All’On.le Romano PRODI
All’On.le Piero FASSINO
Al Sindaco Walter VELTRONI
Abbiamo appreso dalla stampa che avete in programma una visita in Israele, dove incontrerete ufficialmente il Primo Ministro Ariel Sharon. Riteniamo che questo incontro sia un atto politicamente inopportuno e moralmente deplorevole, per i seguenti motivi. Ariel Sharon non è un leader politico qualsiasi: è direttamente responsabile dell’assassinio di migliaia di uomini e donne, la cui unica colpa era quella di essere Palestinesi.
Senza riandare ai tempi della prima pulizia etnica del 1948, quando oltre settecentomila Palestinesi furono costretti ad abbandonare le proprie case e la propria terra, è sufficiente ricordare la responsabilità di Sharon (al tempo Ministro della Guerra) nell’invasione del Libano del 1982 e nel massacro di almeno tremila persone a Sabra e Chatila, massacro definito “orrendo” dall’allora Presidente Sandro Pertini, che si augurò la messa al bando del responsabile di quell’atto.
A venti anni di distanza da quel massacro, divenuto Primo Ministro, Sharon si rende responsabile - nel quadro dell’occupazione militare delle città autonome palestinesi - della strage di Jenin, in Cisgiordania; non è stato possibile accertare il numero delle vittime della strage di Jenin perché le autorità israeliane rifiutarono l’ingresso nella città martoriata alla commissione dell’ONU che avrebbe dovuto indagare. E’ bene ricordare che Ministro della Guerra israeliano era il laburista Ben Eliezer e Ministro degli Esteri il laburista Shimon Peres.
Ariel Sharon non è, dunque, un leader politico qualsiasi: è uno spietato criminale di guerra, a capo di un partito politico di estrema destra (il Likud) che non riconosce il diritto dei Palestinesi a vivere in un loro Stato indipendente e che perpetua l’occupazione di territori palestinesi, libanesi e siriani in aperto sfregio a centinaia di risoluzioni dell’ONU, mai rispettate dallo Stato di Israele. Anche il progettato ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza si configura come un mero ridispiegamento militare, che confermerà il carattere di enorme ghetto invivibile di quel territorio, mentre continua e si intensifica la colonizzazione della Cisgiordania.
Incontrare un simile personaggio costituirebbe un insulto agli uomini ed alle donne che credono nella democrazia e nei diritti umani, e che per questo si sono mobilitati, anche nel nostro Paese, contro la guerra, contro l’occupazione israeliana e contro le sofferenze quotidianamente inflitte al popolo palestinese, ultima delle quali il Muro dell’Apartheid, che isola città e villaggi dalla terra, dalle risorse idriche e dai servizi, trasformandoli in immense prigioni a cielo aperto.
Il prossimo 9 luglio ricorrerà il primo anniversario della sentenza con cui la Corte Internazionale di Giustizia de L’Aja - il massimo organismo giuridico internazionale - ha condannato Israele per la costruzione del Muro dell’Apartheid, invitando tutte le nazioni ad adoperarsi per costringere il governo di Tel Aviv a smantellare il Muro ed a risarcire le persone che ne hanno subito i danni: sarebbe bene che chi si candida al governo del nostro Paese mostrasse rispetto verso le istituzioni del diritto internazionale, anziché avallare, attraverso incontri ufficiali, l’arroganza di chi, come Ariel Sharon, verso quelle istituzioni e ciò che rappresentano ha sempre mostrato scherno e disprezzo.
Per tutti questi motivi - e per molti altri che vi illustreremo se avrete la sensibilità di concederci un incontro - vi invitiamo a non incontrare Ariel Sharon e i membri del suo governo; se davvero volete adoperarvi per una pace giusta e duratura in Palestina, vi suggeriamo di incontrare i Palestinesi e quegli Israeliani che coerentemente si oppongono all’autoritarismo ed alla violenza del loro governo.
Invece di Ariel Sharon, potreste incontrare ufficialmente i refusniks, i giovani che si rifiutano di prestare servizio militare nei territori palestinesi occupati e di partecipare alle esecuzioni dei militanti e dei civili palestinesi. Invece di Shimon Peres, potreste incontrare ufficialmente Mordechai Vanunu, l’uomo che venne rapito dagli agenti israeliani nel nostro Paese, che ha scontato diciotto anni di carcere ed è ancora privo della libertà di movimento perché ha rivelato al mondo l’esistenza del solo arsenale nucleare del Medio oriente: quello israeliano. Invece di Silvan Shalom, potreste incontrare ufficialmente il sindaco di Betlemme, città cara alla cultura di molti di noi ed ora devastata, come tante altre, dal Muro dell’Apartheid.
A tutti i vostri interlocutori, infine, potreste manifestare l’impegno affinché il nostro Parlamento respinga l’accordo di cooperazione militare fra lo Stato italiano ed Israele, che costituirebbe una palese violazione della Legge 185 del 1990 che vieta l’esportazione di armi nei confronti di Paesi belligeranti o verso governi responsabili di violazioni dei diritti umani.
Ci auguriamo che questa nostra sollecitazione non resti senza risposta.
Forum Palestina - Comitato “Con la Palestina nel cuore” - Campagna Palestinese contro il Muro dell’Apartheid - Associazione Jenin - Confederazione COBAS - Coordinamento nazionale di solidarietà con l’Intifada - Un Ponte per... Chatila - Associazione di Amicizia Italo - Palestinese - Salaam Ragazzi dell’Olivo (Comitato di Milano) - Circolo ARCI Agorà di Pisa - Gruppo Palestina del Forum Sociale di Modena - Partito dei Comunisti Italiani di Pisa - FGCI di Pisa - Circolo PRC “Rachel Corrie” di Roma - Partito dei Comunisti Italiani (Sezione "T. Filancia" - Roccasecca) - Materiali Resistenti
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ISRAELE E PALESTINA ... la Terra promessa. Una indicazione (1930) di Freud
TEATRO (STORIA) METATEATRO (METASTORIA), E FILOLOGIA ("LOGOS"):
SULLA "TERRA PROMESSA" ALL’INTERA UMANITA’ ("EARTHRISE").
RICORDANDO una riflessione del filosofo Emil L. #Fackenheim sul fatto che la "visione" di Theodor Herzel "non fu abbastanza visionaria: la vecchia lingua che egli considerava morta è rinata" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo", Edizioni Medusa, Milano 2010), ed è rinata grazie al lavoro di Eliezer Ben-Yehuda, FORSE, è bene ricordare anche cosa proprio Ben Yeheuda, il "padre" dell’ebraico moderno) scriveva in una sua "Memoria": “[...] Tante parole nuove dovranno essere inventate, e quando l’Ebraico non basterà, la lingua araba, sorella della nostra, ci fornirà i suoi suggerimenti. Che cos’è infatti un amico, se non quello che ti offre la parola mancante?” (cfr. Massimo Leone, "Alla lingua ebraica. Memoria di Eliezer Ben-Yehuda", 2003).
Plaudendo ("cum grano salis") alla "analogia" storica tra Israele e Palestina con la situazione hamletica dello "stato di Danimarca" e lo "stato di Norvegia", dopo la morte del "Re Amleto", proposta da Paul Adrian Fried, c’è da chiedersi, in riferimento al "presente storico" dell’attuale rapporto tra la "terra" di Israele e la "terra" della Palestina: ma "Hamlet", la "figura" di "Amleto", capace di ricordare la promessa fatta da suo padre "("Ricordati di me!"), riflettere sul da farsi, di mantenere la parola data, e di decidersi a fermare il "gioco", dov’è?!
METASTORICA-MENTE, IERI COME OGGI, IL PROBLEMA E’ UNA #QUESTION LOCALE E GLOBALE DI LUNGA DURATA, TEOLOGICO-POLITICA E ANTROPOLOGICA: UNO=ONU. Bisogna uscire dal "letargo" (#DanteAlighieri) e, hamleticamente, rompere l’ipnosi "millenaria" indotta dalla musica del Re-Pifferaio e restituire alla "parola" il suo legame il "Logos", con la "lingua", la "terra" #comune.
ANTROPOLOGIA (#CRISTOLOGIA) E "DIVINA COMMEDIA". DA NON DIMENTICARE, a mio parere, che il nodo da sciogliere proposto da Shakespeare, alla intera cultura teologico-politica dell’Europa dell’epoca (egemonizzata dalla tradizione cattolico-spagnola) è legato al doppio filo del problema del "corpo mistico" del Re (#androcentrismo) e della struttura della "Sacra Famiglia": ad Amleto ("Cristo") il "presepe" messo su dallo "zio" - "re" (e dalla madre-regina) non può assolutamente piacere (egli è già "sacrificato" a morte, in partenza) ed è un #presepe che non ha alcuna consonanza né con quello di Francesco di Assisi" né di Dante Alighieri, né di Michelangelo, e nemmeno quello "sognato" da Kafka ("[...] alla nascita di Cristo nella capanna semiaperta era subito presente il mondo intero, i pastori e i savi d’Oriente" ).
ANTROPOLOGIA, LINGUISTICA, E STORIA:
PALESTINA, ISRAELE, E LA LINGUA EBRAICA: "RIPARARE IL MONDO".
Una Memoria di Eliezer Ben-Yehuda: “Tante parole nuove dovranno essere inventate, e quando l’Ebraico non basterà, la lingua araba, sorella della nostra, ci fornirà i suoi suggerimenti. Che cos’è infatti un amico, se non quello che ti offre la parola mancante?”.
E una "vecchia" riflessione di Emil L. Fackenheim sul sionismo: "Theodor Herzel (...) la sua visione non fu abbastanza visionaria: la vecchia lingua che egli considerava morta è rinata" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo", Edizioni Medusa, Milano 2010).
Federico La Sala
Palestina membro dell’Onu, l’Assemblea generale del Palazzo di Vetro approva la risoluzione
Il testo ha ottenuto 143 voti a favore, 9 no e 25 astensioni tra cui l’Italia. Ora tocca al Consiglio di Sicurezza.*
L’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato una risoluzione che riconosce la Palestina come qualificata per diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite, e raccomanda al Consiglio di Sicurezza di "riconsiderare favorevolmente la questione".
Il via libera del Consiglio di Sicurezza (dove gli Usa il mese scorso hanno posto il veto) è condizione necessaria per un’eventuale approvazione piena. Il testo ha ottenuto 143 voti a favore, 9 contrari e 25 astensioni.
Israele, con la Palestina aprite l’Onu ai nazisti moderni - "Avete aperto le Nazioni Unite ai nazisti moderni". Lo ha detto l’ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan prima del voto in Assemblea Generale della risoluzione che riconoscerebbe la Palestina come qualificata per diventare membro a pieno titolo dell’organizzazione internazionale. "Questo giorno rimarra’ ricordato nell’infamia", ha aggiunto, parlando di uno "stato terrorista palestinese che sarebbe guidato dall’Hitler dei nostri tempi". "State facendo a pezzi la Carta Onu con le vostre mani", ha detto passando alcune pagine del documento in un tritacarte.
Italia astenuta all’Onu sulla Palestina con Germania e Gb - L’Italia si è astenuta sulla risoluzione dell’Assemblea Generale Onu che riconosce la Palestina come qualificata per diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. Gli altri astenuti sono Albania, Bulgaria, Austria, Canada, Croazia, Fiji, Finlandia, Georgia, Germania, Lettonia, Lituania, Marshall Island, Olanda, North Macedonia, Moldavia, Paraguay, Romania, Vanuatu, Malawi, principato di Monaco, Ucraina, Gran Bretagna, Svezia e Svizzera. Mentre i nove Paesi che hanno votato contro sono Usa, Israele, Palau, Nauru, Micronesia, Papua Nuova Guinea, Ungheria, Argentina e Repubblica Ceca.
Palestina all’Onu, ’votare per noi è un investimento nella pace’ - "Vogliamo pace e liberta’, la nostra bandiera vola alta in Palestina, nel mondo e persino fuori dal campus della Columbia University a New York. E’ diventata un simbolo di chi crede nella libertà. Potete decidere di stare con la pace, con il diritto di una nazione di vivere in liberta’, oppure potete decidere di stare ai margini della storia". Lo ha detto l’ambasciatore palestinese all’Onu Ryad Mansour prima del voto in Assemblea Generale. "Colonizzazione e occupazione non sono il nostro destino, ci sono stati imposti", ha aggiunto, sottolineando che "votare per l’esistenza della Palestina non e’ contro nessuno stato, ma e’ un investimento nella pace".
INTERVISTA. Parla il sociologo Moshe Zuckermann. «Il 7 ottobre è stato un pogrom. Nel più grande carcere al mondo non si può sviluppare la democrazia»
«Questo sionismo è finito dentro un vicolo cieco»
di Sveva Haertter (il manifesto, 8 novembre 2023)
Il 7 ottobre per gli israeliani rappresenta una cesura. Quanto è profonda?
Molto profonda. Non credo di esagerare se dico che, a causa del fallimento completo di esercito e servizi segreti, gli israeliani non solo si sentono abbandonati dallo Stato, ma sentono che è stato eroso il mito israeliano della sicurezza. Non era nemmeno come la guerra dello Yom Kippur del 1973: quella volta sono morti soldati, non civili. Stavolta intere località si sono trovate completamente abbandonate a se stesse ed esposte a un attacco mai realizzato né da Hamas né da qualsiasi altra formazione ostile a Israele. Al momento c’è una guerra e non ci sono state azioni per far cadere il governo o istituire una commissione di inchiesta che chieda conto ai militari e ai servizi. Ma è del tutto evidente che per la popolazione Netanyahu è arrivato alla fine, e così il Likud. Ci sarà un cambio di governo prima o poi, ma il problema è che si è di nuovo in guerra e non devo raccontare io qual è la situazione nella Striscia di Gaza, stanno succedendo cose terribili. Ma la vera cesura nella popolazione israeliana è la perdita di fiducia nel governo e nell’esercito.
Pensa che da questo derivi l’insistenza del governo nell’affermare di voler distruggere Hamas? Sta tentando di garantirsi di nuovo la propria sopravvivenza politica?
Assolutamente. Vuole garantirsela e per Netanyahu va bene qualsiasi mezzo. È uno dei politici più scaltri e perfidi che abbiamo mai avuto. Qualsiasi manipolazione che sarà in grado di fare la farà. Netanyahu già da un anno viene criticato della popolazione perché è chiaro che subordina l’interesse dello Stato al suo interesse privato. E il suo interesse privato al momento è bloccare il processo che sta affrontando e sfuggire a un giudizio. A questo scopo ha cercato né più né meno che di rimuovere la suddivisione dei poteri in Israele, ha cercato di mettere fuori gioco il potere giudiziario e ha presentato come riforma della giustizia quello che era sostanzialmente un colpo di Stato. A questo si aggiunge il grande fallimento. Non solo il 7 ottobre, ma anche nelle settimane successive e fino a oggi, i ministeri e le istituzioni governative non stanno funzionando. Chi in realtà si sta facendo carico di rimettere in piedi le cose è la società civile. Il governo è completamente paralizzato e Netanyahu sta cercando di salvarsi la pelle.
Guardando da fuori, la società israeliana sembra molto compatta in questo momento.
È compatta, ma questo non cambia nulla rispetto al rapporto con il governo. La guerra ha un effetto di consolidamento. Le tensioni e contrapposizioni interne in un certo modo si annullano, ma la fiducia nel governo è tanto erosa che non vedo alcuna possibilità che Netanyahu possa sopravvivere. La domanda è per quanto tempo può portare avanti questa guerra. Perché non credo che la comunità internazionale lo permetterà. L’esercito parla di almeno tre mesi per la prima fase e di altri nove mesi per la successiva, ossia un anno di guerra. Se durerà così tanto, prima o poi si arriverà a rivolte nella società israeliana. Su una cosa c’è accordo: Hamas va annientata. Su questo sono tutti d’accordo e c’è anche il sostegno dei paesi europei e degli americani.
Dubbi e crepe nell’attuale sostegno più o meno incondizionato della comunità internazionale nei confronti di Israele possono avere conseguenze concrete?
Più si protrae la guerra a Gaza, più si vedranno le conseguenze dei bombardamenti e dell’intervento delle truppe di terra. Stanno morendo tantissimi civili, tantissime donne, tantissimi bambini. In Israele questo si vede meno, ma nel mondo si vedono le immagini di bambini dilaniati dalle bombe. Non sono stati straziati bambini solo il 7 ottobre, anche ora vengono fatti a pezzi. Più questo va avanti, più crescono gli effetti di quelli che eufemisticamente sono chiamati “danni collaterali”, più ci saranno crepe nella solidarietà con Israele. Prima o poi anche gli americani diranno “ora andiamo verso un cessate il fuoco”. E se si arriverà a un cessate il fuoco, e gli obiettivi di guerra che Israele si è dato non saranno stati raggiunti, si dirà che il governo ha fallito ancora una volta.
Cosa pensa degli episodi di antisemitismo che ci sono stati nel mondo e che tipo di reazioni ci sono in Israele? Il 7 ottobre può mettere in discussione l’idea di Israele come luogo sicuro per gli ebrei?
Io penso che Israele strumentalizzi il concetto di antisemitismo, ma penso anche che sia legato alla mancata distinzione tra antisemitismo, antisionismo e critica nei confronti di Israele. È possibile che quando si critica Israele ci siano anche elementi di antisemitismo, ma credo che la ragione principale sia soprattutto legata alla guerra e alla reazione che Israele ha avuto. Va fatta una distinzione tra antisemitismo in cui si è categoricamente contro gli ebrei e quello che si definisce antisemitismo legato a Israele. Che c’entra l’ebreo a New York o l’ebreo in Francia o in Italia con quello che fa Israele? Israele tra l’altro non ha nulla contro l’antisemitismo. Lo dico da anni. Quando c’è antisemitismo all’estero, per Israele è meglio perché può dire “noi siamo il luogo più sicuro”. Qualche giorno fa durante un’iniziativa pubblica un ex generale ha detto “conosco migliaia di israeliani che pensano che Israele non sia più il luogo più sicuro per gli ebrei”, e io lo dico da anni. Il luogo più pericoloso per gli ebrei è Israele, perché finché il conflitto in Medio Oriente sarà portato avanti con questo livello di violenza, potenzialmente può portare a una minaccia all’intera collettività in Israele. Gli Stati circostanti, Iran, Arabia Saudita e gli altri, sono armati fino ai denti. La tematica dell’antisemitismo è strumentalizzata: non ci si chiede quali siano le ragioni per le quali Israele agisce così e perché quindi si è critici verso Israele, o perché si reagisce in modo antisemita o antisionista. La domanda non viene posta perché c’è un elefante nella stanza che è l’occupazione, da oltre cinquant’anni in Cisgiordania, sulle alture del Golan...e anche se Israele nel 2005 si è ritirato da Gaza, questa è completamente sotto controllo israeliano. Se Israele vuole, nella Striscia non c’è elettricità, non c’è carburante, se Israele vuole nella Striscia non c’è neanche lavoro. Fino a quando questo durerà, Israele non può pensare di essere lasciato in pace. I palestinesi hanno buon diritto di opporre resistenza, non come il 7 ottobre, ma hanno diritto di resistere. Sono un popolo tiranneggiato da Israele, tenuto sotto un’occupazione repressiva. Hanno il pieno diritto di resistere. Se si guarda a come Israele ora sta radendo al suolo Gaza, ci si può immaginare che la prossima generazione di palestinesi che odierà profondamente Israele stia già crescendo. Fino a quando non si mira alla soluzione politica, si ripeteranno di nuovo catastrofi come quella che abbiamo vissuto non solo il 7 ottobre, ma ora a Gaza.
Lei pensa che abbia senso un’analisi se quanto successo il 7 ottobre viene rappresentato solo come conseguenza dell’occupazione? Dov’è secondo lei il confine tra un’azione di resistenza che è completamente legittima anche ai sensi della legalità internazionale e il terrorismo?
I palestinesi in linea di principio hanno il diritto a resistere perché sono sotto occupazione. Il fatto che poi degeneri - è stato un pogrom, non resistenza: non sono state attaccate forze militari, macivili, donne, bambini, neonati - è un eccesso che in nessun caso può essere accettato. Queste persone hanno agito in modo barbaro. Ma resta il fatto che i palestinesi non hanno un esercito ma solo formazioni di combattimento più vicine alla guerriglia o al terrorismo. Non hanno un’aviazione, né squadroni di carri armati. Ma rispetto a quello che abbiamo vissuto in Cisgiordania durante la seconda Intifada, quello che è successo il 7 ottobre è uno stato di eccezione. Quel giorno hanno effettivamente agito dei terroristi, non combattenti per la libertà. Non potevano trattenersi dall’uccidere sempre di più: ci sono video di alcuni giovani che sono entrati nelle case e hanno ucciso dieci civili e poi hanno telefonato a casa per vantarsi di quello che avevano fatto, dicendo al padre “dammi la tua benedizione per quello che sono riuscito a fare”. Ma devo aggiungere due cose: la prima è che la barbarie può essere commessa anche con attacchi aerei, lo stesso donne e bambini vengono fatti a pezzi; la seconda è che Hamas per me non è mai stato un movimento di liberazione. Per me i movimenti religiosi fondamentalisti non sono movimenti di liberazione. Io sono un marxista, ritengo che la religione non possa essere una motivazione per la liberazione se non va di pari passo con idee di emancipazione. Dal momento che Hamas è fondamentalista religioso, per me non è di una virgola migliore dei fondamentalisti religiosi che abbiamo da noi. I coloni della Cisgiordania non sono affatto migliori. Loro non hanno bisogno di uccidere bambini - anche se pure questo è successo - perché hanno i militari. I militari agiscono in maniera più elegante, hanno gli aerei da combattimento con i quali bombardano. Osservi come Hamas si comporta nei confronti della sua stessa gente, è già questa una evidenza di che tipo di società potrebbe scaturire da un movimento di tal sorta. Ma il problema è che quando si vive nella più grande prigione al mondo, non si può sviluppare una grande democrazia o una grande società civile.
Mi sembra che in alcuni appelli che chiamano alle mobilitazioni ci sia il tentativo di minimizzare o rimuovere ciò che è accaduto il 7 ottobre.
Il fatto che Israele attualmente stia compiendo atti barbarici in nessun caso può portare a minimizzare gli atti barbarici compiuti il 7 ottobre. È accaduta una barbarie e ora c’è una reazione che è una barbarie.
L’imbarbarimento cresce da entrambe le parti: di là ci sono infatti i coloni.
Se si vuole arrivare alle ragioni dell’imbarbarimento, bisogna avere chiaro che il conflitto israelo-palestinese non è un conflitto religioso o etnico, è un conflitto territoriale che risale almeno a 75 anni fa, da quando esiste uno Stato di Israele, ma fondamentalmente già da quando il movimento sionista è arrivato in Medio Oriente e ha cominciato a stabilirvisi. Da cinquant’anni si è consolidato un regime di occupazione che ha distrutto la possibilità della soluzione “due popoli, due Stati”. Occorre quindi cercare altre soluzioni politiche. Finché mancherà un approccio politico, finché non si vorrà risolvere il conflitto ma - come dice Netanyahu - “amministrarlo”, finché ci sarà questa occupazione, ci potrà essere solo escalation.
Lei si definisce un antisionista.
Non mi definisco antisionista, mi definisco non sionista. Antisionista è chi pensa che il sionismo non avrebbe mai dovuto vedere la luce. Ci sono anche ebrei che lo pensano, in particolare ultraortodossi, che ritengono che il regno degli ebrei non possa vedere la luce fino a quando non arriverà il Messia. Ci sono stati tempi in cui nel giorno dell’indipendenza appendevano drappi neri, come in un giorno di lutto. Altri antisionisti erano anche certi ebrei comunisti, i cosiddetti bundisti. Io non sono mai stato antisionista nel senso di affermare che il sionismo non avrebbe mai dovuto vedere la luce. I miei genitori sono sopravvissuti ad Auschwitz, dopo la Shoah la nascita di uno Stato per gli ebrei è stata a lungo per me una necessità storica. Ma il fatto che sia stato realizzato sulle spalle dei palestinesi, che il torto subito dagli ebrei dovesse essere riparato attraverso uno Stato fondato e legittimato da una nuova ingiustizia, mi ha portato a dire “che tipo di sionista sono?”. Quando ho visto che Israele non vuole affatto la pace ma è interessato unicamente a fomentare guerre inutili, a guadagnare spazio per le colonie ebraiche, allora mi è stato chiaro che non avevo più niente a che fare con questo sionismo. Mi sono convinto che il sionismo ha imboccato un tale vicolo cieco che non ha possibilità di sopravvivere. Israele è diventato sempre più fascista, più razzista, è diventato uno Stato di apartheid. Si può discutere se il sionismo originario sia o no un movimento coloniale, ma a me pare chiaro che l’Israele in cui sono nato nel 1949 aveva già messo in atto la Nakba, il disastro nazionale per i palestinesi, ma stava anche costruendo una società civile, soprattutto a fronte del fatto che gli ebrei nel XX secolo avevano subito qualcosa di gravissimo. L’Olocausto è stato una cesura come mai prima nella storia ebraica.
È possibile arrestare il declino di cui parla nel libro “Il destino di Israele”?
Non intendo declino come evento metafisico o mistico, piuttosto come qualcosa che strutturalmente si lega all’agire storico del sionismo. Il sionismo dopo il 1967 non voleva restituire i territori occupati. Tutti i governi israeliani, anche quello di Rabin, hanno costruito insediamenti. E oggi abbiamo a che fare con 650.000 coloni ebrei in Cisgiordania. Questo significa che se oggi si vuole ancora implementare la soluzione dei due Stati, bisogna fare in modo che se ne vadano da lì. Se si è minata la soluzione dei due Stati - è stata l’opera della vita di Ariel Sharon - bisogna confrontarsi con un dato di fatto: ormai tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, è nata una struttura binazionale. Non dico ancora Stato, dico struttura. Perché palestinesi e ebrei sono circa 50/50 in questo territorio. Questa struttura può essere ratificata democraticamente verso uno Stato unico di tutti i cittadini. Ma se questo non viene fatto, allora ufficialmente ci si è accomodati in uno Stato di apartheid. Perché gli ebrei con il loro Stato dominano una minoranza che già non è più una minoranza, siamo già a una suddivisione paritaria del paese. Questo il vicolo cieco nel quale si è andato a cacciare il sionismo e per il quale non ha una soluzione perché è diventato ufficialmente uno Stato di apartheid. Per questo dico che il sionismo porta avanti il proprio declino: se diventato uno Stato di apartheid, è diventato un paria nella popolazione mondiale, prima o poi si ripresenterà la situazione del Sudafrica.
E dall’altra parte secondo lei c’è qualcuno lo vuole?
Non è possibile chiedere niente ai palestinesi perché sono sotto lo stivale degli israeliani. C’è stato un momento che a posteriori mantengo come utopia percepita, a metà degli anni ’90 quando Rabin e Arafat erano pronti ad andarsi reciprocamente incontro. Arafat sarebbe stata quella persona. E anche oggi ci sono persone del genere tra quelle che Israele tiene prigioniere, per esempio Barghouti. Ma al momento è inattuabile perché Israele, soprattutto sotto Netanyahu, ha spazzato via la soluzione politica. Nessuno oggi in Israele parla di occupazione o soluzione politica. La pace sembra essere la più grande minaccia. Le forze fasciste nazionalreligiose ormai si sono rafforzate così tanto che non sono più solo un’appendice ma un fattore nella politica israeliana. Pensi dove Bezalel Smotrich e Ben Gvir sono arrivati oggi. Ben Gvir è un kahanista, un successore di Meir Kahane, che negli anni ’80 fu messo al bando dal parlamento israeliano. Oggi Ben Gvir non solo non è bandito ma è ministro di polizia. E l’altro, il ministro delle finanze Smotrich, non è migliore di lui. È un tema cosa vogliono i palestinesi, ma i palestinesi sono costretti a volere quello che gli israeliani rendono possibile e gli israeliani al momento non rendono possibile niente.
ISRAELE/PALESTINA. Studi accademici dimostrano l’incontestabilità di quanto avvenuto nel 1948: l’espulsione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi, spiega lo storico Ilan Pappè. Israele ha un’altra narrazione
La verità sulla Nakba
di Michele Giorgio, GERUSALEMME *
Nei giorni in cui Israele celebra la sua fondazione 75 anni fa, i palestinesi sono impegnati con raduni, sit in, conferenze, dibattiti a tenere viva la memoria della Nakba, la loro «catastrofe nazionale» parallela alla nascita dello Stato ebraico nel 1948. Una memoria fatta di esilio per centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini diventati profughi in campi allestiti nei paesi arabi vicini, di case e terre perdute e poi confiscate, di famiglie divise per sempre. Eppure, per quanto sia sempre viva e duratura tra i palestinesi, più parti, non solo Israele, spingono per spegnerla, per impedire che sia riconosciuta e prenda il posto che merita nella storia. Ne abbiamo parlato con lo storico Ilan Pappè, docente all’Università di Exeter, autore di saggi sulla storia di Israele e della Palestina tradotti in molte lingue.
Professor Pappè perché la Nakba viene oscurata, perché è sempre più difficile parlarne in pubblico?
Prima di spiegarne le ragioni chiariamo che le ricerche storiche fatte con professionalità a partire dagli anni ’80 da alcuni storici israeliani e stranieri e quelle realizzate prima di allora dagli storici palestinesi, hanno ottenuto risultati incontestabili sulla Nakba e le sue conseguenze. Studi e ricerche hanno documentato anche la pulizia etnica fatta da Israele nel 1948 (a danno dei palestinesi, ndr). Questi risultati, e rispondo alla domanda, contraddicono completamente la narrazione ufficiale israeliana ad uso interno ed internazionale. Mi riferisco alla versione che vuole l’esercito «più morale al mondo» impegnato nel 1948 a difendere Israele contro l’intero mondo arabo, alla tesi secondo cui gli arabi avrebbero chiesto ai palestinesi di abbandonare la loro terra mentre gli israeliani avevano chiesto loro di rimanere. E all’idea che Israele non ha avuto alcuna responsabilità nelle vicende del 1948 di cui sono stati vittime i palestinesi. In sostanza per questa narrazione, non c’è stata la Nakba. Le ricerche storiche ci hanno detto che tutto ciò è una pura fabbricazione. E che l’espulsione dei palestinesi, allora come oggi, è un crimine contro l’umanità. La preoccupazione delle autorità israeliane è che diffondendo, discutendo e analizzando gli esiti degli studi fatti dagli storici si ponga una questione morale sulla fondazione dello Stato di Israele. Se si comincia con questi interrogativi si arriva a sollevare una questione morale sull’intera impresa sionista (in Palestina, ndr) e a chiedersi perché il mondo ha permesso l’espulsione dei palestinesi.
Come spiega l’atteggiamento di varie istituzioni internazionali nonché di governi e partiti politici occidentali, di ferma opposizione, oggi più che in passato, al riconoscimento della Nakba?
Credo che tutte queste parti internazionali, occidentali, non intendano entrare in conflitto con Israele ed esporsi al rischio di accuse di antisemitismo che sempre più spesso sono rivolte a chi critica e solleva dubbi. Vanno considerati inoltre i rapporti economici, le vendite di armi, le relazioni di sicurezza con Israele. Quindi è molto più semplice ignorare la Nakba, zittire i palestinesi e negare la loro narrazione oltre che le loro aspirazioni. Allo stesso tempo la società civile occidentale è sempre più consapevole della Nakba e di quanto accade oggi nei Territori palestinesi occupati e si aspetta che i governi adottino delle politiche concrete contro la negazione dei diritti e di condanna di abusi e violazioni.
A livello accademico qual è oggi la consapevolezza della Nakba.
In termini generali osserva da tempo un progresso un po’ ovunque. Tante università importanti, negli Usa e in Gb, nell’ambito di corsi di studi e seminari su Israele e palestinesi, hanno svolto ricerche sulla Nakba in modo corretto e professionale. Questo vale anche per l’Italia, la Spagna e la Scandinavia. All’Istituto Orientale di Napoli, ad esempio, ho apprezzato l’accuratezza del programma di studi su questi temi. Non mancano però all’interno delle università le attività di docenti che cercano boicottare questi lavori e di imporre la versione tradizionale degli avvenimenti del 1948 pur sapendo che contraddice la storia accertata in modo professionale dai loro colleghi. Da questo punto di vista penso che Francia e Germania siano i paesi più problematici.
Come giudica la linea fortemente pro-Israele dei partiti di destra che oggi governano in diversi paesi europei.
Per questi partiti accettare la narrazione ufficiale del 1948 e la versione di Israele di quanto accade oggi, vuol dire lavare e rendere bianco il proprio passato nero. Impressiona come alcuni di questi partiti che erano antisemiti e hanno sostenuto, persino partecipato, al genocidio degli ebrei, siano oggi i più accaniti sostenitori di Israele. Più hanno collaborato con il Nazismo e più appoggiano le politiche di Israele nei confronti dei palestinesi. Questi partiti, peraltro, sono islamofobici e per Israele è facile convincerli che non sta impedendo a un popolo di liberarsi dall’occupazione militare e che invece sta combattendo contro organizzazioni islamiche fanatiche.
Israele ha festeggiato qualche settimana fa, sulla base del calendario ebraico, il suo 75esimo compleanno mentre è nel pieno di una frattura interna alla sua maggioranza ebraica a causa della riforma giudiziaria avviata dal governo Netanyahu. Come legge le manifestazioni di massa a difesa della separazione dei poteri e della Corte suprema che vanno avanti da mesi?
È in atto uno scontro tra due modelli di nazionalismo. Le differenza è questa. Il primo, quello che porta avanti le proteste contro la riforma giudiziaria, vuole conservare il modello sostanzialmente laico, fondato su ciò che definisce una democrazia ebraica, precedente alla nascita, avvenuta alla fine dello scorso anno, del governo di destra estrema ora in carica. I suoi sostenitori accettano solo la bandiera israeliana alle manifestazioni, per affermare il carattere nazionalista della protesta contro il governo. Il secondo modello non punta alla difesa dei principi democratici, piuttosto vuole ridefinire l’Ebraismo nel 2023 e ritiene centrale dare un fondamento più religioso alla società israeliana. Entrambi però non mettono in discussione in alcun modo l’apartheid che viene praticato contro i palestinesi sotto occupazione militare e quelli con cittadinanza israeliana. Seguendo come i media hanno riferito sino ad oggi della spaccatura in atto in Israele, sono sorpreso che tanti giornalisti stranieri, anche quelli più esperti, non abbiano colto questi elementi politici ed ideologici tanto evidenti.
Questo è il presente, cosa vede in futuro?
Nel futuro immediato vedremo più repressione e più discriminazione nei confronti dei palestinesi e persino contro la minoranza di ebrei che si batte per la giustizia e i diritti. Si creeranno però più fratture e contraddizioni nel sistema con sviluppi significativi nella società civile locale e internazionale per la lotta all’apartheid. Ci vorrà del tempo ma non si potranno impedire i cambiamenti che da sempre attendono i palestinesi.
*Fonte: il manifesto, 14 maggio 2023 (ripresa parziale).
Corte Suprema convalida la legge Stato-Nazione, Israele è solo degli ebrei
Israele. Due giorni fa la massima corte israeliana ha convalidato la legge fondamentale approvata dalla Knesset tre anni fa che definisce Israele come Stato della nazione ebraica e non di tutti i suoi cittadini, molti dei quali sono arabi.
di Michele Giorgio (il manifesto, 10.07.2021)
GERUSALEMME. «Non abbiamo altre strade da percorrere. L’Alta Corte di Giustizia, con i suoi 11 giudici, è il grado più elevato del sistema giuridico israeliano e purtroppo ha legittimato la legge Stato-nazione». Non getta la spugna l’avvocata Mayssana Morani, del centro di azione legale Adalah, ma sa che la legge fondamentale contro la quale ha scritto la petizione presentata ai massimi giudici ora è una realtà piena e che sarà arduo metterla in discussione se non interverranno in Israele profonde trasformazioni politiche e ideologiche. E al momento nulla segnala che ciò possa accadere in tempi brevi.
Due giorni fa la corte ha convalidato la legge fondamentale approvata dalla Knesset esattamente tre anni fa che definisce Israele come Stato della nazione ebraica e non di tutti i suoi cittadini, molti dei quali (circa il 21%) sono arabi. Dieci degli 11 giudici - ha fatto eccezione solo George Karra, l’unico arabo nella corte -, hanno sostenuto che la Stato-nazione non contravviene «il carattere democratico» di Israele. «Questa legge fondamentale è solo un capitolo della nostra costituzione che sta prendendo forma e non nega il carattere di Israele come Stato democratico», ha scritto nella sentenza Esther Hayut, la presidente della corte. Una interpretazione fortemente contestata dalla minoranza araba e diversi israeliani ebrei perché afferma nero su bianco la proprietà ebraica dello Stato di Israele e, denunciano i centri per i diritti civili, rappresenterà una fonte primaria per sentenze delle corti minori che potrebbero discriminare i cittadini non ebrei nell’assegnazione delle terre statali e nella sfera pubblica. Il suo testo inoltre non contiene la parola «uguaglianza» che pure è inclusa nella dichiarazione d’indipendenza di Israele.
«È stata introdotta una norma in cui la natura ebraica di Israele è superiore rispetto ai valori democratici dello Stato. Se prima Israele si definiva ebraico e democratico ora è lo Stato della nazione ebraica. Appartiene a ogni ebreo nel mondo ma non ai suoi cittadini arabi». Così disse al manifesto tra anni fa, dopo il voto alla Knesset, lo stimato storico israeliano Zeev Sternhell (scomparso lo scorso anno). Un giudizio condiviso oggi da Mayssana Morani. «I leader israeliani - ci dice - ripetono che la natura dello Stato di Israele è ebraica e democratica. Ma chi opera per i diritti, per la democrazia e per l’uguaglianza questa affermazione contiene un ossimoro. C’è una contraddizione intrinseca tra dichiarare Israele lo Stato degli ebrei e non di tutti i suoi cittadini e proclamarlo al contempo democratico. Assegna nero su bianco uno status diverso ai cittadini ebrei rispetto a quelli non ebrei».
La legge Stato-nazione tra i suoi vari punti afferma che la biblica Terra d’Israele è la patria storica degli ebrei e che al suo interno è stato fondato lo Stato d’Israele, lasciando intendere che i cittadini non-ebrei non hanno diritto di reclamare la propria appartenenza a quella stessa terra. In termini pratici un ebreo che abita a Washington e ha mai vissuto in Israele può vantare diritti e appartenenza a differenza di un cittadino arabo israeliano che pure con la sua famiglia vive da generazioni nella sua terra storica. Sancisce anche che lo Stato di Israele «vede lo sviluppo dell’insediamento ebraico come un valore nazionale e agirà per promuovere il suo consolidamento». Ciò non vale per i cittadini arabi. Tutto regolare per il ministro della giustizia Gideon Saar che ha accolto con soddisfazione la decisione della suprema corte. La Stato-nazione, ha twittato Saar, è «una legge importante che sancisce l’essenza e il carattere di Israele come Stato del popolo ebraico». Forte invece è la delusione di Ayman Odeh, leader della Lista unita araba. «Continueremo a combattere fino a raggiungere la piena uguaglianza per tutti i cittadini, la vera giustizia e la vera democrazia», ha promesso.
Andrebbe riletta l’intervista dello scrittore e testimone della Shoah, in cui parlò di «orrore» per una «rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensioni barbariche» di Israele verso la Palestina. E molti altri suoi interventi sul tema
di Giulio Cavalli *
Andrebbe riletto Primo Levi. Andrebbe riletto il libro di Berel Lang in cui Levi dice: «Dal 1935 al 1940, rimasi affascinato dalla propaganda sionista, ammiravo il Paese e il futuro che stava pianificando, di uguaglianza e fratellanza».
Andrebbe riletta la Conversazione con Levi di Ferdinando Camon in cui Levi dice: «Lo Stato d’Israele avrebbe dovuto cambiare la storia del popolo ebraico, avrebbe dovuto essere un zattera di salvataggio, il santuario a cui sarebbero dovuti accorrere gli ebrei minacciati negli altri Paesi. L’idea dei padri fondatori era questa, ed era antecedente alla tragedia nazista: la tragedia nazista l’ha moltiplicata per mille. Non poteva più mancare quel Paese della salvezza. Che ci fossero gli arabi in quel Paese, non ci pensava nessuno. Ed era considerato un fatto trascurabile di fronte a questa gigantesca vis a tergo, che spingeva là gli ebrei da tutta Europa. Secondo me, Israele sta assumendo il carattere e il comportamento dei suoi vicini. Lo dico con dolore, con collera. Non c’è differenza tra Begin e Khomeini».
Andrebbe riletto il testo dell’appello pubblicato il 16 giugno 1982 su Repubblica (altri tempi, eh) che si intitolava “Perché Israele si ritiri” e iniziava con: «Facciamo appello, in quanto democratici ed ebrei, perché il governo israeliano ritiri immediatamente le sue truppe dal Libano». Lo firmarono Franco Belgrado, Edith Bruck, Ugo Caffaz, Miriam Cohen e Natalia Ginzburg, criticava «la soluzione militare» scelta da Israele perché evocava «un linguaggio di triste memoria per ogni ebreo» e i firmatari affermarono di averlo scritto sperando di «combattere i germi potenziali di un nuovo antisemitismo che si verrebbe ad aggiungere alle vecchie e mai scomparse tendenze antiebraiche in seno alla società civile».
Andrebbe riletta la sua intervista al Secolo XIX in cui Levi parlò di «orrore» per una «rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensioni barbariche».
Andrebbe riletto l’articolo di Levi sulla prima pagina de La Stampa il 24 giugno 1982 in cui scrisse: «Israele, sempre meno Terra Santa, sempre più Paese militare, va acquisendo i comportamenti degli altri Paesi del medio oriente, il loro radicalismo, la loro sfiducia nella trattativa». Oppure la sua intervista a Giorgio Calcagno de La Stampa il 12 giugno 1982 in cui raccontava il suo allontanamento da Israele: «Ho giudicato il sionismo una forza e una necessità politica. Questa gente non poteva che seguire un verbo che aveva una forma biblica. Oggi la questione si è complicata, perché la Palestina è in un nodo geografico sotto tensioni spaventose, costretta a una difesa costosissima e logorante, che spinge anche ad azioni temerarie o politicamente sbagliate. Il sionismo di allora pensava a un Paese contadino. Israele, oggi è diventato un Paese militare e industriale».
Altrimenti si rischia davvero di credere a certi articoli, di questi tristi giorni, che raccontano di una guerra iniziata per una “manciata di case” a cui i palestinesi non vorrebbero rinunciare. La realtà è complessa e ognuno si porta dietro i segni sulla pelle della propria storia.
Buon venerdì.
*Fonte: Left, 14.05.2021.
Gerusalemme, il cuore della crisi internazionale
di Alberto Negri (il manifesto, 11.05.2021)
Sì, la storia siamo noi. Come questa nuova Intifada. Ci eravamo dimenticati dei palestinesi? Eccoli, con le braccia al cielo davanti alla polizia. Il nostro corrispondente Michele Giorgio riferisce di 20 morti. Tra cui 9 bambini, nei raid israeliani seguiti al lancio di razzi verso Gerusalemme. Non abbiamo paura di morire, dicono, perché siamo morti e risorti mille volte. Il messaggio è duro, tragico vista la disparità delle forze, ma inequivocabile: non ci arrendiamo. Viene dai tempi dei tempi che vi piaccia o no, noi non alziamo le braccia verso questo mondo iniquo e ingiusto. Siamo masse e individui che non si arrendono... Gli scontri nel «miglio sacro» di Gerusalemme, dove già iniziarono negli anni Ottanta e Duemila la prima e la seconda Intifada, rilanciano una terza rivolta innescata dagli sfratti nel quartiere arabo di Sheikh Jarrah.
Ci sono le coincidenze e anche alcuni elementi di fondo per andare in questa direzione. Nelle prime rientrano le proteste cominciate mentre gli israeliani celebravano l’annessione di Gerusalemme nel 1967 e gli arabi si preparavano alla fine del Ramadan. Ma anche il quadro politico è agitato, da una parte e dell’altra. In Israele è in corso il tentativo di Lapid di formare un nuovo governo che significherebbe la fine dell’attuale premier Netanyahu, un evento che scuote la destra israeliana e anche il movimento dei coloni, più agguerrito che mai. Nel campo arabo c’è stata la decisione di del presidente dell’Anp Abu Mazen di rinviare le elezioni palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme, esacerbando così gli animi dei palestinesi, inferociti con una leadership accusata di essere sempre più succube di Israele.
Davanti all’esplosione degli scontri sulla spianata delle Moschee, vicino al Muro del Pianto e non lontano dal Santo Sepolcro - luoghi sacri a musulmani, ebrei e cristiani - le autorità israeliane hanno preferito rinviare ogni decisione sugli sfratti. La Corte Suprema israeliana ieri avrebbe dovuto emettere il suo verdetto in merito a una tentativo di espulsione di tredici famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, ma la decisione è stata rinviata a causa delle violenze degli ultimi giorni.
Questa non è l’unica causa delle tensioni ma ne è il detonatore. Gli argomenti di scontro sono tanti. In pieno Ramadan c’è prima di tutto l’accesso alla moschea Al Aqsa e alla Cupola della roccia, luoghi sacri dell’islam dove il 7 maggio ci sono stati violenti incidenti. Poi c’è la pressione costante delle autorità israeliane per separare il problema di Gerusalemme dal resto della questione palestinese.
In Israele operano forze politiche di estrema destra legate a Netanyahu e decise a espellere i palestinesi da Gerusalemme. Il mese scorso abbiamo assistito a una serie di cacce all’uomo condotte da estremisti religiosi israeliani al grido di “morte agli arabi” nella più totale impunità.
Questi incidenti mettono in luce che lo status quo è fragile mentre sbaglia chi ritiene ineluttabile la perdita di «centralità» della questione palestinese nei rapporti tra Israele e il mondo arabo. E forse si sbaglia ancora di più se pensa che il problema svanirà da sé. In più adesso c’è il fattore Biden. Il nuovo presidente non ha messo in discussione la decisione di Trump di riconoscere nel 2018 Gerusalemme capitale di Israele e di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv, ma l’amministrazione democratica ha qualche idea diversa sul Medio Oriente rispetto a quella repubblicana. C’è voluto un po’ di tempo prima che le cancellerie internazionali si accorgessero che a Gerusalemme stava accadendo qualcosa. Una realtà che, agli occhi esterni, appare congelata, è invece in involuzione ed evoluzione.
Invece no: Gerusalemme è il cuore del conflitto internazionale, non solo mediorientale. Quella che sembrava una confisca come un’altra - le case palestinesi di Sheikh Jarrah a favore del movimento dei coloni - è diventata adesso un fattore assai preoccupante. L’espansione della protesta palestinese al cuore della città santa e ad altre città, sta svegliando dal torpore i governi arabi. A interessare di più però non è soltanto la reazione giordana, iraniana o tunisina ma quella che arriva dagli Usa. Mentre l’I’talia e l’Ue o tacciono o raccontano il mantra bugiardo del «no alla violenza da una parte e dall’altra», dimenticando che lì c’è una occupazione militare, quella d’Israele sui Territori palestinesi.
Biden finora non ha preso una posizione precisa e non ha messo in discussione nessuna delle decisioni incendiarie del predecessore Trump (da Gerusalemme capitale israeliana alla sovranità sul Golan siriano occupato) ma ha cominciato ad agitare il premier Netanyahu iniziando il dialogo con l’Iran per il rientro degli Usa nell’accordo sul nucleare.
Ma sugli scontri di Gerusalemme si è fatto sentire il Dipartimento di Stato che ha usato parole, come sottolinea Chiara Cruciati sul manifesto, che di solito l’amministrazione americana non utilizza. Nessun comunicato ufficiale ma la portavoce del segretario di Stato Blinken ha espresso «grande preoccupazione» per le azioni israeliane e per «l’eventuale sgombero di famiglie palestinesi dai quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah, molte delle quali vivono in quelle case da generazioni». Mentre una lettera di deputati indirizzata a Blinken ha chiesto di esercitare pressione diplomatiche per impedire gli sgomberi e ribadire quello che il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu già prevedono: «Gerusalemme est è parte della Cisgiordania ed è sotto occupazione militare israeliana», realtà che rende «illegale la sua annessione da parte di Tel Aviv». Un linguaggio esplicito e diretto come forse non era mai venuto dai deputati americani. E noi?
Razzi su Gerusalemme, bombe su Gaza: uccisi 20 palestinesi
A tutta Spianata. Irruzione della polizia israeliana ieri all’alba nella moschea di Al Aqsa. Quasi 300 feriti. Poi i razzi di Hamas e la reazione di Tel Aviv. Morti 9 bambini
di Michele Giorgio (il manifesto, 11.05.2021)
GERUSALEMME. L’urlo delle sirene di allarme ha colto tutti di sorpresa alla Porta di Damasco. Da qualche minuto decine di giovani palestinesi celebravano una piccola ma importante vittoria. L’aver costretto, con le proteste di questi giorni, gli apparati di sicurezza israeliani e il governo Netanyahu a cambiare il percorso all’annuale Marcia delle Bandiere nella città vecchia, con cui i nazionalisti religiosi affermano il controllo di Israele su tutta Gerusalemme, incuranti delle risoluzioni internazionali. E i poliziotti israeliani, sempre pronti a far capire chi comanda, per diversi minuti hanno lasciato fare quei ragazzi, non pochi dei quali nelle sere passate sono stati portati in manette alla stazione di polizia di Moskobiyeh. «Così come li abbiamo sconfitti alla Porta di Damasco, sapremo sconfiggere i coloni a Sheikh Jarrah» ci diceva Yusef, palestinese cattolico amico fin da bambino della musulmana Mona al Kurd, portavoce delle 28 famiglie che rischiano di ritrovarsi in strada se, tra un mese, la Corte suprema israeliana darà ragione ai coloni in una vicenda diventata un caso internazionale e che rappresentare uno degli aspetti centrali del conflitto israelo-palestinese. «Tra un po’ vado a Sheikh Jarrah per partecipare al presidio notturno a difesa delle case in pericolo» diceva ancora Yusef. Alle 18, le 17 in Italia, quando nessuno più pensava all’ultimatum lanciato da Hamas a Israele - ritirare entro quell’ora i poliziotti dalla Spianata di Al Aqsa o pagarne le conseguenze - sono partite le sirene. Ed è cambiato lo scenario, almeno parte di esso.
Confermando quanto avevano minacciato, in nome della difesa della moschea di Al Aqsa, Hamas e Jihad hanno lanciato sette razzi in direzione di Gerusalemme e altri 30 verso il sud di Israele. «Si è trattato di una risposta - ha rivendicato Hamas - all’aggressione e ai crimini contro la città santa e alle prevaricazioni contro il nostro popolo nel quartiere di Sheikh Jarrah e nella moschea al-Aqsa». I razzi non hanno causato danni alle persone ma in pochi attimi migliaia di israeliani si sono ritrovati nei rifugi e la vita nel sud del paese ha rallentato per alcune ore. A Gerusalemme gli abitanti, ebrei e palestinesi, hanno risentito le sirene di allarme come non accadeva dal 2014, durante l’offensiva israeliana Margine Protettivo contro Gaza. A Gerusalemme sono state avvertite le esplosioni dei razzi ma i danni sembravano ieri sera di lieve entità. Inoltre un razzo anticarro ha colpito un veicolo israeliano che transitava vicino a Gaza.
Non è stata invece di lieve entità la reazione di Israele contro Gaza. Un bombardamento aereo scattato in pochi minuti ha trasformato in un inferno il villaggio di Jabaliya e la cittadina di Beit Hanoun, nel nord della Striscia. È stato un bagno di sangue: 20 i morti, tra i quali nove minori, e 65 feriti. Un bilancio così alto di vittime a Gaza in una sola giornata non si registrava da anni. Le immagini girate nei social subito dopo l’attacco hanno mostrato la disperazione dei sopravvissuti che, nella polvere alzata per metri dalle esplosioni, portavano soccorso ai feriti e si affannavano a cercare superstiti tra le macerie degli edifici colpiti. Scene di dolore hanno attraversato la rete. «Avvertiamo il nemico sionista che se colpisce installazioni civili o case che appartengono al nostro popolo a Gaza, la nostra risposta sarà forte e dolorosa e oltre le aspettative del nemico», ha avvertito un portavoce delle brigate Izz al-Din al-Qassam, braccio armato di Hamas. Il Jihad alle 21, come aveva annunciato, ha sparato altri razzi e ieri sera si prevedeva che altri ne sarebbero stati lanciati da Gaza nel corso della notte.
Israele non ha riconosciuto i venti morti nei suoi bombardamenti. Anzi, sostiene che tre dei bambini morti non siano stati uccisi dalle sue bombe bensì da un razzo palestinese caduto sulla loro casa. E aggiunge di aver colpito e ucciso otto uomini di Hamas. «Se non l’ha capito fino ad ora, Hamas adesso lo capirà» ha detto un portavoce delle forze armate. «Siamo preparati - ha aggiunto - e se dopo la nostra risposta la sparatoria continuerà addebiteremo ad Hamas un prezzo molto». Intorno a Gaza c’è già uno schieramento di forze pronto per un’offensiva ad ampio raggio. E le parole del premier Netanyahu sono inequivocabili. «Hamas ha varcato una linea rossa» lanciando razzi su Gerusalemme e «pagherà un duro prezzo», ha detto. «Israele colpirà con grande potenza - ha proseguito il premier - non tolleriamo attacchi al nostro territorio, alla nostra capitale, ai nostri cittadini e ai nostri soldati. Chi ci attacca pagherà un duro prezzo».
