornati anche a Ostana, minuscolo borgo occitano della Valle Po dove il regista Giorgio Diritti ha ambientato il film Il vento fa il suo giro. All’inizio del Duemila, quassù vivevano sei persone, oggi i dati della municipalità parlano di 85 abitanti. Si valorizzano le risorse tradizionali unendole ai nuovi modelli di sviluppo sostenibile, si organizzano corsi e seminari e un festival internazionale dedicato alle "scritture in lingua madre".
Similmente, tra gli ulivi della Grecia salentina si comincia a pensare che il recupero della memoria sia anche sinonimo di economia, e i comuni si sono uniti per difendere le loro peculiarità, a cominciare da quella linguistica. «In questi paesi ora non si costruiscono palazzine. La gente è fiera dei propri canti, del proprio cibo. La modernità non è stata rinnegata, ma internet convive con la pizzica».
Certo, qui, come in tutte le altre isole minoritarie d’Italia, il timore è che la cultura locale si trasformi in semplice folklore a uso dei turisti. Un rischio, tuttavia, che vale la pena di correre, se non si vuole scomparire.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
Circolare del Ministero
Nelle scuole arriva il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità
di Alessia Tripodi (Il Sole-24 Ore, 26 marzo 2018)
Un Sillabo per introdurre strutturalmente nelle scuole secondarie italiane l’educazione all’imprenditorialità. Costruendo percorsi didattici per sviluppare nei ragazzi conoscenze, abilità e competenze utili non solo per un’eventuale futura carriera da imprenditori, ma in ogni contesto lavorativo e nelle esperienze di cittadinanza attiva. È la novità lanciata dal ministero dell’Istruzione e contenuta in una circolare inviata a tutti gli istituti.
Iniziativa in linea con obiettivi Ue
L’iniziativa, spiega il Miur, è in linea con l’obiettivo chiave di promuovere e sviluppare le abilità imprenditoriali, definite dalla Commissione Europea con la Comunicazione 2012 «Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici» e rinnovate nella Comunicazione 2016 «A new skills agenda for Europe». Per la prima volta si introduce quindi nella scuola italiana l’Educazione all’imprenditorialità, tramite un Sillabo costruito attraverso il coinvolgimento di circa 40 stakeholder (tra cui rappresentanze nazionali, fondazioni, attori del mondo dell’innovazione, imprese, mondo cooperativo e altri attori della società civile).
Cinque macro aree
Il Sillabo, fa sapere il ministero, è suddiviso in 5 macro aree di contenuto: Forme e opportunità del fare impresa; la generazione dell’idea, il contesto e i bisogni sociali; dall’idea all’impresa: risorse e competenze; l’impresa in azione: confrontarsi con il mercato; cittadinanza economica. L’Italia, sottolinea ancora Viale Trastevere, è inoltre tra i primi paesi in Europa ad adottare strutturalmente il modello concettuale "EntreComp" (Entrepreneurship Competence Framework), il Quadro di Riferimento per la Competenza Imprenditorialità, prodotto dalla Commissione Europea. Questo intervento è legato ai finanziamenti dedicati all’Educazione all’imprenditorialità e previsti dal bando Pon 2775, in corso di valutazione, per un investimento complessivo di 50 milioni di euro.
Ideologia sillabica
di Giorgio Mascitelli (Alfabeta-2, 29.04.2018)
La nostra vita pubblica è costellata di piccoli incidenti che sarebbero stati in altre fasi storiche insoliti se non impensabili, ma che diventano oggi, più semplicemente, l’attestazione indiretta della tendenza a ricondurre senza esitazioni ogni singolo aspetto della vita sociale alle cosiddette leggi inesorabili del profitto. È il caso, per esempio, delle controversie seguite alle critiche che diversi accademici della Crusca, riuniti nel gruppo Incipit, tra i quali figurano illustri linguisti i cui insegnamenti, in tempi normali, dovrebbero essere piuttosto il punto di riferimento per l’uso dell’italiano in ambiti ufficiali, ha riservato alla lingua usata in un documento del ministero dell’istruzione, il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria. In particolare la constatazione degli accademici che nel Sillabo vi era stata una ‘meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari’ ha suscitato la reazione piccata dello stesso ministro.
Del resto già da alcuni anni molti documenti ministeriali sono redatti in una lingua aziendalistica infarcita di stereotipi e anglismi pletorici. Si tratta di una lingua chiaramente affetta da quello che Calvino chiamava il terrore semantico, ossia la fuga di fronte a ogni termine cha abbia un significato chiaro, tipico dell’antilingua delle burocrazie. I rapporti del gergo ministeriale con l’antilingua calviniana sono evidenti e tuttavia più articolati di quanto si potrebbe pensare: se da un lato esso ne è l’omologo contemporaneo quanto all’uso e alla fruizione sociali, dall’altro appare come l’esito deviato e malsano di quello sforzo di modernizzazione dell’italiano che avrebbe dovuto salvarlo dall’antilingua.
Infatti, mentre Calvino vedeva illuministicamente in una lingua pienamente comunicativa e di immediata traducibilità lo strumento linguistico di una modernità razionale, è probabile che gli estensori di questi documenti vedano in quegli aspetti del loro linguaggio che lo rendono un pidgin difficilmente traducibile tanto in italiano quanto in inglese i tratti di una comunicazione moderna che rispetta standard scientifici. Nella fiducia, nonostante tutte le evidenze di segno opposto, della sua efficacia comunicativa si rivela indirettamente uno degli aspetti dell’ideologia contemporanea ossia l’idea che il successo della scuola coincida con il suo adeguamento a determinate pratiche e concezioni internazionali o meglio promosse da alcune organizzazioni internazionali. -Siccome questi organismi presentano spesso le loro politiche scolastiche non come una strategia nascente da una certa opzione politico-culturale, ma come l’applicazione di criteri scientifici all’avanguardia politicamente neutrali, ecco allora che la lingua dei documenti ministeriali pullulerà di tecnicismi anglicizzanti.
Del resto l’antilingua burocratica di cui parlava Calvino cinquant’anni fa, in cui ‘timbrare’ si doveva dire ‘obliterare’ secondo il suo celebre esempio, veniva ricalcata su allocuzioni e sintagmi tipici della lingua giuridica, sentita come più autorevole perché emanazione della legge e dello stato; così, nel gergo dei documenti sulla scuola, l’assemblaggio di espressioni provenienti dall’informatica, dalla pedagogia anglosassone e dall’economia serve a incutere nel lettore il rispetto verso discorsi che traggono origine dalle vere autorità del nostro tempo ossia il mercato e la tecnologia. Calvino sognava la modernizzazione dell’italiano come lingua al servizio della società ossia di tutti, in un’utopia nobile anche se dalle forme un po’ tecnocratiche, perché la lingua risentirà sempre dei rapporti di potere in una società e nel contempo li rappresenterà, mentre l’antilingua di oggi, come quella di ieri, enfatizza questi rapporti di potere e si fa strumento per lasciarli inalterati.
Nella fattispecie del sopraccitato Sillabo, l’idea che tutta l’attività scolastica debba essere imperniata sull’educazione all’imprenditorialità, sulla quale verte il documento, non può che essere presentata all’interno del quadro concettuale dell’antilingua ministeriale, perché in qualsiasi altra forma linguistica rivelerebbe subito gli aspetti ideologici, totalitari e assurdi di questa idea. Non si tratta allora di qualcosa di analogo al latinorum con cui Azzeccagarbugli cerca di approfittare della propria superiorità culturale e contro il quale protesta Renzo, ma del fatto che il ricorso all’antilingua garantisce una verniciatura di moderna oggettività tecnocratica a una serie di idee e concetti, le cui matrici storicamente date sono reazionarie. Così per esempio il silent coaching, evocato nel sillabo ministeriale per stimolare forme di autoconsapevolezza imprenditoriale, se fosse stato reso con la traduzione di ‘allenamento o addestramento silenzioso’, avrebbe finito con l’istillare il dubbio nel lettore che quella che si va imponendo è una scuola unidimensionale, fortemente ideologizzata e poco incline allo sviluppo delle capacità critiche dello studente.
Che un documento del genere sia intitolato con un termine arcaico e desueto quale sillabo, che sembrerebbe essere inconciliabile con le sue velleità rinnovatrici, è curioso; infatti il termine ‘sillabo’ richiama oggettivamente nella cultura italiana il documento, pubblicato da papa Pio IX nel 1864, nel quale venivano condannate tutte le dottrine progressiste dell’epoca in nome del tradizionale assolutismo pontificio. Del resto è curioso, ma non sorprendente che un testo redatto in chiave accattivante e futuristica incorra in una svista simile, perché è caratteristica di ogni antilingua quella di ignorare le sfumature storiche del linguaggio. Non occorre, però, prendersela per questo, anzi dobbiamo essere grati agli incauti estensori del nuovo sillabo di questa gaffe storica che suggerisce, sia pure in modo preterintenzionale, quali siano i veri modelli sociali a cui si ispirerà la scuola del futuro.
NOTA:
UNA "RISPOSTA"
Il documento del ministero dell’istruzione, il “Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria”, dice della punta di un “iceberg” (lodi alle “sentinelle” della Crusca e, ovviamente, a Giorgio Mascitelli e ad “Alfabeta” per la “segnalazione”) , del lunghissimo “abbraccio” culturale-politico che ha la sua parte emersa nell’art. 7 della Costituzione e la sua parte sommersa e profondissima negli apparati “scritturali” dei funzionari ministeriali dei “due Stati”, Stato d’Italia e Stato della Chiesa cattolico-romana.
Con tutte le conseguenze del caso, sia per la Costituzione della Repubblica italiana, sia per la “Costituzione dogmatica” della Chiesa. Manzoni, con i suoi “Promessi Sposi”, ha ancora lezioni da dare su tutti e due i “livelli”, sia laico sia religioso: siamo ancora alla teologia-politica del “latinorum”! Per restare sul tema della storia d’Italia e del “Sillabo” (vale a dire, l’ “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo” di Pio IX (8 dicembre 1864), molto utile potrebbe essere la lettura dei saggi presenti nel libro “Modernismo, Fascismo, Comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel’900” (Il Mulino, Bologna 1972): in particolare, “Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «il Frontespizio»" di Luisa Mangoni, e, “Alcune lettere di Mons. Giuseppe De Luca a Giuseppe Bottai” a cura di Renzo De Felice; e, ancora, sia lecito, di alcune mie note su “un rinato sacro romano impero” (Gramsci, 1924): I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882).
Federico La Sala
Chi è il numero uno?
Eugen Rosenstock-Huessy e il ruolo della prima persona.
di Damion Searls (Il Tascabile, 03.04.2018) *
Può essere sconvolgente rendersi conto, all’improvviso, che qualcosa a cui non avevi mai pensato - qualcosa che avevi sempre accettato come reale - è solo un articolo di fede. Spesso è il linguaggio a far accendere la lampadina: qualcuno ridefinisce la realtà con una nuova parola (mansplaining, Rebecca Solnit) o mostrando i poteri nascosti e le interconnessioni di una parola antica (debito, David Graeber). Raramente la rivelazione riguarda il linguaggio in sé.
La citazione è di Eugen Rosenstock-Huessy (1888-1973), un teorico del Cristianesimo dell’età moderna molto particolare. (Tutte le traduzioni sono dal volume The Language of the Human Race: An Incarnate Grammar in Four Parts [Die Sprache des Menschengeschlechts: Eine leibhafte Grammatik in vier Teilen].) Rosenstock-Huessy ha ispirato alcuni connoisseur, tra cui W. H. Auden e Peter Sloterdijk, ma possiamo dire in tutta tranquillità che è ancora poco conosciuto. È difficile capire cosa pensare di lui. Di sicuro trovo fastidiosa la palese importanza della nascita di Cristo - o della Missione Divina - che inserisce regolarmente nei suoi ragionamenti filosofici. (Auden: “Chi lo legge per la prima volta può trovare, come è capitato a me, certi aspetti della sua scrittura un po’ difficili da accettare... Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ascoltando Rosenstock-Huessy, io sono cambiato”). Il dogma grammaticale a cui fa riferimento - e contro cui si è battuto a morte in un libro di oltre 1.900 pagine - è la lista all’apparenza innocente che risale ai Greci: la prima persona, la seconda persona, la terza persona. Io amo, tu ami, egli ama, o, se avete studiato Latino, amo, amas, amat.
Non sta dicendo che dovremmo aggiungere una forma per la “quarta persona”, come per esempio la distinzione tra terze persone in Ojibwe, oppure una “persona zero” per le costruzioni impersonali come in Finlandese. Sta dicendo che rendere “io” la prima persona è il peccato originale non solo della linguistica, ma della filosofia, della scienza e della stessa vita sociale. E lo intende davvero. Teoricamente, appiattisce l’esperienza vissuta in resoconti freddi e asettici, assimilando tutto all’“affermazione” di un “dato” in terza persona che non richiede alcun coraggio personale, non ha alcuna rilevanza sociale.
Empiricamente, la lista Greca commette un errore: la “prima persona” infatti non arriva per prima. L’io di un bambino si sviluppa quando gli viene rivolta la parola, da un genitore o da un’altra persona che si prende cura di lui. Qualcuno deve dire “tu” nel modo giusto perché un “io” non folle possa di fatto esistere. (Vedi Neither Sun Nor Death di Peter Sloterdijk, p. 30, dove ho sentito parlare di Rosenstock-Huessy per la prima volta). Dal punto di vista psicologico, neurocognitivo e dello sviluppo, “io” è l’ultima persona. Sei un bravo bambino. La bottiglia è lì. Ho fame.
È questa la rivelazione che mi ha tanto colpito. La prima persona non è la prima. Non esiste nessuna lista, a parte quelle che inventiamo. Che aspetto avrebbe il mondo se potessi vedere al di fuori di questo schema? Se prima venisse un legame tanto forte da darti l’autorità di giudicare l’esperienza di qualcun altro - tu ami, tu hai fame, sei carino oggi, ti stai comportando male - e poi venisse una visione condivisa del mondo, e solo successivamente un’espressione di sé? L’idea Cartesiana, “penso dunque sono”, e tutte le distinzioni tra mente/corpo/io/altro avrebbero potuto non emergere mai se Cartesio non fosse stato indottrinato con l’idea che “io” viene per primo. Esistono romanzi in prima e in terza persona, ma la seconda è un’anomalia, proprio come nella vita reale non possiamo prenderci la libertà di parlare per una seconda persona come faremmo di noi stessi in quest’era dell’espressione di sé. Quanto altro ancora della natura del romanzo, e della percezione della mia vita, risale essenzialmente alla grammatica greca di duemila anni fa?
Vale la pena notare che scrisse questi pensieri sulla tirannia nel 1945. E che l’uso del “lui o lei”, ben avanti sui tempi, è suo.
Rosenstock-Huessy fa risalire tutto a questo peccato, dai conflitti con l’autorità a scuola alla schizofrenia, e avanza delle rivendicazioni impressionanti per un proprio “metodo grammaticale” che riconfiguri il linguaggio. Come dicevo, non so cosa pensare al riguardo. Ma è qui, presentato per voi sotto forma di paragrafi alternati da me e da lui. Voi siete la prima persona. Fatene quello che volete.
Traduzione di Alessandra Castellazzi. Si ringraziano l’autore e The Paris Review per la pubblicazione dell’articolo.
* Damion Searls traduce dal tedesco, dal norvegese, dal francese e dall’olandese. Ha tradotto classici come Proust, Rilke, Nietzsche, e Ingeborg Bachmann. Il suo ultimo libro è Macchie d’inchiostro - Storia di Hermann Rorschach e del suo test.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Paolo Fabbri, la conversazione infinita
di Maria Pia Pozzato (Alfabeta2, 21.09.2017)
In genere si dice che discorso orale e discorso scritto rispondano a due technicalities diverse e che ognuno di noi sia più versato nell’uno o nell’altro. Paolo Fabbri, uno dei più importanti semiologi europei, pur essendo brillante autore di moltissimi saggi, è famoso soprattutto per il fluire maestoso e accattivante di un eloquio che ci teneva avvinti in tre-quattrocento nell’aula III di Lettere a Bologna, anche molto dopo che avevamo finito gli studi.
In un’epoca in cui gli studenti vanno a lezione solo in vista dell’esame e per fotografare con il cellulare le slide del powerpoint, l’immagine di quell’aula gremita e silenziosa è decisamente vintage: si andava ad ascoltare Fabbri per il puro piacere di farlo, nella convinzione di assorbire comunque qualcosa di interessante. Nella sua gratuità, l’andare a seguire una sua lezione, magari seduti per due ore su uno scalino dell’aula, era quel che si dice un bel gesto, qualcosa che sta all’intersezione fra la fedeltà a un maestro e la capacità estetica di cogliere il bello, l’interessante, il piacevole dell’esistenza senz’altro tornaconto immediato. È stata quindi un’idea eccellente quella di Gianfranco Marrone di raccogliere in volume le trascrizioni di ventuno conversazioni-intervista che il nostro autore ha avuto con altrettante persone dal 1998 al 2016. Come molto azzeccata, per ragioni che riprenderò in chiusura, è la scelta del titolo dato al libro: L’efficacia semiotica.
Nella prefazione Marrone sottolinea il fatto che i materiali raccolti sono solo apparentemente eterocliti perché in realtà, leggendo di seguito le varie interviste, si profila un orizzonte di ricerca con alcuni punti fermi precisi come lo strutturalismo, la testualità, il racconto, l’enunciazione, le passioni, la semiosfera, il dialogo costante con discipline come la linguistica, l’antropologia, la teoria della comunicazione, la storia dell’arte, la critica letteraria.
Così, anche se ritornano alcuni temi specifici, evidentemente nelle corde dell’autore (ognuno ha i suoi!) come ad esempio le strategie, il camouflage, gli zombie, la profezia, il falso, il terrorismo, ecc., ciò che struttura in profondità il discorso di Fabbri è una riflessione epistemologica che differenzi la semiotica strutturale da altre possibili, di fatto esistenti e praticate.
La lunga parabola professionale e l’immensa cultura gli consentono di tratteggiare, lungo le varie interviste, una storia molto articolata delle idee linguistiche e filosofiche da cui è emersa un certo paradigma semiotico. Come faceva nei suoi corsi, anche in alcune di queste conversazioni Fabbri insiste sull’aspetto socio-storico delle teorie.
Rileggendo in particolare Thomas Kuhn, ne sposa l’idea secondo cui in ogni epoca e in ogni ambito disciplinare ci sono delle persone, dei gruppi di individui che credono in alcuni assunti di base e li organizzano in paradigmi sempre più strutturati finché altre teorie, inizialmente confuse e in progress, non li soppiantano relegandoli in soffitta. Quindi anche la semiotica strutturale farà questa fine? È, quella del Nostro, la classica profezia auto-avverantesi?
A giudicare da quello che afferma ironicamente l’autore stesso, sembrerebbe di sì: “Ho amici che pensano che la semiotica sia stata una dei più grandi fallimenti intellettuali del secolo scorso, altri, meno amici, che dicono che la semiotica è una moda degli anni Settanta” (intervista con F. Marsciani, 2014). È indubbio che molti filosofi, linguisti, studiosi di letteratura, massmediologi ne hanno decretato da tempo la morte. Se si guardano i loro riferimenti, si nota che questi ultimi non sono aggiornati, e la disciplina viene criticata in base a tre fondamentali pregiudizi: da un lato la si accusa di apporre modelli linguistici a ciò che non è linguistico in senso stretto, come ad esempio la comunicazione visiva; dall’altra di ridurre a modelli narrativi standard, molto semplici e astratti, la testualità complessa; infine, al contrario, la si taccia di dire in modo astruso e complicato qualcosa che può essere parafrasato in maniera semplice, seguendo il senso comune.
La lettura di queste interviste a Paolo Fabbri potrebbe finalmente sgombrare il campo da queste tre visioni del tutto inattuali della semiotica. Innanzi tutto la vastità degli ambiti di applicazione (grandissima, ad esempio, l’attenzione alle immagini) spazza via l’idea che la semiotica possa affrontare solo ciò che è espresso linguisticamente o traducibile sub specie linguistica; ma soprattutto la visione della significazione, e il linguaggio teorico della sua descrizione, sono tutt’altro che semplificatori o inutilmente complicati.
Come dice Fabbri nell’intervista che apre la raccolta: “È il mondo che è complicato, non le spiegazioni che ne diamo. Il linguaggio naturale non è ingenuamente dato e semplice e le spiegazioni complicate. No! Il mondo naturale e il linguaggio sono complicatissimi e sono già là. E non possiamo revocarli o ricostruirli. Però possiamo tentare di rispecificarli, e i meccanismi di rispecificazione sono di una grandissima complessità” (intervista raccolta da A. Toftagaard 1998).
Non sarà che la semiotica, oggi, è attaccata proprio perché la sua via, che è quella della complessità, va poco di moda? O perché la sua vocazione formale è vista con sospetto in un’epoca in cui tutto deve essere immediatamente funzionale e concreto? Non dimentichiamo infatti che si tratta di “una disciplina metodologica a vocazione interdisciplinare” e quindi non legata a nessun tema o medium in particolare.
Che essa non sia un “prodotto” facile da vendere lo suggerisce Fabbri stesso quando, nell’intervista raccolta da Gianfranco Marrone che conclude il volume (2016), oppone il guru al maestro: il primo, istrionico protagonista di festival, farebbe informazione; mentre il secondo, chiuso per giornate intere in una stanza a dirigere piccoli seminari, farebbe formazione. Proprio questo tipo di lavoro, duro e poco appariscente, renderebbe efficace la semiotica: efficace nel rompere logore consuetudini di pensiero, nel trovare piani di traducibilità fra diversi linguaggi e addirittura nello scovare, attraverso il confronto con l’Altro culturale, cioè che è ancora “impensato” dalla propria cultura.
Facendo riferimento al lavoro del sinologo François Jullien, Fabbri dice: “Io non vado verso la Cina, cioè verso l’esotico, ma verso il ‘mio’ esotico, cioè verso qualcosa che non sono riuscito a pensare”. Qui, accanto a mille altri temi contenuti nella raccolta di cui non posso dar conto in questo breve spazio, emerge uno snodo cruciale del dibattito culturale contemporaneo, quello del ritorno all’ontologia. Dice Fabbri: “Quando Eco sostiene che c’è una ontologia di fondo, gli tocca prendere una metafora, lo zoccolo duro. [...] Per questo la cosiddetta deontologia non può essere fondata su principi di funzionamento ‘di ultima istanza’, ma sull’idea di un confronto culturale. È per quello che mi interessa il ragionamento di Jullien, quando dice che la relazione con le culture altre è un saggio di deontologia”.
GUERRA DI GENERE. .. E CONVERSAZIONE INFINITA. Una modesta considerazione....
Una nota a "Guerra di genere. Una modesta proposta"
Se non ricordiamo più "(...) la prima messa in italiano dopo due millenni di *latinorum* e la distruzione della statua del padrone illuminato Marzotto ad opera di scioperanti iconoclasti(...)" e non sappiamo più e nemmeno distinguere tra chi grida "forza Italia" e chi grida «"forza Italia"», come è possibile venir fuori dalla "fattoria degli animali" e accedere allo Spazio *neutro* e alla Terra *neutra*?! *
Abbiamo dimenticato della connivenza tra *grammatica* e *metafisica* e che , rispetto alla *lingua*, la coscienza «arriva dopo, zoppicando»; che "non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza"?!
"Come sarebbe questo italiano neutro?". Per andare oltre *Scilla* e *Cariddi*, forse, non potremmo e dovremmo chiedere ancora (e di nuovo) consulenza al mondo greco e alla società greca, quello e quella di Omero, Ulisse e Penelope?! O vogliamo continuare ancora (e sempre?) il vecchio *gioco* dell’ «io parlo, io mento» e dell’«io mento, io parlo»?!
Federico La Sala
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. "Paolo Fabbri, la conversazione infinita" di Maria Pia Pozzato (ALfabeta2).
Adam Smith sbagliava perché le reti sociali precedono l’economia
Siamo figli del dono e non del baratto
di Adriano Favole (Corriere della Sera, La Lettura, 18.06.2017, p. 9)
Il dono assomiglia a uno di quei corpi celesti che in teoria dovrebbero esistere, di cui si danno cioè segni di presenza, ma che risulta impossibile vedere con certezza. Guy Nicolas (Alfredo Salsano, Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, 1994) lo definiva la faccia nascosta della modernità: se la ricerca dell’interesse, il calcolo, il profitto, insomma l’economia di mercato ha un carattere evidente, lineare e misurabile, il dono - che pur sorregge e struttura le relazioni sociali - è quanto mai sfuggente. Non poche narrazioni oggi riportano a galla le economie del dono, ma per intendere che cosa?
Il dono è il gesto disinteressato e generoso, l’anonimo che contribuisce a una campagna di raccolta fondi per i poveri oppure è quel principio di reciprocità mosso dalla triplice legge del dare-ricevere-ricambiare come diceva Marcel Mauss (Saggio sul dono, Einaudi, 2002) che non esclude in realtà il perseguimento dell’interesse e l’ostentazione del dare? Uno scambio di oggetti, servizi, favori è dono e non mercato quando manca la garanzia della restituzione o, meglio, quando essa è affidata al legame sociale e non a un contratto; è dono quando non c’è una misurazione oggettiva del valore. Il dono in questo caso è reciprocità ma tutto ciò ha ben poco a che fare con il dono «puro» e disinteressato.
Diversi libri pubblicati di recente provano a svelare il pianeta nascosto del dono, in una contemporaneità dominata dal paradigma economicista. Cosimo Marco Mazzoni per esempio considera il dono ambivalente, oscuro, contradditorio e lo definisce un «dramma» (Il dono è il dramma, Bompiani 2016). La gratuità in effetti induce sospetto: «Se è gratis c’è l’inganno», pensiamo; essa nasconde spesso dinamiche di potere per cui il donare apparentemente liberale schiaccia chi lo riceve. La beneficenza è un prodotto di società della diseguaglianza, in cui prima si accumula la ricchezza in poche mani che in seguito si presentano come generose (Jean Starobinski, A piene mani, Einaudi, 1995).
Abitante straniero di un continente dominato dal mercato, il dono presenta molti lati oscuri. Mazzoni però contribuisce a spiegarne la forza e la persistenza nella modernità: il dono consente riconoscimento e ri-conoscenza (reciproca). Soprattutto nella figura maussiana del dare, ricevere, ricambiare, donatori e riceventi si riconoscono a vicenda, ribadiscono attraverso la circolazione degli oggetti la loro «presenza» sulla scienza sociale. Il dono, in questo senso - ed è un vecchio tema dell’antropologia economica - fonda la persona relazionale.
Anche il libro di Matteo Aria I doni di Mauss (Cisu, 2016), che ricostruisce puntualmente i dibattiti che hanno accompagnato il dono all’interno della storia dell’antropologia culturale, ne mostra ambiguità e contraddizioni. Fin dal Saggio di Mauss, il dono oscilla tra interesse e gratuità, tra reciprocità e assenza di restituzione. I critici del dono lo vedono come un «camuffamento» della logica di mercato, come una testa d’ariete di un tardo capitalismo edulcorato e travestito. Donando, gli esseri umani perseguirebbero i propri interessi con altre modalità. Gli entusiasti del dono, riuniti nel movimento che porta l’acronimo M.A.U.S.S. ( Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales) vi vedono invece l’ultima forma di resistenza contro la diffusione della specie invasiva dell’ homo oeconomicus, fattosi macchina calcolatrice e distruttrice di ambienti e relazioni sociali. Un tesoro nascosto fatto di volontariato, collaborazione informale, rapporti inter-generazionali che regge la vita delle società post-welfare state, dove è grazie ai rapporti di reciprocità che si supplisce al venir meno dello Stato madre che si prende(va) cura dei figli.
Per diradare le nebbie, Aria distingue il dono dalla «condivisione», nozione più adatta a esprimere quelle situazioni caratterizzate dallo «stare» e dal «fare» insieme, anche a prescindere dallo scambio. Si delineano così quattro diverse logiche dell’agire economico: la condivisione, la reciprocità (o dono), lo scambio-mercato e la redistribuzione garantita dallo Stato o comunque da un centro politico.
Un modo di avvicinarsi al pianeta del dono può consistere nel ritornare agli originali lidi oceaniani che ispirarono Mauss. Serge Tcherkézoff, antropologo francese, tra i più importanti esperti europei di Oceania, ha di recente pubblicato Mauss à Samoa (Pacific-Credo, 2016). I samoani, anche oggi, si scambiano cibo, stoffe di corteccia e soprattutto finissime stuoie ottenute intrecciando foglie di pandano, soprattutto nel corso dei riti di passaggio (nascita, primo tatuaggio, matrimonio, accesso al ruolo di «capo villaggio», funerale). Il termine samoano più vicino all’idea di «dono» è sau. A Samoa, ci dice Tcherkézoff, sau significa «la felicità del donare e la capacità di creare la vita». Come sintetizzò un capo di alto rango a Tcherkézoff all’inizio degli anni Ottanta: «La nozione di sau è legata alla persona. Noi diciamo il sau della vita. Vuol dire: il tuo arrivo, il tuo essere qui è il sau della mia vita», per questo all’arrivo di qualcuno o di uno straniero gli si fa un dono.
Nella cultura samoana i doni, soprattutto le stuoie, simboleggiano la capacità dell’essere umano di «nutrire», avvolgere e dare la vita. L’economia dei doni esprime la dimensione relazionale dell’essere umano, la centralità del legame sociale che va anche oltre la dimensione dell’esistente, perché unisce i viventi con gli antenati e con coloro che stanno per nascere.
Si potrebbe dire che se i soldi non si portano nella tomba, i doni tutto sommato sì! E così oggi, la diaspora samoana verso la Nuova Zelanda, il Regno Unito e la costa pacifica degli Usa, si accompagna alla diffusione delle stuoie di pandano che simboleggiano la profondità genealogica dei gruppi e la rete orizzontale che lega tra loro le famiglie samoane.
Fin qui antropologi, giuristi, sociologi: ma che ne pensano gli economisti del dono? Quale spazio gli riservano nei loro studi? Nel recente Economics as social science (Routledge, 2016), Roberto Marchionatti e Mario Cedrini ribaltano la tesi di Adam Smith: «La scoperta di Mauss - scrivono - è la mano invisibile dello scambio dono, vale a dire la fondazione socio-politica delle società, da cui dipende la loro dimensione economica (e razionale)».
L’errore di Adam Smith, replicato all’infinito dai suoi discendenti, è stato quello di porre all’origine delle economie umane il baratto, concepito come una forma arcaica di logica di mercato che dimostrerebbe l’universale (e immutabile) natura umana, ovvero il perseguimento dell’utile e dell’interesse individuale.
In realtà, come già ha chiaramente argomentato David Graeber (Il debito, Il Saggiatore, 2011), all’origine furono il dono e il debito, non il baratto. L’economia è incastonata nelle reti sociali e non viceversa. Uscire dall’imperialismo della scienza economica che da tempo si è chiusa in un’isola separata dalle altre scienze sociali, significa insomma mettere al centro nozioni come quelle di dono, condivisione e redistribuzione, la cui complessità rende ragione di un essere che «ancora non è diventato una macchina calcolatrice», come scriveva Mauss.
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA.
COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA. Crisi dei fondamenti di una civiltà....
Leggere con l’orecchio
di Nadia Fusini *
Se esiste la letteratura non possono non esistere la storia e la critica della letteratura. E dunque, chi si applica a mettere in sequenza i suoi frutti, e chi si dedica al loro giudizio. Alla loro interpretazione. Chi opera per coglierne il senso nascosto, o profondo. O per decifrare nel suo specchio le verità dell’epoca con la quale la letteratura intrattiene rapporti più o meno indiretti.
Se esiste la letteratura non può non esistere una visione, e dunque una teoria della medesima. Nel senso puro e semplice che nei suoi frutti si dà a vedere un mondo. E comunque, al di là del suo valore di intrattenimento, di divertimento - che sia in versi o in prosa, che sia un poema, un romanzo o unracconto - l’opera letteraria condensa in sé un pensiero, un’idea del mondo. Come ogni manufatto linguistico.
Esistono dunque a buon diritto il critico, lo storico, il teorico della letteratura. Ora, tali professioni, anche nel senso di fede - di fede e fiducia nella parola: che possa produrre conoscenza - si esplicano in vari modi. C’è il critico accademico, c’è il critico militante, c’è lo storico, e c’è l’interprete, e c’è il recensore di libri sui quotidiani. Chi insegna dall’alto di una cattedra e chi lodevolmente e quotidianamente si impegna a guidare il lettore comune nella scelta di un romanzo, di un libro di poesie, orientandolo con onestà in un panorama assai vasto di esperienze possibili, ben sapendo che esiste un’industria culturale, la cui volontà espansiva non arretra di fronte alle colpevoli sopraffazioni della buona fede del lettore comune. Appunto, il lettore comune, il destinatario reale e ideale del libro.
Ora a me pare che affinché esista una buona letteratura, è necessario che esista un buon lettore. O, per non ripetere il vecchio adagio dell’uovo e della gallina, un buon lettore e una buona letteratura si danno la mano.
La lettura, è questo l’atto da indagare. Come ci arriviamo. Come lo eseguiamo. Intanto, vari sensi e organi vi sono implicati. C’è l’ occhio, e c’è lo sguardo. Non sono la stessa cosa. C’è l’orecchio, e c’è l’ascolto. Non sono la stessa cosa. Leggere, non è solo una questione di occhio. Sì, certo, si legge con l’occhio la parola scritta. Ma si legge anche con l’orecchio.
Mi assumo a cavia, e rivelo che quando leggo, io ascolto. Ascolto la voce, o quel che resta della voce in quel che è scritto. Come fa Leopardi - ricordate?, quando “porgea gli orecchi al suon della tua voce", dice a Silvia. "Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno", in virtù di quella voce. E lui ne ha nostalgia. Potremmo dire con Leopardi che la poesia nasce così, come un’immensa nostalgia della voce viva. Voce viva, viva voce: voce che è appunto segno vivente, fiato, respiro, anima. È il segno di vita che cerca Lear sulle labbra di Cordelia - la più laconica delle sue figlie. La voce viva, la vita. Nelle parole scritte, o morte (è la stessa cosa, insegna Socrate), quando leggiamo, cerchiamo la voce viva.
Questo fa il lettore che ha orecchio: attende alla parola viva. Ascolta nell’enunciazione umana la lotta per l’espressione. Porge l’orecchio per sentire qualcuno in duello con se stesso, coi propri grovigli espressivi, con il mondo che vuole specchiare, rappresentare, svelare... Insomma, in lotta con la volontà di afferrare nella parola, quand’anche per la coda, un’esperienza che è di un altro ordine, rispetto al linguaggio.
Un’esperienza che è vita.
L’orecchio in quanto organo presenta però una caratteristica particolare: è l’unico orifizio del corpo umano che non si chiude. Si può chiudere la bocca, si possono chiudere gli occhi, si può serrare l’ano, per quanto riguarda la vagina è protetta per un certo tempo almeno dall’imene, e anche dopo si può quanto meno contrarla, se non si vuole far passare qualcosa; ma l’orecchio no. Di suo e per natura, l’orecchio non ha difese contro la penetrazione. Proprio per questo è estremamente vulnerabile. E temo che l’acustica roboante di un’industria editoriale sciatta e volgare contribuisca a corrompere l’udito. E così anche chi vorrebbe tenere le orecchie aperte per accogliere il suono della vita, finirà per non sentire più nulla. E non saprà più intonarsi all’esperienza di conoscenza e di piacere che offre una parola autentica, che con il suono della vita si confronta.
A questa educazione dovrebbero attendere la scuola, l’università, la critica e l’estetica. Accade invece - è sotto gli occhi di tutti - che a fronte di una alfabetizzazione universale, corrisponda una ignoranza epocale, frutto di una ideologia dell’istruzione sempre più marcatamente piegata all’utile e all’immediato impiego delle risorse umane e sempre più estranea, quasi non sapesse più che cos’è, alla cura dello sviluppo della coscienza critica.
Assistiamo sconcertati a istituzioni che assecondano la pigrizia e programmano la volontà di lasciar cadere un patrimonio letterario e culturale, di cui il nostro contemporaneo è l’erede, defraudando in realtà il nostro contemporaneo delle antenne che dovrebbe sviluppare per comprendere la sua propria vita. Così chi avesse nel proprio orizzonte ancora tali fini per se stesso, singolarmente dovrà farsi carico della volontà di conoscenza: volontà di conoscenza che non può non passare attraverso la lettura, in un rapporto dinamico tra la tradizione e il presente.
Il fatto è che o leggere ha questo risvolto esperienziale, o non è nulla: non ha nessun valore. Se non di evasione. Mentre io - di nuovo mi offro come cavia - avanzo nella lettura non in fuga, ma a caccia del reale. Non leggo per evadere. Non sono un disertore. O se leggo per fuggire dalla realtà, è perché credo che la lettura mi permetta di entrare in un altro mondo né falso, né vero, ma per l’appunto “reale”.
Questo me l’ha insegnato una donna filosofa, Rachel Bespaloff. Per la quale “la lettura è la messa alla prova spirituale di un’opera.” Mentre un’altra donna filosofa, Simone Weil, mi ha insegnato l’esercizio della lettura come ‘attenzione’. Che siano Camus o Omero, la Bibbia o Kafka, chi legge, insegnano le due donne filosofe, chi legge cerca il senso dell’esistenza umana. In modo indiretto, sospeso, per niente enfatico, chi legge ritorna a farsi le domande essenziali: da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo? È una ginnastica essenziale alla formazione umana dell’uomo. E della donna. È un training a cui la letteratura allena. In questo senso, il lettore mette alla prova l’opera che ha di fronte. E l’opera esisterà, sarà grande, rimarrà viva nei secoli dei secoli, se chi vi si abbevera, almeno un poco, estingue la sua sete di verità spirituale.
Simone Weil insegna che al cuore della lettura v’è un’esperienza etica. Si legge per conoscere, si legge per trasformarsi, per cambiare. Perché come nella muta del serpente, il vecchio Adamo decada e il novello Adamo nasca, e con lui naturalmente una nuova Eva... Si legge perché riconosciamo allo scrittore la capacità di operare in noi una metamorfosi. Sì, certo, è alla realtà, è al mondo vero, che lo scrittore attinge per costruire il suo mondo irreale; ma è del mondo reale, che vuole parlare - per cogliere oltre la sua opacità, oltre il suo capriccio, un’apertura all’essere più profonda, più radicale, che si dà soltanto così, perché lui la inventa. Cioè, la trova. E cioè, la crea. È un momento davvero miracoloso quello in cui trascendenza e invenzione si confondono. E il lettore se ne fa testimone, perché è nel lettore che questo processo si incarna.
Chi risponde così dell’atto della lettura, si fa lui stesso scrittore. A simbolo risponde simbolo, sentenziò anni fa in uno scambio privato il grande Roland Barthes. Aveva assolutamente ragione. Ma perché questo accada, il lettore dovrà farsi deuteragonista attivo e esigente. E coraggiosamente, con ostinazione mettersi alla ricerca - sarà il suo proprio Graal - dei libri che gli offrano tale esperienza. Allontanando da sé la cattiva influenza di tutti quei mediatori che della letteratura fanno commercio, e con i lacci seduttivi di una perniciosa arte della retorica lo dissuadono dallo sviluppare le antenne che servono a distinguere la parola autentica da quella falsa. Siamo diventati così sofisticati nel palato, tanto da distinguere prelibate vivande di raro gusto, e non vogliamo diventare altrettanto capaci di godere della parola?
RECENSIONI *
"La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale"
Sherry Turkle
Einaudi, Torino 2016, pp. 456, € 26
di Marco GUI *
Negli ultimi anni, Sherry Turkle - sociologa e psicologa statunitense, responsabile di un importante centro di ricerca su tecnologia e identità al MIT di Boston - si è imposta come una delle voci più ascoltate nella letteratura sugli effetti collaterali della rivoluzione digitale. Fin dagli anni ’80 ha pubblicato importanti volumi su questi temi, maturando nel corso del tempo un atteggiamento sempre più critico sulle conseguenze del digitale, in particolare per il suo impatto sulle relazioni umane.
