LA LIBERTA’, LA FELICITA’ ... E ANCHE L’ECONOMIA (1967)
Alcuni brani "storici" del’economista recentemente scomparso, su grandi temi della vita, straordinariamente anticipatori. The Atlantic Monthly, giugno 1967. Titolo originale: Liberty, Happiness... and the Economy - Scelto e tradotto per eddyburg_Mall da Fabrizio Bottini
Tra la fine del secolo scorso e primi decenni di questo, nessun soggetto è stato tanto discusso quanto il futuro del capitalismo. Economisti, uomini di competenze non precisate, filosofi della politica, ecclesiastici acculturati, anche George Bernard Shaw, tutti hanno dato il contributo della propria personale rivelazione. Tutti concordavano sul fatto che il sistema economico era in uno stato di sviluppo, e che nel tempo si sarebbe trasformato in qualcosa di sperabilmente migliore, certamente differente ...
Il prossimo passo sarà un riconoscimento generale delle convergenze dei due moderni sistemi industriali, anche se essi sono etichettati in modo diverso, come socialismo o capitalismo. E dobbiamo anche presumere che questa sia una buona cosa. Col tempo, risolverà il problema dell’inevitabile conflitto sulla base di differenze inconciliabili ...
Le due domande che sorgono più di frequente su un sistema economico sono se serva i bisogni materiali dell’uomo, e se si concilia con la sua libertà e felicità generali. Ci sono pochi dubbi, sulla capacità del moderno sistema industriale di fornire l’uomo di beni ...
La prospettiva della libertà è di gran lunga più interessante. Si è sempre immaginato, soprattutto da parte dei conservatori, che collegare tutta, o in gran parte, l’attività economica allo stato, significhi mettere in pericolo la libertà ...
Ma il problema non è la libertà dell’uomo d’affari. Si può considerare regola generale il fatto che chi parla di più della libertà usa meno quella che ha. L’uomo d’affari che la considera di più è un disciplinato uomo d’apparato. Il generale in pensione che ora tiene conferenze sulla minaccia dell’irregimentazione comunista era invariabilmente una pedina che subordinava la propria esistenza ai regolamenti militari. Il Segretario di Stato che parla con più sentimento del mondo libero è quello che più ammira il conformismo del proprio pensiero.
Il pericolo maggiore è la subordinazione del pensiero alle necessità del moderno sistema industriale. Come ci convince dei prodotti che compriamo, o come ci persuade sulle politiche necessarie alla sua evoluzione, nello stesso modo ci adatta ai suoi valori e obiettivi. Questi consistono nel fatto che la tecnologia va sempre bene, che la crescita economica è sempre buona, che le imprese devono sempre espandersi, che il consumo di beni è la principale fonte di felicità, che la pigrizia è perversa, che niente deve interferire alla priorità che accordiamo alla tecnica, alla crescita, all’incremento dei consumi.
Se continuiamo a credere che gli scopi del moderno sistema industriale e le politiche pubbliche che lo servono vanno di pari passo con la nostra vita in tutti i suoi aspetti, allora le nostre esistenze saranno al servizio di questi obiettivi. Ciò che è coerente a questi fini l’avremo o ci sarà consentito; tutto il resto sarà proibito. I nostri desideri saranno gestiti secondo i bisogni del sistema industriale; lo stato nelle sue politiche civili e militari sarà pesantemente influenzato dai bisogni dell’industria; l’istruzione verrà adattata a bisogni simili; il tipo di disciplina richiesto dal sistema industriale sarà la morale corrente della comunità. Tutti gli altri scopi saranno presentati come un lusso, o poco importanti, o antisociali. Saremo tutti mentalmente servi del sistema industriale. Potrà anche essere la servitù benevola di chi cura la casa e a cui viene insegnato ad amare il padrone e la padrona, a credere che i loro interessi siano anche i suoi. Ma non si tratt a esattamente di libertà.