Non pochi palestinesi ieri celebravano per la prova di forza offerta da Hamas. Dovrebbero però valutare anche l’impatto dell’escalation militare sui risultati della mobilitazione popolare avvenuta in quest’ultimo mese, intorno a Sheikh Jarrah e alla Spianata di al Aqsa. Razzi e bombe, i corpi straziati dei bambini uccisi a Gaza, le scene di sofferenza, inevitabilmente hanno oscurato i 278 palestinesi feriti ieri all’alba dalla polizia israeliana sulla Spianata di Al Aqsa. Alcuni ieri sera erano ancora in ospedale. E il timido appoggio offerto da alcuni paesi occidentali, Usa e Ue in testa, alla difesa delle ragioni delle famiglie di Sheikh Jarrah che rischiano di essere buttate in strada, è già svanito. La provocatoria Marcia delle Bandiere è ormai una storia di poco conto per i media occidentali. Invece il tema di Gerusalemme e del suo status è sempre lì, lontano dalla legalità internazionale e pronto a riesplodere.
Tre università Ue rompono con Ariel, l’ateneo coloniale
Europa/Israele. Dopo le pressioni palestinesi, unite a quelle di studenti e accademici europei, Valencia, Firenze e il francese Irt interrompono gli accordi di collaborazione con l’università costruita in una delle più grandi colonie costruite illegalmente nei Territori occupati
di Chiara Cruciati (il manifesto, 01.04.2021)
Le pressioni palestinesi, unite a quelle di accademici e studenti europei, hanno sortito effetto: tre università - Valencia, Firenze e l’Istituto della Ricerca tecnologica (Irt) Antoine de Saint-Exupéry - hanno deciso di interrompere la cooperazione con l’ateneo israeliano di Ariel, costruito in una delle più grandi colonia dei Territori occupati palestinesi, violazione al diritto internazionale e alla Convenzione di Ginevra, riconosciuta come tale dalla Ue.
Il primo è stato l’Irt, lo scorso dicembre, su spinta dei professori che in una lettera al governo francese hanno chiesto il rispetto del diritto internazionale e l’impegno assunto nel 2014 dal ministero a non stringere accordi con l’ateneo israeliano; poi l’Università di Firenze che a febbraio scorso ha escluso Ariel dal programma di mobilità Extra Ue del 2020-2021; e infine l’Università di Valencia l’11 marzo, ponendo fine a un accordo di cooperazione risalente al maggio 2019 con Ariel, mai applicato a seguito delle proteste dell’unione studentesca Bea.
Dietro la lunga campagna di sensibilizzazione c’è No Ariel Ties, campagna indetta dal ministero palestinese dell’Educazione, il Consiglio dei rettori palestinesi, la Federazione dei professori palestinesi (Pfuupe) e il Palestinian Human Rights Organizations Council (Phroc): «L’Università di Ariel - spiega la campagna - è un’istituzione illegale, profondamente e direttamente complice del sistema di oppressione israeliana che nega ai palestinesi i loro diritti, tra cui quelli all’educazione e alla libertà accademica».
Campagna sostenuta anche da 500 accademici europei e israeliani che hanno chiesto alla Ue di non legittimare più l’ateneo di Ariel. Tra questi anche SeSaMO, la Società Italiana di Studi sul Medio Oriente.
Fondata nel 1978, Ariel è tra le quattro più grandi colonie nei territori occupati. Ventimila residenti, 15mila km quadrati di estensione, entra prepotentemente in Cisgiordania, a metà strada tra la Linea Verde del 1948 e il confine con la Giordania. Una città, con ospedali, centri commerciali, 45 fabbriche, che all’inizio ha accolto la classe media, e poi, negli anni ’90, l’immigrazione dall’ex Urss.
Nel 1982 è arrivata l’Università, dal 2004 è ateneo indipendente: 15mila studenti, 450 accademici e le facoltà di architettura, ingegneria, scienze naturali, scienze sociali, medicina, oltre a 20 centri di ricerca, dalla cura del cancro all’innovazione cyber, dall’archeologia alla sicurezza nazionale.
L’Ultima
La Palestina atterra
Territori occupati. L’Autorità Nazionale liquida la Palestinian Airlines e i suoi aerei vecchi di trent’anni simbolo delle speranze decollate con gli Accordi di Oslo e oggi infrante contro la realtà di una occupazione interminabile
di Michele Giorgio *
GERUSALEMME. «Quel viaggio aereo di più di venti anni fa si rivelò un’esperienza unica. Al terminal incontrai impiegati e funzionari palestinesi che sprizzavano gioia, la gioia di poter fare quel tipo di lavoro per la loro gente, nel loro aeroporto». Stefano Baldini con ogni probabilità è stato l’unico italiano a volare con la Palestinian Airlines, la compagnia di bandiera palestinese. Agronomo, cooperante, Baldini ha speso la vita a realizzare per conto di varie Ong italiane progetti di sviluppo in Medio oriente e Africa. E tra la fine degli anni ’80, durante la prima Intifada, e gli anni ’90, ha vissuto e lavorato in Cisgiordania e a Gaza passando più tempo con agricoltori e allevatori palestinesi che con la sua famiglia in Italia. «Volare con la Palestinian Airlines era un desiderio troppo forte» ci racconta da Beirut, la sua nuova sede di lavoro «appena ebbi l’occasione giusta prenotai un volo per il Cairo.
Ricordo che all’aeroporto di Rafah c’era anche la sicurezza israeliana, con un atteggiamento ben diverso da quello del personale palestinese. Una camionetta (israeliana) seguì il nostro bus fino alla scaletta dell’aereo». A bordo, prosegue Baldini, fu una festa. «Regnava l’entusiasmo, i miei compagni di viaggio ed io fummo accolti con calore, steward e hostess sul volto avevano dipinta la consapevolezza di contribuire a costruire qualcosa di nuovo per la loro terra. Altrettanto gioioso fu il benvenuto del comandante. Il volo era breve, meno di un’ora, eppure ci offrirono di tutto. A un certo punto apparve un carrello con una torta intera. Noi passeggeri eravamo in estasi, si usciva da Gaza salendo su verso il cielo. Penso di essere stato uno dei pochi stranieri a vedere Gaza dall’alto su un aereo della Palestinian Airlines». L’emozione irrompe nella voce di Baldini. «Quel viaggio è un ricordo indelebile, perché c’erano la speranza di costruire la Palestina e l’idea che Gaza potesse diventare un luogo normale, come merita ed è assurdo che non lo sia».
Quante speranze svanite, quanti sogni irrealizzati e promesse tradite nel racconto dell’agronomo italiano. E l’annuncio dato dall’Autorità nazionale palestinese che la Palestinian Airlines sarà liquidata e che i suoi due Fokker 50 (SU-YAH e SU-YAI), ormai vecchi di trent’anni, sono stati messi in vendita, aggiunge amarezza e disillusione nell’animo dei tanti, non solo palestinesi, che avevano creduto agli Accordi di Oslo firmati nel 1993, all’idea che Israele avrebbe messo fine all’occupazione militare per far nascere lo Stato di Palestina.
È andato tutto storto.
Gaza è una prigione e le aree autonome palestinesi in Cisgiordania assomigliano a bantustan. I leader arabi corrono a firmare intese con Israele e fanno spallucce ai palestinesi che chiedono la libertà. Per la Palestinian Airlines non c’era alternativa alla chiusura, era indebitata e di fatto non operava da anni. La scorsa estate è stato risolto con la Niger Airlines un contratto di leasing per entrambi gli aeromobili, rendendo persino più precaria la situazione finanziaria della compagnia. I dipendenti sono stati mandati a casa negli anni passati, qualcuno si è fermato a Gaza altri hanno cercato lavoro nello stesso settore nei paesi arabi.
Nata nel 1995, la Palestine Airlines cominciò a operare nel giugno 1997 con voli per i pellegrini musulmani diretti in Arabia saudita. Prima dall’aeroporto di El Arish (Egitto) e poi, dal 1998, da quello internazionale palestinese «Yasser Arafat» ultimato nei pressi di Rafah, a Gaza. Ai due Fokker fu aggiunto un Boeing 727 donato dal principe saudita Al Walid bin Talal Al Saud.
Poi è stata solo una lunga agonia, cominciata venti anni fa, all’inizio del 2001, quando nei primi mesi della seconda Intifada innescata dal fallimento degli Accordi di Oslo, gli F-16 israeliani bombardarono la torre di controllo e la pista dell’aeroporto di Gaza rendendolo inutilizzabile. Una fine che nessuno avrebbe immaginato quel 14 dicembre 1998, quando lo scalo palestinese vide l’arrivo dell’elicottero Marine One con a bordo Bill e Hillary Clinton. In rete girano ancora le immagini del presidente Usa e della First lady nella sala Vip del terminal assieme a Yasser Arafat con il suo immancabile copricapo, la kufiah.
Oggi l’aeroporto di Rafah - costruito con fondi di Giappone, Egitto, Arabia Saudita, Spagna e Germania e progettato da architetti marocchini - è solo una distesa di macerie e scheletri di edifici. La pista larga 60 metri è disseminata di rifiuti portati da carretti trainati da asini provenienti dai vicini campi profughi. Un luogo triste e abbandonato che di tanto in tanto ospita corse di cavallo improvvisate.
Mounib Al Mashharawi, 61 anni, sugli aerei della Palestinian Airlines è salito tante volte. Non da passeggero come Stefano Baldini. Sui due Fokker svolgeva il compito di pilota navigatore grazie alla laurea conseguita negli anni ’80 all’Istituto superiore di aviazione dell’Egitto. «Il presidente Arafat teneva in grande considerazione l’aviazione» ci racconta Al Mashharawi «la Palestinian Airlines non esisteva ancora ma ci diceva di studiare e prepararci perché un giorno avremo avuto il nostro Stato e la compagnia di bandiera sarebbe stato il fiore all’occhiello della Palestina».
Decine di palestinesi si sono formati in questo settore in vari paesi. «Alcuni in Polonia - prosegue Al Mashharawi - altri in Occidente. Io dopo la laurea ho continuato a studiare in Giordania dove ho conseguito la qualifica di ingegnere di bordo sui Boeing 727».
Mashhrawi vive a Gaza, con una pensione modesta che a stento gli permette di sopravvivere. Quei tempi, quel salire veloce da Gaza verso le nuvole, gli appaiono lontani e non solo per il trascorrere inesorabile del tempo. Sente dentro l’amarezza comune a tanti palestinesi della sua generazione per l’inganno degli accordi di Oslo, destinati sulla carta a creare in cinque anni, dal 1994 al 1999, lo Stato di Palestina e che sono diventati la palude infinita in cui annaspano ancora oggi. «Dovevano liberarci dal controllo totale di Israele su tutto ciò che facciamo e su chi e cosa entra ed esce dalla Palestina. Non abbiamo ottenuto nulla e siamo sempre più soli», dice laconico salutandoci.
* Fonte: il manifesto, 27.01.2021 (ripresa parziale, senza immagini).
Internazionale
Accordo di Abramo, il nuovo ordine regionale di Trump
Medio oriente. A Washington va in scena la firma sulla «pax americana» che normalizza i rapporti tra Israele, Emirati arabi e Bahrain. I palestinesi restano prigionieri nella loro terra, mentre Tel Aviv difenderà i paesi del Golfo dall’Iran
di Michele Giorgio (il manifesto, 16.09.2020)
GERUSALEMME. Il 13 settembre 1993 Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si strinsero la mano durante la cerimonia alla Casa Bianca per la firma degli Accordi di pace di Oslo. Quel gesto fece immaginare ai più ottimisti un futuro in cui i palestinesi avrebbero ottenuto la libertà e la fine dell’occupazione militare israeliana.
Ieri 15 settembre 2020, 27 anni dopo quel gesto tra il premier israeliano e il leader palestinese, la firma dell’Accordo di Abramo, che normalizza i rapporti tra Israele, gli Emirati e il Bahrain, ha dimostrato definitivamente quanto fossero ingannevoli le intese raggiunte in segreto in Norvegia.
In questi 27 anni i palestinesi hanno ottenuto riconoscimenti sulla carta, sono stati accolti in tante agenzie e organizzazioni internazionali e all’Onu ufficialmente esiste lo Stato di Palestina. Ma ancora oggi restano prigionieri nella loro terra, chiusi in città e villaggi che ricordano i Bantustan, senza alcun prospettiva realistica di ottenere sovranità.
In queste ore presunti esperti si affannano a spiegare su media-megafoni che i palestinesi «stanno perdendo un altro treno». Ma ai palestinesi è stato sempre offerto, da Oslo in poi, lo stesso o poco più di quanto Donald Trump propone nel suo piano: uno staterello-fantoccio sotto il controllo di Israele in qualche porzione di Cisgiordania. Con Gaza isolata, prigione per gli islamisti di Hamas e i suoi 2 milioni di abitanti. Prendere o lasciare.
Evocava, non a caso, un nuovo Medio oriente ieri Donald Trump. «È l’alba di un nuovo Medio Oriente...Siamo qui per cambiare il corso della storia», ha detto sotto lo sguardo compiaciuto del premier israeliano Netanyahu e i sorrisi stampati sul volto del ministro degli esteri emiratino Abdullah bin Zayed Al Nahyan e di quello del Bahrein Abdullatif bin Rashid Al-Zayan. Ed è vero, sta nascendo un nuovo ordine regionale.
Non è stata fatta la pace, come si è detto banalmente, tra Israele, Emirati e Bahrain. Abu Dhabi e Manama non sono mai state in guerra con lo Stato ebraico, hanno sempre avuto con esso, specialmente negli ultimi anni, relazione strette e una ampia collaborazione, specie nell’intelligence. Solo che si è svolta dietro le quinte.
Più concretamente sta sorgendo un sistema regionale in cui le monarchie arabe sunnite riconoscono la superiorità economica, militare e strategica di Israele che ne diventa di fatto il difensore davanti al nemico comune, l’Iran. Israele sgraverà, in parte, Washington della responsabilità avuta per decenni di proteggere i ricchi alleati nel Golfo.
Nella pax americana i palestinesi non contano nulla, sono un tassello che non appartiene al mosaico. Perché hanno il torto di reclamare ancora i loro diritti sanciti da una infinità di risoluzioni internazionali. «Gli accordi ci permetteranno di stare a fianco del popolo palestinese e di aiutarlo nel loro sogno di uno stato indipendente...grazie per aver deciso di mettere fine all’annessione (a Israele) dei territori palestinesi», ha proclamato solenne Abdullah bin Zayed Al Nahyan rivolgendosi a Netanyahu.
Per l’analista ed esperta di diritto internazionale Diana Buttu «Rinunciando alla condizione del ritiro di Israele dai territori palestinesi occupati (nel 1967), Emirati, Bahrain e i paesi che si uniranno a loro, si adeguano alla linea dell’Unione europea: faranno affari e tanti programmi insieme a Israele e ogni tanto ci ricorderanno che i palestinesi hanno dei diritti».
«Molte nazioni sono pronte» a fare la pace con Israele, «almeno cinque o sei si uniranno molto in fretta», ha annunciato Trump «sono nazioni in guerra ma stanche di combattere», ha detto, senza nominare alcun paese. Ha aggiunto che «Grandi cose accadranno» con l’Arabia Saudita, regno che Trump vuole portare alla normalizzazione con Israele prima delle presidenziali Usa. «Vedrete grande attività. Ci sarà pace in Medio Oriente...Anche Bibi è stanco di guerra», ha proseguito con una risata, riferendosi a Netanyahu.
Il premier israeliano cogliendo l’imbeccata ha replicato «Il popolo d’Israele conosce il prezzo della guerra, conosco il prezzo della guerra. Sono stato ferito in battaglia. Un soldato è morto nelle mie braccia. Mio fratello Yoni ha perso la vita salvando ostaggio». Siamo qui, ha aggiunto Netanyahu, «per l’alba della pace, per dare speranza ai figli di Abramo. Questa pace porterà alla fine del conflitto arabo israeliano una volta per sempre».
Sul palcoscenico della firma dell’Accordo di Abramo i rappresentanti di Emirati e Bahrain sono stati solo delle comparse accanto ai protagonisti Trump e Netanyahu. Prima della firma degli accordi, il presidente Usa aveva offerto la chiave d’oro della Casa Bianca al leader israeliano. Netanyahu ha ringraziato e forse avrà pensato: l’ho sempre avuta.
Estero
Chi vince e chi perde dagli Accordi di Abramo
Israele, Emirati e Bahrein, ma anche l’America di Trump, hanno da guadagnare dalla normalizzazione dei rapporti nella regione. Scavalcati i Palestinesi, preoccupazione in Iran
di Cecilia Scaldaferri (AGI, 16 settembre 2020)
AGI - Negli storici Accordi di Abramo tra Israele, Emirati arabi uniti e Bahrein ci sono chiari vincitori e vinti. A cinquant’anni esatti dal ’Settembre Nero’ che aprì la strada alla cacciata dei fedayn di Yasser Arafat dalla Giordania, i palestinesi sono gli unici a non poter cantare vittoria. Anche l’Iran guarda con preoccupazione all’allargamento e al compattamento del fronte dei suoi nemici in un’alleanza pragmatica per la quale lo spirito anti-Teheran è stato un collante decisivo.
Trump, "presto aderiranno altri 5-6 Paesi"
Dopo il primo passo rivoluzionario compiuto da Abu Dhabi, seguito da vicino da Manama, la speranza di Washington, e di Gerusalemme, è che altri Paesi facciano lo stesso. Tra questi, uno potrebbe essere l’Oman. A spingere il Golfo in questa direzione c’è la comune opposizione verso l’arcinemico Iran e la sfida posta dall’atteggiamento sempre più aggressivo della Turchia di Recep Tayyip Erdogan nella regione. Lo stesso presidente Trump ha detto che presto altri "cinque o sei Paesi" arabi seguiranno l’esempio di Emirati arabi uniti e Bahrein.
Tutti i protagonisti di questa "svolta diplomatica storica" hanno da guadagnare dall’accordo per la normalizzazione dei rapporti: il presidente americano, Donald Trump, ha messo a segno un grosso colpo in vista delle elezioni di novembre mentre gli Emirati possono dire di aver fermato i piani israeliani di annessione della Cisgiordania e attraverso i negoziati stanno facendo pressioni per ottenere il via libera alla vendita degli F-35 su cui finora Israele aveva messo il veto (e che frutterebbe agli Stati Uniti posti di lavoro spendibili in campagna elettorale).
Da parte sua, lo Stato ebraico apre la strada a una cooperazione economica con i Paesi del Golfo che può valere miliardi di dollari di interscambio annuo (una boccata d’ossigeno nel post-pandemia di Covid-19) e scavalca Ramallah e le sue istanze; senza contare il ritorno di immagine per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, sotto attacco in patria per una gestione fallimentare dell’epidemia coronavirus e per il processo in cui è incriminato per corruzione, frode e abuso di fiducia.
Ma i Palestinesi si sentono "traditi"
Il leader dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha gridato al tradimento, ha lanciato appelli a scendere in piazza a protestare, ha anche tentato di far passare una risoluzione di condanna all’ultima riunione della Lega araba ma il tentativo si è risolto in un nulla di fatto.
La causa palestinese resta tuttavia in primo piano, hanno assicurato gli Emirati: negli Accordi di Abramo si fa riferimento alla ’soluzione dei due Stati’, ha affermato il sottosegretario agli Esteri, Anwar Gargash, precisando però che sono citati solo brevemente perché il documento tratta largamente delle relazioni bilaterali tra Israele ed Emirati.
Lo stesso re saudita Salman, il custode dei luoghi sacri dell’Islam, in una telefonata la settimana scorsa con Trump, è tornato a ribadire la centralità della causa palestinese per il via libera a futuri rapporti: senza "una soluzione giusta e durevole che porti la pace", non ci sarà normalizzazione. Una puntualizzazione necessaria per non essere accusata, anche Riad, di tradire i palestinesi.
Israele ammette la strage della famiglia Sawarkah
Gaza. Le forze armate hanno aperto un’inchiesta. I palestinesi non credono che porterà a sanzioni nei confronti dei responsabili della morte di otto civili innocenti
di Michele Giorgio (il manifesto, 16.11.2019)
GERUSALEMME Non ha tardato ad emergere la verità sulla strage della famiglia Sawarkah spazzata via da quattro missili sganciati da un caccia israeliano nella notte tra mercoledì e giovedì su Deir al Balah, nella zona centrale di Gaza. Il 45enne Rasmi (Abu Malhous) Sawarkah, ucciso assieme ad altri sette famigliari (tra cui due donne e due bambini di tre e quattro anni), descritto dalle forze armate israeliane come un comandante delle rampe di lancio di razzi del Jihad islami, in realtà era un semplice cittadino palestinese. L’“ufficiale” del Jihad era suo fratello, dicono a Gaza, ma non era in casa in quel momento e l’organizzazione islamista lo descrive come un affiliato e non un comandante.
Adesso, scrive il quotidiano Haaretz, le forze armate israeliane indagano sull’accaduto e fanno sapere che non erano a conoscenza della presenza di persone nella casa. Non possono rallegrarsene gli otto uccisi. Ed i sopravvissuti quasi certamente non riceveranno un risarcimento. Le inchieste aperte dall’esercito israeliano sui civili palestinesi uccisi nelle tre offensive contro Gaza del 2008, 2012 e 2014, sono terminate con la formula che i militari avevano agito nel rispetto delle regole di ingaggio.
I palestinesi dovranno accontentarsi di un pardon, è stato un errore. Intanto è salito a 35 il numero dei palestinesi morti nell’operazione israeliana. Uno dei feriti, Ahmed Ayman Abdel Al, è deceduto ieri. Non era un civile, bensì un membro delle Brigate al Qassam, l’ala militare di Hamas. Oltre a morti e feriti si calcolano anche i danni. Secondo una prima stima fatta a Gaza ammonterebbero a tre milioni di dollari. Circa 500 abitazioni sono state danneggiate. Otto case sono state distrutte completamente. Le infrastrutture civili (fognature, elettricità, rete idrica e strade) hanno subito danni per circa 600mila dollari.
Il team segreto d’Israele che svuota gli archivi di Stato
Nakba fantasma. Il Malmab, squadra della Difesa, da anni nasconde le prove dell’espulsione palestinese. Lo scopo: minare la credibilità di ricerche storiche attraverso la scomparsa dei documenti declassificati
di Michele De Giorgio (il manifesto, 18.08.2019) *
TEL AVIV. «La legge in Israele è chiara, afferma che ogni individuo può avere libero accesso agli archivi e può consultare i documenti divenuti disponibili dopo essere stati declassificati, come accade negli altri paesi. Nei fatti solo una percentuale irrisoria dei documenti è accessibile».
A spiegarcelo è Lior Yavne, direttore di Akevot, piccolo e combattivo istituto di ricerca che individua, digitalizza e cataloga varie forme di documentazione sul conflitto israelo-palestinese.
IL FINE È AIUTARE difensori dei diritti umani, ricercatori e docenti attraverso il libero accesso ai file negli archivi israeliani, governativi e privati. E non è facile. «Nell’archivio delle forze armate, il più grande di Israele - ci dice Yavne - sono disponibili solo 50mila dei 12 milioni di documenti che contiene. Negli archivi dello Stato appena l’1% dei file. E restano ancora inaccessibili gli archivi dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno».
Per questo motivo, prosegue, i ricercatori consultano gli archivi privati: «È quella l’arena in cui illegalmente il ministero della difesa agisce per rendere inaccessibili i documenti riguardanti le attività nucleari di Israele o di altri Stati, le relazioni con una serie di nazioni, i palestinesi cittadini di Israele, la Nakba e le comunità palestinesi durante e dopo il 1948. Il ministero della difesa chiede o intima ai responsabili degli archivi di celare alcuni file. Spesso si tratta di documenti che non rappresentano alcun rischio per la sicurezza nazionale ma che hanno un significato politico e storico».
Akevot, grazie ai rapporti che mantiene con ricercatori, docenti e gli impiegati degli archivi, ha scoperto che ci sono «individui» che si muovono da un ufficio all’altro ordinando di far sparire determinati documenti.
«Sappiamo che queste persone si presentano come funzionari degli archivi di Stato ma in realtà non lo sono. Riteniamo che facciano parte degli apparati di sicurezza, più precisamente del Malmab, un dipartimento speciale della difesa», dice Yavne, rivelando che il suo istituto è stato in grado di ottenere le copie di alcuni file spariti. Tra questi un documento di 29 pagine, del 30 giugno 1948, redatto dai servizi di intelligence sui motivi dell’«emigrazione» dei palestinesi dal territorio controllato dal neonato Stato di Israele.
«È UN DOCUMENTO di eccezionale importanza che contraddice totalmente la narrazione ufficiale con cui sono cresciuti gli israeliani a proposito della Nakba («catastrofe») e le cause dell’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi durante la guerra del 1948». Non furono - come da sempre vuol far credere la storiografia ufficiale israeliana e quella in Occidente - gli appelli lanciati dai leader arabi a lasciare la Palestina e ad attendere per rientrarvi la fine «dello Stato ebraico» che spinsero i palestinesi ad abbandonare 219 villaggi, quattro città e a cercare riparo in Libano, Siria, Giordania, Cisgiordania e Gaza.
Determinanti nella maggior parte dei casi furono le intimazioni e gli attacchi armati ai civili lanciati dalle forze ebraiche, regolari e irregolari. Si potrebbe dire, riassume ad un certo punto l’intelligence, «che l’impatto delle azioni militari ebraiche sulla migrazione è stato decisivo, in quanto circa il 70% degli abitanti ha lasciato le proprie comunità ed è emigrato in conseguenza di queste azioni».
IL FILE PRECISA il numero di abitanti in ogni villaggio e città e poi elenca la ragione dello spopolamento. Ad esempio: «Ein Zaytoun, distruzione del villaggio da parte nostra; Qabbaa, nostro attacco contro di loro». E precisa anche la direzione dell’esodo.
Ne esce fuori un quadro che accredita ampiamente la tesi della pulizia etnica della Palestina esposta da Ilan Pappè e avvalora gli studi e le ricerche condotte negli ultimi 30-40 anni da altri «nuovi storici» israeliani: Benny Morris, Hillel Cohen e Avi Shlaim.
Il rapporto diffuso da Akevot ha dato il via all’inchiesta svolta dalla giornalista Hagar Shezaf pubblicata il 5 luglio dall’edizione in lingua inglese del quotidiano Haaretz con il titolo Burying the Nakba: How Israel Systematically Hides Evidence of 1948 Expulsion of Arabs. Inchiesta che include un’intervista con Yehiel Horev, l’ex capo del Malmab incaricato di far sparire i documenti che danneggiano l’immagine di Israele e che potrebbero indebolire il via libera internazionale, dal 1948 a oggi, alle sue azioni e la negazione dei diritti politici (e non solo) dei palestinesi.
HOREV, RISPONDENDO alle domande della giornalista, spiega che il compito del Malmab è fare in modo che la credibilità di determinate ricerche sia compromessa attraverso la scomparsa di documenti ufficiali sulla Nakba che gli storici hanno consultato in passato.
Un chiaro riferimento a chi grazie alla declassificazione di un certo numero di file è stato in grado di confutare la versione ufficiale degli eventi prima, durante e dopo la nascita di Israele e di illustrare le vere ragioni della «miracolosa partenza» dei palestinesi dalla loro terra.
Alcuni di quei file, resi disponibili in passato, sono stati fatti sparire allo scopo, spiega Hover, di rendere inattendibile quanto si legge in un buon numero di libri. Lo spiega bene Hagar Shezaf riferendo un episodio di quattro anni fa. La storica Tamar Novick rimase colpita da documento trovato nell’Archivio Yad Yaari del partito Mapam relativo al massacro di 52 palestinesi e ad abusi gravi avvenuti a Safsaf, in alta Galilea, conquistato dalle forze della Settima Brigata israeliana durante l’operazione Hiram verso la fine del 1948.
NOVICK DECISE di consultare alcuni colleghi, tra cui Morris che in una nota del suo libro The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949 afferma di aver trovato lo stesso documento nell’Archivio Yad Yaari. Ma quando Novick tornò per esaminare il documento, non c’era più. Alla storica fu poi spiegato che era stato fatto sparire per ordine del ministero di difesa.
«Dall’inizio dell’ultimo decennio - ci dice Hagar Shezaf - i team del Malmab hanno rimosso dagli archivi numerosi documenti che erano stati declassificati, nel quadro di uno sforzo sistematico per nascondere le prove della Nakba». Malmab ha nascosto le testimonianze di generali sull’uccisione di civili e la demolizione di villaggi, oltre alla documentazione dell’espulsione dei beduini durante il primo decennio dello Stato.
SONO SPARITI CENTINAIA, forse migliaia di file che scrivono la storia della Nakba, la vera storia del 1948. Una storia che i palestinesi da 71 anni tentano invano di far emergere in un mondo sempre più indifferente che non vuole più ascoltarli.
* https://ilmanifesto.it/il-team-segreto-disraele-che-svuota-gli-archivi-di-stato/
La strage di Safsaf tra memoria orale e diari israeliani
Nakba fantasma. La nonna di Dareen Tatour e le note delle Haganah: «Legarono più di 50 abitanti insieme e gli spararono, poi li seppellirono in una buca». E un file dell’intelligence del 1948 ammette: «Il 70% dell’intera popolazione palestinese fuggì a causa dei nostri attacchi»
di Chiara Cruciati (il manifesto, 18.08.2019)
La nonna di Dareen Tatour le ha raccontato la sua Nakba: il massacro di Safsaf, villaggio palestinese in Galilea attaccato dal neonato esercito israeliano il 29 ottobre del 1948.
È DAI RACCONTI della sua teta che la poetessa palestinese (detenuta nel 2018 dalle autorità israeliane per una poesia) ha conosciuto la storia di quel villaggio scomparso dalle mappe. Al suo posto fu costruito il kibbutz Moshav Safsufa. Lo Stato di Israele era sta già nato, cinque mesi prima, ma il trasferimento forzato della popolazione palestinese non era terminato.
I soldati circondarono il villaggio, uccisero oltre 50 persone e gettarono i corpi in una fossa. La nonna di Dareen aveva 16 anni, era già sposata. Ha assistito al massacro. Safsaf fu svuotato, i suoi abitanti scapparono nei paesi vicini. Non lei, che viveva già con il marito nella vicina cittadina di al-Jesh.
Memoria orale (come spiega nell’intervista accanto lo storico Salim Tamari) che nel caso di Safsaf si intreccia ai documenti di Stato israeliani. Quel massacro è custodito nell’archivio Yad Yaari del partito di sinistra Mapam. O meglio era: è tra i file fatti sparire dal Malmab.
«Safsaf - 52 uomini catturati, legati uno all’altro, scavata una buca, uccisi. Dieci ancora si contorcevano. Le donne sono venute, hanno chiesto pietà. Trovati corpi di sei anziani. C’erano 61 cadaveri, tre casi di stupro. Una ragazza di 14 anni e quattro uomini uccisi. A uno di loro sono state tagliate le dita con un coltello per prendere l’anello». Queste le note del membro del comitato centrale del Mapam, Aharon Cohen, riportate a Israel Galili, l’allora capo delle Haganah.
NOTE CONFERMATE da un comandante delle Haganah, Yosef Nahmani, che nel suo diario scrisse: «A Safsaf dopo che gli abitanti sventolarono la bandiera bianca, raccolsero uomini e donne in due gruppi, legarono 50 o 60 abitanti e gli spararono, li hanno seppelliti nella stessa buca. Dove hanno imparato questo comportamento, crudele come quello dei nazisti?».
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«L’evacuazione britannica ci ha dato via libera. Almeno il 55% di tutta la migrazione fu motivata dalle nostre azioni. L’azione dei dissidenti (paramilitari, ndr) come fattore dell’evacuazione degli arabi da Eretz Yisrael ha avuto un 15% di impatto diretto. In conclusione l’impatto delle azioni militari ebraiche è stato decisivo: il 70% dei residenti ha lasciato le proprie comunità come risultato di queste azioni».
COSÌ L’INTELLIGENCE del neonato Stato d’Israele, il 30 giugno 1948, in un dettagliato rapporto spiega la diaspora palestinese da 219 villaggi e quattro città spopolate e le ragioni della fuga. Che non fu volontaria. Quel rapporto è uno dei documenti fatti sparire dal ministero della Difesa.
«È ragionevole assumere che la migrazione non fu economicamente motivata - continua il rapporto - L’economia araba non era stata danneggiata tanto da impedire alla popolazione di sostenersi».
In quel rapporto c’è tanto: c’è l’ammissione della responsabilità nell’esodo dell’80% della popolazione palestinese dell’epoca (dai registri Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi nata pochi anni dopo, si parla di oltre un milione di persone); c’è l’ammissione che la Palestina non era «una terra senza popolo», ma aveva città, villaggi, un’economia viva. E c’è, seppur in forma indiretta, la descrizione del Piano Dalet.
Redatto a inizio ’48 dalle Haganah, in 75 pagine descrive la strategia bellica per «assumere il controllo dello Stato ebraico». Tra le operazioni: «pressione economica assediando alcune città»; «distruzione dei villaggi (fuoco, dinamite, mine)»; «accerchiamento del villaggio e nell’eventualità di una resistenza la forza armata deve essere distrutta e la popolazione espulsa»; «isolamento delle vie d’accesso e blocco dei servizi essenziali (acqua, elettricità, carburante)».
AL DALET È DOVUTA la geografia dell’esodo, massacri in certi villaggi come monito e assalti su tre lati. L’unico aperto era la via di fuga: per le comunità a nord Libano e Siria, a est Giordania, a sud Gaza ed Egitto. E in molti casi, come a Jaffa, bombardamenti che spinsero i palestinesi verso il mare e le navi che li costrinsero in esilio.
Il massacro di Deir Yassin nelle voci di chi lo perpetrò: «Fu un pogrom»
Nakba fantasma. La strage simbolo dell’espulsione palestinese: il 9 aprile 1948 i paramilitari sionisti assaltarono «come monito» il villaggio a Gerusalemme, 110 uccisi. «I miei uomini hanno impilato i corpi e gli hanno dato fuoco. Hanno iniziato a puzzare»
di Chiara Cruciati (il manifesto, 18.08.2019)
La storia sa essere dolorosamente ironica, giochi di tempi e spazi che si sedimentano su esistenze che furono e le occultano. La strada che da Tel Aviv arriva alle porte di Gerusalemme è la Highway 50, meglio nota come Begin, quel Menachem che, prima di diventare alla fine degli anni ’70 premier israeliano (e premio Nobel per la Pace nel 1978), fu il leader indiscusso della milizia paramilitare sionista Irgun. La milizia responsabile di crimini di guerra, acclarati, tra cui il massacro che più di altri è simbolo della Nakba palestinese: il massacro di Deir Yassin.
DA 71 ANNI DEIR YASSIN non si chiama più così. È Givat Shaul, quartiere di Gerusalemme ovest tra i primi che si incontrano arrivando da ovest sulla Begin. Toponomastica amara: ci si entra grazie alla superstrada intitolata a colui che spazzò via il villaggio palestinese, insieme a più di 110 persone, donne, uomini, bambini massacrati dalle Irgun, la gang Stern e le Lehi, con la complicità delle Haganah, la milizia che dopo il 1948 sarà colonna vertebrale del neonato esercito israeliano.
Appena tre anni dopo, su quel che restava delle case in pietra di Deir Yassin è sorto il centro di igiene mentale Kfar Shaul. Nuova amara ironia: l’ospedale ha curato nei suoi primi anni sopravvissuti all’Olocausto nazista e, dopo, pellegrini colpiti dalla cosiddetta «sindrome di Gerusalemme». Quelli che, persi nei vicoli della città (solo in teoria) più spirituale della terra, si credono il nuovo messia.
DELLA MEMORIA di Deir Yassin restano le pietre delle tipiche case arabe e i fichi d’india. Rischiano di non restare più i documenti d’archivio che nascosero - prima di esseri desecretati - le testimonianze dei paramilitari sionisti che quel massacro lo compirono. Anche quelli spariti nell’occultamento appena scoperto del ministero della Difesa. Ma occultare Deir Yassin è pressoché impossibile. Sarebbe necessario per negare che un piano di espulsione di massa della popolazione palestinese abbia mai avuto luogo: il 9 aprile 1948 il villaggio fu attaccato con una violenza inaudita e un obiettivo preciso.
Non solo la «mera» eliminazione dei suoi abitanti: Deir Yassin doveva fare da monito per il resto della Palestina. Andatevene prima che a cacciarvi siano le armi. Strategia calcolata che rientrava nel cosiddetto Piano Dallet: «Lo scorso venerdì insieme alle Irgun il nostro movimento ha compiuto una tremenda operazione di occupazione del villaggio arabo Deir Yassin. Ho partecipato all’operazione nel modo più attivo - scrive in una lettera Yehuda Feder della Stern - Ho ucciso un arabo armato e due ragazze arabe di 16 o 17 anni. Li ho messi al muro e li ho colpiti con due giri di pistola». Storie custodite negli archivi, accompagnate da altre svelate a giornalisti e registi che si sono dedicati a Deir Yassin, come Neda Shoshani: «Correvano come gatti - le racconta un comandante delle Lehi, Yehoshua Zettler - Casa per casa, mettevamo esplosivo e loro scappavano. Un’esplosione e poi avanti, metà del villaggio non c’era più. I miei uomini hanno preso i corpi, li hanno impilati e gli hanno dato fuoco. Hanno iniziato a puzzare».
«A ME È PARSO UN POGROM - il racconto di Mordechai Gichon, delle Haganah - Se attacchi una postazione militare e ci sono cento uccisi, non è un pogrom. Ma se vai in una comunità civile, quello è un pogrom. Se si uccidono civili, è un massacro». Che si tentò di occultare, raccontò l’ex ministro Yair Tsaban, giunto a Deir Yassin il 10 aprile per seppellire i cadaveri: «La Croce Rossa poteva arrivare in ogni momento, era necessario nascondere le tracce».
Espulsa da Israele la scrittrice Susan Abulhawa
Medioriente. La scrittrice palestinese-americana ieri era in attesa di essere espulsa dopo essere stata fermata giovedì al suo arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Era tra gli ospiti più attesi di «Kalimat», il Festival della letteratura palestinese che si apre oggi a Gerusalemme Est, Haifa e in tre città della Cisgiordania
di Michele Giorgio - Gerusalemme (il manifesto, 03.11.2018)
Il suo nome è tra quelli di spicco di «Kalimat», il Festival della letteratura palestinese che si apre oggi a Gerusalemme Est, Haifa e in tre città della Cisgiordania. Ma a quest’appuntamento importante per la cultura palestinese Susan Abulhawa non ci sarà.
La scrittrice palestinese-americana, nota per il best seller Mornings in Jenin, pubblicato in italiano da Feltrinelli con il titolo di Ogni mattina a Jenin, ieri era in attesa di essere espulsa dopo essere stata fermata giovedì al suo arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. «I ricorsi presentati dall’avvocato sono stati respinti dai giudici. È un fatto gravissimo. Susan è un’esponente della cultura internazionale e stava rientrando nella sua terra d’origine», ci diceva ieri Mahmoud Muna, il coordinatore di «Kalimat».
Figlia di genitori palestinesi di Gerusalemme, profughi della guerra arabo-israeliana del ’67, Abulhawa, 48 anni, ha pubblicato in italiano un altro romanzo di successo Nel blu tra il cielo e il mare. Da molti anni vive negli Stati uniti, in Pennsylvania. È la fondatrice dell’Ong «Playground for Palestine», che costruisce parchi gioco nei campi profughi palestinesi.
Per la scrittrice, il motivo del suo fermo è politico, legato alla sua attività a favore della causa palestinese. Essendo cittadina americana, aggiunge, non aveva bisogno di ottenere in anticipo il visto d’ingresso in Israele così come le hanno detto gli agenti della sicurezza del Ben Gurion. L’Autorità israeliana per l’immigrazione e le frontiere afferma invece che Abulhawa, alla quale era già stato negato l’ingresso nel 2015 mentre dalla Giordania si accingeva ad entrare in Cisgiordania, era stata informata che avrebbe dovuto richiedere il visto in anticipo prima di recarsi in Israele e nei Territori palestinesi occupati.
La memoria e il futuro palestinese corrono da Sabra e Shatila a Gaza
Libano/Gaza. Ieri a Shatila le commemorazioni della strage di 36 anni fa. A Gaza un palestinese ucciso dall’esercito israeliano durante le nuove manifestazioni della Marcia del Ritorno
di Michele Giorgio (il manifesto, 22.09.2018)
BEIRUT «Stefano sarebbe stato felice di vivere una giornata come questa, avrebbe visto che i suoi sforzi sono stati ripagati. E lo stesso vale per Maurizio». Schiva di natura, Antonietta Chiarini quasi si nasconde dietro lo striscione del “Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila” mentre risponde alle nostre domande. Il suo pensiero va al fratello, Stefano Chiarini, giornalista e inviato in Medio oriente per il manifesto scomparso prematuramente nel 2007, che assieme a Maurizio Musolino, altro giornalista poco più che cinquantenne deceduto due anni fa, e ad amici e compagni decise di tenere viva la memoria delle circa 3mila vittime del massacro di Sabra e Shatila compiuto nel 1982 dalle milizie libanesi di destra con l’appoggio dell’esercito israeliano che in quei giorni circondava i due campi profughi palestinesi alla periferia di Beirut.
Ci troviamo proprio nel memoriale allestito nel campo di Shatila grazie all’impegno di Stefano. Palestinesi, libanesi e decine di cittadini stranieri membri di delegazioni giunte dell’Europa e dall’Oriente, partecipano alle commemorazioni di quel massacro di civili innocenti per il quale nessuno ha mai pagato.
Antonietta Chiarini, come tutti gli anni, assieme ad altre decine di italiani, è parte della delegazione inviata a Beirut del “Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila”. Un viaggio per ricordare il passato ma che guarda anche al futuro dei palestinesi, quelli sotto occupazione militare israeliana o che sono chiusi da 70 anni in campi profughi. In particolare al loro diritto al ritorno nella terra d’origine sancito dall’Onu ma minacciato da vecchie e nuove politiche degli Stati uniti e di Israele che ora prendono di mira l’agenzia dei rifugiati Unrwa e anche dalle lotte fra le varie fazioni politiche palestinesi.
Tema su quale interviene Antonietta Chiarini:
«Spero che le differenze tra le varie fazioni e partiti palestinesi possano diventare una ricchezza per trovare una linea comune che permetta loro di avere la forza di raggiungere il traguardo della libertà e della realizzazione del diritto al ritorno». Sull’unità nazionale insiste anche Bassam Saleh, segretario del movimento Fatah in Italia. «Shatila, Gaza, Khan al Ahmar (un villaggio beduino in Cisgiordania che Israele intende demolire, ndr) sono tutti simboli della lotta dei palestinesi per i loro diritti legittimi e che necessariamente deve tornare ad essere unitaria, così come lo era in passato».
Beirut ieri appariva vicina come non mai alla Striscia di Gaza. Nel giardinetto del memoriale di Sabra e Shatila i presenti si scambiavano notizie e opinioni sulle manifestazioni previste a Gaza per il 26esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno cominciata il 30 marzo. Almeno 12mila abitanti di Gaza hanno manifestato lungo le linee di demarcazione contro la chiusura israeliana.
La protesta è ripresa con forza in conseguenza del fallimento, ormai evidente, delle trattative in corso al Cairo da settimane per un accordo di cessate il fuoco a lungo termine tra Israele e il movimento islamico Hamas. Colloqui volti anche ad allentare il blocco israeliano del piccolo territorio palestinesi. Le manifestazioni sono destinate a crescere nelle prossime settimane e la risposta di Israele potrebbe sfociare in una ampia offensiva militare su Gaza.
Negli ultimi giorni almeno sei palestinesi sono stati uccisi. Ieri la settima vittima, colpita dal fuoco dei soldati israeliani in una giornata lungo le linee di demarcazione che ha vissuto momenti drammatici nella fascia orientale della Striscia, in particolare all’altezza di al Burej, Johr a Dik e Khan Yunis. Qui i manifestanti sarebbero riusciti, sia pure per pochi secondi, a superare le barriere per poi rientrare a Gaza sotto il fuoco dell’esercito che ha anche sparato su un posto di osservazione di Hamas dopo il ferimento di un militare per lo scoppio di un ordigno. In serata il bilancio provvisorio delle manifestazioni era, oltre al palestinese ucciso, di circa 300 feriti di cui 54 colpiti da proiettili. Dal 30 marzo sono stati uccisi a Gaza almeno 183 palestinesi.
Ahed Tamimi: l’occupazione ci prende anche la giovinezza
Intervista. Parla la 17enne di Nabi Saleh divenuta un simbolo della resistenza palestinese per gli schiaffi dati a due soldati lo scorso dicembre. «Gli israeliani mi accusano di essere una ragazza violenta ma la vera violenza è quella che compie l’occupazione che ci ruba la terra, ci imprigiona e ci nega la libertà»
di Michele Giorgio (il manifesto, 01.08.2018)
NABI SALEH Il giardino di casa Tamimi nel villaggio cisgiordano di Nabi Saleh in questi giorni è una enorme sala d’attesa per giornalisti, delegazioni, amici e parenti. Tutti, rispettando una rigida agenda di incontri, attendono il proprio “turno” per salutare, intervistare o semplicemente per stringere la mano ad Ahed Tamimi. Il simbolo della resistenza palestinese, scarcerata domenica da Israele, è tornata a casa dopo otto mesi in prigione assieme alla mamma Nariman, condannata alla stessa pena detentiva per aver filmato e postato sui social gli schiaffi dati dalla figlia a due soldati israeliani lo scorso dicembre.
Basem Tamimi, padre di Ahed e noto attivista, è il più attento ai bisogni dei presenti. Trova comunque il tempo di chiederci informazioni sulla vicenda di Jorit Agoch, il writer napoletano detenuto dalla polizia israeliana e poi rimandato in Italia (non potrà ritornare in Israele e nei Territori occupati per i prossimi dieci anni) perché ha realizzato sul Muro che divide Betlemme da Gerusalemme un bellissimo enorme ritratto di Ahed Tamimi. La ragazza, 17 anni compiuti lo scorso gennaio, appare nel giardino qualche minuto dopo. Sul volto porta la fatica tre giorni passati tra centinaia di persone e sotto i riflettori di tutto il mondo. Dice di aver dormito poco. Però non rinuncia ad rispondere alle domande dei giornalisti.
Cominciamo dal giorno in cui hai preso a schiaffi i soldati israeliani.
Ero molto nervosa per quello che stava accadendo intorno a me. (Donald) Trump qualche giorno prima proclamato Gerusalemme capitale di Israele e i soldati israeliani avevano ucciso o ferito tanti palestinesi durante le proteste (seguite all’annuncio del presidente Usa,ndr). In più mio cugino Mohammed, poco più di un bambino, era stato ferito gravemente alla testa da un proiettile sparato dai soldati. Cose avvenute tutte insieme che mi hanno portato a reagire in quel modo nei confronti di chi occupa la nostra terra. Penso sia una reazione comprensibile da ogni persona costretta vivere le mie stesse esperienze. Comunque anche se avessi saputo che quel gesto mi avrebbe portato per mesi in prigione, avrei agito ugualmente in quel modo.
Le autorità israeliane ti definiscono una ragazzina aggressiva e con una storia di violenza.
Violenta piuttosto è l’occupazione israeliana che priva i palestinesi della libertà, che prende le nostre terre, demolisce le nostre case, uccide ragazzini o li mette in prigione. E ce ne sono tanti in carcere in questo momento in cui sto parlando che scontano delle condanne molto severe e non dobbiamo dimenticarli. Gli israeliani non hanno diritto di accusarmi e di accusare altri palestinesi di essere violenti. Allo stesso tempo penso che la nostra lotta si possa esprimersi in varie forme, anche diffondendo la nostra cultura, spiegando ai cittadini di altri paesi le ragioni e la storia del popolo palestinese.
Torniamo ai giorni successivi all’arresto. Durante gli interrogatori ti è stata assicurata la protezione che si deve ad una adolescente in stato di detenzione?
Non mi hanno mai trattata come un’adolescente e neppure come una adulta o come dovrebbe essere trattato qualsiasi essere umano. Mi hanno messo in cella con detenute per reati comuni, criminali che mi rivolgevano offese volgari. Durante gli interrogatori minacciavano di punire la mia famiglia. Non hanno mai permesso ai miei familiari di essere presenti e nella stanza dove di volta in volta venivo portata c’erano sempre solo uomini. In nessun caso una donna è stata presente agli interrogatori.
Sei molto giovane, la prigione ti avrà privata di tante cose.
Davvero molte. Prima di tutto gli affetti della famiglia. Mia madre era nella stesso carcere ma non potevo vederla perché si trovava in una sezione dove non potevo accedere. Mi è mancato passare del tempo e scherzare con mio fratello. Mi sono mancate le mie amiche, passeggiare assieme a loro. Sono state tante le cose che avrei voluto fare e non ho potuto. In carcere però ho studiato per non perdere l’ultimo anno delle superiori e sono riuscita a sostenere gli esami della maturità (dopo una serie di proteste negli anni passati, le autorità israeliane hanno concesso ai detenuti politici palestinesi di poter continuare gli studi in cella, anche se con modalità e condizioni molto particolari, ndr).
Come vedi la tua vita di adolescente nell’immediato futuro e da giovane adulta negli anni che verranno?
Sto vivendo una fase molto complessa. Ho vissuto un’esperienza dura dalla quale sono uscita molto provata. In questi giorni mi sento stanca e provo un malessere generale. Penso che l’occupazione israeliana e il carcere mi abbiamo preso una parte della vita e della giovinezza. Ho perduto sul piano personale qualcosa che non riuscirò a recuperare. Questo è il prezzo che tutti noi palestinesi siamo costretti a pagare a causa dell’occupazione . Malgrado ciò sono pronta a pagarlo se alla fine di questo tunnel c’è la liberazione del nostro popolo.
Credi che sia ancora possibile una soluzione giusta per i palestinesi?
La soluzione è tornare a prima dell’occupazione della Palestina quando gli ebrei e i palestinesi cristiani e musulmani vivevano in pace rispettandosi tra di loro. I problemi esistono a causa dell’ideologia sionista. I palestinesi non sono contro gli ebrei e l’Ebraismo ma contestano il Sionismo e l’occupazione.
Intendi che la soluzione è tornare al prima del 1948?
Anche più indietro perché prima del 1948 c’erano il colonialismo e il Mandato della Gran Bretagna. Prima di ciò, da quanto ho letto nei libri e ho ascoltato dai nostri anziani, esisteva una clima di pace e di ottime relazioni tra tutte le componenti della società.
Dopo la tua scarcerazione hai dichiarato che in futuro avrai un ruolo in politica, resterai indipendente o pensi di entrare in un partito politico?
Continuerò a partecipare attivamente alla lotta per i diritti del mio popolo ma non intendo unirmi ad alcuna forza politica. La Palestina e i palestinesi non appartengono a un partito o a un movimento politico.
Come giudichi le divisioni tra le forze politiche palestinesi, tra Cisgiordania e Gaza?
In modo del tutto negativo naturalmente. Queste divisioni e la rivalità non aiuteranno un alcun modo la nostra causa. Solo l’unità potrà dare ai palestinesi la libertà.
Proseguirai gli studi?
Senza dubbio. Non ho ancora deciso bene ma andrò all’università. Sono orientata a studiare diritto internazionale, perché credo che la conoscenza delle leggi internazionali potrà darmi gli strumenti per aiutare il mio popolo.
Quanto peserà sul tuo futuro la notorietà e il simbolo della resistenza all’occupazione che oggi rappresenti per tutti i palestinesi.
Sono la ragazza di sempre, non sono cambiata ma sento il peso sulle mie spalle di questa notorietà. Tuttavia è anche una grande opportunità che mi viene offerta, quella di diffondere informazioni su quanto accade nella mia terra, al mio popolo, e di parlare della condizione dei detenuti (palestinesi) nelle carceri israeliane.
Usa fuori dal Consiglio dei diritti umani, Netanyahu ringrazia
Usa/Onu. Il premier israeliano applaude alla decisione dell’Amministrazione Trump di abbandonare anche questo organismo dell’Onu. La sintonia tra Usa e Israele è totale. Intanto nuova fiammata di guerra a Gaza
di Michele Giorgio (il manifesto, 21.06.2018)
GERUSALEMME Grazie Trump «per il coraggioso passo contro l’ipocrisia e le bugie del cosiddetto Consiglio dei diritti umani dell’Onu». Il governo israeliano di Benyamin Netanyahu ringrazia il presidente americano per la decisione di far uscire gli Usa dall’organismo delle Nazioni Unite annunciata martedì notte dal Segretario di stato Mike Pompeo e dall’ambasciatrice Usa al Palazzo di vetro Nikki Haley. Ne ha tante di ragioni Israele per ringraziare l’Amministrazione Trump impegnata in un’opera costante di demolizione delle Nazioni unite e del diritto internazionale.
Dopo gli attacchi alla funzione dell’Onu, il veto alla nomina di un palestinese (l’ex premier dell’Anp Salam Fayyad) come inviato speciale per la Libia, l’uscita dall’Unesco in appoggio alle posizioni israeliane, il riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale di Israele, il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv nella città santa e l’uscita degli Usa dall’accordo sul programma nucleare iraniano, ora giunge questo nuovo “regalo”.
Per qualcuno è altro schiaffo dell’Amministrazione Usa al sistema delle relazioni internazionali, che siano organizzazioni o accordi non in linea con le priorità americane. In questo caso, come in tutti quelli elecati prima, sul tavolo non ci sono le priorità americane bensì quelle israeliane, a conferma della completa sintonia tra Washington e Tel Aviv. «Invece che occuparsi dei regimi che violano i diritti umani quel Consiglio si è ossessivamente fissato con Israele, unica vera democrazia del Medio oriente», afferma Washington.