Nel suo penultimo libro, Insieme ma soli, l’A. si era già concentrata sulle conseguenze che smartphone e social hanno sui rapporti interpersonali. Al centro di quest’ultimo volume vi è - più alla radice - la conversazione: una risorsa, un’arte, un bisogno umano che la mediazione digitale del dialogo mette a rischio. In particolare, secondo l’A., esiste una connessione stretta tra la capacità di conversare e quella di empatizzare, che è a sua volta fondamentale per stringere rapporti significativi con le persone, e quindi per essere felici. Turkle mostra come, proprio oggi che la comunicazione digitale ci permette di “bypassare” i vincoli del dialogo faccia a faccia, ci accorgiamo di quanto invece esso sia essenziale: «Ora siamo consapevoli di avere bisogno di cose che i social media inibiscono» (p. 26). Il libro costituisce un’occasione molto preziosa di arricchimento per chi vuole riflettere sulle dinamiche relazionali in un mondo sempre più pervaso dal digitale, dove secondo le ultime statistiche statunitensi la permanenza media davanti a uno schermo (computer, smartphone o televisore) ha superato le 11 ore al giorno.
La struttura del libro è ispirata a una frase del filosofo David Thoreau, che diceva di avere in casa «tre sedie; una per la solitudine, due per l’amicizia, tre per la compagnia» (p. 15). “Una sedia” rappresenta il rapporto con se stessi, il primo a essere messo in difficoltà dal riempimento dei vuoti tipico dello smartphone e fondamentale anche per poter conversare con gli altri. Le “due sedie” rappresentano il dialogo con un altro significativo, un partner o un amico intimo, ma anche un collega o un conoscente. “Tre sedie” servono invece per le conversazioni collettive. A questi tre capitoli, l’A. ne aggiunge un altro sulla conversazione civile, cioè sulla democrazia, e uno su una “quarta sedia”, rappresentata dal dialogo con interlocutori non umani (le macchine e i robot).
Il modo di procedere del testo non è sistematico, ma mira a costruire una consapevolezza crescente nel lettore, attraverso le storie delle persone intervistate: studenti, manager, impiegati, genitori e figli. Ogni racconto aggiunge un tassello all’esplorazione degli effetti della mancanza di conversazione faccia a faccia, come ad esempio quelli di adolescenti che vivono con dolore la scarsa attenzione ricevuta dai genitori, immersi nei loro device tecnologici: privati di una fondamentale palestra di dialogo, i ragazzi e le ragazze intervistati finiscono per rifugiarsi a loro volta nel mondo virtuale, trovandovi un qualche conforto, che tuttavia per sua natura non può che essere superficiale.
Nonostante in alcuni passaggi sconfini in un tono nostalgico, l’A. non vuole cadere in una tecnofobia grossolana: anche i “Mi piace” «possono essere i primi passi di un processo empatico [...] tutto dipende da quello che succede dopo» (p. 207).
La tecnologia può essere un aiuto alla conversazione, ma da sola non basta. Nessuno strumento di mediazione può essere, infatti, così ricco dal punto di vista comunicativo come il dialogo in presenza, con la voce, i movimenti del corpo, le espressioni, la gestualità, lo sguardo, il contatto e le emozioni che tutte queste cose producono.
Nelle storie dei giovani intervistati emerge un’allarmante mancanza di allenamento alle difficoltà, ma anche alla ricchezza della conversazione, che li spinge a rifugiarsi nei più sicuri confini di email, sistemi di messaggistica e social network, strumenti meno problematici, meno limitanti e più controllabili. Le conseguenze negative della povertà di capacità conversazionali si vedono nelle storie sentimentali delle nuove generazioni e nelle loro esperienze lavorative.
L’A. ci porta quindi all’interno di alcune aziende americane, dove gli effetti collaterali di un modo di lavorare concentrato sui terminali cominciano a manifestarsi in modo pesante. Le aziende corrono ai ripari cercando di trovare nuove modalità organizzate di socializzazione e costruiscono spazi appositi per questo, tuttavia si scontrano con generazioni abituate a pensare che l’efficienza si ottenga soprattutto con una dedizione allo schermo del proprio device. Poco abituate all’arte del conversare, le nuove leve sono sempre meno in grado di creare un legame personale con i clienti, di capirne in profondità i bisogni, di trovare soluzioni creative nel confronto con loro. Del resto, dati di ricerche scientifiche citati insieme ai vari racconti confermano un calo delle capacità empatiche nelle ultime generazioni.
Ci rendiamo anche conto, storia dopo storia, che le applicazioni digitali, costruite a partire dall’idea di ottimizzare le nostre relazioni, paradossalmente rendono più difficile fare esperienze di relazione significative. È il caso di Tinder, una applicazione che consente di cercare possibili compagni e compagne per un appuntamento, selezionati sulla base di caratteristiche desiderate. L’uso di Tinder - ci mostra Turkle - pone in realtà i soggetti in una situazione di grande indecisione, presi dall’ansia di verificare costantemente se là fuori non ci sia di meglio e, alla fine, di forte solitudine. Le forze spese nella scelta tra quell’enorme assortimento finiscono per togliere tempo ed energie all’esperienza reale di una compagnia, alla possibilità di approfondire un rapporto con qualcuno.
In più, le stimolazioni continue portate dalla digitalizzazione hanno conseguenze anche sulle relazioni già consolidate. C’è una crescente “suscettibilità alla stasi”, per cui i «piccoli momenti di noia» (p. 50) della vita ci diventano via via più intollerabili: sullo smartphone ci attende sempre un mondo più stimolante. Così, in famiglia, la sola presenza di un cellulare è sufficiente a togliere profondità e coinvolgimento a una conversazione.
La soluzione? Imparare a confinare le tecnologie, in modo che non limitino gli spazi della relazione con se stessi e con gli altri; immaginare hardware e software di nuova generazione che non spingano a un sovra-consumo ma che siano progettati addirittura per essere lasciati da parte quando necessario.
La lettura del libro può risultare faticosa per chi preferisce una maggiore concisione e un’esposizione più concettuale, tuttavia i racconti offrono una notevole ricchezza di stimoli, senza le semplificazioni che deriverebbero da una sintesi. Se qualcosa si può rimproverare a questo testo, è di non riuscire in molti casi ad andare alle radici dei problemi che affronta. Spesso, infatti, risulta chiaro che le tecnologie non fanno che rendere espliciti problemi indipendenti da esse.
L’A. ad esempio racconta spesso di come dipendenti e manager delle aziende si sentano stressati da un uso intensivo delle tecnologie, nell’ansia di non restare esclusi da qualche flusso di informazioni rilevanti (la cosiddetta “FOMO”: Fear of Missing Out), ma non è mai affrontato il tema delle logiche economiche alla base di questo tipo di sfruttamento degli strumenti digitali. Turkle insiste nel sottolineare che una reintroduzione delle conversazioni faccia a faccia farebbe bene alla produttività stessa delle aziende, ma non mette in discussione che sia proprio la logica della produttività esasperata e immediata a generare un uso distorto delle opportunità tecnologiche, né che queste logiche siano incorporate nel design degli hardware e software più diffusi.
Come ha scritto Jonathan Franzen recensendo il libro sul New York Times, «Le tecnologie digitali accelerano il capitalismo, e iniettano la sua logica di consumo e promozione, di monetizzazione e di efficienza in ogni minuto della giornata» [traduzione mia]. Allo stesso modo l’A. non prende in considerazione il modo in cui le problematiche del digitale si legano a quelle della disuguaglianza sociale: è ugualmente possibile disconnettersi dalla tecnologia - come lei consiglia - per lavoratori di livello e grado di autonomia diversi? È possibile che persone con risorse socioeconomiche diverse possano raggiungere allo stesso modo una consapevolezza sugli effetti collaterali della comunicazione digitale? Turkle non distingue, ma l’impressione è che i suoi riferimenti attingano soprattutto ai settori più privilegiati della società.
Infine, l’A. non si addentra nell’analisi dei motivi per cui abbiamo tanto bisogno di conversazione. Leggendo questo libro viene spesso in mente una famosa frase di Erich Fromm: «Paradossalmente la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità di amare». Ma nonostante le aspettative in tal senso, Turkle non parla mai di amore.
Dopo tutto questo elogio della conversazione e dell’empatia, il lettore gradirebbe che l’A. si sbilanciasse in un’antropologia e ci spiegasse qual è l’esigenza umana di base che la comunicazione mediata dal digitale tende a farci accantonare. Qui sta, a nostro parere, un’occasione di riflessione che rimane ancora da sviluppare: il bisogno di fare silenzio per comprendere se stessi e gli altri o quello di instaurare relazioni profonde e continuative non sono certo delle novità, ma gli effetti collaterali del digitale ci spingono a farci i conti urgentemente, a un livello molto concreto. Il design futuro di hardware e software potrebbe allora diventare una nuova occasione per esplorare le esigenze relazionali più profonde dell’essere umano.
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA. IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS - NON IL "LOGO"! La questione della "Parola" e della "Lingua" ...
L’improvvisazione intima del tango
di Enrica Morlicchio ((Il Mulino, 12 maggio 2017)
Negli ultimi anni sono state pubblicate negli Stati Uniti alcune interessanti ricerche sociologiche sul tango che ne hanno esplorato diversi aspetti: l’industria del turismo e della moda (i «pellegrinaggi» organizzati degli appassionati a Buenos Aires), i nuovi flussi migratori alimentati dai maestri argentini e uruguaiani e dalle loro famiglie, il profilo socio-demografico dei frequentatori delle milonghe (i luoghi al chiuso nei quali si balla il tango) o dei luoghi pubblici all’aperto dove essi convergono in occasione dei flashmob. Questa ampiezza di temi di ricerca è del tutto comprensibile se si pensa alla ampia diffusione geografica di questo ballo e al suo carattere di massa. Mancava tuttavia in questo panorama un libro, come quello di Davide Sparti (Sul tango. L’improvvisazione intima, Il Mulino, 2015), che affrontasse il tango come una specifica pratica simbolica di interazione tra due persone (non necessariamente un uomo e una donna) che entrano in contatto mediante l’abbraccio e l’energia dei corpi mediata dal suolo.
Benché l’autore del libro, professore di Epistemologia delle scienze sociali e di Teorie dell’identità nell’Università di Siena, dichiari fin dalle prime pagine di essere un ballerino (si intuisce esperto), il suo libro non si basa su una ricerca etnografica (anche se il capitolo quinto ha come titolo «Etnografia di una milonga»). La sua argomentazione si inserisce piuttosto in un filone di studi che egli conduce da tempo sulla «improvvisazione nella vita quotidiana» . In modo analogo a quanto sviluppato nei precedenti lavori sul jazz, Sparti usa il tango come occasione per riflettere sulla questione teorica più ampia e generale del carattere «in situ» e procedurale dell’agire sociale e in particolare su quel particolare tipo di agire che è l’improvvisazione nella vita quotidiana.
In altre parole Sparti usa il tango come dispositivo per comprendere la fenomenologia dell’interazione. Nonostante l’indubbio interesse del capitolo primo, che ricostruisce l’origine sottoproletaria del tango rioplatense (che, nota l’autore, si distingue in ciò dal valzer che celebra l’unità della coppia borghese) e le sue radici afrodiasporiche e creole, è il nucleo centrale del libro a presentare le maggiori sfide teoriche.
Per Sparti, al pari del jazz e di altre pratiche d’improvvisazione, il tango richiede un’accurata conoscenza della struttura e delle regole che informano il campo di riferimento, regole relative al corpo, alla maniera di muoversi, all’uso dello spazio e del tempo, all’interazione con gli altri (esiste ad esempio un preciso galateo della milonga al quale i ballerini devono attenersi). «In questo senso» - egli scrive - «quella del tango è un’improvvisazione strutturata» (p. 102). Esso «mette in luce non l’affrancamento dai vincoli nella speranza di approdare a uno spazio supposto libero e indifferenziato, ma la capacità di riconoscere vincoli e di esplorare le possibilità (di movimento) in essi implicite, che è poi la capacità di scoprire fino a che punto quei vincoli sono mobili (piuttosto che eliminabili)» (p. 105).
La natura contingente e improvvisa dell’incontro dei corpi nel tango - un incontro che mobilita in primo luogo energia, anche se il tango è più frequentemente associato alla sensualità - apre una varietà di opportunità di azione. Tale esperienza configura una particolare forma di socievolezza, nel senso dato da Simmel di modalità nel relazionarsi in cui non viene perseguito alcun obiettivo preciso, se non il gusto del «fare società». Nei quindici minuti circa di durata di una tanda (cioè della successione di tre o quattro esecuzioni consecutive durante le quali per convenzione la coppia rimane unita nel ballo) la concentrazione richiesta dalla esecuzione dei passi, dal controllo della sala per non urtare le altre coppie, e da tutto il resto riduce al minimo la conversazione tra i ballerini.
Il tango si balla in silenzio. «Finita la tanda - scrive Sparti - siamo restituiti alla nostra vita di entità separate. La fusione, se emerge, emerge in quel tempo breve, e il legame intrecciato con l’altro nella sala da ballo raramente transita fuori della pista» (p. 157). Per questo motivo la milonga non è, come comunemente si ritiene, un luogo per cuori solitari alla ricerca di un partner. Essa è piuttosto la «celebrazione estetica della vita in comune» (p. 155).
In questo senso il tango, anche se l’autore non fa riferimento a questo tipo di letteratura, può essere annoverato tra quelle forme in chiave minore dello stare insieme in pubblico che Ash Amin e Nigel Thrift definiscono togetherness. Grazie a questi microincontri e alla condivisione di spazi fisici comuni gli individui giungono a negoziare significati, a condividere valori comuni e a fare esperienza dell’essere con l’altro. In queste interazioni in «chiave minore» non sono necessarie forme di elaborazione sul piano strettamente culturale e identitario del tipo prospettato dalle politiche di «riconoscimento» e del vivere con la differenza, così come nel tango, abbiamo visto, non è necessaria una conoscenza approfondita dell’individuo con il quale si balla. In tal senso la milonga può diventare un prototipo di luogo pubblico di conciliazione e integrazione nel quale le persone possono sentirsi libere dagli obblighi di riconoscimento reciproco tra estranei, diventare «indifferenti alle differenze» senza tuttavia rinunciare ad interagire e ad incontrare l’Altro.
IL TANGO IN ITALIA *
PIO X E LA FURLANA
Per quanto riguarda quest’argomento, il non plus ultra doveva verificarsi e si verificò - almeno in apparenza - a Roma dove si diffuse la notizia che lo stesso Papa Pio X sarebbe stato interpellato sul tema della decenza della danza rioplatense e avrebbe assistito al ballo di un tango nel suo appartamento. È questa una storia che tutti menzionano e pertanto sembra giunto il momento di chiarire i suoi contorni alla luce dei documenti. Pio X, che sarebbe morto lo stesso anno e sarebbe stato in seguito canonizzato, fu un innovatore sotto apparenze conservatrici. Col suo secondo Motu proprio del 25 aprile 1914 operò una riforma della musica sacra e incaricò i monaci benedettini dell’Abbazia francese di Solesmes della preparazione di un’edizione vaticana del canto gregoriano sulla base di una revisione dei codici antichi. Per questo motivo occupa un luogo nella storia della musica liturgica cattolica.
Però, la leggenda che lo mette in relazione con il tango nacque, in realtà, il 28 gennaio del 1914, quando il Corriere della Sera pubblicò ciò che segue: "Il corrispondente romano del Temps, Jean Carrère, raccoglie la voce curiosa che il Papa abbia raccomandato la furlana, l’antica danza veneta, ad una giovane coppia patrizia da cui si sarebbe fatto dare un saggio del tango. Il Papa, vedendo le smorfie che i due giovani erano costretti a fare per ricordarsi ogni movimento, li commiserò dicendo:
Capisco che voi amiate la danza. Essa conviene alla vostra età, e così è sempre stato come sempre sarà. Ballate, dunque, poiché ciò vi fa piacere. Ma invece di adottare queste ridicole contorsioni barbare, perché non scegliere quella meravigliosa danza veneta che io vedevo spesso ballare nella mia giovinezza e che è così elegante, così distinta, così latina: la furlana?.
La furlana? domandarono sorpresi i due giovani adepti del tango.
Come, non conoscete la furlana?
E il Papa, tutto arzillo, avrebbe accennato già ad alzarsi, come se avesse inteso rivelare egli stesso le armoniose movenze di questa danza graziosa.(...) Jean Carrère si dice convinto che la "danza del Papa" non tarderà a detronizzare completamente ogni altra danza mondana. La storiella è graziosa e si può accoglierla a titolo di curiosità." [...]Questo significa che, almeno in un primo momento, la stampa non espresse alcun dubbio sull’inverosomiglianza della storia. Anzi, indicò in varie occasioni il nome dell’autore dell’invenzione. Con il passar del tempo, però, e a forza di ripetere l’aneddoto con piccoli cambiamenti, gli stessi giornalisti finirono col considerarlo vero. Le prime smentite da parte del Vaticano arrivarono subito.
Già il 30 gennaio sotto il titolo "Il Papa e la Furlana: una protesta", si legge nel Corriere della Sera che... "Il ridicolo di tutto il pubblico sarebbe degno e sufficiente castigo dei pretesi informatori vaticani per l’offesa dignità dell’augusta persona del Pontefice, gratuitamente immischiato in queste invenzioni grossolane, se non reclamasse anche la protesta disdegnosa di ogni cattolico."
E due giorni più tardi, nello stesso periodico si pubblica che "Di fronte alle voci diffuse negli ultimi giorni da alcuni giornali secondo i quali dinanzi al Papa avrebbe avuto luogo una rappresentazione di tango, la Nunziatura pontificia è autorizzata a dichiarare che queste voci offensive per Sua Santità sono completamente infondate."[...] Il tentativo di Carrère da i suoi frutti. La furlana entra in competizione con il tango, almeno negli spazi che questo aveva occupato nella stampa. [...] Il più completo degli articoli che si pubblicano durante quei giorni di febbraio sul tentativo di sostituire il tango con la furlana e la conseguente variazione nella moda dei balli, tratta il tema con tale ricchezza di dettagli e con una varietà così grande di epiteti che supera ogni possibile commento: "Corrono giorni tristi e difficili per il tango. Un successo immediato, clamoroso, un furore, una mania, una pazzia, una popolarità sconfinata: tutto il mondo conquistato e intangato in un momento. Il parossismo. Nessuna danza ha mai avuto una così fulminea e così vasta celebrità. Ma ecco che a due o tre mesi appena dal suo maggior trionfo, il tango comincia a declinare, a piegarsi, a tramontare.(...) Viveva glorioso e incontrastato. Era il padrone, e non aveva rivali. Adesso invece ne ha uno, ed è una rivale. Ahimè, si: la furlana. Tango?, o furlana? Il dubbio è grave (...) e il tango vacilla sul suo piedistallo. (...) I cinematografi si sono impadroniti subito dell’avvenimento e le proiezioni della furlana hanno un grande successo (...) La voga improvvisata mette un grande interesse attorno alla vivace danza veneta. (...) Tango? O furlana? E una cosa che non si può risolvere così, su due piedi, ce ne vogliono almeno quattro." (Il Corriere della Sera - 08/02/1914)
* PASSIONE ARGENTINA. IL TANGO IN ITALIA NEGLI ANNI ’30
*Museo dell’Audiovisivo
Discoteca di Stato
Universidad de Valladolid
© 2002
Il corpo vivo, tra una situazione limite e l’altra
Una recensione a ‘Il corpo vivo nel mondo’, di Thomas Fuchs
di Paolo Colavero *
"[...] Si tratta infatti di una raccolta di lavori di Thomas Fuchs, scelti e tradotti da Valeria Bizzarri e Raffaele Vanacore [Giovanni Fioriti editore], filosofa e psichiatra che di Fuchs sono stati allievi ad Heidelberg.
Una raccolta di cui si sentiva il bisogno.
Intanto, anche solo se i luoghi vogliono dire qualcosa, come intuisce - senza dirlo esplicitamente - Gilberto Di Petta nella sua prefazione alla raccolta, e come invece giustamente sottolinea Valeria Bizzarri, allora c’è da aprire con grandi aspettative questo testo, figlio innanzitutto di un ambiente particolare. Heidelberg è infatti in qualche modo la città-architrave della fenomenologia continentale, luogo che fu di Kraepelin, Gruhle e di Jaspers, luogo che ha visto l’incontro di Schneider e Callieri (occasione che quest’ultimo ci ha spesso raccontato di persona, descrivendoci sin anche il plaid con il quale il grande psichiatra tedesco teneva al caldo le proprie gambe). Heidelberg, luogo di studio e riscoperte, di incontri accademici mai più ripetibili.
È in questo luogo mitologico tra pianura e foreste, sulle rive del fiume Neckar che proprio ad Heidelberg fa il suo ingresso nella valle del Reno, che il prof. Fuchs svolge da molti anni la sua attività di ricercatore, psichiatra e fenomenologo al limitare del mondo delle idee e di quello dei corpi.
Ed è proprio invece in quella zona limite che è nostro inosservato habitat quotidiano - nella confluenza di mondo, soggetto e corpo - che il presente libro introduce il lettore. [...]
Fuchs, introdotto e circondato amorevolmente dagli scritti dei curatori, si muove sicuro e con grande maestria concettuale, tecnica e scientifica, di citazione in appello, all’interno di un pensiero che vede superato definitivamente il dualismo mente-corpo e soggetto-mondo. Non a caso, infatti, il titolo rimanda ad una dimensione senza soluzione di continuità, perché viva e pulsante; rimanda all’appello dei corpi e delle prospettive all’interno del mondo, ad una prospettiva che brilla sulla superficie dei rapporti, dell’intercorporeità vissuta, affettiva, sentita e agìta. Si tratta di un pensiero che si fa immediata comprensione vissuta dell’altro nel lettore, nel lavoro clinico e teorico del lettore, nella sua pratica di relazioni umane, affettive, terapeutiche. Un pensiero che, tra le altre cose, parte fenomenologicamente dal mettere in discussione l’ovvietà del concetto di movimento, portandolo al centro di una danza condivisa (p. 18) osservabile solo dopo aver sospeso la nostra abituale sosta aproblematica presso le cose, e gli altri:
Dopo una, appena implicita, richiesta al lettore - quella ovvero di sospendere ciò che conosce e che lo relega in precisi schemi di scuola, preconcetto e conoscenza - il discorso-sul-corpo, in questo testo, si fa discorso-del-corpo, dialogo vivo per immagini e materia, alla ricerca dell’origine, della fonte prima di differenti fenomeni: dalla socialità umana alla psicopatologia, dall’autismo alla comprensione empatica.
In questo testo, il corpo, ma non solo, il mondo, l’atmosfera e la relazione si liberano dal peso della tecnica per adire a quello della visione delle meccaniche trascendentali delle relazioni, che appaiono in qualche modo riprodotte (e con ovvie difficoltà, visto l’oggetto) nei numerosi schemi con i quali si prova a dare senso visivo a quanto spiegato a parole, così come lungo il testo siamo invasi da immagini e movimenti impercettibili che, ne sono certo, compiamo leggendolo sulla base di nostri ricordi e schemi motori che vengono richiamati dalle parole dell’autore (si veda, tra tutti, l’esempio dei giocatori di football, p. 12):
Lungo tutto il testo siamo nell’area crepuscolare del preriflessivo, dell’embodiment, del corpo-che-sono, del Leib insieme e oltre il Körper. [...]
[...] Fuchs, in uno dei capitoli che più mi sono rimasti in mente, cita il trauma e la vulnerabilità quali situazioni limite (p. 116 e oltre), ed è proprio questo ciò di cui si tratta, con cui si tratta quando abbiamo a che fare con delle persone alle prese con il proprio corpo, con il proprio mondo malato, con il proprio corpo che è divenuta una minaccia, il proprio corpo vulnerabile, il proprio mondo ferito. L’angoscia è la chiave della serratura, in tutti i casi. L’angoscia è la chiave della serratura psicotica, così come è la chiave della serratura organica. La chiave che scoperchia un mondo, che apre il sipario sulle quinte, che “toglie il tappeto da sotto i piedi” (Jaspers, citato p. 116) [...]".
* Psicologia Fenomenologica, 31 gennaio 2022 (ripresa parziale).
DISAGIO DELLA CIVILTA’ (FREUD, 1929). Il problema, a mio parere, è che la ricerca e i risultati di Alfred A. Tomatis (Nizza, 1º gennaio1920 - Carcassonne, 25 dicembre2001) sono talmente innervati con la nostra non-volontà di sapere di sé che, pur comprendendo che già il solo "parlare è suonare il proprio corpo" (Alfred Tomatis), alle accademiche platoniche orecchie (cieche e sorde e zoppe, come quelle di Edipo) il messaggio non arriva o arriva assolutamente distorto.
DANTE 2021: MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE
Gli strumenti d’ombra
di Alessandro Foladori (Doppiozero, 01 marzo 2017)
Nel 1964 Roland Barthes fa pubblicare in una rivista universitaria una raccolta di appunti dedicata agli studenti, che sarà destinata a diventare quel testo intitolato Elementi di semiologia. Non è un caso che un’opera così semplice si sia imposta tra gli intellettuali dell’epoca suscitando dibattiti e polemiche, che talvolta ancora si protraggono: la sua semplicità è infatti mera apparenza. Con la pretesa di istituire un agile compendio di riferimenti e nozioni ad uso e consumo di coloro che sono intenzionati a occuparsi di semiotica, Barthes compie in sottotraccia delle operazioni tutt’altro che scontate: la sovversione di un credo intellettuale, la provocazione a un certo modo di intendere la critica sociale, la testimonianza e la collocazione di una tappa del proprio percorso filosofico e biografico.
Si potrebbe dire, sintetizzando molto, che il primo aspetto risiede nell’inversione del progetto saussurriano di subordinare la linguistica alla semiotica, laddove Barthes utilizza strumenti linguistici per poter fondare la sua semiologia. Il secondo aspetto critica la massima sociologica della cosiddetta “società dell’immagine”, mostrandone una sovrabbondanza di elementi verbali e scritturali e gettando le vere e proprie basi di un metodo di indagine sociale. Infine il terzo aspetto sta nel fatto che Barthes non dà seguito ai suoi Elementi, considerandoli un punto d’arrivo più che di partenza, e si dedica ad altro dagli anni immediatamente successivi. Che si sia o meno in linea con i contenuti che Barthes esprime, i suoi movimenti restano indubbiamente legati a una cifra inaggirabile del suo pensiero e, forse, del pensiero in generale: l’abbandono e l’aggressione a quanto c’è di calcificato in sé e attorno a sé, nell’intento di scoprire e riscoprire sempre i flussi di pensiero vivo e creativo che possano rendere ragione di alcuni sistemi di analisi e di pratiche, o crearne di nuovi. Per parafrasare Nietzsche: la rottura delle vecchie tavole e - dove serve - anche delle nuove, per quanto esse già hanno della canzone da organetto.
Il più recente testo ripubblicato dell’opera di Enzo Melandri, Alcune note in margine all’Organon aristotelico (Quodlibet, Macerata 2017, pp. 192), è accumunato al lavoro di Barthes sia per il formato, essendo tratto dalle dispense destinate agli studenti di un suo corso, sia per il periodo di elaborazione (anno accademico 1964/65 - con pubblicazione nel ’65). Non solo, anche in Melandri il senso esplicito del libro - una chiara e rigorosa trattazione dei testi logici di Aristotele - sembra intrecciarsi con numerosi intenti impliciti, dall’afferrabilità più o meno semplice. Sia chiaro che le note melandriane non si presentano affatto come un pretesto per poter dire dell’altro a partire dall’Organon aristotelico, di cui invece offrono una visione puntuale sia da un punto di vista di coerenza interna, sia da uno filologico e interpretativo, ma resta netta la sensazione, talvolta esplicitata, che lì intrecciati si snodino dei temi di altro tipo e di portata più vasta. È forse proprio perché chi scrive è digiuno di logica formale o antica che sembra di maggior interesse o urgenza cercare di mettere a fuoco qualcuno di questi aspetti.
Infatti se, come dice Melandri, «per capire un autore è sufficiente rendersi ragione della struttura di fondo del suo discorso», questo non va inteso come un modo un po’ goffo di scrollarsi di dosso la responsabilità di spiegare nel dettaglio il pensiero di colui o colei di cui ci si accinge a parlare, bensì come un vero e proprio manifesto metodologico e contenutistico di un ampio progetto che non si riduce a fare della buona storia della filosofia. Indagare la “grammatica speculativa implicita” di un sistema di pensiero non è solo il modo probabilmente migliore di cogliere quel sistema, ma anche una complessa ed efficace pedagogia del pensare in quanto tale, dal momento che consente di vedere la fattura degli strumenti di qualcun altro, permettendo così di farli propri - o rifiutarli - con coscienza di causa.
All’interno di questa cornice teorica e pratica sembra di poter dire, a libro concluso, che non esisteva tema migliore da trattare della logica aristotelica. Melandri infatti, a partire da una profonda consapevolezza delle strutture logiche che gli sono contemporanee, continua a dispiegare i meccanismi del pensiero di Aristotele come qualcuno che smonta un orologio e, con ogni ingranaggio che preleva, altri saltano e non si capisce più in che modo potessero occupare il posto in cui stavano. Fuor di metafora, è come se puntare il proprio sguardo e la propria moderna formazione sull’Organon avesse la diretta conseguenza di mostrare una fortissima componente aporetica, quando non contraddittoria. Che fare, quindi? Rigettare la logica aristotelica in quanto arcaica e poco utile?
Evidentemente no, non solo perché questo genere di giudizio è del tutto alieno all’approccio di Melandri, ma anche perché mostrare le aporie non è che l’inizio del processo che permette di rendere ragione del funzionamento di un pensiero. Giacché quello che sappiamo, a questo punto, è che paradossalmente l’orologio funzionava, anche se i suoi ingranaggi non erano reciprocamente compatibili. Diventa quindi necessario abbandonare l’idea di trovare in Aristotele un sistema formale chiuso, completo e in grado di abbracciare la totalità del pensabile, e cominciare a coglierlo per quello che è, uno strumento (d’altronde “organon” non ha mai significato altro). E in quanto strumento vederlo come qualcosa a disposizione per scopi ulteriori e che da altrove riceve la sua regola di fabbricazione e di impiego.
È questa la tesi che Melandri ripete da un estremo all’altro del volume: non si viene a capo della logica di Aristotele se non ci si rende conto che è strettamente legata ad una concezione ontologica non riducibile alla logica che pure cerca di renderne pensabili e dicibili le formulazioni. È il paradosso che comporta partire da un principio da cui poter operare una qualsiasi messa in forma, ma che non si lascia mai esibire in quanto tale (farlo renderebbe necessario doversi appoggiare a un altro principio, a sua volta non indicabile). Nel caso di Aristotele molte difficoltà logiche emergono dalla tesi squisitamente ontologica dell’isomorfismo che, inoltre, continua a replicare se stessa e le corrispondenze che fa proliferare. Nei suoi minimi termini, c’è isomorfismo tra le cose, gli affetti (i segni che le cose lasciano nell’anima), e il linguaggio che le esprime (i segni “parlati” dei segni nell’anima).
Macrocosmo e microcosmo continuano a riflettersi l’uno nell’altro in un intreccio di logica, ontologia e psicologia che, legati da una corrispondenza nelle forme, continuano a presentare tuttavia una differenza ontologica tra loro che rende il problema particolarmente complesso. Se da un lato i “cento talleri” pensati non devono avere niente di meno di quelli reali, ma non possono comprare alcunché (per riprendere un esempio kantiano citato dallo stesso Melandri); dall’altro lato le proposizioni non si possono limitare ad essere logicamente valide, a seguire delle regole di coerenza espressiva, perché stanno già implicitamente formulando un giudizio di esistenza su ciò che esprimono, dal momento che si parla solo a partire da cose che lasciano dei segni. Si pensi al famigerato principio di non-contraddizione: non si tratta semplicemente di una regola formale per rendere valida - cioè vera - un’argomentazione, bensì si pone come un vero e proprio principio per evitare di ammettere un conflitto insolubile in ciò che esiste. Allo stesso modo per Melandri la parte modale, intensionale, della logica aristotelica non regge ai moderni strumenti di formulazione, ma diventa meno incoerente di quanto non sembri nel momento in cui se ne rintraccia la genealogia nell’elaborazione metafisica dell’atto e della potenza, cioè - per dirla nei minimi termini - in quel motore che consentirebbe di pensare il divenire e che, schivando la staticità di un sistema formale, non può che creare dei grossi problemi in seno al pensiero logico.
Ciò significa che, per quanto la logica in Aristotele abbia la pretesa di essere lo strumento giusto per ogni tipo di formulazione scientifica, resta uno strumento aperto con fondamenti in altri campi e contatti plurimi con ulteriori modalità dell’esperire umano. D’altronde sono libri di Aristotele anche la Retorica e la Poetica, ad indicare la consapevolezza di molteplici modalità dell’espressione, che rispondono a criteri diversi, e che rendono impossibile pensare ad una totalizzazione dell’esperibile, anche per colui che è considerato volgarmente il padre o l’iniziatore del pensiero razionale. E davvero il fatto di avere molti strumenti, di poterli trasformare e scegliere, sembra essere il vantaggio più vitale del pensiero.
Commentando la proliferazione segnica dell’isomorfismo Melandri dice, riecheggiando forse gli intenti che all’inizio abbiamo attribuito a Barthes: «Noi ci esprimiamo mediante “ombre sul muro”. Nella “tradizione”, cioè nel processo con cui si tramanda il sapere acquisito di generazione in generazione, può avvenire che si dimentichi di che cosa sono proiezione le ombre sul muro. Quando la struttura degrada a forma, la scienza si trasforma in superstizione. In altri termini, la forma assume un altro senso strutturale; e precisamente non un senso nuovo, ma regressivo. Ciò che per i pionieri era una conquista, per i continuatori diventa una formula ovvia; finalmente, negli epigoni, diventa un dogma da difendere alla lettera.» (pp. 32-33)
Anche il prezioso lavoro di Enzo Melandri sembra allora mettersi a disposizione come uno strumento in grado di “strumentalizzare” - lo si sarà ormai capito, in un’accezione molto positiva - i pensieri altrui, per poter continuare a capire e a pensare. Strumenti di strumenti, per portare una lanterna nelle ombre e farle muovere, farle vivere.
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA "MAMMONICA". IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS - NON IL "LOGO"! Nota a "Ferruccio Rossi-Landi, il linguaggio come atto produttivo" ...
1.
MARX, IL C17, E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA LINGUISTICA ...
OTTIMA IDEA! “Non ci sono forse tempi migliori per pubblicare in edizione italiana il libro di Ferruccio Rossi-Landi (1921-1985) Linguistic and Economics, pubblicato in inglese nel 1974” [...]. COSI’ COME, SOLLECITATI ANCHE DAL LAVORO E DALLA MEMORIA DI TULLIO DE MAURO, è proprio il momento storico “giusto” per riprendere il discorso aperto da Ferdinand de Saussure e, con esso, la critica sia della stessa linguistica sia dell’economia politica (su questo, mi sia lecito, cfr.: RILEGGERE SAUSSURE. UN “TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO” RIDOTTO A UN BANALE “CORSO DI LINGUISTICA GENERALE”! - http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3360).
ONORE A FERRUCCIO ROSSI-LANDI. Ponendo - scrive Fumagalli - la capacità umana di lavorare alla base dell’ominazione, così come è stata descritta da Hegel, Marx ed Engels, Rossi-Landi “coglie nella riproduzione sociale come principio di ogni cosa i due campi che la determinano - la produzione (materiale) di oggetti e la produzione (linguistica) di segni verbali e non verbali - al livello della loro radice comune, a partire dalla quale si diversificano: il lavoro, appunto”. [...].
LODEVOLI GLI SFORZI DI AGGIORNAMENTO DI ANDREA FUMAGALLI (E DI AUGUSTO PONZIO). Rossi-Landi si sofferma sul concetto di riproduzione sociale: “alla base della riproduzione sociale sta il fatto che l’uomo [nel senso di essere umano, n.d.r.], un animale sociale di tipo particolare, lavora, e lavorando, produce se stesso”. E poco più avanti: “Al livello più elementare, possiamo distinguere tre momenti fondamentali della riproduzione sociale: produzione, scambio e consumo. Come ha mostrato Marx una volta per tutte, questi tre momenti sono così strettamente interconnessi, che se ne può parlare separatamente solo facendo una deliberata astrazione” [...].
MA, ALLA FINE, DALLA SOCIETA’DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE NON siamo stati ancora capaci di trovare la via di uscita!!!
CON (HEGEL E) MARX, ABBIAMO PENSATO IL “LAVORO - IN GENERALE”, MA IL “RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE” è ancora tutto da pensare!
FORSE, A QUESTO PUNTO, è bene riflettere su “Chi siamo noi in realtà?” (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198 ) e cercare di compiere (al di là della “dialettica” del “platonismo per il popolo”!) bene “l’atto produttivo” della linguaggio come dell’economia politica. Non è meglio? O no?!
Federico La Sala
2.
SULLA NECESSITA’ DI RILEGGERE SAUSSURE - E, CON LUI, DANTE E LA SUA "MONARCHIA", è MOLTO INTERESSANTE ripensare al problema dei "due soli" e delle "due chiavi" e, AL CONTEMPO, leggersi anche l’articolo di Paolo Rodari sul "capo dei clavigeri" dei musei della Santa sede (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3360#forum3120787)!
BUONA LETTURA E BUON LAVORO
Federico La Sala
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei.
E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
Un linguista democratico
di Luca Serianni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 07 gennaio 2017)
Di poche personalità si può dire, come di Tullio De Mauro, che abbiano segnato in modo indelebile la cultura italiana dell’ultimo cinquantennio. E lo si può dire senza timore di incorrere nel rischio di una celebrazione postuma, cedendo alla pur comprensibile retorica della circostanza.
De Mauro è stato prima di tutto un linguista, un grande linguista. L’opera di maggiore risonanza internazionale, una risonanza riconosciuta dalle numerose lauree honoris causa, è forse l’edizione, con un ricco commento, del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (1962), il testo che espone, con la chiarezza e l’affabilità di un docente che parla ai suoi studenti, i principi dello strutturalismo: ossia di un indirizzo che ha segnato il Novecento euroamericano, non solo nella linguistica ma anche in diverse altre scienze umane, dalla storia all’antropologia alla critica letteraria.
Ho sempre pensato che lo stile espositivo di Saussure, tutto proiettato sull’interlocutore e alieno dall’autocompiacimento dell’intellettuale, fosse un tratto che accomunasse Saussure e il suo interprete: davvero i grandi, le «persone che vagliono molto - come diceva Leopardi - hanno le maniere semplici».
L’opera che in Italia ha segnato uno spartiacque, tra un prima e un poi, è la Storia linguistica dell’Italia unita (1963). Per la prima volta un tema di stretta pertinenza linguistica, l’evoluzione dell’italiano (anzi: la costruzione di “un” italiano, nel quadro estremamente frammentato e pluridialettale del tempo), viene affrontato con ampio ricorso alla demografia e alla statistica e dunque a scienze che fino a quel momento erano rimaste estranee all’orizzonte del cultore di studi latamente letterari.
Le analisi quantitative dei fatti di lingua rappresentano una cifra caratteristica del suo profilo di studioso: Parole e numeri, come recita il titolo di una bella raccolta di saggi, curata insieme con la sua allieva Isabella Chiari e apparsa nel 2005. Ripubblicando in quello stesso anno due scritti di glottologia apparsi quasi cinquant’anni prima (sui casi greci e il nome del dativo), De Mauro osserva che in quelle pagine compaiono «molte cifre assolute e percentuali, molte tabelle, molti di quei numeri che non piacciono agli studenti delle facoltà umanistiche»; aggiungendo poi, con una punta di ben legittimo orgoglio, che quando quelle pagine erano state pensate «la statistica linguistica o meglio l’interpretazione linguistica dei dati statistici aveva mosso solo i primissimi passi», e solo fuori d’Italia.