D’altra parte, se il sistema industriale è visto solo come una porzione, e facendoci noi sempre più ricchi una porzione che diminuisce, della nostra vita, c’è molto meno da preoccuparsi. Saranno gli obiettivi estetici ad avere il posto d’onore; chi li perseguirà non sarà soggetto agli scopi del sistema industriale; lo stesso sistema industriale sarà subordinato ai fini più alti della vita. La preparazione intellettuale sarà fine a sé stessa, e non mero servizio al sistema industriale. Gli uomini non saranno più intrappolati nella convinzione che oltre la produzione di beni e reddito attraverso metodi sempre più avanzati non c’è altro, nella vita ...
C’è il bisogno di subordinare l’economia ai fini dell’estetica per sacrificare l’efficienza, inclusa quella dell’organizzazione, alla bellezza. Né si devono dire sciocchezze sulla bellezza che, nel lungo termine, paga. Non deve pagare ... É attraverso lo stato che la società deve affermare la superiorità dei fini dell’estetica su quelli dell’economia, e in particolare dell’ambiente sui costi. É allo stato che dobbiamo guardare per la libertà di scelta individuale su come impegnarci; per un equilibrio fra la formazione umanistica e l’addestramento tecnico che serve principalmente il sistema industriale; e deve essere lo stato ad eliminare l’immagine di una politica internazionale che sostiene la tecnologia al prezzo di pericoli inaccettabili. Se lo stato deve servire questi fini, il modo scientifico e dell’istruzione, e la più ampia comunità intellettuale, devono essere consapevoli del proprio potere, dell’occasione che si presenta, e usarlo. Non c’è nessun altro.
di John Kenneth Galbraith (http://eddyburg.it, 02.05.2006)
Le Monde Diplomatique - Coll. Prendre Parti
John K. Galbraith « L’Art d’ignorer les pauvres [L’arte d’ignorare i poveri]» 80 pages, Les Liens qui libèrent, 2011
Vorrei fare qui qualche riflessione su uno dei più antichi esercizi umani: il processo attraverso il quale, sul filo degli anni, e perfino nel corso dei secoli, abbiamo incominciato a evitare a noi stessi qualsiasi cattiva coscienza riguardo ai poveri. Poveri e ricchi sono sempre vissuti fianco a fianco, sempre scomodamente, talvolta in maniera pericolosa... I problemi che risultano da questa coesistenza, e in particolare quello della giustificazione della buona fortuna di qualcuno di fronte alla cattiva sorte degli altri, sono una preoccupazione intellettuale di ogni tempo. Essi continuano a esserlo anche oggi. John Kenneth Galbraith
Prefazione di Serge Halimi (traduzione dal francese di José F. Padova)
«Vi sono due modi per favorire il ritorno al lavoro dei disoccupati, spiegava nel 2010 il settimanale liberale The Economist. «Uno è quello di rendere disagiata o precaria la vita a coloro che ricevono un sussidio di disoccupazione, l’altro consiste nel far sì che la prospettiva di un impiego diventi realizzabile e attraente». La questione della «realizzabilità» di una ricerca d’impiego tuttavia si pone quando il tasso di disoccupazione raggiunge o supera il 10%. E l’ «attrattiva» del lavorio salariato si abbassa quando le remunerazione si riducono, quando lo stress e la pressione si moltiplicano. Allora rimane da rendere ancor più «disagiato o precario» il destino dei disoccupati.
Questa è la strategia che i liberisti al potere e le organizzazioni economiche internazionali applicano da una trentina d’anni. Gli articoli di John Galbraith e Laurent Cordonnier lo ricordano con un’ironia adeguata al cinismo che descrivono. Con il testo, di molto anteriore, di Jonathan Swift (1729), che consigliava ai poveri di sfuggire alla miseria sgozzando i loro figli per metterli in commercio sotto forma di «lattanti di macelleria», piuttosto che svenarsi essi stessi per allevare la loro pro genitura col rischio di vederla in seguito scivolare nel crimine e servire come pendagli da forca, si passa dall’ironia allo humour sardonico.
L’interesse di una simile modalità sta nel fatto che ci rende edotti risparmiandoci l’enfasi indignata e i piagnucolii emollienti. Perché sia che si tratti di proprietari terrieri irlandesi, di economisti della scuola di Chicago in appoggio a Ronald Reagan o dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), opporre loro una protesta morale o appellarsi ai loro sentimenti non avrebbe alcun senso. Ricchi, istruiti, intelligenti (perlopiù...), con conoscenza di causa, difendono una filosofia sociale ideata a loro vantaggio che, pur senza troppo farne la caricatura, si riassume quasi sempre così: i ricchi sarebbero più intraprendenti se pagassero meno imposte, i poveri sarebbero più operosi se ricevessero meno sussidi.