Sono le parole che hanno usato i premier israeliani tutte le volte che il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu ha criticato o condannato lo Stato ebraico. Le violazioni che commette Israele, viene ripetuto, sarebbero inesistenti o comunque insignificanti rispetto a quelle che avvengono in altri paesi della regione, quindi il Consiglio dovrebbe occuparsi solo di quelle.
Colonizzazione di territori occupati militarmente, arresti arbitrari, detenzioni senza processo, confisca di terre, demolizioni di case, blocco di Gaza, uso della forza contro i civili palestinesi in corso da 51 anni a questa parte sono cose da nulla per Pompeo e Haley. Per loro il Consiglio dell’Onu è «la fogna della faziosità politica». «Prendiamo questa decisione perché il nostro impegno non ci permette di continuare a far parte di un’organizzazione ipocrita e asservita ai propri interessi che ha fatto dei diritti umani una barzelletta», ha proclamato Haley.
La decisione era nell’aria da tempo, non è una sorpresa. Washington era già uscita dal Consiglio per tre anni durante l’amministrazione di George W. Bush ma era tornata a farne parte con Barack Obama. Gelida (e inutile) la reazione del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che si è limitato a fare sapere che «avrebbe preferito che gli Stati Uniti rimanessero nel Consiglio», sottolineando che «l’architettura delle Nazioni Unite sui diritti umani svolge un ruolo molto importante nella loro promozione e protezione in tutto il mondo».
Nel frattempo la tensione resta alta lungo le linee tra Gaza e Israele. Netanyahu ha avvertito che se i palestinesi invieranno ancora “palloni incendiari” da Gaza verso il territorio israeliano «Il pugno di ferro dell’esercito colpirà con potenza...Siamo pronti ad ogni scenario ed è meglio che i nostri nemici lo capiscano e subito». L’avvertimento è giunto dopo una nuova notte di lanci di razzi palestinesi e di attacchi aerei israeliani (25 contro presunti obiettivi di Hamas) che spingono Gaza verso un nuovo conflitto a quattro anni di distanza dall’offensiva “Margine Protettivo”.
I media israeliani, aiutati da quelli europei e americani, preparano l’opinione pubblica internazionale ignorando il blocco di Gaza che dura da 12 anni e parlando solo di “guerra degli aquiloni” in riferimento ai lanci dei palestinesi che hanno provocato incendi in alcuni campi coltivati oltre le linee di demarcazione. Pochi ricordano che l’intera fascia agricola di Gaza a ridosso di Israele da anni è quasi inaccessibile ai contadini palestinesi sui quali i soldati non esitano ad aprire il fuoco quando si avvicinano “troppo” alle barriere di separazione.
Cisgiordania, sarà demolita la celebre “Scuola di gomme” dei beduini
Gli abitanti del villaggio trasferiti ad Abu Dis, tensioni fra Israele e Ue
di Giordano Stabile (La Stampa, 25.05.2018)
La Corte Suprema israeliana ha autorizzato la demolizione del villaggio beduino Khan el-Ahmar, in Cisgiordania, e della celebre “Scuola di gomme”, realizzata con copertoni riciclati da una ong italiana con l’aiuto della cooperazione europea. I giudici hanno stabilito che sono stati costruiti senza i necessari permessi. Il quotidiano Haaretz ha precisato che i giudici hanno respinto gli appelli dei 200 abitanti che si oppongono al trasferimento nella vicina località di Abu Dis. La sentenza mette così fine ad anni di battaglie legali. I beduini si sono sempre opposti a un provvedimento che li costringerebbe ad abbandonare la loro vita di nomadi.
La “Scuola di gomme” è un progetto realizzato dalla Ong italiana Vento di Terra, nell’ambito della cooperazione fra l’Unione europea e l’Autorità nazionale palestinese. I rapporti fra Ue e Israele in questo momento sono tesi. Due giorni fa il ministro dell’Energia Yuval Steinitz ha invitato l’Europa “ad andare mille volte all’inferno” dopo che Bruxelles aveva chiesto un’indagine su presunte brutalità della polizia israeliana nei confronti di manifestanti arabi ad Haifa.
Oggi il ministero degli Affari Strategici israeliano ha chiesto all’Unione Europea a «interrompere i finanziamenti» alle organizzazioni non governative «che hanno legami con il terrore e promuovono il boicottaggio di Israele». Nel mirino oltre una decina di Ong europee e palestinesi che nel 2016 - stima il ministero - «hanno ricevuto oltre 5 milioni di euro dall’Ue». Israele chiede all’Ue «lo stop immediato» ai finanziamenti e «di mettere in pratica il suo impegno a rifiutare i boicottaggi».
Nuova colata di cemento israeliano sulla Cisgiordania occupata
Territori palestinesi . Il Consiglio israeliano per la pianificazione si riunirà per approvare piani per la costruzione delle prime 2.500 case e per dare il via in un secondo tempo a progetti per altre 1.400 abitazioni in 30 colonie. Trump potrebbe riconoscere il Golan siriano come parte di Israele
di Michele Giorgio (il manifesto, 25.05.2018)
GERUSALEMME Israele costruirà altri 3.900 alloggi nei suoi insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata. Ad annunciarlo ieri, con un tweet, è stato il ministro della difesa Avigdor Lieberman, in apparente ritorsione alla decisione presa martedì dai palestinesi di chiedere alla Corte penale internazionale dell’Aja di avviare una indagine contro Israele per crimini di guerra.
Il Consiglio israeliano per la pianificazione si riunirà la settimana prossima per approvare piani per la costruzione delle prime 2.500 case e per dare il via in un secondo tempo a progetti per altre 1.400 abitazioni in 30 colonie in Cisgiordania, tra le quali Ariel (Nablus) e Maale Adumim, vicino Gerusalemme. Silenzio e, perciò, tacita approvazione da parte dell’Amministrazione Trump che dopo aver riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, nei prossimi mesi dovrebbe fare altrettanto con il Golan, un territorio siriano che lo Stato di Israele occupa dal 1967 in violazione delle risoluzioni internazionali e che si è annesso con un atto unilaterale.
Il ministro israeliano dell’intelligence, Yisrael Katz, un membro chiave del governo Netanyahu, ha detto in un’intervista che il riconoscimento statunitense dell’annessione del Golan è «in cima all’agenda» nei colloqui con la Casa Bianca. «Penso che ci sia una grande maturità e un’alta probabilità che questo passo accada», ha aggiunto il ministro, secondo cui il riconoscimento americano dovrebbe avvenire nel giro di «qualche mese». Anche in questo caso la Casa Bianca non ha commentato. (mi.gio)
Richard Falk: «Un massacro per dire ai palestinesi: la vostra è una resistenza impossibile»
Gaza. Intervista al giurista ed ex relatore speciale delle Nazioni unite: «Tel Aviv vuole convincere il mondo che non esista una soluzione. Ma i popoli ora sanno che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità militare: dalla loro parte hanno la superiorità morale e un fine più alto, l’autodeterminazione»
di Chiara Cruciati (il manifesto, 19.05.2018)
La brutalità della risposta israeliana alla Marcia del Ritorno palestinese di Gaza ha generato uno sdegno che non si vedeva da tempo. Centinaia di manifestazioni in tutto il mondo e inusuali condanne da parte di molti governi. La Lega Araba si è risvegliata dal torpore e chiesto un’indagine internazionale; il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha votato per il lancio di un’inchiesta.
Ne abbiamo discusso con Richard Falk, professore emerito di diritto internazionale alla Princeton University e dal 2008 al 2014 relatore speciale per le Nazioni unite sulla questione palestinese.
In un suo articolo, scritto dopo la strage di Gaza di lunedì scorso, parla di un «nuovo livello di degradazione morale, politica e legale» israeliana. Un “salto di qualità” nell’uso della forza?
Siamo di fronte a un nuovo livello di quella che chiamo alienazione morale, visibile nella normalizzazione dell’uccisione a sangue freddo di manifestanti disarmati, senza nemmeno tentare di usare metodi alternativi per la messa in sicurezza dei confini. Quello di Gaza ha i contorni di un massacro calcolato, confermato dalle dichiarazioni della leadership israeliana. Parte dello sviluppo di questa alienazione morale è la luce verde data dalla presidenza Trump: qualsiasi cosa Israele voglia fare, può farlo. Sono due le dimensioni del massacro: la motivazione interna israeliana nell’affrontare la questione palestinese e la tolleranza esterna.
Dice massacro calcolato: qual è l’obiettivo politico?
Le ragioni ufficiali, Hamas e la sicurezza dei confini, non sono quelle reali. Quello che Israele vuol fare è convincere i palestinesi di essere impegnati in una resistenza impossibile. E mandare un messaggio all’Iran e agli altri avversari nella regione: Israele non ha limiti nell’uso della forza, questa sarà la reazione verso chiunque.
La legalità internazionale esiste ancora?
Le regole ci sono, quel che manca è la volontà politica di applicarle. Oggi prevalgono i fattori geopolitici. La questione palestinese è l’esempio più ovvio di questo «veto geopolitico», che annulla qualsiasi sforzo di far rispettare la legalità internazionale e di prendere misure nel caso di violazioni. A ciò si aggiunge un altro elemento: Israele sta provando a far passare l’idea che i palestinesi hanno perso la battaglia della soluzione politica e che dunque non c’è ragione di usare strumenti politici per proteggerli dalle politiche israeliane. Israele vuole convincere il mondo che questo tipo di lotta non abbia più significato e valore. La conseguenza è visibile: il veto geopolitico protegge Israele e lega le mani all’Onu, incapace di offrire protezione. Così si indebolisce l’intero sistema.
È dunque esercizio futile pensare a procedimenti legali per i crimini commessi da Israele?
Il diritto penale internazionale è sempre stato un sistema imperfetto perché non si applica agli Stati che godono di un certo livello di impunità. Dopo la seconda guerra mondiale, i tribunali di Norimberga e Tokyo giudicarono solo i crimini commessi dagli sconfitti, non quelli commessi dai vincitori, penso alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Quei crimini non furono perseguiti, ma «legalizzati»: l’atomica si è tradotta nella proliferazione di armi nucleari. La struttura del diritto penale internazionale si basa su un doppio standard che si esprime sul piano istituzionale nel potere di veto riconosciuto ai vincitori della guerra, veto che li esenta dall’obbligo di rispondere delle proprie azioni e che si estende ai paesi amici.
Possiamo chiederci da cosa derivi l’impunità israeliana attuale: da una parte dai paesi arabi preoccupati da quella che percepiscono come la minaccia iraniana e che li spinge a normalizzare i rapporti con Israele; dall’altra dall’amministrazione Usa che sta ringraziando i sostenitori interni della campagna di Trump. Su questi altari si sacrifica la visione degli ebrei liberali che vogliono una soluzione politica.
Lei ha spesso parlato di regime di apartheid, nei Territori Occupati ma anche dentro Israele. Un sistema unico: il palestinese è discriminato ovunque si trovi (che risieda nei Territori o sia cittadino israeliano), l’israeliano gode di privilegi ovunque esso viva, a Tel Aviv come in una colonia.
Il cuore del conflitto non è la terra, ma i popoli. L’intera idea di uno Stato ebraico implica lo svuotamento della Palestina storica dai non ebrei. Ma a differenza del Sudafrica, Israele intende anche porsi come democrazia. L’apartheid israeliana, dunque, non passa per la negazione della cittadinanza ai palestinesi che vivono nel territorio dello Stato, ma in una serie di leggi che distinguono tra chi è ebreo e chi non lo è, dal diritto al ritorno fino alla proprietà della terra. A ciò si aggiunge l’elemento della frammentazione del popolo palestinese: l’apartheid passa per la divisione dei palestinesi in territori separati e dunque in diversi status giuridici.
Vede all’orizzonte un cambiamento positivo?
L’ultimo secolo ha dimostrato che l’impossibile a volte è possibile. Penso alla fine dell’apartheid in Sudafrica o più recentemente alle primavere arabe. Lì a prevalere non sono state le parti più forti ma quelle deboli. Dopo l’epoca coloniale una delle trasformazioni a cui abbiamo assistito è la ridefinizione dei rapporti di forza: non sempre la forza militare vince su quella politica. Pensate al Vietnam. I popoli hanno imparato che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità militare perché dalla loro parte hanno la superiorità morale e la capacità di elaborare le perdite per un fine più alto, l’autodeterminazione.
Nakba, la catastrofe infinita
di Tommaso Di Francesco (il manifesto, 16.05.2018)
I settant’anni dello Stato d’Israele sono anche i settant’anni della Nakba, la «Catastrofe» del popolo palestinese, la cacciata nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi (da 700mila a un milione) in una operazione di preordinata pulizia etnica che li ha trasformati nel popolo profugho dei campi. A confermare laa doppiezza strabica degli eventi nel rapporto di causa ed effetto, è arrivato lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, la festa della «grande riunificazione» di Netanyahu; proprio mentre la promessa elettorale mantenuta di Trump provocava la rivolta e la strage di 60 giovani nel tiro al piccione a Gaza. Secondo i versi del poeta palestinese Mahmud Darwish: «Prigionieri di questo tempo indolente!/ non trovammo ultimo sembiante, altro che il nostro sangue».
Invece sulla descrizione in atto del massacro si esercitano gli «stregoni della notizia»: così abbiamo letto di «ordini dalle moschee di andare correndo contro i proiettili», di «scontri», di «battaglia» e «guerriglia». Avremmo dunque dovuto vedere cecchini, carri armati e cacciabombardieri palestinesi fronteggiare cecchini, tank e jet israeliani, con assalti di uomini armati. Niente di tutto questo è avvenuto e avviene. Invece, nella più completa impunità, la prepotenza dell’esercito israeliano sta schiacciando una protesta armata di sassi, fionde e copertoni incendiati. Per Netanyahu poi si tratterebbe di «azioni terroristiche».
Ma la verità è che un popolo oppresso che manifesta contro un’occupazione militare ricorda solo la nostra Liberazione e il diritto dei palestinesi sancito da ben tre risoluzioni dell’Onu (una del 1948 proprio sul «diritto al ritorno»). Sì, la festa triste di un popolo, guidato da Netanyahu e dal nuovo «re d’Israele» Trump, vive della catastrofe di un altro popolo. Che si allunga all’infinito con la proclamazione di Gerusalemme «unica e storica capitale indivisibile di Israele». Altro che due Stati per due popoli: nemmeno due capitali. Intanto per lo Stato d’Israele il «diritto al ritorno» è costitutivo della natura esclusiva di Stato ebraico.
Ai palestinesi al contrario è permesso solo di vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle guerre occidentali e come migranti nei propri territori occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est); di sopravvivere alla fame nel ghetto della Striscia di Gaza.
Questa è la condizione palestinese, con il muro di Sharon che ruba terre alla Palestina e taglia in due famiglie e comunità; posti di blocco che sospendono nell’attesa le vite umane; lo sradicamento di colture agricole e le fonti d’acqua sequestrate; le uccisioni quotidiane; e una miriade di insediamenti colonici ebraici che hanno ormai cancellato la continuità territoriale dello Stato di Palestina.
Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 dal Cairo dichiarava: «Sento il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato». E dopo i voltafaccia dell’Ue che si barcamena sull’equidistanza impossibile e tace, mentre ogni governo occidentale fa affari in armi e tecnologia, e con patti militari - come l’Italia - con Israele, che è da settant’anni in guerra e che occupa terre di un altro popolo.
Allora o si rompe il silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti - come se Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, quando invece da una parte c’è lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, mentre dall’altra lo Stato palestinese semplicemente non esiste - oppure sarà troppo tardi.
Il nodo mai sciolto - Rabin a parte, non a caso assassinato da un integralista ebreo - da tutti i governi israeliani resta quello del diritto dei palestinesi di avere una terra e uno Stato, fermo restando il diritto eguale d’Israele. Che se però non lo riconosce per la Palestina perché dovrebbe pretenderlo per sé? I due termini ormai si sostengono a vicenda oppure insieme si cancellano. Tanto più che la demografia ormai racconta che le popolazioni arabe hanno oltrepassato la misura di quelle ebraiche. O si avvia una trasformazione democratica dello Stato d’Israele che decide di perdere la sua natura etnico-religiosa di «Stato ebraico», con la pretesa arrogante che i palestinesi occupati lo riconoscano come tale; oppure si conferma la dimensione acclarata di Stato di apartheid come in Sudafrica; con i territori occupati come riserve per i «nativi» nemici.
Scriveva Franco Lattes Fortini nella sua Lettera aperta agli ebrei italiani nel maggio 1989, nella la fase più acuta della Prima intifada: «Con ogni casa che gli israeliani distruggono, con ogni vita che quotidianamente uccidono e perfino con ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura occidentale, è stato accumulato dalle generazioni della diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea e cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere».
Provate a rileggere la grande lezione morale di S. Yizhar (Yzhar Smilansky), il fondatore della letteratura israeliana, che in un piccolo romanzo del 1949 Khirbet Khiza - significativamente un titolo in arabo, conosciuto da noi come La rabbia del vento, che aprì un dibattito sulle basi etiche del nuovo Stato - racconta la storia di una brigata dell’esercito israeliano impegnata con la violenza a cacciare famiglie palestinesi.
Il romanzo finisce con queste parole di dolore e rammarico: «I campi saranno seminati e mietuti e verranno compiute grandi opere. Evviva la città ebraica di Khiza! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato (...) Finché le lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. Allora dissi: non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui!».
Leila, simbolo del dolore di Gaza
Gaza. I genitori di Leila Ghandur, la bimba di otto mesi soffocata lunedì dai gas lacrimogeni, negano di aver portato la figlia sotto le barriere con Israele. Ieri, giorno della Nakba, altri due palestinesi uccisi dall’esercito israeliano mentre Gaza piange ancora le 60 vittime della strage di lunedì
di Michele Giorgio (il manifesto, 16.05.2018)
GAZA Il dolore muto di Anwar Ghandur contrasta con il clamore e lo sdegno che ha suscitato nel mondo la morte della figlioletta di otto mesi, Leila, soffocata lunedì dai gas lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani. Sotto la tenda del lutto nel quartiere di Zeitun, a Gaza city, siedono parenti e amici. Si alzano tutti in piedi per stringere la mano a chi porta vicinanza e condoglianze. Un ragazzo serve ai presenti caffè amaro. Anwar ha 27 anni e il volto di un adolescente. Sua moglie Maryam ne ha appena 19. «È stato un colpo duro, per me e soprattutto per mia moglie» dice «già un anno fa avevamo perduto il nostro primo bimbo, Salim, di un anno. La sera si era addormentato tranquillo ma non si è più svegliato, è morto nel sonno». Arrivano altre persone, tra queste Jamal Khudari, fino a qualche anno fa presidente del Comitato contro l’assedio di Gaza. Anwar va a salutarlo. Una stretta di mano veloce, Khudari sussurra qualche parola di conforto. Il giovane padre torna da noi. «Maryam aveva ritrovato la serenità quando ha partorito Leila. Abbiamo perduto anche lei e mia moglie è devastata». La giovane mamma resta in casa, non solo per la tradizione che separa i sessi nelle occasioni pubbliche di lutto. Semplicemente non ce la fa a parlare, ci spiega Anwar.
Sui social infuria lo scontro tra chi denuncia l’orribile morte di una bimba a causa dei lacrimogeni e chi difende Israele sempre e comunque, contro ogni evidenza, non mancando di accusare i Ghandur di imprudenza se non addirittura di aver lucidamente portato la figlia fino alle barriere di demarcazione, sotto il fuoco dei soldati isreliani e nel fumo dei lacrimogeni per provocarne la morte e mettere sotto accusa Israele.
Anwar non sa di questa insana battaglia in internet. Le ultime ore le ha passate a piangere Leila e a confortare la moglie. «La mia bimba era molto lontana dalle barriere» ci racconta «era con la mamma, la nonna e la zia in una tenda (ad est di Shajayie,ndr) dell’accampamento». Tutto è accaduto in pochi attimi. «Mia moglie - prosegue - mi ha detto che ad un certo punto sopra ed intorno alla tenda sono caduti diversi candelotti lacrimogeni sganciati da un drone israeliano. La tenda è stata avvolta in una nuvola di fumo, sono scappate ma Leila nel frattempo aveva inalato molto gas. Ha perduto i sensi subito, all’ospedale è arrivata morta». Per Israele e la descrizione che ne danno molti mezzi d’informazione gli accampamenti di tende eretti per la “Grande Marcia del Ritorno” cominciata il 30 marzo nella fascia orientale di Gaza non sarebbero altro che delle “basi di lancio” di attacchi alle barriere e di preparazione di attentati. Piuttosto sono punti di riunione per migliaia di civili, per le famiglie, situati a parecchie centinaia di metri dalle recinzioni. In alcuni di essi spesso organizzati momenti di intrattenimento e dibattiti.
Ciò che non viene riferito a sufficienza è che l’esercito israeliano ha a disposizione nuovi “mezzi di dispersione” delle manifestazioni, come i cannoncini che sparano in pochi secondi decine di candelotti a grande distanza e anche droni che dall’alto sganciano i lacrimogeni sui manifestanti che si avvicinano alle barriere e anche su quelli fermi molto più indietro. Proprio i lacrimogeni sparati da un drone hanno provocato la morte di Leila, secondo il racconto che ci ha fatto il padre. Le autorità di Gaza hanno aperto una indagine per accertare le cause della morte della bimba. Così come quella di altri otto ragazzi, con meno di 16 anni, che figurano tra le 60 vittime della strage di lunedì.
L’accampamento di Abu Safieh a Est di Jabaliya ieri ha cominciato ad affollarsi dopo le 15. E così tutti gli altri lungo la fascia orientale di Gaza. Si diceva che dopo il massacro avvenuto il giorno prima, i palestinesi sarebbero rimasti a casa, per paura e per il lutto. Ma il 15 maggio, il giorno della Nakba, la ”catastrofe” del 1948 e i suoi profughi ancora in esilio e ai quali Israele non permette il ritorno, sono motivi che più di altri spingono i palestinesi in qualsiasi punto del pianeta a ricordare e a protestare. «Gli israeliani dovranno ucciderci tutti ma non ci arrendiamo, non ci faranno dimenticare i nostri diritti», ci dice Husan al Sheikh, parente di una delle vittime di lunedì. «Siamo qui per dire che non accetteremo un’altra Nakba», aggiunge. Il fuoco dei soldati israeliani ieri ha fatto nuove vittime: un uomo di 51 anni e un giovane. I feriti sono stati oltre 250.
Ghassan Abu Sitta è un chirurgo ortopedico di origine palestinese che lavora nel più prestigioso e meglio attrezzato degli ospedali libanesi, quello che fa capo all’università americana. A fine mese guadagna quanto gli stipendi messi insieme di una dozzina di colleghi di Gaza. Però non dimentica la sua terra e tutte le volte che può corre a Gaza da volontario. «Questa è la mia gente, ogni palestinese ha il dovere di dare un contributo, siamo ad un momento di svolta. Israele e gli Usa vogliono cancellare la questione palestinese».
In questi giorni Abu Sitta è impegnato all’ospedale al Awda nel nord di Gaza. «L’afflusso di feriti è incessante» ci dice il chirurgo «e il tipo di ferite mi sconvolge, perché questi proiettili si spezzano quando entrano nel corpo e i frammenti corrono verso punti diversi distruggendo vasi sanguigni, muscoli, ossa. Ad un paziente ho estretto pezzi di uno stesso proettile nelle gambe, nei genitali e nell’addome. Con i miei colleghi facciamo il possibile ma tanti di questi feriti saranno disabili per sempre». Mentre torniamo verso Gaza city, scorgiamo nelle strade più affollate alcuni giovani con una gamba fasciata che avanzano lentamente aiutondosi con le stampelle. Altri con un braccio fasciato e legato al collo. Ne contiamo nove fino all’arrivo. Sono solo una frazione delle migliaia di feriti di queste ultime settimane. I funerali che ieri hanno attraversato Gaza si sono portati via per sempre di giovani e ragazzi, i disabili ci ricorderanno per anni l’orrore di questi giorni.
L’Italietta che glorifica Netanyahu
Giro d’Italia dell’apartheid. Ospitare le tappe del Giro è l’ultimo strumento di abbagliamento mediatico di una propaganda mirante a dissolvere l’identità palestinese, a negarne la titolarità, a farne dimenticare l’interminabile tragedia di cui è vittima dietro alla cortina fumogena della mitografia sionista
di Moni Ovadia (il manifesto, 08.05.2018)
Il nostro Gino nazionale come l’avrebbe preso questo espatrio del nostro Giro in terra promessa? Il suo leggendario naso da italiano in gita sarebbe rimasto indifferente o si sarebbe stortato per l’indignazione di fronte alla partecipazione del ciclismo italico alla vergognosa operazione di strumentalizzazione mediatico-retorica di uno sport popolare per fini non certo nobili?
Il governo israeliano ha presentato le tappe che si sono svolte in Israele come un modo per onorare Gino Bartali, che fu un «giusto fra i popoli», in occasione del 70esimo anniversario della nascita e fondazione dello Stato d’Israele, Stato ebraico che si era proposto di raccogliere gli ebrei dispersi e sopravvissuti alla Shoà e ad altre persecuzioni per dare loro un focolare e invece in sette decenni il «sogno» è diventato un incubo.
Un incubo per l’altro popolo che abita quella terra, il palestinese.
Il presunto focolare è diventato una fortezza sedicente democratica e armata fino ai denti. Il suo comandante in capo, il suo governo sono spasmodicamente impegnati soprattutto in un’impresa: investire su ogni sforzo, ogni risorsa per impedire all’altro popolo presente su quella terra di godere dei suoi legittimi diritti.
Ospitare tappe del Giro d’Italia è l’ultimo strumento di abbagliamento mediatico che si aggiunge alla propaganda mirante a dissolvere l’identità palestinese, a negarne la titolarità, a farne dimenticare l’interminabile tragedia di cui è vittima dietro alla cortina fumogena della mitografia sionista che glorifica i grandi successi tecnici, scientifici ed economici israeliani per giustificare un’impunità ingiustificabile.
L’ideologia ultranazionalista che sorregge tutto ciò si fonda sulla confusione di eredità religiosa ovvero il polpettone mal ricucinato di un interpretazione capziosa del «dono» divino e una lettura falsificata della pretesa elezione, condita da un martellante e costante richiamo alla Shoà come arma di ricatto nei confronti delle vittime dell’oppressione coloniale e militarista e della pavida e ipocrita comunità internazionale che preferisce tacere o vagire qualche pseudo rimprovero tanto patetico quanto inutile.
E non stupisce che l’istituzione sportiva del nostro paese si sia piegata alla strategia del premier israeliano che non vuole la pace ma solo una costante tensione bellicista per restare al potere ininterrottamente per espropriare, rubare, inglobare le risorse delle sue vittime elettive.
La nostra italietta per cosa si è prestata a questa ulteriore e ingiusta sceneggiata. Per soldi? E non poteva farlo per legare l’iniziativa a progetti di pace? Ma siamo matti? La pace è troppo pericolosa per il moderatismo nostrano. Lo sanno quale è il livello di devastazione in cui versa Gaza? Per l’amore del cielo non parliamo di tristezze!
E quale sarà il passo successivo? Il prossimo festivàl di Sanremo condotto da Netanyahu e Trump nella Gerusalemme eterna e unificata dello Stato di Israele in mondovisione?
C’è da aspettarsi di tutto, davvero di tutto, nella Città Santa, fuorché una pace equa basata sull’eguaglianza e la giustizia.
Gaza senza più nulla da perdere si prepara al venerdì di sangue
Israele/Striscia di Gaza. Negli accampamenti sorti nella fascia orientale della Striscia i palestinesi predispongono trincee per proteggersi dagli spari dell’esercito israeliano. Il governo Netanyahu conferma la linea del pugno di ferro lungo il confine e attacca la ong dei diritti umani B’Tselem che ha chiesto ai soldati di non aprire il fuoco sui civili palestinesi
di Michele Giorgio (il manifesto, 05.04.2018)
GAZA «Non voglio morire, voglio vivere, ma è meglio la morte di questa vita da prigioniero, senza futuro». Non è una frase gettata lì, a caso. Karim, 22 anni, dice ciò che realmente pensano lui e i suoi giovani compagni, riuniti in una tenda per la colazione. Qualche pezzo di pane preparato in casa, un paio di piatti con dell’hummus, qualche pomodoro. Tutti hanno dormito lì come testimoniano i resti di un falò a pochi metri dalla tenda. Sono le 9 e nell’accampamento “Abu Safie”, ad Est di Jabaliya, uno dei cinque allestiti la scorsa settimana nella fascia orientale di Gaza per la “Marcia del Ritorno”, fa già molto caldo. Il sole picchia forte sulle tende e le altre strutture alzate dai palestinesi a diverse centinaia di metri dalle linee di demarcazione con Israele.
Dall’altra parte delle barriere ci sono i soldati, inclusi i tiratori scelti che venerdì scorso hanno ucciso 14 palestinesi e ferito altre centinaia con munizioni vere e rivestire di gomma. Altri quattro sono spirati negli ospedali dove restano ricoverate decine delle centinaia di persone colpite dal fuoco dei militari israeliani. «Due dei miei amici sono stati feriti, grazie a Dio non in modo non grave», ci dice Karim indicando un paio di ragazzi, uno avrà non più di 14 anni e sta in piedi appoggiandosi a una stampella. «Venerdì sarà un giorno di sangue, gli israeliani ci spareranno contro ma non abbiamo paura. Non abbiamo nulla da perdere», spiega un altro giovane, Maher, mentre osserva il lento movimento, avanti e indietro, di una ruspa che ammassa terra lungo il lato orientale di “Abu Safie”. Lo stesso accade negli altri quattro accampamenti.
Questi terrapieni saranno le trincee dove domani i partecipanti della “Marcia del Ritorno”, cercheranno riparo se i soldati apriranno di nuovo il fuoco di nuovo sui palestinesi che proveranno ad avvicinarsi al confine. I filmati postati sui social nei giorni scorsi mostrano non pochi manifestanti colpiti quando si stavano allontando dalle barriere e persino a grande distanza da esse. «Per proteggerci daremo fuoco a cataste di vecchi pneumatici, il fumo nero non permetterà agli israeliani di prenderci di mira come hanno fatto venerdì», ci spiega sicuro del fatto suo Abu Tareq Salameh, un uomo sulla sessantina, in un’altra tenda assieme ad una decina di coetanei.
«Siamo decisi a rompere l’assedio (di Gaza). Perciò resteremo qui, non ce ne andremo, anche se ci ammazzaranno tutti», aggiunge Abu Tareq lamentandosi, come tutti i palestinesi, giovani e anziani, del debole appoggio che la “Marcia del Ritorno” ha avuto dai leader arabi. «La Lega araba non conta nulla, (martedì) si è riunita solo per scrivere parole vuote su pezzi di carta. I leader arabi amano l’America, amano Trump e pure Israele», conclude l’uomo riferendosi all’avvicinamento dell’Arabia saudita allo Stato ebraico.
Si vedrà domani se gli accorgimenti per proteggersi dagli spari studiati dai palestinesi si riveleranno utili. Israele da parte sua ha fatto sapere che userà ancora il pugno di ferro. Martedì il ministo della difesa Lieberman ha avvertito senza usare mezze parole che coloro che si avvicineranno alle recinzioni metteranno «a rischio la loro vita».
Qualche ora dopo un giovane palestinese, Ahmad Arafah, che si era spinto fin sotto alle barriere, è stato ucciso dal fuoco dei soldati. Ieri altri feriti, a est di Zaitun. Israele ha ribadito l’avvertimento in un messaggio per il movimento islamico Hamas, che controlla Gaza, affidato al capo dei servizi di intelligence dell’Egitto, Abbas Camel, ricevuto due giorni fa a Tel Aviv dal direttore dello Shin Bet (la sicurezza interna) Nadav Argaman.
Governo, partiti di destra, forze armate e la maggior parte dei media israeliani continuano a descrivere la “Marcia del Ritorno” non come una iniziativa popolare e pacifica organizzata dall’Alto Comitato per la fine dell’assedio di Gaza - include tutte le formazioni palestinesi, laiche e religiose - che andrà avanti fino all’anniversario della Nakba palestinese, il 15 maggio. Piuttosto la ritengono un piano di Hamas per lanciare «azioni terroristiche» contro Israele. Per questo hanno diffuso le foto in uniforme militare di alcune delle vittime palestinesi di venerdì, sostenendo che si trattava di militanti o simpatizzanti di Hamas e Jihad e sorvolando sul fatto che quando sono stati colpiti erano in abiti civili e disarmati (ad eccezione di due, del Jihad, responsabili di un attacco armato). Ieri Israele ha anche comunicato di aver arrestato una decina di palestinesi, sempre del Jihad, che, secondo i suoi servizi di sicurezza, si accingevano ad attaccare una motovedetta per catturare dei marinai.
Malgrado il sostegno di buona parte dell’opinione pubblica alla linea dura del governo Netanyahu, in Israele si alzano voci contro nuove stragi di palestinesi sul confine con Gaza. B’Tselem, noto centro per i diritti umani, ieri ha esortato i soldati a disobbedire agli ordini e a non sparare sui civili palestinesi se questi non porranno una minaccia per le loro vite. Si tratta di un passo raro se si tiene conto che l’esercito era e resta la spina dorsale della società israeliana e che disubbidire agli ordini militari è considerato un atto gravissimo.
B’Tselem nei suoi trent’anni di vita non ha mai invitato a rifiutare gli ordini dell’esercito ma, afferma il suo portavoce, Amit Gilutz, ritiene che sia illegale oltre che disumano sparare ai palestinesi che pongono una minaccia per la vita dei soldati. B’Tselem non nega il diritto di Israele di difendere il suo confine ma ribadisce che lo Stato ebraico deve osservare le norme internazionali per l’uso della forza. «Avvicinarsi alle barriere e persino danneggiarle non fornisce i presupposti per l’uso di forza letale...che - ricorda il centro per i diritti umani - è limitato a situazioni che comportino un pericolo mortale tangibile e immediato e solo in assenza di altre alternative». La reazione del ministro Lieberman è stata furiosa. Ha definito “sobillazione” l’appello dell’ong israeliana da lui descritta come un gruppo di «mercenari che agiscono dietro finanziamento di fondi stranieri, mercenari intenti a colpire lo stato di Israele».
È assai improbabile che ufficiali e soldati israeliani accolgano l’invito di B’Tselem e comunque nell’accampamento “Abu Safieh” neppure conoscono il centro israeliano per i diritti umani. La vita sembra scorrere normale, come se domani ad attendere i partecipanti alla Marcia del Ritorno non ci fosse un venerdì di sangue. Si puliscono i bagni chimici, le donne portano acqua e cibo, una Ong locale monta una postazione medica, qualcuno prova ad attivare il collegamento a internet. Più in fondo dei ragazzi giocano a calcio. «La mia famiglia vorrebbe vedermi diventare un architetto» dice Nidal Abu Shabaan, uno studente universitario, «lo desidero anche io ma non voglio essere un architetto prigioniero. Per questo sono qui, per essere libero».
Barghouti: unità e mobilitazione popolare
Palestina. Secondo il teorico della resistenza non violenta anche Hamas comprende che solo la mobilitazione popolare e pacifica può raggiungere gli obiettivi che sono di tutti i palestinesi
di Michele Giorgio (il manifesto, 31.03.2018)
GERUSALEMME Esponente di spicco della società civile palestinese e storico sostenitore della resistenza popolare contro l’occupazione, Mustafa Baghouti vede nella massiccia partecipazione a Gaza alla Grande Marcia del Ritorno il nuovo orizzonte al quale la popolazione e le forze politiche palestinesi dovranno guardare da oggi in poi. Lo abbiamo intervistato mentre da Gaza giungevano continue notizie di morti e feriti.
Sangue e politica, Gaza dimostra ancora una volta la sua centralità nella questione palestinese
Non è stato solo un giorno di morte e dolore di cui è responsabile solo Israele. Ci sono due punti molto importanti emersi dalla Grande Marcia del Ritorno. Il primo è che oggi (ieri,ndr) abbiamo visto sul terreno una manifestazione concreta dell’unità palestinese. Uomini , donne, ragazzi, bambini hanno partecipato a un’iniziativa che per giorni gli israeliani hanno etichettato come violenta, aggressiva, minacciosa e che invece voleva solo commemorare la Nakba e il Giorno della terra e ribadire che i palestinesi non dimenticheranno mai i loro diritti. L’unica aggressione è arrivata da Israele che ha schierato carri armati, blindati e tiratori scelti contro civili disarmati che manifestavano per i loro diritti e per difendere la loro memoria storica. Il secondo è che tutte le formazioni politiche palestinesi, incluso Hamas, hanno adottato la resistenza popolare non violenta. Il movimento islamico al di là dei suoi proclami e delle sue manifestazioni di forza, in realtà ora comprende che solo la mobilitazione popolare, non violenta, può raggiungere gli obiettivi che sono di tutti i palestinesi. A cominciare dalla fine dell’assedio di Gaza. Sono sicuro che vedremo sempre di più (nei Territori palestinesi occupati) manifestazioni con migliaia e migliaia di persone.
Chiedete alla comunità internazionale di intervenire
Condannare Israele è il minimo che è chiamata a fare ciò che definiamo come la comunità internazionale. L’Europa, ad esempio, a parole difende diritti e democrazia e poi resta in silenzio davant ai crimini e agli abusi che commette Israele. Non fiata e quando lo fa è solo per ripetere slogan e formule sterili che non servono a nulla in una situazione regionale e internazionale profondamente mutata in cui, peraltro, gli Stati Uniti hanno adottato apertamente la politica (del premier israeliano) Netanyahu proclamando Gerusalemme capitale di Israele e disconoscendo la storia della città e le rivendicazioni palestinesi.
Donald Trump probabilmente sarà di nuovo a Gerusalemme a metà maggio, per partecipare all’apertura dell’ambasciata Usa nella città.
E quando sarà qui si renderà conto che i palestinesi non si arrendono e continuano la lotta per i loro diritti malgrado debbano fare i conti con un Paese molto potente come Israele e con la superpotenza mondiale, l’America. Sono certo che la resistenza popolare vista a Gaza e in Cisgiordania in queste ore non solo andrà avanti fino al 15 maggio, quando Trump dovrebbe essere qui, ma proseguirà dopo quella data. Si trasformerà in un movimento di massa, pacifico ma molto determinato contro l’occupazione. Questa è l’unica strada che abbiamo per resistere all’oppressione israeliana e per liberarci di essa. Il resto si è dimostrato fallimentare.
Ritiene l’Autorità nazionale palestinese ai margini, non importante per la lotta popolare che lei si aspetta nelle prossime settimane
Non dico questo ma certo l’Anp dovrà cambiare radicalmente la sua strategia e rinunciare al suo attaccamento agli Accordi di Oslo del 1993 e alla formula negoziale degli ultimi venti anni. Non ci crede più nessuno e il governo Netanyahu utilizza quelle vecchie intese per proseguire indisturbato le sue politiche di occupazione e colonizzazione. La prima cosa che l’Anp dovrà fare è mettere fine alla frattura (con Hamas, ndr) perché nessun palestinese la vuole e può ancora tollerarla.
Il «panico» del ritorno uccide la pace
Israele/Palestina. Di fronte a un atto simbolico evocante l’idea del ritorno, l’uso della forza da parte israeliana è un messaggio ben chiaro: chi vuole attraversare la frontiera può essere solo un uomo morto
di Zvi Schuldiner (il manifesto, 31.03.2018)
Non è un semplice scontro e non lo si può misurare solo con il numero delle vittime. Comunque, a poche ore dall’inizio degli incidenti alla frontiera che chiude la Striscia di Gaza, i morti mentre scriviamo sono già quindici e centinaia i feriti.
Già nelle scorse settimane, la tensione era palpabile e sempre più crescente: le varie manifestazioni in programma recavano un titolo, «la marcia del ritorno», che scuoteva l’essenza stessa di Israele. Il ritorno dei rifugiati palestinesi.
Il ritorno di quanti furono espulsi dalle loro case o decisero di fuggire nel 1948. La guerra del 1967 cambiò la realtà territoriale del conflitto israelo-palestinese e la questione territoriale offrì - forse lo fa tuttora - la possibilità di arrivare un accordo storico fra i due popoli, fra due movimenti cresciuti a partire dalla fine del XIX secolo. Da una parte, il sionismo che proponeva «il ritorno alla terra dopo l’espulsione» quasi duemila anni prima; dall’altra il nazionalismo palestinese che iniziava a manifestarsi e si accentuava nel confronto con il sionismo. E a partire dal 1948 ecco l’idea del «ritorno alla terra dopo l’espulsione», come parte dell’essere palestinese.
L’inesistente processo di pace dopo l’assassinio del premier israeliano Ytzhak Rabin da parte di un israeliano estremista nel 1995, offre teoricamente la possibilità di un accordo basato sulla spartizione: i territori occupati nel 1967 sarebbero la base per uno Stato palestinese e il tanto atteso ritorno sarebbe circoscritto a quei territori e - forse - alcuni chilometri quadrati torneranno a quello che adesso è Israele.
L’altra possibilità, uno Stato unico in tutti i territori attualmente occupati da Israele, apre la porta a due possibilità: un apartheid sotto il dominio israeliano, oppure uno Stato democratico senza più la connotazione ebraico-sionista attuale.
I 343 chilometri quadrati della Striscia di Gaza nella quale due milioni di palestinesi vivono in miseria e sulla soglia di un’enorme crisi umanitaria, sono circondati da una zona militare chiusa che però non è ermetica, tanto che frequentemente alcuni palestinesi riescono ad attraversarla. Ma nelle ultime settimane il nervosismo è cresciuto enormemente; tutti temevano quanto sarebbe successo di fronte a una massa di palestinesi pacificamente in marcia per cercare di materializzare visivamente il ritorno.
Che succederà? Dovremo reprimerli con la forza e il mondo ci accuserà di crimini contro i civili? Il panico creato da questo possibile «ritorno» tocca i sentimenti più profondi degli israeliani. È anche la giornata della terra. In questo stesso giorno, nel 1976, le confische delle terre palestinesi in Israele portarono a scontri sanguinosi e la polizia israeliana assassinò sei palestinesi cittadini arabo-israeliani.
Oggi, in una delle espressioni più imponenti della resistenza palestinese, migliaia di persone stanno manifestando lungo il confine della Striscia. Enorme il nervosismo fra le truppe israeliane: «Potrebbero passare il confine e minacciare lo Stato»; ed ecco le prime vittime.
Era «previsto». Di fronte a un atto simbolico evocante l’idea del ritorno, l’uso della forza da parte israeliana è un messaggio ben chiaro: chi vuole attraversare la frontiera può essere solo un uomo morto, la forza è dalla nostra parte, attenzione.
Tutto ciò appartiene a una storia che la destra israeliana non può più permettersi: il panico creato dal ritorno è un chiaro condizionamento nei confronti della necessità di arrivare a un processo di pace evitando un peggioramento certo della situazione.
Dopo un lungo periodo di «quasi silenzio» del mondo intero, durante il quale solo proteste sporadiche hanno fatto ricordare agli israeliani che non possono continuare a dominare milioni di palestinesi senza diritti, ora la frontiera esplode. È un nuovo giorno della terra e il sangue versato è un’avvisaglia di conseguenze più gravi se non si prenderà una nuova strada.
Via da Gerusalemme i palestinesi non «fedeli» a Israele
Territori occupati. Lo prevede una legge approvata mercoledì dalla Knesset. E ora Netanyahu aspetta Donald Trump all’apertura dell’ambasciata Usa a Gerusalemme.
di Michele Giorgio (il manifesto, 09.03.2018)
GERUSALEMME Si può essere “leali” ad uno Stato che occupa illegalmente il territorio in cui vivi? L’interrogativo è riemerso due giorni fa quando la Knesset ha approvato una legge che consente al ministro degli interni israeliano di revocare lo status di residente ai palestinesi di Gerusalemme Est responsabili o complici di «attività terroristiche o anti-israeliane». Revoca che equivale all’espulsione poiché già ora una disposizione ministeriale prevede la deportazione quasi immediata di coloro ai quali è stata ritirata la residenza. Israele considera Gerusalemme la sua capitale e applica le sue leggi anche sulla zona Est, palestinese, che ha occupato nel 1967.
L’approvazione della legge è coincisa con il viaggio di Benyamin Netanyahu negli Usa dove il premier israeliano ha strappato la presenza, quasi certa, di Donald Trump alla cerimonia di apertura del’ambasciata Usa a Gerusalemme il prossimo 14 maggio, un passo conseguente al riconoscimento della città come capitale di Israele fatto dal presidente americano tre mesi fa.
Il New York Times ha rivelato che il terreno sul quale sorgerà la rappresentanza diplomatica americana ricade nella zona occupata. «È un territorio occupato - ha protestato Ashraf Khatib a nome dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina - lo status di quel territorio sarà deciso dal negoziato finale».
La legge appena approvata prevede la revoca della residenza al palestinese che «mette in pericolo la sicurezza pubblica o tradisce lo Stato» e si applica a tutti i residenti a Gerusalemme Est, quelli giunti da poco o quelli vi abitano da lungo tempo. Ed è stata redatta dopo che l’Alta Corte di Giustizia l’anno scorso annullò il ritiro, più di dieci anni fa, della residenza a quattro abitanti di Gerusalemme est: tre parlamentari del movimento islamico Hamas Mohammed Abu Tier, Ahmad Attoun e Muhammad Totah e l’ex ministro per Gerusalemme Khaled Abu Arafeh. Tutti furono accusati di «slealtà» nei confronti dello Stato di Israele. Ora sarà istituito un comitato consultivo al ministero dell’interno che valuterà la «fedeltà» dei palestinesi, tenendo conto della loro partecipazione ad attività “terroristiche”. In Israele è considerato terrorismo anche il lancio di pietre.
Il governo e l’opinione pubblica applaudono alla nuova legge. Al contrario il deputato comunista Dov Khenin, della Lista unita araba, la descrive come «pericolosa». I palestinesi di Gerusalemme Est, spiega Khenin, «vivono lì non perché hanno scelto di essere israeliani ma perché è la loro casa. Questa legge vuole imporre un obbligo di fedeltà tra loro e lo Stato di Israele che non ha alcuna logica».
Intanto proseguono le proteste palestinesi per il raid compiuto due giorni fa nel campus dell’università di Bir Zeit da una unità sotto copertura dell’esercito israeliano. Fingendosi dei manovali, gli agenti israeliani hanno bloccato Omar al Kiswani, un leader del consiglio studentesco. Poi si sono allontanati puntando le loro pistole contro i presenti, tra scene di panico e le urla degli studenti. Un’azione in stile Fauda (caos), la serie tv israeliana sulle unità speciali dei servizi di sicurezza che operano in Cisgiordania e che riscuote un enorme successo nel Paese. Nella fiction e come nella realtà le vittime sono sempre i palestinesi.
Processo a porte chiuse per Ahed Tamimi
Territori palestinesi occupati. Il giudice militare Menachem Lieberman ha giustificato la decisione con la necessità di proteggere la minore palestinese, sotto processo per aver schiaffeggiato due soldati. Per la difesa è solo un modo per non dare risonanza internazionale al caso
di Michele Giorgio (il manifesto, 14.02.2018)
Processo a porte chiuse per tutelare Ahed Tamimi, ancora minorenne, o per evitare ulteriori imbarazzi a Israele che sta processando una 17enne che ha schiaffeggiato due soldati? L’avvocato Gabi Lasky, che assiste la ragazza palestinese, non ha dubbi. «La corte ha deciso per un processo in presenza solo degli avvocati e dei familiari per tutelare i propri interessi», ossia perché il caso avesse la minore risonanza internazionale possibile, ha spiegato Lasky la decisione presa ieri dal giudice militare Menachem Lieberman di vietare a reporter e diplomatici la presenza alla prima udienza del processo a carico di Tamimi. La 17enne fu arrestata lo scorso dicembre in seguito alla diffusione di un filmato girato dalla madre, Nariman, anche lei sotto processo, in cui l’adolescente prende a schiaffi e sferra un calcio a due soldati davanti alla sua abitazione nel villaggio di Nabi Saleh. Immagini virali, che hanno fatto il giro del mondo, e alle quali gran parte dell’opinione pubblica e del mondo politico in Israele ha reagito con sdegno e rabbia chiedendo una punizione esemplare per la ragazza palestinese.
Questo procedimento in un Paese democratico si sarebbe chiuso con un’ammenda, considerando anche l’età dell’imputata, e Nariman Tamimi non avrebbe mai visto il carcere solo per aver postato un video sui social. Non è azzardato ipotizzare che un civile israeliano per un “reato” simile non avrebbe trascorso quasi due mesi in prigione. L’hanno denunciato più volte nelle scorse settimane anche Amnesty International e Human Rights Watch. Ma Ahed e Nariman Tamimi sono processate da un tribunale delle forze di occupazione militare, l’occupazione che la ragazza e, in generale, tutta la sua famiglia denunciano costantemente da anni. Basem Tamimi, il padre, è stato più volte arrestato e detenuto per la lotta (pacifica) contro l’occupazione e per la partecipazione alle proteste contro la costruzione del Muro israeliano a ridosso di Nabi Saleh. Ieri l’uomo ha lanciato un invito, «Sii forte», alla figlia arrivata in aula in divisa da carcerata e con le manette ai polsi e alle caviglie.
L’avvocato Gaby Lasky spiegava ieri che, di norma, i dibattiti processuali che riguardano i minorenni si svolgono a porte chiuse per proteggere i loro diritti «mentre in questo caso Ahed stessa ha chiesto con forza che fosse aperto al pubblico». Lasky ha aggiunto che l’incriminazione dell’attivista è stata «gonfiata» per scoraggiare altre proteste contro i militari. Per il quotidiano israeliano Haaretz è stato un colpo di genio quello del giudice Lieberman, per impedire che Ahed Tamimi potesse continuare, con la sola esposizione davanti alle telecamere di tv di mezzo mondo, a denunciare l’occupazione e la sproporzione tra la condanna al carcere che rischia concretamente e i “reati” che le vengono contestati». Come ufficiale delle forze di difesa israeliane, ha scritto Haaretz, il giudice Lieberman ha due doveri: «Deve soddisfare il desiderio di punizione (di Tamimi) da parte del pubblico israeliano, furibondo per il fatto che a una palestinese di 16 anni sia stato permesso di spintonare e schiaffeggiare un militare dell’Idf (le forze armate israeliane,ndr)...Allo stesso tempo deve fare tutto ciò che è in suo potere per impedire che la corte diventi un circo mediatico, al punto da offrire a Tamimi, alla sua famiglia, agli avvocati e agli attivisti una conveniente opportunità per processare l’occupazione israeliana».
Che potesse accadere tutto ciò non è mai stato in dubbio visto che centinaia di giornalisti, diplomatici e operatori delle Ong per i diritti umani erano pronti a seguire e a dare pieno risalto alla vicenda. Il processo pubblico a Ahed Tamimi avrebbe anche fatto emergere il dato di oltre 300 minori palestinesi che sono detenuti in Israele. Così ieri un’ora dopo l’inizio del procedimento, senza preavviso, tutti hanno ricevuto l’ordine di lasciare l’aula, tranne la famiglia. Il colpo di genio del giudice Lieberman comunque non servirà a molto. I riflettori sull’adolescente palestinese e sua madre restano ugualmente accesi in tutto il mondo, mai come in questo momento.
«Cara Ahed», 700 ebrei americani scrivono alla giovane Tamimi
Palestina. Le lettere di centinaia di giovani ebrei dagli Stati uniti sono state recapitate al villaggio di Nabi Saleh. La 17enne palestinese in attesa dell’udienza del 6 febbraio
Ieri di fronte alla prigione israeliana di Hasharon decine di persone hanno manifestato in solidarietà con Ahed Tamimi, la 17enne palestinese detenuta con la madre Nariman dal 19 dicembre con l’accusa di aver preso a calci un soldato. Rinviata più volte, l’udienza alla corte militare di Ofer è prevista per martedì 6 febbraio. Tamimi è accusata di 13 reati diversi e rischia anni di prigione.
Il 31 gennaio - giorno in cui avrebbe dovuto tenersi l’udienza, poi rinviata - ha compiuto 17 anni. Per l’occasione sono stati migliaia i messaggi di solidarietà da tutto il mondo.
Tra questi quelli di oltre 700 giovani ebrei americani che, tramite due gruppi anti-occupazione, IfNotNow e All That’s Left, hanno fatto recapitare venerdì le loro lettere al padre Bassem, nel villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania. In contemporanea si sono svolti sit-in per chiederne il rilascio a New York, Boston e Washington.
* il manifesto, 04.02.2018
Il poeta Gefen: «Ahed Tamimi come Anne Frank»
Israele. I versi postati lunedì su Instagram da Johonatan Gefen a difesa della ragazza palestinese hanno mandato su tutte le furie il ministro della difesa Lieberman che ha ordinato alla radio militare di "bannare" il poeta di sinistra da sempre contro l’establishment politico e militare
di Michele Giorgio (il manifesto, 25.01.2018)
GERUSALEMME «Ahed Tamimi/Con i capelli rossi/Come Davide che ha schiaffeggiato Golia/Sarai menzionata nella stessa riga/Come Giovanna d’Arco, Hannah Szenes e Anne Frank».
Questi e gli altri versi della poesia postata lunedì su Instagram e dedicata alla 17enne palestinese Ahed Tamimi, sotto processo per aver schiaffeggiato due soldati a Nabi Saleh, sono costati al poeta e drammaturgo israeliano 70enne Yohonatan Gefen la scomunica senza appello del ministro della difesa Avigdor Lieberman.
Aver posto Ahed Tamimi sullo stesso piano di Anne Frank, la ragazza ebrea morta a Bergen-Belsen divenuta un simbolo della Shoah, è apparso come un sacrilegio a Lieberman che ha ordinato a Shimon Elkabetz, comandante di Galei Tzahal, la radio militare israeliana, di vietare altre interviste a Gefen e la messa in onda di programmi culturali con le sue poesie.