De Mauro aveva una straordinaria curiosità intellettuale e la capacità (questa davvero rara) di adeguarsi ai tempi, in primo luogo attraverso il ricorso alle grandi risorse tecnologiche che si sono sviluppate soprattutto nel nostro secolo e che hanno cambiato, anche per gli umanisti, lo stesso modo di immaginare e di concepire una ricerca scientifica, non solo quello di svolgerla.
Di qui la descrizione del lessico di una lingua attraverso l’indicazione delle frequenze d’uso e l’individuazione del vocabolario di base, ossia di quelle parole che ricorrono più spesso in qualsiasi produzione orale e scritta. È uno dei principi che ispira il Grande vocabolario italiano dell’uso (1999) che, con i suoi 250mila lemmi, tutti marcati in base al livello d’uso (a seconda che appartengano al lessico fondamentale, a quello tecnico-specialistico, regionale e così via), è il più ampio repertorio esistente dell’italiano contemporaneo.
Una parte non secondaria delle sue energie intellettuali è stata spesa in direzione della scuola: quella frequentata da bambini e adolescenti, certo, ma anche quella che dovrebbe coinvolgere quegli adulti privi di un’istruzione adeguata e a forte rischio di regressione sia quanto a comprensione delle informazioni contenute in un testo scritto sia, e a maggior ragione, nella capacità di argomentazione, anche elementare: la Literacy e il Problem Solving degli anglosassoni.
Nel 1973 l’impulso di De Mauro è stato decisivo nel promuovere l’attività del GISCEL («Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica») e il suo nome resta legato alle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica (1975), vigorosa affermazione di principi civili ancor prima che pedagogici, che ebbe ampie ricadute negli insegnanti del tempo.
Tra queste tesi c’è anche l’idea di dare concreta applicazione all’art. 3 della Costituzione, là dove si parla di uguaglianza dei cittadini “senza distinzione di lingua”, in rifermento sia alle lingue minoritarie (De Mauro fu l’ispiratore di una legge del 1999 che diede concreta tutela alle minoranze linguistiche storiche), sia alla deprivazione linguistica, per carenza di cultura, da parte di italofoni nativi.
Ancora di scuola, un impegno mai dismesso, De Mauro era tornato a occuparsi in seno all’Accademia dei Lincei, come attivo membro del Consiglio scientifico di una Fondazione che si propone di rinnovare la didattica di italiano, matematica e scienze attraverso regolari e capillari incontri con gli insegnanti: una strada dunque, anche per il ponte lanciato tra discipline letterarie e scientifiche, ben demauriana.
L’attività di studioso si è sempre accompagnata in lui a quella di intellettuale attivo, e potremmo proprio dire militante. Presidente della Fondazione Bellonci, legata al premio Strega, il più importante premio letterario per la narrativa italiana, De Mauro ne aveva rinnovato gli indirizzi, cercando di far sì che la lettura diventasse sempre più un’abitudine condivisa.
Ma, per chi abbia avuto con lui una lunga consuetudine come nel caso di chi scrive, è difficile separare la sua statura scientifica e intellettuale dallo spessore umano. Con la sua sorridente ironia e autoironia, in cui sembravano precipitare, in senso chimico, l’origine partenopea (era nato a Torre Annunziata nel 1932) e il lungo soggiorno romano; col rispetto e l’attenzione per l’interlocutore, chiunque fosse. Ed è impossibile non ricordare il suo sguardo, mobile e vivacissimo, quando parlava o ascoltava; e abituarsi per davvero al fatto che non ci sia più.
DE MAURO IL MAESTRO DELLA LINGUA ITALIANA
di Francesco Erbani (la Repubblica, 06.01.2017)
Tullio De Mauro conobbe don Lorenzo Milani a metà degli anni Sessanta, poco prima che il priore di Barbiana morisse. La sua scuola nel Mugello la visitò soltanto dopo. Una volta, qualche tempo fa, descrivendone le povere suppellettili, la carta geografica sdrucita su una parete e andando con la memoria a quella dedizione totale per il fare scuola, portò di scatto le mani al volto e la commozione compressa sfociò in un pianto. Quando si riprese, fece per scusarsi e passò al registro dell’ironia, come a dire: ci sono ricascato. Un po’ di anni prima, infatti, parlando in pubblico della condizione degli insegnanti - forse era già ministro dell’Istruzione - gli era capitato ancora di commuoversi. Suscitando anche commenti non benevoli.
De Mauro, che ieri si è spento a 84 anni - era nato a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, nel 1932 - era fatto così. La tempra di studioso irrorava quella emotiva. La vita lo aveva scosso. Il fratello Franco morì in guerra. Mentre Mauro, l’altro fratello, dopo una giovinezza tormentata, arruolato nella Repubblica di Salò, giornalista d’inchiesta all’”Ora” di Palermo, grande tempra di cronista investigativo, fu sequestrato e ucciso dalla mafia nel 1970 e il suo corpo non è mai stato rinvenuto. Tullio parlava poco di Mauro, riversando però ogni energia affinché sulla sua fine fosse fatta piena luce.
Tullio De Mauro veniva da una rigorosa formazione classica e aveva introdotto in Italia una disciplina non proprio aderente ai canoni dominanti, la linguistica. Possedeva un profilo scientifico indiscusso in ambito internazionale dovuto allo straordinario merito di aver ricomposto filologicamente, nel 1967, il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, fino ad allora conosciuto in una versione fondata soprattutto su appunti di allievi e che però ne riduceva la forza innovativa non solo per la linguistica ma per la cultura tutta del Novecento.
Il rapporto fra langue e parole, l’arbitrarietà del segno linguistico sarebbero entrate, dopo la sua edizione laterziana, nel lessico scientifico e avrebbero emancipato la linguistica dalle sue radici glottologiche o storico-comparative, rendendola una disciplina autonoma, sia di impianto filosofico sia di rilevanza sociale. De Mauro fu il primo insegnante di Filosofia del linguaggio e poi di Linguistica generale. E dalla sua scuola sono uscite generazioni di studiosi.
Ma pur avendo frequentato stabilmente i piani alti della cultura, De Mauro era uno dei pochi intellettuali che non si è mai stancato di percorrere per intero il tracciato della produzione e della trasmissione del sapere, dalle vette più elevate della riflessione fino all’ordinamento delle scuole primarie. Un impegno manifestato anche presiedendo la Fondazione Bellonci, e curando il Premio Strega. Lo interessavano il sapere che produce altro sapere e ciò che accade nella cultura diffusa, convinto che un Paese civile, se ha a cuore la tenuta democratica, deve curare entrambe le faccende. Una rivista che dirigeva all’università di Roma aveva come titolo Non uno di meno.
E fra i maestri ai quali era devoto figurava Guido Calogero, grande studioso di filosofia teoretica, che però, dalla fine degli anni Quaranta in poi, animò il dibattito sulla scuola che poi produsse, nel 1962, una delle vere, profonde riforme italiane, quella della media unificata. «Poco male», aggiungeva De Mauro, «se Calogero per girare l’Italia discutendo di pedagogia, di filosofia del dialogo, non abbia mai completato la storia della logica antica cui teneva tanto». Quasi a dire che l’innalzamento dell’obbligo scolastico a tutte e a tutti poteva anche valere qualche sacrificio scientifico.
La Storia linguistica dell’Italia unita, uscita da Laterza nel 1963, sta in questa linea di pensiero. Il saggio ebbe grande fortuna. Non è una storia della lingua italiana, ma degli italiani attraverso la loro lingua. È una storia sociale e culturale, economica e demografica, narra di un paese che ha mosso passi da gigante, ma in cui nel 1951 quasi il 60 per cento della popolazione non aveva fatto neanche le elementari.
Si parla di città e campagna, periferie urbane, Nord e Sud. Quando nel 2014 pubblicò un prolungamento di quell’indagine in Storia linguistica dell’Italia repubblicana(sempre Laterza), De Mauro specificò che una storia linguistica racconta una comunità che può parlare anche altre lingue. Per esempio il dialetto, che per lui non era per niente morto e anzi arricchiva le modalità di comunicazione. Comunque non si poteva non rilevare il tumultuoso convergere della comunità nazionale verso una lingua unitaria. Un fenomeno che induceva a guardare al nostro Paese senza categorie semplificatorie, tutto bianco o tutto nero, ma distinguendo, analizzando - uno degli attributi fondamentali nell’insegnamento e della pratica scientifica di De Mauro.
Restavano ai suoi occhi e un velo di sofferenza gli procuravano i veri fattori di arretratezza. Le indagini internazionali attestano che in Italia, al di là dell’analfabetismo, solo una quota oscillante fra il 20 e il 30 per cento della popolazione, ma paurosamente declinante verso il 20, ha sufficienti competenze per orientarsi in un mondo complesso.
Per leggere e capire, spiegava, le istruzioni di un medicinale o le comunicazioni di una banca. E dunque per essere cittadini. La scuola, agli occhi di De Mauro, aveva meno responsabilità di quanto si pensasse e di quanto succedeva fuori di essa e dopo di essa. È qui, in famiglie dove non circolano libri, che si disperde quello che la scuola, con tutti i suoi limiti, trasmette. E di qui muoveva la sua invocazione insistente di un sistema capillare di biblioteche o del long life learning, che un tempo si chiamava educazione permanente, educazione degli adulti.
Al fondo delle tormentate indagini di De Mauro c’è sempre la critica a una nozione restrittiva della parola “cultura”, una nozione che vedeva dominante in Italia, una nozione per cui è cultura ciò che ha a che fare con l’erudizione (e De Mauro erudito lo era a titolo pieno). La sua era invece una nozione larga, che assimilava concetti dall’antropologia all’etologia, che si riferiva alla tradizione di Carlo Cattaneo e Antonio Gramsci. E che risaliva al Kant della Critica del giudizio, laddove il filosofo istituiva un continuum fra la cultura delle abilità necessarie alla sopravvivenza e la cultura delle arti, delle lettere e delle scienze. Kant e don Milani: un tracciato che De Mauro ha colmato con i suoi studi e una vita militante.
DE MAURO, COSI’ PARLAVA CONTRO LA MALALINGUA
di Alessia Grossi (Il Fatto Quotidiano, 06.01.2017)
È morto ieri all’età di 84 anni il linguista e ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001 Tullio De Mauro. Fratello del giornalista Mauro De Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970. Era docente universitario e saggista. Tra le sue opere importanti “Grande dizionario italiano dell’uso” e “Storia linguistica dell’Italia unita”. A lui si deve la ricostruzione del testo fondativo della linguistica moderna, il “Cours de linguistique générale” di Ferdinand de Saussurre.
Si prega di non venire “già mangiati”. Se le parole “stanno bene” è anche vero che “non possono essere usate a ‘schiovere’, cioè come viene viene” come spiegava lo stesso Tullio De Mauro. Così già una ventina di anni fa alla domanda se fossero corrette le espressioni come “bevuto”, “mangiato”, “cenato”, “pranzato” utilizzate con “valore attivo” il linguista rispondeva: “Non trovano cittadinanza nei vocabolari (salvo errore), forse perché d’uso prevalentemente parlato e assai scherzoso, lo stesso vale per il cannibalesco ‘mangiato’”.
Secco. Duro. Intransigente, ironico, quando non sarcastico, il professore De Mauro non conosceva quasi l’indulgenza. Perché il suo punto di vista era l’analisi dei dati. Le cifre. Quelle che parlavano degli italiani e dell’italiano, dei dialetti, da riconoscere e rispettare, perché lingua dell’emozione. Delle donne, che abbandonano le lingue locali molto più facilmente degli uomini, più spinte all’emancipazione. Ma anche dell’analfabetismo di ritorno, in quella sua accusa, che poi era semplice constatazione che “gli elettori culturalmente ignoranti” sono destinati ad esprimersi di pancia nelle cabine elettorali. E contro politici e classi dirigenti puntava il dito rimproverando proprio a loro di essere i primi artefici di quell’analfabetismo per cui il 70% degli italiani fatica a comprendere un testo.
Questo “perché il solo presidente del Consiglio italiano che, come succede altrove, si sia preso a cuore lo stato della scuola e dell’insegnamento nel nostro paese è stato Giolitti”, ricordava. La spiegazione, secondo l’ex ministro dell’Istruzione, è da cercarsi nella convenienza del potere a che i propri elettori capiscano il meno possibile. “Cosa molto pericolosa per la democrazia, che - soprattutto nel mondo contemporaneo, pieno di stimoli - per essere esercitata appieno ha bisogno che la realtà sia compresa in tutta la sua crescente complessità”.
A proposito di attacchi al potere costituito, invece, fu lo stesso De Mauro a spiegare a Lilli Gruber in una puntata di Otto e mezzo che Beppe Grillo, il “grande sdoganatore delle ‘maleparole’(come definiva le parolacce) in politica - non l’unico” - ci tenne a precisare - “aveva dimostrato un certo pudore nel fermarsi al ‘Vaffa’, senza completare mai l’insulto nella sua interezza”. Ma le maleparole stando ai suoi studi ormai sono presenti ovunque, anche nella stampa. Strano a dirsi: non tanto nel parlato. Italiani esibizionisti, ma pudichi in privato, o meglio - così li hanno resi, adirati, le condizioni sociali e politiche, cioè il clima degli anni berlusconiani. E di Berlusconi De Mauro ha analizzato il linguaggio fatto di “formule molto semplici dalla presa immediata, simili a quelle di Mussolini”.
Poi l’attacco a Renzi, all’epoca solo segretario del Pd: “Usa un ottimo italiano per dire poco, al contrario di vecchi politici, come Moro, che cercavano di affrontare il groviglio di problemi e di parlarne, di spiegarli agli italiani, anche se il linguaggio in questi casi si fa necessariamente poco accattivante, ma qualcuno c’è riuscito”. Vedi ad esempio Enrico Berlinguer che, secondo Tullio De Mauro “parlava in modo complesso nelle relazioni congressuali, ma poi riusciva a trovare delle formulazioni accessibili a una vasta popolazione”.
Di riforme della scuola ne aveva viste molte, e da docente che amava passeggiare tra i banchi e mai stare in cattedra, con quel suo sistema innovativo della “scuola capovolta” e dell’insegnamento attivo, del testo della “Buona Scuola” di Renzi aveva saputo elencare le mancanze, quei famosi “tre silenzi”di cui aveva scritto per la sua rubrica su Internazionale e che lui aveva segnato con la penna blu: il silenzio sullo scarso livello della scuola media italiana, quella incapacità di rispecchiare l’articolo 33 e 34 della Costituzione che la vuole “libera e gratuita”. E il terzo, quello sul ruolo dell’insegnamento in una società in cui è alta la “dealfabetizzazione in età adulta”.
E seppur fuori dalle “barricate”, contro quella riforma aveva preannunciato una dura lotta in “modo pomposo, quello di Piero Calamandrei che è il modo solenne di occuparsi dei ragazzi”.
Un gramsciano lontano dall’accademia
di Franco Lo Piparo (Il Sole-24 Ore, 05 gennaio 2017)
Tullio De Mauro aveva diverse qualità. Una era ineguagliabile. Il suo stile di vita corrispondeva alla sua produzione scientifica. Quando da giovane laureato sono andato a presentarmi da lui per fargli leggere la tesi fui accolto come mai nessuno dei professori cosiddetti democratici mi aveva accolto. Mi sono sentito subito a mio agio.
Siamo nell’autunno del 1969 nell’Università di Palermo. De Mauro non era solo un bravo professore. Era un intellettuale che interveniva sui giornali e creava opinione. Era noto fuori d’Italia. Aveva al suo attivo opere fondamentali, tradotte in varie lingue, e su cui molte generazioni di linguisti e filosofi del linguaggio si formeranno, non solo in Italia: Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; Introduzione alla semantica, 1965; traduzione e commento del Cours de inguistique générale di Ferdinand de Saussure, 1967.
Era anche cattedratico giovanissimo e questo lo rendeva ancora più affascinante. Almeno a noi che respiravamo l’aria del Sessantotto. Naturalmente quello che per noi era fattore attrattivo non era ben apprezzato dai colleghi glottologi anziani. Amava raccontarmi con una punta di orgoglio che fu bocciato da arcigni e ignoti professori al suo primo concorso universitario. Il pezzo forte delle sue pubblicazioni era quello che da tutti è considerato un classico della storiografia linguistica: Storia linguistica dell’Italia unita. La motivazione della bocciatura fu che non si trattava di opera scientifica ma di un pamphlet politico.
La stupidità, tutta accademica, degli arcigni professori a modo suo aveva visto bene. De Mauro fu un linguista gramsciano, quanto di più lontano si possa immaginare dall’accademia. Quell’opera valutata negativamente dall’accademia, oltre che una inedita ricostruzione della storia delle vicende linguistiche dell’Italia unita, è anche un programma teorico che affonda le sue radici nei Quaderni di Gramsci.
L’ascendenza gramsciana, però, di quell’opera l’ho capita dopo, molto dopo. È accaduto quello che accade ai classici. Intercettando lo spirito profondo e nascosto di altri classici (i Quaderni nel caso specifico) costringono a rileggere con sensibilità nuova i testi che hanno ispirato il nuovo approccio. Un virtuoso corto circuito.
Alcune delle colonne portanti dell’approccio gramsciano di De Mauro alle lingue provo a elencarle.
(1) Le lingue esistono in quanto sono parlate o sono state parlate. Sembra banale ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e credo che non ne siano ancora del tutto chiare tutte le implicazioni teoriche. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti.
(2) Non esiste la lingua ma la coppia lingua-parlanti. E i parlanti parlano e/o scrivono non per eseguire regole grammaticali ma per affrontare problemi che linguistici non sono.
(3) Ciò vuol dire che il senso delle parole e dei modi di dire è il protagonista delle vicende linguistiche. La semantica è la parte del linguaggio che guida le altre.
De Mauro questo lo spiega già in opere giovanili come l’Introduzione alla semantica e nella interpretazione che dà del Cours di Saussure e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lo approfondirà ancora meglio in Minisemantica (1982), altra opera di diffusa circolazione internazionale.
I tre pilastri esposti qui in maniera sommaria sono riassumibili nella costitutiva natura politica delle lingue. Erano due gli autori da cui De Mauro traeva suggerimenti e ispirazioni.
Uno era l’Aristotele che faceva derivare la specificità delle lingue storiconaturali dal fatto che l’uomo è animale che può vivere solo come parte di una città. “Città” in greco polis, donde la definizione di uomo come animale politikón che letteralmente significa per l’appunto “animale per natura cittadino”. L’altro era Antonio Gramsci che spiega diffusamente e analiticamente come nessun potere-egemonia può essere esercitato senza la cooperazione linguistica e, per questo, chiarisce in maniera incontrovertibile la politicità di ogni questione linguistica.
La lettura in parallelo della Storia linguistica di De Mauro e dell’ultimo Quaderno a noi noto, scritto da Gramsci nella clinica Cusumano nell’aprile 1935, è molto illuminante. Il titolo di quel quaderno era, se mi è consentito di invertire il prima e il dopo, molto demauriano: Lingua nazionale e grammatica.
L’impalcatura filosofica che qui ho tratteggiato De Mauro l’ha declinata in numerosi saggi di alta teoria ma l’ha anche tradotta impegno politico quotidiano. Convinto che la crescita individuale e collettiva non è separabile dalle abilità linguistiche è stato un attentissimo analista dei livelli culturali in cui è stratificata una società.
Penso proprio che De Mauro aveva ragione ad essere orgoglioso della bocciatura al concorso universitario perché linguista politico. Non sapendo gli arcigni glottologi che col loro giudizio univano De Mauro con Aristotele.
Morto Tullio De Mauro
Il linguista che uscì dall’accademia inseguendo una missione di civiltà
Fece scoprire la disciplina nata con Ferdinand de Saussure, ottenne la prima cattedra dedicata alla materia, non si negò alla politica, fu ministro della Pubblica istruzione
di PAOLO DI STEFANO *
Tullio De Mauro, morto ieri a Roma, è stato Il (maiuscolo) Linguista (maiuscolo). Con intuizioni precocissime. Quando ancora in Italia lo strutturalismo era agli albori, fu Tullio De Mauro, nel 1967 per Laterza, a tradurre dal francese e a commentare il Corso di linguistica generale del ginevrino Ferdinand de Saussure, il maestro dei maestri, il vero faro della disciplina, un classico moderno di cui si sarebbero alimentati gli studi più importanti di De Mauro, che pure non si può dire uno strutturalista tout court.
Far conoscere de Saussure è stato un suo grande merito storico, ma non l’unico. Perché gli si devono tante altre cose: una Storia linguistica dell’Italia unita (Laterza) destinata a diventare un classico a sua volta, un Dizionario dell’uso (Utet) che rompeva gli schemi della lessicografia tradizionale, un’attività editoriale e giornalistica instancabile e sempre sensibilissima alla società. Su tutti i meriti di De Mauro, il maggiore, forse, era la sua presenza civile nella scena culturale e politica: perché considerava le due cose del tutto inestricabili, così come la lingua con i suoi mutamenti è inscindibile dalle trasformazioni della società e in definitiva della vita.
Anche nei numerosi incarichi politici - da consigliere regionale (eletto come indipendente nelle liste del Pci), da assessore comunale, infine da ministro nel secondo governo Amato, spesso contestato in una fase economicamente difficile per la scuola (tanto per cambiare) e per di più complicata dalle riforme volute dal suo predecessore Luigi Berlinguer - non perdette di vista il Paese parlante e cioè la società reale. Era questo sguardo, importato dalla particolare sensibilità linguistica, il suo vantaggio rispetto ai politici-politici e ai colleghi accademici.
Nato «un po’ per caso» a Torre Annunziata il 31 marzo 1932, figlio di un farmacista foggiano e di una professoressa napoletana di matematica, il piccolo Tullio è affascinato dalla biblioteca di casa, impara l’alfabeto copiando i caratteri a stampa dal dorso dei libri, gusta il sapore delle parole bizzarre che circolano in famiglia, scopre presto le filastrocche e i calembour. Più sua madre che suo padre è stata fonte, per il bambino, di passione letteraria e di espressioni dialettali: «Nei casi di inconvenienti per cui si disperava ci diceva che si dava o si era data al diavolo e, se si sentiva colpevole, si dava la testa al muro. Di persona assai irritata, prossima a esplodere per l’ira fino a quel momento repressa, diceva: tiene i lapis a quadrigliè, espressione franconapoletana un po’ misteriosa che a me faceva pensare ai lapis, alle matite, ma che più probabilmente si riferiva alle pietruzze del mosaico disposte a quadrettino». A dieci anni scopre Roma, dove la famiglia si trasferisce nel 1942, è attratto dal mito fascista, fascino che rimarrà nel fratello Mauro (ragazzo della Repubblica di Salò), non in Tullio.
Il racconto autobiografico dell’infanzia, lieve, intenso e pieno di ironia, è consegnato a Parole di giorni lontani (Il Mulino, 2006), con la casa dell’Arenella, le prime letture, la passione precoce per il vocabolario. Da liceale aspira a fare l’insegnante, che considera «il mestiere più bello del mondo». Si laurea in Lettere classiche con Antonino Pagliaro, il glottologo benvoluto da Mussolini, presentando una tesi di filosofia del linguaggio.
I genitori Oscar e Clementina, che si erano conosciuti in un laboratorio chimico, mantennero la promessa reciproca di avere cinque figli: avrebbero voluto dar loro i nomi dei gas nobili, ma optarono per soluzioni più ragionevoli. Il maggiore, Franco, sarebbe morto in guerra, il secondo (classe 1922) era Mauro, il giornalista dell’«Ora» che il 16 settembre 1970, mentre indagava sugli ultimi giorni di Enrico Mattei per conto del regista Franco Rosi, sarebbe stato rapito dalla mafia in circostanze oscure. Non fu più ritrovato e il mistero insoluto rimase una ferita aperta per la famiglia e per Tullio in particolare, che tornò più volte su quella vicenda sempre sperando che la magistratura facesse luce: furono anni molto duri, «è duro che ogni tanto il caso si riapra e si ricominci daccapo, è un lutto che ogni volta si ripropone», disse intervistato da Antonio Gnoli. «Elaborare una morte senza tomba è pressoché impossibile», disse a Paolo Conti. La sua convinzione era che il fratello fosse stato ucciso dalla mafia per avere scoperto elementi scottanti sulla morte del presidente dell’Eni. Ma Tullio De Mauro non finì di interrogarsi sul mandante.
De Mauro è stato una presenza fisica (oltre che intellettuale) familiare del dopoguerra. Le sue orecchie ampie e un po’ bambinesche sono nell’immaginario visivo della cultura italiana almeno come il volto sdentato di Edoardo Sanguineti e la barba di Umberto Eco. Fu il primo a vincere in Italia una cattedra di Linguistica generale, nel 1967.
Bruciate le tappe della carriera, diventato ordinario di Filosofia del linguaggio alla Sapienza, è stato un personaggio pubblico come raramente è accaduto per accademici che non hanno mai voluto rinunciare alla ricerca scientifica sul campo. Ed è stato anche un maestro nel trasmettere un’idea: il linguaggio non è un’entità neutra ma qualcosa che ha riflessi sociali e politici. Lo studio linguistico è un accesso alla comprensione del mondo: «Le parole - scriveva De Mauro - sono esse stesse fatti, e fatti politicamente rilevanti». Per questo l’impegno nella politica non è disgiunto, per lui, dall’attività culturale: lo dimostra la direzione per Editori Riuniti, negli anni Sessanta-Settanta, della collana «Libri di base», che si proponeva di divulgare il sapere intellettuale e pratico «in modo semplice e chiaro», perché tutti potessero capire.
In quella collana uscirono piccoli manuali su come si scrive e si parla (autore lo stesso De Mauro), ma anche su che cos’è la statistica, su come leggere la busta paga, sulla filosofia di Marx, sulla speleologia, sull’uguaglianza, sull’industria dell’acciaio eccetera. Una biblioteca alimentata da una seria preoccupazione per l’apprendimento, per la diffusione della cultura in un Paese dallo sviluppo storico anomalo, per la qualità dell’istituzione scolastica, vero Leitmotiv dei suoi saggi e degli interventi giornalistici (dopo aver scritto per «Il Mondo», «Paese Sera», per «L’Espresso», per «la Stampa», teneva una rubrica nel settimanale «Internazionale», diretto dal figlio Giovanni).
Più di recente si soffermava sull’analfabetismo di ritorno che, pur mantenendosi lontano da accenti apocalittici, considerava una piaga angosciante. Sostenendosi sempre sui dati più aggiornati, De Mauro non si stancava di elaborare analisi e di elargire consigli sul sistema scolastico e universitario, di intervenire sulla qualità delle biblioteche pubbliche, sulla necessità di una politica che promuovesse la lettura (specie nell’infanzia), sulle magagne del mercato editoriale. L’incarico come presidente del Premio Strega era un modo per lui nuovo e diverso di leggere, attraverso la letteratura contemporanea, l’Italia in cui viveva. Ha imposto in tutti i modi soluzioni di voto più trasparenti. Leggeva tantissimi romanzi, ma non ne sembrava entusiasta.
didattica
Morto Tullio De Mauro
L’impegno dei Lincei per la scuola
Il linguista è morto il 5 gennaio 2017 a 84 anni. Pubblichiamo qui un articolo dell’ex ministro dell’Istruzione su un convegno organizzato dall’Accademia dei Lincei
di TULLIO DE MAURO *
Una lince si aggira nelle scuole italiane. Niente paura, però: la lince in questione è soltanto la discendente di quella che Adam Elsheimer, un pittore tedesco italianato e romanizzato, dipinse come simbolo dell’Accademia fondata a Roma da Federico Cesi nel 1603. Carica di glorie e tradizioni, da tre anni l’Accademia dei Lincei ha deciso di occuparsi di scuola e di occuparsene attivamente. E dunque gli accademici lincei stanno andando a scuola a fianco di chi insegna.
Il 24 ottobre prossimo a Roma, a Palazzo Corsini, il convegno «I Lincei per una nuova scuola» farà il punto sulle attività svolte e sui progetti futuri. Il convegno, dopo un saluto del presidente Alberto Quadrio Curzio, sarà introdotto da Lamberto Maffei e da una conferenza di Carlo Ossola, «Dall’inaudito al topos». Vi saranno poi interventi su temi di fondo, come le nuove norme sull’aggiornamento degli insegnanti e il contributo innovativo degli enti di cultura, affidati a Sabrina Bono e Massimo Bray, una presentazione d’insieme del progetto linceo, affidata a Francesco Clementi, cui seguiranno rendiconti sul già fatto e su nuovi progetti da realizzare. Una conclusione di Luca Serianni tirerà le somme della giornata.
Assumere la decisione di dedicare attenzione e attività alle scuole non è stato banale. Nella comune opinione ricerca e università stanno da una parte e da un’altra vive il mondo delle scuole. Si può ritenere che l’opinione sia sbagliata, ma è ben radicata ed è condivisa da più d’un socio accademico. Inoltre il secondo articolo dello statuto linceo elenca le attività tipiche dell’Accademia e sono le attività proprie di un’istituzione di alta ricerca di rilievo internazionale. Di scuola non si fa esplicitamente parola. Tuttavia il primo articolo assegna ai Lincei «lo scopo di promuovere, coordinare, integrare e diffondere le conoscenze scientifiche nelle loro più elevate espressioni nel quadro dell’unità e universalità della cultura». Queste parole, prese sul serio, paiono prefigurare un diretto apporto dei Lincei alla vita delle nostre scuole.
La preoccupazione per lo stato complessivo della nostra cultura, rivelato impietosamente da alcune indagini internazionali sul nostro assai modesto possesso delle capacità di capire un testo e usare concetti matematici e scientifici, e la percezione della difficoltà che la scuola ordinaria incontra per correggere durevolmente questo stato di cose, hanno spinto diversi soci lincei, sollecitati da Lamberto Maffei, già presidente e ora vicepresidente dell’Accademia, a occuparsi attivamente di scuola e, per consolidare la loro azione, hanno dato vita alla “Fondazione Lincei per la scuola”. Ma che fare in concreto?
Nel maremagno di indagini internazionali sui processi educativi e sui sistemi scolastici, nella gran massa di dati e correlazioni statistiche c’è una cosa che risulta chiara. Formularla può far sorridere, perché dice quel che mamme sagge e bidelli di lungo corso sanno bene: per avere una scuola buona ci vuole un bravo insegnante, maschio o femmina non importa. E non importano, o importano assai meno, altri fattori: le riforme, anche quelle ben meditate, i programmi, l’edilizia, la numerosità delle classi, il tempo scuola. Attenzione, non è che questi altri fattori vadano ignorati.
Ma il fattore insegnante è statisticamente di gran lunga più rilevante. Esso è tale da sovvertire la presenza di fattori negativi e, però, se l’insegnante è mediocre, è anche tale da vanificare la presenza di fattori positivi, come l’esistenza di un bravo preside e di una buona organizzazione, locali adeguati, classi poco numerose, maggior durata del tempo-scuola, famiglie con buon livello di istruzione. Formate bene chi insegna e avrete una scuola buona.
Ma chi è, che qualità deve avere un bravo insegnante? La discussione internazionale è aperta. Un’importante associazione operante negli Usa, Teach for America, dopo molti anni di esperienza ha lanciato una formula: un bravo insegnante deve essere un leader, un trascinatore. Bello a dirsi, ma che cosa bisogna saper fare o, meglio, «essere» (diceva don Lorenzo Milani) per trascinare? Le risposte in circolazione sono diverse, ma un elemento è comune a tutte: tra le sue doti l’insegnante di valore deve necessariamente avere una preparazione profonda, sicura, aggiornata nella materia che insegna.
La Fondazione lincea ha fatto propria questa indicazione e ha deciso di intervenire per quanto può sui livelli di conoscenza aggiornata degli insegnanti. Una certa penuria di mezzi ha spinto a non dispiegare tutto il potenziale scientifico della comunità lincea e a non investire tutte le materie di insegnamento. Gli interventi si sono concentrati sui tre ambiti che le statistiche dell’Ocse hanno scelto come fondamentali: lingua materna o, meglio, lingua ufficiale del Paese, cioè italiano, matematica e scienze fisiche e naturali. La stessa penuria di mezzi ha portato a una scelta obbligata, ma felice: i lincei non lavorano da soli, ma con impegno cercano la collaborazione di università e istituti scolastici nelle varie città in cui riescono a operare. La collaborazione è resa necessaria anche dal fatto che giustamente si è rifiutato il tradizionale e dominante intervento mordi e fuggi: lo specialista più o meno illustre arriva, fa un nobile discorso a insegnanti che non conosce e sparisce velocemente dalla scena. I lincei cercano invece di avviare attività seminariali e di laboratorio, da seguire e realizzare nel tempo. Quindi uno o più specialisti si succedono in incontri che, partendo da un particolare contenuto e dal colloquio con gli insegnanti, portano alla ideazione di un progetto di attività didattiche concrete, che immettano nel lavoro di classe nuovi stimoli.
Si sono creati così dei «poli» da Milano a Palermo, da Brescia a Potenza e L’Aquila. Sono ormai oltre venti le città coinvolte e sono oltre undicimila gli insegnanti che hanno frequentato a loro spese lezioni frontali, laboratori, seminari, spesso spostandosi da altre città e paesi in prossimità del polo, per ascoltare gli specialisti e interagire con loro. È solo un inizio rispetto alle centinaia di migliaia di docenti. Ma già gli e le insegnanti vedono e sentono che la miglior cultura umanistica e scientifica è organicamente accanto a loro nel difficile compito di far bene scuola.
E’ morto Tullio De Mauro
Il celebre linguista e docente aveva 84 anni, fu anche ministro *
E’ morto a Roma a 84 anni il celebre linguista Tullio De Mauro, docente universitario, già ministro della Pubblica Istruzione e presidente della Fondazione Bellonci, che organizza il premio Strega. E’ la stessa Fondazione a darne conferma.
Nato a Torre Annunziata il 31 marzo 1932, Tullio de Mauro, laureatosi in Lettere classiche, ha insegnato nelle università di Napoli, Chieti, Palermo e Salerno. Docente di Filosofia del linguaggio alla Sapienza di Roma, è stato poi ordinario di Linguistica generale presso la stessa università. Nel 1966 è stato tra i fondatori della Società di linguistica italiana, di cui è stato anche presidente (1969-73). È stato consigliere della Regione Lazio (1975-80), membro del Consiglio di amministrazione dell’università di Roma (1981-85), delegato per la didattica del rettore (1986-88) e presidente dell’Istituzione biblioteche e centri culturali di Roma (1996-97). Dal 2000 al 2001 è stato ministro della Pubblica Istruzione nel governo Amato.
Nel 2001 è stato nominato dal Presidente della Repubblica Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana. Per l’insieme delle sue attività di ricerca, l’accademia nazionale dei Lincei gli ha attribuito nel 2006 il premio della Presidenza della Repubblica. Nel 2008 gli è stato conferito l’Honorary Doctorate dall’Università di Waseda (Tokyo). Autore di un’importante traduzione commentata del Cours de linguistique générale di F. de Saussure (1967), tra le sue opere più importanti vanno citati la Storia linguistica dell’Italia unita (1963) e Il grande dizionario italiano dell’uso.
E ancora - come ricorda la Treccani sul suo sito - Guida all’uso delle parole, Minisemantica dei linguaggi non-verbali e delle lingue, Ai margini del linguaggio, Lessico di frequenza dell’italiano parlato, Capire le parole, Idee per il governo: la scuola, Linguistica elementare, successivamente ha pubblicato Prima lezione sul linguaggio, La fabbrica delle parole, Parole di giorni lontani, Lezioni di linguistica teorica, In principio c’era la parola?, Parole di giorni un po’ meno lontani, La lingua batte dove il dente duole (con Camilleri) e In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia? (2014). Ha anche curato il DAIC. Dizionario avanzato dell’italiano corrente (1997), il Dizionario della lingua italiana (2000), il Dizionario etimologico (con M. Mancini, 2000) e il Dizionario delle parole straniere nella lingua italiana (con M. Mancini, 2001). Intensa anche la sua attività pubblicistica: ha collaborato, tra l’altro, con Il Mondo (1956-64) e L’Espresso (1981-90).
ALFABETO - TULLIO DE MAURO. Italia, Repubblica popolare fondata sull’asineria
di Antonello Caporale *
Tullio De Mauro Siamo la Repubblica dell’ignoranza, degli asini duri e puri, degli analfabeti di concetto, di concorso, di condominio, da passeggio e da web. Passano gli anni ma restiamo sempre stupiti della mostruosa cifra dei concittadini incapaci di comprendere o persino leggere una frase che non sia un periodo semplice (soggetto, predicato e complemento) e un’operazione aritmetica appena più complessa dell’addizione o della sottrazione a due cifre.
Tullio De Mauro è il notaio della nostra ignoranza.
Sono ricerche consolidate, l’ultima dell’Ocse è del 2014, che formalizza il grado italiano di estremo analfabetismo. Mi succede ogni volta di dover spiegare che la sorpresa è del tutto fuori luogo, i dati sono consolidati oramai.
Professore, asini eravamo e asini siamo.
Abbiamo una percentuale di analfabetismo strutturale intorno al 33% in misura proporzionale per classi di età: dai 16 anni in avanti. Il 5% di essi non riesce a distinguere il valore e il senso di una lettera dall’altra. Avrà difficoltà a capire ciò che divide la b con la t la f la g. Cecità assoluta. Il restante 28 ce la fa a leggere, ma con qualche difficoltà, parole semplici e a metterle insieme: b a c o, baco. Singole parole.
Qui siamo al livello 1: totale incapacità di decifrare uno scritto.
Il cosiddetto livello degli analfabeti strutturali.
Passiamo al secondo livello.
Gli analfabeti funzionali. Riescono a comprendere o a leggere e scrivere periodi semplici. Si perdono appena nel periodo compare una subordinata o più subordinate. E uguale difficoltà mostrano quando le operazioni aritmetiche si fanno appena più complicate della semplice addizione e sottrazione. Con i decimali sono guai.
Dentro questo comparto di asineria alleviata c’è un altro 37% di compatrioti.
Purtroppo non ci schiodiamo da queste cifre.
Quanta gente ha una padronanza avanzata di testi, parole e concetti?
Il 29%. Si parte dal terzo gradino, quello che definisce il minimo indispensabile per orientarsi nella vita privata e pubblica, e si sale fino al quinto dove il forestierismo è compreso, si ha la padronanza della lingua italiana e anche di quella straniera.
Con gli anni si peggiora.
È un processo di atrofizzazione del sapere costante e lievitante.
Solo tre italiani su dieci andranno a votare al referendum sulla Costituzione con qualche idea di cosa sono chiamati a decidere.
Siamo lì, purtroppo.
È un disastro!
Il Giappone nel 1870 investì ogni risorsa nella scolarizzazione. Nel 1900 tutti i giapponesi erano in possesso della licenza elementare. Traguardo che noi abbiamo raggiunto 80 anni dopo.
Per la politica è un grande business trovarsi di fronte elettori inconsapevoli. Frottole a gogò!
È un’attrazione fatale. Ricordo che il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer licenziò una riforma nella quale il Parlamento si faceva carico di ascoltare ogni anno una relazione sullo stato dell’istruzione in Italia e ogni tre anni di avanzare gli eventuali correttivi. Un po’ come la manovra finanziaria, pensava che fosse necessaria una legge di stabilità culturale. Era un modo per tenere sott’occhio anche questa sciagura e per ridurre o limitare l’evento calamitoso dell’ignoranza. Venne la Moratti e dopo un giorno dal suo insediamento la cassò.
Anche lei è stato ministro dell’Istruzione.
In Parlamento risposi a un’interrogazione di una deputata (insegnante tra l’altro). Dissi: l’onorevole preopinante (colui che ha appena dubitato, opinato ndr). Lei mi interruppe: come si permette di offendere?
Ma l’ignoranza non incide anche nella qualità del lavoro?
L’ignoranza costa in termini civili, naturalmente culturali e persino nel processo produttivo. L’indice di produttività subisce un assoluto condizionamento dall’asineria.
Di cosa ci sarebbe bisogno?