Padrini tanto vecchi quanto prestigiosi danno i fondamenti a questa dottrina. Emissario della rivoluzione americana a Parigi e redattore della Dichiarazione d’indipendenza, Benjamin Franklin già dal 1766 riteneva che «più si organizzano soccorsi per prendersi cura dei poveri, meno essi prendono cura di loro stessi e, naturalmente, più diventano miserabili. Al contrario, meno si fa per loro, più essi fanno per sé e meglio se la cavano». In definitiva, abbandonare gli indigenti alla loro sorte sarebbe un mezzo per dare loro una mano. L’avarizia diviene così una forma intellettualmente avanzata di generosità umana e perfino, osiamo dirlo, di aiuto sociale.
In tempi normali, una teorizzazione tanto accurata dell’egoismo sarebbe già quasi irresistibile. Che dire allora dei tempi di crisi, dei momenti in cui la maggior parte dei governanti ci ripetono in continuazione che «le casse sono vuote», che un indebitamento crescente minaccerebbe «l’avvenire dei nostri figli»? Reso edotto del pericolo collettivo, dell’urgenza di «fare sacrifici», ognuno immagina allora molto volentieri che, anche in periodo d’austerità, sarebbe, proprio lui, meglio rimborsato per le sue cure (quando si ammala), meglio compensato durante i suoi periodi d’inattività (quando è disoccupato), se altri, inevitabilmente meno meritevoli, non lo fossero altrettanto.
Lo si sa bene: non appena la fiducia nell’avvenire viene meno, quando i muri chiudono loro la strada, le persone si levano le une contro le altre - soprattutto se si frequentano e si fanno concorrenza per lo stesso tipo di lavoro, di alloggio, di scuola. Il sospetto che il proprio mediocre livello di vita o l’eccessivo ammontare delle imposte che si deve pagare si spieghino con gli innumerevoli vantaggi dei quali beneficerebbero gli «assistiti» alimenta un barile di risentimento che la minima scintilla può fare esplodere. I piromani non mancano. In un certo senso, le eleganti razionalizzazioni del Fondo monetario internazionale (FMI), dell’OCSE, dei «pensatoi» o della BCE hanno la vocazione d’incoraggiare i governanti e i giornalisti ad accendere il fiammifero.
Allora, dagli ai parassiti! Il «dovere d’informare» s’incaricherà di fornire i dettagli della vita da nababbi che essi fanno. «Quando si gode di un RMI (ndt.: revenu minimum d’insertion = reddito minimo d’inserimento), faceva ingenuamente notare Le Point del 28 settembre 2006, si ha anche diritto: al sussidio-alloggio a tempo pieno, alla sospensione dei debiti verso il fisco; all’esonero dall’imposta sull’abitazione, dal canone [d’affitto], dal contribuito per la sanità pubblica; all’accesso gratuito alla complementare sanitaria; alla tariffa telefonica sociale; agli sconti sui trasporti, all’accesso gratuito ai musei; a diversi sussidi supplementari (in funzione del luogo dove si risiede)».
Il 4 giugno 2011 il Figaro Magazine dedicava a sua volta la prima pagina a una spericolata «Inchiesta sulla Francia degli assistiti: quei sussidi che disincentivano il lavoro». L’immagine rappresentava un vigoroso giovanotto che, cullato senza dubbio dallo Stato-provvidenza, sonnecchia in un’amaca tricolore. Di fatto, se questo fannullone ricevesse il reddito di solidarietà attiva (RSA), intascherebbe in una sola volta il rotondetto importo di € 467 al mese (€ 700 per una coppia senza figli nella medesima situazione). RSA, «una palla al piede il cui costo supera i 10 miliardi di euro», faceva osservare quindi il Figaro Magazine, sempre preciso. « Nei dipartimenti [ndt.: ripartizioni territoriali] cresce la sensazione di “averne le tasche piene”», ma le Alpes-Maritimes «si dotano di una unità per la caccia alle frodi del RSA, in Francia si tratta di una “prima”», si rallegrava il settimanale in un riquadro che segnalava come «sedici controllori sono stati incaricati di verificare le fatture di acqua, telefono ed elettricità. Lavorano con la Cassa sussidi famigliari e possono incrociare diverse banche dati amministrative».