Il vulcanico ministro della difesa, esponente del nazionalismo più viscerale, ha «raccomandato» a tutti i mezzi d’informazione di seguire il suo «suggerimento». «Lo Stato di Israele non dove offrire un palcoscenico a un ubriacone che paragona una ragazza che è stata uccisa nell’Olocausto e un’eroina che ha combattuto il regime nazista, ad Ahed Tamimi, la ‘bambolina’ che ha attaccato un soldato», ha scritto Lieberman su Facebook, aggiungendo che il palco adeguato a Geffen è solo Al-Manar, la tv libanese che fa capo al movimento Hezbollah. Lieberman peraltro è andato su tutte le furie quando il consigliuere legale dello Stato, Avichai Mendelblit ha chiarito che il ministro della difesa non ha l’autorità per decidere cosa mandare o non mandare in onda dalle frequenze della radio militare.
Esponente più del post-sionismo che dell’antisionismo (ampiamente minoritario) in Israele, Gefen è una icona della cultura pop sin dagli anni Settanta. Le sue opere, le sue poesie e i suoi romanzi hanno spesso preso di mira l’establishment politico e il militarismo. Gefen non esita a definire pubblicamente il premier Benyamin Netanyahu un «razzista. Nel 2015 fu aggredito sotto la sua abitazione perché «traditore di sinistra». Gefen è noto anche come padre della rock star locale Aviv Gefen e della regista Shira Gefen, sposata con lo scrittore Etgar Keret.
Ora è preso di mira per aver difeso con coraggio la palestinese Ahed Tamimi, rea di aver “umiliato” l’esercito israeliano prendendo a schiaffi due soldati. Coraggio che non hanno mostrato sino ad oggi Amos Oz, Meir Shalev, David Grosman, A.B. Yehoshua, e altri famosi scrittori e poeti israeliani, pronti a firmare un appello contro la deportazione dei richiedenti asilo eritrei e sudanesi ma non a spendere una parola contro la detenzione di una ragazzina palestinese che rischia una condanna a diversi anni di carcere per un reato che in Europa verrebbe punito con una semplice ammenda.
Lo scorso 17 gennaio i giudici militari hanno deciso che Ahed Tamimi resterà in carcere - come la madre Nariman arrestata per aver postato in rete la scena dei due soldati presi a schiaffi - per tutta la durata del processo che riprenderà il 31 gennaio, proprio nel giorno del 17esimo compleanno della ragazza palestinese.
Abu Mazen guarda all’Europa: “Riconosceteci subito come Stato”
La visita del leader dell’Anp a Bruxelles. L’Ue frena e studia una cooperazione economica
di Marco Bresolin (La Stampa, 23.01.2018)
Abu Mazen è arrivato ieri a Bruxelles con una richiesta ben precisa: «Facciamo appello all’Unione europea affinché riconosca lo Stato di Palestina». E ha usato un avverbio netto: «Rapidamente». Ma dall’altra parte del tavolo la risposta dei 28 ministri non poteva essere positiva: l’Ue ha infatti deciso di lasciare il riconoscimento ai singoli Stati, anche perché non tutti sono sulla stessa linea. Una presa di posizione collettiva, dunque, non ci poteva essere. Ma a Bruxelles il presidente dell’Autorità palestinese ha trovato porte tutt’altro che chiuse.
Tra i 28 ministri degli Esteri Ue - su spinta della Francia -, si sta facendo sempre più strada l’ipotesi di avviare i negoziati per un accordo di associazione tra l’Europa e la Palestina. Il che consentirebbe di evitare il sigillo del riconoscimento ufficiale, ma di fatto - attraverso una forma di cooperazione economica e commerciale - l’Europa tratterebbe la controparte come un vero e proprio Stato. «È una questione di cui non abbiamo parlato oggi - dice Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la Politica Estera Ue -, ma ci sono state discussioni tra Stati membri nelle scorse settimane sulla possibilità di lanciare i negoziati». Se ne riparlerà nelle prossime riunioni.
Abu Mazen ha motivato la richiesta di pieno riconoscimento, dicendo che «non sarebbe in contraddizione con la ripresa dei negoziati» e che «incoraggerebbe i palestinesi, aiutandoli ad avere speranza nella pace». Ci sono «troppe risoluzioni dell’Onu e del Consiglio di Sicurezza su questo tema - ha aggiunto - che non possono restare solo pezzi di carta».
La missione del leader palestinese a Bruxelles, comunque, aveva un obiettivo molto chiaro: «L’Ue è il nostro più importante partner internazionale e deve giocare un ruolo politico per trovare la giusta soluzione». Da parte europea non c’è alcuna volontà di tirarsi indietro, anzi. Mogherini ribadisce che la posizione sul Medio Oriente è «ferma». Nel senso che è decisa («Questo non è tempo per il disimpegno»), ma anche che non è cambiata: Bruxelles continua a dire che servono due Stati con Gerusalemme capitale condivisa da entrambi.
Proprio dalla Mogherini erano arrivate critiche nette nei confronti dell’amministrazione Trump, dopo l’annuncio legato allo spostamento a Gerusalemme dell’ambasciata Usa in Israele. «Noi non lo seguiremo», aveva ripetuto a dicembre davanti al premier israeliano Benjamin Netanyahu nel corso di una sua visita a Bruxelles. Su questo, a parte il tentennamento di alcuni Stati (Repubblica Ceca in testa), il fronte è rimasto sostanzialmente compatto. Quel che è certo, però, è che un punto di incontro con Trump andrà trovato per risolvere la questione in Medio Oriente: «Gli Usa da soli non ce la possono fare, ma senza gli Usa non ce la possiamo fare nemmeno noi», ammette Mogherini.
Gerusalemme: l’Onu vota contro lo strappo di Trump
Assemblea condanna a larghissima maggioranza decisione Usa
di Redazione ANSA *
L’Assemblea generale dell’Onu ha approvato a larghissima maggioranza la risoluzione presentata da Yemen e Turchia che condanna il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele da parte dell’amministrazione Trump.
La risoluzione e’ passata con 128 voti a favore, 9 contro e 35 astensioni.
"Questo voto finirà nel secchio della spazzatura della storia": così il rappresentante israeliano ha criticato parlando all’Assemblea generale dell’Onu la risoluzione che condanna la decisione degli Usa.
"Questa decisione ribadisce ancora una volta che la giusta causa palestinese gode del sostegno della comunità internazionale e che nessuna decisione da qualsiasi parte può cambiare la realtà: Gerusalemme è un territorio occupato in base alla legge internazionale". Lo ha detto il portavoce del presidente Abu Mazen, Nabil Abu Rudeineh. "Continueremo i nostri sforzi all’Onu e nelle organizzazioni internazionali per mettere fine all’occupazione e stabilire il nostro stato di Palestina con Gerusalemme est su capitale", ha concluso.
"Israele rigetta del tutto questa risoluzione assurda. Gerusalemme è la nostra capitale e sempre lo sarà". Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu aggiungendo di "apprezzare il crescente numero di Paesi che hanno rifiutato di partecipare a questo teatro dell’assurdo". "Ringrazio Trump e l’ambasciatrice Haley - ha concluso - per la forte difesa di Israele e della verità".
"La casa delle bugie": così Netanyahu aveva definito l’Onu. "La città - ha spiegato parlando all’inaugurazione di un ospedale nel sud di Israele - è la capitale di Israele, che l’Onu la riconosca o no. Ci sono voluti 70 anni prima che gli Usa la riconoscessero come tale, e ci vorranno anni anche per l’Onu". Netanyahu ha quindi ribadito che altri Stati riconosceranno Gerusalemme capitale del paese.
L’appello
Israele e Palestina due stati con pari diritti
di Daniel Barenboim (Corriere della Sera, 21.12.2017)
La decisione del governo americano di trasferire l’ambasciata Usa a Gerusalemme, riconoscendola di fatto come capitale di Israele, è l’ultimo di una serie di gravi interventi geopolitici nel conflitto israelo-palestinese. La decisione evidenzia come ogni iniziativa esterna tenda a favorire una delle due parti in conflitto e a demoralizzare l’altra, generando euforia da un lato e violenza dall’altro. Senza una contrapposizione risoluta e compatta a questa recente decisione, la soluzione del conflitto si allontanerà ulteriormente.
La nuova esplosione di violenza seguita alla mossa statunitense e le reazioni internazionali ribadiscono la necessità di esaminare alcuni aspetti del conflitto. Ormai da vari decenni il mondo parla della possibilità di una soluzione a due Stati. Occorre però chiedersi: dov’è il secondo Stato?
Questo aspetto è particolarmente importante in quanto il conflitto israelo-palestinese è diverso dalle centinaia di conflitti della storia dell’umanità. Le ostilità si scatenano in genere tra due nazioni o tra due gruppi etnici che si contendono risorse come l’acqua o il petrolio. Invece il conflitto israelo-palestinese non riguarda due nazioni o Stati, ma due popoli profondamente convinti di aver diritto allo stesso piccolo pezzo di terra, sul quale vogliono vivere, preferibilmente senza l’altro. Ecco perché questo scontro non si può risolvere né sul piano militare né su quello meramente politico: occorre trovare una soluzione umana.
I fatti sono noti, non è necessario riportarne il dettaglio. La risoluzione del 1947 di dividere la Palestina ha incontrato il netto rifiuto da parte della totalità del mondo arabo. Forse questa decisione o la reazione conseguente sono state un errore, comunque dal punto di vista palestinese è stata una catastrofe. Ma la decisione era presa e tutti hanno dovuto imparare a fare i conti con i suoi effetti. I Palestinesi hanno da tempo rinunciato al loro diritto all’intero territorio della Palestina, dichiarandosi a favore di una divisione del Paese mentre Israele continua la pratica illegale degli insediamenti nei territori, mostrando scarsa disponibilità a imitare i Palestinesi. Alcuni aspetti del conflitto sono in una certa misura simmetrici. Altri sono invece asimmetrici. Israele è già uno Stato, uno Stato molto forte e deve quindi assumersi una parte maggiore di responsabilità.
Nessuno oggi mette seriamente in dubbio il diritto di Israele di esistere. Tuttavia, sulla questione israeliana il mondo è diviso. Da un lato esistono nazioni che si sentono responsabili per gli orrori inflitti dall’Europa agli ebrei e non si può che essere grati per il perdurare di questo senso di responsabilità. Purtroppo dall’altro lato esistono tuttora persone che negano l’Olocausto, fatto che alimenta alcune posizioni estreme nel mondo arabo e suscita giustamente disperazione tra la popolazione ebraica di Israele. Ciò nondimeno, malgrado tutte le giustificate critiche all’ostilità palestinese nei confronti di Israele, non si può considerarla una continuazione dell’antisemitismo europeo.
Di fronte alla decisione unilaterale degli Usa, faccio un appello al resto del mondo: riconoscete lo Stato della Palestina come avete riconosciuto Israele. Non ci si può attendere che due popoli - nemmeno due persone - che non si riconoscono reciprocamente trovino un compromesso. Per una soluzione a due Stati servono appunto due Stati che al momento non ci sono.
La Palestina è occupata da 50 anni e non ci si può certo aspettare che i Palestinesi entrino in trattativa da questa posizione. Tutte le nazioni sinceramente interessate a una soluzione a due Stati devono riconoscere la Palestina e pretendere che venga immediatamente avviato un dialogo serio. Una soluzione a due Stati con pari diritti sarebbe la sola strada verso la giustizia per i Palestinesi e la sicurezza per Israele.
Per quanto concerne Gerusalemme, la soluzione mi sembra logica: Gerusalemme è una città santa per l’ebraismo come lo è per l’islamismo e per il cristianesimo. Nell’ambito di una soluzione a due Stati alla pari non vedo alcun problema nel considerare Gerusalemme Ovest capitale di Israele e Gerusalemme Est capitale della Palestina.
Lancio quindi un appello alle grandi nazioni che non l’hanno ancora fatto affinché riconoscano subito la Palestina, con l’impegno ad avviare immediatamente i negoziati sui confini e sugli altri aspetti essenziali del conflitto. Non sarebbe un passo contro Israele, ma un passo in direzione di una soluzione sostenibile per entrambe le parti.
È assolutamente chiaro che la volontà di pace di entrambi i popoli, Israeliani e Palestinesi, deve partire dagli stessi presupposti. Non si può forzare una soluzione dall’esterno.
Quindi mi spingo oltre con il mio appello e invito i popoli di Israele e della Palestina a dichiarare in modo netto e chiaro che non ne possono più di questo conflitto decennale e che vogliono finalmente la pace. (traduzione di Maria Franca Elegante)
’Gerusalemme est è capitale Palestina’
Dichiarazione finale al vertice straordinario Oic di Istanbul *
(ANSA) - ISTANBUL, 13 DIC - Nella dichiarazione finale del vertice straordinario di Istanbul, l’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) ha riconosciuto "Gerusalemme est come capitale dello stato di Palestina occupato", invitando tutti i Paesi del mondo a fare altrettanto. Lo riporta Anadolu.
Trump: ’Gerusalemme capitale di Israele. Scelta necessaria per la pace’
’Nuovo approccio su questione israelo-palestinese’. ’Impegno Usa per facilitare processo pace in Mo’
di Redazione ANSA *
NEW YORK. Donald Trump tira dritto e dichiara Gerusalemme capitale di Israele. La conferma della sua decisione provoca la dure reazioni internazionali, dalla Francia (con Macron che la definisce ’deplorevole’) all’Onu ma anche quella pesante di Hamas afferma che in questo modo il presidente Usa "ha aperto le porte dell’inferno".
A Gaza dal pomeriggio sono in corso cortei di protesta. Il presidente palestinese Abu Mazen ha detto di aver ordinato alla delegazione diplomatica palestinese di lasciare Washington e di rientrare in patria. ’’Gerusalemme - ha insistito - e’ la capitale eterna dello Stato di Palestina’’. Il presidente palestinese ha anche accusato Trump di aver offerto un premio immeritato ad Israele ’’che pure infrange tutti gli accordi’’.
"Gerusalemme capitale e’ il riconoscimento della realta’. Ho dato istruzioni di muovere l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme", ha detto il presidente americano Donald Trump.
"E’ il momento - ha detto il presidente Usa - di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele’’. "Non si può continuare con formule fallimentari. La scelta di oggi su Gerusalemme è necessaria per la pace".
’Gerusalemme deve restare aperta a cristiani, musulmani ed ebrei’, ha aggiunto. "La pace in Medio Oriente - ha detto in un altro passaggio - è necessaria per espellere il radicalismo".
"Faro’ tutto cio’ che e’ in mio potere per un accordo di pace israelo-palestinese che sia accettabile per entrambe le parti. E gli Stati Uniti continuano a sostenere la soluzione dei due Stati".
"Non possiamo risolvere la questione mediorientale con il vecchio approccio, ne serve uno nuovo".
"Dio benedica gli israeliani, Dio benedica i palestinesi": cosi’ il presidente americano Donald Trump ha chiuso il breve discorso sul riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, durato circa cinque minuti.
Il vice presidente americano, Mike Pence, ha annunciato Trump, sara’ nei prossimi giorni in Medio Oriente. Il viaggio segue il riconoscimento di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele.
LE REAZIONI - "La decisione di Trump è un passo importante verso la pace, perche’ non ci può essere alcuna pace che non includa Gerusalemme come capitale di Israele", ha detto il premier Benyamin Netanyahu che ha aggiunto: "Voglio anche che sia chiaro che non ci sarà alcun cambiamento nello status quo dei Luoghi Santi. Israele assicurerà sempre libertà di culto a ebrei, cristiani e musulmani". "Una pietra miliare", "una decisione storica": così il premier Benyamin Netanyahu ha definito la scelta del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. "Un atto giusto e coraggioso", ha aggiunto Netanyahu.
’’La decisione odierna di Trump equivale ad una rinuncia da parte degli Stati del ruolo di mediatori di pace’’, dice il presidente palestinese Abu Mazen in un discorso alla Nazione. Secondo Abu Mazen il discorso di Trump e’ in contrasto con le risoluzioni internazionali su Gerusalemme.
"Solo realizzando la visione di due stati che convivono in pace e sicurezza, con Gerusalemme capitale di Israele e della Palestina, tutte le questioni sullo status saranno risolte in via definitiva attraverso negoziati, e le legittime aspirazioni di entrambi i popoli saranno raggiunte": lo ha detto il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, commentando la decisione di Donald Trump. "Dal mio primo giorno qui - ha aggiunto - mi sono costantemente dichiarato contrario ad ogni misura unilaterale che metta a repentaglio la prospettiva della pace".
La Francia "non approva" la "deplorevole" decisione del presidente Usa Donald Trump su Gerusalemme: lo dice il presidente francese Emmanuel Macron invitando alla calma. Macron è attualmente impegnato in una tournée diplomatica in Algeria e Qatar.
"L’Egitto denuncia la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele e respinge ogni effetto di questa decisione". Lo scrive l’agenzia Mena sintetizzando un comunicato del ministero degli Esteri del Cairo.
"Condanniamo la dichiarazione irresponsabile dell’amministrazione Usa di riconoscere Gerusalemme come la capitale di Israele" che "avrà effetti negativi sulla pace e la stabilità nella regione". Lo scrive su Twitter il ministro degli Esteri turco, Ahmet Cavusoglu, pubblicando una nota in cui si chiede all’amministrazione americana "di riconsiderare questa decisione sbagliata".
La decisione di Donald Trump su Gerusalemme "aiuterà le organizzazioni estremistiche a intraprendere una guerra di religione che danneggerà l’intera regione che attraversa momenti critici, e ci trascinerà dentro guerre senza fine". Lo ha detto il presidente palestinese Abu Mazen in un discorso tv, ripreso dalla Cnn. "Abbiamo sempre messo in guardia da questo", ha aggiunto.
Il presidente palestinese Abu Mazen ha detto di aver ordinato alla delegazione diplomatica palestinese di lasciare Washington e di rientrare in patria. ’’Gerusalemme - ha insistito - e’ la capitale eterna dello Stato di Palestina’’. Il presidente palestinese ha anche accusato Trump di aver offerto un premio immeritato ad Israele ’’che pure infrange tutti gli accordi’’.
"L’Egitto denuncia la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele e respinge ogni effetto di questa decisione". Lo scrive l’agenzia Mena sintetizzando un comunicato del ministero degli Esteri del Cairo
* ANSA, 06 dicembre 2017 (ripresa parziale).
The Donald, la gaffe che può incendiare tutto il Medio Oriente
Guai a toccare la Città Santa per tre fedi. Washington vuole un blocco con sauditi e Israele opposto all’asse Russia-Iran, ma anche gli alleati sono perplessi
di Leonardo Coen (Il Fatto, 06.12.2017)
Gerusalemme! Gerusalemme! La mossa del cavallo di Donald Trump implica parecchie incognite: trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, significa indirettamente riconoscerla come capitale d’Israele, il che è inaccettabile, secondo il punto di vista dei palestinesi, per i quali la Città Santa (per gli ebrei, per i musulmani e per i cristiani) è un territorio occupato, e comunque se mai si arriverà a stabilire il principio dei “due popoli due stati”, ecco, pure i palestinesi a loro volta rivendicano Gerusalemme, o almeno una sua parte, quale futura capitale della Palestina.
Inoltre, non si possono trascurare le conseguenze a livello internazionale: la maggior parte dei Paesi membri dell’Onu e delle organizzazioni internazionali non riconosce - e questo sia a livello giuridico che sul piano politico - l’annessione di Gerusalemme Est da parte di Israele, tantomeno come capitale di Stato. Insomma, Trump sta scardinando equilibri delicatissimi e una complessità d’intrecci religiosi, politici, sociali che hanno attraversato la storia per secoli e secoli e devastato questa Terra Promessa che ha solo mantenuto promesse di sangue e di odio, purtroppo. Trump è consapevole di aver sollevato il sipario su di uno scenario drammatico e tragico?
La clamorosa e diciamo pure provocatoria iniziativa del presidente statunitense vuole compiacere l’alleato Netanyahu, il leader di destra che guida Israele, ma non è poi così sicuro che la dirigenza israeliana abbia apprezzato la pericolosa decisione della Casa Bianca, in un momento assai delicato come quello che sta attraversando oggi il Medio Oriente.
Si sta infatti disegnando una sorta di inedito asse tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, contrapposto all’alleanza tra Mosca, Ankara e Teheran. Nemmeno il tempo di aver sconfitto il Califfato, che subito si sono riaccesi conflitti che parevano assopiti. L’Arabia Saudita contende ormai all’Iran la leadership regionale, il Libano è di nuovo preda di tensioni tra le varie fazioni e gli Hezbollah foraggiati da Teheran, nel Golfo Persico si è sta consumando una sorta di guerra fredda fra Qatar filo Iran e Emirati Arabi Uniti sostenuti da Ryad. Enfatizzare lo spostamento dell’ambasciata è come dar fuoco alle polveri: potrebbe scatenarsi una nuova Intifada. Gerusalemme è un simbolo da sempre.
Da quando Elena, la madre dell’imperatore Costantino, ne capì la profonda importanza, il significato politico non poteva prescindere da quello religioso e su questo crinale si acuì il conflitto tra Occidente e Oriente, e anche la questione ebraica, la diaspora, il mito dell’eterno ritorno, il rimpallo delle responsabilità del cristianesimo e dell’Islam.
Persino la stampa israeliana ha evocato le possibili derive collaterali della scelta di Trump. Il quale, non a caso, si è preoccupato di telefonare ieri ad Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, per informarlo sulle sue intenzioni. Mahmoud Abbas (Abu Mazen) gli ha risposto mettendolo in guardia, così ha dichiarato il portavoce palestinese Nabil Abu Rdainah, perché una simile decisione potrebbe avere “pericolose conseguenze sul processo di pace e sulla sicurezza e stabilità nella regione e del mondo”.
Inquietudine che si ritrova nelle parole di Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco: “Lo status di Gerusalemme rappresenta la linea rossa per i musulmani”, non escludendo così una possibile rottura diplomatica con Israele. Parole minacciose che hanno indotto Trump ad annunciare, ma non ad attuare. Ha insomma tastato il terreno. Parlandone con Macron, il presidente francese che ha subito messo i paletti: “La questione dello status di Gerusalemme deve avere una soluzione, ma nell’ambito dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi”. Perché, come ha spiegato ieri Ahmed Abul Gheit, segretario generale della Lega araba, l’evenienza prospettata da Trump non solo può essere considerata “pericolosa” ma “avrebbe ripercussioni in tutta la regione araba e islamica”. Ennesima gaffe dell’improvvido Trump.
STORIA E MEMORIA..... *
Diplomazia
L’ultimo azzardo di Trump
“Gerusalemme capitale di Israele” *
Washington Donald Trump si prepara a infiammare il Medio Oriente: secondo diverse fonti di stampa, il presidente americano, terrà mercoledì un discorso in cui riconoscerà Gerusalemme come capitale di Israele. Lo ha fatto sapere un funzionario della Casa Bianca.
L’annuncio potrebbe rovesciare decenni di politica americana: per i palestinesi infatti Gerusalemme Est deve diventare la capitale del loro Stato e non può quindi essere riconosciuta come parte della capitale israeliana.
Oggi la città è di fatto divisa in due: dal 1967, dopo l’annessione da parte di Israele della parte orientale della città che era sotto sovranità giordana, c’è un Est, abitato da circa 200mila palestinesi e un Ovest, dove vivono oltre mezzo milione di israeliani.
Sul tema di Gerusalemme si sono arenati molti dei tentativi di pace degli ultimi decenni.
L’ultima polemica sul tema ha toccato anche l’Italia. «Il Giro d’Italia tenta di compiacere Israele presentando Gerusalemme come una città unificata sotto sovranità israeliana » , ha detto l’esponente dell’Olp Hanan Ashrawi dopo che gli organizzatori della corsa, in seguito alle proteste dei ministri israeliani dello Sport e del Turismo hanno cambiato il comunicato in cui si diceva che il Giro sarebbe partito da Gerusalemme Ovest. Tolto, ” Ovest” è rimasto soltanto Gerusalemme. Tutti contenti, o quasi.
* la Repubblica, 02.12.2107
STORIA E MEMORIA:
ELIEZER BEN-YEHUDA. “Tante parole nuove dovranno essere inventate, e quando l’Ebraico non basterà, la lingua araba, sorella della nostra, ci fornirà i suoi suggerimenti. Che cos’è infatti un amico, se non quello che ti offre la parola mancante?” Memoria di ELIEZER BEN-YEHUDA
16-18 settembre, per non dimenticare Sabra e Shatila Israele-Palestina. Quel massacro, più di tanti altri, fu odioso, realizzato con lo stratagemma di lasciar partire il contingente internazionale e di aver imposto l’esilio dei fedayin, i giovani combattenti guidata da Arafat, verso la Tunisia
di Stefania Limiti (il manifesto, 15.09.2017)
Mentre a Roma si litiga per la targa intestata alla grande figura di Yasser Arafat, in Libano oltre 500 mila profughi palestinesi, nei loro poveri campi, ospitano i rifugiati di altre guerre e di altre occupazioni militari. È il paradigma tragico, diremmo grottesco, di un popolo dimenticato, che si ostina, tuttavia, contro forze enormi, a vivere e a rivendicare la propria appartenenza nazionale. Inascoltati, dimenticati, sempre scacciati: anche dalla toponomastica. Il vice sindaco di Roma Luca Bergamo, che ha avuto la delega dalla sindaca Raggi a gestire la spinosa (pazzesco!) faccenda della targa, riferisce che l’attuazione delle delibera (la n. 165 del 28 luglio, prevede che sia intitolato un parco ad Yasser Arafat, nella zona di Centocelle, e una piazza al Rabbino Capo Emerito Elio Toaff a Colle Oppio) è ferma e rimandata a data da destinarsi. Non si farà.
Nonostante la richiesta di una ventina di associazioni e l’opportunità di aprire un dibattito pubblico destinato, invece, a morire qui. Troppe le pressioni della comunità ebraica per impedirlo, troppo forti per essere respinte dalla giunta Raggi. Piccole meschinità accanto a una grande tragedia dall’altra. Per capire la questione palestinese è molto importante andare in Libano e conoscere la realtà di quel pezzo di umanità scacciata dalle proprie case nel 1947 e poi venti anni dopo.
Uomini e donne che non sono tornati indietro e che non possono guardare il futuro perché non hanno patria, cittadini di serie b in un paese ospitante. Il Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila, da quando è stato fondato nel 2001 da Stefano Chiarini e grazie all’impegno de il manifesto e del giornale indipendente libanese As Safyr, fa proprio questo: si reca lì ogni anno, in occasione dell’anniversario del massacro di Sabra e Chatila, due poverissimi campi profughi alla periferie di Beirut, dove i macellai falangisti sotto la regia dell’occupante israeliano e le direttive del falco Ariel Sharon fecero scempio dei corpi di duemila persone.
Un orrore che si consumò dal 16 al 18 settembre del 1982 e che svegliò l’umanità dormiente: i palestinesi ancora massacrati! Anche la sinistra italiana, affascinata dal mito dei kibbutz e dalle esperienze ‘socialisteggianti’ del neo-stato di Israele, dovette guardare in faccia la realtà dell’occupazione militare e dei suoi crimini.
Quel massacro, più di tanti altri, fu odioso, realizzato con lo stratagemma di lasciar partire il contingente internazionale e di aver imposto l’esilio dei fedayin, i giovani combattenti guidata da Arafat, verso la Tunisia. Fu fatto per dare una lezione ai palestinesi: non esistete e noi vi schiacceremo. Ma i palestinesi da allora hanno continuano a lottare: tanti gli errori, tragiche le loro divisioni ma di certo hanno avuto la straordinaria forza di rivendicare la loro volontà di essere un popolo e di non permettere all’ occupante di annientarli.
Si conosce da vicino tutto questo andando in Libano, visitando i campi, parlando con le forze politiche sociali, ricordando che il Diritto al ritorno è sancito dalla Legge internazionale. Anche quest’anno in molti hanno scelto di andare insieme al Comitato Per Non dimenticare Sabra e Shatila dal 16 al 23 settembre. Dobbiamo tutto questo all’impegno e alla intelligenza di Stefano Chiarini e di Maurizio Musolino. Dicono i poeti che non si muore finché altri ti portano nel cuore: entrambi scomparsi prematuramente, sono nel nostro cuore e vivono tra noi con la loro passione per il Medio Oriente e la solidarietà, l’amore, verso il popolo palestinese.
Netanyahu: «Colonie per sempre»
Israele/Territori occupati. Il premier ha escluso categoricamente la possibilità che il suo governo possa sgomberare anche una sola colonia ebraica in Cisgiordania. Guterres (Onu): non ci sono alternative alla soluzione a Due Stati
di Michele Giorgio (il manifesto, 30.08.2017)
GERUSALEMME Antonio Guterres ieri a Ramallah è stato chiaro. Gli insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania sono «un grande ostacolo» alla pace, ha detto il segretario generale dell’Onu al primo ministro dell’Anp Rami Hamdallah. Ha anche rinnovato il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele.
«Non vi è alcun piano B - ha sottolineato - una soluzione con Due Stati, la fine dell’occupazione (israeliana) e la creazione di condizioni per metter fine alle sofferenze dei palestinesi sono l’unica strada per garantire la pace». Ma quello Stato, lo sa bene Guterres, è ormai un pezzo di carta ingiallito dimenticato nei cassetti della diplomazia. Il futuro lo decide solo il governo israeliano visto che i Paesi occidentali, dagli Usa all’Europa, in silenzio hanno decretato che il diritto internazionale non può trovare attuazione nella questione palestinese.
Lunedì sera il premier Benyamin Netanyahu è andato all’insediamento ebraico di Barkan per partecipare alle celebrazioni per i 50 anni dall’inizio della colonizzazione ebraica di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, i territori palestinesi che Israele ha occupato nel 1967. E ha pronunciato una sentenza di morte per la soluzione a “Due Stati” alla quale, ma solo a parole, si aggrappano Onu e Unione europea e dalla quale si è già sganciata l’Amministrazione Trump. «Siamo venuti qui (in Cisgiordania e Gerusalemme Est, ndr) per rimanerci per sempre», ha affermato perentorio Netanyahu. Anche un nuovo, limitato, sgombero di colonie israeliane, come quello di Gaza nel 2005, «non avverrà mai più», ha aggiunto tra l’entusiasmo dei presenti. -Il primo ministro ha rimarcato il valore strategico della Samaria (il nome biblico del nord della Cisgiordania). «È la chiave per il nostro futuro» ha detto spiegando che dalle alture di Hatzor (Khirbet Hazzur, a nord di Gerusalemme) è possibile monitorare Israele e la Cisgiordania occupata. Infine Netanyahu ha teorizzato una sorta di diritto/dovere di Israele di controllare i Territori palestinesi per impedire che forze dell’Islam radicale possano «mettere in pericolo l’intero Medio Oriente».
Non è la prima volta che il premier israeliano insiste su questi punti. Lunedì sera però è stato esplicito sul futuro delle colonie. E indirettamente ha lasciato intendere che i palestinesi non potranno far altro che amministrare civilmente, come già fanno oggi, le loro città e dovranno dimenticare libertà, sovranità e indipendenza. Sempre Netanyahu all’inizio dell’estate aveva proclamato che Israele, in qualsiasi accordo, continuerà a controllare militarmente la Cisgiordania. «Le colonie israeliane sono illegali e vanno smantellate» si è affannato a replicare Nabil Abu Rudeinah, il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen. Ha anche condannato la “passeggiata” sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme fatta ieri, con l’autorizzazione del governo, da due parlamentari israeliani, tra i quali Yehuda Glick (Likud), fautore della ricostruzione del Tempio ebraico. Ma quella dell’Anp ormai è una protesta muta.
La Cina ha capito come fare affari in Palestina *
Quattro importanti accordi in diversi settori, tra cui il sostegno al ministero degli Esteri palestinese, attività di formazione di risorse umane, e alcuni accordi di cooperazione economica e culturale. E’ quel che è emerso dalla recente visita - durata quattro giorni - di Mahmoud Abbas, a capo dell’Autorità Nazionale Palestinese, in Cina. Uno dei progetti più importanti che Pechino sosterrà in Palestina è la costruzione della zona industriale di Tarqomia, a ovest della città di Hebron, in cui è previsto anche lo sviluppo di energie alternative. Tra le richieste di Abu Mazen alla sua controparte cinese c’è stata anche quella di avviare in Cina attività di promozione del turismo cinese in Palestina, con la promessa da parte del presidente dell’ANP di adoperarsi rimuovere tutti gli ostacoli burocratici alla concessione di visti turistici.
Rapporti commerciali che inquietano Israele
La Cina, membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, formalmente sostiene la causa palestinese, anche se si è sempre esposta molto meno di quanto storicamente non facciano gli Stati Uniti nei confronti di Israele. Recentemente, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha invocato la limitazione delle relazioni diplomatiche con ogni paese - compresa la Cina - che abbia sostenuto la risoluzione Onu 2334, che condanna gli insediamenti illegali dei coloni israeliani, compresi quelli a Gerusalemme est. Un "incidente" che ha spinto l’ambasciata israeliana a Pechino a rassicurare la Cina, affermando che la cooperazione tra i due paesi non sarebbe stata danneggiata dalle decisioni di Netanyahu.
Per Pechino Hamas non è terrorismo
Sin dalla fondazione dello Stato di Israele, le amministrazioni cinesi hanno sempre mantenuto la trasversalità dei loro rapporti internazionali in Medioriente, coltivando relazioni con Israele e con i Paesi arabi e sostenendo gli Accordi di Oslo. Sia Arafat che Mahmoud Abbas hanno visitato più volte la Repubblica cinese. Quando nel 2006 Hamas vinse le elezioni in Palestina, Pechino si rifiutò di designare il gruppo come "organizzazione terroristica", ribadendo la legittimità di un movimento che era stato eletto dal popolo palestinese. Nel novembre 2012, la Cina è stata tra i paesi che hanno votato a favore della risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale, per dare alla Palestina lo status di Stato non membro e osservatore alle Nazioni Unite.
Dalla Palestina passa la Via della Seta
Nel 2016 il presidente cinese Xi Jinping ha riaffermato il sostegno cinese "alla istituzione di uno stato palestinese con capitale Gerusalemme est", durante un meeting della Lega Araba in cui era stato invitato. Fu in quella occasione che Xi Jinping annunciò inoltre l’avvio di un progetto da 7.6 milioni di dollari per la costruzione di pannelli solari nei territori palestinesi. Quasi un anno dopo, ad aprile 2017, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi - durante un meeting con il suo omologo palestinese Riyad al Maliki - affermò che "la mancanza di uno stato palestinese indipendente costituisce una terribile ingiustizia".
Per la Cina, l’iniziativa strategica della "Nuova via della Seta" - volta a migliorare i collegamenti e la cooperazione con i paesi della cosiddetta Eurasia - passa necessariamente dalla cooperazione anche con Israele, oltre che dall’utilizzo del proprio soft power nei paesi arabi, nel tentativo di mantenere la tradizionale neutralità e il tipico basso profilo degli ultimi decenni.
Gaza allo stremo: 2 ore di elettricità al giorno
Palestina. All’assedio israeliano che non permette l’ingresso continuativo di energia si aggiunge la disputa Anp-Hamas. Ospedali al collasso, frigoriferi e condizionatori spenti in un’estate torrida. Onu: «Tra 3 anni la Striscia invivibile». Da tutto il mondo appelli perché si intervenga
di Michele Giorgio (il manifesto, 14.07.2017)
«A Gaza solo le famiglie ricche riescono a sopportare queste condizioni, gli altri possono solo provare a sopravvivere. Il caldo è insopportabile e la notte siamo al buio completo, senza energia elettrica». Così ci diceva ieri sera Amer Hijazi, un abitante di Gaza. Si riferiva ai pochi palestinesi che, grazie a generatori elettrici privati, tengono in funzione frigoriferi, ventilatori e condizionatori d’aria. Più di tutto hanno la luce in casa, un «lusso» davvero raro a Gaza dove i due milioni di abitanti stanno affrontando uno dei periodi più difficili.
«Perché ci infliggono queste punizioni, siamo degli esseri umani», ripeteva Hijazi accusando chi tiene Gaza in questa condizione: Israele, l’Egitto e, sempre di più, anche l’Anp di Abu Mazen e il movimento islamico Hamas impegnati in una disputa politica di cui pagano le conseguenze solo i civili.
L’unica centrale che fornisce energia elettrica a Gaza è stata di nuovo chiusa mercoledì sera per mancanza di gasolio interrompendo la fornitura quotidiana di 60 megawatt. L’elettricità che arriva dall’Egitto non è disponibile per guasti alle linee di trasmissione.
Da ieri perciò, su un fabbisogno estivo di 450 megawatt, Gaza può contare solo su 70 che giungono da Israele. Fino a qualche settimana fa la fornitura era maggiore ma Abu Mazen - per mettere sotto pressione Hamas - ha annunciato che avrebbe pagato solo il 60% della bolletta energetica di Gaza, aprendo la strada ad un’ulteriore riduzione.
Alla fine di giugno la crisi era stata parzialmente alleviata da alcuni milioni di litri di gasolio forniti dall’Egitto che avevano consentito alla centrale elettrica di operare a metà potenza.
Le forniture sono state interrotte dopo gli attacchi dell’Isis ai soldati egiziani nel Sinai. Si sussurra però che l’alt alle autocisterne dirette a Gaza sia il risultato delle pressioni dell’Anp sul presidente egiziano al Sisi. «Questa situazione non è sostenibile - avverte Mohammed Thabet, della società per l’energia elettrica di Gaza - La gente non può avere una vita normale con 2-3 ore di elettricità al giorno».
Alla crisi energetica e alla cronica scarsità di acqua potabile, si è aggiunta la politica di «disimpegno» (non dichiarato) di Abu Mazen che ha ridotto salari e sussidi ai dipendenti dell’Anp (oltre 6mila dei quali sono stati «pensionati») per costringere Hamas a rinunciare al controllo di Gaza.
Riflessi gravi dello scontro si hanno anche sull’assistenza ai malati gravi di Gaza. Gli islamisti da parte loro rifiutano di sciogliere il loro «comitato governativo» e di permettere che un esecutivo di «consenso nazionale», guidato dal premier dell’Anp a Ramallah, estenda la sua autorità su Gaza.
Un quadro di eccezionale gravità che martedì ha visto il responsabile dell’Onu per gli affari umanitari, Robert Piper, dichiarare Gaza «invivibile» con tre anni di anticipo rispetto ai tempi indicati dall’Onu nel 2012.
Si moltiplicano gli appelli a livello internazionale. «Gaza deve vivere per la vita di tutta la Palestina» (www.we4gaza.org) raccoglie adesioni ovunque, anche in Italia, contro le politiche di «assedio» di Gaza praticate da Israele e sostenute dall’Egitto: «Non si tratta di una catastrofe naturale, ma prodotta dall’uomo».
Altrettanto forte è l’appello della Rete degli ebrei contro l’occupazione che chiede l’afflusso immediato di energia, la cessazione dell’assedio di Gaza e la fine dell’occupazione militare israeliana della Cisgiordania.
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
Decostruito il mito di Israele
Guerra dei sei giorni. Sulla base di inedite fonti d’archivio ancora sotto segreto, Ahron Bregman mostra le tappe successive dell’occupazione, nei suoi effetti sui popoli dei Territori: «La vittoria maledetta», da Einaudi
di Massimiliano De Villa (il manifesto, 02.07.2017)
Il mattino del 14 maggio 1967, il primo ministro israeliano Levi Eshkol sta osservando, dalla terrazza del suo ufficio, la sfilata del Giorno dell’Indipendenza quando il generale Yitzhak Rabin gli riporta movimenti sospetti di reparti egiziani che, attraversato il Canale di Suez, sono sbarcati nel Sinai. È solo l’inizio: nel giro di tre settimane, l’Egitto ordina ai caschi blu delle Nazioni Unite di ritirarsi dalla penisola sinaitica, schiera sette divisioni militari lungo il confine con Israele, chiude gli stretti di Tiran, importantissimo passaggio per le navi israeliane, e sigla un accordo di difesa con la Giordania.
Lo schieramento di forze egiziane turba un equilibrio già assai fragile: dalla crisi di Suez del 1956, del resto, il presidente egiziano Nasser, leader popolare di un panarabismo montante, non ha mai smesso di parlare della distruzione di Israele e, nei mesi precedenti il giugno 1967, la sua propaganda anti-israeliana si è fatta più virulenta. I nemici sionisti - va ripetendo Nasser con retorica pettoruta, mentre gli altri capi di stato arabi gli fanno variamente eco - devono essere cancellati e ributtati in mare. Per gli israeliani, spaventati dal riproporsi di recenti spettri, la chiusura degli stretti è il casus belli: di qui l’attacco, improvviso e rapidissimo.
Nel giro di sei giorni, dal 5 al 10 giugno 1967, le Forze di difesa israeliane sbaragliano tre fronti, l’egiziano, il giordano e il siriano, irrompendo nei territori arabi e occupando il deserto del Sinai, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la Cisgiordania, compresa la parte orientale della città di Gerusalemme. Per Israele, questa guerra che, con la velocità del fulmine, ne triplica il territorio è una vittoria straordinaria. Un’ondata di fervore messianico dilaga nel paese, gli osservanti parlano di miracolo, i laici non nascondono l’emozione. La terra di Israele è stata restituita ai suoi antichi abitanti, questa è la voce che corre dal deserto del Negev al Mare di Galilea, mentre il mondo sbalordisce alla rapidità e alla potenza dell’apparato militare israeliano. Le operazioni belliche si chiudono in pochi giorni e si apre, in parallelo, la questione, insieme spinosa e delicatissima, dei Territori occupati e degli insediamenti israeliani. Un’occupazione - dicono gli osservatori esterni - che durerà poco e che invece, tolto il Sinai e, solo da qualche anno, la Striscia di Gaza, entra oggi nel suo cinquantesimo anno.
Sono molti i libri che, negli anni e nei mesi scorsi, hanno ripercorso, interpretato, indagato la Guerra dei Sei Giorni nel suo cinquantesimo anniversario. Tra le analisi più acute, quella di Ahron Bregman, inS La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati (Einaudi, traduzione di Maria Lorenza Chiesara, pp. 340, euro 33,00).
Già il titolo rivela il taglio del saggio: quella che da Israele era stata vissuta come una benedizione, il compiersi dell’antica promessa fatta da Dio ai padri e il suggello trionfale dell’impresa sionista, mostrerà, nel giro di poco, il suo vero volto, mutando in modo definitivo la fisionomia medio-orientale e trasformando Israele, agli occhi dell’Occidente, da vittima della storia a paese occupante.
Il saggio di Bregman, israeliano emigrato a Londra durante la prima intifada per esplicito dissenso politico e ora professore di storia militare al King’s College, ha inizio inquadrando il problema da un punto di vista giuridico: quella di Israele nei confronti dei territori conquistati nel 1967 è de iure un’occupazione, condotta in aperta violazione della Convenzione dell’Aja, stipulata a inizio Novecento, e della più tarda e più famosa Convenzione di Ginevra del 1949.
Sulla base di inedite fonti d’archivio israeliane, in parte ancora coperte dal segreto, Bregman dimostra, con coerenza aristotelica e senza mai rinunciare a una narrazione brillante, le tappe successive dell’occupazione nei suoi effetti sulla popolazione dei Territori: la creazione di governi militari israeliani, l’uso dell’esercito per soggiogare gli occupati, la raffica di decreti d’urgenza e di ordinanze militari, l’avvio di una vertiginosa macchina burocratica che disciplinerà, di lì in avanti, ogni centimetro di vita pubblica, dall’accesso agli impieghi all’accesso alla rete idrica e all’elettricità, con estenuanti trafile per ottenere, nel migliore dei casi, un permesso o una licenza. Poi le restrizioni sugli spostamenti, i lunghissimi controlli alle frontiere, gli espropri coatti, la pulizia etnica dei territori conquistati, la distruzione di antichissimi villaggi arabi con i trasferimenti forzati dei loro abitanti in Giordania o in Siria, la costruzione, sul medesimo terreno, di basi militari e insediamenti ebraici, e l’invio di coloni israeliani, spesso ebrei ortodossi, a ripopolarli.
Nella ricostruzione storica, il resoconto cede spesso il passo alle memorie e alle testimonianze di prima mano degli occupati, facendo vibrare la corda del vissuto personale senza inficiare la sobrietà dell’analisi e rivelando anzi alcuni angoli ciechi sui quali non era stata fatta sufficiente luce.
Saldamente ancorato a un criterio cronologico, Bregman passa in rassegna le pratiche e i metodi dell’occupazione israeliana, suddividendo l’esposizione in tre parti: il primo decennio di occupazione - con una sezione per ogni territorio occupato a stagliare, di ognuno, la particolare fisionomia - il secondo decennio che culmina con la prima intifada e, infine, gli ultimi vent’anni con il procedere a singhiozzo degli accordi di pace, l’assassinio di Yitzhak Rabin, la passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata delle Moschee e l’innesco della seconda intifada fino alla roadmap della pace e al disimpegno israeliano dalla Striscia di Gaza.
Il fuoco principale della ricostruzione storica, l’occupazione israeliana dei Territori, non impedisce all’autore di seguire altri fili, dalla resistenza palestinese alla guerriglia armata, agli attacchi terroristici contro Israele, dalla leadership di Arafat ai successi elettorali di Hamas.
Di decennio in decennio, con i passi accorti e precisi dell’indagine storiografica, Bregman decostruisce, nelle sue pagine, il mito, diffuso dagli israeliani all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, dell’occupazione illuminata. Mai - sostennero infatti fin da subito gli israeliani - un popolo che, come il loro, aveva vissuto sulla pelle la spaventosa esperienza della persecuzione avrebbe replicato il trattamento su altri.
Eppure - Bregman lo sottolinea fin dalle prime pagine traendo conclusioni amare - «un’occupazione illuminata è una contraddizione in termini, come quella di un triangolo quadrilatero. Nessuna occupazione può essere illuminata.
I rapporti tra occupante e occupato sono sempre basati su paura e violenza, umiliazione e dolore, sofferenza e oppressione; in quanto sistema di padroni e schiavi, l’occupazione non può che essere un’esperienza negativa per l’occupato. Che Israele - una nazione piena di vita e istruita, terribilmente consapevole dei mali della storia - abbia imboccato la strada dell’occupazione militare è di per sé abbastanza stupefacente».
Unesco, sì alla risoluzione su Gerusalemme
Nega la sovranità di Israele su una parte della città. Il testo è stato approvato da 22 Paesi. Dieci, tra cui l’Italia, hanno votato contro
di Redazione ANSA *
PARIGI. L’Unesco ha adottato a larga maggioranza la controversa risoluzione che nega la sovranità di Israele su una parte di Gerusalemme. Il testo è stato approvato da 22 paesi. Dieci, tra cui l’Italia, hanno votato contro e 23 si sono astenuti. Tra i 22 Paesi che si sono pronunciati a favore del testo, ci sono anche Russia e Cina. Tra i dieci che si sono opposti, oltre all’Italia, anche Stati Uniti, Gran Bretagna, Grecia, Ucraina, Togo, Lituania, Paesi Bassi e Germania. Ventitré gli astenuti, tra cui Francia, Spagna e India. La risoluzione critica severamente il governo israeliano per i suoi progetti di insediamento nella Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi dei luoghi sacri di Hebron. Chiede inoltre la fine del blocco Israeliano su Gaza senza evocare gli attacchi sferrati da Hamas contro lo Stato ebraico.
Il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha avuto una conversazione telefonica con il primo ministro di Israele, Benyamin Netanyahu. "Poco prima del voto - afferma Alfano - avevo annunciato al primo ministro la nostra decisione di votare contro la risoluzione Unesco, altamente politicizzata, su Gerusalemme e avevo anche espresso l’auspicio che altri Paesi Ue andassero verso la stessa direzione. Ho detto a Netanyahu che la decisione è stata presa anche alla luce delle eccellenti relazioni bilaterali tra Italia e Israele. Netanyahu - aggiunge il titolare della Farnesina - ha ringraziato l’Italia per questa scelta che rappresenta un esempio per gli altri Paesi, congratulandosi per il ruolo guida che l’Italia ha così interpretato".
Unesco, approvata la risoluzione su Gerusalemme. L’Italia tra i Paesi contrari *
Da oggi ogni decisione di Israele sull’intera città, e non solo sulla parte est, sarà nulla. Le proteste di -Netanyahu: "Negata la verità storica". L’Ucei: "Soddisfazione per la scelta italiana"
PARIGI - Qualsiasi decisione che da oggi Israele prenderà su Gerusalemme sarà nulla e priva di significato. La risoluzione sulla "Palestina occupata" è stata approvata dal comitato esecutivo dell’Unesco con 20 voti a favore, 10 contrari e 23 astensioni.
A differenza della risoluzione su Gerusalemme est di ottobre, quando si era astenuta generando molte polemiche, tra i Paesi che hanno votato contro figura anche l’Italia.
Duro a tal proposito il ministro degli Esteri Angelino Alfano: "L’Unesco faccia ciò per cui è stata fondata, deve occuparsi di istruzione e cultura. Il nostro voto contrario alla risoluzione politicizzata su Israele è un passo importante perché dimostra come l’Italia, quando non condivide, vota "no", assumendosene la responsabilità".
La risoluzione sulla "Palestina Occupata", presentata da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan, contiene una serie di modifiche rispetto al passato. Il testo afferma l’importanza di Gerusalemme per le "tre religioni monoteiste" e non cita i luoghi santi, evitando così di nominarli solo con il nome musulmano come era accaduto in ottobre. Ma il testo prevede anche che ogni decisione della "potenza occupante" israeliana su Gerusalemme sia priva di valore: ciò, secondo i media israeliani, mette in dubbio la sua sovranità sull’intera città e non solo sulla sua parte orientale.
Le reazioni. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un evento organizzato in occasione della Festa dell’Indipendenza, ha sottolineato il valore di Gerusalemme per Israele: "E’ il cuore della nazione. Non vi è altro popolo nel mondo per il quale Gerusalemme è così santa e importante che per il popolo ebraico, anche se oggi una riunione all’Unesco negherà questa verità storica".
In una nota, Alfano aveva anticipato già in mattinata il no dell’Italia: "Ho dato precise istruzioni di voto al Rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unesco: votare ’nò contro l’ennesima risoluzione politicizzata su Gerusalemme, tra l’altro nel giorno di un’importante festa nazionale israeliana. La nostra opinione è molto chiara: l’Unesco non può diventare la sede di uno scontro ideologico permanente in cui affrontare questioni per le cui soluzioni sono deputate altre sedi".
L’ambasciatore israeliano presso l’organismo culturale dell’Onu, Carmel Shama-Hacohen, ha definito "senza dubbio uno sviluppo positivo" la presa di posizione dell’Italia rispetto alla risoluzione.
Israele-Palestina, la verità del documento dell’Unesco
di Moni Ovadia (il manifesto, 26.10.2016)
Le parole sono importanti! sentenziava Nanni Moretti in una scena da culto di una sua memorabile pellicola, dando ratifica all’affermazione con un sonoro ceffone vibrato ad una giornalista colpevole di esprimersi con un eloquio mediocre ed improprio.
Dal tempo di quell’accorato grido di dolore del geniale cineasta molta acqua è passata sotto i ponti. Abusare perversamente le parole è diventata pratica comune che non provoca reazioni di sofferenza; in questi giorni, il nostro capo del governo si è prodotto in una tecnica di perversione del senso, sostituendo la parola italiana condono con l’anglicismo di sonorità meno sconcia voluntary disclosure.
L’ordine del discorso e la scelta delle parole possono diventare particolarmente insidiosi quando si parla di Israele, governo israeliano, israeliani, ebrei e via dicendo. A me è capitato di sentirmi apostrofare con il termine “antipatizzante” di Israele per avere definito “colonie” le colonie israeliane della Cisgiordania invece di descriverle con il più neutro “insediamenti”. Gli ultras proisraeliani a prescindere, ma anche coloro che non sono estremisti del campo - potremmo definirli i moderati di ogni schieramento - manifestano un’immediata idiosincrasia nei confronti di un crudo linguaggio di verità, qualora utilizzato nei riguardi di Israele.
Per queste sensibilissime persone, parole accettabili all’indirizzo di qualsiasi altro paese occupante e colonialista del mondo, diventano inascoltabili se utilizzate per criticare gli atti dei governi israeliani.
Questa ipersensibilità ha provocato l’ennesima crociata pro Israele sulla stampa mainstream e nelle piazze, per denunciare l’antisemitismo dell’Unesco a proposito della sua risoluzione sulla Palestina occupata.
Nella traduzione integrale della risoluzione al comma 3 leggiamo: “Affermando l’importanza che Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre religioni monoteiste, affermando anche che in nessun modo la presente risoluzione, che intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e di Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative allo status legale di Palestina e Gerusalemme...”
In apertura, la risoluzione riconosce che Gerusalemme e le sue mura sono sacre ai tre monoteismi e ai loro fedeli: ebrei, cristiani musulmani. Non c’era dunque alcuna ragione di gridare all’antisemitismo, di accusare la risoluzione di voler negare il legame degli ebrei con quei luoghi. In realtà a me pare di intuire che la reazione degli ultras pro Israele, senza se e senza ma, dipenda piuttosto dal fatto che nei commi successivi la risoluzione si riferisca ripetutamente ad Israele con la definizione di “potenza occupante” e ne denunci la pratica violenta dei fatti compiuti sul territorio.
Ora, Israele è, piaccia o non piaccia, una potenza occupante e lo è da cinquant’anni e questo secondo le risoluzioni dell’Onu, non secondo i pro palestinesi. Ma attenti a dirlo! Diventereste illico et immediate antisionisti, ovvero antisraeliani, ovvero antisemiti. Guai all’Unesco che osa affermare che Israele è potenza occupante.