Di cicli di aggiornamento culturale di massa. E nessun sussidio (penso alla cassa integrazione) dovrebbe essere possibile senza un contestuale periodo di educazione alla lingua.
Dovremmo tutti andare al doposcuola.
Prima si andava al mercato e si sceglieva la lattuga. Adesso c’è il supermercato dove tutto è imbustato. Per capirne provenienza e confezionamento è necessario saper leggere. Posso anche leggere Cile, ma se non so dove si trova quel Paese che me ne faccio di quella indicazione?
Siamo il Paese della onesta incomprensione.
Esisteva un servizio intelligente e puntuale che indagava sulla nostra capacità di comprendere, il servizio opinione Rai poi incredibilmente chiuso. Nel 1969 fu avanzata una ricerca su tre campioni: la casalinga di Voghera, gli operai di Bari e gli impiegati di Roma. Questi ultimi si distinsero per la loro selvaggia ignoranza.
E noi a prendercela con la casalinga di Voghera.
Invece i peggiori erano gli impiegati dei ministeri. Asinissimi!
*
Blog di Antonello Caporale - Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016
Ferdinand de Saussure (1857-1913)
«Langue» e «parole» di nuovo in dialogo
A cent’anni dal «Cours de linguistique générale», l’approccio storico torna ad essere ricompreso nella scienza linguistica
di Lorenzo Tomasin (Il Sole-24 Ore, Domenica, 02.10.2016)
I capolavori della scienza, come quelli letterari, si prestano spesso a interpretazioni così divaricate da muovere in direzioni impreviste le idee dei loro autori. Se ciò è vero in genere, è tanto più vero per la pietra angolare della linguistica moderna, quel Cours de linguistique générale che a partire dagli appunti delle lezioni ginevrine di Ferdinand de Saussure, nel 1916 fu pubblicato postumo dai suoi allievi Bally e Sechehaye.
È ben noto che dal Cours saussuriano si suole far partire lo strutturalismo, e che lo strutturalismo si suole contrapporre al cosiddetto paradigma storico della linguistica ottocentesca. Quello della glottologia, per intendersi, e della storia comparata delle lingue genealogicamente raggruppate (indoeuropee, romanze...).
Dalla risoluta distinzione saussuriana fra studio diacronico e studio sincronico della lingua vista come sistema statico nella comunità di parlanti ancorati al loro presente discende l’affrancamento novecentesco dall’ipoteca o dal primato della linguistica storica. Quest’ultima sarebbe stata per l’addietro incapace di distinguere lo studio del divenire linguistico da quello, per Saussure prioritario, della lingua come sistema sincronico, che va letto prescindendo dai suoi stati anteriori, perduti e assenti alla coscienza del parlante. Portando alla estreme conseguenze questo aspetto della riflessione di Saussure, si è arrivati a discorrere addirittura di una detronizzazione della storia nella scienza linguistica.
I limiti della contrapposizione netta tra sincronia e diacronia sono stati tra i primi e più facili bersagli della riflessione sul Cours, fino a quando - negli anni ’50 - Eugenio Coseriu ha mostrato come la lingua sia da intendere essa stessa come cambiamento continuo, dimodoché il concetto di stato di lingua come entità isolabile dal moto incessante del cambio si rivela un’astrazione chimerica. La lingua è nella storia, e la storia è attiva nei parlanti non meno della grammatica, cioè dei rapporti che reggono il sistema.
Ancora, il profondo storicismo dell’impianto del Cours è stato reclamato con intelligenza da Tullio De Mauro (responsabile della sua non facile edizione critica): il carattere radicalmente arbitrario e insieme sociale di tutte le lingue fa tutt’uno con il loro carattere radicalmente storico.
Inoltre, la frattura che separerebbe Saussure dai glottologi ottocenteschi si è attenuata riconducendo l’uno e gli altri alla filiera che Michele Loporcaro ha chiamato dell’immanentismo linguistico. In questione è la fiducia, comune a positivisti e strutturalisti tramite Saussure, giù giù fino alla linguistica generativa, nella possibilità d’individuare meccanismi di razionalità immanenti alla lingua - anzi della langue, in termini appunto saussuriani - e perciò separati, o almeno autonomi, dalla società e dalla cultura dei parlanti. «La linguistica ha come unico e vero oggetto la lingua considerata in sé stessa e per sé stessa», è la frase con cui gli allievi fecero terminare il Cours.
Col che Saussure, in compagnia con lo strutturalismo, ma anche con la linguistica storico-comparativa da cui egli peraltro proveniva per curriculum di studi, si contrapporrebbe piuttosto a una visione della lingua espressa nel Novecento dalla sociolinguistica. Questa lettura, affascinante e persuasiva, mette in evidenza la matrice idealistica (anzi proprio platonica) della visione saussuriana (langue/parole) non meno che dell’innatismo dei generativisti.
Ma ancora una volta è forse una lettura parziale. La natura sociale e perciò storica della lingua è esplicitamente richiamata da Saussure stesso come necessario bilanciamento alla nozione di arbitrarietà che regge i rapporti tra significante e significato, cioè del segno linguistico. Nel famoso esempio saussuriano, il concetto di «albero» e l’immagine acustica (cioè la sequenza di suoni) del termine albero si legano in modo del tutto arbitrario, assolvendo alla funzione che in altre lingue svolgono i significanti Baum o tree. E ciò avviene solo per il consenso sociale dei parlanti.
Ma il tacito consenso sociale altro non è in effetti se non quella storia che il Cours avrebbe detronizzato, dichiarando che la sincronia è per il parlante l’unica vera realtà. L’altro famoso esempio saussuriano della parola sœur, che per nessuna ragione logica o naturale è collegabile al concetto di ’sorella’ più di quanto lo sia Schwester, è riformulabile in questi termini: la sola ragione per cui sœur significa ’sorella’ è in effetti che in latino soror (da cui sœur deriva direttamente, cioè per tradizione ininterrotta da parlante a parlante) significava appunto ’sorella’. Il che tra l’altro sottrae all’arbitrarietà la somiglianza non fortuita, tra sœur e sorella, o tra Schwester e sister, che anche il parlante più ingenuo ha ben chiara.
Il problema non è semplicemente spostato più a monte, ma ricondotto a quella inscindibilità tra verità sincronica e verità diacronica - come le chiamava Saussure, sforzandosi di tenerle separate - che rende la sua distinzione tanto fragile quanto, per paradosso, ancora stimolante. Uno dei fronti su cui, cento anni dopo, si ripropone l’attualità del Cours è forse oggi quello tra le ragioni ineliminabili della storia e la tipica tentazione novecentesca di spiegare il presente col presente, facendo a meno della storia.
Intervista
Bauman: «Parliamoci. È vera rivoluzione culturale»
di Stefania Falasca (Avvenire, 20/09/2016)
«Le guerre di religione? Solo una delle offerte del mercato ». Zygmunt Bauman, il più acuto studioso della società postmoderna che ha raccontato in pagine memorabili l’angoscia dell’uomo contemporaneo - lo incontriamo ad Assisi prima del suo intervento - ci parla della sfida del dialogo.
Professore, la sua intuizione sulla postmodernità liquida continua a offrire uno sguardo lucido sul tempo presente. Ma in questa liquidità si registra un esplosione di nazionalismi, identitarismi religiosi. Come si spiegano?
Cominciamo dal problema della guerra. ll nostro mondo contemporaneo non vive una guerra organica ma frammentata. Guerre d’interessi, per denaro, per le risorse, per governare sulle nazioni. Non la chiamo guerra di religione, sono altri che vogliono sia una guerra di religione. Non appartengo a chi vuole far credere che sia una guerra tra religioni. Non la chiamo neppure così. Bisogna stare attenti a non seguire la mentalità corrente. In particolare la mentalità introdotta dal politologo di turno, dai media, da coloro che vogliono raccogliere il consenso, dicendo ciò che loro volevano ascoltare. Lei sa bene che in un mondo permeato dalla paura, questa penetra la società. La paura ha le sue radici nelle ansietà delle persone e anche se abbiamo delle situazioni di grande benessere, viviamo in una grande paura. La paura di perdere posizioni. Le persone hanno paura di avere paura, anche senza darsi una spiegazione del motivo. E questa paura così mobile, inespressa, che non spiega la sua sorgente, è un ottimo capitale per tutti coloro che la vogliono utilizzare per motivi politici o commerciali. Parlare così di guerre e di guerre di religioni è solo una delle offerte del mercato.
Al panico delle guerre di religione si unisce quello delle migrazioni. Già anni fa Umberto Eco diceva che per chi voleva capitalizzare la paura delle persone, il problema dell’emigrazione era arrivato come un dono dal cielo....
Sì è così. Guerre di religione e immigrazione sono nomi differenti dati oggi per sfruttare questa paura vaga incerta, male espressa e mal compresa. Stiamo però qui facendo un errore esistenziale, confondendo due fenomeni differenti: uno è il fenomeno delle migrazioni e l’altro il fenomeno dell’immigrazione, come ha fatto osservare Umberto Eco. Non sono un fenomeno, sono due differenti fenomeni. L’immigrazione è un compagno della storia moderna, lo Stato moderno, la formazione dello Stato è anche una storia di immigrazione. Il capitale ha bisogno del lavoro il lavoro ha bisogno del capitale. Le migrazioni sono invece qualcosa di diverso è un processo naturale che non può essere controllato, che va per la sua strada.
Come pensa si possa trovare un equilibrio per questi fenomeni?
La soluzione offerta dai governi è quella di stringere sempre più il cordone delle possibilità di immigrazione. Ma la nostra società è ormai irreversibilmente cosmopolita, multiculturale e multireligiosa. Il sociologo Ulrich Beck dice che viviamo in una condizione cosmopolita di interdipendenza e scambio a livello planetario ma non abbiamo neppure iniziato a svilupparne la consapevolezza. E gestiamo questo momento con gli strumenti dei nostri antenati... è una trappola, una sfida da affrontare. Noi non possiamo tornare indietro e sottrarci dal vivere insieme.
Come integrarci senza aumentare l’ostilità, senza separare i popoli?
È la domanda fondamentale della nostra epoca. Non si può neppure negare che siamo in uno stato di guerra e probabilmente sarà anche lunga questa guerra. Ma il nostro futuro non è costruito da quelli che si presentano come ’uomini forti’, che offrono e suggeriscono apparenti soluzioni istantanee, come costruire muri ad esempio. La sola personalità contemporanea che porta avanti queste questioni con realismo e che le fa arrivare ad ogni persona, è papa Francesco. Nel suo discorso all’Europa parla di dialogo per ricostruire la tessitura della società, dell’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro che non rappresentano una pura carità, ma un obbligo morale. Passare dall’economia liquida ad una posizione che permetta l’accesso alla terra col lavoro. Di una cultura che privilegi il dialogo come parte integrante dell’educazione. Si faccia attenzione, lo ripete: dialogo-educazione.
Perché secondo lei il Papa è convinto che sia la parola che non ci dobbiamo stancare di ripetere? Alla fine il dialogo cos’è?
Insegnare a imparare. L’opposto delle conversazioni ordinarie che dividono le persone: quelle nel giusto e quelle nell’errore. Entrare in dialogo significa superare la soglia dello specchio, insegnare a imparare ad arricchirsi della diversità dell’altro. A differenza dei seminari accademici, dei dibattiti pubblici o delle chiacchiere partigiane, nel dialogo non ci sono perdenti, ma solo vincitori. Si tratta di una rivoluzione culturale rispetto al mondo in cui si invecchia e si muore prima ancora di crescere. È la vera rivoluzione culturale rispetto a quanto siamo abituati a fare ed è ciò che permette di ripensare la nostra epoca. L’acquisizione di questa cultura non permette ricette o facili scappatoie, esige e passa attraverso l’educazione che richiede investimenti a lungo termine. Noi dobbiamo concentraci sugli obiettivi a lungo termine. E questo è il pensiero di papa Francesco, il dialogo non è un caffè istantaneo, non dà effetti immediati, perché è pazienza, perseveranza, profondità. Al percorso che lui indica aggiungerei una sola parola: così sia, amen.
Neuroni mirror e facoltà di negare
Il potere tellurico del linguaggio non smette di interrogare l’intersoggettività
di Paolo Virno (il manifesto, 17.09.2016)
L’indagine sulla negazione linguistica è, sempre, una indagine antropologica. Spiegare le prerogative e gli usi del segno «non» significa spiegare alcuni tratti distintivi della nostra specie: la capacità di distaccarsi dagli avvenimenti circostanti e dalle pulsioni psichiche, l’ambivalenza degli affetti, l’attitudine a trasformare repentinamente le condotte più abituali.
In una gocciolina di grammatica, diceva Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia. Ciò vale in primo luogo per quella nuvola cumuliforme che è la grammatica del «non»: da essa è possibile ricavare qualche notizia sul modo di stare al mondo del primate Homo sapiens, nonché una chiave per decifrare l’insieme di sentimenti e comportamenti che ci fanno parlare, a seconda delle inclinazioni, di disagio della civiltà o di attualità della rivoluzione.
Per dare il giusto risalto al ruolo che svolge il connettivo logico «non» nella forma di vita umana, propongo tre ipotesi concatenate sull’indole sociale, anzi pubblica, della nostra mente. A essere più precisi: tre ipotesi il cui tema è la singolare discontinuità tra il fondamento biologico di questa socialità e i suoi tortuosi sviluppi linguistici, segnati per l’appunto dal potere tellurico della negazione.
In origine era il «noi»
Prima ipotesi. L’animale umano intuisce i propositi e le emozioni dei suoi simili in virtù di una intersoggettività originaria, che precede la stessa costituzione dei soggetti individuali. Il «noi» si fa valere prima ancora che venga alla ribalta un «io» autocosciente. La relazione tra i membri della stessa specie è, innanzitutto, una relazione impersonale. Sull’esistenza di un ambito di esperienza pre-individuale hanno insistito pensatori come Vygotskij, Winnicott, Simondon.
Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, ha riformulato la questione in modo particolarmente incisivo, incardinando l’anteriorità del «noi» rispetto all’«io» al funzionamento di un’area del cervello. Per sapere che qualcuno soffre o gode, cerca riparo o rogne, sta per aggredirci o baciarci, non abbiamo bisogno di proposizioni, né tanto meno di una barocca attribuzione di intenzioni alla mente altrui. Basta e avanza l’attivazione di un gruppo di neuroni situati nella parte ventrale del lobo frontale inferiore.
Scrive Gallese: «Il nostro gruppo ha scoperto nel cervello di scimmia l’esistenza di una popolazione di neuroni premotori che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (per esempio afferrare un oggetto), ma anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo (uomo o scimmia che fosse). Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni mirror”». Di lì a poco, si è constatata la presenza di neuroni mirror anche nel cervello umano.
Allorché vediamo un manifestante sotto la sede della Goldman Sachs che compie una azione di cui parleranno i giornali, «nel nostro cervello sono reclutati a scaricare i medesimi neuroni che scaricherebbero se fossimo noi stessi, in prima persona, a compiere quell’azione». Comprendo il pianto dell’uomo che mi sta di fronte perché le mie stesse ghiandole lacrimali cominciano a innervarsi. Questo sentire all’unisono, o con-sentire, è chiamato da Gallese «simulazione incarnata».
I neuroni mirror sono il fondamento biologico della socialità della mente. A essi si deve la formazione di uno «spazio noi-centrico». Con una avvertenza: il pronome «noi» non indica, qui, una pluralità di «io» ben definiti, ma designa un insieme di relazioni pre-individuali, ossia «una forma paradossale di intersoggettività priva di soggetto».
Questo «non» è un uomo
Seconda ipotesi. Di questa intersoggettività preliminare, appannaggio di tutte le scimmie antropomorfe, il linguaggio non è affatto una potente cassa di risonanza. Anziché ornarlo di mille raffinatezze, le nostre enunciazioni retroagiscono distruttivamente sullo «spazio noi-centrico» istituito dai neuroni mirror. La padronanza della sintassi intralcia, e talvolta sospende, l’empatia neurofisiologica. La socialità della mente umana è modellata dall’intreccio, certo, ma anche dalla tensione duratura e dalla periodica divaricazione, tra «simulazione incarnata» e pensiero verbale.
Il linguaggio si distingue dai codici comunicativi basati su indizi e segnali, nonché dalle prestazioni cognitive taciturne (sensazioni, immagini psichiche ecc.), perché è in grado di negare qualsivoglia rappresentazione.
Anche l’evidenza percettiva che ci fa dire «questo è un uomo» dinanzi a un immigrato cessa di essere incontrovertibile allorché è soggetta all’opera del «non». Nel linguaggio mette radici il fallimento del reciproco riconoscimento tra conspecifici. Grammaticalmente impeccabile, dotato di senso, a portata di ogni bocca è l’enunciato «questo non è un uomo». Soltanto l’animale che parla ha la capacità di non riconoscere il suo simile.
Il vecchio ebreo è roso dalla fame e piange per l’umiliazione. L’ufficiale nazista sa che cosa prova il vecchio per mezzo della «simulazione incarnata». Ma è in grado di disattivare, almeno parzialmente, l’empatia generata dai neuroni mirror.
Per capire come avviene questa disattivazione, consideriamo un tipico requisito della paroletta «non». Il tratto caratteristico degli enunciati negativi («Ada non mi ama», «Giorgio non è andato a Roma») consiste nel riproporre con segno algebrico rovesciato il medesimo contenuto semantico del corrispondente enunciato affermativo. L’amore di Ada e il viaggio a Roma di Giorgio sono pur sempre nominati, e così conservati come significati, nel momento stesso in cui vengono verbalmente soppressi. Supponiamo che l’ufficiale nazista pensi: «le lacrime di questo vecchio ebreo non sono umane».
La sua proposizione conserva e sopprime a un tempo l’empatia neurofisiologica: la conserva, giacché si parla comunque delle lacrime di un Homo sapiens, non di un umidore qualsiasi; la sopprime, togliendo alle lacrime dell’ebreo quel carattere umano che, pure, era implicito nella loro designazione.
Soltanto grazie a questa attitudine ad abrogare ciò che nondimeno si ammette, il segno «non» può ledere un dispositivo biologico «sub-personale» qual è il con-sentire. La negazione non impedisce certo l’attivazione dei neuroni mirror, ma ne rende ambiguo il senso e reversibili gli effetti. Il pensiero verbale, dimostrando una notevole perizia nel mandare in rovina l’empatia neurale, costituisce la condizione di possibilità di ciò che Kant ha chiamato il «male radicale».
La sfera pubblica? Una cicatrice
Terza ipotesi. Il linguaggio non manca di procurare un antidoto al veleno che ha inoculato nell’innata socialità della mente. Oltre a sabotare in tutto o in parte l’empatia prodotta dai neuroni specchio, esso offre anche un rimedio (anzi, l’unico rimedio adeguato) ai danni così arrecati. Il sabotaggio iniziale può essere a sua volta sabotato.
La sfera pubblica, nicchia ecologica delle nostre azioni, è il risultato instabile di una lacerazione e di una sutura, della prima non meno che della seconda. Somiglia dunque a una cicatrice. Detto altrimenti: la sfera pubblica trae origine dalla negazione di una negazione. Se a qualche lettore ripugna il sapore dialettico di questa espressione, ne sono desolato, ma non so che farci. A scanso di equivoci, conviene aggiungere che la negazione della negazione non ripristina la primitiva sintonia pre-linguistica. Sempre di nuovo eluso o neutralizzato, il rischio del non-riconoscimento è però iscritto irreversibilmente nell’interazione sociale.
Lo «spazio noi-centrico» e la sfera pubblica sono i due modi, affini e però incommensurabili, in cui si manifesta la socialità della mente prima e dopo l’esperienza della negazione linguistica. Prima di questa esperienza, l’infallibile e impersonale con-sentire neurale; dopo, conflitti senza quartiere, patti, promesse, norme, istituzioni mai stabili, progetti collettivi dagli esiti imponderabili.
Neuroni mirror, negazione linguistica, intermittenza del reciproco riconoscimento: sono questi i fattori, coesistenti e però anche dissonanti, che definiscono la mente sociale della nostra specie. La loro dialettica destituisce di fondamento ogni teoria politica (per esempio, quella di Noam Chomsky) che opponga la naturale «creatività del linguaggio» all’iniquità e alla brama di sopraffazione degli apparati di potere storicamente determinati.
La fragilità dello «spazio noi-centrico», da imputare giustappunto alle perturbazioni che il linguaggio e la sua «creatività» portano con sé, deve costituire lo sfondo realistico di ogni movimento politico che miri a una drastica trasformazione dello stato di cose presente. Un grande e terribile filosofo della politica, Carl Schmitt, ha scritto con evidente sarcasmo: «Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana».
È venuto il tempo di smentire questa equazione maliziosa. Una analisi accurata della mente sociale permette di impiantare «il radicalismo ostile allo Stato» e ai rapporti di produzione capitalistici sulla pericolosità della natura umana (pericolosità alimentata dall’uso polivalente del «non»), anziché sulla sua immaginaria mitezza.
L’azione politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presupposto positivo da rivendicare. Si impegna invece a sperimentare nuovi e più efficaci modi di negare la negazione, di apporre il «non» davanti a «non uomo».
I 2400 anni del filosofo
Aristotele uomo dell’anno
di Dorella Cianci (Il Sole-24 Ore, Domenica, 14.02.2016)
Il 2016 per l’Unesco è l’anno di Aristotele e già si annunciano iniziative nel mondo, fra cui spicca quella dell’Università di Salonicco, che terrà un grande convegno in Maggio. Com’è noto Aristotele è stato ed è un pilastro della cultura occidentale che si è consolidato lungo il Medioevo,soprattutto per l’aspetto etico e religioso, ma anche per tutto il Rinascimento, divenendo un autore canonico nella formazione pedagogica. Nonostante il ritorno di Platone nel Quattrocento, lo Stagirita non perse mai, per i giovani di diverse epoche, il ruolo di richiamo alla scienza, ma anche alle possibilità dell’uomo, poiché aveva inquadrato il suo punto di vista sulla terra, togliendolo esclusivamente a una dimensione celeste.
A differenza di Platone, Aristotele aveva compreso che l’educabilità dell’uomo sente spesso l’esigenza di confrontarsi con il tribunale della realtà, senza dover necessariamente delegare tutto al cielo ed è qui che nasce il concetto del “guardando s’impara” teorizzato nella Poetica, perché - per il filosofo - più degli insegnamenti è opportuno affidarsi alla consuetudine.
Nel volume Aristotele fatto volgare, a cura di David Lines (University of Warwick) e Eugenio Refini (John Hopkins University), pubblicato nella collana diretta da Claudio Ciociola e scaturito da un convegno tenutosi nella Normale di Pisa, è riportato un passo della Prefazione dell’Etica Nicomachea nella tradizione latina medievale di Concetto Marchesi dove si comprende la centralità di Aristotele per la storia: «La storia dell’aristotelismo è ancora da farsi: e sarà una storia grandiosa. Ricercare le vie per cui il pensiero umano si lasciò condurre nella successione di molti secoli è rivelare la genesi, lo sviluppo, la lotta giovanile e il trionfo finale di una civiltà nova che procede alla conquiste del vero» (1904).
Magistrali si rivelano, anche oggi, le parole di Garin sul ritorno dei filosofi antichi inteso come il ritorno di un mondo mai scomparso e resistente ai soprassalti del tempo, allora come oggi. Il ritorno dell’antico non è una curiosità da musealizzare, non è un surplus del sapere da utilizzare a effetto, ma è un corredo genetico che di autore in autore porta alla riconquista delle origini.
Veniamo dunque alla peculiarità di Aristotele, tanto da dover pensare di dedicare proprio a lui l’anno in corso, nonostante i trend interpretativi della società contemporanea ci appaiano molto diversi. Già nel nono, nel dodicesimo e nel tredicesimo secolo, le traduzioni si occuparono sempre più di Aristotele, non di Platone e, pian piano, dall’Aristotele “morale”si passò all’Aristotele “logico” della Poetica, figlio dei tempi moderni, maestro nel vero, inventore di ogni riflessioni scientifica sul teatro teorico di ogni produzione artistica.
L’anno di Aristotele ci invita ad alcune riflessioni incardinate sull’importanza delle azioni più che dei tipi umani (i caratteri). Aristotele è stato il primo a teorizzare l’ineluttabilità: ciò che accade deve accadere. Quando si parla del dolore però per l’uomo, nella tragedia come nella vita, è consigliabile mettersi a guardare, imparando dal dolore (proprio e altrui), ma di certo l’azione non si può bloccare, né si può intervenire sull’evento.
L’ineluttabilità tuttavia non vuol dire lasciarsi trasportare senza agire. L’agire umano è sorretto dal volere, poiché, nella tragedia e nella vita, i personaggi assumono dignità più dell’autore. L’autore lentamente scompare e l’azione dei personaggi è protagonista sulla scena, senza il bisogno di scusarsi delle nefandezze compiute, poiché Aristotele ci insegna che l’uomo può scegliere di compiere azioni terribili, anche quando è stato educato al bene. Come ha affermato Taplin nel 1996 le azioni tragiche non hanno bisogno della «parabasi», come accade nella commedia, cioè le azioni terribili non hanno bisogno di un’apologia, poiché è nella natura umana l’ineluttabilità del eventi peggiori. Siamo personaggi in cerca di autore? No. Siamo personaggi il cui autore è un doppiatore, dove il venticello dell’ineluttabilità ci passa accanto, ma l’azione ha il centro della scena.
Aristotele è il maestro di Pirandello e anche di Borges nelle sue riflessioni sull’autore-doppiatore. Non è un caso che maschera e volto, nel mondo greco, siano la stessa parola, poiché entrambi costituiscono ciò che “offriamo agli altri” tramite la vista. Siamo maschere non “addomesticate” dall’autore, né lo cerchiamo; sappiamo che egli esiste e doppia le nostre stesse azioni. Per capire questo è interessante una miniatura di un codice Vaticano Urbinate 355 dell’Hercules furens di Seneca,conservato nella Biblioteca Vaticana, dove ci sono sopra i personaggi, sotto il coro e in un cantuccio l’autore che legge, anzi doppia ciò che accade in un modo senza «parabasi», in un mondo senza giustificazioni.
Neodarwinismo
Biologia più cultura: una nuova luce sul mistero dell’origine del linguaggio
Le ultime scoperte sembrano rivelare che i tratti naturali hanno interagito con quelli dell’apprendimento sociale
di Telmo Pievani (Corriere della Sera - La Lettura, 31.05.2015)
Tante idee, ma nessuna prova: l’origine del linguaggio resta un mistero. Ma no - ribattono altri - il linguaggio umano è un normale adattamento, plasmato dalla selezione naturale nel corso di milioni di anni per farci comunicare. Sulle riviste più accreditate, come «PLoS Biology», torna a infuriare la polemica sull’evoluzione della più elusiva delle proprietà umane: quella di articolare parole in frasi dotate di significato, ricombinando all’infinito elementi semplici secondo regole definite. Questa facoltà è emersa all’improvviso, solo nell’ Homo sapiens, oppure per piccoli passi fin dai primordi della storia naturale?
Gli scettici hanno sferrato il loro attacco in un controverso articolo del maggio 2014 apparso su «Frontiers in Psychology». La firma più importante era quella di Noam Chomsky, ma altri autori influenti ne avevano condiviso la paternità: il genetista di Harvard Richard Lewontin, i linguisti Robert Berwick e Jeffrey Watumull, esperti di comunicazione animale come Michael Ryan e Marc Hauser, uno studioso dell’apprendimento delle lingue, Charles Yang, e Ian Tattersall, autore di saggi fondamentali sull’evoluzione umana. A loro avviso, quanto a capacità linguistiche, il divario che ci separa dagli altri animali non è stato scalfito negli ultimi 40 anni di ricerche. Gli studi comparativi sulla comunicazione in uccelli, cetacei e primati sono inconcludenti: intelligenti sì, ma nessuno parla come noi. Gli indizi paleontologici e archeologici sono scarsi e la genetica del linguaggio non dà risposte. Insomma, un disastro su tutta la linea. Non resterebbe che rassegnarsi al mistero: la sintassi ricorsiva del linguaggio umano sarebbe un unicum inafferrabile, un exploit recente dell’ Homo sapiens , comparso non si sa come (ma certamente non in modo darwiniano).
L’articolo è stato però criticato dagli specialisti perché tendenziosamente non citava le ricerche più recenti. Oggi l’archeologia cognitiva e la paleo-neurologia ci danno informazioni interessanti sulle rappresentazioni mentali e sulle capacità computazionali nei nostri antenati. In genetica, è stato possibile analizzare i primi dati sui cambiamenti molecolari che hanno modificato lo sviluppo neurale e portato all’evoluzione della peculiare struttura del tratto vocale e del cervello dell’ Homo sapiens. Sono state isolate le prime varianti genetiche associabili al linguaggio articolato. Infine, molte condizioni necessarie per il linguaggio, anche se non sufficienti, sono state osservate in altri animali. Persino il Rubicone della sintassi potrebbe avere un qualche antecedente in altre specie.
Ma con chi ce l’hanno gli scettici? Con quei divulgatori di successo, come Steven Pinker, che banalizzano l’evoluzione del linguaggio come se questo fosse un istinto o un modulo gradualmente evolutosi per selezione naturale in quanto «adattamento per» funzioni generali di comunicazione. Una costante e lenta pressione selettiva, nella fantomatica savana africana, avrebbe cioè implementato questo nostro organo nel corso del Pleistocene.
Il problema è che si è cercata questa ragione funzionale ovunque (nell’intelligenza sociale, nella cooperazione per la caccia, nella manipolazione di artefatti) senza mai trovare evidenze e affidandosi per lo più a belle storie speculative che riempiono da sempre i libri sull’evoluzione del linguaggio. In questo gli scettici hanno certamente ragione. Eppure, si prova un senso di insoddisfazione davanti a questo ritrito dibattito, che si trascina dai tempi di Darwin e dalla sua polemica con il co-scopritore della selezione naturale, quell’Alfred R. Wallace così pessimista sulla possibilità di spiegare l’evoluzione naturale della mente umana.
Un secolo e mezzo dopo, dobbiamo proprio scegliere se arrenderci al mistero insondabile del linguaggio umano oppure seguire i difensori di una vecchia ortodossia ultra-darwiniana che non ha più motivo di esistere? Una terza via c’è e trae ispirazione proprio da un suggerimento di Darwin, il cui pluralismo teorico andrebbe rivalutato. L’evoluzione è continuità (nessun salto miracoloso), ma anche innovazione (il linguaggio umano è davvero qualcosa di unico nella sua architettura combinatoria).
Inoltre, non tutto nei processi evolutivi è adattamento: contano anche i vincoli strutturali e di sviluppo. Può anche succedere che un tratto inizialmente funzionale (come la tastiera qwerty inventata in dattilografia per distanziare le lettere più frequenti e non accavallare i martelletti) venga poi mantenuto anche se quella funzione (buona per le macchine per scrivere, non certo per i computer) non è più attiva.
Secondo uno dei migliori esperti, il biologo e scienziato cognitivo dell’Università di Vienna, Tecumseh Fitch, il linguaggio potrebbe non essere un tratto singolo come pensano sia gli scettici sia gli «adattazionisti», bensì un «mosaico» di tratti: alcuni evolutivamente più antichi, come l’abbassamento della laringe (c’è anche nei cervi); altri più recenti, come la sintassi, tipici della nostra specie e frutto di cooptazioni funzionali o effetti collaterali.
Antiche dicotomie, come quella fra gradualisti e «puntuazionisti», decadono: il linguaggio umano potrebbe essere una combinazione inedita di tratti evolutisi lentamente e di tratti comparsi rapidamente. Alcuni svolgono da sempre la stessa funzione, altri l’hanno persa, altri sono stati cooptati per nuove funzioni.
Nell’unità di ricerca in Filosofia della biologia dell’Università di Padova stiamo cercando di costruire un modello di evoluzione del linguaggio che tenga conto delle evidenze empiriche più recenti. Da queste si evince che nella storia del genere Homo una particolare regolazione dello sviluppo, la «neotenia», cioè il mantenimento protratto di caratteri giovanili, ha avuto un ruolo cruciale. Attraverso il gioco, l’apprendimento sociale, l’imitazione, la sperimentazione vocale per restare in contatto acustico con la madre, la nostra infanzia prolungata ha aperto le porte all’evoluzione culturale. Tuttavia, mantenere più a lungo cuccioli già svezzati ma ancora deboli e dipendenti è un cambiamento costoso, che si è reso possibile solo rafforzando i gruppi sociali.
Molti dati convergono sul fatto che la vita comunitaria e la nostra capacità di costruirci attorno una nicchia ecologica più favorevole (per esempio grazie al fuoco) hanno allentato le urgenze della mera sopravvivenza: meno predazione, alimentazione più ricca e diversificata, crescita del cervello, espansioni geografiche. In questo processo, i tratti della docilità sociale e della plasticità neurale si sono accentuati. In pratica, ci siamo auto-addomesticati, perché come un animale addomesticato impara a non temere la vicinanza dell’uomo, così noi abbiamo imparato a vivere a stretto contatto con altri nostri simili, in gruppi sempre più numerosi e cooperativi.
Anche il linguaggio articolato è un tratto a suo modo costoso, perché ci espone al soffocamento. Una selezione naturale più tollerante e una selezione sociale crescente potrebbero averlo favorito nelle specie più recenti del genere Homo (ben cinque ancora esistenti fino a 100 mila anni fa), grazie alle sperimentazioni di suoni, parole, frasi e significati durante le nostre lunghe giovinezze.
Anche questa naturalmente è una storia, ma ha il vantaggio di prendere in considerazione tutti i dati convergenti più avanzati, dai fossili alle molecole, e di adottare un approccio evoluzionistico neodarwiniano aggiornato. Soprattutto, ci mostra come i tratti culturali finora negletti (il fuoco e tutte le tecnologie attraverso le quali abbiamo trasformato il mondo) abbiano interagito con quelli biologici per fare emergere la più loquace delle specie.
ASCOLTO *
«Dare la parola all’altro è il primo e fondamentale comandamento nelle relazioni ecumeniche. Perché? Perché solo dandogli la parola, lo possiamo ascoltare, e solo dopo averlo ascoltato possiamo davvero dialogare con lui. Il dialogo è fatto, almeno per metà, di ascolto. Proprio per questo è difficile. Non perché è difficile parlare, ma perché è difficile ascoltare.
E’ l’ascolto che ci fa crescere. Parlando diciamo ciò che già sappiamo; ascoltando impariamo cose nuove. Parlando, proponiamo noi stessi; ascoltando, facciamo posto all’altro, gli facciamo spazio anche interiore. Parlando, l’altro resta davanti a noi; ascoltandolo, entra in qualche modo entro di noi. E’ nel momento dell’ascolto reciproco che il rapporto si fa più intenso e può nascere qualche cosa di nuovo».
(Paolo Ricca, pastore valdese, Avvenire 10.09.95)
* Segnalazione di don Aldo Antonelli
Da Gramsci a Wittgenstein (via Sraffa)
di Armando Massarenti (il Sole-24ore domenica, 15.06.2014)
«Se dovessi ora uscire di carcere, non saprei più orientarmi nel mondo, non saprei più inserirmiin nessuna corrente sentimentale». Queste amare parole sono di Gramsci, che in carcere sembra avere perso ogni orientamento sia politico - si sono acuiti i contrasti ideologici con l’amico Togliatti - sia sentimentale - sempre più rade si fanno le lettere della moglie Giulia. In questo frangente drammatico, Nino scrive un illuminante commento al X canto dell’Inferno, erroneamente considerato «il canto di Farinata»: egli fa infatti notare come sia quella di Cavalcante Cavalcanti la figura più significativa dell’episodio ambientato nel cerchio eretici, per la sua amorosa preoccupazione per il figlio Guido di cui ignora la sorte, e non Farinata, che resta una figura convenzionale di politico militante, irrigidita da un ideologismo esibito nel suo “comizio” recitato dalla tomba.
Franco Lo Piparo, in un capitolo del suo appassionato saggio dedicato al Professor Gramsci e Wittgenstein (Donzelli), fa notare come Nino si sentisse anche lui un eretico relegato in un «cieco carcere». La sua visione della politica si è fatta vieppiù distante da quella teorica e astratta che caratterizza l’establishment stalinista.
Negli anni di prigione, torna con soddisfazione a sentirsi un Professore di linguistica e le sue riflessioni sul linguaggio inteso come evento della vita pratica non può non ripercuotersi sulla sua visione della società e della politica.
Il fatto straordinario di questa dolorosa vicenda è che Gramsci, dal carcere e dalle cliniche Cusumano e Quisisana, riesce a sua insaputa a influire sul pensiero di una delle menti filosofiche più geniali dell’Europa del tempo.
Si deve infatti proprio a Gramsci la celebre “svolta” in senso antropologico della visione del linguaggio di Wittgenstein, l’abbandono delle tesi esposte nel Tractatus e l’approdo alle Ricerche filosofiche.
L’amico di Gramsci Piero Sraffa, collega all’Università di Cambridge di Wittgenstein, è da identificarsi come il tramite del trasferimento delle idee dell’inconsapevole Nino a Ludwig.
Amartya Sen già nel 2009 sostenne che Gramsci avrebbe esercitato il suo influsso sul pensiero di Sraffa (e quindi di Wittgenstein) al tempo in cui l’economista napoletano collaborava a Torino con «L’Ordine Nuovo» di cui Gramsci era direttore.
Lo Piparo oggi dimostra in maniera puntuale una tesi diversa: furono le idee che Nino maturò in carcere quelle davvero significative per la svolta wittgensteiniana. Le Ricerche, infatti, sono state composte nell’anno accademico 193536, e il Quaderno gramsciano dedicato al tema della praxis linguistica (Q 11) è del 1935: è il periodo in cui Sraffa andava a trovare l’amico in clinica; leggeva i suoi Quaderni tramite la cognata di Nino, Tania; e, nel contempo, frequentava settimanalmente Wittgenstein per discutere le tesi linguistiche di quest’ultimo, al punto da farlo “convertire” a una visione pragmatistica della lingua. Ludwig affermerà di sentirsi, grazie a Sraffa, come un albero completamente potato dei suoi vecchi rami e pronto a rifiorire in modo nuovo.
È nella critica alla linguistica di Benedetto Croce (Q 29) il quale sostiene che una proposizione ha senso solo se è corretta dal punto di vista logico-grammaticale e semantico , che Gramsci afferma per la prima volta che «il senso di una proposizione non dipende da una qualità interna della proposizione stessa e il suo status grammaticale non può essere valutato indipendentemente dal contesto». Pertanto, una proposizione come «questa tavola rotonda è quadrata» può avere comunque senso in un determinato contesto, per esempio nel discorso di un personaggio di un romanzo fantastico. Il concetto gramsciano di praxis linguistica, presente nei Quaderni, compare variamente negli scritti di Wittgenstein a partire dal 1936, sebbene la cosa non sia stata notata per via della traduzione inglese di Anscombe che rende il tedesco originale Praxis con practise. Evidentemente, le idee linguistiche di Nino furono così potenti da riuscire a evadere le alte mura del suo cieco carcere.
Teologia politica
«Parousia» senza apocalisse
Si può smontare il meccanismo teologico di sudditanza all’Uno su cui si fondano i rapporti di potere? La risposta nel nuovo saggio di Roberto Esposito
di Remo Bodei (Il Sole-24ore-domenica, 20.04.2014)
Si tratta di un libro teoricamente denso, caratterizzato da una fitta tessitura, con tanti nodi come nei tappeti pregiati, e in grado di spaziare dalla filosofia alla politica e dalla teologia al diritto romano. Continua, innovando, la riflessione già condotta dall’autore in Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale (Torino, Einaudi, 2007).
L’intuizione di fondo che guida Due è che non riusciamo a smontare la macchina della teologia politica che «funziona precisamente separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che divide mediante la sottomissione di una parte al dominio del tutto».
È difficile abbandonare questo schema in quanto siamo completamente immersi nel suo orizzonte, «non perché la porta d’ingresso sia sbarrata, ma perché l’abbiamo da tempo immemorabile varcata, prima che essa si richiudesse alle nostre spalle impedendoci di uscire».
