LORENZO MILANI
LETTERA AI CAPPELLANI MILITARI
Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo.
Avremmo pero’ voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola.
Io l’avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.
Primo, perche’ avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch’io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore. Secondo, perche’ avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono piu’ grandi di voi.
Nel rispondermi badate che l’opinione pubblica e’ oggi piu’ matura che in altri tempi e non si contentera’ ne’ d’un vostro silenzio, ne’ d’una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti saro’ ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste.
Non discutero’ qui l’idea di Patria in se’. Non mi piacciono queste divisioni.
Se voi pero’ avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi diro’ che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.
Certo ammetterete che la parola Patria e’ stata usata male molte volte.
Spesso essa non e’ che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben piu’ alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. E’ troppo facile dimostrare che Gesu’ era contrario alla violenza e che per se’ non accetto’ nemmeno la legittima difesa.
Mi riferiro’ piuttosto alla Costituzione.
Articolo 11 "L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta’ degli altri popoli...".
Articolo 52 "La difesa della Patria e’ sacro dovere del cittadino".
Misuriamo con questo metro le guerre cui e’ stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia. Se vedremo che la storia del nostro esercito e’ tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese piu’ la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari? Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra.
Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta volta detto la verita’ in faccia ai vostri "superiori" sfidando la prigione o la morte? se siete ancora vivi e graduati e’ segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro comunicato di non avere la piu’ elementare nozione del concetto di obiezione di coscienza.
Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la Patria, cioe’ noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1.000 miliardi l’anno) l’esercito, e’ solo perche’ difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranita’ popolare, la liberta’, la giustizia. E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva piu’ che educaste i nostri soldati all’obiezione che all’obbedienza.
L’obiezione in questi 100 anni di storia l’han conosciuta troppo poco.
L’obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l’han conosciuta anche troppo.
Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare. 1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell’idea di Patria, tento’ di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c’erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro Patria. Per l’appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d’Italia un monumento come eroe della Patria.
A 100 anni di distanza la storia si ripete: l’Europa e’ alle porte.
La Costituzione e’ pronta a riceverla: "L’Italia consente alle limitazioni di sovranita’ necessarie...". I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, cosi’ come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell’Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei.
La guerra seguente 1866 fu un’altra aggressione. Anzi c’era stato un accordo con il popolo piu’ attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l’Austria insieme.
Furono aggressioni certo le guerre (1867-1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro secolare Patria, tant’e’ vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant’e’ vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il Gregorovius spiega nel suo diario: "L’insurrezione annunciata per oggi, e’ stata rinviata a causa della pioggia".
Nel 1898 il Re "Buono" onoro’ della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che e’ bene ricordare. L’avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perche’ i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu ne’ un ferito ne’ un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perche’ era rincarata.
Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare "Savoia" anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l’unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo.
Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perche’ quel giornale considera la vita d’un bianco piu’ che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l’uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa? Idem per la guerra di Libia.
Poi siamo al ’14. L’Italia aggredi’ l’Austria con cui questa volta era alleata.
Battisti era un Patriota o un disertore? E’ un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti?
Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una "inutile strage"? (l’espressione non e’ d’un vile obiettore di coscienza ma d’un Papa canonizzato). Era nel ’22 che bisognava difendere la Patria aggredita.
Ma l’esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l’Obbedienza "cieca, pronta, assoluta" quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Cosi’ la Patria ando’ in mano a un pugno di criminali che violo’ ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra "Patria", quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa).
Nel ’36 50.000 soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: Avevano avuto la cartolina di precetto per andar "volontari" a aggredire l’infelice popolo spagnolo.
Erano corsi in aiuto d’un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo d’un milione e mezzo di morti riusci’ a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni liberta’ civile e religiosa.
Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d’aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi. Senza l’obbedienza dei "volontari" italiani tutto questo non sarebbe successo.
Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall’altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l’appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato.
Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire?
Poi dal ’39 in la’ fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l’altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia).
Era una guerra che aveva per l’Italia due fronti. L’uno contro il sistema democratico. L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici piu’ nobili che l’umanita’ si sia data.
L’uno rappresenta il piu’ alto tentativo dell’umanita’ di dare, anche su questa terra, liberta’ e dignita’ umana ai poveri. L’altro il piu’ alto tentativo dell’umanita’ di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri.
Non vi affannate a rispondere accusando l’uno o l’altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c’era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d’ogni valore morale, di ogni liberta’ se non per i ricchi e per i malvagi.
Negazione d’ogni giustizia e d’ogni religione. Propaganda dell’odio e sterminio d’innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei (la Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente).
Che c’entrava la Patria con tutto questo? e che significato possono piu’ avere le Patrie in guerra da che l’ultima guerra e’ stata un confronto di ideologie e non di patrie? Ma in questi cento anni di storia italiana c’e’ stata anche una guerra "giusta" (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato.
Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i "ribelli", quali i "regolari"? E’ una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i "ribelli"?
Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l’ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati. Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un "distinguo" che vi riallacci alla parola di San Pietro: "Si deve obbedire agli uomini o a Dio?". E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro.
In molti paesi civili (in questo piu’ civili del nostro) la legge li onora permettendo loro di servir la Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria piu’ degli altri, non meno. Non e’ colpa loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in prigione.
Del resto anche in Italia c’e’ una legge che riconosce un’obiezione di coscienza. E’ proprio quel Concordato che voi volevate celebrare. Il suo terzo articolo consacra la fondamentale obiezione di coscienza dei Vescovi e dei Preti.
In quanto agli altri obiettori, la Chiesa non si e’ ancora pronunziata ne’ contro di loro ne’ contro di voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che son vili.
Chi vi autorizza a rincarare la dose? E poi a chiamarli vili non vi viene in mente che non s’e’ mai sentito dire che la vilta’ sia patrimonio di pochi, l’eroismo patrimonio dei piu’?
Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti e’ la prigione, ma non e’ bello star dalla parte di chi ce li tiene. Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l’ha fatto. Piu’ maturo condanno’ duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?
Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l’esempio e il comandamento del Signore e’ "estraneo al comandamento cristiano dell’amore" allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!
Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Liberta’, Verita’.
Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verita’ e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima.
Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.
Lorenzo Milani sac.
[Riproponiamo ancora una volta la "Lettera ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965" di don Milani, uno dei documenti poi raccolti nel volume intitolato L’obbedienza non e’ piu’ una virtu’; insieme alla successiva "Lettera ai giudici" (l’autodifesa milaniana al processo in cui fu imputato proprio per aver scritto quella lettera aperta), che costituisce uno dei grandi testi a sostegno dell’obiezione di coscienza contro ogni guerra, contro ogni esercito, contro ogni uccisione.
Lorenzo Milani nacque a Firenze nel 1923, proveniente da una famiglia della borghesia intellettuale, ordinato prete nel 1947.
Opera dapprima a S. Donato a Calenzano, ove realizza una scuola serale aperta a tutti i giovani di estrazione popolare e proletaria, senza discriminazioni politiche. Viene poi trasferito punitivamente a Barbiana nel 1954. Qui realizza l’esperienza della sua scuola. Nel 1958 pubblica Esperienze pastorali, di cui la gerarchia ecclesiastica ordinera’ il ritiro dal commercio. Nel 1965 scrive la lettera ai cappellani militari da cui derivera’ il processo i cui atti sono pubblicati ne L’obbedienza non e’ piu’ una virtu’. Muore dopo una lunga malattia nel 1967; era appena uscita la Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana.
L’educazione come pratica di liberazione, la scelta di classe dalla parte degli oppressi, l’opposizione alla guerra, la denuncia della scuola classista che discrimina i poveri: sono alcuni dei temi su cui la lezione di don Milani resta di grande valore.
Opere di Lorenzo Milani e della scuola di Barbiana:
Esperienze pastorali,
L’obbedienza non e’ piu’ una virtu’, Lettera a una professoressa, pubblicate tutte presso la Libreria Editrice Fiorentina (Lef).
Postume sono state pubblicate le raccolte di Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Mondadori; le Lettere alla mamma, Mondadori; e sempre delle lettere alla madre l’edizione critica, integrale e annotata, Alla mamma. Lettere 1943-1967, Marietti.
Altri testi sono apparsi sparsamente in volumi di diversi autori. La casa editrice Stampa Alternativa ha meritoriamente effettuato nell’ultimo decennio la ripubblicazione di vari testi milaniani in edizioni ultraeconomiche e criticamente curate. La Emi ha recentemente pubblicato, a cura di Giorgio Pecorini, lettere, appunti e carte varie inedite di don Lorenzo Milani nel volume I care ancora.
Altri testi ha pubblicato ancora la Lef. Opere su Lorenzo Milani: sono ormai numerose; fondamentali sono:
Neera Fallaci, Vita del prete Lorenzo Milani. Dalla parte dell’ultimo, Rizzoli, Milano 1993;
Giorgio Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, Baldini & Castoldi, Milano 1996;
Mario Lancisi (a cura di), Don Lorenzo Milani: dibattito aperto, Borla, Roma 1979;
Ernesto Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, Laterza, Roma-Bari 1995;
Gianfranco Riccioni, La stampa e don Milani, Lef, Firenze 1974;
Antonio Schina (a cura di), Don Milani, Centro di documentazione di Pistoia, 1993.
Segnaliamo anche l’interessante fascicolo monografico di "Azione nonviolenta" del giugno 1997. Segnaliamo anche il fascicolo Don Lorenzo Milani, maestro di liberta’, supplemento a "Conquiste del lavoro", n. 50 del 1987.
Tra i testi apparsi di recente: il testo su don Milani di Michele Ranchetti nel suo libro Gli ultimi preti, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1997; David Maria Turoldo, Il mio amico don Milani, Servitium, Sotto il Monte (Bg) 1997; Liana Fiorani, Don Milani tra storia e attualita’, Lef, Firenze 1997, poi Centro don Milani, Firenze 1999; AA. VV., Rileggiamo don Lorenzo Milani a trenta anni dalla sua morte, Comune di Rubano 1998; Centro documentazione don Lorenzo Milani e scuola di Barbiana, Progetto Lorenzo Milani: il maestro, Firenze 1998; Liana Fiorani, Dediche a don Milani, Qualevita, Torre dei Nolfi (Aq) 2001; Edoardo Martinelli, Pedagogia dell’aderenza, Polaris, Vicchio di Mugello (Fi) 2002; Marco Moraccini (a cura di), Scritti su Lorenzo Milani. Una antologia critica, Il Grandevetro - Jaca Book, Santa Croce sull’Arno (Pi) - Milano 2002]
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 33 del 19 marzo 2007
Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
SUL TEMA,NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
"Deus caritas est". Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, il "Logo" del Grande Mercante!!!
FLS
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
Il coraggio della disobbedienza
di Alex Zanotelli*
Nel maggio del 2017 ho lanciato un appello alle Chiese, Sanctuary Movement, che rimetto di nuovo in circolazione visto l’aggravarsi della situazione dei migranti nel nostro paese. L’appello è un invito alle Chiese (cattolica, valdese, luterana, anglicana, evangelica) di iniziare, come avviene negli Usa, ad offrire le nostre chiese come “santuario” per asilo politico per coloro che sono destinati alla deportazione nei loro paesi, non perché criminali, ma perché privi di documenti.
Quell’appello non ha avuto alcun riscontro positivo da parte delle Chiese in Italia.
Sanctuary Movement
Negli Usa al contrario lo scorso anno il Sanctuary Movement ha visto raddoppiare il numero di chiese che offrono rifugio e asilo politico per i migranti minacciati di deportazione. Non tutte le chiese offrono ospitalità a tali persone, ma tutte si impegnano a sostenere i minacciati di deportazione sia offrendo assistenza legale, ma soprattutto con l’impegno da parte di pastori o preti, di accompagnare queste persone in tribunale o dalla polizia. Ma anche, quando necessario, con sit-in o pray-in davanti ai tribunali. Ci auguriamo che questo Movimento possa presto sbocciare anche nelle Chiese in Italia.
Infatti Bruxelles intende deportare un milione di migranti irregolari. Un’operazione quasi impossibile, oltre che costosa, ma che rivela quale politica la Ue stia perseguendo. «È vero che siamo una civiltà che non fa figli - ha commentato qualche tempo fa papa Francesco - ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio». E Bruxelles chiede ai ventisette stati membri di mettere mano alla propria legislazione per una politica più restrittiva nei confronti dei migranti.
L’Italia ha prontamente risposto con il decreto Orlando-Minniti, il cosiddetto Pacchetto Sicurezza. Il decreto, approvato dal parlamento il 12 aprile 2017 con il ricatto della fiducia, stabilisce che il rifiuto di riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Commissione territoriale non è reclamabile se non in Cassazione. Non c’è quindi per il rifugiato la possibilità di un appello in tribunale. Respinta la domanda, al rifugiato non resta che andare in un Centro permanente per il rifugiato, per poi essere espulso nell’inferno da cui è fuggito.
Atto di coraggio
E questo sta avvenendo non solo in Europa, ma anche negli Usa con Trump, che minaccia di espellere undici milioni di clandestini, in buona parte latinos. Infatti Trump, oltre al muro tra gli Usa e il Messico, che gli costerà un miliardo di dollari, ha iniziato ad espellere ogni settimana settecento clandestini. Per rispondere a questa tragedia, alcune Chiese hanno rilanciato il Sanctuary Movement (il movimento che offre asilo, rifugio, “santuario” a chi è ricercato dalla polizia per essere espulso, perché considerato “clandestino”).
È un movimento che si rifà alla tradizione biblica (Num. 35,9-34), ripresa poi nel Medioevo, per cui chi riesce a trovare rifugio in un luogo sacro o in una città asilo aveva il diritto di essere protetto. Questo movimento ha avuto inizio negli Usa negli anni Ottanta, quando Reagan deportava i rifugiati ai loro paesi come il Salvador o il Nicaragua dove li aspettava la morte. Più di cinquecento chiese si erano costituite “santuari” di asilo politico. Molti si sono salvati così.
Ora, con Trump, oltre mille istituzioni (fra queste, anche città, università e contee) hanno iniziato a dare rifugio politico a chi rischia di essere espulso. I responsabili religiosi si rifiutano di aprire le chiese alla polizia, quando viene per arrestare i clandestini. «Le chiese devono aprire i loro battenti per accogliere coloro che Trump vuole deportare - afferma nella rivista ecumenica Sojourners, B. Packnett. Se Trump decidesse di deportare undici milioni di clandestini, dobbiamo chiedere una massiccia disobbedienza civile. La resistenza è un lavoro sacro. Ecco perché è il nostro lavoro”.
Alle chiese si sono aggiunte anche alcune università, città e contee. Alle “città santuario” il 25 gennaio Trump ha deciso di tagliare i fondi federali. Ma ora è lo stesso stato della California a dichiararsi “stato-santuario”, attirandosi i fulmini di Trump. Questo movimento è uno straordinario stimolo per le sonnolente Chiese d’Europa. Data la gravità della situazione dei migranti in Europa, diventa pressante un appello anche alle Chiese in Italia perché lancino nel nostro paese il movimento delle ‘chiese santuario’!
Disobbedienza civile
È un atto di coraggio che la Chiesa cattolica in Italia deve fare: diocesi e parrocchie, comunità cristiane e conventi. È il coraggio della disobbedienza civile per la difesa della vita umana! E lo stesso coraggio lo devono avere le Chiese valdesi, luterane, battiste, metodiste, evangeliche presenti sul nostro territorio. Se le chiese dessero l’esempio, anche città, comuni, municipalità e università potrebbero seguirne l’esempio.
«Sogno un’Europa in cui essere migrante non è un delitto», ha detto papa Francesco parlando alle massime autorità della Ue. Questo è anche il nostro sogno e il nostro impegno.
*Missionario comboniano
* Fonte: Comune-info, 21 gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Un gesto che ferisce la comunità ecclesiale e l’impegno civile per la pace.
di Sergio Paronetto (presidente Centro Studi di Pax Christi Italia) *
Tristezza, sconcerto e anche indignazione. Che paradosso proclamare papa Giovanni XXIII patrono dell’esercito!
E’ come dichiarare Francesco d’Assisi patrono del sistema finanziario o madre Teresa patrona delle multinazionali.
Le ragioni del patronato sono biograficamente riduttive, forzate o parziali, tutte legate alla sua esperienza di cappellano militare durante la prima guerra mondiale “inutile strage”. Ma Roncalli non è morto in quegli anni. Proclamarlo patrono per le sue doti di cappellano militare vuol dire snaturarne il messaggio, inchiodarlo a un’esperienza discussa e tremenda che ha superato approdando ad altre argomentazioni, ad altri orizzonti (Concilio, Pacem in terris) così come ha fatto Primo Mazzolari.
Già all’indomani della fine della prima guerra mondiale, Roncalli affermava: «Ciò che vale veramente e soprattutto non è la forza delle spade e dei cannoni, ma la forza della giustizia davanti al cielo e alla terra, la forza del diritto e insieme della umana e divina fraternità degli uomini, il senso dell’onore. In queste cose sta il progresso verace degli individui e delle nazioni» (omelia 17 novembre 1918, chiesa di Santo Spirito, Bergamo).
Nel giugno 1940 osservava che “la guerra è un periculum enorme. Per un cristiano che crede in Gesù e nel suo vangelo un’iniquità e una contraddizione”.
Nella Pacem in terris del 1963 invita tutti al “disarmo integrale” considerando la guerra moderna come “l’incubo di un uragano” e un fenomeno assurdo, “alienum a ratione” (60, 61, 67).
E’ di guerre, infatti, che si parla quando si parla di esercito.
Ultimamente, le guerre in Iraq, in Serbia, in Libia, in Afghanistan sono state le azioni scellerate (e controproducenti) che i governi italiani hanno promosso riuscendo sia ad aggirare l’articolo 11 della Costituzione, sia ad arricchire i fabbricanti di armi, complici dei Parlamenti che rinnovano esorbitanti finanziamenti per sistemi d’arma, bombe, missili, aerei e navi da guerra tanto da non avere più denaro per curare i malati, istruire i giovani, sconfiggere le marginalità sociali, contrastare il dissesto idrogeologico, prevenire le calamità.
Le missioni militari cosiddette di pace raramente sono dentro un’ampia strategia ONU di contrasto alle violenze con forme adeguate di polizia internazionale. Oggi “il libro bianco della difesa” prefigura interventi contrari alla Costituzione della Repubblica, colpisce il fondamento giuridico della nostra carta fondamentale che intende ripudiare le guerre e prevenire i conflitti senza l’uso della guerra.
Ezio Bolis, su “l’Osservatore romano” (11 settembre 2017), osserva che tale scelta potrebbe essere “una provvidenziale occasione per riflettere in modo ponderato sul significato e l’opportunità di una presenza, quella dei cappellani militari, all’interno di un’istituzione qual è l’esercito”. Con azzardo utopistico potremmo aggiungere addirittura che la riflessione su papa Giovanni potrebbe ridimensionare lo stesso esercito, allontanarlo dalla Nato, limitarlo a una funzione rigorosamente difensiva.
Magari fosse così. Le dinamiche economiche, politiche e militari vanno in altre direzioni (distruttive e devastanti). Occorre molto realismo per vincere il rischio di ingenuità o di ipocrisia!. In realtà siamo davanti a due tristi operazioni: alla cattura burocratica-castale di un papa noto al mondo per la sua azione di pace e per averci donato la Pacem un terris; al tentativo di imbrigliare e ostacolare il magistero di pace di papa Francesco, ritenuto troppo audace e scomodo, spesso in contrasto con alcune pratiche o silenzi dei vescovi italiani (vedere i suoi interventi al Convegno ecclesiale di Firenze del novembre 2015 o quelli alla CEI nel maggio del 2015 e 2017).
Forse per molti ecclesiastici la via della nonviolenza, indicata da Francesco nel messaggio del 1 gennaio 2017, è ritenuta impossibile e pericolosa. Forse molti ritengono assurdo parlare di terza guerra mondiale a pezzi.
Continuo a ritenere con Francesco che la via per la pace può essere solo una via di pace (come ha detto in Colombia il 10 settembre 2017), un’arte da esercitare, un impegno non proclamato a parole ma di fatto negato con strategie di dominio supportate da scandalose spese per armamenti mentre troppe persone sono prive del necessario per vivere. Il magistero di pace dei papi non si merita simile trattamento!
*Bocche Scucite, 12/9/17 (ripresa parziale - senza immagini).
MESSAGGIO EVANGELICO E COSTITUZIONE. L’ Amore (Charitas) non è lo zimbello del tempo e di Mammona (Caritas)!!!:
Papa Francesco: «Pregate perché io prenda esempio da don Milani»
Nelle parole del Papa l’abbraccio della Chiesa che don Lorenzo Milani ha desiderato fino alla morte, il riconoscimento del suo essere sacerdote, non solo maestro non solo pacifista. Un fatto storico, ecco perché
di Elisa Chiari *
«Pregate per me perché anche io sappia prendere esempio da questo bravo prete». Quel bravo prete è don Lorenzo Milani e più chiaro e diretto di così Papa Francesco non avrebbe potuto essere. Non c’era questa frase nel discorso preparato, non c’era la frase finale rivolta ai sacerdoti: "Prendete la fiaccola e portatela avanti». Le ha aggiunte a braccio.
Don Milani aveva ragione, quando nel suo tono sempre un po’ provocatorio diceva: «Mi capiranno tra 50 anni». Forse faceva un numero, per dirla con parole sue, «per dar forza al discorso». Ma la contingenza della storia ha voluto che fosse una cifra esatta, che servissero davvero 50 anni - don Milani è morto il 26 giugno del 1967 - perché un papa venisse quassù, a Barbiana - una Barbiana restaurata con la vasca azzurra come allora non era-, al margine del margine del mondo, nella parrocchia che doveva chiudere e che fu tenuta aperta per isolare un sacerdote che allora si diceva "scomodo" e che oggi papa Francesco dice «ha lasciato una traccia luminosa».
Per molto tempo, don Lorenzo Milani è stato raccontato come l’educatore, il maestro, l’obiettore di coscienza - non senza distorsioni e strumentalizzazioni da parti assortite -: quasi che fosse marginale nella sua presenza storica il suo essere prete. Lo si è raccontato lasciando nell’ombra il lato che a don Milani premeva di più, perché fondava il senso della sua esistenza cristiana: il riconoscimento del suo sacerdozio da parte della Chiesa.
Cinquant’anni dopo Papa Francesco sana, dichiarandolo esplicitamente, questa mancanza. Mette il punto più importante alla fine, Papa Francesco, quasi per lasciarne il significato scolpito - come a segnare un passaggio che chi studierà il rapporto tra don Lorenzo Milani e la Chiesa di qui in poi non potrà ignorare -: «Non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: "Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato...". Dal Cardinale Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani - non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco -, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa. Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: "Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui... quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio... Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto"».
Non per caso nelle parole del Papa emerge più di tutto il don Milani sacerdote: le definizioni che dà di don Milani lungo tutto lo snodo del discorso non sono scelte a caso. «Sono venuto a Barbiana» esordisce papa Francesco «per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve». Agli allievi dice: «Voi siete i testimoni di come un prete abbia vissuto la sua missione, nei luoghi in cui la Chiesa lo ha chiamato, con piena fedeltà al Vangelo e proprio per questo con piena fedeltà a ciascuno di voi, che il Signore gli aveva affidato». E ancora: «La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole».
Papa Francesco sottolinea l’attualità di don Milani: «Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso». Il papa parla esplicitamente di "umanizzazione", facendo riferimento a un concetto milaniano: la parola ai poveri non per farli diventare più ricchi, ma per farli diventare più uomini. Non per caso c’è più di Esperienze pastorali sotteso al discorso di don Milani a Barbiana di quanto non ci sia di Lettera a una professoressa. La cita, certo, quando parla agli educatori: ma al centro c’è il sacerdote non il maestro. «La vostra è una missione piena di ostacoli ma anche di gioie. Ma soprattutto è una missione. (...) Questo è un appello alla responsabilità. Un appello che riguarda voi, cari giovani, ma prima di tutto noi, adulti, chiamati a vivere la libertà di coscienza in modo autentico, come ricerca del vero, del bello e del bene, pronti a pagare il prezzo che ciò comporta. E questo senza compromessi».
Ai sacerdoti papa Francesco ricorda che «la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore e che nel ministero sacerdotale trova la forma piena e compiuta per il giovane convertito. Sono note le parole della sua guida spirituale, don Raffaele Bensi, al quale hanno attinto in quegli anni le figure più alte del cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso, sotto il paterno ministero del venerabile Cardinale Elia Dalla Costa. Così ha detto don Bensi: "Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire". Essere prete come il modo in cui vivere l’Assoluto. Diceva sua madre Alice: "Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale". Senza questa sete di Assoluto si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri, capaci di diventare servitori di Cristo nei fratelli". Don Lorenzo ci insegna anche a voler bene alla Chiesa, come le volle bene lui, con la schiettezza e la verità che possono creare anche tensioni, ma mai fratture, abbandoni».
E ancora: «La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità».
Quelle ultime parole: «prendete e portate la fiaccola» sono l’abbraccio che don Lorenzo Milani ha desiderato una vita. Chi stava ascoltando sulle seggiole bianche di Barbiana lo sapeva, per aver vissuto con lui il dolore dell’incomprensione, e non per caso ha applaudito proprio i passaggi in cui ha sentito il riconoscimento atteso dal Priore per mezzo secolo.
L’OBBEDIENZA NON È PIÙ UNA VIRTÙ. IN UN LIBRO, IL PROCESSO A DON MILANI
di Luca Kocci (Adista/Notizie, 17 DICEMBRE 2016 • N. 44)
38787 FIRENZE-ADISTA. «Non discuterò qui l’idea di patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri». Scriveva così, poco più di 50 anni fa, nel 1965, don Lorenzo Milani ai cappellani militari in congedo della Toscana i quali, al termine di un incontro in ricordo della firma dei Patti lateranensi, avevano attaccato l’obiezione di coscienza al servizio militare, definendola «insulto alla patria», «estranea al comandamento cristiano dell’amore» ed «espressione di viltà».
La vicenda comincia quasi per caso, in un giorno di febbraio. Da oltre 11 anni don Milani viveva a Barbiana, sul monte Giovi, nel Mugello (Fi), dove l’arcivescovo di Firenze, il card. Florit, lo aveva spedito in “esilio” nel dicembre 1954 e dove don Lorenzo aveva messo in piedi una scuola per i piccoli montanari.
La lettura collettiva del giornale era una delle attività quotidiane delle scuola di Barbiana. E così, il 14 febbraio 1965, informato da Agostino Ammannati - un professore del liceo “Cicognini” di Prato che collaborava con don Milani a Barbiana -, don Milani legge insieme ai suoi ragazzi un trafiletto pubblicato due giorni prima sulla Nazione di Firenze:
Non si può tacere. E così don Milani, insieme agli alunni della scuola, si mette subito al lavoro per replicare ai cappellani, dal momento che, scrive, «avete rotto il silenzio voi, e su un giornale».
In pochi giorni è pronta la “Lettera ai cappellani militari” che viene ciclostilata e inviata ai preti della diocesi di Firenze e ad una serie di giornali, molti dei quali cattolici, ma che viene pubblicata, il 6 marzo, solo dal settimanale del Partito comunista italiano, Rinascita.
Ha un effetto deflagrante: il priore di Barbiana viene isolato ancora di più dalle gerarchie cattoliche, denunciato da un gruppo di reduci (insieme al direttore di Rinascita, Luca Pavolini) per incitamento alla diserzione e istigazione alla disubbidienza militare, processato, prima assolto e poi condannato (come Pavolini), se il reato non fosse stato dichiarato estinto perché era morto poco prima, il 26 giugno 1967.
Alla vicenda dedica ora un libro il giornalista e scrittore toscano Mario Lancisi (Processo all’obbedienza. La vera storia di don Milani, Laterza, 2016, pp. 158, euro 16; il libro è acquistabile anche presso Adista: tel. 06/6868692; fax 06/6865898; e-mail: abbonamenti@ adista.it; oppure acquistato online su www.adista.it), che sulla lettera ai cappellani esprime un giudizio netto: anche se sono passati cinquant’anni, «conserva intatta la sua carica eversiva». Perché mette il dito su tre piaghe: la patria, la guerra («ogni guerra è classista» perché «altro non è per il priore che la difesa degli interessi materiali ed economici delle classi dominanti») e i cappellani militari.
La lettera e il processo non arrivano come un fulmine a ciel sereno: nel 1961 il sindaco di Firenze La Pira aveva fatto proiettare il film antimilitarista francese “Tu ne tueras point” (“Tu non uccidere”), ignorando la censura e attirandosi le critiche di Andreotti, dell’Osservatore Romano e un processo penale; nel 1963 il primo obiettore cattolico, Giuseppe Gozzini, era stato condannato a sei mesi, e padre Ernesto Balducci, che lo aveva difeso in un’intervista ad un quotidiano, ad otto mesi; Giovanni XXIII aveva emanato la Pacem in Terris, e il Concilio Vaticano II sfiorato il tema, preferendo però soprassedere.
Ma il tuono è decisamente più fragoroso, anche per la potenza della scrittura di Milani, distante anni luce dalla prudenza ecclesiastica («il galateo, legge mondana, è stato eletto a legge morale nella Chiesa di Cristo? Chi dice coglioni va all’inferno. Chi invece non lo dice ma ci mette un elettrodo viene in visita in Italia e il galateo vuole che lo si accolga con il sorriso», scriverà Milani, riferendosi a De Gaulle e alla guerra di Algeria, in un articolo pubblicato post mortem dall’Espresso).
Al processo don Milani non va: è malato, un
linfoma di Hodgkin lo sta consumando. Viene
difeso da un avvocato d’ufficio - che curiosamente
è un “principe del foro”, Adolfo Gatti -,
ma invia, come memoria difensiva, un nuovo
testo (la “Lettera ai giudici”), destinato anch’esso
a diventare una pietra miliare dell’antimilitarismo
e della disobbedienza, o piuttosto
dell’obbedienza non ad un’autorità precostituita
sia militare che clericale - ma alla propria coscienza
(«l’obbedienza non è più una virtù, ma
la più subdola delle tentazioni»).
Il libro di Lancisi non aggiunge particolari inediti, ma contestualizza e ricostruisce con puntualità e rigore le fasi del processo attraverso le cronache del tempo, fino all’assoluzione in primo grado con formula piena.
Don Milani muore, ma la storia va avanti, con la condanna in appello di Pavolini e della “Lettera ai cappellani”. La sentenza arriva il 28 ottobre 1967, 45° anniversario della marcia su Roma.