Invece, i politici israeliani di governo possono gridare ai quattro venti che Gerusalemme è la sacra ed indivisa capitale dello Stato di Israele nell’assoluto silenzio delle anime belle, e i leader dei partiti religiosi possono sostenere impunemente che tutta la terra di quella che fu la Palestina mandataria appartiene agli ebrei perché fa parte della terra “donata” da Dio.
Gli zeloti che fanno parte dell’elettorato della destra utrareazionaria sostenitrice di Netanyahu, possono farneticare di distruggere le moschee per edificare al loro posto il “Terzo Tempio” e compiere atti aggressivi nei confronti dei palestinesi, nessuno scandalo. È scandalo invece se il documento dell’Unesco non riconosce alle autorità israeliane e ai fanatici di Israele il diritto ad esercitare il proprio arbitrio.
Forse disturba la mancata identificazione di ebrei e governo israeliano in carica. Le anime belle della democrazia a popoli alterni sanno che le due cose sono diverse, ma dà loro un incontenibile fastidio. Eppure il problema di una precisa distinzione fra israeliani ed ebrei è ormai incandescente.
Un recente articolo apparso sul quotidiano israeliano Ha’aretz a firma di Chemi Shalev titolava: “Trump mostra agli estremisti di destra come amare Israele ed odiare gli ebrei” (alcuni estremisti di destra americani disprezzano gli ebrei progressisti con lo stesso veleno con il quale la destra israeliana odia gli ebrei di sinistra).
Eccolo il capolavoro che hanno edificato i nazionalisti e i fanatici religiosi israeliani con la fattiva collaborazione degli ultras pro sionisti e il benevolo sussiego di certi moderati che sono amici di Israele a prescindere.
Grazie a loro, gli eredi degli antisemiti di ogni tipo possono tornare ad odiare gli ebrei cominciando dai maledettissimi rossi e poi... Poi si vedrà.
Massa d’urto religiosa di questa nuova ideologia sono i cosiddetti cristiano/sionisti. Sono milioni, appartengono a chiese evangeliche millenariste e avventiste, sono sostenitori del sionismo integralista, rivendicano il diritto degli ebrei a possedere tutta la Terra Promessa e auspicano il ritorno di tutti gli ebrei in Eretz Israel perché secondo le loro profezie ciò provocherà la seconda parusia di Gesù e l’Armageddon. E gli ebrei? Quelli che riconosceranno il Cristo saranno salvi. E gli altri? Si fotteranno bruciando nelle fiamme dell’inferno! (L’interpretazione è mia).
Unesco, approvata una nuova risoluzione su Gerusalemme. Netanyahu pronto a richiamo ambasciatore
Documento nega ancora il legame fra gli ebrei ed i luoghi sacri della città. Gentiloni: ad aprile l’Italia voterà no
DI Redazione ANSA *
Il comitato del patrimonio mondiale dell’Unesco ha approvato oggi una risoluzione che nega nuovamente il legame millenario tra gli ebrei e i luoghi sacri di Gerusalemme. Il voto si è svolto a scrutinio secreto: 10 a favore, due contrari e otto astenuti. Il premier Benyamin Netanyahu sarebbe pronto a richiamare per consultazioni l’ambasciatore israeliano all’Unesco Carmel Shama Cohen per protesta contro la risoluzione.
Il testo approvato fa riferimento ai luoghi sacri di Gerusalemme con la sola denominazione musulmana e denuncia i "danni materiali" perpetrati da Israele, come già nelle precedente risoluzione adottata la settimana scorsa dall’Unesco. Gli attuali 21 membri del comitato sono: Angola, Azerbaigian, Burkina Faso, Croazia, Cuba, Finlandia, Indonesia, Giamaica, Kazakistan, Kuwait, Libano, Perù, Filippine, Polonia, Portogallo, Repubblica di Corea, Tanzania, Tunisia, Turchia, Vietnam, Zimbabwe.
Obiettivo del comitato è concedere un’assistenza finanziaria in funzione delle richieste degli Stati membri ed esaminare, tra l’altro, lo stato dei siti iscritti al patrimonio mondiale. In questi ultimi giorni il ministero degli Esteri israeliano aveva moltiplicato le missioni diplomatiche per ottenere che i 21 membri votassero contro la risoluzione.
Il nuovo voto ha provocato una nuova reazione indigrata di Israele che tramite il portavoce del ministero degli esteri Emmanuel Nahshon ha definito il documento "spazzatura" sottolineando che "giustamente l’ambasciatore israeliano nell’organismo ne ha gettato il testo nel bidone dell’ immondizia". "Lunga vita - ha concluso - a Gerusalemme ebraica".
E il presidente della Knesset (Parlamento) Yuli Edelstein in una lettera al Segretario di Stato vaticano Cardinale Parolin chiede l’intervento della Santa Sede. La Risoluzione, afferma, è "un affronto per i cristiani e per gli ebrei" ed il Vaticano dovrebbe "usare i suoi migliori uffici per impedire il ripetersi di questi sviluppi di questo tipo".
"Se le stesse proposte ci saranno ripresentate ad aprile - ha commentato il ministro degli Esteri Gentiloni al Question time - il governo italiano passerà dall’astensione al voto contrario". "La risoluzione - ha spiegato il ministro - si ripropone due volte l’anno dal 2010. Dal 2014 contiene le formulazioni che negano le radici ebraiche del Monte del Tempio".
Per il responsabile della Farnesina bisogna "lavorare affinché l’Unesco faccia l’Unesco. Non c’e’ dubbio che si tratti di una delle organizzazioni Onu che ha un ruolo importante, soprattutto per noi che abbiamo molti siti patrimonio umanità. Ma non si può accettare l’idea che invece di concentrarsi sul patrimonio culturale diventi cassa di risonanza di tensioni politiche".
Un Muro intorno a Gaza
Israele/Territori Occupati. Lo ha rivelato ieri il quotidiano Yediot Ahronot precisando che la barriera si estenderà lungo i 96 chilometri della frontiera tra la Striscia di Gaza e il sud di Israele
di Michele Giorgio (il manifesto 17.06.16)
GERUSALEMME Israele costruirà, investendo 2,2 miliardi di dollari (oltre un miliardo e mezzo di euro), un muro intorno a Gaza, sia sopra che sotto terra, per decine di metri. Lo ha rivelato ieri il quotidiano Yediot Ahronot precisando che la barriera si estenderà lungo i 96 chilometri della frontiera tra la Striscia di Gaza e il sud di Israele.
Il progetto in effetti non è nuovo. Tuttavia segna, simbolicamente, l’inizio del mandato neo ministro della difesa e leader dell’ultradestra Avigdor Lieberman, in procinto di recarsi a Washignton per discutere con l’Amministrazione Usa dell’aumento degli aiuti militari americani a Israele (40 miliardi di dollari in 10 anni e di questi 445 milioni di dollari per un nuovo sistema di difesa antimissili).
La barriera avrà lo scopo, spiega Israele, di impedire infiltrazioni da Gaza attraverso i tunnel sotterranei costruiti dal movimento islamico Hamas e da altre organizzazioni palestinesi. Si aggiunge a quelle costruite da Israele nella Cisgiordania occupata, lungo i confini con l’Egitto e, in misura più ridotta, con il Libano, e a quella in fase di progettazione nella Valle del Giordano.
Da tempo si parla di una nuova offensiva militare israeliana contro Gaza e Hamas. L’ultima, due anni fa, ha causato circa 2.300 morti tra i palestinesi ed enormi distruzioni (gli sfollati sono ancora decine di migliaia). Il completamento della nuova barriera anti-tunnel intorno alla Striscia perciò potrebbe aprire la strada a un nuovo conflitto.
Due giorni fa una fonte del ministero della difesa israeliano - forse lo stesso ministro Lieberman secondo le indiscrezioni - ha avvertito che un nuovo conflitto con Gaza è “inevitabile”, anche se questo “sarà l’ultimo” per Hamas. Lieberman negli ultimi anni ha più volte invocato un attacco militare finalizzato a rioccupare la Striscia e a rimuovere dal potere Hamas.
La Nakba non è mai terminata
1948/2016. La storia, la cultura, le radici dei palestinesi nella loro terra sono oscurate, in ogni modo. Il caso del nuovo libro di testo di educazione civica per le scuole di Israele
di Michele Giorgio (il manifesto, 15.05.2016)
GERUSALEMME Mentre Israele celebra la sua fondazione, migliaia di palestinesi vanno nei boschi alla ricerca dei resti dei loro villaggi distrutti durante e dopo il 1948. Famiglie intere pranzano accanto a ruderi spesso coperti dalla vegetazione. I più anziani narrano le vicende e le tragedie di quei luoghi, tramandando una storia orale che resta il caposaldo della memoria collettiva palestinese. Altri, nel Neghev, manifestano chiedendo rispetto per le loro radici, per le loro case che rischiano di essere spazzate via nel quadro di piani di “ricollocazione” e di sviluppo del deserto. Altri ancora, nei Territori occupati, nei campi profughi dal Libano alla Giordania, sfilano issando bandiere e scandendo slogan per la Palestina. E’ l’anniversario della Nakba, la “catastrofe” del popolo palestinese che perse tutto nel 1948 e che si ritrovò in buona parte lontano dalla sua terra, cacciato via o costretto alla fuga, mentre lo Stato di Israele viveva l’alba della sua storia.
A qualcuno queste manifestazioni, le visite ai villaggi distrutti, le narrazioni degli anziani forse appaiono ripetive o un aggrapparsi al passato mentre bisognerebbe guardare al futuro. Non è affatto così. Questi “riti” sono essenziali per i palestinesi che in questo modo da decenni custodiscono la loro identità e la difendono dalla narrazione israeliana che, sempre più in Occidente, diventa la versione esclusiva di ciò che accadde prima, durante e dopo il 1948. Sono fondamentali per impedire che scenda l’oblio su di un popolo scomodo non più soltanto all’establishment politico di Israele ma anche a tanti europei e americani stanchi di «questi palestinesi» che insistono a reclamare i loro diritti, ad invocare la libertà. Ed è ora un’aggravante la fede islamica della maggioranza dei palestinesi. Un punto sul quale batte il premier israeliano Netanyahu che ha più volte messo sullo stesso piano l’Intifada agli attentati dell’Isis in Europa raccogliendo non pochi consensi nel Vecchio Continente.
In questo clima non è destinata a generare alcun interesse a casa nostra una notizia che ben rappresenta la Nakba 68 anni dopo: l’annullamento dei palestinesi e della loro storia nella terra alla quale appartengono. Il ministero dell’istruzione israeliano ha diffuso lunedì scorso il nuovo libro di testo di educazione civica per le scuole del Paese che contiene poche righe sull’esistenza dei palestinesi in Israele e sull’occupazione militare di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est.
Il libro - un prodotto del nuovo corso nazionalista religioso nell’istruzione avviato dal ministro Naftali Bennett - in verità ha scontentato molti, dagli ebrei sefarditi agli attivisti dei diritti di gay e lesbiche. Sono però i palestinesi i più ignorati, i più depredati della loro identità nonostante rappresentino in Israele più del 20% della popolazione. Inoltre recupera rappresentazioni dei cittadini arabi tipiche degli anni ’60 come i «drusi sionisti», i «cristiani aramei», i «beduini», i «circassi», i «musulmani». I palestinesi in Israele e nei Territori occupati sembrano non avere alcun legame storico e culturale con luoghi in cui vivono: solo lì per caso.
Il libro sottolinea che «la versione palestinese (del 1948) sostiene che la maggior parte dei rifugiati sono stati espulsi con la forza ma in Israele è ormai comunemente accettato che la maggior parte dei profughi sono fuggiti» e fornisce numeri sui rifugiati molto diversi da quelli ufficiali delle Nazioni Unite. Gli autori non mettono in alcuna relazione gli arabo israeliani (i palestinesi in Israele) e i palestinesi in Cisgiordania, quasi tacciono sull’occupazione che dura da 49 anni e non fanno alcun riferimento alle colonie ebraiche costruite nei Territori occupati in violazione delle leggi internazionali. E infatti nel libro è scritto che c’è una «disputa»: i territori che Israele catturò nel 1967 sono «occupati» o «liberati»?
Israele si lamenta dei libri di testo palestinesi che non lo riconoscono, in particolare a Gaza dove governa Hamas. Ma Israele, che si proclama una democrazia, «l’unica democrazia del Medio oriente», fa lo stesso nelle sue scuole. Lo studente ebreo non apprende nulla dei palestinesi, è portato a credere che gli «arabi» siano un mosaico di minoranze che non hanno radici nel Paese, più o meno degli immigrati. Lo spiega bene la docente universitaria Nurit Peled Elhanann nel suo libro “La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione”. Gli arabi, scrive, sono rappresentati come profughi in strade e luoghi senza nome. «Nessuno dei libri (di testo)», aggiunge Peled Elhanann, «contiene fotografie di esseri umani palestinesi e tutti li rappresentano in icone razziste o immagini classificatorie avvilenti come terroristi, rifugiati o contadini primitivi». La Nakba è anche questa, i palestinesi lo sanno bene.
Ha imparato la “lingua del nemico” in carcere dove ha trascorso vent’anni per aver ucciso un israeliano. Ora ha aperto una scuola nella Striscia. “Ho cambiato opinione su molte cose dopo aver letto Oz, Grossman, Yehoshua e molti poeti” Dalle armi alla cattedra la scommessa di Ahmed “Insegno ebraico a Gaza ora dobbiamo parlarci”
di Fabio Scuto (la Repubblica, 06.04.2016)
GAZA CITY. «Tov», bene, dice l’insegnante alla sua classe di studenti di varia età dopo aver spiegato alla lavagna il significato della parola “meayin” (da dove). Una classe di lingua ebraica come un’altra, ma questo non è un posto come un altro. È Gaza, il fazzoletto di terra che ha visto quattro guerre con Israele negli ultimi dieci anni. Da qui partono quasi ogni notte, uno, due razzi verso il sud d’Israele. Tanto per ricordare che la partita, gli islamisti, non la considerano chiusa, ma solo temporaneamente sospesa.
Siamo al sesto piano di un palazzone sulla Talafimi Street, a quattro passi dall’Università Al Quds, che ospita il Nafha Center per lo studio della lingua ebraica. A guidarlo c’è Ahmed Alfaleet, un uomo alto per la statura media dei palestinesi, con gli occhi chiari e mani grandi.
Alfaleet è un ex guerrigliero della Jihad islamica che ha passato vent’anni nelle carceri israeliane di massima sicurezza, venne liberato nel 2011 nell’ambito dello scambio di 1000 prigionieri con il soldati israeliano Gilad Shalit e dopo essere stato scarcerato ha lasciato la lotta armata e raccolto la sfida di diffondere la lingua ebraica a Gaza. È così importante, vista la prossimità territoriale, e pochi arabi la conoscono. Anche a Gaza l’ebraico non è più la lingua del nemico.
Alfaleet, che oggi ha 42 anni e ha messo su famiglia, venne condannato all’ergastolo per l’uccisione di un israeliano nelle vicinanze dell’insediamento di Kfar Darom - che un tempo era al centro della Striscia - e in ventuno anni passati in cella ha conseguito tre lauree - compresa una in Relazioni Internazionali - alla Open University di Israele e un master alla Hebrew University. Racconta del lungo sciopero della fame in cella per ottenere il permesso dall’Israel Prison Service di studiare a distanza all’università israeliana e non presso gli istituti arabi. Ma soprattutto della sua scelta di vita. «Dopo che sono stato rilasciato ho lavorato un po’ come insegnante privato di lingua ebraica, poi con qualche soldo e molti aiuti di parenti ho deciso di aprire questa scuola». Perché? «Come occupante, nemico o semplice vicino, Israele esiste accanto a Gaza. Non possiamo cambiare la Storia».
«In cella», racconta Alfaleet, «c’era molto tempo e ho letto qualunque cosa, libri, giornali, riviste. Poi ho pensato che potevo mettere a frutto questo interesse e immaginare forse anche un altro futuro». «Guardando la tv in cella mi sono reso conto che in Israele sapevano tutto di noi e noi nulla di loro, ho cambiato opinione su molte questioni, dopo aver letto Amos Oz, Avraham Yehoshua, David Grossman e altri poeti e scrittori classici in lingua ebraica: da allora le cose non sono state più le stesse». Lo spiega bene Alfaleet come, lentamente man mano che mentre studiava e leggeva, anche la visione di Israele cambiava. «Oggi mi invitano spesso come esperto di Israele in tv e alla radio qui a Gaza, ma devo stare attento a quello che dico e a come lo dico per non essere bollato come un “cattivo ragazzo” ma per me tutto è cambiato».
I suoi studenti, e finora ne ha avuti oltre 1200, sono giornalisti, medici, farmacisti, avvocati e uomini d’affari che devono comunicare con gli israeliani. Ed è molto soddisfatto dei risultati ottenuti, la maggior parte dei suoi allievi adesso parla un ebraico fluente e chiaro. «Se conosci la lingua non ci sono incomprensioni», dice sorridendo e pensando agli avvocati palestinesi che devono difendere i loro clienti davanti alle Corti israeliane dove tutto è redatto in ebraico o ai farmaci che le Ong mandano nella Striscia e che hanno il bugiardino stampato in ebraico e in russo. Infatti, spiega, «ci sono 4 canali specifici di specializzazione per i professionisti che hanno necessità e vocabolari linguistici diversi».
In passato la gente di Gaza era piuttosto aperta nei confronti degli israeliani, nonostante le guerre. I canali tv israeliani - specie Channel 1 e Channel 10 - erano la stazioni più viste nella Striscia ed era quasi una tradizione ascoltare alle 6 del pomeriggio il bollettino quotidiano in arabo di Radio Israele. Migliaia di lavoratori avevano il permesso di uscire dalla Striscia ed erano una sorta di ponte fra le due comunità.
Tutto è cambiato negli anni 2000 con la seconda intifada e poi l’inesorabile discesa dopo la presa del potere di Hamas e le 4 guerre (2006-2009-2012-2014) che hanno ridotto la Striscia ad una terra maledetta da dove, tutti, vogliono soltanto fuggire. Eyad, è un ragazzo di 22 anni che studia giornalismo alla Al Quds University, dice che sta venendo a lezione per imparare l’ebraico per avere più chance per la sua carriera: «Non si può fare il giornalista a Gaza senza capire e leggere i media israeliani». Ecco, alla scuola di Alfaleet questa chance non costa nemmeno cara. Imparare la lingua del “vicino” costa 250 shekel (50 euro) per 40 ore di lezione e 1200 per 140 ore. E allora “Be-hatzlachah” (Buona fortuna), professor Alfaleet.
“Con cinque giovani attori palestinesi sfido la sacra scrittura di Shakespeare”
Marco Paolini porta in scena con lo Stabile di Torino (e Vacis) “Amleto a Gerusalemme”.
Ultimo atto di un progetto nato nel 2008: “Per quei ragazzi è come affrontare il Corano”
di Tiziana Platzer (La Stampa, 29.03.2016)
Sta fuori al sole, nel cortile delle Fonderie Limone, la struttura-scuola-fabbrica teatrale del Teatro Stabile di Torino. Parla con un ragazzo palestinese, che ha un copione in mano, e lo agita. Una delle felici anomalie dello spettacolo è che gli interpreti discutono continuamente di quello che portano in scena.
Pane per i denti di Marco Paolini, da qualche settimana «residente» alle Fonderie per le prove di Amleto a Gerusalemme, al debutto stasera. Un progetto di Gabriele Vacis a cui l’artista veneto ha collaborato - il primo incontro teatrale fra i due risale ai tempi di Vajont, nel 1994 - ed è interprete, insieme a cinque giovani attori palestinesi e tre italiani.
Quando è andato per la prima volta a Gerusalemme?
«Quando Vacis mi ha chiamato, nel 2008. A lui diede l’incarico l’Eti, con il sostegno del ministero degli Esteri e la Cooperazione per lo Sviluppo: l’idea era creare una scuola di recitazione teatrale. Quando chiese agli insegnanti palestinesi quale attore italiano avrebbero voluto per un seminario, dissero Dario Fo. Ma Fo non era disponibile».
Lei sostituto di un Nobel quindi...
«Praticamente sì, un vice. Ho lavorato al Palestinian Theatre a Gerusalemme Est una settimana, cercando di proporre una commedia veloce, una fisicità che permettesse di togliersi rapidamente dalla scena. E alla costruzione di un canovaccio con ciò che osservavamo attorno a noi».
Ma lo spettacolo narra storie autobiografiche o Shakespeare?
«A quelle audizioni risposero in ottantasei, e trenta ragazzi furono presi, dai 15 anni in su. Adolescenti che volevano essere come tutti gli altri adolescenti del mondo, e Amleto era per loro quello che è per i nostri ragazzi che desiderano fare teatro: una sfida vera. Lo chiesero loro. In Palestina il teatro è per pochi, ma se per noi Shakespeare è una “sacra scrittura”, per quei ragazzi è stato come affrontare il Corano».
Temi delicati per i giorni che viviamo, lei è riuscito a essere un osservatore neutrale?
«Mi sono trovato davanti giovani con un’energia incredibile, contagiosa e più cercavo di assorbirla e più ne tiravano fuori. Loro certo non sono mai stati neutrali rispetto al vissuto che portavano sul palco. Sono tanti i ricordi di quei giorni, l’entrata in Gerusalemme, i controlli, i soldati, i pellegrini, eppure l’immagine che ho è entrare al Teatro Nazionale e vedere una fila di sessanta scarpe allineate al limite del palco. Sentire quell’odore di chi prepara i propri piedi a entrare nel teatro».
E la fotografia di oggi qual è?
«Dopo sette anni di quei 30 ragazzi ne sono rimasti cinque, che rappresentano la nuova generazione di attori palestinesi. Abbiamo perso tutte le ragazze, però, perché al compimento dei 18 anni le famiglie non permettono di stare in scena».
Impensabile per le donne una carriera nello spettacolo.
«Sì, ma penso lo possa essere anche per la famiglia di un ferroviere italiano».
E lei in mezzo a questa potenza generazionale, che spazio si è riservato? Voce narrante dell’«Amleto»?
«Ancora volete che racconti storie? Faccio il capocomico, il più vecchio di loro ha la metà dei miei anni. Ma sono un attore e vivo la competizione, per cui ogni tanto esagero. Il mio stare in scena è cercare di cambiare la misura di quello che il teatro produce, pensando soprattutto a chi non ha mai comprato un biglietto per uno spettacolo nella sua vita. Ho creduto che questa fosse l’unica occasione, per me, di cimentarmi con l’Amleto».
Reinventare il campo politico palestinese
di Jamil Hilal (Comune-info, 23 marzo 2016) *
Il campo politico palestinese, dominato dall’OLP fin dai primi anni ’60, si è disintegrato con l’emergere dell’Autorità Palestinese all’indomani degli accordi di Oslo. Qual è stato il peso dell’OLP e quali le ripercussioni ha generato la sua disgregazione nel corpo politico palestinese? In che modo ha tale frammentazione interessato la sfera culturale e il contributo di quest’ultima alla formazione di un’identità nazionale palestinese? A tali domande proveremo a rispondere nel commento che segue.
Lo strapotere dell’OLP nel campo palestinese ha avuto inizio poco dopo la battaglia di Al-Karameh, nel 1968, che rese possibile il fiorire di una relazione centralizzata con le comunità storiche della Palestina: in Giordania, in Siria, in Libano, nel Golfo, in Europa e nelle Americhe. Tali comunità hanno ampiamente accolto l’OLP come unico leader legittimo, a dispetto delle influenze esterne, della sua profonda dipendenza da aiuti stranieri, delle controverse relazioni con il paese di residenza e delle sue relazioni regionali e internazionali. Come risultato, le particolari condizioni e caratteristiche di ogni comunità venivano trascurate, così come venivano ignorate le rispettive responsabilità nazionali, sociali e organizzative.
Da tale posizione dominante, l’OLP era anche in grado di consolidare le pratiche politiche delle élite; pratiche comuni nel mondo arabo e internazionalmente, ma che sarebbe stato meglio se non avessero attecchito nel popolo palestinese; considerata la dispersione territoriale e la loro lotta per la liberazione. Il fatto che l’OLP emerga e funzioni in uno scenario regionale e internazionale che non è amico della democrazia, sia nella teoria sia nella pratica, ha contribuito a questo suo sviluppo. La regione araba è stata dominata da regimi con ideologie nazionaliste e totalitarie, o in alternativa da monarchie teocratiche e autoritarie; e la democrazia era vista come una formula aliena tanto quanto il colonialismo occidentale. Allo stesso modo, l’OLP e le sue fazioni hanno stretto alleanze con i paesi socialisti e del terzo mondo, pochi dei quali avevano alle spalle esperienze democratiche. La natura ‘rentieristica’ delle istituzioni dell’OLP e la sua dipendenza da aiuti provenienti da paesi arabi socialisti e non democratici non ha fatto che rinforzare un approccio elitario e non democratico alla politica.
Una terza caratteristica dell’egemonia dell’OLP era che le sue fazioni avevano fatto esperienza di un precoce processo di militarizzazione; in parte a causa degli scontri tra la stessa organizzazione e i regimi arabi che la ospitavano, in parte perché era costantemente presa di mira da Israele. Questa militarizzazione formale, contrapposta alla guerriglia, ha aiutato a giustificare una stretta relazione tra leadership politica e membri dell’élite.
Tra gli anni ’70 e gli anni ’90, le fazioni e le istituzioni dell’OLP hanno subito numerosi choc, come conseguenza di vari cambiamenti nello scenario regionale e internazionale. Questi inclusero l’espulsione dalla Giordania a seguito degli scontri armati del 1970-71, la guerra civile divampata in Libano nel 1975, la conseguente invasione israeliana del paese nel 1982, l’esodo dell’OLP dal paese a seguito dei massacri di Sabra e Shatila; e la guerra contro gli stessi campi palestinesi avvenuta tra il 1985 e il 1986. La prima Intifada (insurrezione popolare) contro Israele nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza alla fine del 1987 fu un momento in cui l’Islam invase il campo politico palestinese (1988). Il collasso dell’Unione Sovietica nel tardo 1989, la prima guerra del Golfo un anno più tardi e il conseguente isolamento politico e finanziario dell’OLP erose infine tanto le sue alleanze tanto le sue fonti di sostentamento.
Gli effetti della disintegrazione
Durante la Prima Intifada, l’élite politica palestinese mancò di comprendere l’importanza di restaurare il movimento nazionale palestinese, così come dell’intessere nuove relazioni tra la leadership centralizzata e le varie comunità palestinesi. Inoltre, l’OLP fallì nel trovare un modo per neutralizzare l’Islam politico quando questo prese piede nel panorama palestinese - come emanazione della Fratellanza Musulmana - e non integrò Hamas nel processo politico nazionale. Allo stesso tempo, l’organizzazione islamista mancò di ridefinire la propria identità sulla base di un’agenda nazionale. Come conseguenza, il movimento politico palestinese che era stato precedentemente definito come un movimento nazionale o come una rivoluzione, iniziò ad essere chiamato ‘il movimento nazionale e islamico’.
Infatti, la Prima Intifada spinse la leadership politica a centralizzare ulteriormente il processo decisionale e firmò gli accordi di Oslo senza consultare le forze politiche e sociali interne ed esterne alla Palestina. Oslo garantì all’OLP la razionalizzazione politica, organizzativa e ideologica necessaria a marginalizzare i rappresentanti delle istituzioni nazionali palestinesi già esistenti, giustificando tale processo con la costituzione di un nucleo statale palestinese. L’Autorità Palestinese fu esclusa dalla trattativa con i palestinesi in Israele e perse molto presto interesse nella causa dei palestinesi giordani. Il suo atteggiamento nei loro confronti, come del resto anche in quelli dei palestinesi presenti in Libano, in Siria, nei paesi del Golfo, in Europa e in America, fu drasticamente ridotto a una serie di formalità burocratiche che rimanevano limitate alle sue ambasciate e ai suoi uffici rappresentativi nei rispettivi paesi.
Quando l’establishment palestinese, in qualità di autorità di auto-governo limitata alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, fallì nel prendere le redini dello stato palestinese, le élite politiche furono private del loro potenziale stato sovrano centralizzato; e ciò accelerò la disintegrazione del movimento nazionale. La vittoria di Hamas nel 2006 alle elezioni legislative e il suo controllo totale sulla Striscia di Gaza dal 2007 contribuì infine all’attuale spaccatura tra le due autorità, una in Cisgiordania e l’altra a Gaza. Entrambe rimasero sotto occupazione e controllo di uno stato colonizzatore e coloniale che continua ad annettere territori e deportare cittadini palestinesi su entrambi i lati della linea verde.
La disintegrazione del campo politico nazionale ha avuto numerose ripercussioni. Le istituzioni nazionali rappresentative si dissolsero, mentre le élite politiche locali consolidarono il proprio potere. I leader ancorarono la propria legittimità alle loro passate esperienze partitiche o organizzative, così come alla loro interazione diplomatica con altri paesi della regione e istituzioni internazionali. Il discorso dominante, localmente e internazionalmente, ridusse la Palestina ai territori occupati nel 1967 e la gente palestinese al rango di coloro che vivono sotto l’occupazione palestinese; marginalizzando i rifugiati e gli esiliati assieme ai cittadini palestinesi di Israele. L’apparato di sicurezza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza crebbe esponenzialmente, sia in termini di proporzioni sia di fondi destinati al suo mantenimento. La natura ‘rentieristica’ delle autorità a capo di entrambe le aree fu modulata in base alla dipendenza da aiuti stranieri, remittenze e accresciuta confluenza di capitali privati nelle loro economie.
Si sono verificate anche trasformazioni rilevanti nella struttura sociale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Tra le quali l’emergere di una classe media relativamente ampia che è confluita nelle istituzioni dell’Autorità Palestinese in aree quali la formazione, sanità, sicurezza, finanza e amministrazione, così come il nuovo settore bancario e le numerose Ong. Nel mentre, la classe dei lavoratori si è contratta, le ineguaglianze tra i vari segmenti sociali si sono approfondite e la disoccupazione rimane elevata, in particolare tra i giovani e i neolaureati. La mentalità d’ufficio ha preso sempre più piede, scalzando quella di chi lotta per la libertà. Sebbene Fatah e Hamas si definiscano movimenti per la liberazione, sono stati trasformati in strutture burocratiche gerarchiche e sono soprattutto interessate alla propria sopravvivenza.
Le élite politiche ed economiche non si sono dimostrate timide nell’ostentare la propria ricchezza e i propri privilegi, a dispetto di un’occupazione coloniale repressiva. La classe media in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è perfettamente consapevole di come i propri standard e stile di vita dipendano dall’esistenza delle due autorità. Tuttavia, la maggior parte della popolazione rimane soggetta all’oppressione e all’umiliazione dell’esercito israeliano e dei coloni armati; soffrendo non solo la mancanza di condizioni di vita decenti e di un futuro lavorativo, ma anche dell’assenza di ogni tipo di soluzione nazionale all’orizzonte. L’assedio draconiano portato avanti da Egitto e Israele su Gaza è più ferreo che mai, accompagnato dalle guerre distruttive volute da Israele mentre la pulizia etnica perpetrata ai danni dei palestinesi di Gerusalemme continua inesorabile; facendo uso di sfratti, ritiro dei permessi e di un’ampia serie di pratiche analoghe.
Tali condizioni pongono i presupposti per una situazione esplosiva nei territori occupati del 1967. Tuttavia, dal momento che l’OLP, i partiti politici e una buona parte delle organizzazioni della società civile non si mobilitarono, o non poterono mobilizzarsi, contro l’occupazione, gli scontri con l’esercito israeliano e i coloni nell’ondata di rabbia che ha avuto luogo dallo scorso ottobre è principalmente rimasta alla dimensione individuale e locale; mancando di una visione unitaria e di una leadership nazionale.
La disintegrazione del campo politico palestinese ha inoltre condotto a una crescente oppressione e discriminazione contro le comunità palestinesi in altri luoghi della Palestina e della stessa diaspora. I cittadini palestinesi che si trovano oggi in quella parte di Palestina che diventò Israele nel 1948 devono far fronte a una crescente gamma di leggi discriminatorie. I rifugiati palestinesi in e dalla Siria, Libano e Giordania, così come da altre parti, sono vittime di discriminazioni e abusi. Nel complesso, lo status della causa palestinese ha subito un’involuzione tanto nel mondo arabo quando sul panorama internazionale, una situazione certamente esacerbata dalle guerre interne ed esterne in cui molti paesi arabi si trovano coinvolti.
Eppure la cultura prospera e nutre un’identità nazionale
Oggi, il popolo palestinese non ha né uno stato sovrano né un funzionante movimento di liberazione. Tuttavia, l’identità nazionale palestinese conserva una forza straordinaria, in gran parte a causa del ruolo esercitato dalla sfera culturale nel mantenerne e arricchirne la narrativa. Nel nutrire l’identità e il patriottismo palestinese, la cultura gioca un ruolo di lunga data. Dopo la creazione di Israele nel 1948 e dopo la sconfitta dell’élite politica di allora e del movimento nazionale, la minoranza palestinese in Israele ha sostenuto l’identità nazionale attraverso una fioritura culturale straordinaria - poesia, teatro, musica e film.
Lo scrittore e giornalista palestinese Ghassan Kanafani ha catturato tutto questo in un libro straordinario sulla letteratura della resistenza (al-Adab al-Mukawim fi Filistin al-Muhtala 1948-1966), pubblicato a Beirut nel 1968. Altre figure chiave, tra le quali il poeta Mahmoud Darwish e Samih Al Qasim, il poeta sindaco di Nazareth Tawfiq Zayyad e lo scrittore Emile Habibi - in entrambi i suoi lavori, come The Pessoptimist e il giornale comunista che da lui co-fondato, Al-Ittihad. Negli anni ’50 e ’60 - quando gli israeliani tenevano i cittadini palestinesi sotto controllo militare - letteratura, cultura e arte servivano a rinforzare e proteggere la cultura araba assieme all’identità nazionale palestinese e a una sua narrativa. Questi lavori erano letti in tutto il mondo arabo e non solo, e permettevano ai rifugiati palestinesi in esilio di sostenere la propria identità attraverso continui ponti con la cultura e l’identità della loro terra.
I ‘Palestinesi del 1948’, come sono spesso definiti nel discorso palestinese, hanno giocato anche un ruolo fondamentale nell’introdurre altri palestinesi e arabi al modo in cui l’ideologia sionista influenza le politiche israeliane e i meccanismi di controllo repressivo. Molti studiosi e intellettuali palestinesi hanno lavorato nei centri di ricerca arabi e palestinesi a Beirut, Damasco e altrove; da dove hanno contribuito aincoraggiare tale comprensione.
Da quel momento, la sfera culturale, soprattutto in momenti di crisi, ha offerto più possibilità di quella politica, permettendo ai palestinesi di raggrupparsi attorno ad attività che trascendono i limiti geopolitici, dando vita a varie forme d’espressione culturale e di produzione intellettuale. La letteratura, la filmografia, la musica e l’arte continuano ad essere prodotte - con ritmo crescente- sia da scrittori, direttori e artisti internazionalmente conosciuti, sia da personalità più giovani ed emergenti in Cisgiordania, a Gaza e altrove. Tutto ciò è comunicato in numerosissimi modi - inclusi i social media - e incoraggia legami intra-palestinesi e intra-arabi, così come interazioni transnazionali.
La vitalità del patriottismo palestinese è radicata in una narrativa storica palestinese e attinge dalle esperienze quotidiane delle comunità che fanno fronte dall’esautoramento, all’occupazione, alla discriminazione, all’espulsione e alla guerra. È tale vitalità che forse guida la gioventù palestinese nata soprattutto all’indomani degli accordi di Oslo del 1993 a confrontarsi con i soldati israeliani e i coloni in ogni angolo della Palestina storica. E spiega le immense folle di persone che prendono parte a una processione funebre di giovani palestinesi uccisi da soldati israeliani e coloni; e i tentativi di raccolta fondi per ricostruire le case demolite dai bulldozer palestinesi come punizione collettiva delle famiglie di coloro che sono stati uccisi nell’attuale rivolta.
Tuttavia, sottolineando il significato e la vitalità della sfera culturale non si compensa all’assenza di un efficace movimento politico; con basi solide e democratiche. Dobbiamo imparare dagli errori delle istituzioni del movimento e andare oltre, piuttosto che sprecare energie, tempo e risorse per ripristinare un campo politico disintegrato e defunto. Dobbiamo anche andare oltre quei concetti e quelle pratiche che l’esperienza ci mostra come fallimentari, come ad un alto grado di centralizzazione. La politica deve soprattutto preoccuparsi della gente.
Dobbiamo salvaguardare la nostra cultura nazionale dai concetti e dagli approcci che schiavizzano la mente, che paralizzano il pensiero e la libera volontà, che promuovono l’ignoranza, che santificano l’ignoranza e che rovinano i miti. Al contrario, dovremmo promuovere i valori di libertà, giustizia e uguaglianza.
Abbiamo bisogno di una concezione completamente nuova di azione politica. Una concezione che si sviluppi dal linguaggio adottato dai gruppi più giovani nelle relazioni tra palestinesi e forze politiche all’interno della linea verde. Una concezione che rifletta la consapevolezza profonda dell’impossibilità di coesistere con un’ideologia razzista come il sionismo e con un regime colonizzatore e coloniale che criminalizza la narrativa storica dei palestinesi.
Al centro di questa nuova consapevolezza politica devono esserci quelle comunità palestinesi determinate a discutere, tratteggiare e adottare una serie di politiche nazionali inclusive: questo è sia un loro diritto che una loro responsabilità. È altrettanto importante riconoscere il diritto di ogni comunità a determinare la propria strategia nel contrastare le questioni specifiche a cui deve far fronte mentre partecipa all’autodeterminazione dell’intero popolo palestinese.
Costruire un nuovo movimento politico non sarà facile a causa dei crescenti interessi di varie fazioni e a causa della paura di valori e pratiche democratiche. Di conseguenza è necessario incoraggiare le iniziative che mirano a formare leadership locali, con la maggiore partecipazione possibile degli individui provenienti dalla comunità e delle istituzioni; seguendo l’esempio promettente dei palestinesi del 1948, che si organizzarono in Alti Comitati per i cittadini arabi d’Israele per difendere i propri diritti e interessi, e quello dei palestinesi della Striscia e della Cisgiordania nel corso della Prima Intifada. Il Boycott, Divestment and Sanctions Movement (BDS) è un altro esempio di successo di questo nuovo tipo di consapevolezza politica. Mette insieme fazioni politiche diverse, unioni e organizzazioni della società civile sotto una strategia e una visione unitaria.
Alcuni potrebbero vedere tale discussione come utopica e idealista, ma abbiamo un disperato bisogno d’idealismo nel caos e nella frammentazione che ci avvolgono. E abbiamo una ricca storia di attivismo politico e creatività culturale dalla quale partire.
*Traduzione a cura di Giovanni Pagani/Nena News
*Fonte: Al Shabaka*
Titolo originale: Palestinian Political Disintegration, Culture, and National Identity
L’articolo è stato ripreso e traddotto dall’Agenzia Nena News da cui lo abbiamo tratto
Gerusalemme Est, soldi a scuole che rinunciano al programma palestinese
Israele/Territori occupati. Li offre il ministero dell’istruzione israeliano, ha rivelato il quotidiano Haaretz.
Diana Buttu: «Israele vorrebbe trasformare i palestinesi in sionisti, convincerli ad abbracciare la narrazione israeliana di quanto è accaduto in questa terra». Sullo sfondo il sistema scolastico palestinese in condizioni critiche
di Michele Giorgio (il manifesto, 30.01.2015)
GERUSALEMME Nessuno può accusare di scarso impegno il ministro israeliano dell’istruzione Naftali Bennett. Un impegno che però sembra indirizzarsi più verso obiettivi politici che a favore dell’apprendimento degli studenti. Alla fine del 2015 Bennett aveva vietato gli interventi nelle scuole ai rappresentanti di “Breaking the Silence”, l’Ong dei soldati israeliani che rompono il silenzio su crimini commessi nei Territori occupati.
A inizio del nuovo anno ha proibito l’uso nelle scuole superiori del romanzo di Dorit Rabinyan “Borderlife” che racconta la storia d’amore tra una ebrea e un palestinese. Ora, riferiva ieri in prima pagina il quotidiano Haaretz, il ministero dell’istruzione prepara un piano che prevede fondi extra solo per le scuole arabe di Gerusalemme Est che adotteranno il programma israeliano al posto di quello palestinese.
Quando nel 1995 furono firmati gli Accordi di Oslo II, ai palestinesi di Gerusalemme Est, che non sono (tranne una esigua minoranza) cittadini israeliani, fu riconosciuto il diritto di adottare il programma del ministero dell’istruzione della neonata Autorità nazionale palestinese al posto di quello della Giordania.
Delle 180 scuole palestinesi soltanto otto hanno scelto, in questi ultimi venti anni, il programma israeliano e solo due di queste sono istituti pubblici. Un dato che conferma il rifiuto del controllo israeliano della zona araba di Gerusalemme, anche in materia di istruzione, da parte degli oltre 300mila palestinesi nella Città Santa. «Israele vorrebbe trasformare i palestinesi in sionisti, convincerli ad abbracciare la narrazione israeliana di quanto è accaduto in questa terra» spiega al manifesto Diana Buttu, una esperta di diritto internazionale «i palestinesi però intendono rimanere quello che sono e continuare a far parte del mondo arabo». Per questa ragione, aggiunge Buttu, «anche questo tentativo è destinato a non avere successo».
Allo stesso tempo la condizione delle scuole arabe a Gerusalemme Est è grave: il numero degli studenti aumenta con il passare degli anni e non ci sono aule sufficienti. Molte scuole pubbliche operano in edifici spesso fatiscenti che necessitano urgenti lavori di ristrutturazione, scarseggiano attrezzature, computer e materiali didattici. Qualche dirigente scolastico perciò potrebbe essere tentato ad adottare il programma israeliano in cambio dei fondi offerti dal ministero.
«A mio avviso è un ricatto, soldi in cambio di una rinuncia» afferma Diana Buttu «i palestinesi sotto occupazione hanno diritto ai quei fondi senza dover rinunciare alla loro identità, alla loro cultura, al loro programma scolastico in linea con il resto del mondo arabo. Lo dice il diritto internazionale che Israele è chiamato a rispettare. Per questo mi auguro che questo passo del ministero dell’istruzione israeliano venga subito condannato dalle istituzioni internazionali».
Lo sdegno è forte tra i palestinesi di Gerusalemme. Le scuole arabe, affermano, non accetteranno l’offerta del ministero israeliano. Anche perchè i genitori non lo permetterebbero, di fronte a libri di testo e a un programma scolastico che tendono a negare quasi del tutto storia e cultura palestinese.
Nel corso degli anni i governi israeliani si sono spesso lamentati del contenuto dei libri usati nelle scuole palestinesi che non riconoscebbero pienamente lo Stato ebraico e «istigherebbero alla violenza». A loro volta i testi inclusi nel programma israeliano offrono una narrazione totalmente anti-araba, che nega radici e storia dei palestinesi nella loro terra. Lo spiega bene la docente israeliana Nurit Peled Elhanann nel suo libro “La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione” (2012, edito in Italia dal Gruppo Abele).
Gli arabi, scrive Peled Elhanann, sono rappresentati come profughi in strade e luoghi senza nome. «Nessuno dei libri», spiega la docente, «contiene fotografie di esseri umani palestinesi e tutti li rappresentano in icone razziste o immagini classificatorie avvilenti come terroristi, rifugiati o contadini primitivi». Raramente si parla di “Palestina” o “Palestinesi” piuttosto si fa riferimento a “non ebrei”, “arabi”, o al “problema palestinese” descritto il più delle volte come un problema demografico.
Secondo il ministero dell’istruzione israeliano i palestinesi da un lato protestano e dall’altro, in numero crescente, intenderebbero seguire il programma scolastico israeliano. Riferisce che l’anno scorso 1400 studenti arabi hanno scelto il “Te’udat Bagrut”, ossia il diploma di maturità israeliano e non quello palestinese (Tawjihi). Quest’anno se ne prevedono 2.200. Ma sono soltanto il 5% dell’intera popolazione scolastica palestinese.
Muro erotico
Verità nascoste
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 30.01.2016)
Il presidente della Repubblica ha detto che i settanta anni di pace e di sviluppo in Europa sono fondati anche «nel sangue e nella terra fredda, mista a cenere» dei campi di concentramento tedeschi. L’affermazione del presidente è involontariamente ironica: a minare oggi la credibilità dell’Europa e dell’Occidente, è proprio la soluzione data alla catastrofe etica di cui sono stati espressione i campi di annientamento degli ebrei.
Addossando l’intera responsabilità all’eccezionalità del mostro nazista, come se questo mostro fosse nato dal nulla, senza il fallimento di tutti, ci siamo affidati, di fatto, alla logica della colpa di un popolo, quello tedesco.
Espiata la colpa (nel tempo necessario di una lunga sofferenza), siamo al punto di partenza. L’occidente non ha voluto vedere nello sterminio il risultato di una sua grave difficoltà a costruire un senso d’identità eccentrico al suo centro di gravità, aperto senza possibilità di ritorno alle trasformazioni. È un’impasse storica delle civiltà il misconoscimento della loro co-costituzione con il barbaro, lo straniero.
L’ebraismo è stato storicamente una componente fondante della civiltà occidentale (insieme alla cultura greco-romana, il cristianesimo e l’illuminismo ateo), ma anche la parte che più l’ha estroversa, l’ha spinta verso il decentramento, l’esilio da se stessa. Ha posto un problema -la capacità di desiderare il diverso nel punto in cui più destabilizza la nostra autoreferenzialità - che l’occidente, nel momento più decisivo della sua storia, ha rimosso. Nelle rimozioni trovare una meta appropriata al desiderio è l’ultima delle preoccupazioni. Piuttosto che estrovertirci, riaprendosi all’alterità, abbiamo usato la parte estrovertente di noi per occupare la terra di altri.
Gli ebrei riaccolti nella nostra civiltà sono stati usati come nostra enclave nel mondo musulmano. Mandarli via dalla loro casa (l’Europa), perché tornassero a casa loro, che loro non era (Palestina), è stata la forma paradossale con cui si è estrinsecato il nostro rifiuto di lasciarci attrarre, prendere da un altro luogo/modo di essere e la scelta di trattare la casa altrui come estensione della nostra.
Recentemente, il libro premiato di una scrittrice israeliana, che racconta l’amore tra un’ebrea e un palestinese, è stato escluso dalla lista dei libri adottati dai licei. Secondo il ministero d’istruzione israeliano le relazioni intime tra ebrei e non ebrei potrebbero rappresentare una «minaccia alle identità separate»: «Gli adolescenti tendono a romanticheggiare e non includono nel loro punto di vista considerazioni sulla preservazione dell’identità nazionale e sul significato dell’assimilazione». Nella censura dell’incontro erotico tra ebrei e palestinesi, ciò che preoccupa le autorità israeliane -per loro stessa ammissione - non è tanto una relazione sessuale di per sé, quanto la sua trasformazione in matrimonio, in una compenetrazione stabile che porti a una mescolanza profonda di identità che devono restare separate. Questa censura getta luce sulla vera linea di demarcazione tra il mondo occidentale e il mondo islamico.
Il muro materiale che separa Israele dai territori arabi è la rappresentazione simbolica di una divisione erotica che congela la nostra esistenza.
Lo scambio tra culture diverse e la loro integrazione in uno spazio più ampio, che le trascende, è impossibile senza il desiderio erotico che fa attraversare i confini: l’interdizione dei matrimoni misti è l’indicatore più sicuro della loro incapacità di comunicare.
Chi porta nelle vene tracce di «sangue impuro» (simbolo di amori proibiti) non dorma tranquillo.
Donne in mare per rompere l’assedio
di Giovanni Vigna (comune-info, 26 gennaio 2016)
La Freedom Flotilla Coalition lancia il progetto “Women’s Boat to Gaza”: un’imbarcazione, guidata da un equipaggio femminile, cercherà di raggiungere la Striscia. Mentre un rapporto dell’Onu avverte che, se non si troverà un rimedio, entro cinque anni Gaza diventerà inabitabile, un’iniziativa per sottolineare la centralità delle donne nella lotta dei palestinesi. Intervista a Wendy Goldsmith della Freedom Flotilla Coalition
Perché gli uomini fanno la guerra? Forse per rispondere a questa domanda radicale, che tra l’altro dà il titolo a un noto libro del filosofo Bertrand Russell, è necessario focalizzare l’attenzione più sulla parola “uomini” che sul termine “guerra”. Nel senso che, probabilmente, la guerra è una “cosa da uomini”, risponde a una logica maschile di violenza, prevaricazione e sopraffazione, è combattuta per lo più dagli uomini, fatta eccezione per le famose ed eroiche soldatesse curde che lottano contro l’Isis accanto ai colleghi maschi e per le donne che in alcuni paesi occidentali decidono di arruolarsi nell’esercito e che, tuttavia, rappresentano una minoranza.
Per attirare l’attenzione della comunità internazionale sulla drammatica condizione del popolo palestinese, la Freedom Flotilla Coalition, movimento internazionale che promuove iniziative finalizzate a porre fine all’assedio su Gaza, ha lanciato il progetto “Women’s Boat to Gaza”: un’imbarcazione, guidata da un equipaggio femminile, sfiderà il blocco dell’esercito israeliano sulla Striscia. L’obiettivo delle attiviste è rompere l’assedio militare, manifestare la propria solidarietà nei confronti del popolo palestinese e, in particolare, delle donne, il cui ruolo è ritenuto essenziale nella lotta per l’indipendenza dall’occupazione militare israeliana.
Per spiegare in cosa consiste il progetto “Women’s Boat to Gaza”, abbiamo intervistato Wendy Goldsmith, attivista della Freedom Flotilla Coalition.
Wendy, qual è il suo ruolo nel progetto “Women’s Boat to Gaza”?
“Sono una delle tante persone che, in tutto il mondo e all’interno della nostra coalizione internazionale, stanno lavorando per mettere fine al blocco illegale che opprime Gaza. Sono un membro dell’“International Media Committee” e del “Canadian Boat to Gaza Steering Committee”. I nostri attivisti provengono da tutti i settori della società civile e hanno un obiettivo comune: rompere l’assedio di Gaza via mare”.
In cosa consiste il progetto “Women’s Boat to Gaza”?
“Si tratta di un progetto promosso dalla Freedom Flotilla Coalition. Lanciando una nave tutta al femminile, le donne di tutto il mondo puntano a evidenziare i contributi innegabili e lo spirito indomito delle donne palestinesi che svolgono un ruolo centrale nella lotta del proprio popolo a Gaza, nella Cisgiordania, all’interno della Green Line e nell’ambito della diaspora. Il progetto “Women’s Boat to Gaza” cerca non solo di sfidare il blocco israeliano ma anche di dimostrare solidarietà e portare un messaggio di pace al popolo palestinese, con il supporto di donne, uomini, organizzazioni non governative, gruppi della società civile e collettivi femminili provenienti da tutto il mondo”.
Perché le donne palestinesi sono considerate centrali nella lotta del popolo palestinese?
“Com’è noto le donne ricoprono un ruolo fondamentale nelle culture di tutto il mondo e svolgono una funzione significativa quando bisogna affrontare abusi e traumi. Le donne, che costituiscono più della metà della popolazione mondiale, sono le madri e le persone che si prendono cura e sostengono la vita. Di conseguenza è fondamentale che la loro voce sia ascoltata soprattutto durante i periodi nei quali vengono commesse ingiustizie. In particolare le donne palestinesi hanno sofferto e lottato contro le ingiustizie al fine di mantenere unite le proprie famiglie, piangere i propri cari e ricostruire un senso di speranza e di potere. Infatti sono le donne che si battono per assicurare una condizione di sicurezza ed equilibrio per i propri figli e per le persone amate. Questo è particolarmente evidente a Gaza e in tutta la storia della diaspora del popolo palestinese”.
I palestinesi di Gaza vivono in una condizione di continua emergenza.
“Nonostante le bombe, le macerie, l’interruzione della corrente elettrica e la mancanza di acqua potabile, malgrado le restrizioni e i tormenti inflitti da uno dei più potenti eserciti del mondo, il popolo di Gaza è determinato a continuare a vivere. Le donne della Striscia raccolgono ciò che rimane dei beni di famiglia tra le macerie delle case distrutte: uno sgabello rotto, una padella ammaccata, una bottiglia o un quaderno scolastico. E cercano di ricostruire questi oggetti. Sanno come si fa perché hanno dovuto impararlo. Ogni giorno cuociono il pane e il riso e consolano i propri figli che di notte piangono perché temono che gli aerei israeliani tornino a bombardare. Le donne di Gaza sono baluardi di resistenza e vita. Non permettono che il proprio spirito venga distrutto nonostante la devastazione che le circonda. Perciò molte donne provenienti da diversi paesi si stanno unendo per raggiungere le donne di Gaza, per esprimere la propria solidarietà alla popolazione assediata, per portare un abbraccio e per rendere omaggio al coraggio e alla forza di queste donne, che sono nostre sorelle”.
In Italia arrivano notizie dalla Palestina ma, in generale, non si conosce in modo approfondito la realtà quotidiana delle donne palestinesi. Possono essere definite persone libere?
“Ebbene, la libertà è un concetto relativo. Le donne palestinesi sono libere di viaggiare fuori e all’interno della Striscia di Gaza? No. Sono libere di vivere la propria vita senza la minaccia dell’occupazione militare israeliana e senza minacce fisiche? No. I loro figli sono liberi di andare a scuola senza la paura di essere attaccati fisicamente e mentalmente? No. Le donne sono libere di vivere una vita colma dei piaceri e delle gioie che caratterizzano la “normalità”? No, non lo sono. Finché la brutale occupazione israeliana non finirà, nessun palestinese sarà libero.