La sfida consiste, dunque, nel procurarsi uno sguardo esterno e nell’abbattere la prigione mentale, ormai invisibile, in cui la nostra civiltà ci ha rinchiusi. Un’impresa, in apparenza impossibile, simile a quella del barone di Münchausen, che pretendeva di sollevarsi da terra tirandosi su con il codino.
Ma cosa è che ci vincola in maniera così stringente e come è possibile liberarsene? Essenzialmente, è la radicata concezione che l’uno assorbe la dualità degli opposti, sottoponendo un elemento all’altro (ad esempio dividendo l’uomo in anima e corpo e asservendo questo a quella o considerando la cultura europea come universale perché ha incluso in sé, separandosene, quella di altri popoli).
Il dispositivo teologico-politico è riuscito a imporsi soprattutto attraverso la categoria di persona, in cui confluiscono il diritto romano e la teologia cristiana. Infatti, è a partire dalla summa divisio di Gaio tra persona e res che si separano i liberi dagli schiavi, riducendoli a cosa pur senza escluderli dall’appartenenza a una comune umanità. Ed è nel dibattito dei primi secoli del cristianesimo sulla doppia natura di Gesù/Cristo - vero uomo e vero Dio - e nella faticosa formulazione del dogma trinitario (una sola sostanza in tre persone) che si cristallizza e domina l’inclusione oppositiva o l’opposizione includente.
Una parte del libro è consacrata alla ripresa della nozione paolina di katechon (contenuta nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, 19, 2), la forza frenante che, trattenendo il male, impedisce però l’avvento della parousia, della seconda venuta di Cristo. Anche in questo caso, il bene contiene in sé il male che sottomette fino all’apocalisse. Da cosa deriva questa idea di invitare i fedeli ad attingere la salvezza evitando di scontrarsi con colui che Paolo definisce enigmaticamente l’anomos, l’Anticristo?
Credo che, al di là delle dispute teologiche, bisognerebbe storicizzare maggiormente la funzione del katechon, nel senso di vederla come una risposta tattica di Paolo alle attese deluse dei cristiani, ai quali Gesù aveva predetto «verrò presto» (erchomay tachy): la parousia non si è ancora prodotta perché è frenata e ritardata dalle forze del male.
La proposta di Esposito (che ricorda per certi versi «la piccola porta attraverso la quale può entrare il Messia» di Walter Benjamin) è di conseguire una parousia senza apocalisse, una affermazione senza negazione, di spezzare cioè la subordinazione forzata del due all’uno e di fare coesistere quelli che appaiono ora come opposti.
Ciò è per lui possibile qualora ci si colleghi a una tradizione filosofica che, seppur minoritaria, attraversa l’Occidente da quasi mille anni, da quando Averroè scrisse il Grande commento al De anima di Aristotele. In esso il filosofo arabo sostiene che il pensiero in atto, l’intelletto attivo, non appartiene alla persona.
In altri termini: come per il vedere qualcosa sono necessari gli occhi e gli oggetti, ma non si vede nulla se non c’è la luce, allo stesso modo gli uomini hanno in potenza la facoltà di pensare (l’intelletto passivo) e i concetti (noemata) pensabili, ma se manca l’intelletto attivo, la luce - quella che gli scolastici chiameranno lux intellegibilis - non si riesce effettivamente a pensare.
Questa luce non appartiene, tuttavia, all’individuo: simile alla luce del sole che continua a brillare anche quando il singolo muore, il pensiero è impersonale. Averroè - difeso da Dante e contrastato da San Tommaso - sostiene dunque la mortalità dell’anima e il carattere collettivo del pensiero, in ciò seguito, in diversi modi, da una serie di pensatori che Esposito opportunamente inquadra: Pomponazzi, Bruno, Spinoza, Schelling, Nietzsche, Bergson, Deleuze.
Che Bruno e Spinoza seguano questa linea sembra pacifico. Meno scontato che lo sia Nietzsche, il quale in Aurora sostiene che il compito del filosofo consiste nel coltivare le conclusioni dei pensieri che germogliano spontaneamente dal grembo di quel «saggio ignoto» che è il corpo: «Spuntano in noi da giorni umidi e nuvolosi, dalla solitudine, da due parole, conclusioni, come fossero funghi: eccole arrivare un bel mattino, chissà da dove, e girano attorno lo sguardo per cercarci, con aria grigia e malcontenta. Guai al pensatore che non è il giardiniere, ma soltanto il terreno delle sue piante!».
Meno ovvio è invece l’inserimento in questa genealogia dello Schelling delle Lezioni di Stoccarda, che parla dell’impersonalità dell’anima, o di Bergson, che mostra, attraverso la similitudine del cinema in cui il movimento è prodotto da fotogrammi fissi, come funzioni il dispositivo duale riportato all’unità: prima si fissano le astrazioni e poi si genera meccanicamente il movimento.
L’audace strada percorsa da Esposito è interessante e, in parte condivisibile, in quanto il pensiero, al pari della lingua, non appartiene al soggetto. Eppure, alla De Saussure, un ruolo bisognerebbe pur attribuirlo alla parole, all’elemento di specificità e di creatività di un individuo all’interno della langue impersonale di una comunità. Forse le cose sarebbero più perspicue se Esposito distinguesse tra pensiero (impersonale) e coscienza (personale) di chi pensa.
di Noam Chomsky (Corriere della Sera, 08.01.2014)
Il linguaggio è stato proficuamente studiato per 2500 anni, ma solo di recente è diventato possibile formulare chiaramente la sua proprietà fondamentale: in parole semplici, ogni lingua offre il modo di esprimere un repertorio infinito di pensieri. Nel corso degli anni vi erano stati tentativi sommari di cogliere tale proprietà. Per esempio, Charles Darwin osservò che gli animali inferiori differiscono dagli esseri umani solamente per il maggior potere, un potere quasi infinito , di associare e comporre i più svariati suoni con le più svariate idee.
L’espressione quasi infinito deve essere intesa come, semplicemente, infinito , e adesso sappiamo che il modo di fare tali associazioni è nell’uomo radicalmente diverso da quello di ogni altra specie. Ciò detto, Darwin aveva sostanzialmente ragione, sebbene non fosse ancora in grado di formulare in dettaglio un programma produttivo di ricerca su questa speciale facoltà umana.
Uno dei più insigni studiosi dell’evoluzione, Ian Tattersall, in una sua recente rassegna sulle origini dell’uomo, conclude dicendo: «L’acquisizione della sensibilità unicamente umana è stata improvvisa e recente nei tempi dell’evoluzione e la sua espressione è stata quasi certamente il portato dell’invenzione di quello che è il singolo più notevole tratto dell’uomo moderno, cioè il linguaggio». In sostanza, ritroviamo il potere notevolissimo di cui parlava Darwin.
A partire dalla metà del XX secolo, le scienze formali (matematica, logica e teoria del calcolo) avevano offerto una ricca comprensione di come un sistema finito - il cervello umano o un calcolatore programmabile - possa generare un repertorio infinito di espressioni. Ciò rese possibile formulare precisamente la proprietà in questione e aprire la strada a un’indagine in profondità sulla proprietà che era stata fino ad allora inaccessibile a un esame specifico.
La lingua che ogni essere umano padroneggia è un oggetto finito, ma di portata infinita. È una proprietà interna alla persona, un sistema di elaborazione e calcolo di un cervello finito che rende possibile esprimere un repertorio infinito di espressioni strutturate, ciascuna delle quali viene interpretata su due livelli: quello dell’apparato sensorio-motorio (per lo più suoni, ma anche segni nei linguaggi dei segni) e quello dei sistemi di pensiero atti a interpretare il mondo circostante, pianificare le azioni, ragionare ed eseguire molti altri processi mentali. Uno schema di ricerca che vuole cogliere tale proprietà è (per definizione) una grammatica generativa . Tale tipo di grammatica cerca di rendere totalmente espliciti i processi finiti che subentrano nel normale uso della lingua nella sua varietà complessa e illimitata.
Il programma di ricerca della grammatica generativa , avviato in questi termini circa 60 anni orsono, ha enormemente arricchito l’ambito dei fenomeni empirici accessibili allo studio, includendo lingue di tipi assai diversi. Ha, inoltre, consentito di indagarli a un livello di profondità prima inimmaginabile e in domini nuovi: per esempio studiare in modo nuovo e molto illuminante in che modo il significato di espressioni complesse sia determinato dall’operare di poche e astratte regole interne al linguaggio.
Studiare il linguaggio come oggetto biologico ha anche consentito di ampliare enormemente il tipo di dati propri a una certa lingua, includendo il modo in cui il bimbo la acquisisce e come esso è dissociato da altre funzioni cognitive, inaugurando anche una bio-linguistica e una neuro-linguistica.
Un obiettivo ancora più ambizioso è stato quello di portare alla luce (usando le parole dell’insigne linguista Otto Jespersen) «i grandi principi che sottostanno alle grammatiche di tutte le lingue, ottenendo una più approfondita comprensione dell’intima natura del linguaggio e del pensiero umano».
Nell’era moderna, tale studio ha preso il nome di grammatica universale , adattando una terminologia tradizionale al nuovo contesto. Non mi sembra possa essere messo seriamente in dubbio che gli esseri umani sono accomunati da un bagaglio biologico prefissato, che è alla base della capacità di acquisire e usare il linguaggio, e questo è ciò che la grammatica universale studia. Che questa capacità sia, in essenza, il patrimonio unico dell’umanità, è quanto Darwin e molti altri studiosi avevano riconosciuto. Nella misura in cui comprendiamo le proprietà della grammatica universale , lo studio di una lingua può poggiare sui risultati ottenuti nello studio di altre lingue, consentendo, una volta di più, una maggior comprensione della natura e dell’uso del linguaggio.
Lo studio di ogni bagaglio biologico è sempre complesso. Cionondimeno, c’è stato un notevole progresso sul fronte della grammatica universale , sebbene molti problemi e ardui interrogativi siano ancora aperti e ne scaturiscano sempre di nuovi. Il progresso è stato sufficiente a rendere abbordabile un nuovo programma di ricerca negli ultimi anni: chiedersi quale sarebbe la soluzione perfetta per soddisfare le richieste fondamentali imposte dal funzionamento del linguaggio, imposte, cioè, dalla proprietà fondamentale vista sopra.
Quando si scoprono delle discrepanze tra ciò che si osserva e le soluzioni ideali, ci si chiede come reinterpretare i dati e come rivedere le intuizioni teoriche in modo da sanare tali discrepanze. Questo programma prende il nome di programma minimalista , e ben si attaglia al quadro della recente e subitanea emergenza evoluzionistica del linguaggio descritta da Tattersall. Adottando progressivamente questo programma di ricerca è stato possibile rivelare che alcune proprietà piuttosto sbalorditive della grammatica universale sono il portato coerente dell’ipotesi che il design del linguaggio sia ottimale sotto il profilo visto sopra.
Un esempio di tale ottimizzazione è il fenomeno onnipresente dello spostamento sintattico. I sintagmi possono essere uditi in una posizione nella frase, ma interpretati sia in tale posizione che in una diversa. La frase «Quali libri ha letto Gianni?» viene interpretata come se fosse «Quali libri sono tali che Gianni ha letto quei libri?». «Libri» è il complemento oggetto diretto di «leggere», ma non viene pronunciato o scritto immediatamente alla destra del verbo. Tale spostamento è stato a lungo, nella professione, considerato una strana imperfezione del linguaggio, ma possiamo oggi mostrare che risulta da una radicale semplificazione del calcolo mentale sintattico, mostrare, cioè, che è la più semplice operazione mentale sintattica immaginabile, il risultato automatico di una massima semplicità.
Contrariamente a quanto ritenuto fino a pochi anni fa, l’assenza di ogni spostamento sintattico sarebbe stata una strana e inspiegabile imperfezione. Un ulteriore esempio è il dato insolito e curioso che le regole del linguaggio sono, senza eccezioni, centrate sulla minima distanza strutturale, non superficiale (cioè calcolata lungo il numero di parole nella frase), anche se tale distanza sarebbe in linea di massima più facile da calcolare e da elaborare linguisticamente. Così nella frase «Istintivamente le aquile che volano nuotano» l’avverbio «istintivamente» è superficialmente più vicino a «volano», ma strutturalmente più vicino a «nuotano», al quale in effetti si applica.
Questa computazione mentale è più astratta e più complessa, ma è quella giusta. Non ci sarebbe niente di errato nel pensiero che le aquile che istintivamente nuotano volano, ma non lo si può esprimere con questa frase. Tale proprietà è linguisticamente onnipresente ed è automaticamente colta dal bimbo sulla base di dati praticamente miseri, se non del tutto assenti. Lavori recenti offrono una spiegazione sorprendente, basata sull’efficienza del calcolo sintattico mentale, con conseguenze di vasta portata che minano alla base svariate ipotesi tradizionali e ben radicate sulla natura e l’uso del linguaggio. In questo caso, i principi della grammatica universale sono stati verificati su studi delle funzioni cerebrali, un successo importante e arduo, ottenuto in lavori diversi, tra i quali spiccano quelli di Andrea Moro (Università di Pavia), il quale ha integrato contributi di spicco alla teoria linguistica con indagini pionieristiche nel campo della neuro-linguistica.
Una linea di ricerche molto produttive ha esplorato ciò che in termine tecnico si chiama la cartografia delle strutture linguistiche, cioè le gerarchie universali delle frasi, attraverso le modifiche apportate dagli avverbi e le strutture di informazione veicolata dalle frasi (con componenti tecnici come il fuoco, l’informazione topica e così via). In particolare, i più recenti lavori di Guglielmo Cinque (Università di Venezia) e Luigi Rizzi (Università di Siena) hanno rivelato strutture linguisticamente universali di notevole complessità, con interessantissime conseguenze sintattiche e semantiche, dischiudendo nuovi problemi sul perché il linguaggio è organizzato in tal modo e non in qualche altro modo.
È impossibile in questo breve spazio passare in rassegna i risultati conseguiti nel moderno studio del linguaggio, le sue rappresentazioni neurali, il suo intimo ruolo nelle nostra vita mentale e sociale. Né raccontare le molte sfide ancora aperte alla nostra comprensione del linguaggio che tali risultati hanno suscitato, segno che si tratta di una disciplina vivace e in continuo fermento. Tali ricerche procedono, senza dubbio, a un livello che travalica nettamente quanto potevamo immaginare anche solo alcuni anni addietro, e offrono prospettive entusiasmanti su scoperte ancora più profonde delle capacità linguistiche della nostra specie, appunto sul «singolo più notevole tratto dell’uomo moderno» e la nostra specialissima sensibilità moderna.
L’errore di sostenere che solo l’evoluzione ci abbia dato la parola
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera, 08.01.2014)
La disciplina linguistica chiamata grammatica generativa, inaugurata da Noam Chomsky oltre 60 anni fa, come lui stesso racconta nel testo qui accanto scritto per il «Corriere», conta oggi circa duemila studiosi in varie parti del mondo e in Italia, seconda solo agli Stati Uniti per quantità e qualità di contributi.
Quasi dall’inizio s’è scontrata con critiche e pretese smentite, come correttamente riferito ne «la Lettura» del 15 dicembre da Sandro Modeo («Il gene che creò la parola: due studi smentiscono le teorie di Chomsky sul linguaggio»). Questi attacchi sono stati tutti puntualmente e, a mio avviso, persuasivamente controbattuti non solo da Chomsky stesso, ma anche da altri insigni studiosi del settore. Un tema ricorrente in queste critiche consiste nel ribadire che il linguaggio, nella sua evoluzione biologica, nei correlati cerebrali e nel suo uso collettivo non è una facoltà unica e speciale, bensì la conseguenza di capacità cognitive generali e di una lunga storia di contatti sociali.
Tale tesi si scontra con molti dati fondamentali. Soggetti quasi completamente privi di movimenti volontari acquisiscono e usano il linguaggio senza problemi. L’ipotesi che il linguaggio sia un derivato della motricità in generale, tesi già sostenuta dal celebre psicologo svizzero Jean Piaget molti anni addietro, è del tutto infondata. Quanto poi alla modularità della mente e del cervello, si tratta di uno dei dati centrali meglio comprovati delle moderne scienze cognitive. Nel settore del linguaggio, molteplici patologie molto specifiche mostrano come una singola componente cognitiva possa essere compromessa senza intaccarne altre. Da un lato, si sono studiati soggetti con limitatissime capacità cognitive generali, ma competenza linguistica intatta. All’opposto, deficit linguistici assai specifici in soggetti che godono di competenze cognitive extra-linguistiche intatte.
Sul fronte della sintassi vera propria, innumerevoli dati su svariate lingue e dialetti mostrano che le esigenze della comunicazione tra parlanti non possono nemmeno cominciare a spiegare la natura fondamentale delle strutture sintattiche. Oltre agli esempi offerti da Chomsky nel suo testo qui a fronte, molti altri dello stesso tenore possono essere citati. Perché la frase «Ogni uomo ama sua madre» può benissimo significare che ciascun uomo ama la propria madre, mentre la frase «Sua madre ama ogni uomo» vuol dire tutt’altro? Perché è sintatticamente impeccabile chiedere «Con quale collega non sai mai come comportarti?». Ma orribile chiedere: «Come non sai mai con quale collega comportarti?».
Perché il tipico afasico di Broca e i bimbi piccoli capiscono senza problema «Mostrami l’elefante che sta innaffiando il leone», ma hanno seri problemi a comprendere la frase «Mostrami il leone che l’elefante sta innaffiando?». Perché in espressioni come «far ridere i polli», «far divertire i bambini», «far cuocere il brodo» è il soggetto stesso che compie l’azione, mentre in espressioni come «far licenziare gli operai», «far tagliare il bosco» si danno istruzioni a qualcun altro?
Niente di tutto ciò è misterioso per la grammatica generativa . Impossibile, invece, spiegare questi fenomeni invocando le regole della conversazione, la cognizione generale del mondo e l’impatto delle emozioni sui parlanti. Quindi, la sintassi è una sfera cognitiva specifica e non proviene dalle pressioni selettive della comunicazione, degli scambi sociali e nemmeno del pensiero in generale. «Lo ritengo intelligente», «lo sospetto colpevole» vanno benissimo, ma «lo nego intelligente» oppure «lo escludo colpevole» vanno malissimo, anche se i pensieri corrispondenti sono chiarissimi.
Bisogna ammettere che è molto difficile far passare l’idea che la sintassi non sia il prodotto evolutivo del movimento, della comunicazione e della generica conoscenza del mondo. Un mio studente americano, dopo aver seguito con attenzione tre lezioni nelle quali avevo spiegato in dettaglio perché la tesi di continuità tra linguaggio e altre sfere cognitive è insostenibile, mi disse candidamente: «Niente potrà mai persuadermi che il linguaggio non è il prodotto evolutivo della comunicazione e del pensiero in genere». Ne rimasi piuttosto scandalizzato, dato che si tratta di scienza e non di fede ideologica, ma almeno era più sincero di molti oppositori della grammatica generativa .
L’incontro al Festival delle Scienze
Corriere 8.1.14
L’universo mondo che ruota attorno al macro-tema «I linguaggi», declinato in ogni possibile sfaccettatura: linguistica fantastica e lingue immaginarie, genetica e patologie del linguaggio, i linguaggi della sessualità, il linguaggio della ricerca, la filosofia del linguaggio o il linguaggio dei segni... Questi alcuni degli argomenti affrontati nella nona edizione del Festival delle Scienze che si svolgerà a Roma, presso l’Auditorium Parco della Musica, dal 23 al 26 gennaio prossimi (festival prodotto dalla Fondazione Musica per Roma, in collaborazione con Codice). -Quattro giorni tra analisi scientifica, indagine filosofica e incursioni nella fantascienza, fitti di incontri, conferenze, proiezioni, dibattiti e laboratori, con ospiti provenienti da tutto il mondo (gli eventi del festival, a esclusione degli spettacoli, sono a pagamento al costo di due euro). -Tra i tanti nomi presenti, oltre a quello di Noam Chomsky (per lui una serata speciale introdotta da Andrea Moro dal titolo Il linguaggio come organo della mente , ore 21 di sabato 25), Bernhard Nickel, Jason Stanley, Stephen Crain, Jesse Snedeker, Alfonso Caramazza, Simon Fisher, Tullio De Mauro, Nicla Vassallo.
Ferdinand de Saussure: una lezione tra scacchi, codici e comunicazione
di Massimo Adinolfi (l’Unità, 24.02.2013)
È invece postuma la raccolta delle lezioni tenute a Ginevra da Ferdinand de Saussure (1906-1911), «Corso di linguistica generale», dove è delineata la teoria linguistica strutturalista, basata sul rapporto di arbitrarietà tra segno linguistico e significato e sulla concezione della lingua come sistema di segni regolato da leggi di opposizioni e di associazioni dei termini linguistici.
LE PAROLE HANNO UN SIGNIFICATO. GIÀ, MA COME CE L’HANNO? NON È AFFATTO UNA DOMANDA PEREGRINA, ANCHE SE NORMALMENTE NON ABBIAMO DIFFICOLTÀ A DISTINGUERE LE PAROLE che hanno un significato da quelle che invece non ce l’hanno (e che perciò sospettiamo non esser nemmeno parole). Il punto è infatti in forza di cosa facciamo una simile distinzione, che cosa mai si trovi nei suoni che pronunciamo, per cui essi meritino un’attribuzione di significato.
Orbene, che cosa, se non un pensiero? Un pensiero è quel che ci vuole! Già, come stanno i pensieri nei suoni? Neanche questa è una domanda bislacca, visto che non sappiamo bene neanche che cosa diavolo sia un pensiero, un concetto, una rappresentazione mentale.
La faccenda sembra che stia però a questo modo: da una parte ci sono i suoni che facciamo con la voce, dall’altra ci sono invece le cose che ci accadono «dentro», nell’anima o forse nel cervello (dicono oggi i più aggiornati), e per le quali appunto investiamo quei suoni di significati.
Da un’altra parte ancora, a volerla dire tutta, ci sono pure i segni scritti, che significano i segni verbali, che a loro volta significano «le cose di dentro». Questo però non è Ferdinand de Saussure a dirlo, il linguista ginevrino di cui è caduto in questi giorni il centenario della nascita, bensì (con qualche minimo ammodernamento linguistico e più di una concessione alla vulgata), il grande Aristotele.
Più precisamente, si tratta dell’incipit del trattato Perì ermeneias Dell’espressione, o Dell’interpretazione nel cui cerchio magico ancora si muove buona parte della nostra ordinaria, prescientifica comprensione del linguaggio. Quale sia il misterioso collante che consente ai pensieri di attaccarsi ai suoni Aristotele, però, non lo diceva. O per meglio dire: non pensava ci fosse bisogno di incollare per davvero gli uni agli altri: era per lui sufficiente una convenzione, un accordo, un’intesa in forza della quale gli uomini decidessero di fare che quel determinato suono significasse quel determinato pensiero.
Naturalmente, capire come si stabilisca un simile accordo è un bel problema, visto che molto raramente osserviamo nascere nuove parole in forza di una stipulazione arbitraria di qualche genere, e visto soprattutto il fatto che mai s’è vista accadere una roba simile per un intero sistema linguistico. Ma questa, si dirà, è un’altra storia.
IL DISTACCO DA ARISTOTELE
Sta di fatto che, un paio di millenni dopo, il coltissimo professor Ferdinand de Saussure, che teneva all’Università di Ginevra i suoi corsi di linguistica generale, non era più sicuro dell’impianto aristotelico. Passi la faccenda della convenzione (katà synthéken, dice il greco di Aristotele): non è infatti vero che nelle diverse lingue parlate dagli uomini si dicono le stesse cose con suoni diversi? E cosa vuol dire questo, se non che i segni sono arbitrari? Ma che bisogno c’è di mantenere una nozione psicologica di significato, si chiese Saussure?
La lingua (la langue) va considerata separatamente dall’atto o dalla facoltà di parola (la parole): la prima ha carattere sovraindividuale, e non è affatto nella disponibilità di un individuo o nella testa di un solo uomo; il secondo, invece, l’atto di parola, quello sì dipende dalla volontà del singolo. Occupiamoci pertanto della lingua come un sistema, come un fatto sociale, ragionava il linguista, e lasciamo perdere tanto la psicologia, che è confusa e con la quale in fondo rischiamo solo di metterci nei guai, quanto la storia. La storia era infatti l’altro ambito in cui si studiavano i problemi del linguaggio.
Lo stesso Saussure, prima di ritornare negli anni ’90 dell’800 nella sua Ginevra, si era occupato di sanscrito e indoeuropeo. Ma ormai lo studio del linguaggio non aveva più ragioni di principio per sentirsi in debito nei confronti della storia: la prospettiva diacronica, che guarda l’evolversi di un sistema linguistico nel tempo, poteva andare separata dalla prospettiva sincronica, che considera invece la lingua tutta dispiegata in un momento dato, e si occupa quindi di stabilire quali rapporti intercorrano fra i suoi segni.
Fu una vera rivoluzione: la lingua da allora in poi è una struttura, non fa capo a un soggetto (minuscolo o maiuscolo che sia) e può essere studiata iuxta propria principia. E fu una rivoluzione tanto vasta da investire nel giro di qualche decennio l’intero ambito delle scienze umane, che dalla linguistica strutturale di Saussure presero per dir così il metodo. L’antiumanesimo della morte dell’uomo (di una certa figura antropocentrica dell’uomo) era già pronto a spiccare il volo nel cielo fosco del Novecento europeo.
Pensate però che bello: studiare l’uomo, le sue manifestazioni culturali e simboliche, senza dover passare per la via troppo stretta e così tortuosa della psicologia, e senza nemmeno dover annaspare nel mare magno della storia.
Come ha spiegato Tullio De Mauro (a cui si deve l’introduzione del Cours di Saussure in Italia, nel ‘68), non importa quanti linguisti conoscano lo studioso ginevrino: quel che è certo, è che noi siamo in debito con la sua fondazione della linguistica generale, come lo siamo nei confronti di Girolamo Cardano. Di cui nemmeno conosciamo il nome, ma che tiriamo in ballo ogni volta che ci mettiamo in macchina e sterziamo, visto che il giunto cardanico che ci consente di girare le ruote l’ha inventato lui.
E così «tutte le volte che qualche linguista lavora sulle parole come segni di un sistema, ogni volta che un linguista capisce che questo sistema non è un caciocavallo ‘mpiso sulla testa dei parlanti (...), ogni volta che riesce a distinguere il peso della tradizione dalla portata funzionale sincronica di una forma devo continuare? Ogni volta che un linguista studia seriamente una lingua (...), lo sappia o no, gli piaccia o no, adopera attrezzi concettuali e anche termini messi a punto da Saussure».
Le parole come «segni di un sistema», la lingua come sistema di differenze: questo il pensiero più profondo di Saussure. Che significa: morte del concetto, fine della parola piena, rotonda, dotata di un senso spirituale. Volete infatti sapere dove si trova il significato delle parole, visto che non c’è più a sostegno un’anima, uno spirito, una coscienza che le pensi? Ma nelle parole stesse, e precisamente nelle differenze che intercorrono tra di loro.
Volete capire come? Fatevi una partita a scacchi (il paragone fra il gioco della lingua e quello degli scacchi è dello stesso Saussure). Anche a scacchi è questione di posizione dei pezzi sulla scacchiera, e per meglio dire della posizione di ciascun pezzo in relazione a ciascun altro: a nessuno che osservi la scacchiera in un dato momento, occorre perciò conoscere la sequenza delle mosse giocate (la storia), né cosa mai pensino i giocatori impegnati nel gioco (la psicologia), per capire la posizione (la lingua).
Ora però che l’onda strutturalista è calata e che una macchina, «Deep Blue», ha battuto persino il campione del mondo Garry Kasparov in una partita a scacchi, viene naturale domandare che gioco è, quello che possono giocare anche le macchine, e che lingua è, quella che anche le macchine possono parlare. Oppure giocare, così come parlare, sono attività propriamente umane, e quello che fanno le macchine è un’altra cosa: comunicazione, forse, ma linguaggio no? Se così fosse, il linguaggio avrà pure una sua infrastruttura linguistica nel senso della langue di Saussure, ma non sarà mai soltanto un sistema, un codice astratto, qualcosa che può essere implementato su un elaboratore, ma avrà bisogno di essere nuovamente immesso nella vita e nella storia degli uomini.
In effetti, l’ultima parola che dimostra (e insieme decide) se quella che parliamo è una lingua oppure solamente un codice comunicativo può essere solo quella di un altro uomo che la intenda e la consideri per tale. Ma quell’ultima parola, per definizione, non è ancora stata detta, e non sarà detta finché gli uomini avranno ancora una lingua, e una storia.
Il linguaggio e la verità. Martini il comunicatore
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 23 dicembre 2012)
«In principio era la Parola, la Parola era presso Dio e la Parola era Dio», recita il Vangelo di Giovanni (1,1). E poco dopo: «In lei era la vita e la vita era la luce degli uomini». Se dovessi indicare una laica chiave di lettura di questo celebre incipit evangelico, sceglierei il commento di Carlo Maria Martini dell’anno pastorale 1981-1982, ove non a caso viene meno la maiuscola: «Nella parola il nostro essere profondo si manifesta; la nostra libertà sprigiona le sue capacità operative; la nostra umanità va in cerca dell’umanità degli altri, cerca un contatto con loro, genera consensi, costruisce comunità umane, interviene sulle cose del mondo».
È uno splendido elogio del linguaggio come strumento evolutivo che consente il passaggio dall’individualità dell’io al noi e favorisce l’emergere delle più diverse forme del collettivo umano. Martini ricorre così a una caratterizzazione di Homo sapiens che mostra non poche linee di convergenza con la tradizione del libero pensiero da David Hume a Charles Darwin, da John Stuart Mill a Bertrand Russell: l’umanità è un mosaico di intelligenze, passioni e affetti «eccentrici e insoddisfatti», ed è proprio questa paradossale condizione che rende il linguaggio un elemento ineliminabile di incivilimento.
Certo, Martini ha in mente anzitutto «il primato della parola di Dio», che può sempre trascendere la gabbia dell’espressione puramente umana. Mi pare però significativo che proprio in questo contesto, così impregnato di fede evangelica, Martini non insista tanto su temi escatologici come l’immortalità delle anime o la resurrezione dei corpi, bensì sottolinei che è la parola - e solo essa - che «supera e salva ciò che muore»; anche se l’intero Universo giungesse al punto di «spegnersi». Per questo Dio ha bisogno degli uomini: la sua parola «non cessa di essere una realtà storica» e appunto la sua efficacia si manifesta nell’interpretare e salvare la vicenda della libertà umana, che va valutata «con le sue aspirazioni, i suoi problemi, i suoi peccati, le sue nostalgie di salvezza, le sue realizzazioni nel campo personale e sociale».
Appunto per questa ragione la parola illumina le più diverse situazioni secondo modalità non disgiunte dal contesto culturale, sociale e storico. Scriveva Martini in un biennio difficile come il 1981-1982 che «davanti a urgenti interpellanze provenienti dal mondo del lavoro, dalle nuove circostanze in cui viveva la famiglia, dall’inquieta condizione dei giovani e delle donne», il silenzio impacciato dei timidi e la carenza di linguaggio sono già delle colpe. Il sintomo più grave della malattia provocata dall’incoerenza fra quel che si professa e quel che si è, fra il dover essere e l’esistente di fatto, è la scissione tra «testimonianza e opere». D’altra parte, solo il linguaggio è in grado di colmare lo scarto tra «il mondo misterioso della fede» e «le contraddizioni della civiltà industriale».
La nostra è l’epoca della competenza tecnico-scientifica e Martini si è sempre dimostrato consapevole della forza che si sprigiona dalle idee non meno che dai grandi apparati della ricerca, senza troppe distinzioni tra ricerca pura e applicata, perché la linea di demarcazione tra l’una e l’altra cambia con la costellazione dei successi nella nostra comprensione della realtà.
Nel 1982-1983 Martini osservava «che l’uomo ha compiuto e va compiendo importanti conquiste nel dominio della natura, nella cura della salute, nella promozione della dignità personale, nell’organizzazione della vita sociale». Ma già nell’anno pastorale precedente metteva in guardia che l’incremento delle conoscenze scientifiche e lo sviluppo delle applicazioni tecniche spingono l’umanità a sopravvalutare la sua potenza e a darsi a un’attività produttiva sempre più frenetica.
Il riferimento più ovvio, all’epoca, era ancora alla corsa agli armamenti e all’equilibrio del terrore, garantito - se così si può dire - da Usa e Urss. Ma i giudizi pronunciati in quelle circostanze avevano una portata più ampia di quanto la logica della situazione facesse sospettare. «Di fronte ai tanti casi di corruzione, al generale affievolimento del senso di responsabilità, alla crisi delle istituzioni democratiche, tante voci chiedono un risorgimento della coscienza morale».
La cronaca più recente ci fa sembrare ancor più vive affermazioni di questo genere. Comunque, tale «sfida» per Martini deve venire raccolta, decifrata e fatta evolvere «verso la coscienza del bisogno di un solido fondamento».
A questo punto non posso fare a meno di pensare a un poetico elogio del
fondamento nel divino come questo, formulato nell’età dei Lumi:
«Chi ha dato il moto alla natura?
Dio. Chi fa vegetare tutte le piante? Dio. Chi fa muovere gli animali? Dio. Chi dà la forza di
pensare all’uomo? Dio». Qualche ingenuo cattolico - non certo Martini - potrebbe stupirsi che
queste righe siano state vergate dalla penna di François-Marie Arouet, detto Voltaire, che alla voce
«Catechismo cinese» del suo Dizionario filosofico (1764, prima edizione anonima Ginevra, anche
se l’indicazione formale è Londra) aveva affidato all’esotico principe Ku la descrizione di come quel
fondamento sostenga mondo, vita e intelligenza.
Nonostante la rinascita di forme più o meno virulente di fondamentalismo (cui Martini ha sempre guardato con estrema severità), è difficile sottrarsi all’impressione che il mondo disincantato di oggi si sia ormai affrancato da opzioni deistiche cui dava ancora spazio l’illuminista Voltaire.
L’impresa scientifica non ci pare cattolica o protestante più di quanto non sia induista, buddhista o confuciana. Né abbiamo a che fare nella nostra realtà quotidiana con una morale civile che possa venire dedotta in modo univoco da questa o quella dogmatica religiosa: in tal caso ne soffrirebbe la nostra stessa apertura democratica. In altre parole, siamo lontani da quel pretendersi tutti «cattolici, anzi cattolicissimi» come ancora faceva Galileo Galilei; per non dire dell’omaggio mistico di un Keplero al Dio uno e trino che nelle forme geometriche rispecchia la propria essenza o della sottomissione di un Newton al «Signore del mondo» che colma con la sua insondabile benevolenza le lacune della legalità fisica.
Per Martini la struttura pluralistica di scienza e società non costituiva affatto una sconfitta della proposta cristiana ma un suo punto di forza, nella convinzione che nella rinuncia a qualsiasi imposizione riacquistasse senso persino quel «bisogno indistinto di silenzio, di ascolto, di respiro contemplativo» che intesse l’atto della preghiera.
Né mancava in Martini un franco riconoscimento del valore individuale della scelta: tale «avventura difficile e inebriante» richiede infatti che ci sia sempre un io che corre il rischio della decisione, «anche se vivo, decido, prego in una comunità di fratelli che mi sostiene, mi rianima e spiritualmente mi dilata». Certo, la libertà umana «è sempre tentata d’infedeltà», e cristianamente Martini vedeva qui anche la radice di disordine e prepotenza, che possono inquinare persino l’orazione al punto di farne «il tentativo di piegare la divina volontà alla nostra».
Ma laicamente sapeva pure che quella stessa «infedeltà» può diventare la molla dell’insofferenza al conformismo, che è il frutto della restaurazione di qualsiasi fondamentalismo - persino di un fondamentalismo scientista, che vede nelle conquiste tecnico-scientifiche lo strumento di un dominio assoluto da parte di un’élite di tecnocrati a spese dell’ambiente e dei singoli individui.
Mi sia lecito aggiungere che un siffatto «atteggiamento di orgoglioso e bruciante possesso» a mio parere vanificherebbe la stessa crescita della conoscenza, intesa non solo come ricerca di «verità» continuamente rivedibili e mai definitive, ma anche come condivisione linguistica tra la cerchia degli specialisti e il pubblico più ampio, capace di incrementare la critica e il dissenso, a loro volta intesi come stimoli a nuove e incessanti scoperte. È mia convinzione e speranza che su questo possano davvero convergere le parole degli uomini e quelle di Dio.
«Il modello? Il dialogo misterioso nel sepolcro di Gesù»
di Carlo Maria Martini (Avvenire, 12 settembre 2012)
Solitamente si dà della comunicazione una definizione empirica: comunicare è «dire qualcosa a qualcuno». Dove quel «qualcosa» si può allargare a livello planetario, attraverso il grande mondo della rete che è andato ad aggiungersi ai mezzi di comunicazione classici. Anche quel «qualcuno» ha subìto una crescita sul piano globale, al punto che gli uditori o i fruitori del messaggio in tempo reale non si possono nemmeno più calcolare.
Questa concezione empirica, alla luce dell’odierno allargamento di prospettive, dove sempre più si comunica senza vedere il volto dell’altro, ha fatto emergere con chiarezza il problema maggiore della comunicazione, ossia il suo avvenire spesso solo esteriormente, mantenendosi sul piano delle nude informazioni, senza che colui che comunica e colui che riceve la comunicazione vi siano implicati più di tanto.
Per questo vorrei tentare di dare della comunicazione una descrizione «teologica», che parta cioè dal comunicarsi di Dio agli uomini, e lo vorrei fare enunciando qui alcune riflessioni che potrebbero servire per una nuova descrizione del fenomeno.
Nel sepolcro di Gesù, la notte di Pasqua, si compie il gesto di comunicazione più radicale di tutta la storia dell’umanità. Lo Spirito Santo, vivificando Gesù risorto, comunica al suo corpo la potenza stessa di Dio. Comunicandosi a Gesù, lo Spirito si comunica all’umanità intera e apre la via a ogni comunicazione autentica. Autentica perché comporta il dono di sé, superando così l’ambiguità della comunicazione umana in cui non si sa mai fino a che punto siano implicati soggetto e oggetto.
La comunicazione sarà dunque anzitutto quella che il Padre fa di sé a Gesù, poi quella che Dio fa a ogni uomo e donna, quindi quella che noi ci facciamo reciprocamente sul modello di questa comunicazione divina. Lo Spirito Santo, che riceviamo grazie alla morte e resurrezione di Gesù e che ci fa vivere a imitazione di Gesù stesso, presiede in noi allo spirito di comunicazione. Egli pone in noi caratteristiche, quali la dedizione e l’amore per l’altro, che ci richiamano quelle del Verbo incarnato. Di qui potremmo dedurre alcune conclusioni su ogni nostro rapporto comunicativo.
Primo. Ogni nostra comunicazione ha alla radice la grande comunicazione che Dio ha fatto al mondo del suo Figlio Gesù e dello Spirito Santo, attraverso la vita, morte e resurrezione di Gesù e la vita di Gesù stesso nella Chiesa. Si capisce perciò come i Libri sacri, che in sostanza parlano di questa comunicazione, siano opere di grande valore per la storia del pensiero umano. È vero che anche i libri di altre religioni possono essere ricchi di contenuto, ma questo è dovuto al fatto che sottostà a essi il dato fondamentale di Dio che si dona all’uomo.
Secondo. Ogni comunicazione deve tenere presente come fondante la grande comunicazione di Dio, capace di dare il ritmo e la misura giusti a ogni gesto comunicativo. Ne consegue che un gesto sarà tanto più comunicativo quanto non solo comunicherà informazioni, ma metterà in rapporto le persone. Ecco perché la comunicazione di una verità astratta, anche nella catechesi, appare carente rispetto alla piena comunicazione che si radica nel dono di Dio all’uomo.
Terzo. Ogni menzogna è un rifiuto di questa comunicazione. Quando ci affidiamo con coraggio all’imitazione di Gesù, sappiamo di essere anche veri e autentici. Quando ci distacchiamo da questo spirito, diveniamo opachi e non comunicanti.