Né François Pinault, proprietario del giornale Point, né Serge Dassault, proprietario del Figaro, hanno abituato i lettori delle loro pubblicazioni a circondare di tanto apprezzamento i controlli dello Stato, che in generale essi giudicano pignoli, burocratici, inquisitori, soprattutto quando riguardano le grandi aziende e i ricchi. Ma è pur vero che Pinault e Dassault sono compresi nell’elenco dei cento più grandi patrimoni del mondo... Con 11,5 miliardi di dollari il primo e 9,3 miliardi il secondo, l’uno e l’altro sommati dispongono di un importo quasi equivalente a ciò che ogni anno costa la RSA alla totalità dei francesi.
Dal luglio 1984 in poi, in occasione della Convenzione del Partito democratico a San Francisco, il governatore di New York, Mario Cuomo, formulava l’atto d’accusa di un individualismo liberista che, con l’aiuto di Ronald Reagan, aveva già il vento in poppa: «La differenza fra democratici e repubblicani è stata sempre misurata in termini di coraggio e fiducia. I repubblicani pensano che il convoglio non raggiungerà mai il suo obiettivo a meno che certi vecchi, certi giovani, certi deboli non siano abbandonati sul bordo della strada. Noi, democratici, crediamo sia possibile arrivare in porto con tutta la famiglia intatta. E ci siamo arrivati a più riprese. Abbiamo cominciato quando Roosevelt si drizzò sulla sua sedia a rotelle per risollevare una nazione in ginocchio. Vagone dopo vagone, frontiera dopo frontiera, con tutta la famiglia a bordo. Ogni volta tendendo la mano a coloro che volevano salire sul nostro convoglio. Durante cinquant’anni noi li abbiamo portati a buon fine, verso maggiore sicurezza, dignità e ricchezza. Non dimentichiamo che ci siamo riusciti perché la nostra nazione aveva fiducia in sé stessa».
Un mese più tardi, a Dallas, Phil Gramm gli rispondeva, alla Convenzione del Partito repubblicano. Per questo economista, che più tardi avrebbe svolto un ruolo chiave nella (disastrosa) deregolamentazione finanziaria americana, la «famiglia America» di Cuomo non costituiva più altro se non uno stratagemma semantico che permetteva di non parlare più dello Stato predatore. Quanto al convoglio solidale evocato dal governatore di New York, esso non avrebbe mai raggiunto la sua destinazione, perché la locomotiva non avanzava più, tanto era gremito il treno che tirava. «Vi sono due categorie (riassumeva Phil Gramm), di americani: quelli che tirano i vagoni e quelli che vi s’installano senza pagare, quelli che lavorano e pagano le imposte e quelli che aspettano che lo Stato si faccia carico di loro». Conclusione: era necessario sbarcare gli improduttivi e i parassiti in una prateria o nel deserto, se si dava ancora per scontato che la locomotiva americana potesse ritrovare la sua velocità di crociera e riprendesse il suo periplo verso la nuova frontiera. Quanto ai discorsi, quello di Mario Cuomo si impresse nelle memorie; nessuno o quasi si ricorda delle parole di Phil Gramm. E va bene, ma in quel’anno Ronald Reagan vinse le elezioni in quarantanove dei cinquanta Stati...
La crisi finanziaria ha portato al suo acme la costernazione che ai ricchi causano le prodigalità riversate sui poveri. D’ora in poi la maggioranza della popolazione si trova sulla linea di mira dei possidenti. Perché, come spiega Laurent Cordonnier in quest’opera, si tratta per loro di dividere il salariato allo scopo di vincerlo, una fetta dopo l’altra. Quindi essi cominciano dalla sua frazione meno organizzata, i disoccupati e i lavoratori immigrati, riservando alla fine l’ala più coriacea, più sindacalizzata. Isolata, invidiata, senza alleati, come riuscirebbe a difendere molto a lungo ciò che un tempo aveva conquistato e che l’OCSE, i padronati, i governi e i media hanno decretato essere «privilegi»?