«Era nel ‘22 che bisognava difendere la patria aggredita. Ma l’esercito non la difese», aveva scritto Milani nella lettera. «Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la coscienza invece che con l’obbedienza cieca, pronta, assoluta, quanti mali sarebbero stati evitati alla patria e al mondo». (luca kocci)
Anniversari
Quel processo a don Milani
di Andrea Fagioli (Avvenire, 09 aprile 2015)
Sono passati cinquant’anni dalla Risposta ai cappellani militari che costò a don Lorenzo Milani due processi per apologia di reato: il primo di assoluzione con formula piena «perché il fatto non costituisce reato»; il secondo, in appello, di condanna con «reato estinto per la morte del reo». Il priore di Barbiana, infatti, morì quattro mesi prima del processo che si tenne a Roma il 28 ottobre 1967.
Tutto era nato da un comunicato su “La Nazione” del 12 febbraio 1965 nel quale un gruppo toscano di «cappellani militari in congedo», riunitosi a Firenze «nell’anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano», considerava «un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà». Don Milani, come lui stesso raccontò, lesse il testo davanti ai suoi ragazzi della scuola di Barbiana nella sua «duplice veste di maestro e di sacerdote», mentre loro lo «guardavano sdegnati e appassionati». «Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno - scrisse il priore - di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita».
D’accordo con gli allievi, don Lorenzo decise di replicare ai cappellani: «Le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo e della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona».
Per rendere pubblico il documento, don Milani, il 23 febbraio, ne fece stampare tremila copie da distribuire tra la gente di Barbiana, i preti fiorentini, alcuni politici e sindacalisti, oltre ad inviarlo ai giornali, che si guardarono bene dal pubblicarlo, ad eccezione del periodico comunista “Rinascita” che lo mise integralmente in pagina nel numero del 6 marzo 1965.
Alla Risposta ai cappellani militari reagirono in molti, anche per il tipo di testata che l’aveva accolta, ma fu l’esposto alla procura di Firenze presentato da un gruppo di ex combattenti («Profondamente e dolorosamente feriti nel loro più sacro patrimonio ideale di cittadini e di soldati») a dare il via all’azione legale contro il priore di Barbiana e il direttore di “Rinascita”, Luca Pavolini. Un accoppiamento che disturbò molto don Lorenzo: «È dunque per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch’io trovo incriminato con me una rivista comunista. Non ci troverei da ridire nulla se si trattasse d’altri argomenti. Ma essa non merita l’onore d’essersi fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non violenza».
Il processo di primo grado fu fissato a Roma, in quanto sede legale di “Rinascita”, il 30 ottobre 1965. «Come avrete visto - scrisse don Milani ai suoi ragazzi -, i capi d’imputazione sono ridotti a incitamento alla diserzione e incitamento alla disubbidienza militare». In ogni caso rischiava da tre a dieci anni, ma non potendo partecipare direttamente alle sedute perché ormai malato di tumore, decise di inviare al tribunale una memoria difensiva che è passata alla storia come Lettera ai giudici, nella quale il concetto di fondo è che quando le leggi non sono giuste bisogna battersi per cambiarle ed è dovere di ogni cittadino intervenire quando non si rispettano i principi di giustizia, di libertà e di verità. Don Milani fu anche costretto ad accettare un difensore d’ufficio che non voleva: «Non voglio un luminare del foro col bavero di pelliccia e la macchina con le tendine e l’autista... Se mi vuol difendere, delinqua anche lui come ho delinquito io».
Al processo, come detto, non si presentò, ma fece avere tramite l’avvocato un certificato e la Lettera. La prima seduta si risolse in cinque minuti e fu aggiornata al 14 dicembre. Tra un rinvio e l’altro il processo si concluse il 15 febbraio 1966 con la richiesta da parte del pubblico ministero di otto mesi di reclusione per don Milani e otto mesi e mezzo per Pavolini. I giudici, dopo tre ore di camera di consiglio, optarono per l’assoluzione, ma il pubblico ministero ricorse subito in appello.
Il processo di secondo grado fu fissato il 28 ottobre 1967, ma don Milani morì il 26 giugno. Ad essere condannato fu il direttore di “Rinascita”. La cosa strana e per certi versi misteriosa è che le motivazioni di quella sentenza non sono mai stata pubblicate. «In appello sono andato solo, perché purtroppo don Milani era già morto - raccontò Pavolini -. E naturalmente mi hanno condannato: a cinque mesi e dieci giorni... Ma non si sono accorti che la condanna veniva a cadere sotto amnistia. E l’amnistia è stata applicata dalla Cassazione». © riproduzione riservata
Difesa, ecco il libro nero della ministra Pinotti
di Manlio Dinucci (il manifesto, 24 giugno 2014)
Dopo aver ricevuto l’imprimatur del Consiglio supremo di difesa, convocato dal presidente Napolitano, la ministra Pinotti ha pubblicato le linee guida del futuro «Libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa», che traccerà «la strategia evolutiva delle Forze armate sull’orizzonte dei prossimi 15 anni». Strategia che, come indicano le linee guida, continuerà a seguire il solco aperto nel 1991, subito dopo che la Repubblica italiana aveva combattuto nel Golfo, sotto comando Usa, la sua prima guerra.
Sulla falsariga del riorientamento strategico del Pentagono, il ministero della difesa del governo Andreotti annunciò un «nuovo modello di difesa». Violando la Costituzione, esso stabiliva che compito delle Forze armate è «la tutela degli interessi nazionali, nell’accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario» e definiva l’Italia «elemento centrale dell’area che si estende dallo Stretto di Gibilterra al Mar Nero, collegandosi, attraverso Suez, col Mar Rosso, il Corno d’Africa e il Golfo Persico».
Questo «modello di difesa» è passato da un governo all’altro, da una guerra all’altra sempre sotto comando Usa (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia), senza mai essere discusso in quanto tale in parlamento. Tantomeno lo sarà ora: la ministra della Difesa - ha deciso il Consiglio supremo presieduto da Napolitano - invierà le linee guida ai presidenti delle commissioni Esteri e Difesa dei due rami del parlamento, «affinché ne possano eventualmente venire valutazioni e suggerimenti utili alla definizione del Libro bianco, di cui il governo si è assunto l’iniziativa e la responsabilità».
Resta dunque immutato l’indirizzo di fondo, che non può essere messo in discussione. Compito delle forze armate - si ribadisce nelle linee guida - è non tanto la difesa del territorio nazionale, oggi molto meno soggetto a minacce militari tradizionali, quanto la difesa degli «interessi nazionali», soprattutto gli «interessi vitali», in particolare la «sicurezza economica». Sicurezza che consiste nella «possibilità di usufruire degli spazi e delle risorse comuni globali senza limitazioni», con «particolare riferimento a quelle energetiche». A tal fine l’Italia dovrà operare nel «vicinato orientale e meridionale dell’Unione europea, fino ai paesi del cosiddetto vicinato esteso» (compreso il Golfo Persico). Per la salvaguardia degli «interessi vitali» - si chiarisce - «il Paese è pronto a fare ricorso a tutte le energie disponibili e ad ogni mezzo necessario, compreso l’uso della forza o la minaccia del suo impiego».
Nel prossimo futuro le Forze armate saranno chiamate a operare per il conseguimento di obiettivi sempre più complessi, poiché «rischi e minacce si svilupperanno all’interno di estese e frammentate aree geografiche, sia vicine sia lontane dal territorio nazionale». Riferendosi in particolare a Iraq, Libia e Siria, il Consiglio supremo sottolinea che «ogni Stato fallito diviene inevitabilmente un polo di accumulazione e di diffusione globale dell’estremismo e dell’illegalità». Ignorando che il «fallimento» di questi e altri Stati deriva dal fatto che essi sono stati demoliti con la guerra dalla Nato, con l’attiva partecipazione delle Forze armate italiane. Secondo le linee guida, esse devono essere sempre più trasformate in «uno strumento con ampio spettro di capacità, integrabile in dispositivi multinazionali», da impiegare «in ogni fase di un conflitto e per un protratto periodo di tempo».
Le risorse economiche da destinare a tale scopo, stabilisce il Consiglio supremo di difesa, «non dovranno scendere al di sotto di livelli minimi invalicabili» (che diverranno sempre più alti) poiché - si sottolinea nelle linee guida - «lo strumento militare rappresenta per il paese una assicurazione e una garanzia per il suo stesso futuro». A tal fine si preannuncia una legge di bilancio quinquennale per i maggiori investimenti della Difesa (come l’acquisizione del nuovo caccia F-35), così da fornire «l’indispensabile stabilità di risorse».
Occorre inoltre «spingere l’industria a muoversi secondo traiettorie tecnologiche e industriali che possano rispondere alle esigenze delle Forze armate». In altre parole, si deve dare impulso all’industria bellica, puntando sull’innovazione tecnologica, «resa necessaria dall’esigenza di un continuo adeguamento dei sistemi», ossia dal fatto che i sistemi d’arma devono essere continuamente ammodernati. È necessario allo stesso tempo non solo un migliore addestramento dei militari, ma un generale elevamento dello «status del personale militare», attraverso adeguamenti giuridici e normativi.
Poiché nasce dalla «esigenza di tutelare i legittimi interessi vitali della comunità», si afferma nelle linee guida, «la Difesa non può essere considerata un tema di interesse essenzialmente dei militari, quanto della comunità tutta». La ministra Pinotti invita quindi tutti gli italiani a inviare «eventuali suggerimenti» alla casella di posta elettronica librobianco@difesa.it. Speriamo che i lettori del manifesto lo facciano in tanti.
E Calamandrei difese i soldati
di Goffredo Fofi (il Sole-24ore Domenica, 22.06.2014)
In un numero del marzo 1956 della rivista che aveva fondato e dirigeva, «Il ponte», pochi mesi prima di morire Piero Calamandrei pubblicò un ricordo del suo primo processo che ora le edizioni Henry Beyle propongono in un prezioso volumetto a tiratura limitata ([Piero Calamandrei, Il mio primo processo] -info@henrybeyle.com).
Privo al solito di qualsiasi retorica, in una lingua asciutta, essenziale, uno splendido italiano che è tutto fuorché "avvocatesco", si tratta di poche pagine che evocano avvenimenti di quarant’anni prima. Siamo nell’estate del 1916, «all’ombra del Pasubio», sul fronte della prima guerra mondiale. Calamandrei aveva allora 27 anni, si era da poco laureato in legge, era "sottotenente di fanteria" e venne chiamato a difendere dei poveri soldati che non capivano cosa gli stesse succedendo, perfettamente innocenti, e questo pochi minuti prima che un tribunale straordinario si riunisse per giudicare otto fanti accusati di «abbandono di posto dinanzi al nemico».
Il processo era stato imposto da un classico generale fanatico e, con gli occhi di poi, ridicolo: «una specie di "puro folle" della guerra», con «una grande barba da apostolo e celesti occhi paterni», che sfidava la morte e «passava nelle trincee a fronte alta, sorridente e patriarcale, e ogni tanto, se gli avveniva di scoprire una testa, vi calava sopra un randellata: senza scomporsi, con aria ispirata, come se compiesse un rito». Al colonnello che aveva convocato Calamandrei, questo generale aveva chiesto che «almeno uno per l’esempio bisogna fucilarlo».
«Per l’esempio» è una formula ben nota ai tribunali militari di tutti i fronti e di tutte le guerre. Gli otto accusati, «tutti meridionali, quasi tutti di classe anziana», erano stati sbarcati tempo prima, quando erano ancora in dodici, da un autocarro nottetempo durante un’avanzata, vicino alla linea di combattimento, e spediti a raggiungere un paese, senza guida e senza mai aver visto quei luoghi. Si erano perduti, ma erano stati ritrovati all’alba, e avevano preso parte a combattimenti durante i quali due di loro erano morti e due erano moribondi. Gli altri otto, «colpevoli di essere rimasti vivi» , erano stati posti sotto processo dal «puro folle» per dare un «pronto esempio di militare giustizia».
È quest’assurdo processo a dei poveri cristi storditi e "trasognati", di fronte a cinque giudici rimediati, che venne celebrato nella convinzione della certa condanna a morte di almeno uno degli accusati - non fosse che il giovane Calamandrei fresco di studi trovò un cavillo che metteva in discussione il «pronto esempio»: i fatti erano successi tre settimane prima, l’urgenza dell’esempio non c’era più, bisognava dunque deferire il processo ad altro tribunale «stabile e regolarmente costituito». È per fortuna quello che accade, grazie alla inattesa complicità del pubblico accusatore, che aveva pratica di leggi militari e che prese le parti di Calamandrei appoggiando la sua tesi, con grande smacco del «puro folle». Il processo venne dunque rinviato a chi di dovere, ad altro luogo e giorno, e lì gli imputati, saprà più tardi il loro difensore, vennero assolti.
Ma per il giovane Calamandrei si sarebbe messa male se il suo colonnello non lo avesse difeso di fronte al «puro folle» che, «per ristabilire la disciplina», chiese che venisse messo lui sotto processo, per insubordinazione. Per salvarlo il colonnello, fece passare Calamandrei per una sorta di «malato di mente». «Allora, se è malato di mente, lo porterò con me a fare una giratina fuori dai reticolati, e così rinsavirà». Ma due giorni dopo il reggimento fu trasferito, e il «puro folle» perse di vista il giovane «malato di mente».
Questo racconto perfetto - di straordinaria intensità morale, narrativa, visiva e dove pathos e ironia si compenetrano va messo accanto, in quest’anno 2014 a un secolo dall’inizio dell’assurdo massacro del ’14-’18, a quello "inventato" di De Roberto, La paura e a Un anno sull’altipiano di Lussu, alle poesie di Rebora, alle pagine di Addio alle armi sulla ritirata di Caporetto. È una storia da leggere e far leggere proprio per «dare un esempio» - non quello previsto dalla giustizia militare, bensì un esempio dell’assurdo della guerra e di un’idea astratta e fanatica di giustizia.
Il miracoloso stipendio dei preti in divisa
I cappellani militari percepiscono fino a 4mila euro. E paghiamo noi
di Daniele Martini (il Fatto, 05.12.2013)
Don Renato Sacco, coordinatore del movimento Pax Christi e parroco di Verbania nella diocesi di Novara, riceve grazie all’8 per mille uno stipendio mensile di 1.200 euro netti per 12 mensilità. Il nuovo ordinario militare, monsignor Santo Marcianò, riscuote invece dallo Stato-ministero della Difesa un assegno cinque volte più sostanzioso per 13 mesi di fila, equivalente a quello di un generale di brigata. Più l’auto blu. Monsignor Marcianò è stato nominato ordinario poche settimane fa, il 10 ottobre, da papa Francesco. Il quale in questo caso evidentemente non se l’è sentita di mettere in discussione una pratica assai amata dalla Chiesa tradizionalista, ma che da più di mezzo secolo provoca lacerazioni nel popolo di Dio. Per esempio l’ultimo numero di Mosaico di pace, la rivista diretta da padre Alex Zanotelli, ha pubblicato un dossier di venti pagine molto critico sull’argomento.
AL DI LÀ degli aspetti dottrinali, l’organizzazione di un corpo di cappellani militari assai ben pagati ed omaggiati mette in evidenza l’esistenza all’interno del clero di una specie di casta con le stellette, strutturata come una vera diocesi, addirittura con un proprio seminario piazzato nel bel mezzo delle caserme della città militare di Roma alla Cecchignola. L’Ordinariato militare ha uno suo arcivescovo-generale assistito da un vicario e 5 vicari episcopali più altri 176 religiosi con 3 auto blu a disposizione. Il loro status è regolato dal Concordato Stato-Chiesa del 1929 rinnovato nel 1984 ai tempi di Craxi presidente del Consiglio, e infine ritoccato da una legge di tre anni fa che ha precisato le condizioni giuridiche e l’avanzamento di carriera dei preti in uniforme.
Tutti quanti, dall’ordinario militare al cappellano sono equiparati ad ufficiali delle Forze armate italiane e trattati come tali, con relativi vantaggi e privilegi, sia dal punto di vista della remunerazione sia della pensione. A un cappellano militare alle prime armi (è proprio il caso di dirlo) viene riconosciuto il grado di tenente con uno stipendio di 1.700 euro netti al mese. Dopo 15 anni, grazie all’avanzamento automatico della carriera e al ruolo più alto raggiunto, può contare su una paga tra i 3.500 e i 4.000 euro netti. I pensionati sono circa 160, tra cui 4 ordinari militari e 4 vicari. Gli ordinari riscuotono un assegno di oltre 4.500 euro netti, la maggioranza degli altri pensionati ha un trattamento da colonnello e quindi percepiscono circa 3.800 euro. Per il mantenimento dell’Ordinariato militare il Ministero della Difesa spende 17 milioni di euro ogni anno: 10 milioni per gli stipendi dei cappellani in servizio e 7 milioni per le pensioni dei preti soldato.
IN FUTURO quest’ultima cifra è destinata a crescere parecchio perché anche ai cappellani militari potrebbe essere riconosciuto quel vantaggiosissimo “scivolo d’oro” che il ministro ciel-lino della Difesa, Mario Mauro, sta regalando ai dipendenti delle Forze armate nonostante le terribili ristrettezze del bilancio statale. Il contingente militare dovrà scendere da un totale di 190 mila soldati a 150 mila nel giro di pochi anni e di conseguenza anche il numero dei cappellani militari dovrebbe essere ridotto di conseguenza. A quel punto si porrà la questione dell’esubero dei preti soldato ai quali è del tutto probabile che il ministro della Difesa voglia assicurare lo scivolo d’oro. In base a questo provvedimento i militari possono ritirarsi a 50 anni d’età con uno stipendio pari all’85 per cento di quello pieno più i contributi versati e calcolati sulla retribuzione di quando erano in attività. E se vorranno, potranno pure trovarsi un altro lavoro. Dopo 10 anni di questa pacchia potranno andarsene comodamente in pensione di vecchiaia a 60 anni (per i militari la legge Fornero non vale). E non è finita perché per i quattro anni successivi avranno diritto all’”ausiliaria”, cioè al recupero fino al 75 per cento dei benefici economici concessi ai colleghi in attività.
DIVENTATI UNA CASTA nella casta, i preti soldato dovranno allora fare i conti con un problema di coscienza in più. Non solo come conciliare le stellette con il messaggio evangelico di pace, ma con quale faccia presentarsi all’altare davanti alla comunità dei fedeli.
D’armi e d’Amore, lettera da Barbiana
Dei giovani di Pax Christi trascorrono la Giornata delle Forze Armate a Barbiana, il paese dove operò don Lorenzo Milani. Soldati, obbedienza, missioni di pace: pensieri di don Sacco. *
Sì, è proprio vero, tutto dipende dai punti di vista. Un conto è vedere un bombardamento da 5.000 metri di altezza e un conto è viverlo nello scantinato della propria casa. La stessa cosa vale per la ricorrenza del 4 novembre. Quest’anno mi trovo in Toscana, a Barbiana, dove è vissuto, è morto ed è sepolto don Lorenzo Milani, il sacerdote che scrisse la lettera ai cappellani militari («L’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni») e fu denunciato. Scrisse poi la lettera ai giudici, non potendosi presentare in tribunale perchè malato. Fu assolto ma, in appello, venne condannato. Intanto, però, il reo era morto il 26 giugno 1967.
Leggere queste lettere così intense, insieme al gruppo dei giovani di Pax Christi, che ha voluto essere qui proprio oggi, mi ha aiutato, come prete e come uomo, a vedere con occhi diversi anche il 4 novembre. Quanta retorica sulla guerra. Magari mascherata con parole altisonanti, tutte scritte con capolettere maiuscole: Eroi, Patria, Valori, Civiltà. Non sarebbe giusto anche ricordare il motivo per cui si celebra il 4 novembre? Cioè la fine della Prima guerra mondiale che ha visto, solo tra gli italiani: 600.000 morti, 947.000 feriti, mutilati e invalidi, 600.000 prigionieri e dispersi. Forse si dovrebbero ricordare le parole di papa Benedetto XV, del 1 agosto 1917: «Questa guerra, un’inutile strage». Perché non vivere questa ricorrenza partendo proprio dai dati impressionanti di questa "strage"? Perché si cerca sempre di presentare la guerra, magari chiamandola con altri nomi, come se fosse una cosa "umana"? Invece è pura follia, «alienum est a ratione» diceva Giovanni XXIII nella Pacem in Terris. Perché non partire, come credenti, proprio dal Vangelo, dal comandamento più importante di cui parla il Vangelo di oggi?
Don Milani scriveva nella lettera ai cappellani militari: «Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. E’ troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa». Da Barbiana risuona ancora oggi un invito alla riflessione, a non lasciarci abbindolare dalle parole spesso superficiali e menzognere che accompagnano ogni operazione di guerra. Da Barbiana risuona un invito forte al primato della coscienza. Di fronte alla guerra, di fronte ad un ordine di uccidere deve prevalere la coscienza e non la giustificazione dell’obbedienza. «Bisogna aver il coraggio - scriveva don Milani - di dire ai giovani che l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni...». Mi chiedo: perché non aprire un serio confronto sulla guerra oggi? Sul servizio militare, non più obbligo di leva, ma professionale? Perché si è praticamente cancellato il servizio civile per i giovani? Perché non ci si riesce a confrontare né col mondo politico, né militare, né religioso? Perché non interrogarci sul ruolo dei cappellani militari oggi? Perché dopo 10 anni di guerra in Afghanistan non si vuole fare un serio bilancio dei veri risultati ottenuti? Quali?
Io sono stato lo scorso anno in Afghanistan così come sono stato molte volte anche in Irak. Quali i risultati di quella guerra, che Giovanni Paolo II definì "avventura senza ritorno"? Sono domande che pongo con molto rispetto nei confronti di tutte le vittime, anche dei soldati italiani uccisi, proprio perché credo di essere stato tra i pochissimi italiani presenti alle esequie celebrate a Baghdad il 18 novembre 2003, delle 19 vittime italiane a Nassirya, credo sia doverosa una riflessione diversa sulla guerra, con meno retorica e più realismo. «E’ davvero insopportabile questa retorica sulla guerra sempre più incombente e asfissiante», abbiamo scritto nell’appello ‘Eroi per la pace o vittime della guerra?’, firmato da oltre 100 preti. Perché si tende ad identificare la missione, il servizio, con l’attività militare? Perché anche nel campo educativo sembra sempre più prendere piede una cultura militare, armata? Perché non aprire una seria riflessione sul valore e sulla pratica del nonviolenza attiva? Non solo perché ce lo indica il Vangelo di Gesù, ma anche perché ce lo chiede la Costituzione Italiana che all’art. 11 recita: «L’Italia ripudia la guerra...».
Si sono proprio punti di vista diversi, ma da Barbiana i giovani mi hanno ricordato che don Milani invitava a stare sempre dalla parte dei più deboli. Il priore don Lorenzo ci ha creduto fino in fondo e ha pagato caro questo suo essere accanto ai più deboli: «Fa strada ai poveri senza farti strada». Allora anche il comunicato dei giovani di Pax Christi, leggibile sul sito paxchristi.it, merita di essere preso in considerazione, è una critica costruttiva, che apre a cammini di confronto, unica strada possibile per la pace, per la vita. «Come collettivo giovani di PaxChristi vogliamo invitare a una riflessione sul significato della festa delle Forze armate del 4 novembre, proponendo che essa diventi momento di commemorazione di tutte le vittime civili di tutte le guerre....Chiediamo che questa festa si trasformi da un’occasione di celebrazione a un momento di riflessione reale sulla funzione delle Forze armate e degli eserciti nazionali tenendo conto e ravvivando i principi ispirati dagli articoli 10-11 della nostra Costituzione».
don Renato Sacco, Pax Christi
LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000).
A 50 ANNI DAL VATICANO II, UNA SITUAZIONE CUPA. Un’analisi di Vito Mancuso - con una nota
Nell’ultima intervista Martini ha dichiarato: «Vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza», parole che potrebbero essere sottoscritte dalla gran parte dei vescovi e dei periti teologici che cinquant’anni fa arrivavano a Roma per il Vaticano Il. L’ironia vuole che proprio uno di essi sia oggi il pontefice regnante, tra i principali responsabili di questa cupa situazione
Cattolici disobbedienti crescono
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 13 marzo 2012)
In Europa cresce il fronte dei cattolici disobbedienti: lo dice l’agenzia Adista, sempre attenta a quello che avviene nel mondo cattolico. L’attenzione, questa volta, è rivolta soprattutto a consistenti gruppi di cattolici in Germania, in Svizzera, in Austria, ma anche in Francia e un po’ in tutta l’Europa (Italia per il momento esclusa).
Interessante l’elenco dei temi nei quali si concentra lo scontento e anche la disobbedienza. Si va
dalla questione dell’accesso delle donne al sacerdozio a molte altre questioni discusse. «Diciamo no
afferma uno dei documenti disobbedienti - quando il diritto canonico pronuncia un giudizio troppo
severo e spietato sui divorziati che tentano un nuovo matrimonio, sugli omosessuali che vivono in
coppia, sui preti che falliscono il celibato, sul gran numero di persone che preferiscono seguire la
loro coscienza piuttosto che alcune leggi umane».
In questo senso i documenti aumentano e si allargano. In Belgio, ad esempio, ha raccolto molte firme un documento che chiede la comunione per i divorziati risposati, l’ordinazione di uomini e donne sposati, l’accesso dei laici alla predicazione e all’organizzazione delle parrocchie. «L’attuale forma della comunità ecclesiale - si legge - non corrisponde più alla realtà, perché lascia ancora tutto affidato al sacerdozio, esclusivamente maschile e per di più celibe». Si aggiunge che l’ordinazione di uomini sposati potrebbe rappresentare un arricchimento per la pastorale.
Una petizione dello stesso tipo in Belgio ha raccolto più di ottomila firme dei preti (il 10 per cento del totale dei sacerdoti). A completare il quadro sono il 10 per cento dei preti irlandesi e francesi. Non è dunque immobile il cattolicesimo, anche se si muove meno delle altre comunità cristiane
I preti austriaci rifiutano di revocare il loro appello alla disobbedienza
di Christa Pongratz-Lippitt e Sarah Mac Donald
in “The Tablet” dell’ 8 ottobre 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
I membri dell’Iniziativa dei preti austriaci, guidati dall’ex vicario generale di Vienna, mons. Helmut Schüller, hanno dichiarano che non intendono revocare il loro "Appello alla disobbedienza" pubblicato il 19 giugno scorso. Nella loro ultima newsletter 407 preti e diaconi scrivono: "Ci è stato chiesto di revocare il nostro “Appello alla disobbedienza”, ma in coscienza non possiamo farlo, finché si continua a lasciare in stand-by il suo contenuto".
I preti chiedono una riforma o almeno l’apertura di un dialogo su temi come l’obbligo del celibato sacerdotale, il ruolo delle donne, la comunione ai divorziati risposati. E chiedono anche il rafforzamento del ruolo dei laici nella Chiesa.
"Disobbedire ad alcune regole e norme restrittive in vigore nella Chiesa fa parte ormai da anni della nostra vita e della nostra missione di preti. Se fossimo qui a professare pubblicamente che lo facciamo senza riflettere ciò potrebbe solo aggravare ulteriormente il dissenso interno alla Chiesa e minare il lavoro pastorale", hanno detto nella loro lettera. Essi si dichiarano pienamente consapevoli che la "disobbedienza" potrebbe essere un termine capace di infiammare gli animi, ma sottolineano: "Noi non intendiamo una disobbedienza generalizzata per amor di contrapposizione, bensì un’obbedienza progressiva che in primo luogo dobbiamo a Dio, poi nei confronti della nostra coscienza e in ultima istanza alle leggi della Chiesa”.
Parlando di questa settimana a Dublino, dove si è recato per partecipare alla riunione dell’Associazione dei preti cattolici irlandesi (ACP), mons. Schüller ha detto al nostro giornale che quando divenne vicario generale a Vienna nel 1995 - incarico che ha ricoperto fino al 1999, lavorando alle dipendenze dell’arcivescovo Christoph Schönborn - aveva sperato in un cambiamento nella Chiesa, in linea con quanto affermato dal Concilio Vaticano II. "Ma ora abbiamo il fondato sospetto che il Vaticano voglia che la Chiesa torni indietro", ha detto. Considerare la Chiesa come una sorta di "fortezza contro il mondo e in particolare contro il mondo laico" non è questo il modo con cui il Concilio Vaticano II ha lavorato.
Una questione fondamentale oggi riguarda il ruolo dei battezzati laici - che "non sono solo da considerare alla stregua dei consumatori all’interno di un qualche negozio ... bensì anch’essi pietre nella costruzione della Chiesa". Essi dovrebbero crescere in termini di influenza e partecipazione alle decisioni della Chiesa - ha detto - "a motivo della loro grande esperienza di vita". Ha dichiarato che la Chiesa “ha timore dei laici, perché li considera come infettati da secolarizzazione e relativismo”. L’Iniziativa riguardo al tema del sacerdozio si basa sul fatto che esiste un diritto al matrimonio riconosciuto dalle Nazioni Unite, e così pure la parità di diritti per le donne riconosciuta dal mondo laico, ma non da parte della Chiesa.
Nella loro newsletter i preti hanno detto che era stato consigliato loro di discutere alcuni dei temi riguardanti le riforme meno impegnative con il cardinale Schönborn, ma che essi erano interessati a evitare che "solo alcuni del clero di rango superiore" discutessero delle riforme che riguardano tutti i fedeli insieme "al clero di rango inferiore".
E don Milani disse: «L’acqua è di tutti»
di Lorenzo Milani (Avvenire, 09 giugno 2011) *
Caro direttore,
col progetto di consorzio di cui ti parlai si darebbe l’acqua a nove famiglie. Quasi metà del mio popolo. Il finanziamento è facile perché siamo protetti dalla legge per la montagna. La benemerita 991 la quale ci offre addirittura o di regalo il 75 per cento della spesa oppure, se preferiamo, in mutuo l’intera somma. Mutuo da pagarsi in 30 anni al 4 per cento comprensivo di ammortamento e interessi. Nel caso specifico, l’acquedotto costerà circa 2 milioni. Se vogliamo sborsarli noi, il governo fra due anni ci rende un milione e mezzo.
L’altro mezzo milione ce lo divideremo per 9 che siamo e così l’acqua ci sarà costata 55.000 lire per casa. Oppure anche nulla; basta prendere pala e piccone e scavarci da noi il fossetto per la conduttura e ecco risparmiate anche le 55.000 lire.
Se invece non avessimo modo di anticipare il capitale allora si può preferire il mutuo. Il 4 per cento di due milioni è 80.000 lire all’anno. Divise per nove dà 8.800 lire per uno. Se pensi che 8.000 lire per l’acqua forse le spendi anche te in città e se pensi che a te l’acqua non rende, mentre a un contadino e in montagna vuol dire raddoppiare la rendita e dimezzare la fatica, capirai che anche questo secondo sistema è straordinariamente vantaggioso. Insomma bisogna concludere che la 991 è una legge sociale e meravigliosa.