Quarto. Anche la comunicazione nelle famiglie e nei gruppi dipende da questo modello. Essa non è soltanto trasmissione di ordini o proposta di regolamenti ma suppone una dedizione, un cuore che si dona e che quindi è capace di muovere il cuore degli altri.
Quinto. Anche la comunicazione nella Chiesa obbedisce a queste leggi. Essa non trasmette solo ordini e precetti, proibizioni o divieti. È scambio dei cuori nella grazia dello Spirito Santo. Perciò le sue caratteristiche sono la mutua fiducia, la parresia, la comprensione dell’altro, la misericordia
Antropologia e matematica
Alla Fondazione Isi e all’Università La Sapienza le ricerche sull’origine della comunicazione
Così imparammo a dire rosso
Dai modelli della complessità la nuova interpretazione del linguaggio
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze 15.02.2012)
Vittorio Loreto Fisico
RUOLO: E’ PROFESSORE DI FISICA ALL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA E COORDINATORE DEL GRUPPO DI «INFORMATION DYNAMICS» ALLA FONDAZIONE ISI DI TORINO
Se le parole si inceppano, meglio saltare sui numeri. Per esempio quando si indagano le acrobazie dei linguaggi, come sbocciano e si trasformano, come si impongono e si estinguono. E infatti nella nicchia ecologica dei linguisti si stanno intrufolando i fisici ed i matematici, trascinando con sé la potenza di calcolo delle formule e i verdetti spiazzanti degli algoritmi. E non solo. Insinuano punti di vista inattesi e a volte provocatori, incrinando la sacralità di quella che consideriamo la nostra dote più sofisticata, e allo stesso tempo plasmano modelli inediti per rispondere a un interrogativo antichissimo: perché parliamo e così tanto?
Professor Vittorio Loreto, lei è fisico all’Università La Sapienza di Roma e coordinatore del gruppo di «Information Dynamics» alla Fondazione ISI di Torino ed è proprio uno di questi «alieni»: incrocia strumenti teorici e computazionali (come i giochi linguistici) con test sul Web. Che cosa pretendono di svelare i suoi numeri?
«Partiamo dal metodo: il mio team costruisce dei modelli sintetici al calcolatore, che riproducono le interazioni tra coppie di individui e le replicano in serie per studiarne gli effetti su larga scala. Si tratta di simulazioni numeriche, con cui si esplorano alcune ipotesi cognitive sui modi in cui comunichiamo».
Lei si è interessato, tra l’altro, a come si possano inventare i nomi dei colori.
«In particolare all’universalità della categorizzazione dei colori. Si è osservato che in alcune popolazioni pre-industrializzate i nomi dei colori primari si limitano a due e indicano il chiaro e lo scuro. Quando emerge un terzo vocabolo, questo è quasi invariabilmente il rosso, seguito - di nuovo in una successione pressoché costante dal verde e dal giallo e in una fase ulteriore da blu, marrone e poi violetto, rosa, arancio e grigio. Finora nessuno aveva dato una spiegazione convincente di questo ordine».
Qual è l’interpretazione?
«Siamo partiti da un punto fondamentale, anteriore al linguaggio stesso e di tipo fisiologico: ciò che ci accomuna è il potere risolutivo dell’occhio, vale a dire la capacità di discriminare i colori sulla base delle loro frequenze. Per alcune, come il blu o l’arancio, siamo più sensibili, mentre nei confronti di altre, come il rosso, abbiamo prestazioni inferiori. La conseguenza è significativa».
Può spiegarla?
«Se si ha una bassa capacità di discriminazione per le tonalità del rosso, è probabile che le persone si accorderanno rapidamente su che cosa sia. Quando invece cresce l’accuratezza della visione di altre tonalità, tipo il blu o l’arancio, l’accordo su ciò che sono e non sono richiede molto più tempo, perché si moltiplicano i distinguo. Queste differenze sono importanti, perché permettono di stabilire delle ipotesi con cui quantificare i tempi evolutivi richiesti per far emergere un sistema condiviso con il quale nominare i colori. Sono risultati nuovi, numerici, appunto, con i quali cominciamo a osservare il linguaggio a partire da principi di comunicazione».
Si riferiscono ai «giochi linguistici», in cui riproducete la transizione da una fase di frammentazione della comunicazione a un’altra di consenso generalizzato?
«Partiamo da simulazioni della comunicazione tra due persone e le allarghiamo a intere popolazioni, analizzando modi e tempi. L’approccio vale per le categorie dei colori, ma anche per altre realtà a cui ci stiamo dedicando: l’emergere delle strutture sintattiche, per esempio, oltre che dei significati e dei simboli».
E così ai linguisti «tradizionali» servite un’ingombrante sorpresa, cioè una nuova disciplina, la «linguistica in silico»: non vi accontentate di teorie, ma tentate esperimenti su larga scala.
«La chiamiamo “in silico” per le caratteristiche dei test: vengono condotti con i calcolatori sia su popolazioni artificiali sia in modi ancora più sofisticati. Alla Fondazione ISI e all’Università Sapienza studiamo come utilizzare il Web, esaltandone le caratteristiche di laboratorio ideale. Se finora le scienze sociali dovevano accontentarsi di campioni limitati, ora i social networks garantiscono una base enorme di utenti e permettono di riprodurre realisticamente i protocolli d’interazione tra individui, e non solo in ambito linguistico».
Può fare un esempio?
«“Mechanical Turk”: è una piattaforma Web che riproduce un mercato del lavoro virtuale, in cui gli utenti svolgono una serie di compiti - dalla categorizzazione di immagini alla trascrizione di registrazioni - e vengono retribuiti da specifici “datori di lavoro”. E’ l’esempio di una tendenza generale in cui il Web sta diventando un’infrastruttura per una “computazione sociale”, poiché consente di coordinare le capacità cognitive di computer umani, realizzando così esperimenti di massa nell’ambito delle scienze sociali. Si tratta di uno scenario agli albori, ma ricco di promesse e applicazioni: all’ISI e alla Sapienza lavoriamo a un progetto europeo sulle dinamiche di opinione. Vogliamo capire come si formano e si trasformano, dall’inquinamento ai cambiamenti climatici».
Ritorniamo al linguaggio: una volta filtrato dai numeri, che cosa appare?
«Un sistema complesso. Dall’interazione ripetuta di tanti elementi semplici vengono alla superficie esiti non prevedibili. Il linguaggio significa cambiamenti continui: ecco perché abbiamo appena iniziato a scalfirne i misteri».
Antropologia.
La lezione di Tattersall al Festival delle Scienze di Roma:
L’appuntamento è per sabato prossimo
Come siamo diventati umani
Un giorno di 77 mila anni fa, in Sud Africa, inventammo i simboli
Un pensiero giovane in un corpo antico
Quale fu lo stimolo culturale che scatenò le nostre capacità? Il candidato più plausibile è l’invenzione del linguaggio
IL PARADOSSO I primi Sapiens di 200 mila anni fa non erano come noi
IAN TATTERSALL AMERICAN MUSEUM OF NATURAL HISTORY E’ CURATORE ALL’AMERICAN MUSEUM OF NATURAL HISTORY IL SITO: WWW.AMNH.ORG/SCIENCE/ DIVISIONS/ANTHRO/BIO.PHP?SCIENTIST= TATTERSALL
di Ian Tattersall (La Stampa/TuttoScienze, 18.01.2012)
Gli esseri umani sono inconsueti tra gli organismi e non solo per numerose caratteristiche anatomiche, che hanno a che fare con la locomozione bipede, ma anche per i modi in cui il loro grande cervello elabora le informazioni.
Le altre specie, infatti, vivono nel mondo seguendo la Natura e rispondendo in modo più o meno complesso o sofisticato agli stimoli sensoriali. Al contrario, gli esemplari moderni della nostra specie Homo sapiens decifrano i segnali da tutti gli ambienti, interni ed esterni, e li trasformano in vocabolari di simboli. Questi, poi, possono essere mescolati per produrre una varietà infinita di affermazioni non solo sul mondo così com’è, ma anche su come potrebbe essere. Il risultato, in un senso molto concreto, è che noi umani viviamo soprattutto in mondi che ci costruiamo individualmente. Questa esclusiva propensione umana è inseparabile dalla nostra creatività. E poiché - com’è ovvio - è costruita sulle fondamenta di una storia evolutiva molto antica, è interessante indagare quando, in questa vicenda, una simile caratteristica sia emersa, e come. L’antenato comune
La stirpe umana ha cominciato a differenziarsi dall’antenato che ci accomuna con gli scimpanzè e con i bonobo all’incirca 7 milioni di anni fa e le testimonianze fossili che documentano le numerose fasi dell’evoluzione umana sono oggi piuttosto vaste. I primi ominidi (i generi Sahelanthropus, Orrorin e Ardipithecus) erano notevolmente diversi tra loro, dimostrando che fin dagli inizi la storia della famiglia degli ominidi è stata segnata dalla sperimentazione evolutiva piuttosto che da un miglioramento lineare. Questo modello di differenziazione è evidente anche nelle successive manifestazioni del gruppo Australopithecus-Paranthropus (i famosi australopitechi), nel periodo compreso tra 4,2 e 1,5 milioni di anni fa.
Anche se gli australopitechi potevano camminare eretti e possedevano numerosi adattamenti della parte inferiore dello scheletro per condurre un’esistenza almeno in parte terrestre, combinavano volti di grandi dimensioni con piccole scatole craniche. E nemmeno gli esemplari più tardi dovevano essere dotati di facoltà cerebrali significativamente superiori rispetto a quelle delle grandi scimmie attuali. Inoltre, sebbene abbiano avuto abitudini dietetiche più generaliste, non c’è motivo di credere che, almeno nelle fasi iniziali, gli australopitechi fossero cognitivamente più sofisticati degli scimpanzé di oggi, i quali, benché in grado di decifrare i simboli, non sono però in grado di rielaborarli come fanno gli esseri umani.
E’ ormai provato che gli ominidi usavano pietre taglienti per macellare le carcasse di animali già 3,4 milioni di anni fa. Questo comportamento implica capacità cognitive superiori a quelle di qualunque scimmia moderna, ma, sebbene le prove di una produzione intenzionale di strumenti di pietra risalga già a circa 2,5 milioni di anni fa, è difficile trovare delle prove che queste prime creature avessero la capacità mentale di «ricreare» il mondo. E, infatti, le tecniche di scheggiatura della pietra possono essere acquisite semplicemente attraverso l’imitazione e si può suppore che nessuna forma nota di tecnologia del Paleolitico rappresenti una testimonianza dei moderni processi del pensiero simbolico.
L’apparizione - 1,78 milioni di anni fa - di asce a mano, deliberatamente intagliate a forma di goccia, rivela l’emergere di un progresso cognitivo, ma questa innovazione sembra essersi verificata nell’ambito di una specie fisicamente avanzata, l’Homo ergaster (il primo vero bipede), e non è dimostrabile che abbia richiesto anche la presenza di processi mentali di tipo simbolico. Questo vale anche per l’invenzione successiva delle tecniche di lavorazione della pietra e per la realizzazione di strumenti complessi e anche per la scoperta del fuoco come fonte di calore e per la costruzione di rifugi: tutti comportamenti, questi, apparsi durante l’era dell’Homo heidelbergensis, una specie dal cervello non troppo grande e assai diffusa nel Vecchio Mondo, in un periodo tra 600 mila e 200 mila anni fa.
Reperti significativi Con la comparsa dell’Homo neanderthalensis, poi, circa 200 mila anni fa, siamo di fronte a una specie di ominidi che non soltanto possedeva un cervello grande quanto quello degli umani moderni, ma che ha lasciato reperti archeologici significativi. Eppure, per quanto importanti siano queste testimonianze, non contengono nulla che possa indiscutibilmente essere interpretato come un artefatto di tipo simbolico. "Una propensione esclusiva che si rivela inseparabile dalla nostra creatività"
Lo stesso si può dire per i primi fossili di Homo sapiens, provenienti da siti etiopi datati tra 195 e 160 mila anni fa. Il Sapiens è anatomicamente diverso da tutti gli altri ominidi e a tutt’oggi mancano nei reperti fossili esempi antecedenti morfologicamente simili. Questa realtà suggerisce che l’anatomia moderna sia nata da un cambiamento rapido nella regolazione dei geni, con effetti a cascata sullo sviluppo dell’organismo.
E’ solo dopo decine di migliaia di anni da questo evento biologico altamente significativo che cominciamo a individuare le testimonianze di un radicale cambiamento cognitivo, nel mesolitico africano. Il più antico artefatto generalmente accettato come simbolico è una superficie di pietra levigata, che porta inciso un motivo geometrico e che proveniene da uno strato risalente a 77 mila anni fa nella grotta di Blombos in Sud Africa. All’incirca appartenenti allo stesso periodo, sempre a Blombos, sono stati trovati gusci di lumaca marina forati per essere infilati in serie, mentre piccoli oggetti simili sono emersi anche nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Nelle società umane etnicamente documentate l’ornamento del corpo ha quasi invariabilmente significati simbolici (di status, classe d’età e così via) e lo stesso è stato dedotto, anche se indirettamente, per i ritrovamenti del Paleolitico.
Dal complesso di grotte nella zona di Pinnacle Point, poi, nello stesso periodo, arriva la prova del «trattamento termico» della creta silicea. Questo complesso processo di trasformazione di un materiale inerte grezzo per creare utensili richiede una sofisticata serie di fasi di lavorazione che, quasi certamente, implica una pianificazione di tipo simbolico. Altre testimonianze suggeriscono che ulteriori trasformazioni del comportamento si svilupparono nel mesolitico, a partire da 100 mila anni fa e prima che si verificassero nell’Europa occupata dai Neanderthal: ma la prima e definitiva prova della fioritura della moderna creatività umana proviene proprio dall’Europa, in seguito all’invasione del continente da parte dell’Homo sapiens, noto anche come CroMagnon, poco più di 40 mila anni fa.
Nessuno, osservando con attenzione l’arte portatile e quella parietale del Paleolitico superiore, può ragionevolmente dubitare che fosse il prodotto di una vera e propria sensibilità moderna. Ma queste manifestazioni dello spirito moderno sono in ritardo rispetto all’arrivo della specie Homo sapiens anatomicamente riconoscibile. Qual è, allora, il motivo di questo significativo scarto temporale tra il manifestarsi della nuova anatomia e l’emergere dei comportamenti simbolici? Lo scenario più semplice è che le basi neurali del pensiero moderno (che, come dimostra l’esempio di Neanderthal, non erano solo le conseguenze passive dell’aumento delle dimensioni del cervello) sono nate dall’evento che ha dato origine all’anatomia caratteristica dell’Homo sapiens. Questo potenziale, tuttavia, non fu sfrutttato finché non venne sollecitato da uno stimolo culturale. Non si sa con certezza quale sia stato, ma il candidato più plausibile è l’invenzione del linguaggio. E’ questo, sotto molti punti di vista, il massimo dell’attività simbolica umana ed è documentato che il linguaggio strutturato può essere inventato in modo spontaneo da gruppi umani dotati di un’«attrezzatura cognitiva» di base.
Se lo scenario è corretto, ciò significa che lo spirito creativo e simbolico dell’umano è emerso solo di recente e in un contesto estemporaneo piuttosto che adattativo. Per di più, è apparso in una popolazione (di Homo sapiens) che già possedeva un tratto vocale in grado di produrre i suoni necessari per esprimersi tramite un discorso articolato.
Dato che gli immediati precursori dell’Homo sapiens dovevano essere già cognitivamente sofisticati, è probabile che possedessero qualche forma espressiva simile alla capacità discorsiva. Come abbiamo visto, in linea di principio, non c’è niente di insolito in questo processo: dopo tutto, ogni grande innovazione comportamentale nell’evoluzione degli ominidi sembra essersi verificata all’interno di una popolazione già preesistente. Per quanto radicali possano essere, mutamenti come i processi simbolici dell’uomo moderno sono il prodotto di processi evolutivi routinari. Traduzione di Carla Reschia
Se sette italiani su dieci non capiscono la lingua
De Mauro: cresce l’analfabetismo di ritorno
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 28.11.2011)
«Voi sapete che, quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto...». Così Luigi Settembrini ricordava quanto conti la lingua nell’identità e nella coesione di un popolo. Purtroppo, se oggi si dovesse giudicare dal livello di padronanza dell’italiano il grado di attaccamento alla nazione, saremmo davvero messi molto male. La salute della nostra lingua, infatti, sembra piuttosto allarmante, almeno a giudicare dai dati che Tullio De Mauro ha illustrato ieri a Firenze, durante un convegno del Consiglio regionale toscano intitolato «Leggere e sapere: la scuola degli Italiani».
Tra i numeri evocati da De Mauro e fondati su ricerche internazionali, ce ne sono alcuni particolarmente impressionanti: per esempio, quel 71 per cento della popolazione italiana che si trova al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà. Al che corrisponde un misero 20 per cento che possiede le competenze minime «per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana». Basterebbero queste due percentuali per far scattare l’emergenza sociale. Perché di vera emergenza sociale si tratta, visto che il dominio della propria (sottolineato propria) lingua è un presupposto indispensabile per lo sviluppo culturale ed economico dell’individuo e della collettività.
Fu lo stesso Tullio De Mauro quasi cinquant’anni fa, in un libro diventato un classico, Storia linguistica dell’Italia unita, a segnalare il contributo non solo della scuola ma anche della televisione nell’apprendimento di una lingua media che superasse la frammentazione dialettale. Si assisteva in quegli anni al declino del dialetto e contemporaneamente al trionfo di quell’italiano popolare unitario che avrebbe portato, secondo le previsioni dei linguisti, a un innalzamento delle conoscenze linguistiche in parallelo con il progresso economico, culturale e civile. Nel 1973, Pier Paolo Pasolini aprì una discussione: il tramonto del dialetto equivaleva per lui all’abbandono dell’età dell’innocenza e all’entrata nella civiltà dei consumi e nell’età della corruzione. Gli fu risposto che la conquista dell’italiano da parte delle classi subalterne, come si diceva allora, era piuttosto la premessa e la promessa della loro promozione sociale.
Oggi, a quarant’anni da quelle accesissime polemiche tra apocalittici e integrati, tra nostalgici delle parlate locali e fautori delle magnifiche sorti e progressive, sembrano tutti sconfitti di fronte al pauroso ristagno economico, culturale e linguistico.
L’allarme lanciato da De Mauro chiama in causa anche il nuovo governo, che finora, ha detto lo studioso, «sembra aver dimenticato l’istruzione». Istruzione e scuola sono i due concetti chiave. Se nel dopoguerra, fino agli anni Novanta, il livello di scolarità è cresciuto fino a una media di dodici anni di frequenza scolastica per ogni cittadino (nel ’51 eravamo a tre anni a testa), oggi si registra, con il record di abbandoni scolastici, un incremento pauroso del cosiddetto analfabetismo di ritorno, favorito anche dalla dipendenza televisiva e tecnologica. Non deve dunque stupire che il 33 per cento degli italiani, pur sapendo leggere, riesca a decifrare soltanto testi elementari, e che persista un 5 per cento incapace di decodificare qualsivoglia lettera e cifra. Del resto, pare che la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino presso i nostri studenti universitari, che per quanto riguarda le competenze linguistiche si collocano ai gradini più bassi delle classifiche europee (come avviene per le nozioni matematiche).
Non bisognerebbe mai dimenticare che la conoscenza della lingua madre è il fondamento per lo studio delle altre discipline scolastiche e delle altre lingue (inglese compreso), così come è alla base della capacità di orientarsi nella società e di farsi valere nel mondo del lavoro. Sembrano constatazione banali, ma non lo sono affatto in un contesto in cui l’insegnamento dell’italiano nelle scuole soccombe all’anglofilia diffusa e la lettura, sul piano sociale, è nettamente sacrificata rispetto all’approccio visivo, comportando vere mutazioni psichico-cognitive. Se ciò risulta vero, non è eccessivo affermare che l’emergenza culturale, nel nostro Paese, dovrebbe preoccupare almeno quanto quella economica.
Prima si vive e poi si parla
Non siamo computer: impariamo le parole solo in un contesto
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera. 16.06.2011)
Immaginiamo di dover imparare una lingua straniera e di avere a disposizione due anni di tempo. Ci prefiggiamo, quindi, di imparare su un buon dizionario, o ascoltando la radio o guardando la televisione di quel Paese, appena (dico appena) 10 parole al giorno, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Dopo due anni, teoricamente, sapremmo 7.300 parole di quella lingua.
Ma, in realtà, nessun adulto ci riuscirebbe, nemmeno alla lontana. Invece, qualunque bimbo di età tra circa uno e sette anni ci riesce, per la sua lingua materna, senza alcuno sforzo, mentre gioca, mangia, viene portato a spasso e fa mille altre cose. Infatti, in media, un bimbo normale, in situazioni di vita normale, in qualunque parte del mondo, impara una parola nuova per ogni ora in cui è sveglio. Non solo impara parole semplici come cane, cucchiaio e finestra, ma anche concetti astratti come compleanno, regalo e giocattolo, e verbi astratti come sapere, indovinare e restituire.
La profonda differenza, tra il bimbo e l’adulto, nelle loro potenzialità di apprendimento, risiede senza dubbio nella loro diversa conformazione cerebrale e nello sviluppo delle reti nervose. Di questo poco sappiamo nello specifico, ma da molto tempo gli psicologi dello sviluppo e i linguisti si sono chiesti come tale apprendimento sia possibile, quale tipo di informazione sia necessaria e sufficiente affinché i bimbi riescano a completare questo formidabile compito.
Nell’ultimo numero dei «Proceedings of the National Academy of Sciences» , la decana degli psicologi cognitivi americani, Lila Gleitman, con i suoi giovani collaboratori all’Università della Pennsylvania a Filadelfia, cioè Tamara Nicol Medina e John C. Trueswell, e con la sua collega Jesse Snedeker di Harvard, ha appena pubblicato i risultati di alcuni recenti nuovi esperimenti.
A soggetti adulti e a bambini intorno ai sei-sette anni, sono state presentate brevi sequenze filmate di situazioni reali spontanee, nelle quali un genitore parla al suo bimbo piccolo (età tra un anno e un anno e mezzo) e introduce una parola nuova, ma del tutto comune (come, ad esempio, scarpa, cane, palla o cavallo). A questi filmati era stato, però, tolto il sonoro, eccetto per un segnale acustico (un beep) udibile esattamente nel momento in cui, nella situazione reale filmata, il genitore pronuncia quella parola, e per la durata esatta della pronuncia della parola. Una variante è far udire ai soggetti, invece del beep, una parola inventata, della stessa durata della parola reale («flarpa» invece di scarpa, «lacollo» invece di cavallo). Si è verificato che questa variante non cambia niente di essenziale. Il compito dei soggetti sperimentali era, appunto, cercare di capire quale parola era stata veramente pronunciata nella situazione effettiva del filmato e cosa questa parola significhi.
Tali esperimenti potrebbero sembrare a prima vista molto artificiosi, ma sono invece una replica rigorosa delle situazioni più difficili realmente incontrate dai bimbi piccoli, quando viene loro presentata una parola nuova. Infatti, raramente un genitore pronuncia parole isolate. Non è naturale indicare una palla e dire solamente «palla» , nel vuoto. Normalmente il genitore dirà qualcosa come: «Guarda, questa è una palla, guarda che bella» . Oppure: «Domani andiamo allo zoo a vedere le zebre. Ora apriamo il libro, guarda, questa è una zebra, domani le vedrai allo zoo» . La parola nuova viene sempre incastonata tra altre parole, in una frase.
In anni recenti, in altri esperimenti, proprio Lila Gleitman aveva mostrato quanto sia fondamentale per il bimbo più grandicello capire la sintassi della frase per comprendere il significato di verbi per i quali non c’è niente, proprio niente, che si possa mostrare. Per esempio verbi come dire, negare, ripetere e simili. Ma la situazione più difficile per il bimbo più piccolo è proprio quella ora simulata nei suoi nuovi esperimenti, cioè quando il bimbo piccolo non capisce nemmeno le altre parole della frase.
Chiedo a Lila Gleitman quali risultati ha ottenuto in situazioni pur tanto restrittive. «Come era da attendersi, in molti casi i soggetti individuano la parola giusta e il suo significato alla prima battuta, senza bisogno di ripetizioni. Così deve essere, infatti, dato che il bimbo impara una parola nuova circa ogni ora» . Chiedo come mai non si verifichino ogni sorta di errori.
«Due sono le spiegazioni - precisa la Gleitman -. La prima è che i nostri soggetti, proprio come i bimbi, sanno benissimo, d’istinto, quali sono le situazioni tipiche per ricevere una parola nuova e le sfruttano. La situazione deve mettere in risalto ciò cui la parola nuova si riferisce. Tutti portiamo sempre delle scarpe e vedere le scarpe ai piedi dei genitori non apporta alcuna informazione. Ma se una scarpa viene appositamente estratta da un cassetto o da una borsa e manifestamente mostrata, allora è chiaro che la si mette appositamente in risalto.
La seconda è che un’idea, un’ipotesi implicita su una parola viene tenuta in memoria per ulteriori situazioni tipiche. Per esempio quando la mamma è intenta a lustrare una scarpa. Udire di nuovo quella parola in questa nuova situazione tipica, anche se entro un flusso di altre parole non note (come lustrare), la fissa stabilmente».
Ulteriori opportune verifiche, simmetriche e opposte, sono venute, in questi esperimenti, da filmati di situazioni non tipiche, nelle quali né i bimbi né gli adulti riescono a individuare la parola. Tra l’una e l’altra situazione, quando non tipiche, nemmeno si ricordano più l’idea che si erano fatti precedentemente.
Le conclusioni di questi esperimenti confutano una teoria molto diffusa e pervicacemente perseguita da altri psicologi e incorporata in simulazioni al computer, cioè la teoria generale dell’apprendimento basata sulle ripetizioni e le associazioni. Anche le ripetizioni in situazioni non tipiche dovrebbero, secondo questa teoria, consentire di imparare le parole nuove, ma questo non succede. Invece, una singola presentazione di una situazione tipica ottiene di botto l’effetto sperato.
Da molti anni, con svariati eleganti esprimenti, Lila Gleitman ha lottato contro le teorie dell’apprendimento basate su congetture, errori, ripetizioni e generalizzazioni statistiche, cioè contro le teorie dette empiriste. Insieme al suo coetaneo, vecchio amico, talvolta coautore e sempre alleato, il linguista Noam Chomsky, la Gleitman ha profuso dati e argomenti molto persuasivi contro l’empirismo e a favore dell’innatismo. Eppure la teoria empirista va ancora per la maggiore. Come mai? Mi risponde, allargando le braccia e sorridendo un po’ maliziosamente, con un paradosso: «Che ci vuoi fare? L’empirismo è esso stesso innato» .
Se le parole non esistono
Quel linguista scettico che sfida Chomsky
Scrive saggi e tiene un blog dove critica le star della disciplina: si chiama Nunzio La Fauci e sostiene che non c’è un lessico prima e fuori dalla sintassi. Ecco le sue tesi
La lingua non è una combinazione di elementi già dati. È il tutto che dà senso alle singole parti
Da esperto ritiene presuntuoso l’intento tipico degli intellettuali italiani: rendere i parlanti migliori
di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 06.05.2011)
«Le parole non esistono». Fosse avanzata da un mistico, un artista figurativo o un politico (di quelli che possono usare espressioni come: «Le chiacchiere stanno a zero»), l’ipotesi non susciterebbe clamore. Ma l’ha detto un linguista e allora si è costretti a guardare alla possibile inesistenza delle parole con altri occhi.
Il linguista si chiama Nunzio La Fauci, il suo nome e il suo cognome sembrano voler riassumere le due principali funzioni della cavità orale. La Fauci insegna all’Università di Zurigo. Ha appena scritto un Compendio di sintassi italiana (Il Mulino) e ha raccolto i suoi saggi sotto un titolo, di perfetta ortodossia saussuriana e strutturale: Relazioni e differenze (Sellerio). Per divertirsi, osserva usi della lingua (e dei linguisti) in un blog raffinato e paradossale intitolato ad Apollonio Discolo, bel nome di un grammatico greco del II secolo d.C., con la cui dottrina La Fauci in realtà dissente.
I linguisti non amano i catastrofismi, in merito alla lingua. Smentiscono la morte del congiuntivo, ridimensionano l’allarme per l’invasione dell’inglese, impetrano misericordia verso coloro a cui sfuggono sgraziati «attimini» o deformi «piuttosto che». La Fauci fa di più. Quando l’ex calciatore Beppe Dossena ha usato il verbo «reazionare» nel commento di una telecronaca di calcio, su Repubblica se n’è occupata la rubrica «Lapsus», ricordando l’esistenza del verbo «reagire». Apollonio Discolo è insorto, non contro il calciatore ma contro il suo incauto critico, ricordando a quest’ultimo l’esistenza del verbo «sanzionare» (che sta a «sancire» esattamente come «reazionare» sta a «reagire»).
Attenzione, dice oggi il professore, «agli "errori" degli altri (e dei presunti incolti). Può capitare non solo che errori non siano ma anche che svelino cose più interessanti e gustose delle proposte di presunte correzioni». Apollonio Discolo ha poi aggiunto: «Amare l’espressione umana (come amare una persona) non è pretendere che sia conforme ai nostri desideri, alle nostre fisime, ai nostri gusti (peraltro mutevoli) ed è invece piegarsi con attenzione a comprendere (che non vuol dire necessariamente giustificare) anche le sue corbellerie (o, almeno, quelle che a noi paiono tali), eventualmente sorridendone. Magari accadrà infatti che un giorno diventeranno norma e parametro di buon gusto». Chi, oggi, penserebbe male dell’articolo "il"? Eppure: «inorridirono sicuramente certi nostri lontani antenati quando videro crescere nella loro lingua l’onda travolgente dell’illu destinato a diventare l’articolo determinativo romanzo».
Data la giusta dimensione e prospettiva storica agli errori dei presunti incolti, La Fauci si dedica agli errori dei presunti colti, a cui riserva furie staffilanti e ironie a volte criptate. Obiettivo polemico principale, la linguistica contemporanea, quella accademica e soprattutto quella più influenzata da Noam Chomsky. Il celebrato lingui-star americano ha il torto di rivestire di tecnicismi (esempio: «componente computazionale») le più tradizionali partizioni grammaticali, già dichiarate inservibili dal vecchio Saussure. Per Chomsky ogni parola ha una funzione grammaticale (sostantivo, verbo...), e funge da componente della frase, a cui preesiste.
Per La Fauci, seguendo Saussure, non c’è un lessico, prima e fuori da una sintassi. Chomsky vuole farci credere che la teoria linguistica abbia pressoché raggiunto la perfezione. La Fauci è agli antipodi dello scientismo, tanto che congeda il lettore del suo Relazioni e differenze con un’acre asserzione: «Il cammino verso la conoscenza della lingua e verso la conoscenza dell’uomo deve ancora essere intrapreso».
Si era aperto, quel libro, con un’indicazione di metodo: «rationabilius», «in modo più razionale». La parola viene dal De vulgari eloquentia, il trattato di Dante sull’identità linguistica italiana. In un saggio su questo stesso tema, tanto dibattuto quest’anno, La Fauci mostra come tale identità, linguistica e non linguistica, sia plurale: il carattere unitario sta nel collettivo e reciproco riconoscimento che i diversi italiani si danno l’un l’altro.
Cercando l’«odorosa pantera» di un sistema nell’estrema varietà degli idiomi presenti in Italia, Dante capisce all’improvviso che non deve descriverla in un trattato ma mostrarne le movenze: e scrive la Commedia. La Fauci raccoglie la lezione e fa teoria dove molti linguisti si accontentano di osservare le pratiche, e spiegarle sulla base di presupposti indimostrati; ma dove gli stessi si appellano alla teoria, La Fauci privilegia invece la pratica. Il suo Relazioni e differenze è una sorta di varietà linguistico: ci sono capitoli per specialisti (come quello che memorabilmente si intitola "Paradossi della paratassi") e capitoli che andrebbero letti da chiunque si occupi di discipline umanistiche, come i novanta secchi paragrafi finali intitolati "Faccette di linguistica razionale". Non sono emoticon, quelle faccette: compongono il vastissimo poliedro che è la lingua, per La Fauci.
La lingua non è il gioco del Lego, non è cioè una combinatoria di elementi già dati, con i mattoncini dei fonemi che formano il mattone della parola e i mattoni delle parole che formano il muro della frase e la casa del discorso. Nella costruzione linguistica è il tutto (il contesto, la "sintassi" come disposizione degli elementi, la relazione) che dà senso alle singole parti.
In questo, il ritorno di La Fauci allo spirito originario dello strutturalismo è tanto radicale da risultare pressoché ereticale. Le parole non esistono perché quello che chiamiamo "parola" è l’esito finale (non l’inizio!) di un procedimento analitico, per capirlo basta pensare a quanta fatica facciamo a individuare le singole parole ascoltando parlare una lingua che non conosciamo. Nulla di ontologico, che abbia valore in sé, esiste nella lingua: tutto sorge dalla relazione, anzi da un processo di correlazione, perché la lingua è sempre nel suo farsi.
La linguistica razionale auspicata da La Fauci rifiuta il programma - classico per ogni intellettuale italiano - di rendere i parlanti migliori, perché lo ritiene presuntuoso; poi rifiuta anche il programma di rendere migliori almeno gli intellettuali, perché lo ritiene impossibile. Scettici sulla possibilità di capire, privi di ogni certezza, non possiamo però neppure essere sicuri che interrogarsi sia inutile. È per quello che continuiamo a farlo. «A me», annuncia Nunzio, «l’esperienza umana (e la scienza, che ne è parte importante) pare l’esperienza di un "sebbene", non quella di un "perché" o di un "affinché"». Alla fine quelle cose che non esistono e si chiamano parole, infatti, le sa scegliere molto bene.
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
«Dalla Patria alla Matria. Ecco perché è la lingua che ci ha fatto italiani»
Il linguista: Un Paese paradosso il nostro, cementato nelle pagine dei capolavori letterari. E solo più di mezzo millennio dopo la «Commedia» diventato uno Stato
di Maria Serena Palieri (l’Unità, 21.02.2011)
Massimo Cacciari dice che la sua devozione va non alla Patria, ma alla Matria. Cioè alla nostra madre lingua, l’italiano di Dante. E «il» linguista per antonomasia, Tullio De Mauro, stamattina al Quirinale parlerà appunto dell’Italia linguistica, dall’Unità alla Repubblica. Alla vigilia dell’incontro gli abbiamo rivolto alcune domande. A fronte dei 150 anni di Italia che festeggiamo oggi, ci sono, prima, sei secoli di storia di un popolo unito dalla lingua.
È un’eccezione tutta italiana? E da cosa nasce?
«La scelta del fiorentino scritto trecentesco a lingua che, sostituendo il latino, fosse lingua comune dell’Italia si andò affermando già nel secondo Quattrocento nelle nascenti amministrazioni pubbliche dei diversi stati in cui il paese era diviso e si consolidò poi tra i letterati nel XVI secolo quando sempre più spesso la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a dirsi italiano e non più fiorentino o toscano. Spingeva in questa direzione l’aspirazione ad avere una lingua nazionale come già avveniva nei grandi stati nazionali europei. Rispetto alle altre parlate italiane, alcune già illustri come il veneziano o il napoletano, il fiorentino scritto aveva il vantaggio di una grande letteratura di rango europeo, il sostegno dell’attiva rete finanziaria e commerciale toscana, una assai maggiore prossimità al latino, che era la lingua dei colti. A questi soltanto, fuori della Toscana, e con la sola parziale eccezione della città di Roma, restò limitata la scelta. Mancarono ancora per secoli quelle condizioni di unificazione politica, economica e sociale e di sviluppo della scolarità elementare che altrove in Europa portavano i popoli a convergere verso l’uso effettivo delle rispettive lingue nazionali. Firenze e Roma a parte, l’uso dell’italiano restò riservato a occasioni più formali e solenni e alle scritture di quell’esigua parte di popolazione che poteva praticarle e leggerle. Tuttavia la tradizione letteraria dei colti fu un filo importante nella vicenda storica. Nell’Italia preunitaria, scrittori, politici, patrioti da Foscolo a Cattaneo e Manzoni, alla diplomazia piemontese, poterono additare a giustificazione storica della richiesta di unità e indipendenza dell’Italia l’esistenza di un’unica lingua nazionale. Ma non mancarono mai di sottolineare il fatto che l’uso dell’italiano era allora assai ridotto. È un tema ricorrente».
Quali sono le conseguenze di questa storia «al contrario»?
«Senza riferimento alla lingua nazionale la stessa idea di unificare il paese e rivendicarne l’indipendenza forse non sarebbe nata».
Il 1861 quale tipo di Paese certificò, dal punto di vista linguistico?
«Il 78% della popolazione risultò analfabeta. La scuola elementare era poco frequentata e mancava in migliaia di comuni. L’intera scuola postelementare era frequentata da meno dell’1% delle classi giovani. Secondo le stime la capacità di usare attivamente l’italiano apparteneva al 2,5% della popolazione. Un valoroso filologo purtroppo scomparso ha rivisto questa stima al rialzo, suggerendo che la capacità di capire l’italiano appartenesse all’8 o 9%».
E 150 anni dopo?
«La scolarizzazione avrebbe potuto modificare la situazione del 1861. Ma, diversamente da quanto avvenne per esempio in Giappone, che negli stessi anni si avviava alla modernità e aveva condizioni scolastiche peggiori delle nostre, le classi dirigenti italiane puntarono su esercito e ferrovie, non sulla scuola. Alla fine del secolo il Giappone aveva portato alla piena scolarità elementare quasi il 100% della popolazione: in Italia siamo arrivati a questo soltanto negli anni sessanta del ‘900. Solo nel periodo giolittiano, a inizio ‘900, cominciò una forte spinta popolare all’istruzione, come riflesso della grande emigrazione verso paesi in cui leggere e scrivere era normale, e come conseguenza diretta del costituirsi di associazioni operaie e contadine e del Partito Socialista.
I governi Giolitti risposero positivamente, le spese per edilizia scolastica e stipendio dei maestri passarono dai comuni allo Stato. La scolarità cominciò a crescere e anche crebbe la quota di prodotto interno lordo destinato alla scuola. Ma il processo si bloccò prima per la Grande Guerra, poi, dal 1925 in poi, per tutto il periodo fascista.
-All’inizio del suo cammino la Repubblica italiana si ritrovò con il 59,2% di analfabeti e senza licenza elementare, con un indice di scolarità di tre anni a testa, a livello dei paesi sottosviluppati. E con il 64% di popolazione consegnata all’uso esclusivo di uno dei dialetti, mentre l’italiano era usato abitualmente da poco più del 10% della popolazione (inclusi i toscani e i romani) e in alternativa con i dialetti da un altro 20% o poco più. Uscire da questa situazione parve una necessità a persone com Pietro Calamandrei o Umberto Canotti Bianco, ma anche ai padri costituenti, chenel 1948 “costituzionalizzarono” l’obbligo scolsticon gratuito per almeno 8 anni (è l’art. 34 della Costituzione). Ma la scuola elementare e la media hanno stentato a decollare fino agli anni settanta.
La scuola ha fatto un lavoro enorme per sottrarre i figli e le figlie al destino di analfabetismo e mancata scolarità di padri e madri. Ha portato tutti i ragazzini alla licenza elementare negli anni settanta e ottanta, poi quasi tutti alla licenza media, infine, in questi anni, li ha portati per il 75% al diploma e alle porte dell’università. Ma non poteva cambiare da sola le strutture degli ambienti di provenienza degli allievi: la mancanza cronica di centri di pubblica lettura in oltre tre quarti dei comuni, la scarsa lettura di quotidiani, fermi, in percentuali di vendite, agli anni ‘50, la scarsa propensione alla lettura di libri. Per questa la parte femminile della popolazione, ha fatto moltissimo, assai più dei maschi, ma non basta». Nel gioco fra lingua e dialetti l’italiano è mai arrivato a essere “lingua di popolo”?