Tuttavia ce n’è di ancor più notevoli... Così, dal 2009 in poi, grazie a copiose iniezioni di denaro pubblico, le banche hanno ritrovato la buona cera. Dalla crisi finanziaria vengono fuori perfino più potenti di prima, più capaci ancora di prendere gli Stati «in ostaggio» durante le future tempeste. E invocano il peso dell’indebitamento, messo astutamente fra parentesi finché era necessario sborsare importi al di là di ogni logica per salvare Goldman Sachs, la Deutsche Bank o BNP Paribas, come pretesto ... per lo smantellamento della protezione sociale e dei servizi pubblici.
Non si sa troppo bene se, vivendo oggi, Jonathan Swift avrebbe dovuto forzare il suo talento per descrivere l’audace giustapposizione di una pratica lassista che amputa gli introiti fiscali a profitto dei ricchi e di un discorso di «rigore» mirante a comprimere gli stanziamenti di bilancio dello Stato-provvidenza. In Francia, per esempio, dopo l’elezione di Sarkozy, la destra ha, in successione, ridotto le imposte di successione, risolto di eliminare la tassa professionale pagata dalle imprese e ridotto a un terzo l’imposta patrimoniale per i patrimoni superiori a 3 milioni di euro. Il Relatore generale del Bilancio, Gilles Carrez (UMP) ha d’altra parte precisato che «le imprese di maggiori dimensioni, quelle con più di 2,5 miliardi di euro di fatturato, pagano fra il 15 e il 20% dell’imposta sulle società, quando realizzano fra il 50 e il 70% del fatturato». Così Total, il cui risultato netto nel 2010 raggiungeva 10,5 miliardi di euro, non ha pagato l’imposta sulle società per quell’anno. Si comprende quindi facilmente come un ministro francese, Laurent Wauquiez, abbia denunciato il «cancro» dell’ «assistenza». Magnanimo con Total, il suo governo ha però saputo recuperare 150 milioni di euro altrove, fiscalizzando le indennità giornaliere versate alle vittime di incidenti sul lavoro.
Swift suggeriva che, mancando di essere divorati in tempo, i figli dei poveri importunerebbero i passanti e dall’età di sei anni si applicherebbero a borseggiarli. Al contrario, insisteva, un «lattante da macelleria ingrassato al punto giusto fornirà quattro piatti di carne eccellente». Davanti a una simile alternativa, come esitare? Lo scrittore satirico irlandese non conosceva i testo dell’OCSE, ma già ai suoi tempi i liberali proclamavano che la legge del mercato, quella che nell’Irlanda del XIX secolo avrebbe causato una delle più micidiali carestie della storia dell’umanità, risolverebbe tutti i problemi, compreso quello della sovrappopolazione. Con una sola condizione: che la si lasci operare in pieno. Coloro che proponevano altro non potevano essere che dolci sognatori o pericolosi agitatori.
Invocare l’evidenza, l’assenza di reali possibilità di scelta, costituisce un procedimento abituale per garantire che le riforme, talvolta un poco scorbutiche, si applicheranno senza resistenze. Così, piuttosto che risolversi, molto ragionevolmente, a preparare «un bambino in buona salute e ben nutrito sotto forma di fricassea o in ragù», alcuni scervellati non si arrischiavano forse in quel tempo a proporre di uscire dalla miseria irlandese grazie a una nuova fiscalità, a diritti di dogana, a una riforma agraria? Di fronte a suggerimenti tanto demenziali, strampalati, utopici, l’autore satirico immaginava questa replica, che suona ancor oggi come una chiamata all’azione: «Che non si venga a parlarmi di questi espedienti né di altre misure dello stesso genere, finché non vi è la minima speranza che si possa tentare un giorno, con ardimento e sincerità, di metterle in pratica».
Alcuni di questi espedienti utopici sono stati senza dubbio messi in pratica, poiché i pasti irlandesi non includono pur sempre nei loro menu i cibi «eccellenti e nutritivi» che Swift aveva anticamente immaginato.