Da nove anni oltre un milione e 800mila persone, oppresse dal crudele e disumano blocco dell’esercito israeliano, sono rinchiuse in un’area di non più di 360 chilometri quadrati, dove le forze armate vanno e vengono come vogliono. I soldati israeliani fanno fuoco dalle loro torri di guardia sui contadini che hanno la sfortuna di possedere terre troppo vicine ai confini. Le navi della marina israeliana a loro volta fanno fuoco sui pescatori che tentano di pescare in zone dove tale attività è attualmente vietata. Periodicamente gli elicotteri Apache dell’esercito israeliano compiono incursioni che loro definiscono “omicidi mirati” ma purtroppo non sono mai realmente “mirati”. E di tanto in tanto il governo israeliano decide di lanciare un’offensiva devastante seminando morte e distruzione in quel lembo di terra martirizzata che è la Striscia di Gaza”.
Gaza è stata rasa al suolo dai massicci bombardamenti dell’estate 2014.
“Nonostante le promesse fatte dalla comunità internazionale dopo l’atroce operazione militare del 2014, molto poco è stato ricostruito nella Striscia. L’esercito israeliano non consente che i materiali edili entrino a Gaza, dove gli abitanti hanno solo sei ore al giorno di corrente elettrica e dove il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 42%. Secondo i report delle Nazioni Unite 400mila bambini gazawy hanno bisogno di assistenza psicologica. Un rapporto dell’Onu avverte che, se non si troverà un rimedio, entro cinque anni Gaza diventerà inabitabile”.
La vostra imbarcazione sfiderà il blocco israeliano. Sarà rischioso?
“Esatto, la barca sfiderà il blocco israeliano e, sì, in ogni sfida è implicito un rischio. Ma noi riteniamo che il rischio di non fare nulla sia di gran lunga più grave del rischio di fare qualcosa. Per questo vogliamo rompere l’assedio su Gaza. Essendo il nostro progetto di natura pacifica e non violenta, intendiamo correre questo rischio. D’altra parte per i palestinesi di Gaza è la vita quotidiana a essere rischiosa. In una situazione normale non dovremmo correre rischi per dimostrare la nostra solidarietà ma, in Palestina, è Israele che determina un’esposizione al rischio. Siamo determinati a manifestare la nostra solidarietà nei confronti degli abitanti di Gaza perché il blocco è un crimine che viene perpetrato contro questo popolo ormai da nove anni. Questa situazione persiste a causa del silenzio, della passività e della complicità di tanti governi che si autodefiniscono democratici. Noi non vogliamo essere conniventi con questo crimine e, per questo motivo, salperemo ancora una volta a bordo di una barca per arrivare a Gaza”.
Quando salperete?
“La data esatta non è ancora stata stabilita ma prevediamo di annunciarla nel giorno della festa internazionale delle donne, l’8 marzo”.
Da chi sono formati l’equipaggio e il gruppo che si occupa dell’organizzazione del progetto “Women’s Boat to Gaza”?
“Questo progetto, promosso da una coalizione internazionale, coinvolge sia donne che uomini. Siamo membri della società civile che hanno accumulato molti anni di esperienza e saggezza collettiva, lavoriamo sia nei nostri paesi che in Palestina con i nostri fratelli e le nostre sorelle”.
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Fonte: Nena News
Pioggia di diserbanti su Gaza, Israele conferma «operazione di sicurezza»
Israele/Territori occupati. Nei giorni scorsi aerei agricoli israeliani hanno irrorato con gli erbicidi almeno 150 ettari di terreni fertili palestinesi, distruggendo le coltivazioni di centinaia di famiglie. Si temono rischi per la salute della popolazione. ONU: nel 2015 sono morti in scontri e attacchi 170 palestinesi e 27 israeliani.
di Michele Giorgio (il manifesto, 31.12.2015)
GERUSALEMME «È un disastro per centinaia di famiglie contadine e non conosciamo gli effetti che questi prodotti chimici potranno avere sulla popolazione di Gaza». Scuote la testa Khalil Shahin, vice direttore del Centro per i Diritti Umani, che sta indagando sull’irrorazione, con diserbanti e defolianti, fatta nei giorni scorsi da aerei agricoli israeliani di almeno 150 ettari di terreni coltivati nella fascia orientale di Gaza, adiacente alle linee di confine.
«Non è la prima volta che accade, l’Esercito israeliano sostiene che distruggendo la vegetazione si impediscono i lanci di razzi e altri attacchi» ci spiega Shahin «ma negli anni passati questa irrorazione era limitata a pochi terreni vicini alle recinzioni di confine. Nei giorni scorsi gli aerei israeliani invece si sono spinti in profondità, per molte centinaia di metri. In alcuni casi i liquidi, spinti dal vento, sono arrivati fino a due km di distanza dal confine, quindi a ridosso dei centri abitati di Gaza».
Da parte israeliana si conferma l’uso di erbicidi e di inibitori di germinazione, allo scopo di «garantire lo svolgimento delle operazioni di sicurezza lungo il confine», ha spiegato un portavoce militare.
Anche gli Stati Uniti, negli anni Sessanta, parlavano di «condizioni di sicurezza da garantire» quando spruzzavano ampie porzioni del Vietnam con il famigerato Agente Arancio, per rimuovere le foglie degli alberi e privare i Vietcong della copertura del manto vegetale. Il conto negli anni successivi lo hanno pagato tanti civili vietnamiti, soggetti agli effetti cancerogeni dell’Agente Arancio, senza dimenticare i neonati malformati. La comunità internazionale intervenne con una convenzione del 1978 che vieta o limita fortemente l’uso degli erbicidi durante i conflitti, alla luce alle conseguenze devastanti che hanno sulle persone. Israele non l’ha firmata.
Cosa significherà questa pioggia di diserbanti peruna porzione della popolazione di Gaza si saprà solo in futuro. Così come si stanno ancora studiando le possibili contaminazioni causate dai bombardamenti dal cielo e da terra compiuti da Israele nell’estate del 2014 - nella stessa fascia di territorio orientale di Gaza irrorata nei giorni scorsi - e quelle precedenti provocate delle offensive militari del 2012 e del 2008-9 (sono proprio questi i giorni dell’anniversario dell’Operazione “Piombo fuso”).
La conseguenza immediata è economica: centinaia di famiglie con i campi nelle zone di Qarara e Wadi al Salqa hanno visto distrutti in poche ore spinaci, piselli, prezzemolo e fagioli. Contadini che già devono fare i conti tutto l’anno con le restrizioni imposte da Israele all’ingresso nella cosiddetta “no-go zone”, la zona lungo il confine, larga fino a 300 metri (è la più fertile della Striscia), dove i palestinesi non possono entrare. Qui l’Esercito negli ultimi tre mesi ha ucciso almeno 16 persone e ferito altre 400 durante le manifestazioni innescate dall’Intifada di Gerusalemme.
Di cosa potranno ora vivere i contadini palestinesi rimasti senza raccolto non è un problema che interessa all’esercito israeliano. Senza dimenticare che raramente le produzioni agricole riescono ad uscire da Gaza. E quando accade, sempre con l’autorizzazione di Israele, la spedizione non va sempre a buon fine. Nei giorni scorsi alcune tonnellate di pomodori sono state rispedite al mittente dagli israeliani. Perchè, secondo le autorità militari, erano state aggiunte illegalmente a un carico di altri ortaggi. A Gaza però sono circolate altre voci. Pare che i pomodori contenessero alte concentrazioni di un pesticida, usato in modo improprio, quindi pericoloso per la salute. Il ministero dell’agricoltura palestinese però ha smentito, sostenendo che queste voci «fanno solo il gioco dell’occupante israeliano».
Intanto Ocha, l’ufficio di coordimento delle attività umanitarie dell’Onu, ha diffuso alcuni dati sull’anno che finisce oggi. Nel 2015, fino al 28 dicembre, sono stati uccisi almeno 170 palestinesi e 26 israeliani (ieri è morto un colono ferito a metà mese a Hebron), in attacchi e scontri nel territorio palestinese occupato e in Israele, avvenuti in maggioranza dopo il 1 ottobre, data con la quale si indica l’inizio dell’Intifada di Gerusalemme. Durante il 2015, le autorità israeliane hanno fatto demolire “per mancanza di permesso” 539 edifici palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Sono state ridotte in macerie, a scopo punitivo, altre 19 case appartenenti a palestinesi accusati di attacchi contro gli israeliani.
L’Arabia mette a morte il poeta dei versetti “blasfemi”
Fayadh, artista palestinese di 32 anni, è stato accusato di “apostasia” da una corte saudita.
Appelli di grazia dagli Usa alla Cisgiordania
di Maurizio Molinari (La Stampa, 02/12/2015
corrispondente da Gerusalemme
«Ha scritto poesie blasfeme»: con questa motivazione il tribunale saudita di Abha ha condannato a morte lo scrittore palestinese Ashraf Fayadh innescando proteste e appelli di grazia, da Ramallah a New York, destinati al sovrano wahabita Salman.
CHI È
Fayadh ha 32 anni, è nato in Arabia da una famiglia palestinese originaria della Striscia di Gaza, ed è una figura di spicco dell’arte saudita non solo per le sue poesie ma anche per essere stato protagonista del gruppo «Edge of Arabia» che ha curato una propria esposizione alla Biennale di Venezia del 2013. Proprio in quell’anno è stato arrestato a seguito di un vivace alterco, in un caffè di Abha, con uno degli avventori che affermava di non gradire le sue strofe considerate in contrasto con i dettami dell’Islam.
FOTO DI DONNE SUL TELEFONO
Nel processo che seguì, il procuratore lo accusò di «relazioni sessuali improprie con persone del sesso opposto» - sulla base della scoperta di foto di donne sul suo cellulare - con una conseguente sentenza a quattro anni di detenzione e 800 frustate. Le foto divennero un capo di accusa sebbene, per il poeta, fossero di «donne vestite». L’accusa voleva la condanna a morte ma il giudice la negò, affermando che il poeta palestinese si era «pentito» riconoscendo gli errori commessi. Più organizzazioni per i diritti umani, come «Human Rights Watch», chiesero in quel caso la liberazione del poeta ma l’effetto è stato opposto: a metà novembre è stato assegnato al caso un nuovo giudice che ha ritenuto «non sufficiente» il pentimento di Fayadh in quanto i «versetti apostati» avrebbero richiesto «un comportamento e un linguaggio assai più convinto».
Fra i versetti di Ashraf Fayadh tradotti in Occidente vi sono quelli in cui definisce il petrolio «incapace di fare del male a eccezione delle tracce di povertà che si lascia alle spalle», descrive l’anziano nonno «come una persona a cui piaceva stare in piedi, completamente nudo» e parla di «danzatrici seducenti» per affermare anche che «i profeti si sono ritirati e aspettarli è oramai inutile». Per il giudice del tribunale saudita si tratta di strofe «malefiche» e ha così dato luce verde alla pena di morte, senza tuttavia indicare la data dell’esecuzione.
Alla genesi dell’intera vicenda, secondo la sorella Raeda Fayadh che vive a Gaza, vi sarebbe una «colossale incomprensione» perché l’alterco originale «avvenne in un bar mentre stavano guardando una partita di calcio in tv e sono volate parole grosse» fino a quando uno dei presenti ha chiamato la polizia religiosa del regno accusando il poeta di aver «insultato Maometto e l’Islam nel suo libro di poesie» determinandone l’arresto.
ONG IN CAMPO
A Ramallah sono molti i poster di Ashraf Fayadh esposti in pubblico, i media palestinesi lo descrivono come un «caso di libertà di coscienza» e sul web è iniziata la campagna #freeAshraf a cui hanno aderito anche il poeta siriano Adonis e quella britannica Carol Ann Duffy, co-firmatari di una lettera aperta al re Salman nella quale affermano di essere «sotto choc» a causa di una «sentenza da rivedere» perché «avere delle idee non significa commettere crimini» in quanto «ognuno ha il diritto a esprimere le proprie opinioni». Amnesty International ha raccolto oltre 22 mila firme per una campagna tesa a obbligare Riad a rivedere la condanna. «La sentenza di morte dopo un processo farsa ai danni di Ashraf Fayadh - afferma Sevag Kechichian, ricercatore sull’Arabia di Amnesty - è un’ulteriore dimostrazione di come le autorità del regno intendono piegare i diritti umani ai loro bisogni privati».
Da qui l’appello di «Human Rights Watch», con Sarah Leah Whitson direttrice per il Medio Oriente, a re Salman affinché conceda la grazia perché «non è accettabile che l’Arabia Saudita decida di mettere in prigione una persona solo in quanto afferma ciò che pensa». A far crescere l’ondata di proteste verso la casa reale wahabita c’è la prospettiva che «un poeta di trent’anni venga decapitato in pubblico», aggiunge Whitson.
Ashraf Fayadh’s “Disputed” Poems / Le poesie “contestate” di Ashraf Fayadh
Ashraf Fayadh, Poems / Poesie
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ANDRAGATHIA" (’NDRANGHETA). IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DEL MACROANTROPO ("UOMO SUPREMO", "SUPERUOMO", "DOMINUS IESUS"): FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
Il "Codice da Vinci", come i “Versi Satanici”
Due opere da leggere, che danno (tanto) da pensare
Il poeta e artista Ashraf Fayad condannato a morte in Arabia Saudita / Poet and Artist Ashraf Fayadh Sentenced to Death in Saudi Arabia /
Stando all’Independent, l’Osservatorio dei Diritti Umani, dopo aver visionato gli atti del processo, riferisce che i capi d’accusa contro Fayadh includono il reato di apostasia e quello di abiura della fede musulmana. Tra gli artisti che sono stati recentemente perseguitati dai regimi conservatori, ricordiamo la fumettista iraniana Atena Farghadani e il regista ucraino Oleg Sentsov.
Fayad è membro di Edge of Arabia, un’organizzazione britannica-saudita, che il 16 novembre ha realizzato un’istallazione di due murali alla Nazioni Unite nell’ambito di Our Mother’s House, iniziativa artistica portata avanti con Art Jameel in supporto delle donne del sud-ovest dell’Arabia Saudita. I due gruppi sono stati segnalati alla Focus Section 2015 dell’Armoury Show.
“Fayad è stato un importante tramite per l’introduzione dell’arte contemporanea saudita nel Regno Unito e per connettere Tate Modern alla contemporanea scena emergente”, ha detto il co-fondatore di Edge of Arabia Stephen Stapleton al Guardian. “Ha curato un’importante esposizione a Jeddah nel 2013 e co-curato un’esposizione alla Biennale di Venezia nello stesso anno.”
Fayad è stato arrestato il 1 gennaio del 2014, con l’accusa di aver promosso l’ateismo nella sua raccolta poetica (Instruction Within, Le istruzioni sono all’interno), pubblicata nel 2008. Nell’agosto del 2013 era già stato fermato dalla polizia, per poi essere rilasciato il giorno dopo su cauzione. Sui social gli amici hanno affermato che la polizia, non riuscendo a provare il suo ateismo, avrebbe preso a pretesto i suoi capelli lunghi e l’abitudine di fumare in pubblico.
“Mi hanno accusato di ateismo e di diffusione di idee distruttive”, ha detto Fayadh al Guardian, spiegando come le sue poesie trattassero invece “semplicemente della sua condizione di rifugiato palestinese.... Di questioni filosofiche e culturali. Ma i religiosi estremisti le hanno interpretate come idee distruttive contro Dio.”
Inizialmente condannato a quattro anni di prigione e 800 frustate nel 2014, Fayadh ha poi subito un nuovo processo. Ora ha trenta giorni a disposizione per fare appello contro la nuova decisione, presa in base alla legge islamica di Sharia, su cui il sistema legislativo saudita si fonda.
Stando a quanto riportato, durante il processo un testimone dell’accusa avrebbe accusato Fayadh di maledire Dio, Maometto e l’Arabia Saudita. Fayadh è convinto che queste affermazioni siano scaturite da una discussione sull’arte contemporanea avuta in un bar con un altro artista.
Stando al Guardian, gli atti del processo riportano che Fayadh avrebbe affermato: “Faccio ammenda al cospetto di Dio l’altissimo e mi dichiaro innocente rispetto a quanto compare nel mio libro, menzionato in questo caso.”
“Sono rimasto davvero scioccato,” ha detto Fayadh rispetto al nuovo verdetto, “ma me lo aspettavo, sebbene non abbia fatto nulla per meritarmi la morte.”
* FONTE: IRISNEWS (ripresa parziale, senza allegati).
Nonna Naima e i giovanissimi di Gaza che vogliono “resistere studiando”
dall’inviato Daniele Rocchi (BOCCHE SCUCITE, 20 novembre 2015)
Il sogno di “Um George”, vecchia signora 84enne, è di poter vedere un giorno il Papa nella sua terra. I ragazzi che frequentano l’Holy Family School, gestita dal Patriarcato latino di Gerusalemme, testimoniano il loro desiderio di pace e di rinascita. La condanna ferma del terrorismo e la scommessa sullo studio
Ricordano ancora le bombe cadere sopra le loro case e le grida di dolore dei loro amici e parenti rimasti sotto le macerie. Nella mente è forte la memoria dei loro congiunti morti. Non c’è famiglia a Gaza che non abbia avuto un lutto o dei feriti nel corso dell’ultima guerra con Israele, denominata “Margine Protettivo” (8 luglio-26 agosto 2014). Non bastano tre guerre negli ultimi nove anni per affossare i sogni dei giovani della Striscia di Gaza e nemmeno la tensione dell’ultimo mese e mezzo, la cosiddetta “Intifada dei coltelli”, che qui ha provocato 17 morti. Per l’Onu il dato più alto dalla fine dell’offensiva israeliana del 2014.
Resistere studiando. La loro resistenza all’oppressione e alla mancanza di libertà, dovuta anche al blocco israeliano che dura da nove anni, si chiama “studio”. Lo affermano con chiarezza dai banchi della loro scuola, l’Holy Family School, gestita dal Patriarcato latino di Gerusalemme. Una delle tre scuole cattoliche attive nella Striscia, rinomata per l’istruzione che fornisce ai suoi allievi, 647 di cui solo 72 di fede cristiana, al punto che anche i membri di Hamas, l’organizzazione politica che governa la Striscia, ambiscono a iscrivervi i loro figli. “Vogliamo studiare e non combattere” dicono in coro con la sfrontatezza dei loro 15 anni. La stessa che alcuni loro coetanei misero in evidenza alla fine del 2010, un anno dopo la campagna militare israeliana, “Piombo Fuso”, con un manifesto in cui si dicevano stufi di essere dipinti dai media occidentali come potenziali terroristi e fanatici carichi di odio, stanchi dell’indifferenza del resto del mondo. Sono passati 5 anni ma le richieste sono rimaste le stesse.
La sua fede musulmana non le impedisce di vivere e crescere con altri suoi amici cristiani. Come non le impedisce di “condannare fermamente gli attentati terroristici di Parigi”. “Coloro che si sono macchiati di questi gesti atroci sono solo dei terroristi e non hanno nulla a che vedere con l’Islam - dichiara la giovane - prego i media occidentali di non condannarci tutti. Per il gesto di pochi non possono pagare tutti i musulmani. Siamo vicini alle famiglie delle vittime e dei feriti. Conosciamo bene la loro sofferenza per averla provata anche noi durante le guerre degli scorsi anni”.
“Noi non siamo terroristi - ripete con voce ferma il suo compagno di classe Walid - ciò che vogliamo è studiare per costruirci una vita migliore. A quei giovani che scelgono di diventare terroristi dico di non farlo. Non diventate strumenti di morte. Quando si uccide qualcuno, a morire con lui sono anche i suoi sogni, le sue idee, quelle che potrebbero rendere il mondo migliore”. “Il nostro sogno - riprende Yasmeen - è completare gli studi e adoperarci per aiutare il prossimo e il nostro Paese a rinascere. Dobbiamo restare uniti senza differenze di fede e idee”.
Una vera impresa in una Striscia nella quale, secondo la Banca Mondiale, la disoccupazione supera il 43% il livello più alto del mondo e dove circa il 40% della popolazione vive sotto della soglia di povertà. I giovani, che sono più della metà della popolazione (1,8 milioni), sono i più penalizzati. Molti desiderano emigrare all’estero, Usa in testa, ma uscire dalla Striscia è praticamente impossibile. La piccola parrocchia locale, guidata da padre Mario da Silva cerca di promuovere dei progetti per dare loro lavoro, ma senza riuscire a soddisfare tutte le richieste. “Lo stipendio mensile che diamo - afferma il religioso - è di circa 350 dollari, non molti per il costo della vita della Striscia, ma superiore a quello che viene di solito pagato qui”.
La nonna della Striscia. Chi invece ha smesso di sognare per se stessa è Naima ma nella zona del porto di Gaza, abitata un tempo da molte famiglie cristiane, tutte la conoscono come “Um George”, la madre di George. Dall’alto dei suoi 84 anni si guarda indietro e ricorda un susseguirsi di guerre, specie “quella del 1967”, quando i soldati israeliani fecero irruzione nella chiesa dove si era rifugiata nonostante il parroco di allora avesse issato la bandiera bianca. “Pensavo di morire” dice la donna. Rimasta vedova piuttosto giovane, oggi vive sola in un piccolo appartamento.
Nessuna notizia nemmeno dalle altre due figlie, una in Giordania e l’altra in Libano. “Passo le mie giornate pregando” racconta l’anziana mostrando un santino tutto stropicciato con l’immagine di Cristo. A prendersi cura di lei sono le suore di Madre Teresa di Calcutta e il parroco, padre Mario. “Aspetto di morire a Gaza - rivela - questo è il posto più bello del mondo, il mare è stupendo. Prima di morire, vorrei che il Papa venisse a Gaza per poterlo vedere da vicino”. Le guerre? “Ne abbiamo una ogni due anni, magari non ci fossero!”. Gli israeliani? Si ferma un attimo a pensare e poi una risposta, da nonna, che è un messaggio ai gazawi più giovani: “In tutti i popoli c’è gente buona e gente cattiva”. Sognare a Gaza è ancora possibile.
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
Il filosofo olandese era anche un po’ palestinese
Polemiche. Una risposta all’articolo uscito sul «Corriere della Sera» dal titolo «Spinoza sionista», firmato dalla studiosa Donatella Di Cesare
di Stefano Visentin (il manifesto, 03.11.2015)
È senz’altro una pura coincidenza il fatto che, pochi giorni dopo le frasi razziste e antisemite (perché anche gli arabi appartengono al ceppo linguistico semitico) di Benjamin Netanyahu a proposito della soluzione finale suggerita ad Hitler dal Gran Muftì di Gerusalemme, sia apparso sulle pagine culturali del Corriere della Sera un articolo della filosofa Donatella Di Cesare su «Spinoza Sionista» ([La Lettura], domenica 25 ottobre).
I due interventi, peraltro, si collocano su piani assolutamente diversi: il primo è un’orribile falsificazione storica operata da un primo ministro, che non prova vergogna a strumentalizzare per motivi politici una delle grandi tragedie del Novecento; il secondo è uno scritto di un’importante studiosa italiana (anche se forse non tra le più note interpreti del pensiero spinoziano) che rilegge in maniera originale - e per molti versi inaccettabile - un momento significativo della biografia di uno dei maggiori filosofi della prima modernità, il «maledetto» Spinoza (maledetto, sia ben chiaro, tanto dagli ebrei, quanto dai cristiani), per ricondurlo alla religione natia e, in tal modo, mostrare il carattere ideologico dell’interpretazione della modernità come processo di secolarizzazione e di graduale (e problematica) presa di distanza dall’eredità delle grandi religioni monoteiste (in particolare dall’ebraismo). E tuttavia, pur tenendo ben presente la grande differenza tra questi due interventi, è forse possibile trarne un insegnamento comune.
Una pioggia di maledizioni
Che le radici culturali e politiche del moderno abbiano un rapporto complesso e ambivalente con la dimensione teologica è un dato storicamente acclarato; e tuttavia la lotta per l’emancipazione dall’invadenza del clero nella vita della società e dei singoli individui rimane un passaggio fondamentale nel processo di costruzione dell’orizzonte politico della modernità.
Che Spinoza non sia stato scomunicato - come afferma Di Cesare, giocando sul fatto che per la religione ebraica la scomunica non esisteva - bensì «semplicemente» bandito dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam («Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra»), e che vi fossero dei fondati motivi di opportunità politica perché la comunità agisse in questo modo, tutto ciò è, in ultima analisi, poco rilevante per il percorso filosofico spinoziano; il giorno dello Cherem Spinoza di fatto aveva già abbandonato la sua comunità, andando a vivere fuori dal quartiere ebraico, frequentando perlopiù cristiani «senza Chiesa» (come l’ex-gesuita Van den Enden, oppure gli amici Collegianti Balling e Jelles), e successivamente dialogando con i maggiori scienziati dell’epoca (come Henry Oldenburg, segretario della Royal Society) e, forse, perfino istituendo rapporti con personaggi di spicco della politica olandese, come Johan De Witt.
Soprattutto, egli aveva abbandonato l’orizzonte ideologico della sua antica religione, leggendo Machiavelli e Hobbes, gli storici latini e Terenzio, Descartes e i trattati seicenteschi di medicina; e iniziando, passo dopo passo, a costruire un sistema filosofico che attribuiva a Dio la materialità, privandolo della volontà creatrice, e al mondo una necessità antifinalistica che mirava a liberare gli uomini dal giogo del peccato e della colpa.
Per questo la stesura del Trattato teologico-politico, composto tra il 1665 e il 1670, quando Spinoza era ormai lontano da Amsterdam, non era pensata per chiudere dei conti con l’ebraismo e con la sua comunità, né tantomeno - come sembra indicare Di Cesare - per testimoniare un qualche debito filosofico con la fede degli avi, quanto piuttosto, come dice lui stesso in una lettera all’amico Oldenburg, per difendere «la libertà di filosofare e di dire ciò che sentiamo» dai pregiudizi dei teologi di ogni religione, in particolare di quella calvinista, che preoccupava Spinoza ben più dei suoi ex-correligionari.
Così i capitoli dedicati alla respublica Hebraeorum, sui quali Di Cesare costruisce la sua tesi di uno Spinoza proto-sionista, sono in realtà composti in aperta polemica con la filia vetero-testamentaria dell’ortodossia calvinista, allo scopo di trarre dalla storia politica ebraica «alcuni insegnamenti politici» (titolo del cap. XVIII) da adoperare nella lotta per la libertà di pensiero e di parola nelle Province Unite del XVII secolo. Il carattere problematicamente democratico della teocrazia mosaica appare, agli occhi di Spinoza, un modello inimitabile in una società nella quale «non ci sono più profeti», dove l’idea di un patto con Dio risulterebbe niente altro che un grande inganno teologico: è la «società tutta intera» (cap. XVI), e non la divinità, alla quale una collettività «moderna» deve attribuire il diritto di governare, in modo che tutti i cittadini rimangano liberi e uguali.
Spirito non addomesticabile
Concludendo: il tentativo di arruolare Spinoza tra i figli prediletti del popolo ebraico (tentativo uguale e contrario alle numerose interpretazioni di uno Spinoza traditore della sua fede avita, che Di Cesare omette di ricordare; pars pro toto quella di Leo Strauss) appare un’operazione fortemente a rischio di manipolazione politica, nella direzione di una conferma dell’eccezionalismo ebraico, oggi rappresentato eminentemente dallo Stato di Israele, culla della democrazia moderna, minacciata dal progetto di sterminio architettato fin dalla prima metà del secolo scorso da una presunta congiura araba (la ripresa in chiave farsesca della leggenda dei Protocolli dei Savi di Sion).
E però Spinoza non appartiene al popolo ebraico - né tantomeno alla nazione israeliana - più di quanto non appartenga all’intera umanità, e in particolar modo a coloro che, senza distinzioni di nazione, etnia, fede religiosa, lottano per emancipare gli uomini dai pregiudizi della morale e della religione e dall’asservimento al potere dispotico di pochi; in tal senso, forse, Spinoza è anche un po’ palestinese.
Il sionista Spinoza
Il filosofo ebreo, mai «scomunicato» dai rabbini, vedeva nella Bibbia le origini della democrazia e ipotizzava la nascita di un nuovo Stato d’Israele
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera - La Lettura, 25.10.2015)
Può capitare di salire su un autobus, fermo alla stazione di sosta, e di imbattersi in un autista immerso nella lettura di un libro. La sorpresa aumenta quando si riesce a scorgere il titolo. Il libro è l’ Etica di Baruch Spinoza, la stazione degli autobus è quella di Tel Aviv.
Ma che ci fa Spinoza in Israele? Non è stato forse «scomunicato», espulso dal popolo ebraico già secoli fa? Come mai il suo spettro si aggira nel cuore della società israeliana? Per rispondere occorre ripartire proprio dal mito di quella «scomunica» che continua a essere divulgato in modo acritico. Secondo la versione più diffusa, il 27 luglio 1656 le autorità rabbiniche della comunità di Amsterdam avrebbero «scomunicato», con tanto di cerimonia lugubre, celebrata sotto la volta della sinagoga dello Houtgracht, Bento Spinoza, registrato con il nome ebraico di Baruch. La scena assume un valore emblematico: è l’apice dello scontro fra il libero pensiero e la rigida ortodossia ebraica, tra l’apertura della scienza e l’intolleranza della religione. La condanna di Galilei e la «scomunica» di Spinoza segnerebbero la fine di un’epoca buia, inaugurando la modernità.
Descritta talvolta con dovizia di particolari, tra candele nere, voci accorate, suono dello shofàr , la scena della «scomunica» non si è mai verificata. Frutto di una immaginazione, per nulla innocente, è la «scomunica» stessa. Da che cosa avrebbe dovuto essere «scomunicato» Spinoza? L’ebraismo non ha, a differenza della Chiesa, né un’autorità centrale né un dogma teologico, sulla cui base si possa impedire la «comunione» di sacramenti. Secondo le ricerche condotte negli ultimi anni si può dire che, in una saletta attigua alla sinagoga, i parnassìm , le autorità laiche, i capi riuniti nel ma’amad , il consiglio della comunità, diedero lettura di un testo in ebraico, andato perduto, di cui depositarono una copia in portoghese: per via delle sue horrendas heregias , «orrende eresie», si vietava ai membri della comunità di Amsterdam di avere ancora rapporti con Bento Spinoza.
Il divieto non fu rispettato. Dal canto suo Spinoza, che non era presente alla lettura, per difendersi inviò un testo in spagnolo, la Apologia , di cui non resta traccia, ma che dovette confluire nel suo celebre Trattato teologico-politico . L’evento non ebbe risonanza. La comunità prosperò e fiorì senza il giovane ribelle, il quale continuò a frequentare gli amici di prima e a sviluppare le sue «idee eretiche».
Oscuro resta il motivo concreto del provvedimento: forse Spinoza aveva deciso di disfarsi dell’eredità del padre, un cumulo di debiti, forse non aveva pagato le quote alla comunità, forse fu colto in flagrante mentre, insieme a Juan de Prado, violava apertamente lo Shabbat. Ma Spinoza, per carattere, era riservato e introverso; non amava la bagarre . La serena intimità dei quadri di Vermeer non deve ingannare: tra i canali del quartiere di Vlooienburg, nella «Gerusalemme olandese», i conflitti erano all’ordine del giorno. I vecchi marrani, che avevano resistito alle persecuzioni in Spagna e Portogallo, erano convinti di aver conservato in segreto l’ebraismo. Non ne avevano, però, che un pallido ricordo. L’impatto con la tradizione, che si era mantenuta viva negli altri Paesi europei, fu dunque traumatico. Giunsero da Venezia rabbini famosi come Rabbi Saul Levi Mortera, per insegnare a quegli ex conversos che Purim non era, come loro immaginavano, la festa di Santa Ester.
Fioccavano perciò i provvedimenti di cherem , di bando dalla comunità. Lo storico Yosef Kaplan ne ha contati almeno 40 nel periodo tra il 1622 e il 1683. Il cherem poteva durare anche solo un paio di giorni. La tensione era alta anche all’esterno. I capi della comunità dovevano dimostrare alle autorità olandesi che gli ebrei, oltre a seguire l’ortodossia, si guardavano bene dal sostenere idee politiche troppo radicali. Che fare con il giovane Spinoza, strenuo difensore della democrazia e della sovranità popolare? Il cherem ebbe, dunque, un valore politico. Ma a che scopo alimentare il mito della «scomunica», come hanno fatto già i primi biografi, Johan Colerus e soprattutto Jean-Maximilien Lucas, che riportano notizie tendenziose e apocrife?
Ha parlato, senza mezzi termini, di «antisemitismo» Richard Popkin, tra i maggiori studiosi del filosofo: sulla scia di precedenti illustri, Spinoza è stato dipinto come un martire per gettare discredito sulla comunità di Amsterdam e su tutto il mondo ebraico.
Eppure Spinoza è rimasto sempre ebreo. In veste geometrica e in lingua latina ha articolato la tradizione ebraica, inserendola nella riflessione europea. Di qui la straordinaria complessità della sua opera. Né ricchezza, né onore, né piacere sono beni certi. Eppure li inseguiamo ogni giorno, lasciando la nostra vita in balia di passioni e sbalzi morali che la turbano. Questo patetico amore per il bene effimero non è che idolatria. Chi è eticamente libero non teme la sorte avversa né attende ricompensa nell’aldilà.
Per spezzare le catene della schiavitù etica occorre amare ciò che è infinito, eterno, perfetto. Solo l’«amore intellettuale di Dio» è fonte di «letizia» - e nella laetitia riecheggia l’ebraico simchà . Che cosa significa, d’altronde, l’emendazione dell’intelletto, di cui Spinoza parla nel suo primo trattato? A chiarirlo è l’ebraico tikkùn , riparazione. Emendare l’intelletto vuol dire ricondurlo al Sommo Bene. Perfino la formula Deus sive natura , secondo cui Dio è natura, non è la negazione della trascendenza, ma proviene - come ha mostrato il noto studioso Moshe Idel - dalla Kabbalà. Lo aveva già detto, d’altronde, in un saggio del 1864, il grande rabbino di Livorno Elia Benamozegh.
Il mondo ebraico non ha mai dimenticato Spinoza. Certo, ha guardato con qualche sospetto quel primo grande intellettuale della modernità. Tracce di ciò si rinvengono nel breve racconto di Isaac B. Singer Lo Spinoza di via del Mercato . Nahum Fischelson, un filosofo in pensione, viveva nella quieta solitudine del suo piccolo appartamento di Varsavia, lontano dalla comunità. Di tanto in tanto gettava un’occhiata sulla via del Mercato, poi tornava beato a leggere l’ Etica di Spinoza. Ma improvvisamente si ammalò. Una vicina, Dobbe la nera, fu presa allora da pietà; superato il timore per l’«eretico», andò ad accudirlo. Sbocciò l’amore e, inatteso, si celebrò il matrimonio. Durante la prima notte di nozze, l’anziano filosofo, finalmente felice, si affacciò alla finestra. «Aspirò profondamente l’aria della notte, poggiò le mani tremanti sul davanzale e mormorò: “Divino Spinoza perdonami. Sono diventato uno sciocco”».
Ma l’immagine dell’eretico, riflessa dall’esterno, non ha mai fatto presa nel mondo ebraico, screditata e confutata da un approfondito dibattito sul Trattato teologico-politico . Di solito quest’opera è letta come un attacco all’ebraismo. Vengono omessi, a questo scopo, due lunghi capitoli dedicati alla «Repubblica degli ebrei».
Spinoza può allora essere presentato come il pioniere del pensiero secolare, come appare nella versione addomesticata che ne dà Steven Nadler. Come mai Spinoza si sofferma sulla costituzione del popolo ebraico? Non sono stati i greci a introdurre la democrazia. Spinoza punta l’indice contro Platone e Aristotele. Non solo hanno affiancato la democrazia all’aristocrazia e alla monarchia, non solo hanno visto nel potere dei più una forma deteriore di governo, ma hanno persino tollerato al margine la schiavitù. Dove c’è schiavitù, però, non ci può essere democrazia. Per Spinoza è stato il popolo ebraico a introdurre per la prima volta la democrazia nella storia del mondo. In una pagina magistrale situa quell’istante all’uscita dall’Egitto. Liberati dall’oppressione, gli ebrei seguirono il richiamo del Dio sovversivo che fece uscire il popolo «con braccio teso».
Furono finalmente cittadini, non più sudditi. Una volta riconquistato il proprio diritto, avrebbero potuto conservarlo ciascuno per sé, o trasferirlo ad altri. Invece presero una decisione che li distinse da tutti gli altri popoli. Con le parole di Spinoza: «Decisero di non trasferire il proprio diritto a nessun mortale, ma soltanto a Dio e, senza esitare, promisero tutti ugualmente a una voce», uno clamore .
Nel patto teologico-politico che stringono non ci può essere dominio di un essere umano sull’altro. Se ci fosse, verrebbe meno l’eguaglianza di tutti. La forma politica di Israele è la teocrazia. Anzi, theocratía è la traduzione greca dell’ebraico Israel , «che Dio regni!», il «Regno di Dio». Il potere di Dio garantisce che non ci sia comando, dominio di un essere umano sull’altro.
Martin Buber e Jacob Taubes parleranno perciò di «teocrazia anarchica» di Israele. Nella visione radicale di Spinoza la teocrazia è però sospesa non appena il popolo ebraico riconosca un altro potere. L’ebreo divenuto cittadino della Repubblica d’Olanda non è tenuto più a osservare lo Shabbat, che ha anche un eminente valore politico. Della teocrazia ebraica resta allora il «braccio teso» del popolo, gesto di libertà, simbolo di uguaglianza, promessa di democrazia, esempio per tutti gli altri popoli, impegno di Israele nel futuro.
Che ne sarà allora della «Nazione ebraica» in esilio? Per Spinoza l’«elezione» degli ebrei, legata alla storia, è politica, motivata dalla loro forma di governo. E scrive: «Potrei assolutamente credere che, se si presentasse la possibilità, gli ebrei ricostruiranno un giorno il loro Stato e Dio li eleggerà di nuovo».
Spinoza è stato il primo sionista? L’aveva già riconosciuto con chiarezza Moses Hess nel suo scritto del 1862 Roma e Gerusalemme . D’altronde Spinoza è stato anche il primo vero linguista dell’ebraico. Il suo Compendio di grammatica ebraica è lo studio pionieristico dell’ebraico vivo, la dimora che, per Spinoza, attendeva la nazione ebraica in esilio.
Ahinu attà, «sei nostro fratello!». Il 21 febbraio 1927 Yosef Klausner pronunciò un discorso ufficiale all’Università ebraica di Gerusalemme in cui toglieva il bando e rivendicava Spinoza alla cultura ebraica. Quando mai aveva contato quel cherem ? - commentò caustico Gershom Scholem. Nel 1953 Ben Gurion proclamò che era venuta l’ora di riparare al torto e tradurre Spinoza in ebraico. Emmanuel Levinas criticò dapprima Ben Gurion, ma poi a sua volta scrisse Avete riletto Baruch? L’edizione delle opere in ebraico ha prodotto una rinascita di studi. Fondato da Yirmiyahu Yovel nel 1984 il Jerusalem Spinoza Institute è solo uno dei centri universitari dove si discute, non senza toni accesi, l’eredità del grande filosofo. Poco note sono ancora in Italia le ricerche dell’ultimo decennio su Spinoza e, più in generale, sul pensiero politico ebraico.
Il marrano, quel «corpo» politico della rivolta
Scaffale. Donatella Di Cesare riattualizza la figura esoterica dell’ebraismo diasporico
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 21.07.2018)
Nella filosofia italiana esiste la tendenza a individuare figure esemplari e liminari per descrivere la nostra attualità. È stato così per l’Homo Sacer di Giorgio Agamben, formula del diritto romano che indica un essere umano uccidibile senza che si compia un reato. Così oggi è il migrante affogato nel Mediterraneo o recluso nei campi di concentramento in Libia. Donatella Di Cesare ha delineato i tratti di una figura filosofica e l’ha definita straniero residente. Nel suo ultimo libro Marrani. L’altro dell’altro (Einaudi, pp.113, euro 12) aggiunge a questa figura che travalica la distinzione tra migrante e autoctono una genealogia che scava nella nostra identità politica.
PARTE DELLA PIÙ AMPIA filosofia delle migrazioni che la filosofa romana sta sviluppando, questo agile libro riattualizza una figura esoterica dell’ebraismo diasporico e lo considera come l’occasione di un pensiero radicale per reinventare una democrazia internazionalista, solidale, conflittuale. Nella filosofia contemporanea il marranesimo è un riferimento etico, politico, religioso. Dalla mistica di Teresa d’Avila - suo nonno Juan Sánchez era un convertito dall’ebraismo alla fede cattolica - alle campiture dell’Etica di Spinoza - ebreo oggetto del cherem (bando o scomunica), gravissimo e mai revocato, fino alla grazia tormentata di Jacques Derrida alle prese con la sua identità ebraica rimossa, molte sono le storie raccontate nel libro.
Il marrano è la figura iniziale di una nuova era della storia ebraica e di una tradizione politica di rivolta ancora in corso. È considerato come il primo migrante nella modernità politica. Cacciato dalla Spagna e dal Portogallo sciamò in tutta Europa, da Amsterdam fino a Livorno. E formò una «nazione anarchica», nel massimo segreto ideò un «progetto messianico mondiale». Era un senza terra, e senza religione, reinventò un credo religioso e un’idea di convivenza.
Da questa fonte sgorgò uno degli elementi del pensiero politico radicale del XX secolo: il messianismo. Quello che ha ispirato anche Walter Benjamin e il suo originalissimo pensiero marxista. O lo stesso Marx. Materialista, ateo, ebreo e comunista, anche il filosofo tedesco ha criticato nella Questione ebraica la separazione tra pubblico e privato in cui si dibatte il cittadino moderno, la stessa a cui è costretto il marrano obbligato a reinventare in privato l’identità che non può mostrare in pubblico. Marx ne dedusse l’inimicizia per la democrazia liberale e la sua idea di astratta uguaglianza. La tensione al superamento dell’alienazione per ritrovare l’unità caratterizza il «laboratorio politico della modernità».
PER DI CESARE tale ricerca è destinata allo scacco e, proprio per evitare che il soggetto resti scisso e irrisolto, bisogna rivendicare la dissonanza. Un progetto politico è tale quando resta aperto e incompiuto. Così ha una speranza di durare. In fondo questa è l’idea del «movimento che abolisce lo stato di cose presenti»: il comunismo.
Il marranesimo non è dunque solo la storia di violenze e coercizioni, né la rivendicazione della purezza di un’identità religiosa. È l’opposto. Il perservare dei marrani nel loro inconfessabile segreto - l’essere ebrei anche se convertiti a forza - la speranza recondita di un ritorno a un’origine che mai si ripeterà come tale, traducono la condizione di chi è senza radici, spaesato, e alla ricerca di una terra da costruire con chi si trova nella stessa condizione. Estranei allo Stato, ma capaci di costruire politica oltre la sovranità.
Il «Mandela palestinese» accusa: «Sotto occupazione, senza pace. Perché il mondo tace?»
La lettera. Marwan Barghouthi, leader palestinese in prigione e Membro del Parlamento, detto "il Mandela palestinese"
di Marwan Barghouthi (il manifesto, 13.10.2015)
L’ escalation di violenze non è cominciata con l’uccisione di due coloni israeliani, è cominciata molto tempo fa ed è andata avanti per anni. Ogni giorno ci sono Palestinesi uccisi, feriti, arrestati. Ogni giorno che passa, il colonialismo avanza, l’assedio del nostro popolo a Gaza continua, oppressioni e umiliazioni si susseguono. Mentre molti oggi ci vogliono schiacciati dalle possibili conseguenze di una nuova spirale di violenza, io continuerò, come ho fatto nel 20021, a chiedere di occuparsi delle cause che stanno alla radice della violenza: il rifiuto della libertà ai Palestinesi.
Alcuni hanno detto che il motivo per cui non si è raggiunto un accordo di pace è stata la mancata volontà del defunto Presidente Yasser Arafat o l’incapacità del Presidente Mahmoud Abbas, mentre sia l’uno che l’altro erano disposti e capaci di firmare un accordo di pace. Il vero problema è che Israele ha scelto l’occupazione al posto della pace ed ha usato i negoziati come una cortina di fumo per portare avanti il suo progetto coloniale. Tutti i governi del mondo conoscono questa semplice verità, eppure molti di loro fanno finta che un ritorno alle ricette fallite del passato ci potrebbe permettere di raggiungere libertà e pace. Follia è continuare a fare sempre la stessa cosa e aspettarsi che il risultato cambi. Non ci può essere negoziato senza un chiaro impegno di Israele a ritirarsi completamente dal territorio palestinese che ha occupato nel 1967 (tra cui Gerusalemme), una completa cessazione di tutte le pratiche coloniali, il riconoscimento dei diritti inalienabili dei Palestinesi, compreso il loro diritto all’autodeterminazione e al ritorno, la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. Non possiamo convivere con l’occupazione, e non ci arrenderemo all’occupazione.
Ci si esorta ad essere pazienti e lo siamo stati, offrendo occasioni e occasioni per raggiungere un accordo di pace, dal 2005 ad oggi. Forse val la pena ricordare al mondo che, per noi, espropriazione, esilio forzato, trasferimento e oppressione durano ormai da quasi 70 anni e che noi siamo l’unico problema bloccato nell’agenda dell’Onu dalla sua fondazione. Ci è stato detto che se ci affidavamo a metodi pacifici e alla strada della diplomazia e della politica, ci saremmo guadagnati l’appoggio della comunità internazionale per porre fine all’occupazione. Eppure, come già era avvenuto nel 1999 alla fine del periodo di interim, la comunità internazionale non ha intrapreso alcuna azione significativa, come ad esempio costituire una struttura internazionale per applicare la legge internazionale e le risoluzioni dell’Onu, varare misure per garantire la responsabilizzazione delle parti, anche attraverso boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni, come era stato fatto per liberare il mondo dal regime dell’apartheid.
E allora, in mancanza di un intervento internazionale per porre fine all’occupazione, in mancanza di una seria azione dei vari governi per interrompere l’impunità di Israele, in mancanza di qualunque prospettiva di protezione internazionale per il popolo palestinese sotto occupazione, e mentre il colonialismo e le sue manifestazioni violente hanno un’impennata (compresi gli atti di violenza dei coloni israeliani), cosa dovremmo fare? Stare inerti ad aspettare che un’altra famiglia palestinese sia bruciata, che un altro giovane palestinese sia ucciso, che un altro insediamento sia costruito, che un’altra casa palestinese sia distrutta, che un altro bambino palestinese sia arrestato, che i coloni facciano un altro attacco, che ci sia un’altra aggressione contro il nostro popolo a Gaza?
Tutto il mondo sa che Gerusalemme è la fiamma che può ispirare la pace e che può accendere la guerra. E allora perché il mondo rimane immobile mentre gli attacchi israeliani contro i Palestinesi della città e contro i luoghi santi musulmani e cristiani - specialmente Al-Haram Al-Sharif - continuano senza sosta? Le azioni e i crimini di Israele non distruggono soltanto la soluzione dei due stati secondo i confini del 1967 e non violano soltanto la legge internazionale, ma minacciano di trasformare un conflitto politico risolvibile in una guerra religiosa senza fine che indebolirà ulteriormente la stabilità in una regione che è già preda di un disordine senza precedenti.
Nessun popolo della terra accetterebbe di convivere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo anelare alla libertà, lottare per la libertà, sacrificarsi per la libertà. E la libertà del popolo palestinese è in grave ritardo. Durante la prima Intifada il governo di Israele lanciò lo slogan “spezza le loro ossa per spezzare la loro volontà”, ma, una generazione dopo l’altra, il popolo palestinese ha dimostrato che la sua volontà è indistruttibile e non deve essere messa alla prova.
Questa nuova generazione palestinese non ha aspettato colloqui di riconciliazione per incarnare quell’unità nazionale che i partiti politici non hanno saputo raggiungere, ma si è posta al di sopra delle divisioni politiche e della frammentazione geografica. Non ha aspettato istruzioni per sostenere il suo diritto, e il suo dovere, di opporsi a questa occupazione. E lo fa disarmata, di fronte ad una delle maggiori potenze militari del mondo. Eppure continuiamo ad esser convinti che libertà e dignità trionferanno, e noi avremo la meglio. E che quella bandiera che abbiamo innalzato con orgoglio all’Onu sventolerà un giorno sulle mura della città vecchia di Gerusalemme, e non per un giorno ma per sempre.
Mi sono unito alla lotta per l’indipendenza palestinese 40 anni fa e sono stato imprigionato per la prima volta a 15 anni. Questo non mi ha impedito di adoperarmi per una pace basata sulla legge internazionale e sulle risoluzioni dell’Onu. Ma ho visto Israele, la potenza occupante, distruggere metodicamente questa prospettiva un anno dopo l’altro. Ho trascorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle prigioni di Israele e tutti questi anni mi hanno reso ancora più convinto di questa immutabile verità: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace.
Coloro che cercano quest’ultima devono agire, e agire subito, perché si realizzi la prima condizione.
L’ultimo sarà il primo
di Marwan Barghouti (Comune-info, 12 ottobre 2015)
L’attuale escalation della violenza non ha avuto inizio con l’uccisione di due coloni israeliani, ma molto tempo fa, ed è andata avanti per molti anni. Ogni giorno i palestinesi vengono uccisi, feriti, arrestati. Ogni giorno avanza il colonialismo, continua l’assedio del nostro popolo a Gaza, persiste l’oppressione. Oggi molti ci vogliono sopraffatti dalle potenziali conseguenze di una nuova spirale di violenza, e come feci nel 2002, ne riassumo la causa radicale: la negazione della libertà per i palestinesi.
Alcuni hanno pensato che la ragione per cui un accordo di pace non si potesse raggiungere fosse la mancata volontà del presidente Arafat o l’incapacità del presidente Abbas, ma entrambi erano pronti e in grado di firmare un trattato di pace. Il problema vero è che Israele ha scelto l’occupazione sulla pace, ed ha usato i negoziati come una cortina fumogena per avanzare il progetto coloniale. Ogni governo in tutto il mondo conosce questo semplice fatto e tuttavia molti pretendono che tornare a ricette fallite del passato possa farci ottenere libertà e pace.
La follia ripete le stesse cose sempre di nuovo, ma ci si attendono risultati diversi. Non possono esserci negoziati senza il chiaro impegno di Israele di ritirarsi completamente dal Territorio palestinese occupato nel 1967, compresa Gerusalemme Est; della fine definitiva a tutte le politiche coloniali; del riconoscimento dei diritti inalienabili dei palestinesi, tra i quali il diritto all’autodeterminazione e al ritorno; e del rilascio di tutti i prigionieri palestinesi. Non possiamo coesistere con l’occupazione, e non ci arrenderemo ad essa.
Ci hanno detto di essere pazienti, e lo siamo stati, dando molte possibilità per raggiungere la pace. Forse è utile rammentare al mondo che l’esproprio, l’esilio forzato e l’esodo, l’oppressione durano da quasi 70 anni. Siamo l’unica questione ancora aperta nell’agenda delle Nazioni Unite dalla sua fondazione. Ci è stato detto che facendo ricorso a mezzi pacifici e ai canali diplomatici avremmo guadagnato il sostegno della comunità internazionale per porre fine all’occupazione. E tuttavia, come nel 1999 al termine del periodo di transizione, quella comunità ha fallito ancora una volta a muovere i passi significativi, perché non ha imposto un quadro internazionale per implementare il diritto internazionale e rendere concrete le risoluzioni dell’Onu, né ha messo in piedi misure per stabilire le responsabilità, attraverso il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che hanno giocato un ruolo cruciale quando il mondo si è liberato dell’apartheid.
Così, in assenza dell’azione internazionale per porre fine all’occupazione israeliana e all’impunità e di fornire protezione, cosa ci viene chiesto di fare? Stare fermi e attendere che la prossima famiglia palestinese venga bruciata, che venga ucciso o arrestato il prossimo ragazzino palestinese, che venga costruito il prossimo insediamento? Il mondo intero sa che Gerusalemme è la fiamma che può ispirare la pace ed evitare la guerra. Perché allora il mondo resta immobile mentre gli attacchi di Israele contro il popolo palestinese nella città e nei luoghi sacri musulmani e cristiani, soprattutto ad Haram al-Sharif, continuano senza sosta? Gli atti e i crimini di Israele non solo distruggono la soluzione dei due stati sui confini del 1967 e violano il diritto internazionale, ma minacciano di trasformare un conflitto da risolvere con la politica in una infinita guerra religiosa che farà esplodere la stabilità in una regione che sta sperimentando disordini senza precedenti.
Nessun popolo nel globo accetterebbe di coesistere con l’oppressione. Per natura, gli esseri umani si battono per la libertà, lottano per la libertà, si sacrificano per la libertà e la libertà dei palestinesi è necessaria da tempo. Durante la prima Intifada, il governo israeliano lanciò una politica da “spezzare le ossa per spezzarne la volontà”, ma generazione dopo generazione il popolo palestinese ha dimostrato che la sua volontà non si spezza. Questa nuova generazione di palestinesi non ha atteso i colloqui per la riconciliazione per dare corpo all’unità nazionale che i partiti politici avevano fallito a ottenere, ma si è sollevata sulle divisioni politiche e la frammentazione geografica. Non ha atteso le istruzioni ad affermare i suoi diritti, e i suoi doveri, per resistere all’occupazione. Lo fa in modo disarmato, mentre si confronta con una delle potenze militari più grandi del mondo. E tuttavia, restiamo convinti che libertà e dignità trionferanno, e vinceremo. La bandiera che abbiamo sollevato con orgoglio all’Onu un giorno sventolerà sui muri della città vecchia di Gerusalemme per segnare la nostra indipendenza.