O è rimasto lingua d’élite?
«Oggi l’italiano è parlato dal 94% della popolazione, mai era stato tanto usato, solo il 6% resta ancorato all’uso esclusivo di uno dei dialetti. Ma la percentuale del 94% va sgranata e stratificata: il 45% parla abitualmente l’italiano anche tra le mura di casa, i l resto della popolazione lo usa in alternanza con uno dei dialetti o (per il 5%) delle lingue di minoranza. Ma attenzione, il multilinguismo, la persistenza di idiomi diversi non fa danno. Fa danno la dealfabetizzazione della popolazione adulta una volta uscita di scuola. Soltanto il 20% della popolazione ha gli strumenti minimi di lettura, scrittura e calcolo per orientarsi nella vita di una società moderna. La povera Mastrocola si agita per dire che dovremmo bloccare l’istruzione a 13 anni. Abbiamo invece bisogno di un grande sforzo collettivo di crescita culturale, qualche imprenditore comincia a capirlo, lo spiegano bene gli economisti e in un bel saggio recente Walter Tocci. Ma per ora la situazione è questa e un uso responsabile e sicuro della lingua è precluso a una gran parte del 94% che pure l’italiano ormai lo parla».
Dal 1954 in poi, l’italiano ce l’ha insegnato nostra maestra televisione. Oggi la tv sul piano linguistico e civile che effetti produce?
«Sì, con le grandi migrazioni interne, l’industrializzazione e la crescente scolarità delle fasce giovani, negli anni ‘50 l’ascolto televisivo fu decisivo per sentire l’italiano usato nel parlare. Dagli anni ‘90 la rincorsa alla pubblicità ha imbastardito le trasmissioni senza che vi siano sufficienti contrappesi, il calmiere di una informazione seria e diffusa, la lettura. Oggi lavoriamo molto nelle scuole per insegnare i ragazzi la regola della “presa di turno” nel parlare, Poi apri un qualsiasi talk show o il grande fratello e vedi che quella regola è calpestata senza ritegno». Che effetto fa al linguista una Minetti (laureata) che intercettata dice “Ne vedrai di ogni. Ti devo briffare”? «Studio le registrazioni solo per obiettivi professionali, quindi per campioni statistici, e quelle di Minetti non mi sono per ora capitate».
E che effetto ha fatto al linguista il Benigni che spiega l’Inno di Mameli?
«Un numero sterminato di anni fa, trenta, ricordo di avere cercato di spiegare che, come già per altri grandi comici, Totò anzitutto e Dario Fo, il comico di Benigni poggiava e poggia su una geniale intelligenza e una robusta, ampia base culturale. Benigni poi ci ha dato solo conferme. La sua “controlettura” dell’Inno di Mameli offre un modello raro e prezioso di come si debba e possa leggere la poesia, senza vibratini ed enfasi, come invece troppo spesso si fa. Di Benigni ricordo anche il memorabile discorso per l’avvio di pionieristici corsi di istruzione per gli adulti nel comune di Scandicci e la chiusa alta e paradossale, degna di Gramsci e don Milani: “Tutti vi dicono: fatti, non parole. E io vi dico invece: prima di tutto parole, parole, parole».
Una rivoluzione infinita
E la parola ci rese umani
Racchiusi nella mente infantile i segreti del linguaggio
di Edoardo Boncinelli (Corriere della Sera, 30.12.2010)
Probabilmente niente è più esclusivamente umano del linguaggio e niente conosciamo di più difficile da tenere separato dal nostro modo di vedere il mondo e vivere la nostra vita. Tutto quello che sappiamo e che riusciamo ad argomentare passa infatti per la nostra capacità di concettualizzare e di parlare.
Non sappiamo quando il linguaggio sia comparso nella nostra storia naturale, ma siamo in molti a pensare che da allora niente è stato più come prima. È stato molto probabilmente «un evento improvviso ed emergente» alla base di quello che qualcuno ha chiamato «il Grande Balzo in Avanti» della nostra storia, perché si ritiene da parte di molti che il linguaggio sia «virtualmente sinonimo di pensiero simbolico» .
La sua conquista è un evento unico nella nostra evoluzione come specie e nella nostra personale esistenza individuale. Ma quali sono i suoi tratti essenziali e su quali fondamenti si appoggia? A nessuno è mai sfuggita l’importanza del linguaggio, ma solo oggi il suo studio, coincidente almeno in parte con l’avanguardia della linguistica contemporanea, ha raggiunto una sua maturità e sta probabilmente per dare i suoi frutti migliori.
Sono più di cinquant’anni che la linguistica è stata rivoluzionata e posta su nuove basi dalle idee di Noam Chomsky, il massimo linguista vivente e un grande indagatore delle profondità della nostra mente e dello spirito. Di lui è appena uscito Il linguaggio e la mente (Bollati Boringhieri), che riassume un po’ tutto il tragitto del suo pensiero sull’argomento. Si tratta in realtà della recente, terza, edizione di un’opera ormai classica che ebbe la sua prima edizione nel 1968 e che può essere utilizzata come filo conduttore per l’esposizione del pensiero di Chomsky e per fare, attraverso questo, il punto sullo stato dell’arte dello studio del linguaggio e del suo rapporto con il funzionamento della mente.
Il libro consta di tre parti, concettualmente se non tipograficamente: un inquadramento storico della disciplina, un’esposizione della visione chomskyana della struttura del linguaggio e una sua valutazione dei rapporti fra lo studio del linguaggio e lo studio della mente stessa. È ovvio che la parte più estesa e più interessante debba essere la seconda.
Chi sappia poco o niente della linguistica contemporanea può trovare qui una sua mirabile esposizione, priva di tecnicismi e virtualmente estranea allo slang specialistico. È questa la parte più vitale e duratura del contributo di questo autore, ma io mi voglio concentrare invece su alcuni punti della terza parte, che contiene secondo me aspetti stimolanti e contraddittori.
Molte persone ritengono che il contributo storico specifico di Chomsky sia stato quello di tentare di persuaderci che il linguaggio è una nostra facoltà innata, così che tutti parliamo essenzialmente la stessa lingua, anche se moltissime sue caratteristiche specifiche sono inevitabilmente apprese, e danno delle idee di Chomsky stesso un giudizio positivo o negativo a seconda che condividano o meno questo assunto. Ciò è molto curioso, perché a me, biologo, la cosa sembra così pacifica che non valga nemmeno la pena che qualcuno la affermi: come potrebbe essere che il linguaggio - che tutti impariamo, che tutti impariamo alla stessa età ed essenzialmente con le stesse modalità e che rappresenta una nostra caratteristica e necessità irresistibile - non abbia una solida base biologica radicata nei nostri geni?
Come ho detto, non mette nemmeno conto di parlarne, se non per studiarne le modalità e soprattutto il suo sbocciare in tutti i bambini del mondo di tutte le epoche, indipendentemente dalla loro condizione culturale e sociale.
Ma il paradosso è poi rappresentato dal fatto che il nostro autore non è tenero con alcuna forma di riduzionismo e in questo libro in particolare si mostra sostanzialmente, benché forse inconsapevolmente, pessimista sulla riducibilità anche futura dello studio del linguaggio allo studio del cervello e della mente.
Nell’ultimo capitolo del libro Chomsky va direttamente a toccare tali temi occupandosi di «Biolinguistica e capacità umane» . Due osservazioni. Appoggiandosi ad una citazione di Bertrand Russell del 1929, secondo cui la chimica non può essere ridotta alla fisica, il nostro autore liquida per sempre un approccio riduzionista, si intende al linguaggio, anche se non lo dice esplicitamente.
L’esempio capita proprio a proposito. Se è vero che ogni grande investigatore delle forme di pensiero è fiero di studiare il suo tema iuxta propria principia ed è tentato di farne una disciplina autonoma, è proprio l’esempio della chimica che mostra i limiti del tentativo. Se un chimico oggi volesse dedurre tutti i fenomeni chimici basandosi solo su quel capolavoro dello spirito umano che è il sistema periodico degli elementi, o tavola di Mendeleev, incontrerebbe serie difficoltà, fingendo di ignorare l’esistenza del nucleo atomico e degli elettroni.
Così oggi forse continuare a scavare esclusivamente dentro e intorno alla grammatica generativa trasformazionale e alle sue varianti è come tentare di fare del sistema periodico la stele di Rosetta del linguaggio e del suo uso. Una grande, forse insormontabile, difficoltà nello studio del linguaggio è data poi dal fatto che noi non nasciamo parlando, ma acquisiamo l’uso del linguaggio durante un lungo periodo della nostra infanzia del quale non siamo assolutamente coscienti e che lascia nel cervello stesso una traccia sconvolgente e indelebile.
Nessuno può sapere che cosa succede allora nel nostro cervello ed è arduo persino cercare di immaginarlo. Non si può, in sostanza, capire il linguaggio osservando il cervello adulto, occorre studiarne la genesi nel tempo senza incorrere nell’errore, per tanto tempo portato avanti, che i bambini siano adulti in miniatura. L’arrivo del linguaggio è stato rivoluzionario ed epocale nella nostra storia evolutiva, ma lo è anche nella nostra storia personale.
"In principio c’era la parola?", un pamphlet di Tullio De Mauro
Quando la lingua ci fa uguali
di Francesco Erbani (la Repubblica, 9.11.2009)
Basterebbero due parole, bu e ba, diceva il padre della linguistica moderna Ferdinand de Saussure, per fare una lingua. Bu e ba, aggiungeva, si dividerebbero tutti i significati possibili di cui avrebbe bisogno la comunità che con quella lingua si esprimesse. Era un paradosso. Ma neanche tanto, scrive Tullio De Mauro in In principio c’era la parola? (Il Mulino, pagg. 77, euro 9). Quell’annotazione fu considerata una bizzarria da chi mise insieme il Corso di linguistica generale, l’opera più importante di Saussure ricostruita sulla base delle sue lezioni a Ginevra. E infatti fu cassata. Per fortuna, grazie allo stesso De Mauro, di quel testo, che è all’origine della filosofia del linguaggio novecentesca, questa e altre parti sono state recuperate.
E questa è una parte molto importante nella natura di una lingua: sta a indicare che una lingua non è un sistema chiuso. Ha le sue regole, ma fra le regole fondamentali c’è che deve funzionare, cioè deve consentire alle persone di capirsi. Ed ecco perché, sottolinea De Mauro, il paradosso del bu e del ba rende evidenti i nessi fra lingua e società e, per altro verso, definisce quanto, attraverso l’elasticità di una lingua, ci si comprenda anche fra diversi. Con buona pace, scrive il linguista, di chi propone classi-ponte o direttamente classi-ghetto «per immigrati o meno dotati: un’idea non condivisibile, per non dire che è un’idea sciagurata».
L’adattabilità di una lingua è dimostrata dalla sua "onnipotenza semiotica" - come diceva un altro grande linguista, Luis Prieto. Una lingua ha una capacità illimitata di designare oggetti e concetti, può estendersi all’infinito esattamente come - riprendendo il paradosso di Saussure - può ridursi al minimo. Qualunque cosa è dicibile in una lingua, non solo grazie alle parole che la compongono, quelle vecchie e quelle che si possono creare (e tante, tantissime se ne creano in questi ultimi tempi), ma anche grazie alle innumerevoli possibilità combinatorie, oppure all’uso delle stesse parole in contesti diversi, che di per sé amplia i confini di una lingua (De Mauro fa l’esempio di parole come aria, forza, valore). O grazie alla grammatica. O, ancora, grazie a quello che si chiama metalinguaggio: la capacità che ognuno di noi ha di parlare della propria lingua, di dare e di condividere definizioni di parole. Come nel caso, suggerito da De Mauro, del romano che in un bar di Milano chiede un cornetto senza sapere che per i milanesi il cornetto è un fagiolino, mentre a Roma è una brioche. Un caso di incomunicabilità? Niente affatto: spiegando che cosa intende per cornetto, il romano riuscirà a farsi capire e il barista milanese sarà in grado di servirlo.
La condivisione di un senso, costruita attraverso la lingua, è indice di un legame all’interno di una comunità, che molto sarebbe piaciuto a don Lorenzo Milani. Ed è una esemplare operazione metalinguistica. Ma è anche il modo per dare attuazione nientemeno che a uno degli articoli fondamentali della Costituzione italiana, il numero 3, il quale stabilisce che tutti i cittadini abbiano pari dignità e siano uguali davanti alla legge senza distinzioni, fra le altre cose, di lingua.
Silenzio e parola, quale confronto? Dai Vangeli ai film di Dreyer
Roma Da oggi a sabato all’Augustinianum antichisti e teologi di varia provenienza si confrontano su un tema rilevante già ai tempi della Patristica
DI VITTORINO GROSSI (Avvenire, 06.05.2010)
I l XXXIX Incontro di studiosi dell’Antichità cristiana dedica, nella sede dell’Augustinianum, una tre giorni di studio interdisciplinare (da oggi a sabato 8 maggio) al tema del rapporto tra «Silenzio e Parola » nella patristica. Il tema, tipicamente moderno, trovò spazio nell’evo patristico sia all’interno del cristianesimo sia nel contesto culturale della tardantichità.
In ambito moderno il linguista svizzero Ferdinand De Saussure, nel suo Corso di linguistica generale, introdusse la distinzione tra lingua e parola, dando alla lingua il campo del sociale e alla parola l’ambito individuale. Il regista Carl Th. Dreyer, un decennio dopo la seconda guerra mondiale (nel 1955), portò sullo schermo il film La parola (Ordet in danese, rielaborazione dell’omonimo dramma di Kay Munk), facendo riemergere la parola come creatività rispetto alle parole di consumo: «Dammi la parola... la parola che risuscita i morti», grida a Cristo il folle Johannes, chiedendogli di risuscitare Inger morta il giorno prima del parto. E lei, chiudendo la scena del film, si risvegliò. Quanto al ’silenzio’, le filosofie d’intonazione positivista hanno voluto confinarlo nel campo dell’irrazionale, opponendo mito e logos, esperienza religiosa visionaria e logica razionale e scientifica.
La ’parola’ nella religione ebraicocristiana è legata alla rivelazione di Dio nella parola e nella parola incarnata (Gesù Cristo). Tale connaturalità produsse nel cristianesimo antico testi letterari di ogni tipo: sermoni per la predicazione, commenti esegetici, opere teologiche, testi per le riunioni liturgiche.
Il ’silenzio’ dal canto suo è connaturale alla ’parola’ cristiana perché questa ha coscienza di non essere in grado di dire più di tanto di Dio e del Verbo incarnato. La parola cristiana, circoscritta e finita, indica perciò il proprio limite proprio col silenzio (chiamato dai greci apofatismo, vale a dire stare davanti a Dio senza parola).
Gli autori cristiani del periodo patristico si servirono pertanto del rapporto ’parola- silenzio’ come chiave di lettura della loro religione facendone una funzione irrinunciabile: dal narrare il silenzio primordiale di Dio da cui scaturì la parola, cioè il Logos, attraverso il quale Dio, ’dicendo’, chiamò all’essere il cosmo; alla parola rivolta ai patriarchi di Israele e a Mosè sul monte Sinai; alla Parola che, uscita dal seno del Padre, si è fatta carne (il Verbo incarnato); alla parola della rivelazione divina consegnata alla Chiesa, ovvero alle prime comunità cristiane che, nel predicarla e nello sforzo di capirla, la fecero letteralmente esplodere in un fenomeno letterario divenuto popolare e a noi rimasto come ’testimonianze patristiche’.
Gli interventi al convegno di cristianistica quest’anno non saranno pochi, tra i quali quelli di Salvatore Lilla (Biblioteca Vaticana) su ’Il silenzio nella filosofia greca’; Jean-Noel Guinot (Lyon) su ’Dai silenzi delle sacre Scritture al silenzio dell’esegeta’; Thomas Graumann (Cambridge) su ’Il silenzio negli Atti dei concili della Chiesa antica’; Renate Pillinger ( Wien) su ’Parola e silenzio nell’arte paleocristiana’; Grazia Crepaldi (Padova) su ’Il silenzio dell’intelletto’.
Primi vagiti
Alla nascita sappiamo già la lingua
I neonati «strillano» con l’intonazione della lingua parlata dai genitori
di Luigi Ripamonti (Corriere della Sera/Salute, 08.11.2009)
Forse è vero che non si finisce mai di imparare, ma certamente si inizia molto prima di quanto si creda. A confermarlo ci pensano due studi su apprendimento e intelligenza fetali. Il primo arriva dall’università di Würzburg, e, forte dell’analisi di 60 neonati francesi e tedeschi, postula che i futuri bambini abbiano un ottimo «orecchio» ben prima di vedere la luce. Talmente buono da assimilare l’intonazione della voce dei propri genitori sin dal terzo trimestre di gestazione e da imparare a imitarla coi propri vagiti. In altre parole i neonati tedeschi, una volta nati, strillerebbero con un’intonazione decrescente «teutonica», mentre quelli francesi si farebbero sentire «in levare», riproducendo in qualche modo l’inflessione della lingua d’oltralpe. Solo una curiosità? Niente affatto, perché il rilievo confermerebbe altri studi che indicano quanto i bambini siano sensibili agli stimoli provenienti dal mondo esterno, linguaggio compreso.
Il secondo studio sulle «facoltà intellettuali precoci» del feto è invece firmato da Irena Nulman dell’Hospital for Sick Children di Toronto, e può consolare le mamme maggiormente vessate dalle nausee gravidiche. Secondo la ricerca, infatti, il disturbo in questione potrebbe essere il segnale che il bebè è destinato ad avere un alto quoziente di intelligenza.
Per arrivare a questa conclusione la dottoressa Nulman e i suoi colleghi hanno eseguito vari test su tre gruppi di bambini tra i 3 e i 7 anni e fra questi, quelli le cui mamme avevano sofferto di nausea durante la gestazione hanno dimostrato in vari ambiti cognitivi (linguistico, matematico etc) performance migliori. Non si sa da che cosa dipenda questa correlazione, ma è certo che i bambini più ’vivaci’ si fanno sentire molto presto. E magari quelli meno «sopportabili» sono quelli che daranno le maggiori soddisfazioni
IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO .... MA DA CHI?! Alcune note a margine dell’incontro dei cattolici del 16 maggio di Firenze
di Federico La Sala
Ma da chi, avete ricevuto questo “vangelo” che predicate?!
Certamente non da Gesù: egli è “venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità”. E certamente non avete ascoltato la sua voce: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv., 18.37).
Ma da chi, avete ricevuto questo “vangelo” che predicate?! A quale tavolo vi siete seduti, e con chi?!
Certamente non da Gesù e certamente non con Gesù: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo" (Mt. 26:26); “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi" (Gv. 6:53).
DALLA PRIMA LETTERA DI GIOVANNI:
CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE ... DEUS CHARITAS EST
CARISSIMI, NON PRESTATE FEDE A OGNI SPIRITO ... DIO E’ AMORE (1Gv., 4. 1-16).
In verità, se siete capaci di intendere e di volere, il vostro “vangelo” è il “van-gelo” del “latinorum”, dei don Abbondio e dei don Rodrigo ... dei “Papi” di oggi, e di Ratzinger!!! E il vostro Padre è “Mammona” (“Caritas”)!!! E’ ora di svegliarsi - al di là del disagio e del dissenso!!! Avete ricevuto e predicate un “van-gelo”, gelido e mortifero che non ha nulla a che fare con la buona-novella (eu-angelo), il messaggio evangelico!!!
Il teologo Ratzinger scrive da papa - senza grazia (“charis”) e senza “h” (acca) - una enciclica sul “Padre nostro” (“Deus charitas est”: 1 Gv. 4.16) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo - nonostante l’Anno della Parola e il Sinodo dei Vescovi (2008).
Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!! Benedetto XVI: Deus caritas est, 2006 d. C.!!!
Su questa base, in un tempo (con che segni!) in cui i Papi si confondono con i “Papi” e il Papa in persona parla del Padre Nostro (Deus charitas) come “Mammona” (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2006) e con tutta la gerarchia vaticana appoggia il cavaliere “Papi della Patria” (come già ieri il cavaliere “Uomo della Provvidenza”), il discorso “per una chiesa della fraternità” e della sororità (G. Ruggieri, Relazione: Il Vangelo che abbiamo ricevuto), se non è da conniventi, è quantomeno ... da sonnambuli!!!
Se è vero, come è vero, che “i suoni emessi con la voce sono simboli (sùmbola) delle passioni (pathémata) dell’anima, ed i segni scritti sono simboli dei suoni emessi dalla voce”( Aristotele, De Interpretatione, 16a), ciò significa che le passioni che si agitano nelle vostre anime non dicono affatto del messaggio evangelico .... E che la vostra tradizione - falsa e menzognera - semplicemente non ha più (se mai l’ha avuto) nessun rapporto con la tradizione evangelica, e “simbolica” !!!
E la proposta di ogni “prassi sinodale” sotto il vostro controllo ... è solo un’operazione per vendere a caro-prezzo (“caritas”) la grazia del vostro Dio Mammona (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2006 d. C.)!!!
Io sono la Via, la Verità, la Vita... Il vostro “vangelo” è una parola ingannevole e un cibo avvelenato, che non ha nulla a che fare con la Lettera e lo Spirito del messaggio di Gesù Cristo, il figlio del Dio Vivente.
La disputa su lingue e dialetti ripropone il tema delle patrie molteplici
L’identità è una matrioska: somma di incontri e storie
Il senso di appartenenza e il dialogo con le diversità Vivere le radici è l’opposto del localismo folcloristico
L’anarchia spirituale, come il matrimonio all’interno dello stesso gruppo sociale, produce malformazioni fisiche e culturali
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 07.09.2009)
Le dispute agostane sui dialetti e gli inni nazionali o locali possono essere tutte sfatate da una lapidaria riflessione di Raffaele La Capria sulla differenza tra essere napoletani e fare i napoletani.
Essere napoletani - o milanesi, triestini, lucani - significa sentirsi spontaneamente legati al luogo natio in cui ci si è rivelato il mondo, amare i suoi colori e sapori che hanno segnato la nostra infanzia, parlare il suo linguaggio - lo si chiami o no dialetto - indissolubilmente legato alla fisicità delle cose che ci circondano e alla loro musica; pastrocio , per me triestino, non sarà mai la stessa cosa del suo equivalente «pasticcio».
Fare i napoletani o i lombardi falsifica questa spontanea autenticità in un’artificiosa e pacchiana ideologia, aver bisogno di farsi fotografare sullo sfondo del Vesuvio o di inventarsi antenati celti, indossare qualche pittoresco e patetico costume folcloristico per mascherare l’insicurezza della propria identità. Chi sproloquia sui dialetti contrapponendoli all’italiano inquina la loro naturalezza, degrada la loro poesia a posa.
Il dialetto è una peculiarità fondamentale e ben lo sa chi, come me, lo parla correntemente ogni giorno a proposito di qualsiasi argomento, ma spontaneamente, non per rivendicare qualche stupida identità gelosamente chiusa, pronta ad alzare il ponte levatoio per difendere la propria sbandierata purezza. L’autarchia spirituale, come l’endogamia, produce malformazioni fisiche e culturali. La diversità è creativa solo quando, nell’affettuoso riconoscimento di se stessa, si apre al riconoscimento e all’amore di altre diversità, egualmente necessarie al mosaico del mondo e alla varietà della vita. La verità umana è nella relazione, in cui ognuno cresce e si trasforma senza snaturarsi, ha scritto Édouard Glissant, esortando a non sprofondare le radici nel buio atavico delle origini bensì ad allargarle in superficie, come rami che si protendono verso altri rami o mani che si tendono per stringerne altre.
Per parafrasare un celebre detto di Dante, l’amore per l’Arno - ossia per il luogo natale - e quello per il mare, patria universale, sono complementari. Il rullo compressore dei nazionalismi centralisti che ha spesso schiacciato le peculiarità e le autonomie locali è inaccettabile, ma lo è altrettanto il rullo compressore dei micronazionalismi locali, pronti a schiacciare le minoranze ancor più piccole viventi al loro interno. L’ipotesi del friulano quale lingua scolastica ufficiale aveva messo subito in allarme, a suo tempo, la minoranza bisiaca parlante bisiaco (peraltro non troppo dissimile) che vive nel Friuli-Venezia Giulia.
Una distinzione fra lingua e dialetto è scientificamente insostenibile; sappiamo benissimo, ad esempio, che il friulano ha una sua compiuta organicità, strutturale e storica. Non so se ciò renda necessario insegnare l’inglese o la fisica in friulano e non credo che per questo i miei avi, i miei nonni e mio padre, friulani, mi considererebbero un rinnegato. Diversi sistemi linguistici hanno diverse possibilità, egualmente importanti ma appunto differenti. Una delle più universali liriche che io abbia mai letto - l’ho riportata tempo fa sul «Corriere» - è una poesia di dolore per la morte di un bambino, creata da un ignoto poeta Piaroa, un gruppo di indios dell’Orinoco che quarant’anni fa erano soltanto tremila e forse - non lo so - oggi sono estinti.
Quella poesia è degna di Saffo (che peraltro scriveva in dialetto eolico) o di Saba; non credo tuttavia che in lingua Piaroa si possano scrivere La critica della ragion pura, le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni o la Commedia.
Ciò non significa negarle universalità, bensì prender atto di diverse possibilità e modalità di esprimerla. Herder, lo scrittore tedesco contemporaneo di Goethe, scorgeva in Omero e nella Bibbia la creatività aurorale e perenne della poesia, ma la trovava pure nell’anonima canzone popolare lettone ascoltata alla festa del solstizio d’estate.
Ogni luogo - come dice Alce Nero, guerriero Sioux e grande scrittore analfabeta - può essere il centro del mondo, piccolo o grande esso sia, molti o pochi siano i suoi abitanti - come i Sorbi che sono andato a visitare in Lusazia, i Cici o istroromeni che secondo l’ultimo censimento erano 822, un popolo a un terzo del quale ho stretto la mano, o gli abitanti di Wyimysau, un paesino in Polonia, che parlano una lingua unicamente loro. L’elenco potrebbe continuare a lungo, anche se di continuo muore qualche lingua, soggetta come gli uomini alla caducità. Ma il piccolo non è bello in quanto tale, come vuole un retorico slogan; lo è se rappresenta e fa sentire il grande, se è una finestra aperta sul mondo, un cortile di casa in cui i bambini giocando si aprono alla vita e all’avventura di tutti.
L’identità autentica assomiglia alle Matrioske, ognuna delle quali contiene un’altra e s’inserisce a sua volta in un’altra più grande. Essere emiliani ha senso solo se implica essere e sentirsi italiani, il che vuol dire essere e sentirsi pure europei. La nostra identità è contemporaneamente regionale, nazionale - senza contare tutte le vitali mescolanze che sparigliano ogni rigido gioco - ed europea; del nostro Dna culturale fanno parte Manzoni come Cervantes, Shakespeare o Kafka o come Noventa, grande poeta classico che scrive in veneto. È una realtà europea, occidentale, che a sua volta si apre all’universale cultura umana, foglia o ramo di quel grande, unico e variegato albero che era per Herder l’umanità.
I tromboni del localismo non possono capire la poesia, la potenziale universalità del dialetto. Sviluppando un’intuizione di Croce, Marin, notevolissimo poeta in gradese, distingueva «poesia in dialetto» e «poesia dialettale». La prima è semplicemente poesia tout court , che può essere anche grandissima esprimendosi nella lingua che le è congeniale, il veneziano di Goldoni o il viennese di Nestroy. La seconda è priva di universalità, è legata all’immediatezza vernacola e viscerale della peculiarità locale e incapace di toccare il cuore di chi non partecipa di quella peculiarità. Pure essa può essere molto simpatica nella sua colorita vitalità, ma non è poesia. Peraltro pure questa sua vitalità viene profanata dai cultori del geloso localismo, che senza volerlo la ridicolizzano nelle loro pretese di purezza originaria, come l’acqua del Po versata nel Po, non consigliabile da bersi.
C’è e c’è stata una sacrosanta rivendicazione del dialetto quale espressione di classi subalterne e sfruttate, tenute a lungo lontane dalla cultura nazionale dominante e per tale ragione iniquamente disprezzate da chi le aveva ridotte in tale condizione. C’è, fra le tante, un’incisiva testimonianza di Guido Miglia, lo scrittore istriano scomparso non molto tempo fa, che visse la drammatica esperienza dell’esodo dalla sua terra, alla fine della seconda guerra mondiale, da italiano che amava il suo paese senza indulgere ad alcun pregiudizio antislavo. Miglia ricorda come, quando insegnava nell’interno dell’Istria, ci fosse fra i suoi scolari uno che sapeva dire soltanto pasculat , perché portava le greggi al pascolo, ed era perciò tagliato fuori dall’istruzione scolastica.
Come ha capito don Milani a Barbiana, agendo in conseguenza, anche chi sa esprimersi solo con il linguaggio del suo elementare vissuto quotidiano si esprime fondandosi su un’esperienza reale e può dunque possedere una reale ancorché semplice cultura, capace di unire con istintiva coerenza la propria vita, la propria visione del mondo e i propri giudizi sul mondo. Tale cultura, anche se poco autoconsapevole ma vissuta con tutta la propria persona, può essere più profonda di quella più sofisticata ma orecchiata senza essere fatta veramente propria. Una pretesa cultura «alta » che ricacci brutalmente in basso quelle linfe - da cui nasce ogni cosa e da cui è nata quindi anch’essa - è ottusamente prevaricatrice, e lo è pure un’egemone cultura centralista che comprima le diversità locali che hanno contribuito e contribuiscono a formarla, così come - Dante insegna - i diversi volgari d’Italia hanno costruito il volgare italiano. Reprimere questi vitali processi è non solo ingiusto, ma anche autolesionista.
Il ragazzino inizialmente capace di dire soltanto pasculat dev’essere compreso nelle ragioni storico-sociali che lo hanno emarginato e aiutato a riconoscere se stesso e a conservare in sé le linfe elementari di quel pasculat . Ma, come Gramsci insegna, egli va soprattutto aiutato a innestare quelle linfe in una realtà intellettuale più ampia, aiutato a capire il mondo e la propria stessa arretratezza e dunque a combattere questa ultima. Chi vagheggia culture «alternative«, dialettali o altre, favorisce la discriminazione sociale e ostacola il cammino di chi vuol emergere dal buio. Il dialetto non può essere usato regressivamente in opposizione alla lingua nazionale. Gramsci auspicava che il «popolo» si riappropriasse della cultura alta e magari del latino, che aiuta a capire la complessità del mondo e a non lasciarsi fregare. Ma il dialetto che esprime la sanguigna resistenza quotidiana al potere è l’opposto del folclore dialettale ostentato e compiaciuto, servo e strumento del potere e talora crassa espressione di potere. Chi fa il napoletano è il peggior nemico dei napoletani.
Michael C. Corballis e Philip Lieberman ribaltano molti dati e inquadrano il linguaggio al termine di un processo evolutivo a lungo dominato dai gesti
E l’uomo un giorno incominciò a parlare
Così gli organi della respirazione e deglutizione sono stati «riconvertiti»
di Sandro Modeo (Corriere della Sera, 23.03.2009)
Le muraglie più resistenti, a livello di pregiudizio culturale, sono spesso le più eteree e impalpabili. Così per il linguaggio umano, unicum dell’universo che Cartesio riteneva spiegabile solo come «dono divino»; e che i «neocartesiani» - costellazione vasta e composita, comprensiva di filosofi, linguisti e psicanalisti - continua a inquadrare più o meno come un’entità platonica e astratta, irriducibile alla matassa prosaica del nostro cervello.
Un libro dello psicologo australiano Michael C. Corballis, uscito nel 2002 e appena tradotto da Raffaello Cortina, intitolato Dalla mano alla bocca, può servire non solo a rovesciare la prospettiva, inquadrando nel linguaggio umano uno degli esiti più complessi dell’evoluzione, ma rilancia anche un’ipotesi audace (abbozzata già da Étienne Bonnot de Condillac) che vedrebbe nella parola l’approdo conclusivo di un percorso a lungo dominato dalla gestualità, e per un tratto connotato dal condominio delle due modalità comunicative, come mostrerebbe la nostra abitudine «residuale» di gesticolare conversando, anche al telefono.
Corballis articola la sua tesi per sequenze incalzanti. Vede nell’acquisizione della postura bipede, intorno a 5 o 6 milioni di anni fa (non si sa se in un habitat di savana crescente, con nuove pressioni di fuga e predazione, o in siti semiacquatici, con la camminata conseguente al nuoto) la possibilità di «liberare» gli arti superiori incanalandoli verso la prensione e il lancio, premesse per un salto di manualità tecnologica.
Quindi, individua nella «lateralizzazione» emisferica cerebrale a sinistra - specie nella famosa «area di Broca» - la svolta neuroanatomica decisiva nella scrematura delle funzioni comunicative, in quanto responsabile sia delle «vocalizzazioni» di tante specie animali (da quelle delle scimmie a quelle vertiginose degli uccelli), sia, appunto, del linguaggio gestuale umano, sviluppato a partire da schemi basici quali «l’additare» (per esempio un nemico, una belva, un compagno).
E infine, delinea la genesi della parola (anticipata da ansiti e grugniti) e la sua emancipazione dal gesto dopo dettagliati mutamenti anatomici e neurofisiologici, in un processo graduale giunto a compimento circa 175 mila anni fa: l’abbassamento della laringe, l’allungamento del tratto sopralaringeo e le modificazioni cerebrali (non solo quantitative) legate alla necessità di leggere e decifrare un ambiente carico di nuove e diverse pressioni selettive.
Secondo Corballis, insomma, a un certo punto la matrice «iconica» del linguaggio gestuale (che pure può coprire molte sfumature espressive, come mostrano i 4.500 segni impiegati dai sordi) ha dovuto lasciare il passo a quella «simbolica » della parola, coi suoi molteplici vantaggi adattativi: l’arbitrarietà (e quindi la maggior precisione, per esempio nel nominare frutti e animali), l’impiego al buio e a distanza (capitale nel comunicare stati di allarme) e, viceversa, la graduazione fonetica (il sussurro per non farsi udire).
Ma - ecco il punto - l’incontestabilità di questa successione filogenetica gesto-parola, per Corballis, sarebbe dimostrata dalla controprova ontogenetica del linguaggio infantile: i bambini, infatti - nella loro poderosa scrematura costruttiva, con 10-15 mila vocaboli acquisiti tra l’anno e mezzo e i cinque anni, cioè uno per ogni ora di veglia - impiegano i gesti due o tre mesi prima delle parole.
Per quanto corretto (e seducente) nel dimostrare la sua tesi, Corballis è però parziale nel rendere le origini del linguaggio nell’insieme. Un’utile integrazione viene così da un libro (2006) di Philip Lieberman, docente di scienze cognitive alla Brown University: Toward an Evolutionary Biology of Language («Verso una biologia evoluzionistica del linguaggio», da tradurre al più presto).
Infoltendo e affinando i risultati dei lavori precedenti, Lieberman condivide con Corballis la svolta «cronologica» del linguaggio umano (intorno a 150 mila anni fa), valutandola però più come un’accelerazione in cui diverse strutture fisiologiche preesistenti (cerebrali in particolare) si «riconfigurano» interagendo tra loro in rapporto ai nuovi stimoli, ed esaltando così la facoltà ricombinatoria di quello che François Jacob chiamava il «bricolage» evolutivo. Lo mostra bene - motivo accennato anche da Corballis - la conversione di organi deputati a funzioni primarie quali la deglutizione o la respirazione (dalla lingua alla laringe stessa) in strumenti di emissione e articolazione della parola.
Sono due, per Lieberman, i passaggi decisivi. Il primo è l’incidenza linguistica del cervello antico o «rettiliano», coi «gangli basali» deputati a molte funzioni motorie umane (camminare, correre, danzare, ma anche alla coordinazione delle zampe negli insetti o al trotto-galoppo nei cavalli), dalle quali si sarebbe sviluppata una «sintassi di base», ovviamente in interazione con aree sensoriali-cognitive della corteccia (Broca e Wernicke incluse) e con la memoria (nell’ippocampo). Prova di tale incidenza sono i malati di Parkinson, il cui deficit di dopamina nei gangli basali comporta disturbi cinetici, sintattico- verbali e cognitivi (pensiero rallentato).
Il secondo passaggio è l’azione del gene regolatore FOXP2, a partire, forse, da 100 mila anni fa: gene non specifico dell’uomo (si trova in topi e scimpanzé) né del cervello (viene espresso anche nei polmoni), ma decisivo nel coordinare una dinamica, fondata proprio sui gangli basali, alla base dell’elaborazione del linguaggio. Tutti e due i casi confermano nell’evoluzione (nella selezione) un processo ad altissima flessibilità, in cui ogni struttura - insieme generale e specifica - è coinvolta in più funzioni con ruoli variabili (ora prevalente, ora gregaria, ora addirittura inibita e silente), così come uno strumento, in un’orchestrazione, può essere voce solista, parte della polifonia o «in pausa».
Correggendo e integrando Corballis (vedi la notevole analisi su come il cervello discrimini suono e senso di una voce dall’intricato spettro di segnali acustici del mondo esterno), Lieberman ne rinsalda alla fine le acquisizioni polemiche: sull’inesistenza, per esempio, di una «grammatica universale», smentita sia a livello di linguaggi «segnati» (spesso molto diversi tra loro) sia a livello di lingua parlata (ci sono lingue, come il dialetto indonesiano Riau, che non distinguono nomi, verbi, aggettivi). E più estesamente, i due libri vedono nel linguaggio - sottratto a ogni dimensione trascendente - una lenta, laboriosa conquista del sapiens per riuscire a comunicare, anche a se stesso, i paesaggi emotivi e cognitivi, consci e inconsci, estesi nel rapporto tra il cervello e il mondo.
Conosciamo il giuramento come pertinente alla sfera del sacro e in seguito come istituto giuridico per lo studioso si tratta di una storia che in origine riguarda la parola
Le cose sono molto cambiate nel corso dei secoli e oggi si vive senza un patto giurato
In principio l’atto del giurare mette la lingua umana in relazione con quella divina
Quando si dice lo giuro
Un saggio di Giorgio Agamben
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 19.12.2008)
La molla intellettuale comune a molta parte delle ricerche di Giorgio Agamben è l’interesse per l’archeologia dell’essere umano, archeologia non come risalita della corrente del tempo verso le origini, ma come scoperta di principi costitutivi e fondativi: arcani, da arké, per l’appunto. C’è molta differenza tra queste ricerche e, per esempio, quella che si potrebbe dire di antropologia filosofica elementare di un Arnold Gehlen, in Italia noto soprattutto per il suo volume tradotto da Feltrinelli nel 1983, col titolo L’uomo. Qui si sviluppa un nucleo concettuale, l’idea dell’essere umano come eccesso di pulsioni che si "istituzionalizza" per tenerle sotto controllo e, su questa idea, si compone un sistema. Questo accenno serve per differenza. In Agamben, è il contrario. Egli, per così dire, segue segni e tracce, dovunque si trovino: certo nella preistoria o ultra-storia, nella storia e perfino nella "poststoria", ma anche nella filosofia, nella filologia, nella linguistica, nella teologia, nella politica, nella fisiologia, nella psicologia, nell’arte e perfino nel diritto. Insomma, un seguire le piste che conducono dovunque si possa trovare qualcosa di utile. Per muoversi così, occorre illimitata curiosità unita a eccezionale vastità del sapere. In ogni caso, sono travolte le consuete divisioni disciplinari accademiche, onde definire Agamben un "filosofo" è certo riduttivo.
Il risultato, secondo il titolo di un suo volume del 2003, è L’aperto, l’essere umano indefinito che viene definendosi, mai definitivamente, entro campi di tensione che, oggi, a differenza d’un tempo, mettono in questione l’esistenza stessa di una sostanza, un’ontologia minima, comune a tutti gli esseri umani e costante in ogni tempo. Davvero, l’uomo non è più una «natura umana», ma qualcosa da ridefinire continuamente attraverso scomposizioni e composizioni dall’esito sempre variabile. I campi di tensione sono i più diversi, determinati da forze materiali ed elaborati culturalmente: corporeità-spiritualità, macchina-organismo, tenebre-luce, tempo finito-tempo infinito, animalità-umanità, eccetera, fino al dualismo radicale vita-morte, proprio dell’epoca della biopolitica e della «nuda vita».