Mi piacerebbe darti un’idea chiara di quel che significa l’acqua quassù, ma per oggi mi contenterò di dirti solo questo: s’è fatto il conto che per ogni famiglia del popolo il rifornimento d’acqua richieda in media 4 ore di lavoro di un uomo valido ogni giorno. Se i contadini avessero quella parità di diritti con gli operai che non hanno, cioè per esempio quella di lavorare solo 8 ore al giorno, si potrebbe dunque dire che qui l’uomo lavora mezza giornata solo per procurarsi l’acqua. Dico acqua, non vino! Tu invece per l’acqua lavori dai tre ai quattro minuti al giorno. A rileggere l’articolo 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale» mi vengono i bordoni. Ma oggi non volevo parlarti dei paria d’Italia, ma d’un’altra cosa.
Dicevamo dunque che c’è questa 991 che pare adempia la promessa del 2° paragrafo dell’art. 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini». A te, cittadino di città, la Repubblica non regala un milione e mezzo, né ti presta i soldi al 4 per cento compreso l’ammortamento. A noi sì.
Basta far domanda e aver qualche conoscenza. Infatti eravamo già a buon punto perché un proprietario mi aveva promesso di concederci una sua sorgente assolutamente inutilizzata e inutilizzabile per lui, la quale è ricca anche in settembre e sgorga e si perde in un prato poco sopra alla prima casa che vorremmo servire. Due settimane dopo, un piccolo incidente. Quel proprietario ha un carattere volubile. Una mattina s’è svegliato d’umore diverso e m’ha detto che la sorgente non la concede più. Ho insistito. S’è piccato. Ora non lo scoscendi più neanche colle mine.
Ma il guaio è che quando ho chiesto a un legale se c’è verso d’ottenere l’esproprio di quella sorgente, ma risposto di no. Sicché la bizzettina di quell’omino, fatto insignificante in sé, ha l’atomico potere di buttare all’aria le nostre speranza d’acqua, il nostro consorzio, la famosa 991, il famoso articolo 3, le fatiche dei 556 costituenti, la sovranità dei loro 28 milioni di elettori, tanti morti della Resistenza (siamo sul monte Giovi! Ho nel popolo le famiglie di 14 fucilati per rappresaglia). Ma qui la sproporzione tra causa ed effetto è troppa! Un grande edificio che crolla perché un ragazzo gli ha tirato coll’archetto! C’è un baco interiore dunque che svuota la grandiosità dell’edificio di ogni intrinseco significato. Il nome di quel baco tu lo conosci. Si chiama: idolatria del diritto di proprietà.
A 1955 anni dalla Buona Novella, a 64 anni dalla Rerum Novarum, dopo tanto sangue sparso, dopo 10 anni di maggioranza dei cattolici e tanto parlare e tanto chiasso, aleggia ancora vigile onnipresente dominatore su tutto il nostro edificio giuridico. Tabù. Son 10 anni che i cattolici hanno in pugno i due poteri: legislativo e esecutivo. Per l’uso di quale dei due pensi che saranno più severamente giudicati dalla storia e forse anche da Dio? Che la storia condannerà la nostra società è profezia facile a farsi.Basterebbe il solo fatto della disoccupazione oppure il solo fatto degli alloggi.
Ma una storia serena non potrà non valutare forse qualche scusante, certo qualche attenuante: l’ostacolo della burocrazia insabbiatrice, quello dell’Italia sconvolta dalla guerra, quello degli impegni internazionali...
Insomma, tra attenuanti e aggravanti, chi studierà l’opera dei cattolici in Italia forse non riuscirà a dimostrare che la loro incapacità sia un’incapacità costituzionale. Saremo perdonati dunque anche se in questa preziosa decennale occasione di potere non avremo saputo mostrare al mondo cosa sappiamo fare. Ma guai se non avremo almeno mostrato cosa vorremmo fare. Perché il non saper fare nulla di buono è retaggio di ogni creatura. Sia essa credente o atea, sia in alto o basso loco costituita. Ma il non sapere cosa si vuole, questo è retaggio solo di quelle creature che non hanno avuto Rivelazione da Dio. A noi Dio ha parlato. Possediamo la sua legge scritta per steso in 73 libri e in più possediamo da 20 secoli anche un Interprete vivente e autorizzato di quei libri.
Quell’Interprete ha già parlato più volte, ma se non bastasse si può rivolgersi in ogni momento a lui e sottoporgli nuovi dubbi e nuove idee. A noi cattolici non può dunque far difetto al luce. Peccatori come gli altri, passi.
Ma ciechi come gli altri no. Noi i veggenti o nulla. Se no val meglio l’umile e disperato brancolare dei laici. Che i legislatori cattolici prendano dunque in mano la Rerum Novarum e la Costituzione e stilino una 991 molto più semplice in cui sia detto che l’acqua è di tutti. Quando avranno fatto questo, poco male se poi non si riuscirà a mandare due carabinieri a piantar la bandiera della Repubblica su quella sorgente.
Manderanno qualche accidente al governo e ai preti che lo difendono. Poco male. Partiranno per il piano ad allungarvi le file dei disoccupati e dei senza tetto. Non sarà ancora il maggior male. Purché sia salva almeno la nostra specifica vocazione di illuminati e di illuminatori. Per adempire quella basta il solo enunciare leggi giuste, indipendente dal razzolar poi bene o male. Chi non crede dirà allora di noi che pretendiamo di saper troppo, avrà orrore dei nostri dogmi e delle nostre certezze, negherà che Dio ci abbia parlato o che il papa ci possa precisare la Parola di Dio. Dicendo così avrà detto solo che siamo un po’ troppo cattolici. Per noi è un onore. Ma sommo disonore è invece se potranno dire di noi che, con tutte le pretese di rivelazione che abbiamo, non sappiamo poi neanche di dove veniamo o dove andiamo, e qual è la gerarchia dei valori, e qual è il bene e quale il male, e a chi appartengono le polle d’acqua che sgorgano nel prato di un ricco, in un paesino di poveri.
* Don Milani scrisse questa lettera dalla montagna alla fine del 1955 e venne pubblicata sul «Giornale del Mattino» di Bernabei. Singolare consonanza con i temi dei referendum dei prossimi giorni. «Mi piacerebbe darti un’idea di quel che significa l’acqua quassù: per ogni famiglia il rifornimento richiede in media 4 ore ogni giorno Qui l’uomo fatica mezza giornata solo per procurarsi da bere» «Tu per l’acqua lavori 3 o 4 minuti...» "Che i legislatori cattolici prendano dunque in mano la Rerum Novarum e la Costituzione e stilino una 991 molto più semplice in cui sia detto che l’acqua è di tutti." (Finesettimana.org)
FONDAZIONE Don Lorenzo Milani
Barbiana 16 Aprile 2011
Inaugurazione del ’SENTIERO DELLA COSTITUZIONE’ *
In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia la Fondazione don Lorenzo Milani, il Comune di Vicchio e l’ Istituzione culturale don Lorenzo Milani ripropongono i valori costituzionali attraverso il Sentiero della Costituzione a Barbiana.
Sono stati allestiti dalla fondazione Don Lorenzo Milani, lungo un sentiero di oltre un chilometro, 44 grandi bacheche con gli articoli della Costituzione illustrati dai disegni dei ragazzi di diverse scuole d’Italia che per l’occasione hanno collaborato al progetto.
Il percorso scelto è lo stesso che fece a piedi don Lorenzo Milani il primo giorno che fu mandato a Barbiana.
Nella scuola di Barbiana la Costituzione era molto studiata, era considerata la bussola per non smarrirsi, la guida del futuro cammino dei ragazzi nella società. In essa i barbianesi vedevano non solo la Legge fondamentale dello Stato, ma anche il punto d’equilibrio sociale capace di costruire una società nuova, più giusta ed equilibrata. Così come in quella scuola era valorizzato l’impegno politico e sindacale. Un concetto riassunto nella lettera ai giudici con la frase "la leva ufficiale per cambiar la legge è il voto, la Costituzione gli affianca la leva dello sciopero".
Del resto l’affermazione contenuta in - Lettera a una professoressa - "uscire insieme dai problemi è la politica, uscirne da soli è l’avarizia" rappresenta una sintesi molto efficace del valore della solidarietà praticata alla scuola di don Milani e prevista dai primi articoli della Costituzione.
PROGRAMMA
ore 9,30
Vicchio - Teatro Giotto
Incontro dei ragazzi delle scuole con il Presidente della Corte Costituzionale
ore 11
Barbiana
Inaugurazione del Percorso Costituzionale
Saluto:
del Presidente della Fondazione Don Lorenzo Milani
Michele Gesualdi
del Sindaco di Vicchio
Roberto Izzo
del Presidente della Provincia di Firenze
Andrea Barducci
della Vice Presidente della Regione Toscana
Stella Targetti
Intervento del Presidente della Corte Costituzionale
Prof. Ugo De Siervo
Salita per il "Sentiero della Costituzione" fino alla scuola di Barbiana
Visita del Percorso Didattico
Per comunicazioni e informazioni:
Fondazione don Lorenzo Milani Tel/Fax 055418811
e mail: contatti@donlorenzomilan.it
Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani?
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 6 marzo 2011)
«Don Milani, che mascalzone!» proclamava su Repubblica del 30 giugno 1992 Sebastiano Vassalli. L’ottimo scrittore (51 anni allora) ricordava d’esser stato insegnante da giovane ma soprattutto fondava la propria sentenza sul giudizio che un professore e preside e ispettore ministeriale in pensione, Roberto Berardi, aveva espresso nel libriccino «Lettera a una professoressa: un mito degli anni Sessanta», edito da Shakespeare and Company.
Mascalzone il Milani, spiegava Vassalli, perché «maestro improvvisato e sbagliato manesco e autoritario». E autore con quella "Lettera" di «un libro bandiera più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia». Un libro, gli garantiva Berardi, inteso «con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a creare disordine anche nelle scuole superiori» mirando a obiettivi «ben più ideologici (in senso contestativo) che scolastici».
Passano 19 anni ed ecco Cesare Segre proclamare il 24 febbraio sul Corriere della Sera che lo sfascio della cultura e della scuola italiane «è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni Rodari», responsabile di una «didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare».
L’illustre accademico fonda la propria sentenza nell’ultimo libro di Paola Mastrocola, appena pubblicato da Guanda: «Saggio sulla libertà di non studiare». E tanto gli piace che recensendolo vi si identifica fino a condividerne, addirittura radicalizzandola, la diagnosi sul come e perché in Italia lo studio sia «compromesso e svuotato»: «Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo svalutando il concetto di nozione come conoscenza» sino a frenare l’aspirazione dei propri allievi alla liberazione dai «lavori contadini» per tenerli vincolati al territorio e bloccare in loro «qualunque aspirazione al miglioramento mentale ma anche economico».
Quanto a Gianni Rodari, Mastrocola scopre e Segre conferma, «promuoveva la trasformazione dell’insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla storia. L’aula scolastica si trasformava in palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività». È così che entrambi spingono i nostri poveri ragazzi «ad aderire all’internazionale dell’ignoranza».
E qui chi abbia anche soltanto un minimo di conoscenza diretta e onesta di quel che Milani e Rodari hanno fatto detto e scritto nelle loro vite non sa se più indignarsi o dolersi. Ma è davvero possibile che persone acculturate, investite di così alta responsabilità sociale quale l’insegnamento, non possano leggere senza pregiudizi e paraocchi? Non riescano a vedere le diverse, anche contradditorie realtà dell’esistenza fuori dall’aula in cui lavorano?
Verrebbe voglia di domandare che cosa sanno davvero e che cosa pensano delle ricerche e delle sperimentazioni del Movimento di cooperazione educativa e del lavoro di insegnanti tipo Mario Lodi, Bruno Ciari, Margherita Zoebeli in cui s’incarnano quelle «tendenze già in atto» che Segre denuncia oggi come rovina del nostro sistema educativo e che nel ’92 Berardi chiamava «forze disgregatrici».
Mi contento di trascrivere, a nostro personale conforto, due frasi brevi: «La scuola - spiega Milani nella "Lettera ai giudici" - siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il loro senso politico».
E Rodari, recensendo "Lettera a una professoressa" quasi con le stesse parole di Pasolini in una famosa intervista: «Un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da quel libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici».
Mi torna alla mente, a questo punto, l’immagine suggeritami 19 anni fa dell’accoppiata Berardi-Vassallo: quella dei ciechi del famoso quadro di Bruegel che tenendosi permano finiscono insieme nel precipizio. A loro si attaccano ora Mastrocola e Segre: il trenino s’allunga in un bunga-bunga pedagogico!
Il disobbediente
di Luca Kocci (il manifesto, 26 febbraio 2011)
Quando si svegliano, all’alba del 24 febbraio 1945, i 40 prigionieri stipati in uno dei vagoni piombati del treno partito qualche giorno prima da Buchenwald si accorgono subito che uno dei loro compagni non ce l’ha fatta ed è morto prima di arrivare nell’inferno di Dachau, il lager dove erano destinati. È Josef Mayr-Nusser, 35enne altoatesino, disobbediente ad Hitler, che aveva rifiutato il giuramento alle SS, dove era stato arruolato a forza: «No maresciallo - aveva risposto al suo superiore nel centro reclute di Konitz, in Prussia occidentale - io non posso giurare ad Hitler in nome di Dio». Wehrmachtszersetzung, «disfattismo», la sua colpa; il lager, la condanna, che affronta senza ripensamenti - che pure gli sarebbero stati possibili - perché, sosteneva, «se nessuno avrà mai il coraggio di dire no ad Hitler, il nazionalsocialismo non finirà mai».
A Josef Mayr-Nusser - per anni dimenticato dalla storiografia e dalla Chiesa - nell’anniversario della sua morte, il Centro pace del Comune di Bolzano dedica un convegno («Noi non taceremo. Nonviolenza e totalitarismo»), oggi, a cui partecipa, fra gli altri, Hildegadr Goss Mayr, presidente onorario della International Fellowship of Reconciliation, cioè il Mir, Movimento internazionale della riconciliazione. «"Noi non taceremo, noi siamo la voce della vostra cattiva coscienza. La Rosa Bianca non vi darà pace". Terminava così il quarto volantino del gruppo di studenti antinazisti bavaresi della Rosa Bianca, condannati a morte da Hitler», spiega Francesco Comina, coordinatore del Centro pace e autore di una biografia di Mayr Nusser (Non giuro a Hitler, San Paolo edizioni). «C’è un’ostinata voglia di gridare, di dire forte no alla violenza, alla brutalità della dittatura, alla banalità del male, che collega i testimoni dell’antinazismo e più in generale i testimoni della pace e dei diritti umani. Il convegno vuole sottolineare il coraggio e la determinazione che hanno spinto questi uomini e queste donne a rompere il silenzio del terrore, dell’oppressione, dell’obbedienza, per denunciare la follia genocidaria, la violenza, l’oppressione».
Non è un eroe, né vorrebbe esserlo, Mayr Nusser. «Non faceva parte di alte gerarchie politiche o ecclesiastiche, era un semplice impiegato e padre di famiglia, sarebbe potuto rimanere nell’anonimato e salvarsi l’anima cercando, per quanto possibile, di non farsi coinvolgere troppo direttamente nelle atrocità che le SS compivano ovunque passassero», ricorda il figlio Albert, che aveva poco più di un anno quando il padre morì. Ma è un giovane, un giovane cattolico che prende sul serio il Vangelo e sceglie di obbedire alla sua coscienza, fino alla fine, perché «era convinto che fosse suo dovere manifestare apertamente il dissenso», dice ancora Albert Mayr.
Dissenso ad Hitler e anche al nazionalismo sia fascista che nazista, che Mayr Nusser esprime pubblicamente già 5 anni prima, quando gli altoatesini vengono costretti a scegliere se stare con l’Impero di Mussolini o con il Reich del führer. Il 23 giugno 1939, alla vigilia dell’invasione della Polonia e dell’inizio della guerra, fascisti e nazisti decidono la sorte dei sudtirolesi italiani che, entro la fine dell’anno, dovranno scegliere se trasferirsi nel Reich e conservare la cittadinanza tedesca oppure rimanere nelle proprie terre ed essere assimilati alla cultura e alla lingua italiane, che venivano imposte a marce forzate. Mayr Nusser, che frattanto era stato eletto presidente dell’Azione cattolica di Trento e non faceva mistero della sua avversione ad entrambi i totalitarismi - criticando duramente i silenzi e le omissioni della Chiesa e di molti cattolici - e al binomio «sangue e suolo», rifiuta di decidere. È un dableiber, un «non optante», e si trova fra due fuochi: da una parte i sudtirolesi di lingua tedesca che non vogliono l’assimilazione forzata all’Italia e il Partito nazista sudtirolese (Vks) che sogna la "Grande Germania" di Hitler, dall’altra i fascisti che vogliono italianizzare tutto l’Alto Adige.
Mayr Nusser rifiuta di scegliere, perché non si può decidere se abbracciare Mussolini o Hitler, e inizia l’attività con la Lega Andreas Hofer, un’associazione clandestina antifascista e antinazista che fa propaganda e informazione nei confronti delle ragioni dell’opzione. Resistenza nonviolenta ai totalitarismi che, spiega Piero Stefani, relatore al convegno e direttore scientifico della Fondazione del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah, «deve essere consapevole dell’influsso pervasivo esercitato sulle persone dal contesto violento incui si trovano, deve cercare di contrastarlo attraverso il primato attribuito, in sé e negli altri, alla dignità della persona, deve riconoscere che i suoi avversari sono uomini e non mostri, deve essere disposta a pagare il prezzo più alto per la scelta di manifestare pubblicamente i propri convincimenti perché, parafrasando un detto antico, chi salva la dignità umana, a partire da se stesso, è come se salvasse il mondo intero».
Con l’armistizio, l’8 settembre del 1943, le truppe tedesche invadono l’Italia e l’Alto Adige viene occupato. Nell’agosto del 1944 Mayr Nusser riceve la cartolina di precetto, obbligato ad arruolarsi nelle SS ed inviato in Prussia per l’addestramento, dove avrebbe dovuto giurare ad Hitler, secondo la formula prevista per le SS: «Giuro a te, Adolf Hitler, führer e cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a te e ai superiori designati da te fedeltà fino alla morte. Che Dio mi assista». «Giurare a un dittatore in nome di Dio?», si chiede Mayr Nusser. «Giurare per odiare, per conquistare, per sottomettere, per insanguinare la terra? Giurare per rinnegare la propria coscienza, giurare e piegarsi ad un culto demoniaco, il culto dei capi, innalzati a idoli di una religione sterminatrice?». Quindi la decisione, il 4 ottobre: «Signor maresciallo, io non posso giurare ad Hitler, perché sono cristiano e la mia fede e la mia coscienza non me lo consentono». Subito arrestato, rinchiuso in una cella di un manicomio dismesso, poi condotto in carcere a Danzica e, a gennaio, condannato per disfattismo. «Amatissima Hildegard, sono convinto che il nostro amore reggerà anche alla dura prova rappresentata dal passo impostomi dalla mia coscienza», scrive alla moglie, poco prima di essere messo su un treno, ai primi di febbraio, insieme ad altri 40 obiettori, diretto a Dachau. Breve sosta a Buchenwald per risolvere alcuni problemi burocratici, poi di nuovo in marcia verso sud, premuti nei vagoni piombati. Ad Erlangen, il 20 febbraio, il treno si ferma di nuovo: la linea ferroviaria è stata bombardata e non si può più andare avanti. Mayr Nusser sta male, ha la febbre, la dissenteria lo sta uccidendo. Lo portano in ospedale, a tre ore di cammino, ma il medico nazista che lo visita lo rimanda indietro: «Niente di grave, può riprendere il viaggio». Torna sul treno e, durante la notte, muore. «Broncopolmonite», dirà il telegramma che oltre un mese dopo, il 5 aprile, arriverà ad Hildegard, per comunicarle con asettico linguaggio burocratico la morte del marito. Sepolto in Germania, il suo corpo tornerà a Bolzano, e poi nella chiesetta di Stella sul Renon, solo nel 1958.
La diocesi di Bolzano-Bressanone, dopo decenni di oblio, lo vorrebbe santo. Tre anni fa è stato chiuso il processo diocesano e ora tutti gli atti sono in Vaticano, dove però tergiversano: troppo pericoloso, forse, additare come esempio un obiettore di coscienza, per di più antifascista. Non si vuole riconoscere il «martirio» di Mayr Nusser perché la morte è avvenuta sul treno, per cause naturali, come se il viaggio nel vagone piombato verso Dachau fosse stato un viaggio di piacere liberamente scelto. «Fatico a capire queste motivazioni», spiega don Josef Innerhofer, postulatore della causa di beatificazione. «Mayr Nusser è un martire per la fede, perché lui ha detto no ad Hitler ispirato dalla sua coscienza cristiana». Un’interpretazione religiosa, che tende a depotenziare il valore di opposizione politica al nazismo, però non condivisa da tutti, per esempio dallo storico altoatesino Leopold Steurer, che la ritiene riduttiva. «Mayr Nusser era profondamente cristiano, ma la sua scelta è fatta anche di coraggio civile e ha un valore di testimonianza pubblica». «Le motivazioni di fondo di mio padre erano di carattere religioso, però le conseguenze e le implicazioni delle sue obiezioni non sono state personali ma inevitabilmente sociali e politiche», aggiunge Albert Mayr, che sottolinea anche un altro aspetto, di stringente attualità: l’informazione. «Mio padre cercava, nonostante le difficoltà del tempo, di informarsi, di capire e di sapere cosa erano e cosa stavano facendo il fascismo e il nazismo, oltre la propaganda di regime. L’informazione, e l’informazione critica, è fondamentale per poter scegliere liberamente e secondo coscienza, anche oggi».
Don Milani è vivo
di Elio Boscaini (Nigrizia, 15.02.2011
Il 15 febbraio 1966, il Tribunale di Roma assolveva don Lorenzo Milani dall’accusa di apologia di reato per essersi espresso a favore dell’ dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Don Milani aveva 42 anni ed era parroco di 42 anime! Lo scriveva lui stesso. A quella sentenza non potevo essere presente - frequentavo soltanto la terza liceo classico ed ero a Lucca - ma dall’eco data dalla stampa alla notizia, percepivo che rappresentava una pietra miliare nella vicenda civile e religiosa del nostro paese.
Mi sembra bello ricordare quell’avvenimento, a poche settimane dalla celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Perché la Lettera ai cappellani militari, la Lettera ai giudici e la motivazione stessa della sentenza partono sì dal problema allora rovente dell’obiezione di coscienza al servizio militare, ma contribuiscono ad un esame critico di tutta la storia nazionale seguita all’Unità. Proprio partendo dal "ripudio" della guerra, don Lorenzo costruisce una discussione colma di passione sui fondamenti del vivere civile, sugli strumenti di lotta contro le ingiustizie, sul diritto-dovere di migliorare le leggi, sulla responsabilità legata ad ogni scelta personale.
Nello scrivere la Lettera ai giudici (Barbiana, 18 ottobre 1965) - la scrive con i suoi ragazzi! - si scusa di non poter scendere a Roma perché malato: «Ci tengo a precisarlo - scrive - perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l’accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini».
Con i suoi ragazzi a scuola 12 ore al giorno e 365 giorni l’anno, ha rivisitato la storia italiana in cerca di una guerra giusta, cioè in regola con l’art.11 della Costituzione: «Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata».
Dall’Africa ho riportato con me L’obbedienza non è più una virtù, della Libreria editrice fiorentina, che raccoglie i documenti del processo di don Milani. Nel rivisitare la nostra storia, il profeta di Barbiana, che peli sulla lingua (sulla penna, bisognerebbe dire) proprio non ne aveva, scriveva: «Ai miei ragazzi insegno che le frontiere sono concetti superati. Quando scrivevamo la lettera incriminata abbiamo visto che i nostri paletti di confine sono stati sempre in viaggio. E ciò che seguita a cambiar di posto secondo il capriccio delle fortune militari non può esser dogma di fede né civile né religiosa. Ci presentavano l’Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri s’erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla (...). Che gli italiani in Etiopia abbiano usato gas è un fatto su cui è inutile chiuder gli occhi».
Nella sua risposta ai cappellani militari toscani che avevano sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965 in cui «considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà», don Lorenzo se la prendeva con quegli ufficiali che per due volte (1896 e 1935) avevano aggredito « un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l’unico popolo nero (etiopico, ndr) che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo. Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d’un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l’uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?».
Grazie, don Lorenzo, perché continui ad insegnarci che non serve avere le mani libere se poi si tengono in tasca... e che conoscere la storia dell’Italia unita significa anche non dimenticare un passato che non è stato solo glorioso e che continuamente ci rimanda ai rapporti del nostro Paese con i popoli d’Africa che aspirano a più giustizia e maggiore libertà. (Elio Boscaini)
Don Milani, la forza di dire no
di Giulio Iacchetti (Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2010)
Non ricordo con precisione il mio primo incontro con don Milani; nella fase che ha preceduto il servizio militare mi è capitato di approfondire il discorso sull’obiezione di coscienza e credo di averlo incontrato a quell’epoca, leggendo un volumetto postumo, L’obbedienza non è più una virtù, scritto da don Milani insieme ai suoi alunni della scuola popolare di Barbiana. Confrontandomi con quei contenuti ho scelto poi di farlo, il servizio militare, perché ritenevo di non essere ispirato da passioni sincere per fare obiezione di coscienza. Forse mi mancavano argomenti sufficienti per sostenere una scelta che a quell’epoca era molto rigorosa. Un giorno, all’inizio degli anni Novanta, di ritorno da Roma, in un viaggio assieme ad alcuni amici, abbiamo deciso di uscire all’uscita Mugello e di salire a Barbiana: è stato un momento molto forte dopo il quale ho iniziato a leggere e a informarmi maggiormente sull’argomento.
Poi ho incrociato Lettere ad una professoressa. Quando mi chiedono che libro voglio ricordare sopra ogni altro io non ho nessun dubbio, cito sempre Lettere ad una professoressa; per me è ancora uno stimolo fortissimo. Leggendolo, capisco che la sostanza diventa vita e le teorie diventano sangue e carne; mi ritrovo ogni volta commosso dall’esperienza di vita di una persona e di questi ragazzini che, insieme, scrivono un testo capace di azzerare ogni certezza e ogni precisa posizione, e così facendo riescono a costruire un’idea fatta di vissuto e di esistenza autentica, che porta dritti all’essenza del ruolo dell’insegnante e della formazione, visti come possibilità di riscatto dei più poveri.
La dedizione totale alla propria missione è, a mio avviso, una testimonianza spendibile da ognuno di noi, a prescindere dalla questione religiosa, che mi interessa relativamente. In qualità di progettista mi capita spesso di coprire il ruolo del docente, sebbene non sia per me una cosa continuativa; ogni anno ho un corso d’esame e capitano altri lavori presso il Politecnico o altre strutture universitarie. In queste situazioni la mia tensione è quella di trattare le persone con lo sguardo che potrebbe avere don Milani.
Trovo che sia molto semplice stigmatizzare il difetto, il problema, la mancanza, l’incapacità, l’insufficienza ma è più ardimentoso e più appassionante cogliere il buono da ogni idea, anche se mal espressa. Questa è la sfida di sempre: credo che nessuno di noi abbia diritto di bocciare e di rimandare gli alunni, come non aveva diritto la professoressa del libro.
All’epoca c’era una scuola classista, nella quale per i figli dei poveri o per chi abitava in montagna era preclusa ogni possibilità di proseguire gli studi; don Milani lo spiega molto chiaramente, dati alla mano, in termini di giornate scolastiche perse da coloro che non avevano accesso. Gli scolari si perdevano, non andavano più a scuola e interrompevano in anticipo gli studi, spesso venivano bollati come inadatti allo studio, respinti e rimandati nelle fabbriche e nei campi.
Adesso, forse, la situazione del diritto allo studio, grazie anche all’azione di don Milani, è cambiata; purtroppo è cambiata in peggio anche la qualità della scuola italiana.
Le sue passioni avevano a che fare con situazioni molto concrete, dall’organizzazione della scuola popolare, dove quelli più grandi insegnavano a quelli più piccoli, al suo odio verso la ricreazione, vissuta come una forma di impegno che portasse a dimenticarsi il dovere della formazione e per poter affrontare bene il mondo.
Aveva anche scritto a un regista francese per proporgli la trama di un film su Gesù Cristo, per dimostrare che la vita di Gesù Cristo era simile alla vita degli operai; non era solo una questione di fatti evangelici e sacri ma una vita di tristezza e restrizione. Sosteneva che i poveri, i suoi contadini e operai, andando al cinema potevano uscire con l’idea che Gesù Cristo aveva a che fare con la loro vita.
Aveva scritto a Bernabei, allora presidente della Rai, per chiedere che in televisione fossero insegnate le lingue straniere, perché diceva che i figli degli immigrati che tornavano in Italia non sapevano governare bene la lingua che avevano imparato e voleva che fosse forma di riscatto anche l’insegnamento della lingua inglese o tedesca.
Salendo sulla montagna che porta a Barbiana all’inizio si è molto baldanzosi, la strada è bella, in mezzo ai cipressi; poi c’è un ultimo tratto da fare a piedi. Di recente mi è capitato di arrivarci all’ora del crepuscolo, cominciava a fare freddo e quella tipica energia da gita in montagna, allegra, si era smarrita, lasciando il posto a una desolazione completa. Si vedono la canonica e il piccolo cimitero in cui è sepolto. Così ci si può ricondurre veramente allo spirito della sua lezione, alla volontà di mantenere tutto inalterato. Il suo allievo prediletto, che lui ha accolto come un figlio, Michele Gesuardi, in seguito diventato presidente della provincia di Firenze, ha voluto mantenere Barbiana inalterata; per fortuna don Milani non è diventato un’icona nel mondo della chiesa cattolica, ma è rimasto una figura scomoda, scomoda per tutti. A Barbiana non ci sono chioschi che vendono bibite, non c’è la santificazione che si percepisce quando si va in pellegrinaggio a Pietrelcina.
Ancora oggi è un paese difficile da raggiungere, proprio come il suo ispiratore. Visitando la terra in cui ha vissuto e operato, e naturalmente leggendo i suoi libri, si producono sempre dei dubbi. Don Milani, per me, resta un meraviglioso generatore di dubbi.