Ho combattuto per l’indipendenza della Palestina 40 anni fa, e fui incarcerato a 15 anni. Ciò non mi ha impedito di battermi per la pace in coerenza col diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu. Ma Israele, la potenza occupante, ha metodicamente distrutto questa prospettiva anno dopo anno. Ho passato venti anni della mia vita nelle galere israeliane, e questi anni mi hanno reso ancora più certo di questa verità indissolubile: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo della pace. Coloro che cercano quest’ultima, devono agire, e agire subito, per debellare la prima.
L’occupazione e la sopravvivenza
di Amira Hass (Comune-info. 10 ottobre 2015)
Sì, questa è una guerra e il primo ministro Benjamin Netanyahu, grazie al mandato popolare, ha ordinato la sua escalation. Non ha ascoltato i messaggi di conciliazione e di accettazione del presidente palestinese Mahmoud Abbas nei periodi di calma, perché dovrebbe ascoltarli ora? Netanyahu sta intensificando la guerra principalmente a Gerusalemme Est, con un’orgia di punizioni collettive.
Così, sottolineando l’assenza di una leadership palestinese a Gerusalemme Est e la debolezza del governo di Ramallah, che sta provando a fermare il movimento nel resto della Cisgiordania, egli mette ulteriormente in evidenza il successo israeliano nel separare Gerusalemme dalla maggior parte della popolazione palestinese.
La guerra non è cominciata lo scorso giovedì, non è iniziata con la le vittime ebree e non finirà quando nessun ebreo verrà assassinato. I palestinesi stanno lottando per la loro sopravvivenza, nel vero significato della parola. Noi israeliani ebrei stiamo lottando per i nostri privilegi in quanto nazione di padroni, nel senso peggiore del termine.
Il fatto che ci si accorga che c’è una guerra solamente quando gli ebrei sono assassinati non cancella la realtà che i palestinesi vengono continuamente uccisi e che di continuo facciamo qualunque cosa in nostro potere per rendergli la vita insostenibile. La maggior parte del tempo è una guerra unilaterale, condotta da noi, per costringerli a dire “si” al padrone, grazie mille per farci sopravvivere nelle nostre riserve. Quando si turba qualcosa della guerra unilaterale e degli ebrei sono assassinati, allora la nostra attenzione si attiva.
I giovani palestinesi non assassinano gli ebrei in quanto ebrei, ma perché noi siamo i loro occupanti, i loro torturatori, siamo quelli che li imprigionano, i ladri della loro terra e della loro acqua, siamo quelli che li mandano in esilio, i demolitori delle loro case, quelli che gli negano un futuro. I giovani palestinesi, disperati e vendicativi, desiderano morire e procurano alle loro famiglie grandi sofferenze perché il nemico che hanno di fronte dimostra ogni giorno che la sua malvagità non ha limiti.
Anche il linguaggio è malvagio. Gli ebrei sono assassinati, i palestinesi sono uccisi e muoiono. È così? Il problema non comincia quando non ci è permesso di scrivere che un soldato o un poliziotto di frontiera ha assassinato dei palestinesi, a distanza ravvicinata, quando la sua vita non era in pericolo, oppure da un posto di controllo lontano o da un aereo o da un drone. Ma ha a che fare con il problema. La nostra capacità di comprensione è schiava di un linguaggio preventivamente censurato che distorce la realtà. Nel nostro linguaggio gli ebrei sono assassinati perché sono ebrei e i palestinesi trovano la loro morte e sofferenza perché presumibilmente se la sono cercata.
La nostra visione del mondo è modellata da un coerente tradimento dei media israeliani del loro dovere di informazione, o della loro mancanza di capacità tecnica ed emotiva di raccogliere tutti i dettagli della guerra totale che stiamo conducendo per conservare la nostra superiorità sul territorio tra il fiume [Giordano] e il mare.
Persino questo giornale non ha le risorse economiche per impiegare 10 giornalisti e riempire 20 pagine di notizie su tutti gli attacchi sia in tempi di escalation che in quelli di calma, dalle sparatorie alle costruzioni di strade che distruggono un villaggio, dalla legalizzazione di un avamposto dei coloni a un milione di altri attacchi. Ogni giorno. Gli eventi presi a caso che cerchiamo di raccontare sono delle gocce nell’oceano e non hanno alcun impatto sulla comprensione della situazione per una grande maggioranza di israeliani.
L’obiettivo di questa guerra unilaterale è di costringere i palestinesi a rinunciare a tutte le loro aspirazioni nazionali riguardo la loro terra natia. Netanyahu vuole l’escalation perché finora l’esperienza ha dimostrato che i periodi di calma dopo quelli sanguinosi non ci riportano al punto di partenza, ma piuttosto a un livello più basso nel sistema politico palestinese e aggiungono privilegi agli ebrei in una Israele più grande.
I privilegi sono il fattore principale che stravolgono la nostra comprensione della realtà, che ci rendono ciechi. A causa loro non riusciamo a capire che persino con una debole leadership “presente- assente”, il popolo palestinese - disperso nelle sue riserve indiane - non si darà per vinto e continuerà a trovare la forza necessaria per resistere al nostro malvagio dominio.
* Pubblicato su HAARETZ e poi l’8 ottobre in italiano su Nena News.
Abu Mazen, non più legati accordi Israele
Presidente palestinese a Onu, chiede protezione internazionale
Abu Mazen, non siamo più legati ad accordi con Israele. Lo ha detto il presidente palestinese all’Onu chiedendo protezione internazionale da Israele.
"Fino a che Israele rifiuta di impegnarsi sugli accordi firmati con noi rendendoci un’autorità senza poteri reali - ha detto Abu Mazen - e fino a che Israele si rifiuta di fermare le attività di colonizzazione e di liberare i prigionieri palestinesi, non abbiamo altra scelta". "Non possiamo essere i soli ad attuare gli impegni e Israele violarli continuamente", ha aggiunto il leader dell’Autorità palestinese: "Non possiamo quindi continuare a ritenerci legati a questi accordi. Israele deve assumersi tutte le sue responsabilità di potenza occupante perché questo status quo non può continuare".
"Chiedo al governo di Israele di fermarsi, prima che sia troppo tardi, di colpire i luoghi sacri dell’Islam e della cristianità a Gerusalemme", ha ancora detto il leader dell’Autorita’ palestinese, aggiungendo "O si perseguono la pace e la soluzione dei due Stati, o si incoraggia l’estremismo".
Hamas, Abu Mazen all’Onu cancelli accordi con Israele - Hamas aveva chiesto al presidente palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas) di annunciare, nel suo discorso di stasera all’Onu, la cancellazione di tutti gli accordi sottoscritti con Israele, inclusi quelli relativi al coordinamento di sicurezza. Il portavoce della fazione islamica Sami Abu Zuhri, citato dai media, ha detto che quello attuale "è un momento decisivo" e che occorre una strategia nazionale tale da permettere ai palestinesi di fronteggiare "i crimini di Israele e proteggere la Moschea di Al-Aqsa".
Se i grandi dimenticano la questione palestinese
di Elisabetta Rosaspina (Corriere della Sera, 30.09.2015)
La bandiera palestinese sventola da oggi tra i vessilli di 193 Stati indipendenti, davanti al Palazzo di Vetro, in rappresentanza del nuovo Paese accolto nella comunità come «osservatore». Ma la questione palestinese è finita in fondo al cassetto. Nei loro attesissimi discorsi all’Assemblea generale, il presidente americano Obama e il russo Putin non l’hanno nemmeno menzionata. Rendendo dunque molto meno attese le dissertazioni del presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, oggi, e del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, domani. Da protagonisti incontrastati della scena mediorientale, i due leader, e litigiosi vicini di casa, sono finiti fra le comparse, oscurati dalla Siria e soprattutto dall’Iran. Se Netanyahu protesterà ancora per l’accordo sul nucleare stipulato dall’Occidente con Teheran a metà luglio, e se Abbas si lamenterà della proliferazione di colonie fuori dai confini del 1967, saranno entrambi ascoltati con la cortese sopportazione che si deve a due rispettabili decani rimasti sfortunatamente un po’ indietro, fermi ai temi del «giorno prima».
L’agenda internazionale ha nuove scadenze: «L’Isis è la sola partita in città», l’editorialista di Haaretz, Chemi Shalev, avverte «Bibi». E se Netanyahu ha mai sperato in un patto strategico con Mosca, appare chiaro che la potente coalizione anti Califfo messa in piedi dal Cremlino non lo prevede.
Anche a Ramallah il silenzio dei potenti è suonato oltraggioso: «Obama crede di poter battere l’Isis e il terrorismo o di pacificare il Medioriente, ignorando l’occupazione israeliana e i continui attacchi alla Moschea al-Aqsa?» chiede indignato il capo dei negoziatori dell’Olp, Saeb Erekat. Sembra proprio di sì: le sassaiole, le cariche di polizia, le molotov e i lacrimogeni che alimentano la guerra a bassa intensità a Gerusalemme est e sulla Spianata delle Moschee, la processione di sirene e lampeggianti sul Monte degli Ulivi appartengono a un repertorio passato di moda .
Sabra e Chatila, un popolo profugo
33 anni fa la strage a Beirut ad opera dei falangisti coordinati dall’esercito israeliano
Quest’anno tante delegazioni e da tutto il mondo. Dall’Italia anche tre deputati M5S
di Maurizio Musolino (il manifesto, 19.09.2015)
BEIRUT Trentatré anni sono passati dalla strage di Sabra e Shatila e da allora ogni anno si rinnova la catarsi di un ricordo che è anche un guardarsi indietro, verso la propria storia fatta di sconfitte e speranze, e un cercare in quel drammatico evento le ragioni per andare avanti alla ricerca di un futuro difficile da individuare. Oggi come allora, infatti, si cerca di negare al popolo di Palestina il presente; ieri con la mattanza messa in atto dai falangisti alleati di Israele e oggi attraverso l’assenza di diritti e vessazioni di ogni tipo, disperdendoli nel mondo per cancellarne la memoria e la possibilità di futuro.
«Mio nonno era un palestinese e abitava in Galilea, poi venne la guerra, bruciarono i nostri villaggi. Ci rifugiammo prima in Libano, poi a Damasco. Da allora la mia famiglia divenne palestinese rifugiata in Siria. Io sono nata a Yarmuk, non ho mai capito bene cosa ero: palestinese, ma anche siriana... Non potevo negare le mie origini, la Palestina, ma la Siria era il paese che aveva accolto la mia famiglia e io ci vivevo bene. Poi la Siria è esplosa, Yarmuk è diventato teatro di scontri e violenze e sono fuggita in Libano, divenendo così una palestinese rifugiata in Siria che vive da profuga in Libano. Mio figlio oggi non vuole restare qui, ha 23 anni e vuole raggiungere un suo zio in Norvegia. Cosa diventerà? Non sappiamo più cosa siamo!». Parole semplici e nello stesso tempo piene di disperazione, dette da Amal, una dei tantissimi profughi che sono arrivati in questi mesi dalla Siria. Fra questi sono circa 40mila quelli di origine palestinese. Uno spaccato della tragedia di un popolo. Per lei il massacro di Sabra e Chatila è solo un ricordo, uno dei tanti brutti ricordi.
Sono in tanti a voler scacciare l’ombra del massacro compiuto dalle falangi libanesi (cristiani maroniti). Lo fanno da sempre gli esecutori, che continuano a negare spudoratamente quel crimine. Lo fa anche una parte della popolazione palestinese, frustrata dalle troppe ingiustizie subite e schiacciata da un futuro inesistente. Ma quel ricordo, quella memoria, resta viva, come una ferita aperta. Una ferita che si palesa negli occhi dei familiari delle vittime, che ostinatamente chiedono giustizia per i loro cari. Donne e anziani che portano sulle spalle la responsabilità di traghettare la memoria del popolo palestinese alle nuove generazioni.
Sono loro, queste famiglie di Chatila, la vera ossatura del Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila, fondato dal giornalista del manifesto Stefano Chiarini, insieme a pochi amici italiani, a Kassem Aina, di Beit Atfal Assomoud, una ong palestinese, e Talal Salman, intellettuale arabo e direttore del quotidiano libanese Assafir. Il Comitato in questi giorni è a Beirut per chiedere giustizia per i morti e diritti per i vivi, quei quattrocentomila palestinesi che nel Paese dei Cedri non si vedono riconosciuti neanche i diritti fondamentali.
Quest’anno insieme alla delegazione italiana, che vede la presenza anche di tre parlamentari del M5S giunti a Beirut per partecipare alle celebrazioni del massacro, c’è una vasta rappresentanza proveniente da altri paesi: Usa, Malesia, Singapore, Norvegia, Francia, Finlandia, Spagna, ma soprattutto tanti palestinesi che arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania. Sono proprio i palestinesi di Gaza a denunciare con forza la condizione inumana a cui è condannata la popolazione che vive a Chatila, a Bourj al Barajne... nei campi in Libano. «Non possiamo restare zitti, questi campi sono cimiteri». Lo grida il coordinatore delle associazioni caritatevoli della Cisgiordania, «ieri ho visitato Chatila - prosegue - e ho provato vergogna. Una situazione intollerabile! Come si è arrivati a ciò? Come è stato possibile?». Nella risposta c’è tutta l’attuale crisi palestinese, una crisi di prospettiva, politica e sociale.
Si interroga sulle stesso tema il sindaco di Ghobeiry, la municipalità dove insiste il campo martire: «questo campo è un luogo inumano, inadatto alla vita delle persone. Lo sanno tutti, ma nessun vuole cambiare questa situazione. Da tempo denuncio questo e chiedo di poter intervenire drasticamente, e mi scontro contro un muro di gomma. I libanesi hanno paura che i palestinesi si stabilizzino qui, ma non sarà così, la loro patria resta la Palestina».
Ed è proprio la paura che sembra farla da padrona in questa parte del mondo. Paura dell’integralismo di Daesh (Isis), e del suo fanatismo criminale. Paura di ricadere in conflitti confessionali.
Ma anche paura di essere dimenticati, come rischiano di esserlo i rifugiati palestinesi in Libano: «Le crisi si sommano - ci spiega Salman Natour - prima i profughi dell’Iraq, ora quelli dalla Siria, nessuno sembra più volersi occupare dei palestinesi e dei diritti che gli vengono negati».
Ci spiegano cosa vuol dire vivere in un campo i rappresentanti del comitato popolare di Jalil, un piccolo campo vicino a Balbek: «tanti giovani ci dicono di voler partire, di voler prendere il mare per raggiungere l’Europa. Noi gli diciamo di no, di restare, gli raccontiamo delle morti nel Mediterraneo, dei respingimenti delle vostre polizie, gli spieghiamo che si deve restare qui per continuare a lottare affinché un giorno si possa ritornare in Palestina, ma poi ci accorgiamo che oltre le parole non abbiamo nulla da offrirgli e li lasciamo alle loro scelte. Senza un lavoro e senza la possibilità di avere un futuro cosa possiamo fare?».
Parte da Gerusalemme la demonizzazione dei palestinesi
Perchè il governo israeliano, i media e l’opposizione laburista dipingono un quadro da Terza Intifada?
Ingigantendo le proteste palestinesi per la vicenda della Spianata delle moschee forse si cerca di archiviare lo Stato di Palestina
Ieri sera un razzo sparato da Gaza ha colpito Sderot. Nessun ferito.
di Michele Giorgio (il manifesto, 19.09.2015)
GERUSALEMME La tensione è stata forte anche ieri a Gerusalemme Est e nei sobborghi palestinesi vicini alla città. Decine i feriti, tra i quali tre poliziotti. Soprattutto in Cisgiordania dove oltre ai feriti da proiettili rivestiti di gomma e calibro 22, parecchi dimostranti palestinesi sono rimasti intossicati dai lacrimogeni. A Qalandiya, Kufr Qaddum, Bilin, Hebron e altre località centinaia di giovani hanno affrontato i soldati per ore. A Gerusalemme 5000 mila poliziotti - la Knesset ha autorizzato l’impiego anche dei riservisti della Guardia di Frontiera - hanno blindato la città vecchia e impedito ai fedeli musulmani con meno di 40 anni l’accesso alla Spianata delle moschee. All’interno delle mura antiche i poliziotti hanno bloccato sul nascere, non mancando di pestare alcuni giovani, ogni accenno di protesta. La “giornata di rabbia” ha visto ieri sera un razzo sparato da Gaza (forse da gruppi salafiti) colpire la cittadina israeliana di Sderot, dove ha causato danni a un bus e alcune auto ma non alle persone (la scorsa notte si attendeva la risposta israeliana).
Tuttavia, nonostante le parole grosse e i toni da guerra usati dalle autorità israeliane, la contestazione palestinese per le “visite” sulla Spianata di coloro che sono descritti dal governo Netanyahu come “gruppi di turisti ebrei” (in realtà sono attivisti della destra che reclamano la sovranità sul biblico Monte del Tempio) non ha affatto toccato livelli mai raggiunti, anzi. E’ ancora vivo il ricordo delle manifestazioni di un anno fa, con scontri senza sosta tra centinaia di shebab palestinesi e polizia, andate avanti per settimane dopo che alcuni israeliani, per vendicare l’uccisione di tre ragazzi ebrei in Cisgiordania, bruciarono vivo l’adolescente Mohammed Abu Khdeir, e in risposta all’operazione militare “Margine Protettivo” contro Gaza. A Gerusalemme ci fu anche quella che i media israeliani chiamarono “l’Intifada delle auto” - lanciate in corsa da palestinesi contro fermate d’autobus e del tram - che causò alcune vittime. Certo, il clima è torrido, ma tra ciò che registriamo in questi giorni e la situazione di un anno fa la differenza è enorme.
Perchè il governo israeliano, i media e l’opposizione laburista dipingono un quadro da Terza Intifada? Perchè i lanci di pietre sono descritti come “attacchi armati” da punire con il massimo della severità? Le pietre scagliate dai palestinesi, sin dalla prima Intifada contro l’occupazione israeliana, hanno causato vittime anche negli anni passati, non solo in questi ultimi giorni. Gli stessi capi dei servizi di sicurezza e i comandi militari ripetono che non è in corso una nuova rivolta. La sensazione è che la guerra proclamata dal governo Netanyahu alla “violenza palestinese”, le accuse di incediare la situazione rivolte al presidente dell’Anp Abu Mazen e i toni apocalittici usati per descrivere Gerusalemme Est in questi giorni, siano figli anche di ragioni di opportunità politica e dei rapporti difficili tra il governo israeliano e l’Amministrazione Obama dopo la firma dell’accordo di Vienna che ha riconosciuto il programma nucleare iraniano. Senza dimenticare le tensioni con Bruxelles, a cominciare dalla fermezza, che Israele non si aspettava, con cui l’Ue pare decisa a “escludere” le colonie ebraiche in Cisgiordania dai rapporti commerciali firmati con Tel Aviv. Il primo ministro Netanyahu chiede di più delle armi promesse da Washington per digerire le intese di Vienna. Vuole che la questione dello Stato di Palestina sia archiviata, vuole che le colonie israeliane siano riconosciute. La demonizzazione dei palestinesi è un passaggio fondamentale per ottenerlo.
Quella tregua non scritta tra Hamas e Israele
“Così rinasce Gaza”
La lotta contro i salafiti vicini allo Stato islamico ha unito gli eterni rivali grazie a una mediazione che ha coinvolto anche Qatar ed Egitto Valichi riaperti e ruspe ne sono il segno
di Fabio Scuto (la Repubblica, 24.06.2015)
GAZA IN QUESTO fazzoletto di terra che è la metafora di tutto ciò che è sbagliato si è accesa una flebile speranza. Una hudna , una tregua, è di fatto in vigore da qualche settimana. Una speranza effimera che i due milioni di abitanti della Striscia auspicano diventi qualcosa di più concreto un anno dopo l’ultima devastante guerra della scorsa estate. Altrimenti ci sarà presto un altro scontro militare fra Hamas e Israele. Perché questo è il destino maledetto dei gazawi. Vivere sospesi, assediati da Israele e usati dagli islamisti come carne da macello, senza un futuro. È una vita senza un domani. Ma per assurdo che possa sembrare, nel posto peggiore al mondo per un bambino dove nascere secondo l’Unicef, c’è uno dei più alti tassi di natalità del pianeta.
Per le strade di Gaza in questi giorni si respira un’aria diversa. I primi benefici di questa tregua - negata dai protagonisti della trattativa - si cominciano a vedere. Hanno l’aspetto dalle enormi volute di polvere che si levano verso un cielo incredibilmente azzurro lungo la Salaheddin, la grande arteria stradale che percorre da Nord a Sud tutta la Striscia. Sono le rudimentali macchine tritacemento che ricavano dalle rovine rimosse dalle strade il materiale base per costruire nuovi mattoni, insieme alla sabbia e all’acqua. Ce ne sono decine in funzione grazie a piccole attività familiari avviate rapidamente per far fronte alla fame di cemento della Striscia. Centomila case sono state danneggiate o distrutte e «se non si spara si può ricostruire», spiega con stringente logica Youssuf Adhi, emergendo da una nuvola di pulviscolo di cemento.
È vero: a Gaza non si spara più. È il frutto di una mediazione che ha tirato dentro Onu, Israele, Hamas, Qatar ed Egitto. Non c’è un accordo firmato e nessun impegno scritto, ma solo la volontà di affrontare le questioni umanitarie ed evitare un altro drammatico scontro armato. Hamas è debole e stanco e non vuole un’altra guerra a breve, ha schiacciato l’insorgenza salafita e vuole dimostrare di essere il vero “padrone” di Gaza. Dall’altro lato il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha compreso che rispondere “alla calma con la calma” non era più possibile e per questo la morsa sulla Striscia si allenterà progressivamente: se Hamas avrà “un buon voto di condotta” beni e materiali continueranno ad affluire. Se poi tra un anno questa hudna sarà ancora rispettata ,Israele accetterà che a Gaza sia costruito un porto galleggiante come chiede Hamas. Si va avanti così senza accordi scritti, né ad Hamas né a Israele fa comodo pubblicizzare l’intesa.
Il segno che qualcosa sta cambiando paradossalmente è una strada in terra battuta, costruita in gran fretta sotto l’occhio attento dei miliziani delle brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas. Corre a poche centinaia di metri di distanza dal confine lungo i 37 chilometri della Striscia con Israele. Una zona un tempo off-limits per i palestinesi, perché si vedono distintamente le fattorie israeliane dall’altra parte. I trattori nei campi, gli scuolabus gialli che riportano a casa i ragazzini il pomeriggio. Prima bastava avvicinarsi e a 300 metri dal confine entravano in azione i tiratori scelti dell’Idf. Adesso Israele ne ha accettato la costruzione nella convinzione che possa aiutare Hamas a controllare il territorio ed evitare azioni dei gruppi salafiti filo-Is che lottano contro il potere degli islamici.
È strano vedere adesso i pick-up bianchi con le bandiere delle Brigate al Qassam che incrociano lungo le due strade parallele al confine le Humvee degli israeliani. Un anno fa la guerra, le stragi di civili, i soldati rapiti, le immani distruzioni, le accuse di crimini di guerra ad entrambe le parti. Ora c’è quasi indifferenza. «Manca solo che si stringano la mano», dice Khalil Jenja, un agricoltore il cui campo di pomodori confina proprio con la “strada di Hamas”.
È stato riaperto il valico di Erez e passano circa 1000 palestinesi al giorno, il Qatar ha ottenuto di far passare i materiali per costruire un nuovo quartiere con 3.000 appartamenti. Nel piazzale del valico di Kerem Shalom, centinaia di camion carichi di materiali da costruzione aspettano il proprio turno per essere ispezionati dai doganieri israeliani e passare dall’altra parte. Ogni carico viene poi “scortato” dall’Onu per evitare che “qualcuno” possa appropriarsene e usarlo per scopi militari. Passano per questo valico - l’unico per le merci - dai 600 agli 800 camion al giorno.
Anche il valico di Rafah con l’Egitto viene aperto almeno tre giorni a settimana. Dopo aver messo Hamas nella lista dei gruppi terroristi tre mesi fa, il presidente Al Sisi ha cambiato idea. Hamas è stato riabilitato. Ma fino a un certo punto. Oltre il muro che marca i 13 chilometri di confine fra la Striscia e l’Egitto, dopo una zona cuscinetto larga quasi due chilometri, si sentono i motori delle grandi ruspe dell’esercito che stanno scavando un’enorme trincea. Sarà profonda 20 metri e larga 10. Impedirà ai contrabbandieri dei tunnel di portare dentro Gaza materiali e armi come in passato, quando dal ventre di sabbia del Sinai arrivava qualunque cosa e nascevano legami pericolosi fra Hamas e i gruppi armati jihadisti egiziani.
Recentemente sempre più giocatori sulla scena internazionale - Stati, movimenti, entità, gruppi armati - hanno avuto bisogno di un termine per definire una situazione in cui un altro giocatore è contemporaneamente sia amico che nemico: è il frenemy (friend +enemy). Il frenemy ha un rapporto complesso con l’ambiente circostante, combatte un rivale ma aiuta allo stesso tempo un altro dei suoi altri nemici. Hamas è per Israele un frenemy. È in guerra con Israele, ma lotta contro i salafiti che sfidano la sua autorità, e questo è conveniente per la sicurezza di Israele. «Una nuova realtà richiede nuove tattiche e strategie», spiega l’ex capo del Mossad Efraim Halevy. Questo dialogo sotterraneo, e negato da entrambe le parti, non deve trarre in inganno. Israele e Hamas continueranno a prepararsi per la prossima guerra come se non ci fosse un’altra alternativa. Che forse nella realtà alla fine non c’è. Il frenemy in un attimo torna enemy e questo i gazawi istintivamente lo sanno.
Il lungo viaggio dei rifugiati palestinesi
di Alberto Negri (Il Sole-24 Ore, 15.05.2015)
La Nakba, la catastrofe, si commemora oggi 15 maggio: è il momento cruciale dell’espulsione del popolo palestinese dalla propria terra e coincide con la nascita ufficiale dello Stato d’Israele nel 1948.
I fotografi del’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per gli aiuti di emergenza, hanno narrato l’esperienza dei rifugiati palestinesi sin dall’inizio delle operazioni umanitarie nel 1950: questa gallery è solo una parte della mostra fotografica portata in Italia che narra il lungo viaggio della popolazione palestinese. foto
Per i palestinesi la Nakba non ha rappresentato soltanto la perdita dei beni materiali ma un’espropriazione della propria vita e della propria identità, costretti a vivere da quel momento in bilico e in continuo esilio da un paese all’altro, affrontando pesanti discriminazioni e subendo gli umori politici dei vari stati ospitanti, fossero essi stati arabi o occidentali.
La Nakba e le sue conseguenze si sono protratte fino ai giorni nostri, ripercuotendosi sui palestinesi, rifugiati ormai di quarta o quinta generazione, un anniversario che oggi coincide tra l’altro con il viaggio a Roma e dal Papa del presidente palestinese Abu Mazen il quale si augura che l’Italia “segua l’esempio del Vaticano nel riconoscere il nostro Stato”. Un’immagine si fissa nell’ultimo conflitto del luglio 2014, la terza guerra su Gaza in cinque anni. Donne, tante donne, che circolano tra le macerie sollevando sassi come macigni, sono infuriate e alzano le braccia al cielo, come se ci fosse ancora un cielo sopra di loro. Davanti alle telecamere una ha un gesto di rabbia e urla: “Ditelo a Netanyahu che anche i bambini di nove anni qui chiedono l’esplosivo”.
In questa disperazione infinita è affondato lo stato dei palestinesi, argomento intorno al quale le nazioni arabe hanno fatto piombare il velo del silenzio. Nel 1947 l’Onu approvò la partizione tra Palestina e Israele mettendo Gerusalemme sotto regime internazionale. Un anno più tardi i palestinesi si ribellarono ma furono sconfitti. Israele si spinse oltre i confini imposti dall’Onu e conquistò la metà occidentale di Gerusalemme.
Intere comunità di palestinesi vennero cacciate: 700mila furono i rifugiati i cui discendenti adesso ammontano a 7 milioni, il diritto al ritorno è impossibile. L’occupazione di Gaza e Cigiordania iniziò nel 1967 e fu il risultato della Guerra dei Sei Giorni, scoppiata tra Tel Aviv e i vicini arabi, Egitto, Siria, Iraq, Giordania, dove i palestinesi si rifugiarono a migliaia. Di questi stati la Siria non esiste più, sul Golan non ci sono più i soldati di Assad ma scorazzano gli estremisti islamici di Jabat al-Nusra finanziati dal Qatar, mentre quel che resta dell’Iraq non è ancora in grado di riprendere il controllo delle città in mano al Califfato. L’Egitto si difende in Sinai dai jihadisti e attacca in Libia per estendere una sorta di fascia di sicurezza come quella che Tel Aviv aveva in Libano. Quanto alla Giordania degli hashemiti, agli occhi di Israele con il suo 70% di popolazione palestinese resta il “candidato ideale” per ospitare un giorno un futuro stato nazionale.
Tel Aviv si è ritirata dalla Striscia nel 2005 ma mantiene un embargo che l’ha trasformata in una sorta di prigione a cielo aperto: nessuno entra, nessuno esce. Il resto della Palestina vive una sorta di apartheid, con doppio regime per ebrei e palestinesi. Al punto in cui si è arrivati gli israeliani, qualunque governo si installi, non possono tornare indietro. Nei Territori Occupati ci sono 500mila coloni. Ma quale governo avrebbe il coraggio di sloggiarli? Negli anni di Netanyahu al potere l’occupazione è penetrata nel cuore della West Bank con la moltiplicazione delle colonie. Eppure il premier non è l’unico nemico dei palestinesi. Se ne è aggiunto un altro: gli arabi e il contesto in cui vivono. La negazione da parte di Netanyahu della soluzione due popoli due stati può sembrare ancora una volta provocatoria ma corrisponde a una realtà lacerante: il concetto stesso di stato arabo come nozione territoriale e istituzionale unitaria è in disgregazione. Pensiamo soltanto ai milioni di profughi siriani e iracheni nella regione: non sappiamo neppure dove farli tornare. Ormai c’è soltanto un’ex Siria, implosa con oltre 200mila morti e 9 milioni di rifugiati, mentre l’Iraq è diviso tra sciiti, sunniti e curdi, il Libano è sempre sull’orlo del confronto tra fazioni, l’Egitto fatica a stare a galla, lo Yemen è nel pieno di un conflitto civile, della Libia non parliamone. Una situazione che spiega perché dei palestinesi e del loro stato siano gli stessi arabi a non occuparsene più: hanno altro cui pensare.
Il Papa rompe tabù diplomatico e riconosce lo Stato Palestinese: ira di Israele
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 13 Maggio 2015)
Città del Vaticano - Papa Francesco rompe un altro muro diplomatico, una specie di tabù, accelerando il percorso di riconoscimento dello Stato Palestinese.
Al termine di una riunione tra le delegazioni palestinese e vaticana, è stata raggiunta l’Intesa di un testo di prossima firma riguardante un accorgo globale tra le parti. Al centro il riconoscimento dello Stato di Palestina. "Le parti hanno concordato che il lavoro della commissione sul testo dell’accordo è stato concluso", si legge in un comunicato congiunto, "e che l’accordo sarà sottoposto alle rispettive autorità per l’approvazione prima di fissare una data nel prossimo futuro per la firma".
Sebbene siano due eventi "indipendenti", ha precisato il portavoce vaticano, padre Lombardi, il Papa riceverà sabato mattina il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che domenica assisterà alla canonizzazione, in San Pietro, delle prime due sante palestinesi. Immediata la reazione di Israele che ha espresso “profonda delusione” per la decisione del Papa di concludere un accordo con lo Stato di Palestina.
Le fonti, citate dalla stampa israeliana, si attendono chiarimenti dalla Segreteria di Stato. «Israele - proseguono le fonti - è deluso di sentire della decisione della Santa Sede di concordare un testo finale di accordo con i palestinesi che comprenda il termine "lo Stato di Palestina". Questa mossa non fa avanzare il processo di pace e non contribuisce a riportare la leadership palestinese al tavolo delle trattative bilaterali. Israele esaminerà l’accordo e soppeserà conseguentemente le proprie azioni».
La prima intesa raggiunta, nel 2000, era stata firmata tra Santa Sede e Olp; oggi la Santa Sede ha siglato un’intesa, in vista di un accordo bilaterale, con lo "Stato di Palestina". La grande novità. L’accelerata diplomatica voluta dal Papa. "Il 29 novembre 2012 - spiega monsignor Antoine Camilleri, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati - è stata adottata da parte dell’Assemblea generale dell’Onu la risoluzione che riconosce la Palestina quale Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite, e lo stesso giorno la Santa Sede, che ha anch’essa lo status di osservatore presso l’Onu, ha pubblicato una dichiarazione. Questa ha accolto con favore il risultato della votazione, inquadrata nei tentativi di dare una soluzione definitiva, con il sostegno della comunità internazionale, alla questione già affrontata con la risoluzione 181 del 29 novembre 1947”.
Il testo, sottolinea ancora il vice-ministro vaticano degli Esteri, "ha un preambolo e un primo capitolo sui principi e le norme fondamentali che sono la cornice in cui si svolge la collaborazione tra le parti. In essi si esprime, ad esempio, l’auspicio per una soluzione della questione palestinese e del conflitto tra israeliani e palestinesi nell’ambito della Two-State Solution e delle risoluzioni della comunità internazionale, rinviando a un’intesa tra le parti".
Anche se in modo indiretto per il Vaticano è chiaro che l`accordo raggiunto in aiuterà i palestinesi nel vedere stabilito e riconosciuto uno “Stato della Palestina indipendente, sovrano e democratico che viva in pace e sicurezza con Israele e i suoi vicini, nello stesso tempo incoraggiando in qualche modo la comunità internazionale, in particolare le parti più direttamente interessate, a intraprendere un`azione più incisiva per contribuire al raggiungimento di una pace duratura e all`auspicata soluzione dei due Stati".
Riconoscere la Palestina, liberare Israele
Il dibattito alla Camera. L’idea di fondo: la pace in Medio Oriente passa solo attraverso il riconoscimento della Palestina. Un atto già compiuto da 135 paesi nel mondo e che nel 2014 è stato posto in essere da sei nazioni dell’UE e dal Parlamento Europeo. E in vista della discussione sullo stesso tema prevista alla Camera dei Deputati, un gruppo di intellettuali italiani chiede alle istituzioni italiane di seguire quel “vento diplomatico nuovo che sospinge il riconoscimento della Palestina in Europa”.
Ecco il testo dell’appello promosso dalla Fondazione Basso e già sottoscritto da Dacia Maraini, Moni Ovadia, Michela Murgia, Loredana Lipperini, Salvatore Senese, Franco Ippolito, Francesca Comencini, Luigi Ferrajoli, Marinella Perroni, Andrea Segre, Sandro Portelli, Roberta de Monticelli e Vladimiro Zagrebelsky.
RICONOSCIAMO LA PALESTINA, LIBERIAMO ISRAELE
SEI paesi europei (Svezia, Francia, Inghilterra, Spagna, Irlanda, Romania) hanno riconosciuto lo Stato di Palestina nel 2014, e così ha fatto il Parlamento Europeo. Noi cittadine e cittadini italiani ravvisiamo in questa ondata diplomatica una novità importantissima, anzi decisiva, per sbloccare lo stallo decennale che avvelena i rapporti tra il popolo arabo e il popolo israeliano, rendendo quell’area uno dei luoghi più insanguinati e violenti del pianeta.
E’ chiaro che le prospettive per la sicurezza di Israele dipendono dall’esistenza dello Stato di Palestina e dall’autodeterminazione del suo popolo. Ed è chiaro che la diplomazia rappresenta la sola alternativa alla sequenza di attacchi reciproci che ciclicamente compromettono le possibilità di una soluzione, e corrompono la fibra di entrambe le società.
La strategia adottata finora ha generato esiti tutt’altro che soddisfacenti per la sicurezza e la stabilità dell’area. Il riconoscimento dello Stato di Palestina può viceversa produrre un nuovo presupposto negoziale, e accelerare il processo di pace.
E’ nostra convinzione che l’Europa debba farsi protagonista di un percorso diplomatico per porre termine a questo conflitto, com’è nel suo stesso interesse. L’Italia, dal canto suo, non può assumersi la responsabilità di interrompere il vento diplomatico nuovo che sospinge il riconoscimento della Palestina in Europa. Sarebbe ingiustificabile, politicamente. L’Italia ha detto sì all’adesione della Palestina come Stato non membro delle Nazioni Unite nel novembre 2012 all’Assemblea Generale dell’ONU. Il riconoscimento lo chiedono oltre mille cittadini e cittadine di Israele, intellettuali, scrittori, accademici, noti anche in Italia.
“E’ terribile odiare ed essere odiati per così tanto tempo. E’ estenuante occupare ed essere occupati per così tanto tempo. Questa liberazione riguarda anche noi israeliani!”, scrive lo scrittore David Grossman. Riconoscere lo Stato di Palestina è un primo fondamentale passo nella direzione della pace. Chiediamo al Parlamento Italiano di compiere questo passo senza esitazione.
Per sottoscrizioni, scrivere a: nicolettadentico@fondazionebasso.it
Qui il sito della Fondazione Basso
* BLOG carminesaviano, 26.02.2015.
La Palestina accederà alla Corte Penale Internazionale
di Franco Uda *
Il segretario generale delle Nazioni Unite ha annunciato che la Palestina accederà alla Corte penale internazionale il 1 aprile. La mossa permetterà ai palestinesi di perseguire accuse di crimini di guerra contro Israele. Fin qui la notizia. Ma per capire bene strategia e possibili conseguenze bisogna fare qualche passo indietro. La strategia palestinese si pone due obiettivi. In primo luogo ottenere il riconoscimento formale di uno stato palestinese all’interno delle frontiere precedenti all’occupazione israeliana del 1967, forti del rafforzamento istituzionale e amministrativo dell’Anp ottenuti da Abu Mazen negli ultimi anni. Il secondo punto consiste nel raggiungimento dello status di paese membro delle Nazioni Unite, con l’obiettivo di godere appieno delle prerogative garantite dal diritto internazionale e dallo Statuto delle Nazioni Unite.
Sul fronte della diplomazia internazionale, un importante avanzamento è stato raggiunto nel 2012, quando l’Assemblea generale dell’Onu ha promosso la Palestina a ‘stato osservatore non membro’. Si trattò soprattutto di un passaggio simbolico che i palestinesi hanno cominciato a voler tradurre in una azione politica per mettere sotto pressione Israele: il 31 dicembre del 2014 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha respinto la risoluzione che chiedeva la fine dell’occupazione israeliana in Palestina; il giorno dopo il presidente dell’Anp ha firmato lo Statuto di Roma, ovvero il documento fondativo della Corte Penale Internazionale (ICC).
Attualmente né la Palestina né Israele fanno parte dell’ICC, che quindi non può perseguire crimini di guerra avvenuti nei due paesi per mancanza di giurisdizione. Se la Palestina riuscisse ad aderire alla ICC, potrebbe denunciare i crimini di guerra avvenuti sul suo territorio. In caso di condanna di uno o più cittadini israeliani, questi rischierebbero l’arresto se viaggiassero in paesi che aderiscono alla ICC.
L’intenzione di Abu Mazen è di raggiungere così quatto obiettivi: identificare come colpevoli di ‘crimini di guerra’ singoli militari israeliani per estendere la condanna ai loro superiori e quindi ai leader politici; ottenere delle sanzioni internazionali contro i ‘colpevoli’; innescare un domino di conseguenze politiche in Israele capace di paralizzare le attività militari in Cisgiordania; delegittimare Israele, trasformandolo in Stato responsabile di una sistematica violazione della legge internazionale.
Tale strategia può tuttavia innescare una serie di reazioni dagli effetti imprevedibili. Israele infatti ha già annunciato tre passi: la denuncia dell’Autorità palestinese allo stesso ICC per ‘crimini di guerra’ in quanto complice di ‘atti di terrorismo’ avendo siglato un patto di governo con Hamas; la denuncia di Abu Mazen per complicità nell’uccisione di cittadini israelo-americani da parte di Hamas; un’inchiesta interna delle forze armate per individuare gli eventuali responsabili di possibili errori commessi durante le operazioni a Gaza.
Ciò significa che nei prossimi mesi israeliani e palestinesi potrebbero trovarsi impegnati in una battaglia legale a tutto campo puntando a delegittimarsi a vicenda. Inoltre il blocco delle rimesse fiscali palestinesi da parte di Israele - 125 milioni di dollari - potrebbe essere seguita da più dure sanzioni del Congresso Usa con il conseguente collasso finanziario dell’Autorità palestinese. È uno scenario che, sovrapponendosi alle elezioni politiche israeliane del 17 marzo, preannuncia un pericoloso showdown in primavera.
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Crimini di guerra: indagine Onu su Israele e Palestina
La Corte penale internazionale dell’Aja apre un fascicolo
La Palestina punta a ottenere il deferimento di Israele per l’offensiva a Gaza della scorsa estate
L’ira di Liebermann
di Giampiero Gramaglia (il Fatto, 17.01.2015)
La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja ha avviato un’indagine preliminare sulla “situazione” in Palestina: obiettivo, verificare se vi siano stati commessi “crimini di guerra”, da parte delle forze armate israeliane o di fazioni armate palestinesi. L’esame potrebbe sfociare in un’inchiesta su larga scala.
Il procuratore capo della Cpi Fatou Bensouda, una giurista del Gambia, 54 anni, in carica dal 2012, ha annunciato, in una nota, che condurrà la sua indagine in “piena indipendenza e con imparzialità”. La Bensouda si rende ben conto che, con la sua iniziativa, la Corte diventa protagonista del conflitto politicamente più delicato che abbia mai affrontato: le reazioni israeliane e palestinesi non si sono fatte attendere.
L’avvio dell’indagine segue di pochi giorni l’ammissione della Palestina alla Cpi. L’Autorità nazionale palestinese aveva presentato domanda di adesione il 31 dicembre, subito dopo che, il 30, una risoluzione che chiedeva la fine dell’occupazione israeliana in Cisgiordania entro tre anni non era stata approvata dal Consiglio di Sicurezza Onu, ottenendo solo 8 voti favorevoli - ce ne vogliono 9 -, con 5 astensioni e i no di Usa - comunque determinante, per il diritto di veto - e Australia.
IL 7 GENNAIO, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon aveva indicato che l’Anp diventerà membro della Corte il 1° aprile, riconoscendone la giurisdizione da luglio scorso, cioè da prima dell’ultima cruenta offensiva israeliana nella Striscia di Gaza.
I palestinesi puntano a ottenere il deferimento d’Israele alla Cpi per i crimini commessi la scorsa estate: un altro tassello di una strategia studiata per esercitare pressioni sullo Stato ebraico e uscire dall’impasse nei negoziati di pace. Anche se nessuno sull’illude che qualcosa possa muoversi, prima delle elezioni politiche israeliane.
Israele ha immediatamente bollato come “scandalosa” l’iniziativa della Bensouda: l’unico scopo sarebbe quello di “tentare di danneggiare il diritto di Israele di difendersi dal terrorismo”, sostiene il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, per il quale la decisione è “unicamente motivata da considerazioni politiche anti-israeliane”. Il ministro degli Esteri palestinese Riad Malki ha invece commentato con favore l’annuncio, dicendo che l’Autorità presterà la sua collaborazione.
Ieri, l’Onu ha pubblicato dati agghiaccianti sulla situazione nel Territori, dove, 5 mesi dopo, “il cessate-il-fuoco tra Israele e Palestina resta pericolosamente fragile e la violenza continua in Cisgiordania e a Gerusalemme Est”.
Nel 2014, i palestinesi uccisi nei Territori dalle forze di sicurezza israeliane sono stati 54 e 5.800 i feriti - il bilancio più tragico dal 2005 - senza contare, ovviamente, le vittime dell’offensiva di Gaza, dove la situazione starebbe di nuovo deteriorandosi. Nello stesso periodo, gli attacchi palestinesi hanno provocato 15 vittime israeliane e circa 270 feriti.
Se l’indagine preliminare sfociasse in un’inchiesta, Israele potrebbe essere accusato di crimini di guerra e pure gli insediamenti israeliani in territorio palestinese potrebbero essere messi in discussione. Stessa sorte potrebbe toccare ad Hamas, per il lancio di migliaia di razzi su aree residenziali.
Sì dell’Europarlamento alla Palestina
Hamas tolta dalla lista dei terroristi
E da ieri è all’Onu la risoluzione che chiede la fine dell’occupazione israeliana
di Luigi Offeddu (Corriere della Sera, 18.12.2014)
BRUXELLES Il Parlamento europeo ha approvato ieri a larga maggioranza una risoluzione che sostiene «in linea di principio» il riconoscimento dello stato di Palestina, purché la proposta sia legata allo sviluppo dei colloqui di pace.
Nelle stesse ore, la Corte europea di giustizia ha annullato, «per motivi procedurali», la decisione del Consiglio Ue di mantenere «Hamas sulla lista europea delle organizzazioni terroriste». In un solo giorno, dunque, due decisioni provenienti dal cuore dell’Europa che toccano le vicende più drammatiche del Medio Oriente, e che già stanno innescando molte polemiche.
Da Israele, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito il voto dell’Europarlamento «uno sconvolgente esempio dell’ipocrisia europea e un’indicazione che molti nel continente non hanno imparato nulla dall’Olocausto». Il co-negoziatore della risoluzione e presidente della commissione Esteri all’Europarlamento, il tedesco Elmar Brok, ha invece sottolineato che «con questo voto, il Parlamento europeo ha respinto in modo chiaro un riconoscimento della Palestina senza condizioni, separato dai negoziati di pace». Quanto alla sentenza della Corte di giustizia su Hamas, l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini, ha rilevato che non dovrebbe essere considerata «una decisione politica»: i giudici hanno espressamente citato «ragioni procedurali», per esempio il fatto che le accuse sulle attività di Hamas siano state sostenute spesso da documentazione reperita su Internet o su giornali, e non da fonti ufficiali o documentate.
Ma naturalmente, è stata la decisione dell’Europarlamento quella che più ha suscitato attenzione e proteste. La risoluzione era stata redatta da 5 diversi gruppi politici, ed è stata approvata con questi risultati: 498 voti favorevoli, 88 contrari, 111 astenuti.
Vi si sostiene che il Parlamento europeo appoggia «in linea di principio il riconoscimento dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati, e ritiene che ciò debba andare di pari passo con lo sviluppo dei colloqui di pace, che occorre far avanzare».
E ancora: l’Europarlamento ribadisce «il proprio fermo sostegno a favore della soluzione a due Stati basata sui confini del 1967, con Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati e con uno Stato di Israele sicuro e uno Stato di Palestina indipendente, democratico, territorialmente contiguo e ca-pace di esistenza autonoma, che vivano fianco a fianco in condizioni di pace e sicurezza, sulla base del diritto all’autodeterminazione e del pieno rispetto del diritto internazionale».
I deputati condannano poi «con la massima fermezza» tutti gli atti di terrorismo o di violenza. E rimarcano «la necessità di consolidare il consenso attorno al governo dell’Autorità palestinese» invitando «tutte le fazioni palestinesi, compresa Hamas, a fermare le divisioni interne». Una parte del testo ribadisce poi che «gli insediamenti israeliani sono illegali ai sensi del diritto internazionale», chiedendo all’Europa «di diventare un vero e proprio motore nel processo di pace in Medio Oriente e all’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, di favorire una posizione comune europea per la soluzione del conflitto».
Per appoggiare gli sforzi della diplomazia, è stata poi deciso di lanciare l’iniziativa «Parlamentari per la pace», con l’intento di riunire gli eurodeputati e i deputati dei parlamenti di Israele e Palestina.
Colpito negli scontri muore un ministro palestinese e sale la tensione
Ziad Abu Ein stroncato da un infarto
Abu Mazen accusa Israele: barbarie dei militari
Vertice a Roma tra Kerry e Netanyahu
di Fabio Scuto (la Repubblica, 11.12.2014)
RAMALLAH «I can’t breathe», «non respiro», le sue ultime parole prima di crollare sul prato verde e soleggiato della valle di Turmusaya. È morto così Ziad Abu Ein, il ministro palestinese per gli insediamenti, stroncato da un infarto dopo essere stato colpito con un casco al petto e preso per la collottola da un soldato israeliano mentre con i duecento contadini che lo seguivano voleva piantare degli ulivi in quella terra confiscata agli agricoltori palestinesi, per consentire l’ampliamento dell’insediamento colonico di Adei Ad.
Era una delle tante manifestazioni di protesta che si svolgono ogni giorno nei Territori palestinesi occupati, per la distruzione di una fattoria, per l’acqua tagliata, per i frutteti distrutti, per la terra rubata. Proteste che finiscono invariabilmente per essere disperse dai venefici gas sparati dall’Esercito, granate assordanti e dalle pallottole di gomma. Proteste spontanee e quotidiane che segnalano il degrado della situazione in Cisgiordania, la continua erosione per mille motivi diversi, ma sempre giudicati validi dalle autorità israeliane, delle terre oggetto del negoziato di pace, quelle oltre la Linea Verde dove vivono ormai oltre 500 mila israeliani. E in questi insediamenti - nonostante le critiche interne e quelle internazionali - si continua a coduto struire creando una frizione continua con la popolazione araba residente.
Il timore adesso è che la morte del ministro palestinese inneschi un circuito di violenze in tutti i Territori occupati. Ziad Abu Ein è morto di infarto, probabilmente indotto dallo stress e dal pestaggio subito, come testimoniano le foto e le riprese della tv presente sul posto. L’esercito israeliano ha annunciato una sua inchiesta sull’acca- ma non basta per calmare gli animi.
All’autopsia del ministro nell’ospedale di Ramallah dove è stato trasferito parteciperà anche un patologo israeliano e altri esperti forensi stanno arrivando dalla Giordania. Nella capitale “de facto” della Palestina la tensione è altissima. Il presidente Abu Mazen è rimasto profondamente colpito dall’accaduto - Abu Ein era un dirigente di vecchia data di Fatah - ed ha proclamato tre giorni di lutto nazionale. «Questa barbarie non può essere accettata», ha detto. Il presidente palestinese ha anche annunciato anche il blocco di tutti i contatti e del coordinamento di sicurezza con Israele. Dall’altra parte, l’esercito israeliano è stato messo in stato d’allerta per possibili manifestazioni e proteste anche a Gerusalemme.
Sul tavolo del premier uscente Benjamin Netanyahu, che sta combattendo per la sua sopravvivenza politica alle elezioni anticipate di marzo, sono piovute le richieste di Stati Uniti, Onu e dell’Ue di fare subito chiarezza sulle circostanze della morte del ministro palestinese. A loro si è unita anche l’Italia per voce del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Netanyahu ha anche un incontro con il capo della diplomazia Usa Kerry domenica a Roma, sul tavolo la prossima richiesta palestinese di riconoscimento al Consiglio di sicurezza Onu e la fine dell’occupazione della Cisgiordania entro il 2016.
Israele, l’esercito pronto a entrare nei Territori
Tensione altissima dopo la morte di un ministro palestinese malmenato dai soldati a una manifestazione contro le colonie
di Maurizio Molinari (La Stampa, 11.12.2014)
Il ministro palestinese Ziad Abu Ein muore nel villaggio di Turmus Aya, in Cisgiordania, dopo una colluttazione con i militari israeliani e Abu Mazen parla di «atto barbarico» ammonendo sulla reazione: «Ogni opzione è sul tavolo» inclusa la fine della cooperazione nel mantenimento della sicurezza. Turmus Aya è un villaggio fuori Ramallah dove circa 150 palestinesi si danno appuntamento per piantare olivi ad Adei Ad, un insediamento non autorizzato dal governo israeliano.
Fra i dimostranti c’è Abu Ein, 55 anni, ministro del governo palestinese incaricato di ostacolare «Insediamenti e Annessioni». Manifestanti e soldati vengono a contatto, la colluttazione è prolungata. Le immagini di SkyNews mostrano un militare con la mano sul collo del ministro, che gli grida: «Sei un cane». Le versioni a questo punto divergono. Un testimone palestinese, Abla Kook, sostiene che «il ministro è stato picchiato sul petto col fucile e con un elmetto» mentre il reporter israeliano Roy Sharon di «Channel 10» replica: «Ero lì vicino, non è stato picchiato dai militari».
Marcia per gli olivi
Reut Mor, del gruppo israeliano «Yesh Din» (C’è giustizia), parla di «marcia pacifica per piantare olivi ostacolata dai militari» e l’italiano Patrick Corsi - già ferito al petto dagli israeliani dieci giorni fa - conferma che «volevamo piantare olivi per solidarietà con i palestinesi». Dopo la colluttazione, il ministro si siede su una roccia, mostra segni di malessere e un’autoambulanza lo porta verso l’ospedale di Ramallah dove però arriva già senza vita.
La reazione del presidente palestinese è furente, parla di «morte causata dalle brutalità dei soldati», dichiara tre giorni di lutto nazionale e avverte: «Ogni reazione è possibile». Jibril Rajub, alto esponente di Al Fatah, assicura che «la cooperazione di sicurezza con Israele è sospesa».
Scontro ai check-point
Per scongiurare la rottura, Israele invia una raffica di messaggi a Ramallah: propone un’inchiesta congiunta, affianca suoi medici a quelli arabi nell’autopsia, e con il premier Netanyahu si appella ad Abu Mazen affinché «eviti di far precipitare le tensioni». Ma gli scontri iniziano, da Qalandya a Jilazun, l’esercito teme l’escalation e rafforza lo schieramento di truppe in Cisgiordania. Mentre Netanyahu fa sapere che lunedì sarà a Roma per incontrare il Segretario di Stato Usa Kerry e discutere come sbloccare il negoziato, per prevenire la risoluzione palestinese all’Onu sulla sovranità nel 2016.