Nel libro che qui si presenta, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Laterza), l’essere umano è considerato nella tensione tra parola significante e oggetto significato. Nel momento in cui l’essere vivente si percepisce come parlante, percepisce anche una realtà esterna che deve essere in corrispondenza, deve essere "corrisposta" dal discorso. Ma non c’è nessuna garanzia di corrispondenza, c’è invece uno spazio vuoto, una distanza incolmabile che nessuna parola, nessuna moltiplicazione di parole può colmare: anzi, si potrebbe dire che il moltiplicare le parole moltiplica questi spazi. Poiché la parola detta non è detta soltanto per sé dal parlante, ma è detta in funzione della comunicazione con altri, per costoro la parola diventa a sua volta una "cosa", un significato che ha bisogno d’essere afferrato attraverso un significante, cioè un’altra parola. Questa può anche essere la medesima della prima, ma con questa entra in un rapporto di indeterminatezza analogo a quello che legava la prima parola alla cosa significata. In altri termini, il linguaggio umano e i rapporti sociali che esso stabilisce sono una somma di innumerevoli spazi intermedi di comprensioni incerte, di fiducia carente, di equivoci, di menzogne, di inganni possibili, di sospetti inevitabili. L’essere umano sta in questo vasto luogo incerto, che le sue parole delimitano da una parte, e la realtà cui il linguaggio si riferisce delimita dall’altra. Qui, in questo spazio, si collocano l’essere umano, in quanto "parlante", e il suo giuramento.
Il giuramento, così come lo conosciamo, è un istituto della religione e del diritto: un’affermazione (di un fatto o di una promessa), assistita dall’evocazione della divinità, o comunque di qualcosa di sacro, come testimone o garante, e da un’auto-maledizione in caso di spergiuro. L’apparato sanzionatorio è messo in moto da norme e strumenti religiosi o giuridici. Sempre secondo le idee ricevute, in base a un paradigma esplicativo di portata generale, in origine il giuramento sarebbe appartenuto alla sfera del sacro, poi, attraverso processi di differenziazione del diritto dalla religione, sarebbe divenuto un istituto giuridico.
Ma, secondo Agamben, la ricerca dell’arké ci porta altrove, rispetto alla religione e al diritto. Il giuramento, nella sua essenza, sarebbe una vicenda della parola, non dell’autorità. Religione e diritto intervengono semmai in un secondo momento, a supporto di un deficit di linguaggio. Il giuramento è una proposizione di validità della parola, cioè di rispondenza fedele del significante al significato; esso non riguarda, in origine, una promessa (di dire la verità, di adempiere un impegno preso) nei confronti dell’udente, ma riguarda il linguaggio stesso e, come tale, appartiene al suo "statuto" e alla condizione di parlante.
L’archetipo della parola è la parola di Dio, la parola creatrice. «E Dio disse: sia la luce. E la luce fu» (Gen 1, 3). La parola di Dio è vera, è la parola per eccellenza, perché essendo creatrice, non ha di fronte a sé "cose significate" cui deve corrispondenza, anzi non ha nulla «di fronte a sé», che non sia nella parola che realizza se stessa. La parola divina è l’esempio più chiaro di "performativo": l’atto linguistico che non descrive uno stato di cose, ma produce immediatamente un fatto, realizzando il suo significato. Sotto questo aspetto, si comprende che Dio non giuri, perché - si può dire - in verità ogni sua parola è un giuramento. Sotto un altro aspetto, si può aggiungere che ogni parola divina è miracolo. «Talità kum», fanciulla alzati, disse il Cristo alla figlia morta del capo della Sinagoga (Mc 6, 41) e la fanciulla si alzò. Ecco un altro esempio della potenza creatrice della parola divina.
Nel modo che è possibile, il giuramento degli esseri umani è un modo di mettere la loro lingua in comunicazione con quella divina, sotto l’aspetto che più d’ogni altro interessa: la corrispondenza tra significante (la parola) e il significato (la cosa), ciò che è alla base della fiducia, la risorsa essenziale per la costruzione di qualsiasi forma di convivenza tra gli umani. Un esempio di "performativo" nel linguaggio umano è certo linguaggio giuridico. «Uti lingua nuncupassit, ita ius esto», dicevano le XII Tavole (come correttamente sarà detto dalla parola, così sarà per il diritto). Un altro è il "sì" che si pronuncia davanti all’ufficiale dello stato civile che, di per sé, produce lo status coniugale. Un altro ancora è il linguaggio legislativo, quando esso determina situazioni giuridiche: l’extra-comunitario che entra nel nostro Paese, in assenza di determinate condizioni, è "clandestino".
Qui davvero le parole creano le cose, le situazioni. Ma si vede l’irriducibile differenza rispetto alla parola divina: mentre questa deriva da un potere totalmente fondato su se stesso (l’ «io sono colui che sono» del roveto ardente), la parola umana, per produrre i suoi effetti, ha sempre bisogno di fondare la sua validità su qualcosa, una norma (le XII Tavole o il codice civile) o un principio che la precede come un criterio di validità. Anche la legge è sottoposta a un test di validità. In un supremo esercizio di teologia politica, potremmo dire che lo Stato, assunto come assoluto, cioè come colui che ha detronizzato Dio, potrebbe ambire ad auto-assegnarsi la parola creatrice, la parola che non dipende che da se stessa: lo Stato che potesse auto-definirsi, per analogia, «io, lo Stato, sono colui che sono stato». Ma ciò non è nemmeno per le teorie più marcate in senso assolutistico: lo Stato di Thomas Hobbes è pur sempre e solo un Dio "mortale", di cui occorre comunque poter giustificare la sua "vita".
In breve, il giuramento è un performativo: vuole legare fino a far coincidere la parola con la cosa. Ma, per gli umani, occorre che il giuramento stesso risponda a un criterio di validità. Il criterio è: i giuramenti sono vincolanti. Ma il giuramento non esclude lo spergiuro; l’invocazione del nome di Dio non è garanzia ch’essa non sia "invano". Il perché i giuramenti fossero e dovessero essere vincolanti, per molti secoli è dipeso dalla presenza, testimoniale o vendicatrice, di Dio.
Oggi non è, palesemente, più così, in particolare nella sfera pubblica. Il giuramento, che Machiavelli metteva a base della gloria romana, più ancora che l’obbedienza alle leggi; il giuramento da cui, per Locke, poteva scaturire l’appartenenza al patto sociale, con la conseguenza che gli atei, che non potevano giurare, dovevano esserne esclusi; il giuramento, dunque, non figura più al posto d’onore delle istituzioni politiche, che la secolarizzazione ha reso autonome dalla dimensione del sacro. Dove residua, ha perso questo suo carattere, essendosi trasformato in una semplice «promessa solenne» (Corte costituzionale, sent. n. 334 del 1969), oppure essendo divenuto facoltativo (Corte costituzionale, sent. n. 117 del 1979).
L’integrità della parola è rimessa interamente alla auto-responsabilità verso gli altri, potremmo dire alla responsabilità politica di chi la usa. Forse, c’è un rapporto tra evanescenza del giuramento ed evanescenza di questa responsabilità. La menzogna, magari spudoratamente spergiurata; la parola detta e poi subito dopo contraddetta; la parola che vaga male-detta, indipendentemente da ogni legame con un significato: tutto ciò ha invaso la nostra vita e costituisce uno dei non minori segni di disfacimento di convivenza.
Il libro di Agamben inizia e termina con la citazione da Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente (1992). In questo libro si constatava che le nostre generazioni convivono, pur senza fondarsi su alcun patto giurato, e ci si chiedeva se la novità non dovesse indurre a riflettere su una capitale trasformazioni delle modalità di associazione politica. Agamben, riprendendo questo spunto, conclude con queste osservazioni la sua diagnosi circa la dissociazione tra parola e cosa, causa ed effetto di radicale de-responsabilizzazione del parlante rispetto al parlare e alle cose di cui parla, prima che rispetto all’ascoltatore: «da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall’altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un’esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un’esperienza politica diventa sempre più precaria». Anche questo è un tassello, non tra i meno preoccupanti, per la comprensione di che cosa sia quella materia mobile, aperta, che è l’essere umano.
Il potere delle parole. "Il sacramento del linguaggio"
Quando si rompe il giuramento
È fondamentale la relazione etica che si stabilisce tra il parlante e la sua lingua
Votandosi al "logos" l’uomo decide di mettere in gioco la sua vita e il suo destino
Pubblichiamo parte di un capitolo del nuovo libro di Giorgio Agamben, "Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento", che uscirà a giorni da Laterza (pagg. 107, euro 14)
di Giorgio Agamben (la Repubblica, 06.10.2008)
I linguisti hanno spesso cercato di definire la differenza fra il linguaggio umano e quello animale. Benveniste ha opposto in questo senso il linguaggio delle api, codice di segnali fisso e il cui contenuto è definito una volta per tutte, alla lingua umana, che si lascia analizzare in morfemi e fonemi la cui combinazione permette una potenzialità di comunicazione virtualmente infinita.
Ancora una volta, tuttavia, la specificità del linguaggio umano rispetto a quello animale non può risiedere soltanto nelle peculiarità dello strumento, che ulteriori analisi potrebbero ritrovare - e, di fatto, continuamente ritrovano - in questo o quel linguaggio animale; essa consiste, piuttosto, in misura certo non meno decisiva, nel fatto che, unico fra i viventi, l’uomo non si è limitato ad acquisire il linguaggio come una capacità fra le altre di cui è dotato, ma ne ha fatto la sua potenza specifica, ha messo, cioè, in gioco nel linguaggio la sua stessa natura.
Come, nelle parole di Foucault, l’uomo «è un animale nella cui politica ne va della sua vita di essere vivente», così egli è anche il vivente nella cui lingua ne va della sua vita. Queste due definizioni sono, anzi, inseparabili e dipendono costitutivamente l’una dall’altra. Al loro incrocio si situa il giuramento, inteso come l’operatore antropogenetico attraverso cui il vivente, che si è scoperto parlante, ha deciso di rispondere delle sue parole e, votandosi al logos, di costituirsi come il «vivente che ha il linguaggio».
Perché qualcosa come un giuramento possa aver luogo, è necessario, infatti, poter innanzitutto distinguere, e articolare in qualche modo insieme, vita e linguaggio, azioni e parole - e questo è precisamente ciò che l’animale, per il quale il linguaggio è ancora parte integrante della sua prassi vitale, non può fare. La prima promessa, la prima - e, per così dire, trascendentale - sacratio si produce attraverso questa scissione, in cui l’uomo, opponendo la sua lingua alle sue azioni, può mettersi in gioco in essa, può promettersi al logos.
Qualcosa come una lingua umana ha potuto, infatti, prodursi solo nel momento in cui il vivente, che si è trovato cooriginariamente esposto tanto alla possibilità della verità che a quella della menzogna, si è impegnato a rispondere con la sua vita delle sue parole, a testimoniare in prima persona per esse. E come il mana esprime, secondo Lévi-Strauss, l’inadeguatezza fondamentale fra significante e significato, che costituisce "la servitù di ogni pensiero finito", così il giuramento esprime l’esigenza, per l’animale parlante in ogni senso decisiva, di mettere in gioco nel linguaggio la sua natura e di legare insieme in un nesso etico e politico le parole, le cose e le azioni.
Solo per questo qualcosa come una storia, distinta dalla natura e, tuttavia, a essa inseparabilmente intrecciata, ha potuto prodursi. È nel solco di questa decisione, nella fedeltà a questo giuramento, che la specie umana, per la sua sventura come per la sua ventura, in qualche modo ancora vive. Ogni nominazione è, infatti, duplice: è benedizione o maledizione.
Benedizione, se la parola è piena, se vi è corrispondenza fra il significante e il significato, fra le parole e le cose; maledizione se la parola resta vana, se permangono, fra il semiotico e il semantico, un vuoto e uno scarto. Giuramento e spergiuro, bene-dizione e male-dizione corrispondono a questa duplice possibilità iscritta nel logos, nell’esperienza attraverso cui il vivente si è costituito come essere parlante.
Religione e diritto tecnicizzano questa esperienza antropogenetica della parola nel giuramento e nella maledizione come istituzioni storiche, separando e opponendo punto per punto verità e menzogna, nome vero e nome falso, formula efficace e formula scorretta. Ciò che era «detto male» diventa in questo modo maledizione in senso tecnico, la fedeltà alla parola cura ossessiva e scrupolosa delle formule e dei riti appropriati, cioè religio e ius. L’esperienza performativa della parola si costituisce e si separa così in un «sacramento del linguaggio» e questo in un «sacramento del potere».
La "forza della legge" che regge le società umane, l’idea di enunciati linguistici che obbligano stabilmente i viventi, che possono essere osservati o trasgrediti, derivano da questo tentativo di fissare l’originaria forza performativa dell’esperienza antropogenetica, sono, in questo senso, un epifenomeno del giuramento e della maledizione che l’accompagnava.
Paolo Prodi apriva la sua storia del "sacramento del potere" con la constatazione che noi siamo oggi le prime generazioni che vivono la propria vita collettiva senza il vincolo del giuramento e che questo mutamento non può non implicare una trasformazione delle modalità di associazione politica. Se questa diagnosi coglie in qualche misura nel vero, ciò significa che l’umanità si trova oggi davanti a una disgiunzione o, quanto meno, a un allentamento del vincolo che, attraverso il giuramento, univa il vivente alla sua lingua. Da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall’altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un’esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un’esperienza politica diventa sempre più precaria.
Quando il nesso etico - e non semplicemente cognitivo - che unisce le parole, le cose e le azioni umane si spezza, si assiste infatti a una proliferazione spettacolare senza precedenti di parole vane da una parte e, dall’altra, di dispositivi legislativi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui sembrano non avere più alcuna presa. L’età dell’eclissi del giuramento è anche l’età della bestemmia, in cui il nome di Dio esce dal suo nesso vivente con la lingua e può soltanto essere proferito "in vano".
E’ forse tempo di mettere in questione il prestigio di cui il linguaggio ha goduto e gode nella nostra cultura, in quanto strumento di potenza, efficacia e bellezza incomparabili. Eppure, considerato in se stesso, esso non è più bello del canto degli uccelli, non è più efficace dei segnali che si scambiano gli insetti, non può potente del ruggito con cui il leone afferma la sua signoria.
L’elemento decisivo che conferisce al linguaggio umano le sue virtù peculiari non è nello strumento in se stesso, ma nel posto che esso lascia al parlante, nel suo predisporre dentro di sé una forma in cavo che il locutore deve ogni volta assumere per parlare. Cioè: nella relazione etica che si stabilisce fra il parlante e la sua lingua. L’uomo è quel vivente che, per parlare, deve dire "io", deve, cioè, "prendere la parola", assumerla e farla propria.
La riflessione occidentale sul linguaggio ha impiegato quasi due millenni per isolare, nell’apparato formale della lingua, la funzione enunciativa, l’insieme di quegli indicatori o shifters ("io", "tu", "qui", "ora", ecc.) attraverso i quali colui che parla assume la lingua in un atto concreto di discorso. Ciò che la linguistica non è, però, certamente in grado di descrivere è l’ethos che si produce in questo gesto e che definisce l’implicazione specialissima del soggetto nella sua parola. E’ in questa relazione etica, il cui significato antropogenetico abbiamo cercato di definire, che il "sacramento del linguaggio" ha luogo. Proprio perché, a differenza degli altri viventi, l’uomo per parlare deve mettersi in gioco nella sua parola, egli può, per questo, benedire e maledire, giurare e spergiurare.
Alle origini della cultura occidentale, in un piccolo territorio ai confini orientali dell’Europa, era apparsa un’esperienza di parola che, tenendosi nel rischio tanto della verità che dell’errore, aveva pronunciato con forza, senza né giurare né maledire, il suo sì alla lingua, all’uomo come animale parlante e politico. La filosofia comincia nel momento in cui il parlante, contro la religio della formula, mette risolutamente in questione il primato dei nomi, quando Eraclito oppone logos a epea, il discorso alle parole incerte e contraddittorie che lo costituiscono o quando Platone, nel Cratilo, rinuncia all’idea di una corrispondenza esatta fra il nome e la cosa nominata e, insieme, avvicina onomastica e legislazione, esperienza del logos e politica.
La filosofia è, in questo senso, costitutivamente critica del giuramento: essa mette, cioè, in questione il vincolo sacramentale che lega l’uomo al linguaggio, senza per questo semplicemente parlare a vanvera, cadere nella vanità della parola. In un momento in cui tutte le lingue europee sembrano condannate a giurare in vano e in cui la politica non può che assumere la forma di una oikonomia, cioè di un governo della vuota parola sulla nuda vita, è ancora dalla filosofia che può venire, nella sobria consapevolezza della situazione estrema cui è giunto nella sua storia il vivente che ha il linguaggio, l’indicazione di una linea di resistenza e di svolta.
FILOSOFIA
Una specie a continuo rischio di estinzione
Linguisti a convegno all’Università della Calabria
di Marco Mazzeo (il manifesto, 14.09.2008)
Sono circa quindici anni che, con interesse sempre crescente, è ripreso il dibattito internazionale sulle origini del linguaggio umano. Proprio a questo tema è dedicato il convegno, organizzato dalla Società Italiana di Filosofia del Linguaggio presso l’Università della Calabria (Arcavacata di Rende, Cosenza), dal 15 al 17 settembre. Un convegno a cui prenderanno parte linguisti, semiologi e filosofi che - da Adam Kendon a Patrizia Violi - si confronteranno, in particolare, con temi e problemi posti dalle scienze cognitive e dai sistemi preverbali di comunicazione, riallacciando i nodi di una vecchia questione. Nel 1866, la Società Linguistica di Parigi bandì le ricerche sull’origine del linguaggio: ci sono voluti più di cento anni per sfatare un tabù recente ma consolidato.
La questione non riguarda l’identificazione del momento storico (la data, per intenderci) nel quale i primi Homo sapiens avrebbero cominciato a parlare. Si tratta piuttosto di identificare le condizioni di possibilità che hanno permesso a una specie bizzarra, che va in giro su due zampe e con solo qualche pelo in testa, di diventare una forma di vita endemica in grado, in pochi migliaia di anni, di spazzare via ogni rivale e colonizzare i quattro angoli del pianeta. La caduta del tabù circa le nostre origini linguistiche ha due risvolti positivi. Innanzitutto ha promosso l’evoluzionismo a caposaldo di ogni teoria filosofica naturalista.
Fino agli anni Novanta, anche una branca importante della filosofia materialistica del dopoguerra come il cognitivismo (la cui idea base era l’analogia tra mente umana e computer) ha avuto un rapporto contrastante, spesso di scontro diretto (si pensi a Noam Chomsky), con gli eredi di Darwin. In secondo luogo, ha consentito di ampliare la base empirica sulla quale fondare una teoria dell’antropogenesi, cioè della nascita della nostra specie: dopo il flirt con la fisica della prima metà del secolo, la filosofia ha di nuovo la possibilità di aprirsi e continuare a fare i conti con la scienza contemporanea, in primis con le scienze biologiche.
Come spesso succede però quando si verifica un improvviso ritorno di fiamma, il rischio è rimanere abbagliati da facili entusiasmi. La nouvelle vague della ricerca sulle origini del linguaggio è andata di pari passo con la nascita della cosiddetta «psicologia evoluzionistica»: i principi darwiniani della selezione naturale e dell’adattamento all’ambiente si applicherebbero a ogni sfera del comportamento e della vita umana poiché selezionerebbero un «modulo», cioè un dispositivo per il trattamento di informazioni provenienti da uno specifico dominio. Dalla religione alla riproduzione, dalla battuta di spirito al gossip con gli amici ogni comportamento umano sarebbe il frutto di un processo di selezione adattiva.
Questo eccesso di zelo ha portato, in più di un’occasione, la passione per la ricostruzione degli albori dell’umanità a lasciare il posto alla costruzione di scene che, sotto l’aura di scientificità, appaiono come vere e proprie allegorie mitologiche. Il luogo comune che tra i primi sapiens i maschi andassero a caccia e le donne rimanessero "a casa" a raccogliere frutta e a competere per il maschio più prolifico costituisce una scena madre dalle infinite variazioni.
Un simile spirito mitologico sarebbe da derubricare sotto la voce «innocuo folklore» se non tendesse a mescolarsi con un secondo elemento, un vero e proprio «complesso di inferiorità». Troppo spesso l’apertura, doverosa e ovvia, della filosofia al problema di quale sia la base empirica per una teoria della natura umana scade nell’idea liquidatoria che è alla scienza che va l’ultima parola. Filosofia e scienze biologiche rischiano di mettere in scena un rapporto sado-maso, stile Veltroni-Berlusconi. «Facciamogli le pulci e lasciamoli lavorare», sembra dover dire il filosofo democratico, «un giorno ci diranno come stavano le cose». In modo beffardo e paradossale, la caduta di un tabù rischia di spingere il filosofo a rimanere sulla sua scrivania, incastrato in un lavoro calligrafico.
L’incontro tra filosofia e scienza può permetterci di riflettere criticamente sul problema dell’origine se non cede alla tentazione di spostare questo tema in un passato che per definizione è, lo si riconosca o meno, è mitico e irraggiungibile. Si tratta, piuttosto, di prendere per le corna, o meglio «per la lingua» cioè dal punto di vista della filosofia del linguaggio, il problema che la filosofia politica chiama dello stato di natura: spostiamolo indietro nel tempo e torniamo inevitabilmente alla versione linguistica della storiella sul contratto di due che si danno la mano e dicono «va bene, da ora facciamo i buoni».
Non facciamoci sfuggire, piuttosto, il primo dei dati empirici: la specie umana è tanto «creativa» perché a ogni generazione deve cominciare da capo e ricostruire quel che le generazioni precedenti hanno messo in piedi; lo stato di natura emerge quotidianamente anche nel più progredito mondo occidentale.
Come recita il titolo di uno degli interventi del primo giorno del convegno, la nostra è una specie a continuo rischio di estinzione: a ogni generazione la partita può dirsi persa. Proprio per questo, l’analisi delle modalità dell’apprendimento infantile delle lingue (oggetto, non a caso, di interventi in tutte e tre le giornate del convegno), costituisce un laboratorio unico: è in grado di mostrarci volti inediti dell’oggetto lingua, è in grado di ricordarci che le origini sono, per l’animale umano, faccende del qui e dell’ora.
Il problema dell’origine fa tutt’uno con il problema del cambiamento: capire come nasce l’essere umano è questione indistinguibile dal riflettere sul modo in cui questo strano animale possa trasformare il suo modo di vita e quel che lo circonda.
PAOLA MANCINELLI: STORIA DI UNA GRAMMATICA ZOPPA *
Per parlare di nonviolenza usero’, questa volta, una metafora di tipo linguistico, come forse si evince dal titolo. E se, come dice Heidegger, il linguaggio e’ la casa dell’essere, la questione non e’ oziosa. Ne va invece di una dimensione filosofica alla base di un’intera Weltanschauung. Un privativo precede la parola violenza, suffisso immutabile, piccola locuzione che dice, pero’, l’incapacita’ del linguaggio ad esprimere una dimensione che in teoria rappresenta il possibile sempre in agguato a sovvertire i piani di una realta’ pensata solo come manipolabile, riducibile ad un commercium routinario.
Effettivamente, il piano ontologico, almeno in alcuni modelli assunti nell’ambito della filosofia occidentale (mi si perdoni l’allusione al mondo filosofico, ma non si puo’ non fare i conti con la propria provenienza), dice di una non contraddizione che, in ogni caso, riduce ad uniformita’ il pensato ed il pensabile e, pur ammettendo l’analogia dell’essere che si dice in molti modi, riesce appena a balbettare il diversum, non prima di averlo superato e riassunto. Questa digressione, semplicemente per mettere in luce che quando il linguaggio non sa dire l’alterita’ se non per opposizione all’identita’, opposizione che necessariamente deve preludere ad un superamento, assume il conflitto come radice e si traduce in vis (forza) su cui attagliare persino la ragione. Del resto, la cosa ha una ricaduta anche nella prassi: si vis pacem para bellum.
*
Quando si e’ giunti a comprendere la conseguenza della ragione totalitaria, la sua forza distruttrice, la tentazione del sovvertimento del diverso per mezzo di una scienza adulterata e divenuta ideologica in virtu’ del connubio con il potere, si e’ compreso pero’ che non si aveva il linguaggio per parlare di pace, almeno non altro linguaggio che quello dei trattati e dei negoziati conseguenti alle stragi belliche. Cosi’ la nonviolenza e’ divenuta semplicemente la negazione della violenza, non avendo un suo statuto proprio, e con tale privativo si e’ voluto tra-durre nella nostra visione del mondo quella concernente un’altra modalita’ semantica come quella del satyagraha.
Si e’ dimenticato pero’ che Gandhi ha sottolineato tutta la forza propositiva e costruttiva di questa parola, la quale esprime un concetto fondamentale come quello di una verita’ che ha una forza propria e che non deve essere propugnata con offensive, quello di una dignita’ umana che gia’ di per se’ invita alla responsabilita’, che derivava dalla conoscenza del mondo biblico, in nome di una giustizia in tanto universale in quanto capace di salvaguardare la dignita’ di ognuno; diremmo anzi la dignita’ delle differenze. Infine si e’ dimenticato troppo spesso di scorgere nel termine gandhiano un principio di universalita’ che non puo’ non tenere conto di come la massima espressione di ogni norma ed azione e’ quella che vede nell’umanita’ del singolo il modello di ogni umanita’, come ben dimostra la cultura biblica, nelle suggestive scritture profetiche, ove i carmi del servo di Jhwh isaiani rappresentano un’emblematica condizione umana di cui farsi carico.
*
Vorrei immaginare un linguaggio che dica l’alterita’ come ne e’ capace quello di Dio: relazione originaria al principio di ogni cosa, come ben sottolinea Martin Buber, e come ben sottende il dato cristiano, ove il Verbo si dona in un ascolto accogliente e dove il Deus revelatus si manifesta in un deittico affidando completamente la Sua identita’ all’alterita’ del Figlio: "Questi e’ il mio Figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto".
Solo in questo spazio relazionale tutte le parole umane potrebbero ricostituire una grammatica nuova priva della tentazione di una differenza escludente, ricco invece di una affermazione ospitale, dato che la lingua stessa e’ spazio ospitale, essa stessa ekumene da inventare nella fatica del quotidiano e nei giorni dell’uomo. Non vi sarebbe, cosi’, la possibilita’ di declinare nel paradigma della volonta’ di potenza e di dominio le civilta’, le forme politiche, le popolazioni che ci interpellano sic et simpliciter con la loro diversa possibilita’ di esistenza suggerendo un nuovo e vero umanesimo planetario.
Chissa’ che non potrebbe essere questa locuzione sostituto piu’ pieno e autentico di nonviolenza?
* LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA, Numero 183 del 28 settembre 2008
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
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Non esiste un io al di fuori del noi
Natura umana. L’anima del linguaggio sta nel riconoscimento reciproco. E il di più che ci differenzia da una scimma parlante sta nel fatto che il dire porta con sé l’esperienza del significato. Un libro di Daniele Gambarara titolato Bipede implume
di FELICE CIMATTI (il manifesto, 27.03.2005)
Quanto fa uno più uno? In aritmetica è facile, due. Nelle relazioni umane un po’ più di uno ma un po’ meno di due. È questa la tesi paradossale di Daniele Gambarara nel suo Bipede implume, appena pubblicato da Bonanno. Più di uno, perché la mente individuale non è tale nel senso di privata, chiusa e autonoma, e la soggettività umana non si definisce in isolamento dalle altre menti; ma anche meno di due, perché quella stessa mente non è nemmeno doppia, se non si trova racchiusa in qualche inattingibile interiorità non la possiamo ritrovare nemmeno fuori di essa. Lo spazio della mente è peculiare, non è uno spazio fisico, di cui si possano tracciare le coordinate. È uno spazio logico, che vive solo nel mondo della semiosi, ed è da essa inseparabile.
La riflessione di Daniele Gambarara è tutta dentro questo luogo paradossale, perché appunto non è un luogo, sebbene si voglia provare a delinearne i confini. Comprendere la natura di questo spazio significa comprendere la mente umana, impostare una possibile descrizione, contemporaneamente semiotica e biologica (e forse i due aggettivi sono, in realtà, sinonimi), della nostra natura. Perché la domanda che Gambarara insegue in questi testi è una domanda radicale, nel senso di fondamentale ma anche non ulteriormente scomponibile: chi è che parla, quando parla, e a chi ?
«La caratteristica dei sistemi semiologici è precisamente quella di non essere interamente spiegabili né in termini cognitivi individuali né in termini sociali». Più di uno, meno di due, appunto. Il nostro spazio, quello paradossale e non misurabile che si apre fra i nostri corpi e i nostri soggettivi pensieri, è uno spazio che non è già lì, come una qualsiasi entità materiale, bensì sorge, di colpo, senza mediazioni, senza passato evolutivo, quando si istituisce la trama arbitraria dei segni. Si istituisce: l’espressione va presa alla lettera: in realtà lo spazio oggettivo (perché non privato, non soggettivo) e pubblico sorge così come emerge una configurazione innovativa e imprevista dall’interazione di agenti individuali distinti; come si formano, ad esempio, le complesse e bellissime forme dinamiche che assumono, nel cielo, certi stormi di uccelli.
Ogni storno vola per conto suo, e anzi tiene le distanze da chi gli sta vicino, e per farlo deve volare nella sua direzione, proprio per evitare di scontrarsi con gli altri. Bastano queste due semplicissime regole, e noi vediamo quelle bizzarre e punteggiate figure muoversi plasticamente nel cielo: la coordinazione degli storni è impersonale, sorge da sé. Il termine tecnico per indicare questo processo, che sembra magico ed è invece affatto naturale, è proprietà emergente. Lo spazio pubblico del linguaggio, e quindi della società umana, è una proprietà emergente che nasce dall’interazione delle menti individuali e private. Lo spazio pubblico della semiosi ha allora una consistenza peculiare, non è mai, propriamente, dato, assodato. Una volta istituitosi deve ogni volta di nuovo essere re-istituito, proprio perché non ha, di suo, uno scheletro materiale su cui riposare, così come la figura che lo stormo assume nel volo non esiste più quando gli storni tornano sugli alberi.
Più di uno, meno di due. Come si ricrea questo processo, e chi vi partecipa? «Ciò che necessariamente compie il linguaggio verbale, indipendentemente dal contenuto di ogni singolo atto, è dichiarare la presenza di un soggetto umano che si rivolge ad un altro come tale, che a preferenza di mezzi immediatamente efficaci di agire su di lui, lo interpella, e gli chiede accordo e collaborazione nella sfera del simbolico». C’è stato, per ogni sapiens, un tempo in cui questo era l’unico mondo di esperienza. L’atto originario dell’antropogenesi è quello in cui quel piccolo sapiens viene accolto all’interno della comunità (atto che comincia prima ancora della nascita, ché prima ancora che ci sia un corpo può esserci un nome per quel corpo che si spera verrà).
All’inizio c’è allora un noi che tira dentro di sé quel corpo che non è, ancora, un io. Vale lo stesso, ancora una volta, per ognuno dei nostri storni: uno storno isolato, che voli discosto dagli altri, non partecipa in alcun modo alla figura che il resto degli storni sta dinamicamente costruendo. Non è nemmeno una individualità, in senso pieno, perché si può parlare di individualità solo in relazione ad una collettività da cui si distingue. Qui lo storno è solo e soltanto un «passero solitario». Poi entra nello stormo. Solo ora diventa, propriamente, una individualità (un io), e lo diventa proprio perché fa parte di un noi.
Torniamo allo spazio pubblico della semiosi. Il piccolo sapiens viene riconosciuto da chi già si trova al suo interno, da quel noi che a questo punto può cognitivamente individuare, perché gli è possibile confrontarsi-differenziarsi da esso: ora, appunto, è un io, ora nasce un io. Ma l’operazione non è a senso unico, c’è anche il verso contrario, dall’io al noi: «in quanto luogo di riconoscimento reciproco e di autocoscienza, il linguaggio per gli uomini è non soltanto utile, bensì indispensabile. Anzi comprendiamo ora il perché esso non sia, non possa essere immediatamente efficace: per raggiungere questa sua superiore ma mediata efficacia, deve rinunciare a quella prima, e porre in quella dimensione i suoi atti come gratuiti».
Il riconoscimento reciproco è, in senso tecnico (aristotelico), l’anima del linguaggio, che rende possibile il fatto che quella forma acquisti di volta in volta vita, e diventi prassi. O meglio, il corpo del linguaggio consiste nell’«assunzione volontaria da parte dei corpi viventi e agenti di norme che li trascendono, eppure non hanno altra sostanza che quella dei corpi che ne sono i portatori. Gli abiti sono l’anima razionale dei corpi: essi sono gli insiemi di azioni possibili che eccedono le potenzialità del corpo in quanto corpo naturale. Quest’anima razionale non può nascere che dalle passioni.» È un punto molto importante, quest’ultimo, sul quale Gambarara insiste a ragione. Quando il piccolo sapiens diventa un io, all’interno del noi del linguaggio, ossia all’interno dello spazio pubblico che lo precede (cronologicamente ma soprattutto logicamente), in quel momento cambia tutta la sua corporeità. L’animale dotato di linguaggio non è semplicemente una scimmia che parla, perché parlare, cioè vivere l’esperienza del significato - e quindi del possibile, della menzogna, dell’errore - riguarda tutta la sua vita, tutto il suo essere, tutto il suo corpo.
Una passione può venire provata solo da chi vive, nella propria stessa carne (la carne simbolica di cui siamo impastati), la consapevolezza della morte, la coscienza del desiderio che non si può mai esaudire (proprio perché dietro ogni desiderio esaudito c’è sempre il possibile, ossia una diversa e imprevedibile deriva semiosica), la sensazione dolorosa che quella trama di sensi non la si potrà mai, per principio, percorrere tutta: «le passioni» presentano «la strutturazione dialogica fondamentale della comunicazione, anche senza, o prima del linguaggio verbale». Ma «la comunicazione stessa» ha anche «la natura fondamentale di una passione, la passione di essere creduti».
Idee e simboli. Se gli scacchi diventano una metafora della vita Un testo riccamente illustrato sull’antico gioco e i suoi molteplici aspetti: letterari, artistici, strategici, umani. Meditazione sul "tempus fugit" e sul modo di frenarlo
di Carlo Ossola (Avvenire, venerdì 4 marzo 2022)
Una scacchiera sugli scogli, lambita dai marosi, e un cavaliere reduce dalle crociate. Così inizia Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman. Avanza un personaggio in nero: «Chi sei tu?», «Sono la Morte», risponde al cavaliere Antonius Block (un indimentacabile Max von Sydow) l’impassibile figura; inizia così una partita sui destini ultimi: «Dando scacco alla Morte, avrò salva la vita», ma la Morte replica: «Non ho mai perso una sola partita». E tuttavia - come per Shahrazad - più importante è, in sé, la prova e la ’tenuta’: «fino a che punto saprò resistere».
Che Franco Maria Ricci Editore incrementi la propria attività sotto questo segno, con un mirabile volume di scacchiere e cavalieri di ogni fattura, dall’avorio al marmo, dall’ebano dipinto alla ceramica, con figure antropomorfe o entomologiche, dall’India alla Cina, al Malabar, a Goa - Zachary F. Mainen, Razvan Sandru, Stefano Salis, Adolivio Capece Sulla scacchiera Arte e scienza degli scacchi Franco Maria Ricci/Champalimaud Foundation. Pagine 166. Euro 57,00 -, è segno che ogni vera impresa è sempre apocalittica, rivelatrice di destini della storia umana, come osservava Massimo Bontempelli nella Scacchiera davanti allo specchio (1922), opportunamente citato da Stefano Salis nel suo denso e acuto saggio: «Tutto quello che accade tra gli uomini, specialmente le cose più importanti che si studiano poi nella storia, non sono altro che imitazioni confuse e variazioni impasticciate di grandi partite a scacchi».
Gioco agonico, esso è tuttavia la ricerca della perfezione sotto l’attesa della morte (lo "scacco matto"), come ha osservato Roger Caillois nel suo saggio Cases d’un échiquier, 1970: «Con pazienza, menti insoddisfatte vi cercarono la perfezione, che sempre è economia». L’infinita guerra del possibile (le combinazioni di ’mosse’ che può attivare l’avversario e le repliche conseguenti) è tutta in uno scenario mentale, che non precipita in atto se non nella contrazione di un gesto che deve sviare il calcolo altrui, in un dosaggio di difesa, previsione, strategia che - nel cuore del dispiegamento - rompe le gerarchie (dame, cavalieri, alfieri, pedoni) per dirimere, dar senso, attraversare un unico intenso reticolo di «correlazioni, intrecci, incroci, [...] di cui è segnata o illuminata l’epidermide del mondo».
L’osservazione di Caillois è ripresa, quasi subito, da Italo Calvino nelle sue Città invisibili (1972): come rendere essenziale, coerente, la rappresentazione del mondo, riconducendo l’effimero a linee di durata, le città a quadrati di una geometrica scacchiera? «Tornando dalla sua ultima missione Marco Polo trovò il Kan che lo attendeva seduto davanti a una scacchiera. Con un gesto lo invitò a sedersi di fronte a lui e a descrivergli col solo aiuto degli scacchi le città che aveva visitato. Il veneziano non si perse d’animo. Gli scacchi del Gran Kan erano grandi pezzi d’avorio levigato: disponendo sulla scacchiera torri incombenti e cavalli ombrosi, addensando sciami di pedine, tracciando viali diritti o obliqui come l’incedere della regina, Marco ricreava le prospettive e gli spazi di città bianche e nere nelle notti di luna. Al contemplarne questi paesaggi essenziali, Kublai rifletteva sull’ordine invisibile che regge le città, sulle regole cui risponde il loro sorgere e prender forma e prosperare e adattarsi alle stagioni e intristire e cadere in rovina» ( VIII, cornice).
Qualcosa di simile accadde all’uomo del Rinascimento nell’invenzione della prospettiva: far sì che una fuga di linee oblique desse profondità, misura della distanza, a una superficie tutta piatta; similmente Kublai Kan cerca una regola che si concentri nello spazio della scacchiera: «Alle volte gli sembrava d’essere sul punto di scoprire un sistema coerente e armonioso che sottostava alle infinite difformità e disarmonie, ma nessun modello reggeva il confronto con quello del gioco degli scacchi. Forse, anziché scervellarsi a evocare col magro ausilio dei pezzi d’avorio visioni comunque destinate all’oblio, bastava giocare una partita secondo le regole, e contemplare ogni successivo stato della scacchiera come una delle innumerevoli forme che il sistema delle forme mette insieme e distrugge.
Ormai Kublai Kan non aveva più bisogno di mandare Marco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocare interminabili partite a scacchi. La conoscenza dell’impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s’aprono alle incursioni dell’alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell’umile pedone, dalle alternative inesorabili d’ogni partita». È il sogno antico di inglobare in sé l’alternativa, di non lasciare nulla all’alterità, di creare come nel Settecento - un invincibile Turc mécanique.
Ma la vera partita di scacchi è come il concerto rispetto alla partitura: l’evento che dà vita, per un intervallo di tempo, a un disegno che era nella probabilità della concatenazione delle mosse come nella mente dei compositori; così, oggi, non è tanto importante che un computer calcoli tanto bene da vincere l’uomo, bensì che colui che gioca sappia che la sua partita, la sua autentica sfida, è ’rinviare la fine’... Se l’equivalenza tra possibile e accaduto fosse perfetta, avrebbe ragione Kublai Kan: «A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato: il nulla...».
Ci insegna invece Bergman che solo dando a priori la partita per persa, si può prolungare il fascino del meditare senza concedere: in ogni nostro gesto contemplando non la mossa, ma «la gioia smisurata di una mano che si muove» (Il settimo sigillo), in ogni nervatura delle dita tendendosi, resistenza e resa.