Elogio del dissenso
di Renato Sacco (mosaico di pace, 03.11.2010)
L’assemblea applaude un uomo di mezza età che - imbarazzato o intimorito dalla vicinanza del potente - non riesce o non vuole prendere le distanze dalla richiesta formulata a mo’ di battuta “avrei una ragazza da sistemare... tra questi stands...”. E la risposta è “ci penso io”. Chi è quell’uomo? E chi sono quelli che applaudono?
Credo che possono essere la nostra fotografia. Di ognuno di noi quando, per paura, sudditanza, comodità o interesse, preferiamo assecondare, dare il consenso invece che esprimere il dissenso. I potenti hanno sempre bisogno di consenso. Altrimenti il loro potere crolla. Questo vale a ogni livello, politico, economico, militare.
C’è il rischio di dare un consenso, anche se apparentemente molto lontano, a quanto sta succedendo in Iraq: la strage di cristiani nella chiesa siro-cattolica di domenica 31 ottobre, e poi tutte le altre violenze e uccisioni di questi giorni. Un consenso fatto forse di silenzio, perché le notizie sui mass media sono altre.
Un consenso dato alla guerra per esportare la democrazia. Un consenso più o meno velato al grande affare della lobby delle armi made in Italy che è riuscita a vendere in Iraq, solo nel 2009, per oltre 3 miliardi di euro. Tutte per la sicurezza e la polizia?
Alcuni anni fa in un luogo in mano ai terroristi sono state trovate migliaia di armi leggere italiane, con il numero di matricola contraffatto, quasi una conferma che non erano state ‘rubate’ alla polizia locale, ma era una grossa fornitura... finita chissà come nelle mani dei terroristi. Ma il consenso alle armi è forte, anche perché porta molto denaro.
Proprio gli amici iracheni mi chiedevano in questi giorni: “Perché tante armi? Quali armi hanno in mano i terroristi? Chi le procura?”.
Forse c’è un consenso tacito al progetto di dividere l’Iraq in tre parti, Kurdi, Sunniti e Sciiti, eliminando così le minoranze. Il consenso a volte è silenzioso, al limite dell’indifferenza.
E consenso ci viene chiesto anche nell’oratoria di guerra in questi giorni, vicini al 4 novembre, anniversario della vittoria e giornata delle Forze Armate e dell’Unità Nazionale. Quanta retorica! A Milano hanno pure collocato, come l’anno scorso, 2 aerei da guerra nientemeno che in piazza Duomo! Chi ha dato il consenso? Quale consenso si chiede con gesti del genere?
Il consenso alle guerre di oggi, chiamate missioni di pace, utilizzando la memoria della prima guerra mondiale, degli oltre 650.000 mila morti ammazzati in quella che il Papa di allora definì “Un’inutile strage”. Sì, ha usato proprio la parola ‘strage’, la stessa usata per descrivere e condannare quanto è successo in quella chiesa a Baghdad domenica scorsa.
È tragico che il potere usi anche i morti della prima guerra mondiale, magari chiamandoli eroi, quando invece erano semplicemente dei poveracci costretti a fare la guerra contro la loro voglia. E non si ricorda invece che l’opposizione popolare alla guerra era molto ampia e con la dichiarazione di guerra, crebbe anche nell’esercito. Su 5 milioni e 500 mila mobilitati per la prima Guerra Mondiale, 870.000 furono denunciati per insubordinazione. Oltre il 15%.
E sappiamo che chi non ubbidiva agli ordini di attacco al grido ‘avanti Savoia!’ veniva fucilato anche sul posto. Il potere, men che meno quello militare, non ammette dissenso... Attenti allora a ogni forma di consenso data al potere, per non essere complici. Ce lo ricorda anche la campagna promozionale di Mosaico di pace.
E per finire, proprio pensando al 4 novembre: c’è una cosa molto diversa tra noi e chi è stato obbligato a far la prima guerra mondiale.
Loro non potevano opporsi. Cadorna aveva ordinato rappresaglie e fucilazioni immediate. Loro non potevano negare il consenso. Noi si.
A Barbiana il sentiero della Costituzione
Nasce a Barbiana in provincia di Firenze, per iniziativa della Fondazione don Lorenzo Milani, «Il sentiero della Costituzione». *
Saranno allestiti in modo permanente, lungo il sentiero nel bosco che sale per 1,5 km. fino alla Scuola di Barbiana, cinquanta grandi pannelli con gli articoli della Costituzione italiana, illustrati con immagini disegnate da ragazzi di diverse scuole italiane. Una sorta di libro di strada per stimolare le scolaresche, che sempre più numerose si recano a Barbiana, a riflettere sui valori costituzionali. Il Sentiero è lo stesso che percorse don Lorenzo Milani quando arrivò la prima volta a Barbiana. All’epoca, alla canonica si accedeva unicamente per quella mulattiera. Il percorso costituzionale sarà presentato durante una conferenza stampa oggi, mercoledì 14 aprile, nella sede della Provincia a Firenze.
* Avvenire, 14.04.2010
Se i cattolici disobbediscono
di Vito Mancuso (la Repubblica, 21 novembre 2009)
Dieci anni fa Pietro Prini pubblicò un libro che fece scalpore: Lo scisma sommerso (Garzanti). Oggi Riccardo Chiaberge, direttore del supplemento domenicale del Sole 24 Ore, ripropone il medesimo sostantivo ma senza aggettivi: Lo scisma. Cattolici senza papa (Longanesi). In effetti il Codice di diritto canonico qualifica lo scisma proprio così, come «rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice», e lo sanziona con la scomunica latae sententiae. Ma cosa sta succedendo perché uno dei più profondi filosofi cattolici quale fu Prini e uno dei più acuti giornalisti qual è Chiaberge giungano a usare un termine tanto impegnativo? Né sono i soli, si veda anche Piero Cappelli, Lo scisma silenzioso (Gabrielli) e Per un cristianesimo adulto, 28 interviste a cattolici poco obbedienti a cura di Giorgio Pilastro (Abiblio).
Chiaberge racconta cattolici che non fanno dell’obbedienza al papa il carattere distintivo della loro fede, ma che neppure praticano una disobbedienza preconcetta che ancora li definirebbe (seppure in negativo) in funzione del potere papale. La loro fede semplicemente non si definisce in rapporto al papa ma a qualcosa per loro di più importante: l’amore per il mondo. Non coltivano volontà scismatiche, perché l’obiettivo non è la Chiesa con le sue strutture, ma il mondo e la sua giustizia. Il clericalismo è superato, la laicità pienamente affermata: il banco di prova della fede sono le strade e i laboratori del mondo. Ecco perché questi cattolici, continuando a dichiararsi tali, non temono di infrangere la dottrina ecclesiastica quando la vedono come un ostacolo al bene del mondo. Così c’è suor Maria Martinelli, medico e missionaria in Africa, che spiega tutti i metodi di prevenzione dell’Aids, condom compreso, perché si ha «il dovere morale di non trasmettere l’infezione»; c’è Giorgio Lambertenghi Deliliers, presidente dei Medici cattolici di Milano, che sostiene la donazione alla ricerca degli embrioni congelati e apprezza le aperture di Obama al riguardo; c’è Elisa Nicolosi della Mangiagalli di Milano che è orgogliosa dei 250 bambini che con la fecondazione assistita ogni anno nascono nel suo ospedale; c’è don Luigi Verzé, fondatore del San Raffaele, che proclama che «nulla e nessuno può fermare la ricerca»; c’è Elena Cattaneo che lavorando sulle staminali embrionali dice che «più guardo queste cellule più si rafforza la mia fede che il dono della vita vada speso per ridurre le sofferenze». La situazione è riassunta da don Virginio Colmegna, direttore della Casa della Carità di Milano: «Non c’è nessun dogma da consegnare sulle verità morali, c’è una grande ricerca».
Uno scisma vero e proprio quindi? In realtà la categoria "scisma" è inappropriata per questa tensione spirituale, del tutto diversa da quella che portò allo "scisma d’oriente" del 1054 tra Roma e Costantinopoli dividendo cattolici e ortodossi, o da quella che dal 1378 al 1417 produsse il "grande scisma d’occidente" con ben tre papi in contemporanea. Allora l’oggetto del contendere era il potere all’interno della Chiesa, oggi è il corretto rapporto col mondo. Il potere ecclesiastico lo si lascia volentieri a chi lo detiene, e nella vita concreta si fa ciò che indica la luce della coscienza al fine di produrre il massimo di bene e di giustizia, senza per questo cessare di ritenersi cattolici, anzi pensando così di esserlo veramente. Né il potere papale ha la possibilità di impedirlo, come avveniva nel passato con il ricorso alla violenza.
Ulrich Beck, docente di sociologia a Monaco di Baviera e a Londra, nel libro Il Dio personale (Laterza) descrive una ricerca spirituale strettamente individuale che attraversa con vivacità tutta l’Europa. Un Dio "fai da te" quindi, un sincretismo che si crea un credo e una morale a proprio uso e consumo? C’è molto di più. C’è soprattutto, scrive Beck, «una religione nella quale l’uomo è sia credente sia Dio». Non siamo lontani dal dispiegamento dell’idea teologica principale di Gesù: non c’è amore per Dio se non come amore per l’uomo.
Oggi non è più concepibile una mano che si alzi per colpire nel nome di Dio, neppure se il papa, com’è avvenuto in passato, dovesse assicurare che "Dio lo vuole". E diventa sempre meno concepibile una mano che nel nome di Dio si rifiuta di curare i sofferenti con tutti i possibili strumenti, per esempio impedendo la ricerca sulle staminali embrionali o boicottando l’uso del preservativo.
Oggi l’unico Dio accettabile è il Dio che sta totalmente e concretamente dalla parte dell’uomo. E con ciò non siamo lontani dal centro del cristianesimo: l’incarnazione di Dio. Forse sarebbe opportuno che qualcuno nei sacri palazzi iniziasse a leggere con più attenzione e con più amore ciò che Gesù chiamava "segni dei tempi".
Manca solo l’insegnante con manganello e fischietto *
di Andrea Bajani (l’Unità, o9.o9.2008)
Ogni fascia anagrafica ha il suo spauracchio confezionato ad hoc. Per gli adulti, è disponibile l’extracomunitario. È uno spauracchio di comprovata efficacia, estesa applicazione e referenza millenaria. Funziona bene come catalizzatore della frustrazione e dell’odio sociale, provare per credere. Per i giovani in età scolare, invece, da poco è stato lanciato sul mercato il prodotto «bullo». Il bullo è una sorta di «extracomunitario italiano adolescente» che mena le mani contro il prossimo, preferibilmente se portatore di handicap, sovrappeso, ritardato, omosessuale. In entrambi i casi (extracomunitari e «extracomunitari italiani adolescenti») la parola d’ordine è una sola: disciplina. L’ultima conferma l’abbiamo avuta nella nuova riforma della scuola firmata dal Ministro Gelmini, che taglia risorse all’istruzione, mortifica la funzione degli insegnanti, e però invita a dibattere su folkloristici provvedimenti disciplinari, buoni appunto per distrarre e catalizzare l’aggressività sociale. La violenza (dentro e fuori le scuole) si sconfigge con la disciplina.
Forse è una strada, però bisogna intendersi sul significato del termine «disciplina», che improvvisamente sembra diventato prerogativa della destra. La disciplina proposta è: bocciatura per l’insufficienza in condotta e grembiulino obbligatorio a scuola. Il che significa declinare sulla fascia anagrafica adolescenti l’istituzione dell’esercito in strada. Ovvero: obbedienza pena la punizione, l’insegnante come vigile urbano seduto dietro la cattedra con manganello, fischietto e in tasca le manette e il taccuino per emettere multe. Ecco, credo semplicemente che quest’idea della disciplina riveli una concezione desolante del cittadino e del rapporto tra stato e cittadino. Il cittadino è relegato a mero esecutore meccanico di un ordine di cui non è tenuto né a capire né a condividere il senso.
Per dirla con Antonio Gramsci, fondatore di questo giornale, è venuto il momento di contrapporre disciplina a disciplina. C’è un tipo di disciplina in cui tutti, semplicemente, pedestramente obbediscono: «i muli della batteria al sergente di batteria, i cavalli ai soldati che li cavalcano. I soldati al tenente, i tenenti ai colonnelli dei reggimenti; i reggimenti a un generale di brigata; le brigate al viceré (...). Il viceré alla regina (...). La regina dà un ordine, e il viceré, i generali, i colonnelli, i tenenti, i soldati, gli animali, tutti si muovono armonicamente e muovono alla conquista». E poi c’è un’altra disciplina. Questa disciplina nasce dalla consapevolezza di essere parte di una collettività, dalla condivisione di un progetto.
Soprattutto nasce dalla cultura, che è quello che chiediamo allo stato, agli insegnanti e alla scuola: «La cultura (...) è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri». Ma questo fa paura: meglio le istruzioni che l’istruzione. È più rassicurante avere dei consumatori in grembiulino che dei cittadini consapevoli. Se seguiamo bene le istruzioni, diventeremo uguali alla figura disegnata sulla scatola.
* Esce oggi nelle librerie italiane il nuovo libro di Andrea Bajani: «Domani niente scuola», Einaudi
DON MILANI, TORNA!
di Mario Pancera *
DOPO che, l’11 febbraio 1965, un gruppo di cappellani militari della regione toscana aveva stilato un comunicato che si concludeva con questa frase: «Considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza“ che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà», don Lorenzo Milani rispose loro con una lettera, che provocò non solo un processo (contro di lui) ma svegliò molti italiani (in suo favore) e ancora oggi è un piccolo monumento nella storia della società contemporanea.
Oggi, l’obiezione di coscienza viene invocata come diritto, non solo dai militari, ma anche da professionisti di altre categorie, come i medici nei casi di aborto, anche terapeutico. Secondo la vecchia lettera dei cappellani militari toscani, questi medici, ora sostenuti dalla Chiesa cattolica come difensori della vita, sarebbero vili sostenitori di un’idea «estranea al comandamento cristiano dell’amore». I tempi cambiano. Forse, altri sacerdoti dovrebbero prendere la penna in mano e riportare di nuovo in primo piano il testo di don Milani. Per l’obiezione alla guerra? Proprio per l’obiezione alla guerra.
Ma non si può. Anche don Milani non potrebbe più farla, dovrebbe cambiare argomenti e obiettivi. La guerra, ormai, si fa di mestiere. Il parroco di Barbiana in quella sua risposta citava Gandhi: «Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine della guerra» (Non-violence in peace and war. Ahmedabad 14 vol. I). Per chi fa la guerra di mestiere è una frase allucinante, sono le parole di un pazzo. Infatti, fu assassinato. E quel «pazzo» (così veniva definito in una lettera minatoria pubblicata sui giornali) di don Milani quasi certamente partirebbe da qui.
Parlando di patria, i cappellani militari toscani tracciavano una differenza fra italiani e stranieri. Differenza logica, visto che ci sono nazioni e confini, ma traumatica quando si parla di una «patria» contro l’altra: qui non ci si aiuta, si muore. Don Milani affermava: «Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto».
Penso che un cristiano non possa non acconsentire. Don Milani ricordava che Vittorio Emanuele II di Savoia, il «re buono», premiò nel 1898 il generale Bava Beccaris che a Milano aveva fatto cannoneggiare una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento: «solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiare polenta. Poca perché era rincarata».
Mario Pancera
Se il prete è un Assassino
di Maurizio Chierici (l’Unità, 11/02/200) *
C’È un prete assassino condannato all’ergastolo che per la Chiesa è ancora prete. La gerarchia tace e aspetta, ma cosa? Quando un sacerdote tradisce le regole che guidano la missione, la Chiesa lo isola dai fedeli: sospeso a divinis. Ancora nessuna sospensione per il sacerdote Christian Von Wermich chiuso nel carcere penale di Buenos Aires: testimoni e documenti hanno provato la sua responsabilità in 7 omicidi, 42 arresti illegali, 31 casi di tortura. Anni della dittatura militare. «Non odiate chi vi sta torturando. Volontà di Dio» erano le sue parole di conforto distribuite dal padre consacrato nelle quattro prigioni segrete attorno a Buenos Aires.
I militari lo invitavano a spiare e Von Wernich usava la confessione per far parlare quei prigionieri che non si arrendevano alla tortura. Per dire cosa, poi? Nomi di compagni di scuola scandalizzati dalla violenza dei generali P2; chiacchiere tra studenti. Von Wermich confessava con la doppia morale di un malandrino. Li sollecitava ad abbandonarsi al perdono di Dio, e se l’abbandono interessava la polizia, riferiva, e altre persone sparivano. Quattro mesi fa guardavo Von Wernich nel maxischermo che ne allargava il volto davanti tribunale di La Plata. Indifferente mentre i giudici leggevano la condanna. Appena un sorriso di scherno, come per dire «in qualche modo ne uscirò». Negli appunti ritrovo pagine che il silenzio della Chiesa obbliga a ricordare per far capire cosa non sta succedendo.
Hector Timerman, console generale dell’Argentina a New York, riferisce ciò che il padre - Jacobo Timerman, direttore di un giornale indipendente - ha raccontato e scritto a proposito del sacerdote. «Era presente ai miei interrogatori e quando la benda che fasciava gli occhi si abbassava per effetto delle scariche elettriche, vedevo Von Wermich seduto accanto al capo della polizia di Buenos Aires, Ramon Camps. Mi guardavano come si guarda un cane che sta morendo». Nei verbali del tribunale la commozione di Maria Mercedes Molina Galarza: è nata in una prigione segreta, Von Wermich l’ha battezzata promettendo a Maria Mercedes e ad altri sei ragazzi, tranquilli, vi accompagnerò al confine. La vostra pena sarà l’esilio. Von Wermich ha consegnato la bambina ai nonni: molto devoti, gli si erano rivolti per sapere qualcosa della figlia scomparsa. «Si farà viva lei, forse fra un anno, forse da un altro paese. Non posso dire di più». Con la piccola fra le braccia, il cuore dei nonni si è aperto. Hanno preparato una valigia, vestiti, qualche soldo. «Ne avrà bisogno. Gliela consegno personalmente. Mi raccomando, silenzio...». Ma il viaggio della ragazza madre (Liliana Galarza) e dei suoi compagni, è stato un viaggio breve. Julio Emilio Emmended, poliziotto condannato per sette delitti, racconta come è finito. «Padre Christian Von Wernich benedice i sovversivi ammanettati e mi raggiunge nell’automobile dove aspettavo assieme a Jorge Bergés, medico della polizia segreta. ’Adesso sono vostri’. Allora scendo con la pistola in mano e quando i sovversivi vedono la pistola cercano di disarmarmi ma hanno le mani legate. Colpisco col calcio dell’arma, li stordisco. Interviene il medico: due iniezioni per uno, sempre nel cuore. Il liquido è rosso, veleno. Sconvolto, li vedo morire ma padre Von Wermich mi rincuora. ’L’hai fatto perché la patria. Dio sa che hai agito per il bene del paese’. Avevo le mani sporche di sangue. E del sangue dei ragazzi era macchiato l’abito del padre ...».
Le voci sono tante, i documenti precisi. Crolla la dittatura e Von Wernich sparisce. Passa dal Brasile, lo ritrovano in Cile: un settimanale di Santiago lo fotografa mentre distribuisce la comunione non lontano dalla capitale. Il nome era falso, nessuno poteva sospettare. Possibile che la Chiesa cilena avesse affidato la cura di una parrocchia ad un sacerdote argentino senza voler sapere da Buenos Aires ’come mai è qui?’. Mistero che si perde nella rete dei cappellani militari.
Cinque minuti dopo la condanna, il comunicato della Commissione Episcopale argentina. Perché cinque minuti dopo e non quattro anni prima quando i delitti di Von Wermich erano da anni documentati? Martin de Elizaide, vescovo della diocesi della quale Von Wermich era sacerdote chiede che il religioso «venga assistito affinché riesca a comprendere e riparare il danno arrecato con scelte personali che non coinvolgono le istituzioni». Lascia capire che la procedura necessaria alla Chiesa per prendere una decisione sarà lunga: non ne fissa il tempo. In fondo, è solo uno dei tanti sacerdoti che hanno abbracciato gli ideali fascisti della dittatura. Le trame del piano Condor allargano le complicità ai cappellani militari delle squadre della morte: America Centrale, Brasile, Cile, Uruguay, Paraguay. Con quale abbandono si sono rivolti a Dio mentre davano una mano agli assassini?
Quattro mesi fa la sentenza e la Chiesa non ha più parlato. Bisogna dire che i rapporti diplomatici tra Vaticano e Argentina sono congelati dal braccio di ferro che divide l’ex presidente Kirchner e la nuova presidente- moglie, dalla burocrazia diplomatica di Roma. Tre anni fa Kirchner nomina ambasciatore in Vaticano un ex ministro: Alberto Juan Bautista Iridarne, signore squisito ma divorziato e risposato come quattro milioni e mezzo di argentini.
Come Berlusconi, Fini e Casini considerato dal monsignor Ruini «esempio di cattolico in politica». Il Vaticano non accetta chi ha infranto il sacramento del matrimonio e un paese borghese e devoto viene rappresentato nel grigiore della routine di un incaricato d’affari. Comunicazione non interrotta, ma evanescente proprio nel momento in cui il congresso di Buenos Aires decide la dissoluzione del vescovado castrense, pastore guida dei cappellani militari.
Il passato continua ad impaurire il presente. I cappellani in divisa hanno accompagnato il golpe obbedendo ai vescovi che appoggiavano la dittatura dei generali.Von Wernich è il primo caso risolto dal tribunale, ma i nomi sono tanti, si annunciano altri processi. L’essere divorziato e l’essersi risposato non viene messo sullo stesso piano delle colpa di chi si è servito della confessione per far sparire ragazzi senza colpa, ma la soluzione è fulminea: no e subito all’ambasciatore; vediamo cosa fare per il prete assassino. Il clero argentino è diviso. Vescovi rigidi contro il governo e vescovi alla ricerca della soluzione.
Monsignor Casaretto, segretario della commissione episcopale, genovese di nonni e presidente della Caritas che ha sfamato milioni di affamati nei mesi bui della crisi economica non smette di dialogare. Intanto, nell’istituto penale dove è rinchiuso Von Wernich sono stati trasferiti militari e poliziotti arrestati dopo che il presidente Krichner ha annullato le due leggi (Punto Final e Obbedienza Dovuta) imposte dalle forze armate per consentire «la pacificazione nazionale». Molti di loro avevano atteso il processo in prigioni soffici come grandi alberghi. Camere con Tv, aria condizionata, palestre per tenersi in forma. Una certa libertà. Adesso si sono ritrovati dove dovevano essere dal primo giorno. Von Wernich li raccoglie in angoli non frequentati con l’aria di un confessore. Celebra la messa della sera e riceve la considerazione che è abitudine verso i religiosi nelle carceri argentine. Il silenzio della Chiesa continua. Forse i vescovi credono all’intrigo al quale Von Wernich si aggrappa dichiarandosi vittima di complotti senza prove mentre le prove e i racconti dei sopravissuti gli passavano sotto gli occhi in tribunale.
A Buenos Aires e in Vaticano la gerarchia cattolica è impegnata a difendere il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale. Questo diritto alla vita prevede la condanna di chi brucia la vita con torture e delitti? Passa il tempo e si aggrava il profilo morale di un assassino che ostenta dignità di sacerdote mentre la gerarchia medita dubbiosa sull’orrore delle colpe certificate dalla giustizia civile. La sopravvivenza sacerdotale di Von Wernich è lo sbalordimento che avvilisce non solo i credenti. E il mistero dei vescovi senza parole insinua nella fede dei cattolici il sospetto di uno scandalo istituzionale.
Solo qualche vescovo ha chiesto perdono alle vittime. Ma non basta mentre la memoria di un passato doloroso scuote ogni comunità: dal ricordo dell’Olocausto, alla Spagna impegnata a rileggere i crimini della guerra civile. Impossibile immaginare per Von Wermich la dolcezza di una esclusione senza sospensione a divinis che ha accompagnato la fine di Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo. «Ussari di una Chiesa combattente alla conquista mondo». È morto negli Stati Uniti quattro giorni fa, l’Osservatore Romano ne ha rimpicciolito la memoria. Sarà sepolto nel suo Messico dove i Legionari si mescolano alla politica del governo conservatore. Nel 1968 è stato accusato da 30 seminaristi; li aveva insidiati facendo pesare l’autorità di un generale intoccabile.
Il quotidiano messicano La Jornada ne ha ricostruito i peccati con una precisione che è valsa il premio nazionale di giornalismo. Ma Roma non se ne è accorta e il Vaticano non gli è mancato di rispetto accogliendo le raccomandazioni del nunzio apostolico in Messico, monsignor Girolamo Prigione, dell’arcivescovo Norberto Rivera e dei vescovi Onesimo Cepeda ed Emilio Berlié, estremisti della destra religiosa in America Latina.
Nel dogma di un integralismo esasperato, Marcial Maciel ha aperto a Roma l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. I Legionari controllano 150 collegi, dispongono di una serie di piccoli seminari, da Monterrey a San Paolo Brasile, attorno ai campus degli Stati Uniti, si aprono scuole nell’ex impero sovietico: 550 sacerdoti, 2500 novizi, 60 mila laici raccolti in una specie di terz’ordine, il Regno di Cristo.
Dopo aver ignorato per dieci anni le accuse largamente provate, nel 2004, il cardinale Ratzinger finalmente prende in esame il caso, e nel 2006 Marcial Marcel viene comandato a lasciare la guida dell’ordine per dedicarsi ad una vita di preghiera e penitenza. Nessun processo canonico per «l’età avanzata», solo la proibizione di dire messa e parlare in pubblico. Punizione veniale per i semplici credenti, ma terribile per il padre dei Legionari: sperava d’essere beatificato con la velocità del Balaguer fondatore Opus Dei. Vanità rinviata all’eternità e senza un santo protettore nel suo ordine si allungano le ombre. Marcial Marcel aveva 87 anni, Von Wermich 69. I fedeli argentini non hanno voglia aspettare diciotto anni per sapere se la Chiesa ha deciso di allontanarsi da un prete così.
mchierici2@libero.it
Pubblicato su l’Unità http://www.unita.it
La figura del sacerdote di Barbiana è messa sull’altare per ridurlo a un innocuo feticcio
Un mito per tutte le stagioni
Ricordare Don Milani a quarantanni dalla sua morte vuol dire fare i conti con il contesto nel quale operò. E registrare i cambiamenti avvenuti per rinnovare la sua esperienza
di Enzo Mazzi (il manifesto, 02.12.2007)
C’è una affermazione che racchiude credo il senso della vita di don Milani: «Il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola». È una frase problematica, letta oggi. Perché i poveri hanno avuto ed hanno la scuola. Ma il mondo non sembra che sia stato raddrizzato.
Guardando però quella frase come paradigma ideale della grande transizione storica della nostra epoca, essa racchiude il progetto, la positiva presunzione di Barbiana: vivere la crisi della società arcaica e la caduta di secolari barriere per soddisfare l’altrettanto secolare sete di protagonismo, anzi di sovranità delle classi popolari; e in secondo luogo far propri gli strumenti offerti dalla società moderna, cioè la diffusione delle conoscenze e del senso critico, giungendo a usare tali strumenti contro lo stesso progetto di trasformazione delle classi dominanti.
Un unico filo lega fra loro tutte le altre esperienze di quel laboratorio culturale, ecclesiale, sociale e politico che si è sviluppato nella Firenze degli anni ’50-’70: vivere la grande transizione storica facendo spazio ai valori di giustizia, solidarietà, protagonismo e partecipazione di cui, seppur con grandi contraddizioni, erano portatrici le classi popolari. Le cose non sono andate secondo le aspettative di quel paradigma ideale che ci animava. Ma non sarà che a quello stesso paradigma si dovrà ritornare come unica risorsa per risalire dall’orrido baratro in cui stiamo scivolando?
Esplorare l’ignoto
Quando, nell’immediato dopoguerra, studiavamo teologia nel Seminario fiorentino, la nostra ansia culturale e intellettuale, la tensione morale e la ricerca di fede erano tutte protese a uscire dalla prigione della sintesi sacrale del medioevo, evitando però l’abbraccio mortifero di una modernità che aveva sì riaperto lo spazio dell’autonomia e della libertà ma, per estrema contraddizione, aveva anche sottomesso il mondo al clima di terrore della guerra totale.
La cupola del tempio, imponente utero materno, non racchiudeva più i cuori e le menti di alcuni giovani seminaristi. Avevamo bisogno di volare alto. Ma la cupola di fuoco della bomba si presentava come un approdo altrettanto oppressivo. Fra questi poli, simbolicamente espressi dalle due cupole, nasceva una appassionata ricerca di sintesi nuove, di percorsi creativi, di tentativi inediti. Eravamo ingenui, ma non stupidi; idealisti, ma non privi di quel realismo autentico che è la dote di chi non ha altra scelta che tentare l’inesplorato.
Non sapevamo che il mondo operaio e contadino era agli sgoccioli. Ma non eravamo neppure in attesa della sua messianica vittoria. Ci premeva l’affermazione e la penetrazione dei valori umani ed evangelici dei poveri nella società e nella Chiesa. Quei valori, fra l’altro, che alcuni di noi, provenienti da famiglie proletarie di sinistra, avevano succhiato col latte materno e che poi entrando in seminario avevano abbandonato non senza un senso di rottura e quasi di tradimento. Ora si trattava di immergersi di nuovo in quella realtà dalla quale si proveniva. Non era il caso di don Milani che proveniva da una famiglia alto borghese e che nell’intimo sentiva il bisogno di una specie di lavacro.
Con un tale desiderio di incarnazione nel «mondo dei poveri», uno dopo l’altro uscimmo di seminario. Ci trovammo immersi in un crogiolo che andava ben oltre la nostra immaginazione e i nostri progetti. Si preparava la metafora di uno di quei magici tempi della evoluzione della specie in cui nasce un essere nuovo.
Una rivoluzione copernicana
Ci accorgemmo ben presto, già alle prime esperienze di pratica pastorale, che non si trattava solo di una questione di preti, di Chiesa o di Vangelo. La società intera era investita da una trasformazione profonda e ambigua. Proprio per questo però l’opportunità che si apriva per il Vangelo e per la Chiesa era di incalcolabile valore. Bisognava scommettere la vita intera e la stessa fede. È quello che tentammo di fare, giovanissimi preti, chi in fabbrica, chi nelle parrocchie, perseguendo esperienze che insieme a tante altre analoghe avrebbero preparato e alimentato la rivoluzione copernicana del Concilio e la rivoluzione culturale e sociale del ’68. Isolare don Milani da questo contesto non serve a lui e non serve alla storia.
In particolare chi ha amore alla scuola e cerca e sperimenta la fatica di percorsi innovativi non ha bisogno di miti. Quanto piuttosto, io credo, di annodare i fili di tante esperienze, individuando, anche nella scuola di Barbiana, le costanti o gli orientamenti di fondo di un processo di emersione e di riscatto delle culture negate. O la scuola infatti si porrà come fondamentale l’obbiettivo di levatrice dell’intreccio fra le culture che finora non hanno avuto acccesso alla visibilità o sbatterà la testa contro l’impotenza di un riformismo da allevamento. Barbiana in questo è preziosa; purché non se faccia un quadretto da «presepio di Greccio». I poveri oggi hanno la parola e restano poveri. Molti immigrati che puliscono le nostre fogne sono laureati. Essi non hanno bisogno di maestri. Barbiana a loro non serve come esempio di scuola ma come esperimento di comunità oltre i confini.
Dunque don Milani è stato smentito? Se si isola e si mitizza il messaggio della persona, direi di sì. E qui ritorna il tema della comunità oltre i confini. È vero che don Milani era lontano dall’esperienza delle comunità di base e dalla stessa riforma conciliare. Lui diceva infatti: «la religione consiste solo nell’osservare i dieci comandamenti e confessarsi presto quando non si sono osservati. Tutto il resto o sono balle o appartiene a un livello che non è per me e che certo non serve ai poveri». Non l’abbiamo mai avuto vicino quando alimentavamo, ispiravamo e sostenevamo la battaglia dei padri conciliari, tipo il cardinale Lercaro o dom Franzoni, per la Chiesa povera e dei poveri e per la Chiesa-comunità di comunità aperta e in cammino. Questo significa che lui non ha dato il suo contributo? Ma niente affatto. Se lo si stacca dal contesto può anche essere. Ma collocato dentro il processo storico don Milani ha dato sostegno a tanti come me nella nostra esperienza e nella stessa lotta per l’attuazione del Concilio. Barbiana non è un’esperienza conciliare nella forma e nelle intenzioni, ma lo è nella sostanza. E’ per questo che io sento vivo Lorenzo, lo sento attuale, perché è vivo e attuale il processo storico di umanizzazione sociale dal basso al quale egli ha dato il suo prezioso contributo. E qui vorrei spendere ancora una parola di critica verso la mitizzazione del personaggio. Non ci serve anzi è di ostacolo il mito don Milani che si sta affermando.
Centrare tutta la luce sulla sua persona oscura ancora una volta i poveri, la gente umile. Milani, Milani, sia pure, ma dove sono finiti i contadini, le contadine e gli operai che mezzo secolo fa animavano ancora i monti del Mugello, insignificanti formiche per la cultura borghese, in realtà per noi grandi personalità della cultura popolare? Ne ho conosciuti diversi e mi sono rimasti nell’anima e nella mente.
Un fiore all’occhiello
Ho proposto agli amministratori di alcuni comuni del Mugello, che fanno convegni, ricerche, pubblicazioni su don Milani, di fare una ricerca sulla cultura popolare e i suoi personaggi prima dell’inurbamento. Non ci sentono. Milani è un fiore all’occhiello da sfruttare per far cassa? Non bisognerebbe mai dimenticare quanto egli scrive all’amico Giorgio Pecorini come in un testamento in una delle sue ultime lettere: «Ma devi fare qualcosa per me. Prima di tutto perché è vero quello che ti dico cioè che il lavoro è tutto dei ragazzi... Non voglio morire signore cioè autore di un libro, ma con la gioia che qualcuno ha capito che per scrivere non occorre né genio né personalità ... Così la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese. E’ per questo che io ho speso la mia vita e non per farmi incensare dai borghesi come uno di loro».
Mettiamo via gli incensieri!
Il lungo e forte legame tra un socialista e un prete molto particolare
Arfè e Milani, fertile incontro
Un rapporto, tra un laico e un cattolico, cominciato negli anni ’50
di Valentino Parlato (il manifesto, 13.10.2007)
Un mese fa è morto a Napoli Gaetano Arfè. Era nato a Somma Vesuviana il 12 novembre 1925: gli mancavano 60 giorni a compiere 82 anni. «Negli ultimi anni della sua lunga vita», ha scritto l’indomani Gianpasquale Santomassimo su questo giornale, «ha lasciato molte memorie, molte ricapitolazioni autobiografiche, quasi con la volontà di fissare il ricordo di uomini, di momenti, di storie individuali e collettive per sottrarle all’oblio». Storico del socialismo italiano, Arfè faceva quel suo mestiere con la stessa onestà con cui da cittadino viveva la militanza politica. Senza però mai subordinare il rigore scientifico alla passione ideologica: «Scrivo non già nelle vesti di storico ma di chi è stato partecipe di una storia che ha avuto i colori dell’epopea e l’andamento di una chanson de geste», ha avvertito a proposito di quelle sue tesimonianze.
Una delle più intense e meno note è sul rapporto con Lorenzo Milani. S’incontrano tra la fine del 1952 e l’inizio del ’53. Gaetano Arfè, 27 anni, è funzionario degli Archivi di Stato: il ministro democristiano dell’interno Mario Scelba lo ha appena trasferito da Napoli a Firenze per la colpa di essere socialista. Lorenzo Milani, due anni e mezzo di più, da 10 convertito, da 5 prete, è cappellano a San Donato di Calenzano, cintura industriale fiorentina. Lì ha impiantato quella scuola popolare serale che, aperta a tutti i giovani senza discriminazioni politiche o partitiche purché di estrazione operaia o contadina, gli ha subito tirato addosso prima la diffidenza poi l’aperta ostilità dei parrocchiani benpensanti, dei notabili democristiani, di tutti i moderati e di quasi tutti i sacerdoti del circondario. Neppure due anni, e la curia se lo caverà dai piedi «promuovendolo» a Sant’Andrea di Barbiana: un centinaio d’anime in una manciata di case sparpagliate a 500 metri sulle pendici del monte Giovi, senza strada, senz’acqua e senza luce: una parrocchia di cui era già stata decisa e annunciata la chiusura, tenuta invece aperta per esiliarci lui.
Ma la scuola intanto continua. Milani, saputo da amici fidati cattolici e laici di quel giovane storico ateo, socialista e serio, lo vuole a farci lezioni sulla storia del socialismo italiano e sulla questione meridionale. Arfè accetta; ed è per entrambi una bellissima reciproca scoperta d’amicizia.
Milani, com’è suo costume, non la racconta: la vive e la utilizza, si può dire la sfrutta. Confinato a Barbiana dal dicembre del ’54. al nuovo amico, diventato parlamentare e direttore dell’Avanti!, chiede prima pareri sull’abbozzo di Esperienze pastorali poi nel ’58, all’uscita del libro, una recensione. Infine nel ’67, ormai alla vigilia della morte, verifiche di dati e notizie per Lettera a una professoressa che sta scrivendo assieme ai ragazzi. Arfè, secondo il proprio mestiere, analizza e documenta. Comincia già nell’ottobre del ’58 recensendo a botta calda Esperienze (Il Ponte, n. 10). Prosegue nel ’74 dando una lunga intervista a Neera Fallaci per la biografia che lei sta scrivendo (Dalla parte dell’ultimo) e nel ’76 intervenendo assieme a Ernesto Balducci e Giorgio La Pira in un film di Ivan Angeli (Don Milani). Conclude nel ’95 con «Una testimonianza» sulla Nuova Antologia (n. 2194). E alle sortite pubbliche accompagna una costante attenzione privata, nelle conversazioni, nella corrispondenza con gli amici e negli incontri coi giovani, sempre più frequenti negli ultimi anni: vedere le due lettere presentate qui accanto.
Ma come e perché un ateo, socialista di fede politica e storico di mestiere, può avere una consonanza così intensa e un rapporto così coinvolgente con un prete dall’ortodossia tanto rigorosa, quasi ossessiva? E, specularmente, come e perché quel prete può avere un rapporto di fiducia e di stima incondizionate oltre che di interesse culturale con un intellettuale non credente? Quale minimo (o massimo?) comune denominatore li unisce? «Quanto profondamente ha studiato il libro il socialista Gaetano Arfè. Lui davvero lo ha capito più di ogni altro», scrive Milani a Giuseppe D’Avack, il vescovo autore della prefazione a «Esperienze pastorali». E in polemica con la feroce stroncatura di Civiltà cattolica che preannuncia la censura del santo offizio, precisa: «Lui certo non trova nessun contrasto tra ciò che lei dice dell’obbedienza e ciò che si legge tra le mie righe. Di me infatti dice che "scrivo mell’àmbito della più rigorosa ortodossia dottrinale e della più rigidamente intesa disciplina ecclesiastica"». Arfè e Milani, insomma, incarnazioni di quelle «due culture», laica e religiosa, che ostinatamente il nostro Filippo Gentiloni esorta a finalmente incontrarsi.
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lettere
Il carteggio
Gaetano Arfè ha sempre seguitato da studioso e da cittadino a interessarsi di don Lorenzo Milani e delle sue due scuole, senza mai modificare la propria miscredenza laica. Il giornalista Pecorini, un altro laico non credente, non convertito e non convertendo nonostante il privilegio di un’intensa amicizia con don Lorenzo. aveva mandato ad Arfè due libri. Uno era il suo «Don Milani! Chi era costui?» (Baldini & Castoldi), un saggio-testimonianza con acclusa la registrazione di due conversazioni col priore. L’altro «I care ancora», raccolta da lui curata di scritti milaniani: «Lettere, progetti, appunti e carte varie inedite e/o restaurate», con acclusa la videocassetta di un documentario sulla Scuola di Barbiana. Arfè con le due lettere inedite ringrazia, oltre Pecorini, il comboniano Ottavio Raimondo, responsabile dell’Emi, editrice dell’«I care», che glielo aveva spedito direttamente. (senza data, ma entrambe col timbro postale del 6 febbraio 2001)
Reverendissimo Padre Raimondo,
le sono assai grato del libro che ha voluto inviarmi. Don Lorenzo, mio coetaneo, ha esercitato su di me un influsso assai forte.
Nella mia formazione che considero ancora non conclusa - finché si è vivi si deve esser capaci di assimilare esperienze nuove - egli ha -lasciato un’impronta rimasta incancellata.
Ne ho parlato molte volte con amici e studenti di diversa età - una volta in un teatro napoletano gremito di studenti, provenienti da una scuola media a lui intitolata che organizzarono l’incontro convogliando ragazzi anche da altri istituti.
Fu quella la prima volta che misi per iscritto i miei ricordi e mi permetto di inviarle il testo. Mi ritorna frequente il progetto di riscrivere e ampliare quelle pagine , ma dubito che le mie condizioni presenti me lo consentano.
Voglia comunque accogliere con indulgenza queste poche pagine e credere al sentimento di amicizia che mi lega a quanti furono amici di don Lorenzo.
Suo Gaetano Arfè
Caro Pecorini,
mi scuso del ritardo, ma ho avuto giornate molto pesanti. Mia moglie è allo stadio finale della sua malattia e la mia capacità di resistenza
è pressata dagli acciacchi e dagli anni.
Dei due volumi e della cassetta le sono veramente grato. Ho potuto dedicare alla lettura, finora, solo qualche ora e sento il desiderio, direi il bisogno, di leggerli impegnandovi tutto il tempo necessario quando si leggono libri di cui ogni pagina va pensata e «assorbita».
Non è un complimento. Con la sincerità che il ricordo di don Milani mi impone, le dico che ho trovato magistrale la tecnica con la quale ha costruito il suo lavoro e affascinante la lettura delle sue pagine. Nessuna delle cose che letto su di lui ha la forza e la freschezza delle sue pagine. Se mi sarà possibile ne scriverò in qualcuna delle riviste semiclandestine che mi ospitano di tanto in tanto. Dovrei avere ancora qualche lettera di don Milani, tra le mie carte colpite a suo tempo da un attentato dinamitardo e successivamente dal crollo di un intonaco. Se riesco a trovarle gliele farò avere.
Grazie ancora, e mi abbia, con grande amicizia
Suo Gaetano Arfè
sentenza storica
Argentina, cappellano del regime condannato
Ergastolo per Christian von Wernich, il prete dei centri di tortura clandestini
BUENOS AIRES - Dio lo sa, disse il cappellano: «Lui sa che è per il bene del Paese ». L’assoluzione al medico militare che aveva iniettato nel cuore dei sette sovversivi un velenoso liquido rossiccio. «Un gesto patriottico - gli sollevò la coscienza Christian von Wernich -, Dio lo sa». Trent’anni dopo, grigio, attento e silenzioso, stretto e quasi soffocato dal giubbotto antiproiettile e dal colletto da prete dietro al vetro blindato del Tribunale penale numero Uno di La Plata, per quei morti, per 31 casi di tortura, per 42 sequestri illegali, il cappellano Christian von Wernich ascolta la sentenza di condanna: ergastolo, «nell’ambito del genocidio » perpetrato dai militari argentini. È la prima volta per un esponente della Chiesa. La tv pubblica trasmette il processo in diretta. Un maxischermo mostra le immagini davanti al tribunale per la folla e gli attivisti per i diritti umani arrivati in autobus da Buenos Aires.
Ieri, ultimo giorno di udienza, prima del giudice è il turno della difesa. Von Wernich ha visitato sì almeno quattro campi clandestini di reclusione nella zona di La Plata (conosciuti come Circuito Camps) negli anni della dittatura (1976-83), ma l’ha fatto - è la sua linea e quella dei suoi legali - in virtù della «sua funzione pastorale». Respinte le accuse portate in aula da oltre 70 testimoni, familiari delle vittime e sopravvissuti. Luis Velasco, tra questi: «Mi toccò il petto e ridendo disse: ti hanno bruciato tutti i peletti con la picana (strumento di tortura che dava scariche elettriche, ndr)... Non ti restano più peletti». Velasco ha raccontato di aver sentito von Wernich dire a un prigioniero sotto tortura: «Figlio mio, la vita degli uomini la decidono Dio e la tua collaborazione».
A un uomo che chiedeva quale colpa dovesse espiare la sua bimba nata nel centro di reclusione, il cappellano rispose: «I figli devono pagare la colpa dei genitori». Il sermone per i detenuti era: «Non dovete odiare quando vi torturano». Mai visto dare la comunione a qualcuno dei prigionieri che andava a trovare.
Per Velasco, von Wernich ha fatto eccezione e ha parlato per accusarlo di essere stato un collaboratore dei servizi di informazione. Ancora ieri, una battuta sulle testimonianze «impregnate di malizia ». Per il resto, muto. Ogni tanto un appunto a matita, gli occhiali da vista sul naso. Niente da dire davanti alla deposizione di Julio Emmed, polizia di Buenos Aires, che ha confessato l’esecuzione dei sette «sovversivi» ai quali era stato promesso l’esilio. Niente davanti al racconto del battesimo in cella della bimba nata da una donna del gruppo dei sette, María de las Mercedes, consegnata ai nonni con l’indicazione di «non cercare la madre, non raccontarlo a nessuno, aspettare un anno che la donna si sarebbe messa in contatto con loro dall’estero, di sperare ». E i nonni a crederci perché glielo diceva un cappellano.
Quello di von Wernich è un processo considerato simbolico in Argentina. La seconda sentenza dall’annullamento nel 2005 delle leggi di «punto finale» e «obbedienza dovuta », che avevano bloccato i processi ai golpisti. La prima dalla scomparsa del testimone Julio López, che dopo la deposizione-chiave al processo Etchecolatz (il vice-capo della polizia di Buenos Aires) è desaparecido. Uno scomparso in democrazia, trent’anni dopo la dittatura. Una nuova stagione di giustizia, ma anche di intimidazioni. Gli organismi per i diritti umani denunciano il coinvolgimento di ambienti della polizia e chiedono una commissione indipendente a condurre l’inchiesta (ora affidata proprio agli agenti). E con il sostegno del governo (soprattutto in questa fase elettorale) affermano l’intenzione di proseguire nell’accertamento delle responsabilità. «Quello che sottolinea il caso von Wernich - dice al Corriere Luis Alen, capo di gabinetto della segreteria dei diritti umani della nazione, che ha rappresentato il governo nel processo - è che la dittatura non è stata solo militare. Ma che c’è stato il coinvolgimento di altri settori della società (dalla chiesa alle imprese) che va ancora indagato».
Alessandra Coppola
* Corriere della Sera, 10 ottobre 2007
anatemi
Cento anni di modernismo nelle libertà perdute della Chiesa
Nel luglio del 1907, Pio X stigmatizzava la corrente religiosa di Murri e Bonaiuti. Due mesi più tardi, l’enciclica «Pascendi Dominici gregis» condannerà ancora il movimento definito «sintesi di tutte le eresie»
di Alfonso Botti *
È passato un secolo da quando, nel luglio del 1907, con il decreto Lamentabili sane exitu Pio X condannava la corrente riformatrice religiosa da qualche anno divenuta nota con il nome di modernismo. Due mesi dopo, l’8 settembre, la condanna era reiterata con l’enciclica Pascendi Dominici gregis che stigmatizzava il modernismo come «sintesi di tutte le eresie». Si è soliti identificare il punto algido della controversia modernista con la pubblicazione di L’Évangile et l’Eglise (1902) dell’abate Loisy: il «piccolo libro» dalla copertina rossa in cui l’esegeta francese forniva una lettura tutta escatologica del regno predicato da Gesù, negando che egli avesse inteso fondare la Chiesa. A cui faceva seguire, l’anno dopo, Autour d’un petit livre nel quale esplicitava e ribadiva le proprie posizioni.
Un fenomeno europeo
Il modernismo si sviluppò tra il clero, gli intellettuali cattolici e i semplici credenti di base dagli ultimi anni del pontificato di Leone XIII alla condanna di papa Sarto. Poi cercò di organizzarsi come movimento per resistere e sopravvivere, ma fu sopraffatto. La controversia a cui diede vita produsse la crisi più importante nella Chiesa dopo la Riforma protestante e senza termini di paragone neppure con i sommovimenti prodotti dal giansenismo. Il fenomeno ebbe dimensioni a carattere europeo. Europea la statura dei suoi principali esponenti che mantenevano profondi e articolati rapporti con la cultura del Vecchio continente. Se ne trova conferma scorrendo l’elenco dei corrispondenti del pastore protestante francese Paul Sabatier, le cui carte sono conservate presso il Centro studi per la storia del modernismo di Urbino, fondato all’inizio degli anni Settanta da Lorenzo Bedeschi.
I più significativi rappresentanti della corrente furono, in Francia, oltre ai già citati Loisy e Sabatier, Bremond, Hébert, Houtin, Laberthonnière, il filosofo Le Roy; in Italia, Romolo Murri (il fondatore della prima democrazia cristiana), Buonaiuti, Minocchi, Fracassini, Semeria, Gallarati Scotti e lo scrittore Antonio Fogazzaro; in Gran Bretagna, l’ex gesuita Tyrrell, miss Petre e il barone d’origine austriaca von Hügel; in Germania i professori Schell, Schnitzer, Koch, Engert e Funk. In Spagna, a parte il limitato interesse verso il modernismo di alcuni religiosi e del sacerdote galiziano José Amor Ruibal, gli intellettuali che più si avvicinarono alla sensibilità modernista furono Leopoldo Alas, noto con lo pesudonimo di Clarín, suo fratello Genaro, il Pérez Galdós del romanzo Nazarín e, più di tutti, Unamuno.
Tra scienza e fede
L’assenza di modernisti in carne e ossa fu surrogata da Ortega y Gasset nel 1908 con la creazione del personaggio di Rubín de Cendoya nella recensione che dedicò all’edizione spagnola del Santo di Fogazzaro. Anni dopo, nel 1936, lo stesso fece lo scrittore basco Pío Baroja, con il personaggio di Javier Olarán, nel romanzo El cura de Monleón. Furono molte le riforme del cattolicesimo e della Chiesa auspicate dai modernisti. I temi più tipici delle loro ricerche storiche e religiose si possono riassumere nella formula della spinta verso la conciliazione tra la scienza e la fede cristiana. Un risultato che cercarono di perseguire muovendosi su differenti piani: con l’impiego del metodo storico-critico nell’esegesi biblica, nella storia della Chiesa e dei dogmi, nell’apologetica e l’agiografia; con la critica del tomismo come filosofia cristiana e del concetto stesso di «filosofia cristiana» al posto della quale si adoperarono a favore della libera ricerca filosofica, guardando con simpatia al pensiero di Blondel, Bergson e al pragmatismo statunitense; con l’accettazione dell’evoluzionismo darwinano per spiegare l’origine dell’uomo contro il tradizionale creazionismo del magistero ecclesiastico; prestando attenzione agli aspetti psicologici dell’esperienza religiosa sotto l’influenza di William James; con la netta opzione per la democratizzazione della Chiesa e della società, che assunse venature socialiste nel caso del Buonaiuti degli anni della rivista «Nova et vetera».
L’origine del sospetto
In definitiva i modernisti vollero togliere le incrostazioni confessionali che si erano depositate nel corso dei secoli attorno all’Evangelo e al messaggio cristiano per recuperarne l’autentico significato in vista del più proficuo dialogo con il mondo moderno. Fu una tendenza intellettuale, ma non elitaria, che trovava le proprie radici nel cattolicesino liberale francese e italiano, nel Reformkatholizismus tedesco, nell’americanismo (condannato dalla Chiesa nel 1899 con la Lettera Testem benevolentiae), nel positivismo e nel nuovo protagonismo delle masse dell’Europa di quegli anni. La Chiesa ebbe paura e condannò la corrrente riformatrice. Costruì anzi con «il modernista» il proprio nemico interno. I modernisti dovettero scegliere tra deporre l’abito talare, la sospensione a divinis e il mesto ritorno all’ovile. Alcuni continuarono a pubblicare i risultati delle proprie ricerche coperti da pseudonimi.
Quelli che non obbedirono o che vennero scoperti furono scomunicati (Loisy, Buonaiuti, Murri). Per questo motivo la crisi modernista si frantumò in tante crisi personali, di coscienza, esistenziali. Le pubblicazioni moderniste e anche alcuni romanzi furono inseriti nell’Indice dei libri proibiti. Molte riviste cessarono le pubblicazioni. Nacque una cultura del sospetto contro ogni attività di ricerca nelle scienze religiose che non risparmiò neppure il futuro Giovanni XXIII. La grande mobilitazione antimodernista favorì i settori più intransigenti e integralisti della Chiesa e del cattolicesimo. Per meglio combattere la «eresia» modernista, un ecclesiastico prossimo a Pio X, monsignor Benigni, fondò nel 1909 Sodalitium Pianum o Società San Pio V (nota anche come Sapinière), un’organizzazione di spionaggio clericale, che contò sulla collaborazione di schiere di delatori, infiltrati e persino di cifrari segreti. A partire dal settembre del 1910 si introdusse l’obbligo del giuramento antimodernista per entrare nei seminari e nelle Università pontificie (Motu proprio Sacrorum antistitum).
Nel 1907 morirono nella Chiesa le inquietudini e il dubbio, la libertà di ricerca e la possibilità stessa del pluralismo teologico. I cattolici avrebbero dovuto aspettare quasi mezzo secolo e il Concilio Vaticano II per recuperare i livelli di libertà ecclesiale che il modernismo aveva fatto intravedere.
Non a caso proprio negli anni della primavera conciliare prese avvio lo studio del modernismo con le ricerche di Ranchetti, Scoppola, Bedeschi e, su tutti, Poulat, per dire solo dei principali. Di contro, il 1907, segnò il trionfo del clericalismo. La condanna e la repressione antimodernista favorirono i settori più ultramontani e integralisti sul piano religioso e quelli più illiberali e antidemocratici sul piano politico.
Vuoti di cultura
A ben guardare, però, e con la prospettiva che il tempo consente, occorre riconoscere che la Chiesa non respinse la modernità in toto. Il modernismo rappresentava infatti solo una delle vie o opzioni della modernizzazione cattolica. Nel suo complesso Curia romana e gerarchie ne scelsero un’altra.
Iniziò proprio allora, infatti, il cammino verso la modernità compatibile, la modernità «buona», dei mezzi, ma non dei contenuti, attraverso una complessa operazione di filtro e aggiustamento del tradizionale progetto di cristianità. Un progetto dal quale non si è scostato né il papa polacco né, a quanto è dato vedere, quello tedesco, che alla messa in latino di Pio V ha dato facoltà di tornare.
Senza la condanna del 1907, la storia del cattolicesimo e della Chiesa in Europa avrebbe probabilmente seguito un altro percorso. Senz’altro meno tardiva la sconfessione dell’Action française, che giunse solo nel 1926; senz’altro maggiori resistenze alla penetrazione del fascismo avrebbe offerto il mondo cattolico italiano e più difficili la sacralizzazione della Guerra civile spagnola e la stretta alleanza di quel cattolicesimo con il franchismo. La condanna lasciò indifferente la cultura laica e socialista che vi trovò conferme circa l’irriducibile antinomia tra religione, scienza e modernità. Contentò invece quella liberale moderata e conservatrice, che di un mondo cattolico disciplinato aveva bisogno.
A essa inconsapevolmente si ispirano «atei devoti» e «teocon» dei nostri giorni, ignari delle repliche farsesche della storia. Che nel dibattito culturale e politico degli ultimi tempi su scienza e religione, bioetica e darwinismo, laicità dello Stato e neoclericalismo sino rimasti del tutto assenti riferimenti sia al modernismo, sia al clericomoderatismo, la dice lunga sul vuoto di cultura storica su cui galleggia il paese.
* il manifesto, 13.07.2007
Un movimento fra studi e convegni
Una lunga attesa I cattolici avrebbero dovuto aspettare quasi mezzo secolo e il Concilio Vaticano II per recuperare i livelli di libertà ecclesiale che il modernismo aveva fatto intravedere
di A. B. (il manifesto, 13.7.2007)
Senza prendere in considerazione la prima fase di lavori - per lo più a opera degli stessi protagonisti - e le monografie sui singoli esponenti, gli studi di carattere storico (altri naturalmente ve ne sono dal taglio filosofico e teologico) dai quali, per vari motivi, non si può prescindere per avere una panoramica completa del modernismo sono i testi di Émile Poulat, Intégrisme et catholicisme intégral. Un réseau secret international (Casterman, 1969) e Storia, dogma e critica nella crisi modernista (Morcelliana, 1967) e i saggi di Michele Ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo (Einaudi, 1963), di Piero Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia (Il Mulino, 1963) e di Lorenzo Bedeschi, La Curia romana durante la crisi modernista (Guanda, 1966) e Lineamenti dell’antimodernismo (Guanda, 1968).
E ancora, vanno citati diversi altri autori. Come Alexander Vidler, The variety of Catholic Modernists (Cambridge University Press, 1970), Thomas Michael Loome, Liberal catholicism reform and Catholicism modernism (Matthias-Grünewald-Verlag, 1979), Maurilio Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi (San Paolo, 1995), Otto Weiss, Der modernismus in Deutschland. Ein Beitrag zur Theologiegeschichte (Regensburg, 1995), Pierre Colin, L’audace et le soupçon. La crise du modernisme dans le catholicisme français (Desclée de Brouwer, 1997), Roberta Fossati, Élites femminili e nuovi modelli religiosi nell’Italia tra Otto e Novecento (Quattroventi, 1997), Étienne Fouilloux, Une Église en quête de liberté. La pensée catholique française entre modernisme et Vatican II¸1914-1962 (Desclée de Brouwer, 1998), Giovanni Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X. 1903-1914 (Herder, 1998) e infine la raccolta di saggi Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione (Quattroventi, 2000). Tra le iniziative editoriali più recenti si segnalano inoltre il volume della collana di scienze religiose dell’École des Hautes Études, Alfred Loisy cent ans après (Brepols, 2007), Spiritualità e utopia: la rivista «Coenobium» (1906-1919), a cura di Fabrizio Panzera e Daniela Saresella (Cisalpino, 2007) e il primo numero del 2007 del bimestrale «Humanitas» dedicato al Modernismo in Europa, a cura di Maurilio Guasco.
Per quanto riguarda gli appuntamenti di studio, due saranno quest’anno in Italia i principali convegni: il Seminario internazionale sulla «Pascendi cent’anni dopo», promosso dalla Fondazione Romolo Murri di Urbino il 12 e 13 ottobre, con la partecipazione, tra gli altri, di Claus Arnold, Rocco Cerrato, e il convegno coordinato da Michele Nicoletti e Otto Weiss, su Il modernismo in Italia e in Germania, a Trento dal 22 al 26 ottobre, su iniziativa del locale Istituto italo-tedesco. Per la primavera del 2008, infine, un convegno sulle principali riviste moderniste è stato annunciato all’Università statale di Milano.
LETTERA DI DON LORENZO MILANI A GAETANO CARCANO - MILANO *
Barbiana, 3.9.1958
Caro signor Carcano,
ho ricevuto il suo dattiloscritto e l’ho letto più volte con cura. Ho anche cercato di annotare qualcosa. Ho dovuto però concludere che non ci potevo far nulla.
Se dovessi presentarmi io al Convegno vorrei andare subito al nocciolo del problema degli operai e dei contadini lontani: l’atteggiamento politico e sociale del clero.
Ho nel mio vecchio popolo di San Donato una ventina di licenziati della R. [Importante fabbrica di Sesto Fiorentino]. Gente che ci ha lavorato anche decine d’anni e ci ha rimesso magari anche la salute (silicosi e reumatismi) e che s’è sentita leggere dopo la guerra una lettera che veniva da Milano e diceva che la direzione non avrebbe mai dimenticato quello che gli operai di Sesto avevano fatto per la R. (salvato gli impianti e il museo dai tedeschi. Gesù ebbe un Giuda su 12, la R. tra tutti i suoi operai non l’ebbe). Ora questi operai sono stati licenziati e beffati. E l’uomo che li ha sfruttati (ci si è arricchito in modo inverosimile, il loro lavoro «svogliato» a lui ha fruttato tanto che la loro vecchia fabbrica ne ha fatte nascere altre sette), l’uomo che li ha ingannati e traditi, i preti, proprio i preti (Comitati Civici) lo hanno fatto mettere nella lista di un partito che osa profanare così il nome di cristiano.
Che serve avere una bella chiesa senza immagini di cattivo gusto, non dire «scherzi da. prete», avere canti armoniosi, panche comode, libri di canto unificati, preghiere unificate, mitre che si levano e mettono, fiori naturali invece che finti, messali con la chiara indicazione di Ambrosiano o Romano, zie del prete che non si danno il rossetto, se poi c’è in chiesa la vittima del signor V. [Principale azionista della ditta R.] la quale ha in tasca un volantino comunista dove c’è una fotografia del V. inginocchiato davanti al Papa non per ricevere le invettive evangeliche («Guai a voi...») o scomuniche, ma una benevola benedizione?
Quell’operaio potrà perdonare il Papa, potrà aver pietà di quel povero vecchio ignaro non per sua colpa di tutto ciò che è vita cruda e vera, ma non potrà perdonare il suo prete che non è corso a avvertire il Papa e non inveisce dall’altare in difesa dell’oppresso (non ne aveva tempo, aveva da costruire con l’aiuto economico del Papa un campo sportivo da 11 milioni).
Lei forse dirà: «Questi sono episodi laterali». Ma quell’operaio non li trova affatto laterali e non solo perché c’è di mezzo il pane dei suoi bambini (cosa tutt’altro che laterale), ma anche perché c’è di mezzo la sua dignità di cittadino d’una repubblica che si dice democratica ma manda la Celere solo a difendere i beni del V. contro l’operaio, mai il bene dell’operaio contro il V. che lo calpesta, e poi c’è di mezzo la sua coscienza di cristiano che si ribella all’ingiustizia e alla crudeltà e vede che il suo prete difende il partito che vuol mandare il V. a far le leggi! (come se le leggi non fossero tutte già abbastanza a favore del V. e contro al povero) e vede che il suo prete non inveisce questa volta con la stessa forza con cui inveisce (giustamente) ogni volta che parla di ingiustizie e crudeltà comuniste.
Caro signor Carcano, non vada al Convegno a dir cose laterali e secondarie. Vada a dire che ne aveva pensate tante e poi a un tratto le è apparso davanti agli occhi che c’era una sproporzione tra quelle piccole cose e una cosa grande e grave: i lontani sono lontani perché i preti hanno voluto immischiarsi nelle cose terrene e ci han perso la serenità di giudizio. E hanno consacrato l’attività dell’Azione Cattolica in campo politico (Comitati Civici) e non hanno separato la loro responsabilità da quella dell’Azione Cattolica quando si seppe che i Comitati Civici avevano mercanteggiato con la Confintesa i seggi «cristiani», cioè di ingannare milioni di poveretti che credono in Dio e hanno fiducia nel loro parroco (questa notizia non l’ha data «L’Unità» ma «Il Popolo» e nessuno l’ha smentita).
Ho visto sì anche nel suo questionario qualche domanda generica su questi argomenti, ma se lei ha la fortuna di potersi rivolgere anche per mezz’ora sola a un’accolta di preti e di vescovi non ci vuole una domanda generica e moderata, di quelle che non urtano nessuno, e tanto meno attenuata da tante domande insignificanti che ha accanto. Ci vuole una parola dura, affilata, che spezzi e ferisca, cioè una parola concreta come sono i due esempi qualsiasi che le ho fatto e i tanti altri che lei può leggere sul mio libro. Tagliare e colpire crudelmente come fa il chirurgo perché la maggior pietà del chirurgo è di non aver pietà.
E se tutto questo crede di non poterlo fare, allora per piacere non parli. Non dia ai preti che l’ascolteranno l’illusione di avere ascoltato per bocca sua i bisogni della famiglia cristiana. La famiglia cristiana dell’operaio e del contadino ha bisogno di un prete povero, giusto, onesto, distaccato dal denaro e dalla potenza, dalla Confida, dal Governo, capace di dir pane al pane senza prudenza, senza educazione, senza pietà, senza tatto, senza politica, così come sapevano fare i profeti o Giovanni il Battista. Un prete che chiarisca cosa è bene e cosa è male in fatto di rapporti di lavoro e che si schieri dalla parte del giusto, del vero, del debole e smetta di difendere i «suoi» per partito preso, ma li difenda solo in quei pochissimi casi in cui la loro causa coincida perfettamente con la causa cristiana.
Vorrei dirle ancora molte altre cose, ma ne ho scritte già tante nel mio libro e scritte con la brutalità che si meritano e che le assicuro non è troppa. Se lei dunque vuol giovarsene faccia pure, ma la prego non attenui, non accomodi, non presenti signorilmente le cose che io dico e che non sono affatto signorili.
La presente lettera è uno sfogo privato con lei. Il mio libro le ha già mostrato che non ho paura delle conseguenze delle mie parole, ma se lei vuoi fare uso pubblico di qualche affermazione che qui le ho fatto la prego di avvertirmene perché io possa rivedere, precisare, documentare, portare insomma al livello e allo stile che ho usato nel libro. In questo momento non ho tempo di farlo perché ho qui i ragazzi a scuola che mi distraggono e perché non voglio tardare ancora a darle la risposta che mi ha chiesto. Un saluto affettuoso e mi scusi, suo
Lorenzo Milani
*
Da Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Arnoldo Mondadori, 1970, pp.78-82
Il destinatario di questa lettera, che allora era segretario del Comitato milanese del Fronte della Famiglia, doveva partecipare con una relazione a un convegno di aggiornamento sociale. Ammiratore di “Esperienze pastorali”, prima del convegno aveva mandato in lettura la sua relazione a don Lorenzo chiedendone un parere.
Articolo tratto da:
FORUM (62) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
* Il Dialogo, Lunedì, 09 luglio 2007
A 40 anni dalla morte di don Milani
Giù le mani da don Milani...
di Alberto Bruno Simoni *
Sui giornali del 24 giugno campeggiava una foto di W.Veltroni e D.Franceschini insieme a M.Gesualdi che li guidava nella loro visita a Barbiana. Il fatto non mi ha entusiasmato ed anzi mi ha un po’ infastidito e insospettito, ricordando le parole di don Lorenzo Milani riportate da E.Martinelli nel suo libro: “Quando sarò morto tutti mi esalteranno, ma voi dovrete difendermi da ogni forma di mitizzazione!”.
In effetti, su L’Unità del giorno avanti, lo stesso M.Gesualdi, in una intervista, affermava: “Quando don Lorenzo morì, lo fece in una estrema solitudine, nessuna cattedrale, non c’erano né autorità civili né religiose, ma soltanto due pretini, gli altri preti stavano tutti lontani Ora lo tirano per la giacchetta, facendogli dire a volte cose che non ha mai detto. Chi pensa di rappresentare la società cerca di appropriarsene e paradossalmente era anche la sua paura, che dopo la sua morte se ne sarebbero appropriati non gli ultimi ma il mondo borghese da cui veniva... Non capisco quale parentela intellettuale possa esserci fra la Moratti e don Lorenzo. Se questi politici volessero fare le cose sul serio dovrebbero solo tacere” (L’Unità, 23 giugno 2007). E forse cercare meno visibilità - fosse pure a Barbiana - mi permetto di aggiungere io!
Non so se queste parole M.Gesualdi le abbia ripetute agli illustri ospiti o se abbia tentato di dire loro quanto avrebbe detto il suo Priore a persone così esposte e rappresentative. Avrebbe certamente potuto ripetere le parole stesse di Gesù riguardo a Giovanni Battista: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! E allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta. Egli è colui, del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te” (Mt 11, 7-10).
In effetti, don Lorenzo ha esercitato in un piccolo angolo quel ruolo di precursore, che il beato Giovanni XXIII assumerà per se stesso e per la chiesa intera: quello di “preparare al Signore un popolo ben disposto”! E mentre Papa Giovanni guarderà alla “chiesa dei poveri”, per don Milani sono i poveri in carne ed ossa la molla della sua azione pastorale. Tutto il resto per lui è modo, via e mezzo, mentre al di fuori di questa prospettiva tutto diventa visione unilaterale e strumentale, non rispettosa di lui.
Sempre sulle pagine de L’Unità, dedicate opportunamente al Priore di Barbiana, Enzo Mazzi ci richiama a questa realtà di base imprescindibile, e fa una osservazione indicativa di un metodo e di una prassi: “Il Priore di Barbiana non era in grande sintonia con le comunità di base eppure la comunità di vita e di studio a cui ha partecipato era molto simile ad una comunità di base, non nelle intenzioni ma certamente nella pratica: una pratica (fortunatamente) contraddittoria come lo è sempre la realtà della vita”.
Il rilievo di E.Mazzi relativamente alle comunità di base evidenzia un’attitudine costante di don Milani, che potrebbe essere vera anche riguardo al Concilio, all’aggiornamento della Chiesa, alla scuola, alla società e alla politica: egli sembra rimanere formalmente estraneo alle situazioni e ai movimenti esterni, ma in realtà porta la scure alla radice e produce soluzioni ai grandi problemi che altri agitano, senza darsi arie o etichette. Ma venendo al fatto specifico di cui sopra - la visita di Veltroni e Franceschini - c’è da impedire che don Milani venga giocato politicamente, quando invece solleciterebbe tutti a riportare l’azione politica alla sua radice personale di prassi umana o anche di credenti, a quel qualcosa che nasce e si consuma nel cuore di ciascuno e in rapporto all’altro, prima di ogni schieramento ideologico o partitico.
In termini laici di potrebbe parlare di etica o di stile, mentre in chiave religiosa si tratta di spiritualità: qualcosa che don Milani sembra quasi aver tradito, ma che in realtà ha prodotto in abbondanza, facendo giustizia di tante sue forme spurie. Forse sarebbe il caso di parlare anche di una “spiritualità sacerdotale” del Priore di Barbiana, ma soprattutto della sua coscienza di cristiano o di “neofita”. E se ossassimo parlare di “spiritualità politica!?
Uno squarcio di questa spiritualità ce lo offre opportunamente Massimo Toschi, che sempre su L’Unità del 23 giugno ci parla del “paradosso di Barbiana”.
Alberto Bruno Simoni
Articolo tratto da:
FORUM (60) Koinonia
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* Il Dialogo, Mercoledì, 27 giugno 2007
Don Milani, la rivoluzione di Barbiana
di Massimo Toschi *
Quarant’anni fa, il 26 giugno 1967 moriva don Lorenzo Milani. Quarant’anni nella Scrittura indicano un tempo lungo, un tempo di ascolto del popolo di fronte a Dio che parla, un tempo di conversione, un tempo di preparazione: il tempo dell’esodo verso la terra promessa. In questi quarant’anni, migliaia e migliaia di persone, soprattutto giovani, hanno continuato a salire a Barbiana per visitare la scuola, per pregare nella piccola chiesa di S.Andrea, per inginocchiarsi davanti alla tomba di don Lorenzo, nel piccolo cimitero parrocchiale. Una salita senza bandiere, senza associazioni, senza movimenti, senza mobilitazioni, sempre nel silenzio e nella ricerca interiore. Una processione senza fine, mai stanca, di generazioni che si consegnano una memoria. Perché la gente è andata e continua ad andare a Barbiana? A Barbiana non si va per cercare una identità culturale, una appartenenza religiosa, un santo protettore della buona politica come qualcuno ha cercato di fare. Chi va a Barbiana, al di là delle citazioni di rito, percepisce più o meno distintamente che in questa piccola parrocchia delle colline del Mugello è avvenuta una visita di Dio, che nella storia di don Milani ha posto la sua orma, la sua impronta. L’orma e l’impronta della povertà, dei mezzi poveri e della piccolezza.
Nato da madre di origine ebrea, nel 1923, viene battezzato nel 1933, all’età di dieci anni, per proteggerlo da possibili persecuzioni antiebraiche. Frequenta il liceo a Milano, e la sua conversione viene datata dalla testimonianza di don Bensi nel giugno del 1943 e nell’ottobre entra in seminario. Ordinato prete nel 1947, è cappellano di San Donato a Calenzano fino al 1954. Nel dicembre del 1954 viene nominato parroco a Barbiana, sperduta parrocchia del Mugello, già chiusa e poi riaperta per raccogliere questo singolare prete che a San Donato aveva avviato una scuola serale di giovani, che accoglieva insieme cattolici e comunisti, e poi aveva assunto, in occasione di elezioni amministrative e politiche posizioni molto ferme di critica alla Dc e al sostegno che la Chiesa le offriva, producendo reazioni molto forti dei preti delle parrocchie circostanti.
Una carriera ecclesiastica apparentemente modestissima, vissuta spesso nell’isolamento. Anche a Barbiana pochissimi preti lo vanno a trovare. Ma in questa condizione assolutamente modesta Dio davvero opera nella vita di don Milani. Già a san Donato l’intuizione della scuola per i ragazzi, per dare loro la parola e i diritti, fa della sua attività pastorale qualcosa di assolutamente innovativo.
Questa centralità della Parola e delle parole mostra il fallimento radicale di tutta la pastorale della ricreazione (ma la stessa cosa egli dice delle Case del popolo), fatta di forme festaiole che allontanano dai veri problemi di tutti: il lavoro, i diritti, lo scontro sociale nelle fabbriche nell’Italia che stava nascendo. Egli racconta tutto questo nel suo unico e straordinario libro Esperienze pastorali, che esce nel 1958 e alla fine dell’anno viene fatto ritirare dalla Santa Sede, per la radicalità delle sue critiche a un modello, che già allora mostrava tutto il suo fallimento. Don Lorenzo, nella lettera a don Piero, presente nel libro e che egli comincia a scrivere nel novembre 1953, dice: «per un prete quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Vedersela vuotare ogni giorno di più, sapere presto che sarà finita per la fede dei poveri».
Queste parole sono la denuncia profetica del cristianesimo politico, di cui oggi vediamo gli ultimi e più pericolosi cascami, quando la Chiesa si fa soggetto politico e riempie le piazze per far cadere i governi,svuotando così la fede, manipolando la politica, e avendo la pretesa di diventare un improbabile sindacato di valori. È perché dice questo che don Milani è mandato a Barbiana. E si assiste al paradosso di Barbiana. L’isolamento cercato dalla curia fiorentina diventa immersione (battesimo) nel mondo dei poveri. La punizione diventa conversione ad una radicalità cristiana, fatta di fedeltà alla storia, coerenza evangelica e condivisione della fatica degli oppressi. Una piccola scuola privata e senza mezzi diventa il luogo di un cambiamento radicale della scuola pubblica. I mezzi poveri diventano la forza stessa del suo messaggio e della sua parola. La piccolezza di Barbiana diventa icona di una chiesa povera e libera per il vangelo.
Nel paradosso di Barbiana sta la visita di Dio. È questo paradosso che ancora oggi e domani tutti cercano, perché in questo paradosso sta il futuro della chiesa e della società italiana. In questo contesto nascono le lettere: non solo quelle più importanti la Lettera ai giudici e la Lettera ad una professoressa, ma le molte lettere alla mamma, agli amici e ai suoi ragazzi. In questa straordinaria documentazione si racconta il dramma di don Lorenzo con la sua chiesa e il suo vescovo, la sua concezione nobile della politica, la sua denuncia del fallimento educativo, la sua riforma della democrazia, il suo impegno per la costituzione e l’antifascismo, l’amore indicibile per un Dio che ha il volto povero dei suoi ragazzi.
A quarant’anni dalla sua morte da Barbiana arriva a tutti la lettera della visita di Dio per imparare a dare verità alle nostre parole e dare le nostre parole alla Verità. In questo don Milani non appartiene al nostro passato, ma sta dinanzi a noi e ci indica il futuro, che abita nella Parola libera e mite, capace di disarmare i cuori, e nelle parole, che sappiano narrare la domanda di giustizia dei più piccoli e di dare il nome vero alle ingiustizie.
* l’Unità, Pubblicato il: 23.06.07. Modificato il: 24.06.07 alle ore 13.54
Ricordo di un maestro diverso dagli altri. E sono passati 40 anni
Di Sandro Lagomarsini (Avvenire, 20.06.2007)
«La povertà non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale» (Esperienze Pastorali, p. 209). «Lo sai te cos’è per me la scuola popolare, vero? È la pupilla destra del mio occhio destro» (Lettere, p. 5). «Dammi altri trent’anni di scuola popolare e vedrai se non si comincerà a vedere qualcosa» (Lettere, p. 29). «Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio a averla piena. Insistono perché scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per far scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola» (Esperienze Pastorali, p. 239). «La scuola mi è sacra come un ottavo Sacramento» (Esperienze Pastorali, p. 203). «Vedo che leggete moltissimo e vi tenete sempre al corrente di tutto quello che di moderno e di geniale viene partorito nel mondo; io invece passo gran parte della giornata a far chiacchierare degli analfabeti per far del bene a loro e per arricchirmi io d’un mucchio di cose che da loro posso imparare» (Lettere, p. 32). «La differenza tra il mio figliolo e il vostro non è nella quantità né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia tra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la Parola» (Lettere, p. 57). «Il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i "segni dei tempi", indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso» (Lettere, p. 250). «La scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può esser fatta che per amore (cioè non dallo Stato). In altre parole la scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo d’una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini» (Lettere, p. 143). Sono pensieri di Lorenzo Milani, nato il 27 maggio 1923, morto parroco di Barbiana (Fi) il 26 giugno 1967.
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ANNIVERSARI
Il Priore moriva e a Torino nasceva il «Gruppo Abele». Parla don Ciotti
Don Milani, 40 anni sulla strada
«Le Barbiane dei nostri tempi sono ancora tante, in Africa o sulle spiagge dove le onde depongono i cadaveri dei clandestini»
di Luigi Ciotti (Avvenire, 13.06.2007)
Don Lorenzo Milani. Quando morì, quarant’anni fa, il Gruppo Abele cominciava appena a muovere i primi passi sulla strada, luogo di povertà, di bisogni, di linguaggi, di relazioni e domande in continua trasformazione che è stato elemento costitutivo della nostra identità e punto di riferimento del nostro lavoro. Ma è proprio su quella strada - misurandoci con l’incertezza e la complessità, educandoci a non selezionare i compagni di viaggio, nel dialogo e nella responsabilità reciproca - che abbiamo «incontrato» tante volte don Milani, toccati dal suo insegnamento, dalle sue sintuizioni, dalla viva eredità che ci ha lasciato. Ricordo un giorno, molti anni fa. Ero andato a Barbiana assieme a ragazzi del «Gruppo», alcuni dei quali segnati da dolorose e difficili storie di emarginazione. Percorremmo quella via in salita, lasciammo una firma sul quaderno del piccolo cimitero nascosto tra i boschi, ci sentimmo immersi nell’atmosfera di austerità e di essenzialità che avvolgeva quel luogo sperduto dell’Appennino.
Di certi posti aspri e selvatici si usa dire che sono «abbandonati da Dio». L’emozione di quel giorno - un’emozione che si rinnovò anche nelle occasioni successive - mi fece capire che, proprio a Barbiana, Dio aveva trovato in don Milani un testimone straordinario, capace di saldare il Cielo e la Terra, il Vangelo e la giustizia sociale, l’essere cristiani e cittadini in questo mondo e per questo mondo. Se il Gruppo Abele ha scelto come punto di riferimento la strada - e proprio «Università della strada» avremmo chiamato, alla fine degli anni Settanta, la nostra attività di formazione del sociale - fu anche grazie al coraggioso slancio di don Milani e di quella Chiesa che non aveva mai avuto paura d’incontrare e mischiarsi all’umanità più oppressa e fragile, in doppia fedeltà a Dio e all’uomo che non è un dividersi ma un rafforzare l’Uno attraverso l’amore dell’altro.
Suona allora perfino ovvio, a 40 anni dalla morte, parlare di attualità di don Milani. La st rada che ci ha indicato è infatti ancora lunga da percorrere. Nel mondo l’ingiustizia e la povertà non sono certo diminuite, e la Barbiana degli anni Cinquanta si riflette nelle tante Barbiane del nostro tempo: quelle dell’Africa e dell’America Latina, quelle delle zone di guerra e di certe spiagge del Mediterraneo, dove a volte le onde depongono i corpi delle vittime della fame, della schiavitù e dell’ingiustizia globale: 1582 nel solo 2006. Ma anche le Barbiane di chi dall’altra parte è approdato, senza però trovare pace e dignità: quelle delle baraccopoli e dei quartieri ghetto, delle case sovraffollate e dei rifugi di fortuna, quelle di chi cade in mano alle mafie del caporalato e della prostituzione.
Attuale è don Milani anche per la radicalità, la passione, la coerenza con cui ha percorso il suo tratto di strada. Una coerenza e una radicalità che non smettono di provocarci, essere pungolo alle nostre coscienze, animate da una fede che, scrive giovanissimo in Esperienze pastorali, non è qualcosa da «infilare alla prima occasione nei discorsi», ma un «modo di vivere e di pensare».
È in questa tensione spirituale ed etica che nasce e matura l’esperienza straordinaria della scuola. Don Milani riconosce grande importanza alla «parola», strumento non solo di salvezza ma anche di liberazione umana: «Ogni parola che non conosci è una pedata in più che avrai nella vita». La sua esperienza con i ragazzi della Scuola di Barbiana sta tutta in questo impegno: nel cercare di costruire, coinvolgendosi in prima persona, un’esperienza educativa volta a offrire a tutti, e specialmente ai più fragili, la conoscenza e il dominio della parola in quanto strumento essenziale per leggere la realtà, individuarne le contraddizioni e le disuguaglianze, e diventare così consapevoli dei propri diritti, della propria inviolabile dignità di persone e di cittadini. È in questo senso che va interpretato il famoso passo sulla disobbedienza che non è più virtù: non come un generico invito al la ribellione, ma come un’esortazione ad ascoltare la voce della propria coscienza, che non è mai accomodante e ci chiama sempre a quella responsabilità che proprio l’obbedienza acritica permette di eludere. In un mondo dominato dal sistema consumistico, dove i giovani sono continuamente soggetti alle lusinghe di un mercato che vorrebbe trasformarli in massa indifferenziata, la proposta di don Milani è destinata paradossalmente a farsi sempre più strada. Perché è una proposta liberante, che invita a essere critici, attenti a ciò che davvero è sostanziale, andando così incontro al bisogno di differenza presente nel cuore di ogni essere umano ma soprattutto in quello dei giovani, perché la vita in loro è ancora informe e quindi desiderosa di scoprirsi nella sua unicità, diversità, libertà. Libertà di cui don Milani è stato indubbiamente un maestro. A noi spetta il compito di esserne, almeno, testimoni credibili.
LETTERA AL PRIORE DI BARBIANA *
di Alberto B. Simoni
Caro don Lorenzo,
la lettera è la forma letteraria che hai privilegiato, non solo per comunicazioni personali, ma anche per interventi pubblici, fino a quella “Lettera ad una professoressa” che ci hai lasciata come tuo testamento. Ricordo il giorno della prima presentazione a Roma, a cui partecipai, e fin da quel momento sentii il desiderio di scriverti, semplicemente per dirti grazie. Perché mi rendevo conto di quanto ti fosse costato tutto quel lavoro con i tuoi ragazzi e di quale dono ci aveste fatto..
Anche senza essere un custode della tua memoria e conoscitore di tutti i tuoi scritti (ma so che non ha dato patenti od esclusive a nessuno!), voglio dirti grazie per la tua vita di uomo, di cristiano, di prete: per la tua testimonianza, che hai racchiuso nelle parole “I care”. Ci dicono tutta la tua passione, dedizione, combattività e perseveranza nel cercare ed indicare vie nuove di servizio del Vangelo, perché arrivasse ai suoi destinatari senza troppe mediazioni e con terreno ben preparato. Non a tavolino, ma tra la gente e con la gente, in simbiosi con loro. Grazie per quello che sei stato ed hai vissuto, prima ancora che per il simbolo che sei diventato e che forse non avresti voluto mai essere!
Ma proprio questo innocente tradimento - che ti mette in cattedra, quando tu preferivi metterci i tuoi ragazzi - mi induce a chiederti di perdonarci, per come ti abbiamo utilizzato senza seguirti. Sì, ti abbiamo fatto a pezzi, e ciascuno ha preso quello che meglio credeva a proprio uso e consumo, mentre tu sei stato sempre tutto di un pezzo, senza mai cedere a mode, lusinghe, minacce, condanne. Ti abbiamo trasformato in suggeritore di formule, di proposte, di proteste, di ribellioni, senza mai andare al di là della tua scorza, per solidarizzare per quanto possibile con te e prendere in mano il tuo testimone, fatto di consacrazione piena al servizio del Vangelo per i più poveri, fino a fare “esperienze pastorali” e fare “scuola”, in modo da ridare dignità e sovranità alle persone, ai cristiani, alla Chiesa stessa. Abbiamo colto i frutti di stagione, ma non ci siamo innestati sul tronco di cui sei stato robusta pianta. Sei diventato per molti maestro di pedagogia e di viva coscienza civile - che non è poco. Ma purtroppo è andata dispersa o si è volatilizzata quella linfa vitale che avresti voluto immettere nella Chiesa, che ha avuto paura di essere da te contagiata e di sentirsi costretta a capovolgere la sua abituale e tradizionale scala di valori. Magari questa chiesa ha fatto di te un fiore all’occhiello per la sua credibilità davanti al mondo, ma continua - continuiamo - a tenerti alla porta, dove del resto hai preferito stare, nel senso in cui dicevi a Pipetta. Con la tua parola di verità, hai fatto giustizia di tante sue incrostazioni e avresti voluto ridarle un volto umano. Non sei stato riconosciuto e accolto tra i tuoi, e noi oggi siamo daccapo a dover ritrovare l’essenzialità tra le tante cose spurie di cui siamo ripieni e appesantiti e tra le troppe parole inutili di cui dovremo rendere conto. Nel tuo laboratorio umano sempre aperto, non ti sei stancato di inventare e cercare, sapendo che Dio può far nascere i suoi figli anche dalle pietre: sempre sensibile a chi ti stava accanto e attento a quanto succedeva intorno, non hai mai sperso di vista il tuo obiettivo e alla fine non l’hai mancato: entrare nella giustizia del Regno dei cieli passando per le cruna di un ago..
Ma anche se non ti abbiamo preso abbastanza sul serio, ci hai dimostrato che è possibile venirne a capo, o, come dicevi meglio tu, “sortirne” e sortirne insieme. A patto che rinunciamo a risonanze fatue, a soluzioni facili, a consensi, a paure, a stanchezze e condividiamo con te convinzione e determinazione, come chi ha messo mano all’aratro e non deve voltarsi indietro. Spesso ci siamo rifatti all’insegnamento che ci hai dato con la lettera a Pipetta, per non diventare dei conquistatori e vincitori, ma rimanere solidali con quanti necessitano di pari dignità ed opportunità. Per farci aiutare dalle tue parole a guardare in faccia le cose, abbiamo ora ripreso la “Lettera dall’oltretomba” (ancora una lettera!) e un passo dal libro che, oltre fatica e sofferenza, ti è costato l’emarginazione: “Esperienze pastorali”. E questo perché ci stiamo interrogando - non accademicamente, ma sollecitati dai fatti - sull’essere cristiani, quando le tue previsioni sono ormai realtà e i rimedi che suggerisci sono sempre validi. Ammesso che ci stiamo risvegliando ora, chissà che non sia ormai troppo tardi, e forse continuiamo a mescolare troppe estranee cause con quella di Cristo.
Ci solleciti a riconoscere l’illogicità del nostro modo di essere cristiani e a deciderci per una scelta coraggiosa e coerente, ma tutto sembra cadere nel vuoto, perché perdura lo stato di inferiorità e minorità culturale degli uditori e siamo immersi nella esteriorità e nella massificazione religiosa. Siamo impegnati ad uscire da questo stato di cose cercando di adottare il tuo metodo di riflessione e scrittura collettiva, ma le condizioni ed i tempi non sono molto propizi. Non per questo ci rinunciamo e cerchiamo di far tesoro di tutte le occasioni, le opportunità e le disponibilità, per riportarci ai motivi più profondi della nostra esistenza, umana, cristiana ed ecclesiale.
A tenerti presente in mezzo a noi e a mantenere viva la tua memoria ci aiuta ora uno dei tuoi ragazzi-figlioli, Edoardo Martinelli, che rivisita e rivive il suo rapporto con te per metterti in rapporto con noi tutti col suo libro (Don Lorenzo Milani. Dal motivo occasionale al motivo profondo) di cui parleremo insieme il giorno 16 giugno, per vedere se anche noi, a partire da queste opportunità, riusciamo ad andare in profondità e a condividere la tua testimonianza di ricerca con tutte le forze della tua anima di ciò che era al centro del tuo cuore: Dio e la vita eterna!
Sì, “Dio e la vita eterna” erano i tuoi punti di riferimento in tutte le circostanze della vita, vissuta in obbedienza al Signore Gesù che invitava a cercare il prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia, come tu hai sempre fatto. No, non ti spaventare, non voglio fare di te un santino e gridare “subito santo”, ma ti voglio pensare col tuo Dio e nella pienezza della vita eterna. Ed allora il rapporto con te diventa comunione dei santi e anche - perché no? - preghiera.
A proposito, sarebbe buona cosa se in questa luce la Chiesa fiorentina si proponesse di ricordarsi di te nel giorno del tuo passaggio da questo mondo al Padre, magari con una Eucarestia concelebrata non tanto per dare qualcosa a te, ma per arricchirsi della tua testimonianza e risvegliarsi davanti alle urgenze del momento, magari battendosi il petto. Nel nostro piccolo, ti ricorderemo insieme nel nostro incontro del 3 giugno insieme a Giovanni XXIII per il suo anniversario. Siete in qualche modo simili: l’impianto della vostra fede e spiritualità era dei più classici e tradizionali, ma questo non vi ha impedito di “preparare al Signore un popolo ben disposto”, che sapesse andare per le vie di un mondo non solo del tutto nuovo, ma in continua trasformazione.
La misura del tuo agire erano non genericamente gli “altri”, ma le persone, il prossimo-prossimo in carne ed ossa: non solo vorremmo avere presente questa tua lezione evangelica, ma cercare di tenere presente te come persona che ha “consacrato la sua vita al nome di Cristo Signore”, anche se a molti non sembrava così. Grazie per tutti, don Lorenzo, e continua a darci una mano per mantenere viva la nostra speranza.
Alberto B. Simoni
Articolo tratto da:
FORUM (55) Koinonia
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* IL DIALOGO, Lunedì, 21 maggio 2007
A don Lorenzo era piaciuto molto quanto scriveva e progettava quel celebre architetto fiorentino, appassionato come lui dell’arte anonima e del lavoro d’équipe, nell’ansia di rendere accessibile a tutti la cultura più alta. Gli chiese così un contributo e lo invitò nella sua "scuola" nel 1965. I due si intesero bene, anzi nacque «un legame indissolubile». Il Priore inserì il nome dell’amico nella rosa ristrettissima delle persone ammesse al suo letto negli ultimi giorni prima della morte Si legge nella prefazione: «Voi, scrivendo, non pensate ad ottenere prima di tutto un risultato estetico, un’opera d’arte; ma l’opera d’arte verrà se in quel che avete pensato e scritto vi sono elementi di tale verità umana e poetica da generarla. A voi interessa che gli uomini riconoscano se stessi in quanto pensate e dite. Così è o dovrebbe essere per gli architetti e l’architettura»
Don Milani
Michelucci e l’inedito per la «Prof»
A quarant’anni dalla morte del Priore di Barbiana e dalla pubblicazione della celebre «Lettera a una professoressa», torna alla luce la prefazione che Giovanni Michelucci scrisse per quel libro che fece epoca, ma che non venne mai data alle stampe. Queste ragioni possono valere per voi e per me e per chiunque pensi alla collaborazione come imperativo morale di un tempo in cui l’uomo non si salva da solo, chiuso nel proprio egoismo e nella propria presunzione, ma con gli altri per un fine comune, unendo la propria alle altre infinite esperienze umane dalle quali la cultura trarrà una sintesi, una forma che apparterrà a tutti
di Giovanni Michelucci (Avvenire, 15.04.2007)
Cari amici di Barbiana,
poiché mi domandate se esiste qualche relazione fra la collaborazione che state realizzando e quella di cui io scrivo e parlo, invocandola da tanto tempo, ve ne parlerò. Prima di tutto, perché possiate rendervi conto se esiste, come a me sembra esistere, una qualche relazione fra le vostre ragioni e giustificazioni per una collaborazione nel vostro campo e quelle che a mio avviso, riguardano quello dell’architettura (anche se, logicamente, molto diversi saranno i metodi e i mezzi e le possibilità per raggiungerla).
Penso che una collaborazione colmerebbe, sia pure parzialmente, l’abisso esistente fra la diffusa ignoranza della popolazione e la preparazione culturale degli specialisti; come potrebbe rimediare all’inconveniente gravissimo di un linguaggio specializzato che non può essere capito dalla maggior parte degli uomini, perpetuando quella ignoranza.
Evidentemente una collaborazione basata su di un dialogo fra così diverse mentalità e culture non dovrebbe né potrebbe svolgersi sugli argomenti formali (o estetici) e tecnologici dell’architettura, ma sulla relazione che c’è, o che non c’è, fra i muri, gli spazi pubblici e privati e la vita.
Cioè, fra la casa e le necessità effettive della famiglia, fra la città e le esigenze dei cittadini; fra i fattori economici, pratici, organizzativi previdenziali e la giustizia distributiva, e così via; penso che facendo capire alla popolazione attraverso il dialogo che l’opera architettonica non è privilegio di una categoria culturale; che non è una manifestazione per sua stessa natura incomprensibile ai più, e che non è necessario sottoporsi ad una difficile preparazione tecnica ed estetica per capirla. Perché l’architettura si valuta e si giudica sperimentandola personalmente, vivendola in ogni sua parte. Penso comunque, che facendo conoscere queste cose elementari alle popolazioni si otterrebbe che esse si interesserebbero ad ogni muro che si mura, essendosi rese conto che quel muro riguarda direttamente la loro vita, la loro serenità e il loro benessere.
Dando vita a questo dialogo, l’architetto non si sentirebbe più circondato da «gente che non capisce e non può capire» ma che si interessa invece al suo lavoro e lo segue. Così egli si libererebbe da quell’isolamento in cui troppo spesso volontariamente si barrica, per compiacersi di sé, della propria opera e della propria superiorità; da quel narcisismo infine che lo fa essere uno dei tanti piccoli dittatori che infestano il mondo della cultura, della politica, delle arti e così via.
Ma poi, non è forse la collaborazione un dare e ricevere e legare il proprio pensiero (quale che sia vasto o limitato) al pensiero degli altri per impastarlo e farne un unico pane? Non porta forse ogni uomo a sentirsi così un elemento di continuità nella storia? E non è questo il modo di rispondere all’interrogativo sul nostro essere sociale?
Vedete cosa avviene nel campo delle arti in conseguenza di questa suddivisione in categorie di colti e non colti? Ogni opera che nasce e che è considerata di valore artistico e culturale, è subito destinata al museo. È isolata dalla vita quotidiana dal contatto diretto con la popolazione. Così essa non porta alcun contributo alla educazione popolare, a quella familiarizzazione che è alla base dell’educazione. Ma i grandi scultori romanici che hanno scolpito figure d’animali, di uomini e di demoni davanti alle cattedrali, sapevano bene che esse sarebbero state levigate, deformate dagli uomini e dai ragazzi che vi si appoggiano per riposarsi o che vi saltano sopra per giocare. Sapevano che questa è legge per tutte le cose che nascono per la vita e come per gli uomini, per la loro utilità o per il loro diletto ed è legge che va accettata con saggezza, considerando che proprio in quella familiarità che gli uomini acquistano con l’opera d’arte, sta la sua stessa giustificazione.
Queste ragioni possono valere per voi e per me e per chiunque pensi alla collaborazione come imperativo morale di un tempo in cui l’uomo non si salva da solo, chiuso nel proprio egoismo e nella propria presunzione, ma con gli altri per un fine comune, unendo la propria alle altre infinite esperienze umane dalle quali la cultura trarrà una sintesi, una forma che apparterrà a tutti.
Ma in cosa può consistere e concretarsi la collaborazione per la realizzazione di un’opera architettonica? Non è facile rispondere, perché i suggerimenti possono venire all’architetto da tante manifestazioni inattese, spontanee della popolazione, e sono suggerimenti importanti per una collaborazione sia pure non diretta e dichiarata.
Il passato insegna: i cittadini si sono riuniti volontariamente e insistentemente in alcune zone della città, attorno ad alcuni edifici civili o davanti alle chiese per trattare i loro affari o di varie cose della vita, e lì, in quel punto, è nata una loggia od una tettoia per riparare dalla pioggia e dal sole. I costruttori cioè hanno registrato il fatto (il riunirsi dei cittadini) in cui era indicata una esigenza ed una funzione ed hanno provveduto in conseguenza. A tutto questo può attribuirsi la qualifica di «collaborazione indiretta» fra la popolazione e gli architetti.
Vediamo ora come può realizzarsi ed in cosa può consistere una collaborazione diretta e cosciente. Un tipo assai frequente, ma più all’estero che da noi (e che non può interessare né voi né me), è quella che si realizza in una «équipe» numerosa di specializzati, i quali sviluppano gli argomenti proposti da un uomo o da un Ente che sovrintende alla organizzazione generale del complesso tecnico. Ai componenti la «équipe» non si richiede altro che una competenza specifica nel settore particolare nel quale essi sono chiamati a dare il loro contributo. È questa una collaborazione «industriale» senza dialogo e partecipazione. Un altro tipo di «équipe» limitata numericamente, e più frequente in Italia, ha un effettivo carattere di collaborazione, a livello naturale.
Ogni proposta, da chiunque venga fatta, è discussa, vagliata fino a che sia ritenuta logica da tutti i componenti. Se del gruppo fa parte uno che abbia più intelligenza ed esperienza e preparazione culturale degli altri componenti, il lavoro è dominato dalle sue idee. Ai collaboratori spetta il compito di seguire ed eseguire le direttive del primo, pur senza dover riconoscere in lui un capo od un maestro, pur essendolo effettivamente.
Quando invece l’intelligenza e la competenza di tutti i componenti il gruppo sono allo stesso livello, la collaborazione riesce più faticosa, perché se i collaboratori saranno tutti intelligenti e ricchi di idee, sarà difficile raggiungere un accordo per la supremazia di una di esse; se i collaboratori saranno invece tutti mediocri, la collaborazione potrà essere resa più facile, ma non contribuisce alla migliore qualità del lavoro.
In conclusione per raggiungere una efficace collaborazione occorre a mio avviso la presenza (o le direttive), di un «maestro», di uno che abbia più esperienza degli altri, che proponga l’argomento da svolgere e ne indichi il modo; oppure che sappia cogliere l’argomento stesso dallo sviluppo delle discussioni del gruppo; oppure infine che abbia già dato in precedenza un insegnamento tale da poter essere seguito dal gruppo senza che si renda necessaria la sua presenza e il suo diretto controllo.
La collaborazione in gruppo limitato numericamente comporta il rischio di chiudersi in un proprio recinto di interessi culturali, mentali ed anche ambientali; recinto dal quale, essendo escluso ogni intervento esterno, l’opera viene a perdere il contributo ed il controllo che varie competenze potrebbero portarle.
Un altro tipo di collaborazione può verificarsi qualche volta in cantiere dove possono nascere e maturarsi, durante lo svolgimento dei lavori, dei rapporti di cordialità e di stima che portano ad una collaborazione vera e propria. Ho detto «qualche volta» perché l’organizzazione del cantiere è in alcuni casi tale da non richiedere né consentire uno scambio diretto di idee fra chi studia il progetto, chi dirige i lavori, e l’operaio. Esiste in questi casi una «gerarchia» che non può essere ignorata. Fra i tecnici e gli esecutori esistono dei rapporti «di competenza» che si stabiliscono fra i vari gradi di autorità. Ultimata la costruzione, tecnici ed operai non portano con se stessi alcun ricordo che possa legarli umanamente l’uno all’altro. Si sono ignorati e si ignorano.
Ma vi sono altri cantieri, ai quali ho accennato prima, nei quali si raggiunge una vera e propria collaborazione ed un vero impegno personale per la buona riuscita del lavoro. Ricordo uno di questi cantieri (il più ricco per me di gradite sorprese) nel quale ogni mattina mi recavo per vedere il lavoro eseguito il giorno prima, con la certezza di trovare qualcosa che mi avrebbe fatto piacere perché, dopo un primo faticoso tempo nel quale gli operai cercavano di rendersi conto di quel che io volessi, ed io di quale contributo essi sarebbero stati capaci di dare, dopo questo primo tempo, ogni operaio sapeva di poter mettere in evidenza le sue esperienze, la sua intelligenza, la sua preparazione tecnica e, vorrei dire, la sua fantasia. Essi si erano resi conto che io desideravo trovare nella costruzione le impronte di un impegno individuale inteso ad arricchire l’opera del maggior numero di esperienze e di qualità.
L’argomento (che era in questo caso il progetto nella sua concezione generale) era conosciuto da tutti; ma esso poteva perdere o acquistare chiarezza in virtù della qualità dell’esecuzione, la quale veniva ad essere un fattore determinante per la riuscita dell’opera. Si veniva così a stabilire un rapporto di effettiva collaborazione fra le varie competenze, in un clima di libertà che la stima dell’uno verso gli altri ed il comune interesse rendevano spontanea.
Ricordo che un giorno parlai con gli operai della particolare esecuzione di un muro che ritenevo importante per la omogeneità dell’opera, accennai ad alcuni modi di costruirlo ma senza volere o potere dare una indicazione tecnica precisa.
La mattina seguente, arrivato nel cantiere, trovai cinque campioni di un muro fra i quali mi fu facile scegliere, d’accordo con gli esecutori, quello che ritenevo più «vero».
Purtroppo questo tipo di lavoro e di cantiere va fatalmente scomparendo: l’organizzazione «a massimo rendimento» è più disposta a rinunciare al risultato umano dell’opera che ad una economia di tempo, la quale non porta con sé un effettivo contributo di benessere per la vita degli uomini.
Scomparendo questi cantieri si dovrà ricercare la collaborazione nel dialogo con la popolazione e riscoprire nell’architettura quei valori che riguardano la struttura o conformazione spaziale delle costruzioni singole e dei centri urbani, che sia in effettiva relazione con la vita e ne esprima i reali valori.
Cioè, se non è possibile svolgere un dialogo entro i recinti industrializzati di lavoro, quel dialogo si dovrà svolgere all’esterno, in mezzo alla gente, e il nostro lavoro (di costruttori o scrittori o quel che si voglia) dovrà assumere un significato nuovo, liberandolo dal compiacimento culturale dialettico che l’ha reso incomprensibile ai più.
Noi dobbiamo riconquistare un linguaggio «popolare» o «anonimo» nel quale non dominino le qualità di un singolo, ma esprima un tempo impegnato umanamente, oltre che scientificamente e tecnicamente, alla costruzione del luogo dove gli uomini possano svolgere la loro attività e trovare il loro riposo.
Qui giunti, volendo tirare le somme, viene la domanda se ci sia o non ci sia qualche relazione fra il vostro modo di concepire la collaborazione e quella che a mio avviso potrebbe e dovrebbe raggiungersi nel campo dell’architettura (se gli architetti non si ritenessero gli arbitri assoluti in questo campo).
Quando voi discutete sulla efficacia di una parola e di una espressione in relazione a quello che volete dire e far capire, vi rivolgete o rivolgete il vostro pensiero, non a degli uomini di cultura che già sanno, ma a chi deve capire. Non analizzate cioè la parola o la espressione dal punto di vista letterario, formale, intellettuale per controllare se sono o non sono interessanti o piacevoli o belle; ma vi rendete conto se sono efficaci ed attuali per il fine che vi siete proposti. Così giorno per giorno il vostro linguaggio si rinnova.
Nella collaborazione fra gli architetti, l’intento dovrebbe essere lo stesso e cioè quello di far capire a chi deve capire. Far capire che un muro è stato costruito o si costruisce in un certo modo perché risponda alla funzione non subordinata a preoccupazioni di ordine estetico o tecnologico. La collaborazione così per quanto riguarda l’architettura dovrebbe concentrarsi in un controllo dei percorsi che gli uomini seguono o che sono invitati a seguire; degli spazi destinati al loro lavoro o al riposo o al divertimento, e non nella discussione sul significato trascendente di una forma. La forma è una conseguenza della interpretazione di fatti e sentimenti e situazioni generali e particolari e non una promessa.
Voi, scrivendo, non pensate ad ottenere prima di tutto un risultato estetico, un’opera d’arte; ma l’opera d’arte verrà se in quel che avete pensato e scritto vi sono elementi di tale verità umana e poetica da generarla. A voi interessa che gli uomini riconoscano se stessi e i propri interessi in quel che pensate e dite.
Così è o dovrebbe essere per gli architetti e l’architettura. Il modo è elementare e vale per tutti: si parte da delle considerazioni sui fatti della vita e degli uomini, si meditano, se ne tira fuori il senso sociale ed umano e si riportano in mezzo alla gente perché divengano argomento di meditazione e di dialogo.
la storia
Così anche il grande artista imparò a dire «I care» *
Adesso forse lo sappiamo, perché il Priore non la pubblicò. Perché la prefazione, che l’architetto Giovanni Michelucci - una celebrità - si era lasciato convincere a vergare per quell’inusuale scritto collettivo della sconosciuta Scuola di Barbiana, era troppo difficile, troppo lunga e - con la Lettera a una professoressa - c’entrava poco. Fu così che, nel maggio 1967, il libello che sarebbe diventato celeberrimo uscì alle stampe senza l’accompagnamento prestigioso di un intellettuale e artista tra i più noti d’Italia. Oggi quella prefazione che sembrava introvabile (ne aveva ricordato l’esistenza nel 2001 Giorgio Pecorini, appassionato scrittore di cose milaniane, in una sua silloge) è saltata fuori, presumibilmente dagli archivi di Michele Gesualdi: il capostipite dei «ragazzi di Barbiana». E viene proposta in prima assoluta in Lettera a una professoressa quarant’anni dopo, interessante volume curato dalla Fondazione Don Lorenzo Milani e appena stampato dalla storica Libreria Editrice Fiorentina. «Mi ero fatto fare una prefazione dall’architetto Michelucci (stazione di Firenze, chiesa dell’Autostrada, ecc.) - scriveva a un corrispondente il Priore, già molto malato, il 7 aprile 1967 - che è come me un maniaco dell’arte anonima e del lavoro d’équipe. Parlava p. es. dei maestri comacini, dei mosaicisti cristiani, delle cattedrali gotiche, delle ferrovie e dell’Autostrada (ponti ecc.), tutte opere di scuola e non di autore... Ora la prefazione di Michelucci è risultata troppo difficile per i lettori che noi vogliamo e così ho chiesto a quel sant’uomo se potevo non metterla». Ma non si trattava solo di quello. Michelucci aveva giustamente giocato l’intervento sulle possibili analogie tra il suo lavoro, e il modo in cui egli lo concepiva, e quello che aveva visto fare a Barbiana, dal punto di vista del metodo: ovvero l’idea di opera collettiva e di comunicazione popolare, comprensibile a tutti. Ma, al di là di alcune somiglianze esterne, la prospettiva dell’architetto era diversa da quella con cui lavoravano i ragazzi di Barbiana; caso mai si apparentava a quella del maestro ed (ex) borghese don Milani.
L’ARCHITETTO TROPPO INTELLETTUALE?
Michelucci appare infatti come un intellettuale, la cui ambizione consiste nel colmare «l’abisso esistente fra la diffusa ignoranza della popolazione e la preparazione culturale degli specialisti», mentre i ragazzi che frequentano la scuola toscana sono popolani alla faticosa conquista della «parola», la più semplice ed efficace possibile, che consenta loro una comunicazione non più succube o servile; lui insomma si china - con pregevole intento sociale - dall’alto in basso, loro invece rampano con gli scarponi nel fango dei campi verso l’alto («La scuola sarà sempre meglio della merda», secondo un parere colto dal vivo da un ragazzo contadino e reso immortale nella Lettera). Non solo; anche il modello di lavoro comune è differente. Michelucci spiega il suo come collaborazione paritaria in un «cantiere» dove ogni «impegno individuale» creativo può «arricchire l’opera del maggior numero di esperienze e di qualità» (anche se l’architetto sostiene di voler «riconquistare un linguaggio "anonimo" nel quale non dominino le qualità di un singolo»), mentre a Barbiana lo schema della cosiddetta «scrittura collettiva» prevede che l’apporto individuale venga del tutto smontato, quasi ridotto ai suoi fattori primi, per essere poi ricostituito in una prosa dove le caratteristiche personali sono assolutamente indistinguibili. L’identico obiettivo, la conquista dell’uguaglianza, passa dunque attraverso due tattiche diverse. Una differenza che lo stesso Michelucci sembra cogliere, quando nella mancata prefazione dichiara utile per «una efficace colaborazione» la figura di un «maestro» che pare pennellata sul modo di far scuola di don Milani: cioè uno «che abbia più esperienza degli altri, che proponga l’argomento da svolgere e ne indichi il modo, oppure che sappia cogliere l’argomento stesso dallo sviluppo delle discussioni del gruppo»; e tuttavia questo non sembra il modello preferito dall’architetto fiorentino.
UNO DEI POCHI PRESENTI AI FUNERALI
Si capisce comunque perché egli, salito a Barbiana alla fine del 1965 quando era già ultrasettantenne, e il Priore dovettero ugualmente intendersi bene, come testimoniò lo stesso Michelucci in una rievocazione di quell’incontro: «Era nato un legame indissolubile»; anzi, don Milani inserì il nome del progettista nella ristrettissima rosa delle persone ammesse al suo letto negli ultimi giorni, e da parte sua il professore fu tra i pochi intimi a partecipare ai funerali del sacerdote a fine giugno 1967.
Ambedue - anche don Milani da giovane aveva studiato da artista, precisamente da pittore - avevano abbandonato l’idea di un’estetica elitaria, non per demagogia ma per profonda convinzione filosofica e cristiana (sintetizza Michelucci: «Voi, scrivendo, non pensate ad ottenere un effetto estetico, un’opera d’arte; ma l’opera d’arte verrà se in quel che avete pensato e scritto vi sono elementi di tale verità umana e poetica da generarla»); ambedue erano posseduti dal desiderio di rendere accessibile a tutti la cultura attraverso la conquista del linguaggio: «Facendo capire alle popolazioni che l’opera architettonica non è privilegio di una categoria culturale - scrive ancora l’architetto -... si otterrebbe che si interesserebbero ad ogni muro... essendosi rese conto che quel muro riguarda direttamente la loro vita, la loro serenità e il loro benessere». Don Milani aveva detto lo stesso con uno slogan, appeso alla parete della sua scuola: I care, «mi riguarda».
* Avvenire, 15.04.2007
CONVEGNO: DON MILANI 40 ANNI DOPO *
Pescara, martedì 3 aprile 2007
PESCARA, PALAZZO DI CITTA’
AULA CONSILIARE
MARTEDI’ 3 APRILE 2007 ORE 16.30
CONVEGNO SUL TEMA:
DON LORENZO MILANI 40 ANNI DOPO
INTRODUCE:
GIANNI MELILLA
Presidente del Consiglio Comunale
RELAZIONI:
EDOARDO MARTINELLI
Allievo Scuola di Barbiana di Don Milani
TIZIANA FIDANI
Educatrice
LIANA FIORANI
Ricercatrice
* Il Dialogo, Venerdì, 30 marzo 2007
Inoltro formale richiesta all’autorità diocesana competente perché sia aperto il mio processo di beatificazione. È vero, sono ancora in vita, ma è bene prepararsi per tempo (si sa come sono lunghe le pratiche postulatorie). I miracoli? Li faccio, li faccio. il più grande è questo: credo ancora in Dio malgrado certi cattolici. Scherzo, naturalmente. Mi scuso con i lettori, ma ho dovuto leggere sui giornali varie commemorazioni di don Milani e mi è venuta la mosca al naso. Pensavo che, non avendo mai «formato» ai principi del «vero» cristianesimo (sto citando le rievocazioni entusiastiche) gente che è poi diventata «trasgressiva» proprio rivendicando gli studi compiuti a Barbiana, a me, non mi commemorerà mai nessuno. Sì, perche ho molti scheletri nell’armadio, anche se, mi sa, di minor entità.
Confesso, per esempio, di aver simpatizzato a vent’ anni per il Sessantotto e di aver predicato attivamente il divorzio durante la prima metà della campagna per il referendum (poi il Padreterno mi colse sulla via di Damasco, e l’altra metà della campagna la feci contro il divorzio). Milani abolì i biliardini dall’oratorio e si mise a predicare di politica, poi scrisse Esperienze pastorali, che fece sobbalzare papa Roncalli sul trono (e il «papa buono» gli diede del «pazzo scappato dal manicomio»).
L’alta borghesia fiorentina gli portava sovvenzioni per la sua scuola in cambio di insulti di classe (in senso marxista) e di classe (in senso di bon ton, come il seguente, che leggo in uno dei tanti amarcord: «Che se la badi la puttana della sua mamma», a proposito di una bambina). Le bozze della famosa Lettera a una professoressa pare contenessero un sacco di «troia» (e non nel senso omerico) che l’editore si vide costretto a cassare.
Quando i vertici della Chiesa cominciarono a innervosirsi, trovò conforto presso i comunisti («gli unici a difendermi finora»...). Però - dice un celebre ex allievo, riferendosi ai ragazzi di Barbiana - «nessuno di loro insomma, e nessuno dei loro figli, è fra quelli che, drogati dalle mode, alla Gazzetta e dalle tv, vanno a realizzare a suon di slogan razzisti, di manganelli e di coltelli negli stadi». È vero: forse perché hanno già dato durante gli anni di piombo, stando alle testimonianze.
Agli atti di un eventuale processo di beatificazione (hai visto mai?) del parroco del Mugello (com’è noto, collegio elettorale «sicuro» per la sinistra) andrebbero anche messi due volumetti che giungono a proposito: sono due «Millelire» edizioni Stampa Alternativa, a cura di Carlo Galeotti); uno è L’obbedienza non è più una virtù, e l’altro Un muro di foglie di incenso) è contenuto in un cofanetto dal titolo Libertà che comprende anche scritti di Croce, Rosselli, Gobetti e Stuart Mill. Il primo è una risposta ai cappellani militari toscani che, nel 1965, cristianamente avevano auspicato la fine delle divisioni ideologiche almeno per i morti, considerando anche «un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà». Il Milani andò subito a diffondere volantini e poi a pubblicare la pepata «risposta» su «Rinascita», sperando che «quelle cariche di esplosivo» da lui disseminate nel corso della sua breve vita continuassero a scoppiettare «per almeno cinquant’anni sotto il sedere» di chi non la pensava come lui (profezia che, almeno per un po’, si è avverata).
E giù con «Io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi» (il corsivo è mio, ndK), e con «era nel ’22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese» (cioè: contro i fascisti e i ricchi è lecita l’eccezione all’obiezione di coscienza).
Avete presente la guerra di Spagna con i sedicimila e rotti preti e vescovi uccisi, le statue di Cristo prese a fucilate, le chiese incendiate, le monache violentate e gli innumerevoli credenti massacrati? Bene, don Milani vitupera «l’infame aggressione» dell’«infelice popolo spagnolo», nella quale i soldati italiani «erano corsi in aiuto di un generale traditore della sua Patria, ribelle al legittimo governo e al popolo suo sovrano»; un generale che, così, «riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni libertà civile e religiosa».
Infine, quella guerra mondiale che era, per Milani, «una guerra che aveva per l’Italia due fronti. L’uno contro il sistema democratico. L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data». E via «profetizzando». Del resto, è già stato beatificato: dai cattocomunisti.
Di Rino Cammilleri
Caro Biagio Allevato
te l’ho detto sempre e te lo ripeto ancora: sei in gran "compagnia" (e questo non ha a che fare nulla con il messaggio evangelico, con la coscienza, con il figlio di Maria e Giuseppe - Gesù)!!! Poi uno che, per "sputare contro il vento", chiama (se pure simpaticamente e retoricamente) a soccorso e ancora tutta la "compagnia" delle autorità competenti ("Inoltro formale richiesta all’autorità diocesana competente perché sia aperto il mio processo di beatificazione") vuol dire proprio che non sa contare (la lezione di Trilussa) e non sa proprio cosa significhi "In principio era il Logos" e , di conseguenza, distinguere tra obiezione di coscienza per la difesa della vita (ichthùs)- e obiezione di coscienza per la difesa della morte(ictus)!!!
Muoviti - piuttosto!!! E torna a casa: segui il nostro Emiliano da Morrone in giro per le scuole di San Giovanni in Fiore, con il prof. Ermanno Bencivenga a incontrare i bambine e le bambine. i ragazzi e le ragazze, e a dialogare sulla "logica dell’amore". Dai!!!
M. saluti,
Federico La Sala
Non insegnate ai bambini
non insegnate la vostra morale
è così stanca e malata
potrebbe far male
forse una grave imprudenza
è lasciarli in balia di una falsa coscienza.
Non elogiate il pensiero
che è sempre più raro
non indicate per loro
una via conosciuta
ma se proprio volete
insegnate soltanto la magia della vita.
Giro giro tondo cambia il mondo.
Non insegnate ai bambini
non divulgate illusioni sociali
non gli riempite il futuro
di vecchi ideali
l’unica cosa sicura è tenerli lontano
dalla nostra cultura.
Non esaltate il talento
che è sempre più spento
non li avviate al bel canto, al teatro,
alla danza
ma se proprio volete
raccontategli il sogno di
un’antica speranza.
Non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi
il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all’amore
il resto è niente.
Giro giro tondo cambia il mondo. Giro giro tondo cambia il mondo.
Giorgio Gaber
Caro Biagio Allevato
bravo, bravissimo!!! Va bene lo "spirito", ma cerca un po’ di riflettere - da solo (e non solo in "compagnia")!!! Grazie per la ripresa della citazione!!!
Tuttavia - come già detto - cerca di andare un pò oltre - oltre lo specchio delle tue brame!!! E, possibilmente, apri un pò gli occhi del tuo cuore e della tua mente.... e possibilmente "ascolta" questa parola: KOROGOCHO. Vedi un pò cosa ti racconta.... e dove ti porta...
Intanto (prima di ri-citarmelo) vedi un pò se riesci a leggere e a riflettere su questo articolo (proveniente da un’altra isola - la Gran Bretagna), in consonanza con la bella canzone e la eu-angelica riflessione di Gaber:
E poi se hai tempo - dato che oggi la tua "compagnia" festeggia san Giuseppe - vedi di ri-pensarlo adeguatamente e di restituirgli tutto l’onore e tutta la gloria che gli è dovuta!!! Se vogliamo veramente seguire la Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri - e non di Mammona e di "Mammasantissima"!!!
M. saluti,
Federico la Sala
Carissimo Federico,
sei tu che vuoi cambiare il mondo, la società, fare la guerra alle multinazionali, distruggere il capitalismo,distruggere la Chiesa di Roma; sei tu che ti sei alleato al capofila del pensiero debole portando avanti le tesi delle potenti lobby gay e dei nemici della famiglia. Sei tu che aspiri, che brami !
Continua a seminare zizzanie, ad accusare e a propagandare menzogne e calunnie. Come fa un cuore invaso di rovi come il tuo a "parlare" di charitas e pretendere d’esser credibile ? È questo che mi chiedo, è su questo che rifletto.
Sgombrati l’anima, guarisci questo tuo cuore, e poi iniziamo a discutere, a dialogare di Logos, di Dio, dei tuoi Milani, Zanotelli, e terzomondisti cattocomunisti...
Tanti auguri e buona guarigione.
umilmente tuo
biagio allevato
Caro Biagio Allevato
rileggi: vedi che stai rispondendo solo a te stesso ... non a me, né tantomeno alla Lettera di don Milani ai Cappellani Militari!!!
Continui a "sputare in cielo"!!! Continua...
M. saluti,
Federico La Sala
Carissimo Federico,
tieniti stretti i tuoi "falsi profeti" e quello "Spirito del Concilio" (leggi : "anti-Spirito", altro che Gioacchino da Fiore !!) che interpreti così bene attraverso i tuoi articoli, e nei confronti del quale spesso Giovanni Paolo II e lo stesso Benedetto XVI ci hanno messo in guardia !!
Saluti, inchini e baciamani.
tuus Blasius Nutritus
Quante volte ho guardato al cielo
ma il mio destino è cieco e non lo sa...
che non c’è pietà, per chi non prega e si convincerà
che non è solo una macchia scura...il cielo...
Quanta violenza sotto questo cielo
un altro figlio nasce, e non lo vuoi
gli spermatozoi, l’unica forza tutto ciò che hai...
ma che uomo sei se non hai...il cielo...
Il cielo di Renato Zero
Caro Biagio Allevato
non c’è che dire. Sei formidabile!!! Ti ringrazio molto per averci voluto tenere informati per la tua auto-citazione e per la tua auto-dichiarazione! Bravo!!! Un gesto nobilissimo: un grande atto di coraggio!!! Ma non c’era ne era bisogno....
Ormai i naviganti del sito sanno benissimo della tua viscerale e profonda fede nel "Re-nato Zero" - "il buon-pastore dei sorcini".... E tutti, buoni eu-ropei, sanno non solo l’italiano ma anche il tedesco e hanno capito l’antifona!!! Lode a te - e che Gioacchino ti illumini sempre di più!!! Bravissimo!!! Continua...
M. saluti,
Federico La Sala
Carissimo Fede-ric(c)o
ti ricordo che il poverello d’Assisi, che citi spesso senza conoscerlo (ma solamente per strumentalizzarlo, come fai con tanti altri), partecipò alla quinta Crociata come cappellano delle truppe !!!
Sempre con stima e simpatia.
tuus Blasius
Ma don Milani non era nemico della grammatica
di Sandro Lagomarsini (Avvenire, 26.05.2007)
«Non mi scoscenderai neanche con le mine!». Questa feroce volontà di non lasciarsi mettere in crisi è attribuita da don Milani, in «Esperienze Pastorali», al contadino del Mugello che va a confessarsi corazzato di convinzioni tradizionali. Ho l’impressione che lo stesso atteggiamento «corazzato» sia stato alla base dell’attacco al «milanismo» condotto da Sebastiano Vassalli quindici anni fa e rinverdito da Paola Mastrocola qualche giorno fa sulla «Stampa». È una corazza fatta anzitutto di luoghi comuni, a cominciare da don Milani «nemico della grammatica».
Scrive il priore di Barbiana nel ’56: «Sono otto anni che faccio scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai quasi tutte le altre materie. Non faccio più che lingua e lingue». Aggiunge nel ’58 che «tre anni di grammatica e di lingua» gli sono bastati per far vibrare i bambini «alla cultura, al pensiero, alla fede», mentre tra i giovani c’è qualcuno che «s’è battuto sui romanzieri russi e li intende». Quanto poi alla impostazione severa ed esigente delle scuole di don Milani, da quella «popolare» di San Donato a quella «privata e pirata» di Barbiana, si tratta di realtà nota e perfino criticata. Ma se i ragazzi barbianesi sull’ultima guerra stavano «quattr’ore senza respirare», è chiaro che alla severità si aggiungeva la capacità di interessare e coinvolgere.
La «Lettera a una professoressa» è datata? Ci mancherebbe che no, ma forse su altri punti, Opera di otto giovani di campagna coordinati da un prete moribondo, la Lettera contiene dati statistici, critiche puntuali, proposte discutibili; il tutto espresso in una lingua - lo riconosceva lo stesso Vassalli - da alta qualità letteraria. E allora è strano che proprio letterati professionisti leggano quelle pagine equivocando il senso di un genere letterario a sé stante, una rivendicazione di dignità che irrita e diverte, commuove e convince, ma non ha nulla a che fare con l’«odio di classe».
La «Lettera» responsabile dei problemi di oggi? Della scuola superiore in generale la «Lettera» non parla e, riferendosi solo alle magistrali, distingue in modo accurato: «Il problema qui si presenta tutto diverso da quello della scuola dell’obbligo. Là ognuno ha un diritto profondo a essere fatto eguale. Qui invece si tratta solo di abilitazioni. Si costruiscono cittadini specializzati al servizio degli altri. Si vogliono sicuri». E la severità vale anche «per il farmacista per il medico, per l’ingegnere». Dov’è dunque l’incoraggiamento al lassismo? I futuri letterati, che purtroppo lavoreranno a prostituire le parole alla merce nella pubblicità, hanno bisogno di conoscere l’«Iliade», l’«Odissea» e Foscolo. Ma nel «canone occidentale» ha un posto anche la Bibbia; la «Lettera» l’ha scoperto e la scuola continua a ignorarlo.
Le «professoresse» ripetono da quarant’anni che amano l’italiano e che devono essere esigenti. Brave. Ma la «Lettera» dice un’altra cosa. Afferma per quasi novanta pagine che la formazione linguistica di base, per milioni di ragazzi privi di retroterra culturale scritto, visto il poco tempo disponibile, deve puntare sul parlato, rinunciando se occorre a qualche «squisitezza letteraria»; e sostiene l’affermazione con dati di esperienza. Dov’è lo scandalo? Certo che le moderne tecniche di semplificazione e frantumazione dei testi - consigliate alle superiori - fanno inorridire, ma che c’entra in questo la «Lettera»? Si leggano, i critici, i programmi delle medie inferiori del 1979, che la «Lettera» ha sicuramente influenzato e dica se non sono ancora attuali; leggano poi i programmi elementari dell’85 e si accorgeranno che a quel punto la scuola ha preso tutt’altra strada. A Barbiana si imparava l’orgoglio delle proprie origini contadine e ci si apriva non da inferiori alle altre culture; la «Lettera» dimostra che il metodo funzionava.
ANNIVERSARIO
Provocatorio e critico, fu «scomodo» a molti; ma ormai la Chiesa ha accolto il messaggio del Priore morto 40 anni fa
L’eredità di don Milani
C’è chi chiede di «riabilitarlo» però i due vescovi di Firenze Piovanelli e Antonelli hanno detto più volte e dimostrato con i fatti quanto ancora oggi don Lorenzo sia attuale. Gli manca l’aureola, è vero, anche perché la sua dovrebbe pungere come una corona di spine... La sua lezione comunque è filtrata
di Giovanni Gennari (Avvenire, 26.06.2006)
Morto da 40 anni e più vivo che mai: don Lorenzo Milani. Come lo prendi... punge. Sempre così. Decise di entrare in seminario per farsi prete, ma avvertì la madre solo la sera prima, sedendosi a cena: «Domani vado via!». Lasciava senza fiato. Unicamente prete: anche maestro, indagatore di fenomeni sociali, catechista, provocatore sì, ma da prete. E prete della Chiesa cattolica fiorentina, orgoglioso di esserlo nonostante incomprensioni e difficoltà. Letto di recente su un giornale: «Ma è così difficile riabilitare Don Milani?». Colleghi in ritardo. Due cardinali arcivescovi di Firenze, Piovanelli e Antonelli, lo hanno detto e mostrato con i fatti. Attuale e da ascoltare anche oggi. Qual è il segreto di quest’uomo, di questo prete? Nel metodo, parole come sassi, o anche come spine. Sassi di un David moderno contro i Golia di sempre. Perciò i soliti incorreggibili, che già da vivo non lo sopportavano, sempre più soli dicono che oggi è superato, che la sua visione del mondo è manichea... Lui ha scelto i poveri e li ha resi coscienti della loro dignità: uomini e figli di Dio. Superato? Oggi tre quarti del mondo sono ancora più poveri dei ragazzi di Barbiana che lui, come diceva, ha «tirato su». Benedetto XVI ricorda spesso la fame, le ingiustizie, le umiliazioni di miliardi di figli di Dio! E allora? Don Lorenzo nasce nel 1923, studia, fa l’artista, conosce il mondo, a 20 anni trova Cristo e va in seminario, a 24 è prete. Il resto è conseguenza. Maestro a Calenzano, fa una scuola strana e disturba tanti, a 31 anni lo mandano in un paesino sperduto tra le montagne. Obbedisce, e insiste: prete per tutti e maestro per i ragazzi: 365 giorni all’anno, 12 ore al giorno. Intanto pubblica, con la prefazione calda e prudente di un vescovo, monsignor Giuseppe D’Avack, un libro che racconta le Esperienze Pastorali di Calenzano: analisi sociali, prospettive antropologiche, ipotesi di catechesi, riflessioni pastorali... Roba che pesa, come i sassi di David, e tanti hanno paura di prender li in fronte. Il libro è stroncato da riviste cattoliche e viene ritirato per ordine dell’allora Sant’Uffizio. Così si spiega - lo ha chiarito molte volte monsignor Capovilla - un giudizio duro di Giovanni XXIII ancora Patriarca a Venezia: aveva letto solo le stroncature di Civiltà Cattolica, poi ha mutato parere. Giovanni Battista Montini ha già allora un giudizio diverso, e pur nella prudenza anche da Papa ama e aiuta don Lorenzo, già malato, che gliene è gratissimo. Lui con i ragazzi vive, parla, scrive e testimonia, è irritato da chi cerca di utilizzarlo per dir male della sua Chiesa, cui nella fede ubbidisce sempre anche quando gli ordini paiono crudeli e mentre in ben altri contesti dà scandalo ricordando a tutti che «l’obbedienza non è più una virtù». Sta con i poveri, ma ammonisce - per tutti i Pipetta che sta crescendo - che il Vangelo ha l’ultima parola di beatitudine per la povertà nello Spirito Santo. Critico e autocritico, rigoroso con sé prima che con gli altri, tutto donato a Dio attraverso i suoi ragazzi... Fino alla fine, che arriva il 26 giugno 1967. Fine? Comincia allora la sua definitiva testimonianza, e dura da 40 anni. Ha avuto difficoltà con uomini di Chiesa come il cardinale Florit, che forse non riuscivano a vedere oltre la misura della loro cultura e dei loro limiti... In breve: un santo prete. Provocatorio? Pungente e spinoso? Sì, ma è la traduzione di altre spine, quelle della corona sulla Croce. Le ha portate il Maestro, chi lo segue davvero le indossa, e pungono ancora. Riabilitare Don Milani? Già fatto, quasi da sempre. 30 (trenta!) anni or sono, qui su Avvenire, 24 giugno 1977, pagina 5, titolone: «Don Milani, un messaggio da riscoprire: ha vissuto solo di fede». E il giorno dopo, ancora pagina 5: «I suoi connotati: l’esperienza radicale della fede, l’amore e la passione per una Chiesa presente agli uomini...». Per caso: stesso giornale, proprio lì accanto, tre colonne: «Commosso saluto di Firenze al cardinale Florit». La fantasia di Dio, misericordiosa e giusta, talora si firma.
RIFLESSIONE. DANIELE NOVARA: RICORDANDO MARIA MONTESSORI E DON LORENZO MILANI
E’ un anno di ricorrenze educative. Cent’anni fa si apriva la prima Casa dei bambini a Roma, l’inizio della straordinaria vicenda umana e pedagogica di Maria Montessori, forse la donna italiana del Novecento piu’ famosa nel mondo, senz’altro la piu’ grande pedagogista. Una figura purtroppo piu’ amata all’estero che nel suo Paese. Amareggiano i dati sul dimezzamento delle scuole montessoriane in Italia negli ultimi vent’anni, in contemporanea con l’aumento delle stesse in Europa e nel resto del mondo.
Come una forma di rinuncia alle proprie buone pratiche, a una memoria che mantenga del nostro Paese le parti e le persone migliori. Quarant’anni fa un’altra grande esperienza attraversava l’Italia: la Lettera a una professoressa, scritta dei ragazzi della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani. Un documento straordinario che apri’ un dibattito profondo sul rapporto tra istituzione scolastica e benefici sociali, denunciando il sostanziale immobilismo della scuola rispetto alle provenienze socioeconomiche dei propri alunni. Ancora oggi, Lettera a una professoressa potrebbe essere riscritta allo stesso modo o quasi. Ancora oggi, il figlio del dottore e’ al liceo classico e il figlio dell’operaio all’istituto tecnico. Il primo ben avviato verso un’ottima carriera universitaria, il secondo che in forte percentuale mollera’ la scuola giusto col puro e semplice diploma. Anche la provocazione di don Lorenzo Milani resta nel complesso marginale all’interno di quello che oggi e’ il vissuto educativo e scolastico italiano. La scuola raramente e’ artefice di riscatto sociale.
Ma la riflessione che mi sembra piu’ calzante rispetto a questi due importanti anniversari e’ la rimozione nel nostro Paese di una riflessione educativa e di un approccio pedagogico in quanto tale. Recentemente mi sono divertito a scoprire come si possa ultimare un corso di laurea in Scienze dell’educazione senza aver mai sostenuto un esame di pedagogia. Ossia, in diverse citta’ italiane ci si puo’ laureare in Scienze dell’educazione senza la consapevolezza di quella che e’ la pedagogia stessa.
Un altro segnale imbarazzante e’ la chiusura di tutte le case editrici strettamente pedagogiche. Case editrici che, a prescindere dalla qualita’ piu’ o meno ondivaga o alternata, rappresentavano comunque un presidio rispetto al monitoraggio di una serie di confronti, di dibattiti e di approfondimenti comunque necessario per i tanti operatori educativi che da sempre sono presenti nel nostro Paese.
Da ultimo, ma non certo per ultimo, drammatica appare l’assenza da piu’ di dieci anni di ogni forma di formazione o aggiornamento obbligatorio per gli insegnanti della scuola pubblica italiana, come se questi professionisti potessero continuare a svolgere il loro lavoro senza alcun sostegno o rinforzo, senza alcun supporto di riqualificazione che, guarda caso, in tutti gli altri settori lavorativi rappresenta un elemento di qualita’ imprescindibile. * L’interesse che sento verso queste ricorrenze e’ nel ricordare come stiamo vivendo un momento di profonda carenza di riflessione, di ricerca e di confronto pedagogico, e che tutto questo sta provocando gravi conseguenze nella gestione delle nuove generazioni, nei processi di apprendimento, nell’utilizzo pertinente dell’istituzione scolastica ai fini dello sviluppo sociale e civile. Occorre riprendere al piu’ presto, cosi’ come nel resto d’Europa, una vocazione educativa e pedagogica che ha visto attraversare la nostra penisola grandi figure, due le ho ricordate precedentemente, ma si potrebbero segnalarne tante altre che oggi rischiano di essere celebrate piu’ dai nostri vicini europei che non da noi stessi. I tanti libri in lingua tedesca della Montessori e sulla Montessori, ben presenti sugli scaffali delle librerie di oltralpe, ci stanno a ricordare come il futuro dipenda dalla capacita’ di avere consapevolezza del proprio passato.
* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 173 del 6 agosto 2007
[Dal sito www.progettouomo.net riprendiamo il seguente articolo li’ pubblicato il 18 luglio 2007 per gentile concessione del Centro psicopedagogico per la pace di Piacenza, col titolo "Memorie scomode di un’Italia senza sogni. La preziosa eredita’, spesso dimenticata, lasciata da don Lorenzo Milani e Maria Montessori".
Daniele Novara, pedagogista, consulente e formatore, e’ direttore del Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti di Piacenza; tra i primi in Italia ad affrontare in maniera organica una formazione improntata all’educazione alla pace, e’ autore e curatore di numerose pubblicazioni e collabora con varie riviste e case editrici; ha coordinato il progetto Citta’ dei bambini del Comune di Piacenza.
Tra le opere di Daniele Novara: con Lino Ronda, Materiali di educazione alla pace, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1984; con Massimo Esposito, La pace s’impara, Bologna, Emi, 1985; con Lino Ronda, Scegliere la pace. Educazione al disarmo, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1986, 1989; Scegliere la pace. Educazione ai rapporti, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1987, 1997; Scegliere la pace. Educazione alla giustizia, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1989; Scegliere la pace. Guida metodologica, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1991 (quarta edizione riveduta); (a cura di), L’istinto di pace, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1990; con Francesco Beretta, Anna Martinelli, Il litigio, Bologna, Emi, 1990, 1993; (a cura di), Ricominciare da un libro, Molfetta, La Meridiana, 1993; (a cura di), L’ascolto e il conflitto, Molfetta, La Meridiana, 1995; con Patrizia Londero, Scegliere la pace. Educazione alla solidarieta’, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1994, 1997; con Patrizia Londero, Scegliere la pace. Educazione al futuro, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1996; L’ascolto si impara. Domande legittime per una pedagogia dell’ascolto, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2002-3; con Diego Miscioscia, (a cura di), Le radici affettive dei conflitti, Molfetta, La Meridiana, 1998; con Elena Passerini, La strada dei bambini, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2002; con Silvia Mantovani, (a cura di), Bambini ma non troppo, Molfetta, La Meridiana, 2000; con Lorella Boccalini, Tutti i grandi sono stati bambini. Per un uso educativo della convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2000; Obiettivo Solidarieta’, Torino, Ega-Paravia, 2001; Obiettivo Giustizia, Torino, Ega-Paravia, 2001; Obiettivo Rapporti, Torino, Ega-Paravia, 2001; Obiettivo Futuro, Torino, Ega-Paravia, 2001; Obiettivi... Guida per l’insegnante, Torino, Ega-Paravia, 2001; con Elena Passerini, Ti piacciono i tuoi vicini? Manuale di educazione socioaffettiva, Torino, Ega, 2003; (a cura di), Memoranda. Strumenti e materiali per la giornata della memoria, Molfetta, La Meridiana, 2003; (a cura di), Abbracci e litigi. Educazione ai rapporti per bambine e bambini dai 2 ai 6 anni, Torino, Ega, 2004; (a cura di), La scuola dei genitori. Come aiutare i figli a diventare grandi, Piacenza, Berti, 2004; Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti, Io non vinco, tu non perdi. Un kit per promuovere l’educazione alla pace e la gestione dei conflitti tra ragazzi, Unicef, Roma 2004; (a cura di), Il genitore che ascolta. La funzione educativa dei padri e delle madri nella costruzione dell’autonomia dei figli e delle figlie, Piacenza, Berti, 2005; (a cura di), Ognuno cresce solo se sognato. Antologia essenziale della pedagogia critica, Molfetta, La Meridiana, 2005; io e... gli altri. Diventare cittadini - Percorso di educazione alla convivenza civile per il primo grado della scuola secondaria, Torino, Ega, 2005; io e... i diritti. Diventare cittadini - Percorso di educazione alla convivenza civile per il primo grado della scuola secondaria, Torino, Ega, 2005; io e... la solidarieta’. Diventare cittadini - Percorso di educazione alla convivenza civile per il primo grado della scuola secondaria, Torino, Ega, 2005; io e... Guida per l’insegnante. Diventare cittadini - Percorso di educazione alla convivenza civile per il primo grado della scuola secondaria, Torino, Ega, 2005.
Lorenzo Milani nacque a Firenze nel 1923, proveniente da una famiglia della borghesia intellettuale, ordinato prete nel 1947. Opera dapprima a S. Donato a Calenzano, ove realizza una scuola serale aperta a tutti i giovani di estrazione popolare e proletaria, senza discriminazioni politiche. Viene poi trasferito punitivamente a Barbiana nel 1954. Qui realizza l’esperienza della sua scuola. Nel 1958 pubblica Esperienze pastorali, di cui la gerarchia ecclesiastica ordinera’ il ritiro dal commercio. Nel 1965 scrive la lettera ai cappellani militari da cui derivera’ il processo i cui atti sono pubblicati ne L’obbedienza non e’ piu’ una virtu’. Muore dopo una lunga malattia nel 1967; era appena uscita la Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana. L’educazione come pratica di liberazione, la scelta di classe dalla parte degli oppressi, l’opposizione alla guerra, la denuncia della scuola classista che discrimina i poveri: sono alcuni dei temi su cui la lezione di don Milani resta di grande valore. Opere di Lorenzo Milani e della scuola di Barbiana: Esperienze pastorali, L’obbedienza non e’ piu’ una virtu’, Lettera a una professoressa, pubblicate tutte presso la Libreria Editrice Fiorentina (Lef). Postume sono state pubblicate le raccolte di Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Mondadori; le Lettere alla mamma, Mondadori; e sempre delle lettere alla madre l’edizione critica, integrale e annotata, Alla mamma. Lettere 1943-1967, Marietti. Altri testi sono apparsi sparsamente in volumi di diversi autori. La casa editrice Stampa Alternativa ha meritoriamente effettuato nell’ultimo decennio la ripubblicazione di vari testi milaniani in edizioni ultraeconomiche e criticamente curate. La Emi ha recentemente pubblicato, a cura di Giorgio Pecorini, lettere, appunti e carte varie inedite di don Lorenzo Milani nel volume I care ancora. Altri testi ha pubblicato ancora la Lef. Opere su Lorenzo Milani: sono ormai numerose; fondamentali sono: Neera Fallaci, Vita del prete Lorenzo Milani. Dalla parte dell’ultimo, Rizzoli, Milano 1993; Giorgio Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, Baldini & Castoldi, Milano 1996; Mario Lancisi (a cura di), Don Lorenzo Milani: dibattito aperto, Borla, Roma 1979; Ernesto Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, Laterza, Roma-Bari 1995; Gianfranco Riccioni, La stampa e don Milani, Lef, Firenze 1974; Antonio Schina (a cura di), Don Milani, Centro di documentazione di Pistoia, 1993. Segnaliamo anche l’interessante fascicolo monografico di "Azione nonviolenta" del giugno 1997. Segnaliamo anche il fascicolo Don Lorenzo Milani, maestro di liberta’, supplemento a "Conquiste del lavoro", n. 50 del 1987. Tra i testi apparsi di recente: il testo su don Milani di Michele Ranchetti nel suo libro Gli ultimi preti, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1997; David Maria Turoldo, Il mio amico don Milani, Servitium, Sotto il Monte (Bg) 1997; Liana Fiorani, Don Milani tra storia e attualita’, Lef, Firenze 1997, poi Centro don Milani, Firenze 1999; AA. VV., Rileggiamo don Lorenzo Milani a trenta anni dalla sua morte, Comune di Rubano 1998; Centro documentazione don Lorenzo Milani e scuola di Barbiana, Progetto Lorenzo Milani: il maestro, Firenze 1998; Liana Fiorani, Dediche a don Milani, Qualevita, Torre dei Nolfi (Aq) 2001; Edoardo Martinelli, Pedagogia dell’aderenza, Polaris, Vicchio di Mugello (Fi) 2002; Marco Moraccini (a cura di), Scritti su Lorenzo Milani. Una antologia critica, Il Grandevetro - Jaca Book, Santa Croce sull’Arno (Pi) - Milano 2002.
Maria Montessori, nata nel 1870 e deceduta nel 1952, medico, illustre pedagogista, antifascista, abbandono’ l’Italia nel 1936.
Opere di Maria Montessori: segnaliamo almeno Il metodo della pedagogia scientifica (poi col titolo: La scoperta del bambino), 1909; L’autoeducazione nelle scuole elementari, 1916; il Manuale di pedagogia scientifica, 1930; Il segreto dell’infanzia, 1950; La mente del bambino, 1952; un’utile antologia (autorizzata dalla Montessori, e curata da M. L. Leccese) e’ Educazione alla liberta’, Laterza, Bari 1950; cfr. anche Educazione e pace, Garzanti, Milano 1970. Opere su Maria Montessori: segnaliamo almeno F. De Bartolomeis, Maria Montessori e la pedagogia scientifica, La Nuova Italia, Firenze 1953; A. Leonarduzzi, Maria Montessori. Il pensiero e l’opera, Paideia, Brescia 1967; A. Scocchera, Maria Montessori. Quasi un ritratto inedito, La Nuova Italia, Firenze 1990. Siti: www.montessori.edu , www.montessori.it . Un’ampia bibliografia di e su Maria Montessori e’ nel n. 899 de "La nonviolenza e’ in cammino"]
PEDAGOGIA
Gettando il proprio corpo nella lotta
L’attualità di don Milani oltre le facili letture
di Alberto Ghidini (il manifesto, 10.08.2008)
LIBRI: LORENZO MILANI. ANALISI SPIRITUALE E INTERPRETAZIONE PEDAGOGICA
DI JOSÉ LOUIS CORZO,
SERVITIUM, PAGINE 478, EURO 28
Nell’ottobre 1967, quattro mesi dopo la morte di don Lorenzo Milani, Pier Paolo Pasolini venne invitato alla Casa della Cultura di Milano per una discussione con i ragazzi di Barbiana. In maniera, come suo solito, «parresiastica», Pasolini si rivolse agli allievi di don Milani criticando Lettera a una professoressa, un libro di cui aveva in ogni caso colto a fondo la portata e da lui stesso definito «straordinario» per diverse ragioni. Interrotto polemicamente più volte per certi suoi passaggi e riferimenti giudicati troppo «intellettuali» e «letterari», riuscì comunque a portare a termine il proprio intervento, a conclusione del quale, dopo aver citato un motto degli intellettuali neri americani secondo cui bisogna «gettare il proprio corpo nella lotta», si rivolse ai presenti cin queste parole: «ebbene fate conto che, invece che a parlare, io sia venuto qui a portare il mio corpo». Si tratta di un episodio indubbiamente significativo, ripreso anche da Giorgio Pecorini nel suo studio documentario Don Milani! Chi era costui? - edito nel 1996 da Baldini Castoldi Dalai -, che getta luce sul rapporto non sempre facile tra Pasolini, i movimenti giovanili del tempo e la loro «ansia di cambiare il mondo».
In un articolo apparso esattamente un anno fa sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore, Goffredo Fofi scriveva che Pasolini e (prima di lui) don Milani possono essere considerati a buon diritto come «gli ultimi veri pedagogisti italiani». Entrambi, infatti, credevano ancora nel potenziale rivoluzionario dell’educazione. Per lo scrittore corsaro e luterano che all’inizio degli anni Settanta esercitò una critica violenta alla modernizzazione capitalistica, al nuovo potere educativo e di controllo dei consumi e della comunicazione di massa, agente di un’impetuosa «mutazione antropologica», il prete intellettuale fiorentino rappresentò una vera e propria figura di riferimento.Don Milani aveva infatti capito che non si può educare se non si è pronti a lottare in prima persona, senza mediazioni.
Per questo - ricorrendo all’immagine di Pasolini - «gettò il suo corpo» in un ambiente impervio, non soltanto dal punto di vista geografico, incarnando, fin sul letto di morte, l’idea di una «giustizia necessaria». Non a caso, proprio così lo ricorda anche Michele Ranchetti, nella densa e partecipata nota che accompagna la traduzione di Monica Serena dell’ottima monografia che José Louis Corzo Toral ha dedicato al priore di Barbiana. Si tratta di un libro da leggere - secondo le condivisibili parole del curatore Fulvio Cesare Manara - per imparare ad «ascoltare don Milani» con la stessa «cura» di Corzo, padre scolopio spagnolo, studioso di altissimo profilo, ma anche «militante» della pedagogia di Milani ed esperto di «scrittura collettiva». Corzo, in Italia, è noto anche per una versione ridotta e adattata da Francuccio Gesualdi del suo ampio studio Escritura colectiva: teoría y práctica de la escuela de Barbiana, uscito in Spagna per Anaya e pubblicato in Italia da Edizioni Gruppo Abele con il titolo Don Milani nella scrittura collettiva.
Intrecciando esperienza di vita e ricerca scientifica, Corzo ha saputo accostarsi a don Milani esplorandone criticamente e radicalmente la dimensione spirituale e il contributo pedagogico attraverso una lettura «complessa», che restituisce un’immagine «integrale» del prete educatore. Pubblicato per la prima volta in Spagna nel 1981, questo lavoro - che trae origine dalle ricerche per una tesi di dottorato in teologia difesa all’Università Pontificia di Salamanca, dove ora Corzo insegna presso il campus di Madrid - rimane unico nel panorama europeo, se si esclude per certi versi l’Italia. Va comunque detto che studi tanto approfonditi sull’opera di don Milani sono rari anche in Italia, dove spesso si è privilegiato l’aspetto, per dir cosi, «agiografico». Ciò ha contribuito non poco a una conoscenza parziale e distorta di don Milani, sempre meno studiato e «ascoltato», benché costantemente citato e «tirato per la tonaca» dai più disparati interpreti. Nel maggio scorso anche il ministro Bondi ha provato «a farlo suo» in occasione di un convegno della Fondazione Magna Carta di Marcello Pera svoltosi a Firenze.
Oggi, di fronte al pullulare del suo nome, se vogliamo davvero ricordare Milani, non possiamo farlo se rinnovare al tempo stesso la sua esperienza pedagogica. Per questa ragione, sarebbe bene - come ha suggerito Enzo Mazzi - iniziare a fare i conti con il contesto attuale. Il bel libro di Corzo, in questo, aiuta a comprendere la necessità di ritornare al messaggio di don Milani, ma al tempo stesso invita a capire, come osserva Paolo Perticari nella sua efficace postfazione, a comprendere che cosa resta di quel messaggio mentre si sta affermando uno scenario politico che fa sentire ancora più forte l’urgenza della lotta.
Il cappellano che «fece la guerra» a don Milani
La morte di don Cambi, mentre esce il suo diario
DI VINCENZO ARNONE (Avvenire, 03.12.2008)
Usciva ad ottobre il Diario di un cappellano alpino (Società editrice fiorentina, pp. 150, euro 12), negli stessi giorni in cui l’autore don Lamberto Cambi moriva a Firenze. Data l’età (93 anni) e la lunga e travagliata esperienza, si potrebbe dire che moriva con lui l’ultimo dei grandi cappellani alpini della seconda guerra mondiale: 5 anni di servizio in Albania, Montenegro, Savoia, Ucraina, Polonia e Germania. Poi, al ritorno, per 63 anni parroco di una piccola parrocchia nei dintorni di Firenze.
Il volume si legge d’un fiato, legato com’è a una narrazione vivace, schietta, particolareggiata, in cui si nota la ricchezza dello stile orale, dialogante con simpatici dètti fiorentini popolari. Per questo verso ricorda Le veglie di Neri di Renato Fucini o anche Lisi. «Ricorrendo la commemorazione dei defunti, vado in processione con i miei quattro parrocchiani. Nella sua semplicità mi ricorda i piccoli cimiteri di guerra lasciati sulle montagne dell’Albania e tra le pietraie del Montenegro. Grande come un fazzoletto, circondato da un muro con due cipressi ai lati a mo’ di sentinella, diffonde intorno un senso di misticismo. Tutte le volte che mi incammino per quella stradicciola solitaria, silenziosa e mi avvicino al cimitero mi viene sempre alla mente qualcuno dei miei soldati, prima assistito e poi affidato alla terra, avvolto nella coperta o nel telo da tenda...».
Per altro, come contenuto e problematica, ricorda invece don Mazzolari e don Milani. Il primo è stato infatti cappellano militare nella Grande Guerra, ha tenuto un fitto epistolario con cappellani militari durante la campagna d’Etiopia e il secondo conflitto mondiale, ha scritto un lungo testo Quando la patria chiama in risposta a un giovane che gli chiedeva se fosse è possibile portare sul piano cristiano il dovere che la Patria gli affidava in Africa. E la risposta di don Mazzolari era costituita da 30 pagine in cui, tra l’altro, sta scritto: «Il nostro giudizio come cristiani è già fatto. La guerra è calamità e peccato. Io quindi non la posso volere come si vuole un bene, non la posso tanto meno desiderare, coltivare, esaltare. La depreco, l’allontano, la condanno inesorabilmente come opera della carne, mentre il frutto dello ’spirito’ è la pace ». Quanto a don Milani, è stato il primo a porre il problema dell’obiezione di coscienza al servizio militare e quindi alla presenza dei cappellani militari. Era il 1965. l’11 febbraio a Firenze un gruppo di cappellani, tra cui proprio don Cambi, votarono un ordine del giorno in cui dichiaravano tra l’altro di considerare «un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà». Ne venne tutta una serie di polemiche pro e contro il servizio militare e un procedimento giudiziario contro don Milani, che aveva reagito in modo forte alla dichiarazione dei cappellani.
Ma a leggere ora le pagine del Diario di don Lamberto Cambi si rimane fortemente commossi dinanzi alla drammaticità degli eventi e alle mille difficoltà affrontate dai sacerdoti nello svolgimento del loro «ministero di pace» in guerra. Oggi l’obiezione di coscienza è stata legalizzata e il servizio militare è libero; ma la guerra - purtroppo - rimane: al di là dei dibattiti e delle polemiche.