Gerusalemme: Netanyahu chiude la Spianata, Abu Mazen: ’’è dichiarazione guerra’
Tensione altissima nella Città Santa dopo l’attentato a rabbino Glick e l’uccisione di un palestinese
Redazione ANSA TEL AVIV, 30 ottobre 2014
E’ una dichiarazione di guerra da parte di Israele contro il popolo palestinese la decisione di chiudere la Spianata delle moschee a Gerusalemme. Lo ha detto il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) citato dall’agenzia ufficiale Wafa. "Riteniamo il governo israeliano responsabile per la pericolosa escalation a Gerusalemme occupata dovuta alla (decisione della) chiusura oggi la Spianata delle moschee", si legge nel comunicato letto da un portavoce della presidenza palestinese. "La decisione di chiudere la spianata per la prima volta è una sfida sfrontata e un comportamento pericoloso che causerà più tensione e instabilità", prosegue il comunicato. "Lo Stato di Palestina prenderà tutte le misure legali necessarie perché Israele risponda di questa decisione e metta fine a queste ripetute aggressioni".
Abu Mazen si è infine rivolto alla "comunità internazionale" perché "prenda immediate misure per far cessare questo attacco... la continuazione dell’aggressione e della pericolosa escalation israeliana - ha concluso - è come un annuncio di guerra contro il popolo palestinese e i suoi luoghi santi, e contro l’intera comunità arabo-islamica".
Netanyahu, Abu Mazen incita contro ingresso ebrei
Dietro le violenze a Gerusalemme est ’’c’e’ una ondata di incitamento da parte di elementi islamici radicali e del presidente dell’Anp Abu Mazen che ha dichiarato che occorre impedire con tutti i mezzi agli ebrei di entrare nel Monte del Tempio (il termine ebraico della Spianata delle Moschee, ndr)’’: lo ha affermato il premier israeliano Benyamin Netanyahu commentando l’attentato al rabbino Yehuda Glick, un attivista dei ’Fedeli del Monte del Tempio’.
Incidenti a Gerusalemme est dopo l’uccisione di un militante palestinese, Muataz Hijazi, sospettato di aver attentato alla vita del rabbino di estrema destra Yehuda Glick, raggiunto da colpi di pistola dopo aver partecipato a un convegno in cui ha invocato l’apertura immediata della Spianata alle preghiere degli ebrei. Le sue condizioni sono molto gravi. Glick, 50 anni, origini americane, era stato al centro di ripetute controversie in passato per aver condotto sulla Spianata delle Moschee drappelli di coloni e attivisti ebrei in ’raid’ visti come provocazioni dai palestinesi.
Fonti locali, citate dall’agenzia di stampa Maan, sostengono che il militante palestinese Hijazi e’ morto dissanguato dopo essere stato lasciato a lungo sul terreno. Giovani che volevano prestargli soccorso sono stati dispersi dalla polizia con proiettili di gomma. Hijazi e’ un militante della Jihad islamica che risiedeva nel rione palestinese di Silwan, a ridosso della Citta’ vecchia di Gerusalemme. E’ lo stesso rione dove abitava Abdel Rahman a-Shaludi, il palestinese che questo mese ha travolto un gruppi di ebrei con la sua automobile (uccidendo una donna e una neonata) ed e’ stato poi ucciso. Ancora non e’ noto se il militante della Jihad islamica fosse effettivamente legato all’attentato contro Glick.
Nel frattempo il ministro della sicurezza interna Yitzhak Aharonovic ha chiesto rinforzi per la polizia di Gerusalemme. Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha ordinato la chiusura ad oltranza per musulmani ed ebrei della Spianata delle moschee.
Oltre a proteste palestinesi per la chiusura della Spianata delle Moschee si temono anche atti di ritorsione di ultra’ ebrei di destra per l’attacco al rabbino.
Svezia riconosce Palestina, Abu Mazen: è mossa storica
Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha ’’salutato con favore’’ la decisione odierna della Svezia di riconoscere lo stato palestinese definendola anche ’’coraggiosa e storica’’. Ha invitato altre Nazioni a seguirne l’esempio. Lo ha dichiarato, citato dall’agenzia Wafa, il portavoce del presidente Nabil Abu Rudeina. "E’ un passo importante", ha detto il ministro degli Esteri svedese, Margot Wallstrom: "Qualcuno dirà che è una decisione arrivata troppo presto, a me spiace sia arrivata così in ritardo".
Palestina, il partito del grande silenzio
di ANGELO D’ORSI (il manifesto, 23 luglio 2013)
Ho trascorso la settimana in Spagna, a Malaga, a una Scuola estiva della Cattedra Unesco di quella Università. Il tema della sezione a cui ho partecipato come relatore era “L’impegno degli intellettuali”. Seguivo, naturalmente, la notizie sempre più angosciose provenienti dalla terra martire di Palestina, constatando l’assoluta “distrazione” del ceto politico, rispetto a quei fatti di sconvolgente gravità, e il totale disinteresse, salvo pochissime eccezioni, del “mondo della cultura”.
Ricordo altre stagioni, come l’invasione del Libano e la guerra contro Hezbollah, del luglio 2006, o il bombardamento di Gaza del dicembre 2008-gennaio 2009: stagioni in cui fiorirono appelli, e la mobilitazione di professori, giornalisti, letterati, scienziati,artisti fu vivace e intensa. Si denunciavano le responsabilità di Israele, la sua proterva volontà di schiacciare i palestinesi, invece di riconoscer loro il diritto non solo a una patria, ma alla vita. Oggi, silenzio. La macchina schiacciasassi di Matteo Renzi , nel suo micidiale combinato disposto con Giorgio Napolitano, si sta rivelando un efficacissimo apparato egemonico.
L’intellettualità “democratica”, facente capo per il 90% al Pd, appare allineata e coperta. I grandi giornali, a cominciare dal “quotidiano progressista” di De Benedetti, sempre in prima linea a sostenere le nuove guerre, dal Golfo alla Jugoslavia, appaiono organismi perfettamente oliati di sostegno al governo da un canto, e di adeguamento alla politica estera decisa da un pugno di signori e signore tra Washington, Londra, Bruxelles e Berlino (Parigi, caro Hollande, ne prenda atto, non conta un fico). Della radiotelevisione non vale neppure la pena parlare; come per l’Ucraina, ora, nella ennesima micidiale aggressione israeliana a Gaza, si sono raggiunti vertici non di disinformazione, ma di semplice rovesciamento della verità. La categoria del “rovescismo”, che mi vanto di aver creato, per la storiografia iper-revisionista, va ormai estesa ai media.
E devo constatare che mai in passato si erano raggiunti simili livelli: dove sono le zone franche? Fa impressione sfogliare la balbettante Unità, che un tempo non lontano, con tutti i suoi limiti, accanto a Liberazione (defunta) e al manifesto (che resiste!), era una delle poche voci critiche nel deprimente panorama all’insegna del più esangue conformismo.
Sulle pagine del manifesto (15 luglio) Manlio Dinucci ha spiegato bene le ragioni reali del “conflitto” in corso, e non ci tornerò. Qui mi preme piuttosto evidenziare, con sgomento, che il “silenzio degli intellettuali” che qualche anno fa Alberto Asor Rosa denunciava, deplorandolo fortemente, è divenuto non soltanto una condizione di fatto, ma una posizione “teorica” che, accanto a quella dell’equidistanza, sta trovando i suoi alfieri. Appunto, rientrando dalla mia settimana spagnola, di intense discussioni sulla necessità di impegnarsi, a cominciare dal mondo universitario, cado dalle nuvole leggendo lacerti di pensiero che configurano la nascita di una sorta di “Partito del silenzio”.
Il silenzio non viene soltanto praticato, sia «perché dovrei espormi?», sia perché la pressione della lobby sionista è fortissima e induce a tacere se proprio non vuoi esprimere la tua gioiosa adesione alla “necessità” degli israeliani “di difendersi”. Il silenzio, oggi, a quanto pare, è divenuto una divisa, una bandiera, e una ideologia.
Quei pochi che parlano, che osano aprire bocca, premettono il riconoscimento delle ragioni di Israele e condannano in primo luogo rapimento e uccisione dei tre ragazzi ebrei, poi uccisi (si tralascia di dire che si tratta di tre giovani coloni, ossia occupanti, con la violenza dell’esercito, terra palestinese), e il lancio di razzi Kassam contro le città del Sud di Israele, e cercano poi di cavarsela con un colpo al cerchio e una alla botte. Ma attenzione, se il colpo alla botte israeliana appare troppo sonoro, ecco che si scatena l’inferno, non di fuoco come su Gaza, ma di parole.
Molto praticato il genere “commenti” agli articoli on line, per esempio: sono tutti uguali, anche se variamente dosati nel tasso di violenza verbale. Mentre un gran lavorio di informazione al contrario, di diretta provenienza da fonti israeliane, viene dispiegato dagli innumerevoli piccoli dispensatori di verità nostrani. Per esempio un pur prudente articolo di Claudio Magris sul Corriere della Sera (17 luglio) che si permetteva di accennare alle ragioni dei palestinesi, ha ricevuto la sua buona dose di ingiurie. Non c’è che dire, il sistema funziona. E finisce per indurre al silenzio, o quanto meno alla prudenza. Che è l’altro nome del silenzio.
Ma non è questo silenzio, il silenzio del ricatto, che mi preoccupa di più. È, invece, il silenzio della scelta. Il silenzio teorizzato come terza via, tra coloro che incondizionatamente sono con Israele, e gli altri, quelli che sostengono la causa palestinese. Il silenzio come rispetto del dolore, o come via della ragionevolezza: contro gli opposti estremismi. Esemplare in tal senso Roberto Saviano, che, quasi commettendo autogol, cita Euromaidan per denunciare il tardivo schierarsi anche italiano dalla parte giusta, che per lui, ovviamente, è quella dei golpisti nazisti diKiev. E ora, a suo dire, occorre schierarsi non con gli uni né con gli altri, ma «dalla parte della pace»: i “terroristi” di Hamas sono indicati come il primo nemico della pace, ovviamente.
È la linea (solita) di Adriano Sofri (la Repubblica, 17 luglio), altro guerriero democratico, che ripartisce torti e ragioni, equiparando i razzi di Hamas alle bombe israeliane, e invoca implicitamente silenzio, discrezione, rispetto: mette sullo stesso piano tutti. Tutte le vittime innocenti. Ma si può confondere la pietà umana, doverosa, col giudizio politico? Si può trasformare l’opinione in saggezza?
Sul medesimo giornale, Michele Serra sostiene che occorre tacere, che si devono abbassare la voce e gli occhi, davanti alla “tragedia” della guerra, lo stesso termine usato da Magris. Ma quale tragedia? Qui abbiamo la politica, e la politica ha degli attori, dei responsabili: come in passato la divisione tra vittime e carnefici è netta ed evidente (so che qualche anima bella mi accuserà di semplificare: la cosa è più complessa, non si può dividere così nettamente, ciascuna delle due parti ha un pezzo di responsabilità e via di seguito). Serra scrive: «Evidentemente il ‘ciclo dell’indignazione’ è un meccanismo logoro».
Dal ceto intellettuale mi aspetto assai più che l’indignazione, mi aspetto una rivolta morale: tutti, se non in perfetta malafede, oggi sanno quanta verità ci sono nelle parole di Primo Levi: «Quello che non potrò mai perdonare ai nazisti è di averci fatto diventare come loro».
Quanto bisogno avremo di sentire la sua voce risuonare, pacata e ferma, scandendo le parole, a voce bassa, ma chiarissima: «La tragedia è di vedere oggi le vittime diventate carnefici». E se questo era evidente a lui negli anni Ottanta del Novecento, cosa potrebbe mai dire oggi, davanti a quei corpi straziati di bimbi, alla vita cancellata in tutta la Striscia di Gaza, davanti a quelle macerie che occupano, quartiere dopo quartiere, isolato dopo isolato, di ora in ora, lo spazio affollato di case e persone?
Se non denunciamo le menzogne dei media, le complicità dei governi occidentali, con quello di Tel Aviv, in particolare l’oscena serie di accordi (militari, innanzi tutto) dell’Italia con Israele... Se ci consegniamo al silenzio, oggi, davanti a una ingiustizia così grave,così palese, così drammatica, quando parleremo? Insomma, non intendo tacere, e ricorrendo proprio alle parole di quel grande uomo, gridare: «Se non ora, quando?».
Con il sangue dei bambini
Gaza, l’orrore senza fine uccisi 4 bimbi palestinesi
Erano cugini: colpiti in un raid israeliano mentre giocavano in spiaggia
La denuncia del Guardian: colpiti a freddo senza preavviso
Oltre 216 i morti, almeno 1550 i feriti
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità 17.07.2014)
La morte viene dal mare. E fa ancora vittime innocenti. I più indifesi: i bambini. Ieri 4bambini sono stati uccisi a Gaza, nel corso dei raid israeliani. Le vittime, riferiscono fonti palestinesi, sono state colpite da proiettili provenienti dal mare, probabilmente da una motovedetta. I bambini uccisi erano quattro cugini di età compresa tra 9e 11 anni, uccisi mentre giocavano su una spiaggia di Gaza City. Lo fa sapere il medico palestinese Ashraf al-Kedra, mentre Israele annuncia che sta indagando sui fatti. I piccoli sono stati colpiti mentre si trovavano su una spiaggia lungo una strada costiera e altre sette persone, tra cui adulti e bambini, sono rimaste ferite, riporta ancora il medico. Lozio dei bambini uccisi, il 41enne Abdel Kareem Baker, accusa Israele: «È un massacro a sangue freddo. È una vergogna che non li abbiano identificati come bambini, con tutta la tecnologia avanzata che stanno utilizzando».
ORRORE INFINITO Il corrispondente del Guardian, Peter Beaumont, ha sostenuto sul proprio profilo Twitter che «non c’è stato nessun colpo di avvertimento, i ragazzi sono stati uccisi al primo giro, poi gli artiglieri hanno aggiustato la mira e preso i sopravvissuti». «Ero a 200 metri da lì», ha aggiunto. Sul quotidiano britannico è apparso un suo lungo articolo in cui ha raccontato l’intera dinamica dei fatti. Le ambulanze hanno evacuato morti e feriti dalla spiaggia, tra cui anche altre persone che si trovavano sulla spiaggia. I corpi dei bimbi sono stati trasferiti alla moschea di Abu Hasira, lì vicino, e avvolti nelle bandiere gialle del partito Fatah del presidente Abu Mazen.
Tra le vittime della nuova escalation di violenze a Gaza, «una su cinque è un bambino», spiega i in un comunicato l’organizzazione non governativa Save the Children. Si stima che almeno25mila bambini avranno bisogno di aiuto sostegno psicologico per affrontare il trauma che stanno vivendo. L’organizzazione ha esortato tutte le parti in conflitto a mettere urgentemente fine alla violenza, prima che altri civili innocenti siano feriti o uccisi, o costretti a vivere nella paura di esserlo. «Oltre al cessate il fuoco, solo un accordo negoziato tra tutte le parti in conflitto, farà la differenza nella durata della tregua e dovrà affrontare le cause a lungo termine di questo conflitto, promuovendo la dignità e la sicurezza per israeliani e palestinesi», ha insistito l’ong che ha chiesto infine la revoca del blocco di Gaza, che sta causando gravi disagi, incidendo sul benessere di tutti i bambini e le loro famiglie.
CRONACA DI GUERRA Nono giorno. Continuano i raid israeliani su Gaza, continuano i lanci di razzi dalla Striscia al territorio israeliano. E continua ad aumentare il numero delle vittime: dall’ inizio dell’operazione «Confine protettivo» sono stati uccisi 213 palestinesi, in maggioranza civili. I feriti sono 1550. Ma è un numero che sale ogni ora. Dopo il no di Hamas alla tregua proposta dall’Egitto, le forze dello Stato ebraico hanno ripreso i bombardamenti e hanno chiesto a circa 100mila abitanti del nord e dell’est di Gaza, vicino al confine con Israele, di lasciare le loro abitazioni. Secondo fonti militari, messaggi vocali sono stati diffusi in particolare per il quartiere orientale di Shujàiyya: i residenti sono stati chiamati ad «evacuare nell’interesse della loro sicurezza».
Hamas risponde chiedendo agli abitanti della Striscia di non muoversi, denunciando una «guerra psicologica». Secondo il ministero dell’Interno di Gaza, infatti, «non c’è alcun motivo di preoccupazione né alcuna ragione per cooperare». Durante l’altra notte aerei da combattimento israeliani hanno attaccato a Gaza le abitazioni di diversi alti dirigenti di Hamas. Tra le case colpite c’è quella di Mahmoudal-Zahar, centrata da almeno due missili: in quel momento nell’edificio non c’era nessuno, sono state danneggiate anche alcune abitazioni e una moschea delle vicinanze. I raid israeliani hanno inoltre preso di mira le case di un Bassem Naim, dell’ex ministro Fathi Hammad e dell’ex deputato Ismail al-Ashqari.
MISSIONE DIPLOMATICA «Oggi la situazione è chiara, perché l’Egitto ha offerto un cessate il fuoco. Israele lo ha accettato. La Lega Araba lo ha accettato. L’unico che lo ha rifiutato e continua a sparare è Hamas», rimarca il presidente israeliano Shimon Peres, durante l’incontro con la ministra italiana. «Stiamo cercando di difendere la nostra gente, come dobbiamo, e stiamo anche cercando di non colpire persone in nocenti a Gaza», aggiunge Peres che ha poi voluto ringraziare l’Europa, ricordando che insieme agli Stati Uniti ha «preso una chiara posizione contro la politica unilaterale, irragionevole e crudele di Hamas».
Una tregua è «nell’interesse sia di israeliani che dei palestinesi », sottolinea a sua volta la titolare della Farnesina, rilevando che «Europa e Usa faranno il possibile per sostenere un cessate il fuoco». In serata, la ministra degli Esteri italiana incontra a Gerusalemme il premier israeliano. Il mondo deve condannare Hamas per i lanci di razzi contro Israele, dichiara Netanyahu, rivolgendosi a Mogherini. La parola resta alle armi. Come sempre nell’insanguinata Terra Santa.
Bombe sui bimbi in spiaggia
Israele prepara l’invasione
di Fabio Scuto (la Repubblica, 17.07.2014)
CORRISPONDENTE GERUSALEMME. GIOCAVANO a pallone su quel tratto di spiaggia che c’è tra il vecchio porto e l’Hotel Al Deira, nella segreta - e sbagliata - convinzione che stare nei pressi dell’albergo usato dai giornalisti stranieri nella Striscia li mettesse al sicuro.
LA PARTITELLA l’ha interrotta la Marina da guerra israeliana centrando con un colpo di cannone sparato dal mare quel gruppetto di “sospetti” e portandosi via la vita di Ahed e Zakarya di 10 anni, Ramez di 11 e Mohammad di 9. Il resto dei ragazzi della famiglia Bakr, che vive nel campo profughi di Shati, è all’ospedale Al Shifa, con i corpi straziati dalle schegge e bruciati dal calore delle esplosioni, in lotta tra la vita e la morte.
I testimoni e i primi soccorritori delle vittime della strage sulla spiaggia sono stati i fotografi e i giornalisti che a quell’ora del pomeriggio si trovavano sul terrazzo dell’hotel. Fra le onde del mare, la spiaggia, le barche dei pescatori, i capanni dei caffè dai colori sgargianti, quei bambini non potevano certo immaginare che ci potesse essere da quelle parti un “obiettivo militare”. Né quel punto figurava tra le quattro zone della Striscia dove Israele aveva ordinato l’evacuazione a 100mila abitanti.
«I ragazzini stavano facendo una partita sulla spiaggia», ci racconta Ahmed Abu Adera, uno dei camerieri dell’albergo, «un primo colpo si è schiantato sulla spiaggia come un tuono, hanno iniziato tutti a scappare, ma un secondo colpo ha centrato un gruppetto che correva... Sembrava come se i proiettili li stessero inseguendo». Diversi giovanissimi sono corsi a ripararsi verso l’hotel Al Deira, poco distante, in cui alloggiano diversi giornalisti che coprono il conflitto. Racconta Paul Beaumont, corrispondente del Guardian, fra i primi soccorritori, che «non c’è stato nessun colpo di avvertimento, i ragazzi sono stati uccisi al primo sparo, poi gli artiglieri hanno aggiustato la mira e colpito i sopravvissuti. Ero a meno di 200 metri da lì».
«C’è stata un’esplosione assordante verso le 4 del pomeriggio, in quel tratto di spiaggia dove i pescatori stendono le reti ad asciugare », continua. «Quando si è dipanato il fumo, ho visto quattro figure correre verso il nostro albergo in cerca di riparo: un adulto e tre ragazzini. Il secondo colpo è arrivato quando ci avevano quasi raggiunto. Siamo saltati tutti in piedi, urlando verso gli artiglieri israeliani, come se pola tessero sentirci: sono solo dei bambini!!!».
L’uomo che prima correva arriva all’hotel, si appoggia, geme e tiene con le mani la tshirt intrisa di sangue all’altezza dello stomaco, dove è stato colpito. «Era bianco come la neve, ha perso conoscenza», prosegue Beaumont. «Mentre i ragazzi dell’albergo fermavano un taxi sul lungomare per portalo in ospedale, altri hanno strappato le tovaglie dai tavoli per usarle come barelle e soccorrere gli altri ragazzi».
«Tirando su la maglietta al primo bambino, ho visto subito il buco nel petto lasciato da una scheggia», racconta Ashraf, un altro dei camerieri- soccorritori, «piccolo e tondo come il cappuccio di una penna, fra la prima e la seconda costola. Gemeva: “ho male, ho male, il petto mi brucia”. Abbiamo preso altre tovaglie per comprimere la ferita e fermare l’emorragia ». Altri si sono occupati del ragazzo più grande: aveva le braccia bruciate, sanguinava dalla testa e dalle gambe. Qualcuno è corso in strada per fermare qualche macchina di passaggio, ma sono arrivate due ambulanze che hanno caricato i tre ragazzi.
Solo ieri il presidente Peres aveva lodato “l’umanità” dei piloti israeliani nello scegliere solo obiettivi militari. Il numero delle vittime ha superato quota 220, i feriti sono oltre 1500. Alla vigilia di una tregua umanitaria di 5 ore mediata dall’Onu, ieri sera l’Idf che ha aperto un’inchiesta si è giustificato così: «Stavamo colpendo un obiettivo terroristico, l’uccisione dei bambini è un fatto tragico». E una fonte israeliana ha rivelato che la probabilità che Israele lanci un’operazione di terra è “molto alta”.
La notizia della strage si è diffusa in un attimo nella Striscia, mentre le quattro piccole vittime venivano trasferite nella vicina moschea Abu Hasira. I corpicini in terra, avvolti nelle bandiere gialle del Fatah, il partito del presidente Abu Mazen. In migliaia, sfidando i raid che proseguono, hanno partecipato in serata ai funerali. Urlando la rabbia e la disperazione per le vittime innocenti di questa tragedia, bambini che volevano solo giocare al pallone in un pomeriggio d’estate sulla spiaggia nel posto peggiore al mondo dove crescere. Si chiama Gaza e dista solo tre ore d’aereo dall’Italia.
Vattimo: “Israele? Nazisti puri, forse peggio di Hitler”.
E volano insulti con Parenzo
di Gisella Ruccia (il Fatto quotidiano, 16.07.2014)*
“Israele vuole distruggere definitivamente i palestinesi, è una guerra di puro sterminio. Sono nazisti puri e forse un po’ peggio di Hitler perché hanno anche l’appoggio delle grandi democrazie occidentali“. Sono le parole pronunciate da Gianni Vattimo, ex parlamentare europeo, ai microfoni de “La Zanzara”, su Radio24.
“Andrei a Gaza” - afferma Vattimo - “a combattere a fianco di Hamas, direi che è il momento di fare le Brigate Internazionali come in Spagna, perché Israele è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero. In Spagna non era niente in confronto a questo. Questo è un genocidio in atto, nazista, razzista, colonialista, imperialista e ci vuole una resistenza“.
E aggiunge: “Ma siamo quattro gatti, perché tutta l’informazione, compresa la stampa italiana, piange sul fatto che c’è una pioggia di missili su Israele, però Hamas quanti morti ha fatto? Nessuno. I poveretti non hanno armi, sono dei miserabili tenuti in schiavitù, come tutta la Palestina. Hanno dei razzetti per bambini, e voglio promuovere una sottoscrizione mondiale per permettere ai palestinesi di comprare delle vere armi e non delle armi giocattolo. Cominciamo a distruggere il nucleare israeliano, Israele è lo stato canaglia che ha il nucleare“.
Alla domanda di Cruciani se sparerebbe conttro gli israeliani, l’ex europarlamentare risponde: “Io sono un non violento, però contro quelli che bombardano ospedali, cliniche private e bambini sparerei, ma non ne sono capace”.
E aggiunge: “Gli ebrei italiani dalla parte di Israele sono gli ex fascisti, che adesso sono dalla parte dell’America. La comunità ebraica italiana è rappresentata da quell’ossimoro che è Pacifici, ma ci sono molti ebrei d’accordo con me. Li c’è uno stato nazista che cerca di sopprimere un altro popolo. E io ce l’ho con lo stato di Israele, non con gli ebrei“
di Gisella Ruccia
*
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/07/16/vattimo-israele-nazisti-puri-forse-peggio-di-hitler-e-volano-insulti-con-parenzo/288906/
Bombardata Gaza migliaia in fuga L’Onu chiede la tregua
Primo blitz via terra delle forze speciali israeliane. Netanyahu: tempi lunghi
A decine di migliaia hanno lasciato le case dopo gli avvertimenti pre-raid
“Cinque minuti per fuggire di una vita non resta nulla”
Nel racconto di Salem il dramma della Striscia
di Fabio Scuto (la Repubblica, 14.07.2014)
GERUSALEMME. HANNO raccolto tutta una vita in pochi minuti, svegliato i figli che dormivano sulle brandine, zucchero e biscotti nelle buste di plastica insieme alle medicine, quattro magliette per i bambini in una sacca sformata, i documenti e le tessere alimentari delle Nazioni Unite nella borsa.
NON c’è stato tempo né lo spazio per prendere né qualche libro di scuola né un ricordo, un oggetto caro, la foto del matrimonio o quella vecchia del nonno in uniforme egiziana, quando Gaza apparteneva a un altro mondo. Si sono trovati in strada in pochi minuti Salem Abu Halima con la moglie Farida e i due bambini. Il vecchio somarello bianco attaccato al carretto, hanno percorso i dieci chilometri per arrivare alla “Gaza Beach Primary School” dell’Onu, alla periferia della città, uniti nel destino alle altre decine di migliaia che per tutta la mattinata hanno abbandonato Beit Lahiya e Beit Hanun, le due cittadine nel nord della Striscia dove - annunciati da volantini e telefonate - i caccia F-16 israeliani hanno cominciato a bombardare a raso, con metodo, per distruggere le basi di lancio dei missili che anche ieri sono arrivati numerosi nei cieli israeliani. Tutti intercettati dall’Iron Dome, il “totem” della Difesa aerea israeliana.
«Non c’era altra scelta, abbiamo dovuto obbedire all’ordine degli israeliani di sgomberare tutta la zona. Abbiamo due figli da salvare, il resto è andato perduto. Già non eravamo niente per il mondo e adesso è come essere nessuno», racconta ancora Salem. Le strade di Beit Lahiya, settantamila abitanti, si sono svuotate dall’alba di ieri dopo una notte di violentissimi bombardamenti. Ma soprattutto dopo il lancio dei volantini che davano agli abitanti tempo fino a mezzogiorno per abbandonare l’abitato. «Ci siamo mossi all’alba, tanto con quei bombardamenti nessuno poteva dormire, uno ogni dieci minuti: è stato terrificante », dice con un filo di voce Farid che in due viaggi con la moto è riuscito a portare i sei membri della sua famiglia fino a questa scuola dell’Unrwa, dove spera non si abbatta un bombardamento. Altre migliaia in fuga hanno cercato ospitalità da parenti e amici, ma per molti la bandiera blu dell’Onu sembra il rifugio con migliori garanzie. L’Unrwa ha deciso di aprire per ora dieci - delle oltre duecento scuole che gestisce nella Striscia - per dare un rifugio a questa prima ondata di arrivi.
Oltre ventimila palestinesi in fuga da Beit Lahiya sono arrivati ieri nelle scuole dell’Onu in carretti trainati da asini o cavalli pieni di bambini, bagagli e materassi, c’è chi è arrivato su un taxi sgangherato, in macchina, in moto. I meno fortunati a piedi, trascinando i resti di una vita dentro un trolley malridotto.
Anche Mohammed Sultan ha caricato tutto quel che ha potuto sul suo carretto trainato da un cavallo, la moglie, i suoi cinque figli aggrappati alle borse a qualche masserizia messa insieme in tutta fretta. Non c’era più posto per lui e così ha camminato per chilometri assieme ad altri familiari adulti in direzione di «una scuola con la bandiera blu». Samari al-Atar viveva nel quartiere di Atatra, un’altra delle zone “calde” che è stata duramente bombardata ieri dall’aviazione israeliana. «Abbiamo cercato riparo in casa prima durante la notte, i muri tremavano e i bambini piangevano di paura. Luda, la più piccola tremava e aveva gli occhi sbarrati. È stato come scegliere tra la vita e la morte», racconta in lacrime, «e poi mentre stavamo scappando hanno ricominciato a sparare tutto intorno, non abbiamo potuto portare nulla con noi, i nostri figli sono a piedi nudi ». Nadia, la moglie descrive il terrore della fuga alle prime luci dell’alba con gli aerei israeliani che volavano in cerchio sopra le loro teste. «La gente urlava e c’erano vecchi che non ce la facevano a camminare da soli, i più giovani li aiutavano. Non c’è l’elettricità e le strade erano buie come la pece ».
I banchi sono stati messi lungo il corridoio per sgombrare le aule e dare un tetto a tutti, ma è impossibile. Giardini e palestra sono invasi da un tappeto di materassi e coperte, una tenda tirata su con un lenzuolo e quattro paletti. Altre scuole verranno aperte dell’Unrwa perché il flusso degli sfollati non si ferma.
All’interno del complesso scolastico i bambini sfollati disegnano su una lavagna con il gesso rosa e giallo: elicotteri israeliani e carri armati che sparano, i razzi palestinesi che partono. Suha Zyed ha ancora tutte le sue borse chiuse, come se dovesse scappare ancora d’improvviso. «Non è la prima volta che bombardano anche le scuole, e anche gli ospedali sono stati colpiti. Di sicuro a Gaza non c’è niente. Che ne sarà di noi adesso? Abbiamo perso tutto: il nostro futuro e anche il futuro dei nostri figli».
Fuga da Gaza
Hamas: “Non lasciate le case”
di Cosimo Caridi (il Fatto, 14.07.2014)
Striscia di Gaza. Un paio di cuscini e poche coperte, Mahmoud non ha caricato altro sul retro della sua moto. Moglie e due figlie si sono strette sulla sella. Non era ancora l’alba, stavano per consumare la colazione prima del lungo digiuno del Ramadan. “I vicini ci hanno bussato, hanno detto di scappare, gli israeliani stavano arrivando. Non abbiamo fatto in tempo a prendere nulla, nemmeno le scarpe delle bambine”.
L’Unwra, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha aperto le scuole per accogliere i nuovi profughi. In principio quattro, poi otto strutture. Il rovente sole di luglio non fa in tempo a scaldare le pietre bianche che gli edifici sono già pieni. A una prima conta almeno in 4 mila hanno abbandonato le loro abitazioni per essere accolti dalle Nazioni Unite. Ma questa è solo una piccola parte, molti altri hanno preferito andare a casa di parenti al centro della Striscia.
In questo contesto le parole di papa Francesco - fautore della preghiera di pace in Vaticano nel giugno scorso con Abu Mazen e Simon Peres - rivolte ieri durante l’Angelus non sembrano sortire effetti: è stato “un accorato appello” quello di Bergoglio che ha esortato “le parti e tutti quanti hanno responsabilità politiche in Terrasanta “a non risparmiare la preghiera e a non risparmiare alcuno sforzo per fare cessare ogni ostilità” .
A metà mattinata viene diffuso un volantino dell’Idf (esercito israeliano) in cui sono indicate specifiche aree nel nord della Striscia che verranno attaccate. “I civili hanno tempo di allontanarsi entro mezzogiorno. Chiunque trascuri le istruzioni dell’esercito metterà la vita di se stesso e della sua famiglia a rischio. Attenzione. L’operazione dell’esercito sarà breve”.
Un ultimatum a cui Hamas risponde immediatamente in modo opposto con questo invito: “Non lasciate le vostre case”. Intanto si contano gli attacchi e i morti, 21, della notte precedente. Il raid israeliano più micidiale è stato contro una moschea: in 16 hanno perso la vita e i feriti sono almeno 50. A fine giornata il bilancio si aggraverà ancora: 183, secondo il ministero della Salute di Gaza. Nella crisi del novembre 2012 i palestinesi uccisi furono 171.
I bambini sciamano per il cortile della scuola dell’Unwra di Nasser, pochi di loro hanno capito cosa sta succedendo. Ma Akram, sette anni e gli occhi azzurri, ha un piano: “Mettiamo questi banchi davanti all’ingresso così nessuno potrà entrare, nemmeno i soldati”.
LA SUA FAMIGLIA si è sistemata in una classe al primo piano, oltre venti persone, la quasi totalità sotto i quindici anni. Per terra qualche stuoia e in un angolo una pentola che bolle. “Perché il presidente Abu Mazen non si decide a dire qualcosa, a fare qualcosa” urla il fratello maggiore di Akram, con la rabbia che solo un adolescente sa esprimere.
Intanto fuori dalla scuola continuano ad arrivare famiglie alla ricerca di un posto dove sistemarsi. Passano le 12 e tutti si aspettano l’inizio di bombardamenti israeliani, che però non arrivano. Hamas tenta quindi di scongiurare la fuga collettiva dalle zone periferiche e per bocca di un suo portavoce dichiara: “Gli abitanti di Gaza non devono ascoltare gli ordini d’Israele di abbandonare le loro case. Ci devono restare. Questa è una guerra psicologica”.
A fine giornata sono oltre 10 mila i gazawi in fuga verso aree più sicure a centro della Striscia. L’esercito israeliano dovrebbe colpire le zone a nord, dalle quali partono i razzi che il movimento islamico lancia contro Tel Aviv e Gerusalemme.
L’AVIAZIONE vorrebbe bonificare le aree per evitare di cadere in trappole preparate da Hamas, il passo successivo sarebbe l’invasione via terra che in realtà è già iniziata con azioni specifiche condotte da truppe d’elitè, per riuscire a colpire la dirigenza del movimento islamico. I leader di Hamas sono nascosti da tempo e cambiano con frequenza i loro rifugi. Gli attacchi aerei si basano su informazioni precise, ma sovente non riescono a colpire come previsto. Sono i civili, più spesso, a cadere al posto dei miliziani di Hamas. “Questa è casa mia e non me ne vado. Se devo morire preferisco farlo qui”.
Sono in pochi a restare a Beit Lahia, ma Adnan non ha intenzione di muoversi. “La mia famiglia è dovuta scappare nel ’48, dopo la creazione di Israele. I miei genitori erano ancora bambini e vennero a vivere qui. Ma io sono un adulto e non voglio scappare né dalle bombe, né dall’esercito e ancor meno dalle bombe dell’esercito israeliano”.
Israele-Palestina, l’escalation di brutalità non ha futuro
La violenza non ha mai generato pace ma soltanto ed esclusivamente altra violenza
di Luigi Bonanate (l’Unità, 08.07.2014)
Tre ragazzi israeliani uccisi, un altro palestinese bruciato vivo, nove militanti di Hamas uccisi dai droni, 800 palestinesi arrestati a partire dal 12 giugno, quando furono rapiti i tre ragazzi israeliani. Dopo una forsennata caccia all’uomo, vana perché non si sono trovati i colpevoli dell’assassinio dei tre ragazzi, una frangia estremistica israeliana ha proceduto direttamente alla vendetta dando fuoco a un ragazzo rapito di fronte a casa sua e che - neppure lui - aveva nulla a che fare con gli eventi.
Poi, Netanyahu ha parlato con il padre della vittima palestinese e si è scusato, riconoscendo che il terrorismo e la violenza sono sempre la stessa cosa, chiunque vi ricorra; Abu Mazen ha chiesto un’inchiesta Onu sulla vicenda, e Lieberman, capo di uno dei partiti di ultra-destra israeliani, parte dell’attuale coalizione al potere, ha dichiarato che pur senza far cadere il governo il suo partito esce dall’alleanza politica con il Likud di Netanyahu.
L’unica dimensione nella quale una parte di Israele e una della Palestina si incontrano, anzi, si apparentano, è la facilità con cui ricorrono alla violenza e commettono azioni orrende e assolutamente ingiustificabili. Nessuno può permettersi di giudicare e condannare se non ha le mani nette, e purtroppo nessuno si trova in questa condizione, il che significa che la violenza o la accettiamo in toto o la respingiamo altrettanto totalmente. Questa considerazione vale per tutti e non soltanto per scusare gli atti degli amici o condannare quella degli avversari.
Dobbiamo lasciare la politica ai politici, mentre noi dobbiamo cercare di capire, formarci un’opinione, contribuire a formarne una collettiva e a prendere posizioni pubbliche: tutte cose a cui abbiamo purtroppo ormai perduto l’abitudine. Il primo impegno in ogni tentativo di ricostruzione delle dimensioni di questo problema riguarda il potere della violenza: sappiamo per certo che la violenza (politica) non ha mai generato pace ma soltanto ed esclusivamente altra (semmai maggiore, in una escalation che può essere senza fine) violenza. Ciò significa che la violenza deve, prima o poi, venire abbandonata: se non lo si fa, è perché si teme quella dell’altro, in un perverso (ma ingenuo) gioco di sfiducia reciproca.
La storia - 66 anni sono ormai passati da quando tutto ciò è incominciato - ci dice che, andando avanti così, nulla mai cambierà. Abbiamo avuto alternanze di riduzione della violenza e di recrudescenze, un numero imprecisato di guerre e due intifade: non sono servite a nulla. Esiste qualche modo di sbloccare questa situazione che, lasciata alle attuali dimensioni, non ne ha alcuno? Le guerre si muovono normalmente su una base di presunta reciprocità, altrimenti non inizierebbero mai, sapendosi prima chi ne sarebbe il vincitore. Tra Israele e la Palestina c’è invece una fondamentale differenza: il primo è uno Stato solido, ricco, riconosciuto dalla comunità internazionale, salvo che da alcune pochissime frange estreme (Hamas, l’Iran); il secondo, la Palestina, è povero e statualmente pressoché inesistente (piccolo com’è, è persino territorialmente diviso).
In una situazione del genere non c’è che una via: che il più fortunato (lasciamo stare da dove questa fortuna gli sia giunta) aiuti il più debole. Per pura e semplice riconoscenza per la fortuna avuta. Israele sa che in una qualsiasi nuova spirale di violenza, uscirebbe sempre vittorioso. Non gli resterebbe allora che una via: spazzar via l’Autorità Nazionale Palestinese (annessi e connessi), e attirarsi contro l’esecrazione planetaria. Gli converrà mai? Ovviamente no, così come non conviene a nessun israeliano né a nessun palestinese pensare che i propri rispettivi figli e discendenti continueranno a vivere nella paura e nel terrore. Non ha alcun senso, perché non c’è argomento che superi quello di un progetto di pacificazione e la conseguente domanda, tanto semplice quanto insuperabile: ma la vita non è meglio della morte?
Filosofi e teologi ricorrono talvolta, per spiegare congiunture particolarmente complesse e difficili, alla formula della «eterogenesi dei fini», che si verificherebbe quando, intendendo con una qualche azione perseguire un certo fine, in realtà si finisce per realizzarne uno diverso. Da certe intenzioni discendono conseguenze che non vi corrispondono. Che sia questo il caso del conflitto israelo- palestinese, in questa sua sorta di inspiegabile inestinguibilità? Ma sia ben chiaro: non è ad azioni casuali, caotiche, sporadiche, che possiamo affidare il futuro del conflitto israelo-palestinese. Tutti - Hamas compreso e come pure i partiti ultra-ortodossi israeliani - diano una prova di saper lavorare con la ragionevolezza e non con la brutalità. Che questo bruttissimo episodio segni finalmente un trionfo dell’eterogenesi dei fini: da un male potrebbe discendere un bene.
RAI-NEWS *
L’ANNUNCIO DELL’ATTACCANTE ISLAM SLIMANI
L’ALGERIA DONA AI BAMBINI DI GAZA I 9 MILIONI DI DOLLARI GUADAGNATI PER LA COPPA DEL MONDO *
La notizia sta facendo il giro del mondo mentre l’aviazione israeliana sta bombardando Gaza durante l’offensiva seguita all’omicidio dei tre giovani seminaristi. A farlo sapere su Facebook è Islam Slimani: i bambini della Striscia ne hanno più bisogno di noi
"Loro hanno più bisogno di noi di questi soldi". Con questa frase, pubblicata sul suo profilo Facebook, l’attaccante Islam Slimani fa sapere che la nazionale algerina donerà ai bambini di Gaza tutto il ricavato dalla partecipazione ai Mondiali del Brasile.
Ai bambini della Striscia - anche oggi bombardata dall’aviazione israeliana nell’offensiva iniziata dopo l’uccisione dei tre giovani coloni - arriveranno circa 9 milioni di dollari dalla squadra che, seppure battuta dalla Germania, ha combattuto fino alla fine arrivando ai tempi supplementari.
La decisione di Slimani e dei suoi compagni di squadra sta facendo il giro dei giornali del mondo: dal britannico Daily Mail all’israeliano Haaretz.
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Israele - Palestina
La vita, non i luoghi
il mio Appello ai Fanatici:
non Trascinate Dio nelle Dispute Immobiliari
La vita è più sacra della «terra» per cui lottiamo
di Amos Oz (Corriere della Sera, 09.06.2014)
Ritengo che per circa un secolo il conflitto tra israeliani e palestinesi sia stato sostanzialmente una disputa di carattere immobiliare. Una lunga guerra fondata su una domanda: di chi è la proprietà di questa casa con la terra?
I fanatici in entrambi i campi stanno disperatamente cercando di trasformare questa disputa immobiliare in un conflitto di religione, tra Ebraismo e Islam, e in qualche modo ci sono riusciti.
Io credo che una disputa sulla proprietà possa venire risolta attraverso il compromesso, tramite la partizione della terra, la divisione della casa in due appartamenti più piccoli, in breve: ricorrendo alla soluzione della suddivisione in due Stati. Ma una guerra santa, un conflitto di carattere religioso, è molto più duro da risolvere poiché la disputa su ogni luogo, su qualsiasi singola pietra, diventa la ragione che scatena odio e violenza.
Proprio su questo punto credo dunque che i leader religiosi - cristiani, musulmani ed ebrei - dovrebbero ricordare ai fanatici che la vita umana è più santa di qualsiasi luogo sacro; che la testa di ogni bambino - ebreo, arabo o cristiano - è più preziosa a Dio che non qualsiasi pietra di qualsiasi patria al mondo.
Quando ero bambino mia nonna mi spiegò in parole semplici dove sta la differenza tra un ebreo e un cristiano. Mi disse: «Vedi, piccino mio, i cristiani credono che il Messia sia già stato sulla Terra e che tornerà nel futuro. Noi ebrei crediamo invece che il Messia non sia ancora arrivato e debba arrivare nel futuro». «Su questa disputa - disse ancora la mia saggia nonna - non puoi immaginare quante persecuzioni, violenze, massacri e sangue siano stati versati nella storia. Perché mai non potremmo semplicemente attendere e vedere con i nostri occhi se il Messia, arrivando infine tra noi, dirà di essere felice di vederci per la prima volta, oppure di trovarci ancora?».
La spiegazione della nonna era semplice. Se il Messia ci saluterà contento di rivederci per la seconda volta allora gli ebrei dovranno scusarsi con i cristiani. Ma se invece parlerà della sua visita come della prima tra noi, allora sarà l’intero mondo cristiano a doversi scusare con gli ebrei.
In buona sostanza, ritengo mia nonna avesse in tasca la soluzione per la questione dei Luoghi Santi di Gerusalemme. Lasciamo che ognuno preghi il suo Dio a modo suo. Facciamo in modo che non sventolino bandiere a segnare la proprietà dei Luoghi Santi. Alla fine, sarà il Messia a dirci di chi sono, dei cristiani, dei musulmani o degli ebrei.
(Raccolto e tradotto da Lorenzo Cremonesi )
Israele dice sì a nuove colonie, l’Anp si appella all’Onu
l’Unità, 06.06.2014
Il ministro per l’Edilizia israeliano Uri Ariel ha indetto ieri nuove gare d’appalto per circa 1500 abitazioni destinate ai coloni. Le gare d’appalto prevedono la costruzione di 900 unità abitative in Cisgiordania e circa 560 a Gerusalemme Est. Le gare d’appalto rappresentano in pratica l’approvazione finale del governo per il progetto. «È una risposta sionista appropriata al governo di terrore palestinese», sottolinea Ariel in riferimento al nuovo governo di coalizione guidato dal premier Rami Hamdallah in collaborazione con i radicali di Hamas. «Il diritto e il dovere dello stato di Israele di costruire sul suo territorio sono indiscutibili e credo che questi nuovi appalti siano solo l’inizio», ha poi ribadito. Detto e fatto.
RUSPE IN AZIONE
Il governo israeliano ha ordinato all’amministrazione di sbloccare un progetto per la costruzione di 1.800 alloggi extra nelle colonie, solo alcune ore dopo aver annunciato una gara di appalto per l’edificazione di 1.500 nuove case. Lo ha riferito un responsabile israeliano all’Afp. «L’amministrazione civile ha ricevuto l’ordine di far avanzare » un progetto di 1.800 alloggi extra in Cisgiordania, ha precisato il responsabile in condizione di anonimato. Secondo dei media israeliani, il progetto era stato congelato tre mesi fa dal governo.
Ma non tutti nell’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu sono d’accordo con la decisione assunta. L’annuncio da parte di Israele della costruzione di 1.500 nuove case in insediamenti nei territori occupati è «un errore politico che farà soltanto allontanare lo Stato ebraico dalla capacità di mettere il mondo contro Hamas», commenta la ministra della Giustizia israeliana, Tzipi Livni, la quale aveva ricoperto l’incarico di capo negoziatore dello Stato ebraico nell’ultima serie di colloqui di pace con i palestinesi, terminati ad aprile.
Intanto l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Dan Shapiro, ha ribadito in un’intervista alla radio dell’esercito che Washington è contraria al piano di costruzioni nei territori occupati. Una condanna è arrivata anche da Lior Amichai dell’ong israeliana Peace Now, secondo il quale l’annuncio «dimostra che il governo si sta muovendo verso una soluzione a uno Stato».
Immediata la reazione palestinese. l’Olp si è rivolta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in merito alla decisione di Israele di dare il via a nuove gare d’appalto per la costruzione di 1500 case per i coloni. «La commissione esecutiva dell’Olp sta guardando questa nuova escalation con grande preoccupazione», dichiara Hanan Ashrawi. «Abbiamo inteso contrastare questa decisione appellandoci sia al Consiglio di sicurezza sia all’Assemblea generale dell’Onu, come via migliore per frenare questa grave violazione », ha poi aggiunto.
Nel frattempo fonti riservate vicine al nuovo governo unitario e hanno riferito che «la dirigenza palestinese sta valutando seriamente l’ipotesi di adire le Corti internazionali contro le attività di costruzione negli insediamenti»: un’opzione resa possibile dall’ottenimento dello status di osservatore al Palazzo di Vetro da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese, in occasione della penultima sessione ordinaria dell’Assemblea, nel settembre 2012 a New York. «È tempo che Israele sia chiamata a rispondere davanti agli organismi internazionali e sulla base del diritto internazionale », rimarca Saeb Erekat, l’esperto capo negoziatore dell’Anp. «Chi teme le Corti internazionali», aggiunge Erekat, «deve porre fine ai propri crimini di guerra a danno del popolo palestinese, il primo e principale tra i quali sono proprio gli insediamenti».
Israele
Coloni, via libera a 3.300 nuove case, rabbia palestinese
la Repubblica, 06.06.2014
GERUSALEMME. Israele ha annunciato il via libera alla costruzione di altre 3.300 case per coloni. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dato l’ok a 1.800 nuove unità abitative la cui costruzione nei territori palestinesi occupati era stata congelata negli ultimi tre mesi, mentre qualche ora prima il ministero degli Insediamenti aveva pubblicato 1.500 nuove gare per la realizzazione di unità abitative in Cisgiordania e a Gerusalemme est, decisione definita dal ministro Uri Ariel una risposta al varo del nuovo governo di unità nazionale palestinese, frutto dell’accordo tra le fazioni di Fatah e Hamas.
Secca la replica palestinese: «Il nuovo governo ha chiesto a Washington di prendere «seri provvedimenti contro Israele», ha dichiarato Nimr Hammad, consigliere del presidente Abu Mazen. «Inoltre - ha poi aggiunto - condanniamo fortemente questa decisone che in pratica afferma che Netanyahu è solo un bugiardo, non interessato a una soluzione a due Stati».
Shoah, la svolta palestinese
Il leader Abu Mazen parla per la prima volta di «crimine odioso»
Nel giorno dell’Olocausto celebrato in Israele, il presidente dell’Anp ha definito la Shoah «il crimine più atroce che l’umanità abbia conosciuto nella storia moderna»
di Umberto De Giovannangeli(l’Unità, 28.04.2014)
Nel giorno dell’Olocausto celebrato in Israele, il presidente dell’Anp ha definito la Shoah «il crimine più atroce che l’umanità abbia conosciuto nella storia moderna». Una rara ammissione da parte di un leader arabo dell’immane sofferenza subita dagli ebrei. Parole che lasciano il segno. Un segno positivo. Sul piano politico ma anche, e non da meno, su quello storico. E morale.
Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha definito l’Olocausto il «crimine più atroce che l’umanità abbia conosciuto nella storia moderna». L’ha fatto durante una conversazione con il rabbino Marc Schneider, presidente della Fondazione per la Comprensione Etnica di New York, e le sue dichiarazioni sono state diffuse ieri dall’agenzia stampa palestinese Wafa. Abu Mazen ha aggiunto di provare compassione per le vittime e le loro famiglie. Poi ha ricordato come sei milioni di ebrei siano morti durante la Seconda Guerra Mondiale per il genocidio nazista.
Le dichiarazioni rappresentano una rara ammissione da parte di un leader arabo a proposito dell’immane sofferenza subita dagli ebrei. I palestinesi temono che accettare l’Olocausto possa sminuire la propria posizione di sofferenza. Inoltre il commento di Abbas è stato pubblicato poche ore prima la commemorazione annuale di Israele per le vittime dell’Olocausto.
«Il mondo - ha aggiunto il leader dell’Anp - deve fare il possibile per combattere razzismo e ingiustizia... Il popolo palestinese, che soffre di ingiustizie, oppressione, libertà e pace negate, è in prima linea per chiedere di contrastare l’ingiustizia e il razzismo contro altri popoli». E ancora: «Il giorno della commemorazione delle vittime dell’Olocausto, auspichiamo che il governo israeliano colga l’opportunità di concludere una pace giusta e globale nella regione, basata su una visione di due Stati in grado di convivere. Israele e Palestina, fianco a fianco, in pace e sicurezza».
IL GELO DI BIBI
Ma Benjamin Netanyahu non crede alle parole del presidente palestinese. O comunque, le ritiene contraddette dalle scelte operate in questi giorni. «Non si può affermare che (l’Olocausto) è stato terribile e al tempo stesso unirsi a coloro che desiderano la distruzione del popolo ebraico». Il riferimento è all’accordo tra Olp e Hamas, che entro sei mesi dovrebbe portare a una tornata elettorale nei Territori. «Hamas nega l’Olocausto - ha affermato il premier israeliano nel corso della riunione dell’esecutivo - e anzi ne cerca uno nuovo con la distruzione di Israele. Questa è la stessa Hamas con cui Abu Mazen ha deciso di firmare un’alleanza la scorsa settimana. La differenza principale tra l’Olocausto di ieri e oggi è l’esistenza di uno Stato sovrano forte e solido in grado di difenderci da coloro che vogliono le nostre vite».
Manel governo di Gerusalemme torna a farsi sentire il dissenso di Tzipi Livni. La ministra della Giustizia non lesina critiche verso Abu Mazen ma è più cauta, rispetto a Netanyahu e al titolare degli Esteri, Avigdor Liebermann, sulle conseguenze.«Abbiamo deciso di aspettare e vedere cosa accadrà nel campo palestinese quando sarà formato il nuovo governo», rimarca Livni, che guida la delegazione di negoziatori al tavolo della pace. In ogni caso, ha precisato, «io non condurrò negoziati, diretti o indiretti, con Hamas». Certo, ha rilanciato il ministro delle Finanze, Yair Lapid, «se Hamas accetterà le condizioni del Quartetto (ovvero il riconoscimento di Israele, ndr), allora non sarà più Hamase si porranno le basi per una discussione».
Da Gerusalemme a Bruxelles. L’Unione europea ha esortato ieri Israele e Anp a tornare al tavolo dei negoziati, evidenziando che non si devono «sprecare » gli sforzi di mediazione finora compiuti dagli Stati Uniti. «I negoziati sono il modo migliore per andare avanti - ha detto l’Alta responsabile per la politica estera dell’Ue, Catherine Ashton -. Gli ampi sforzi compiuti negli ultimi mesi non devono essere gettati ai rifiuti». L’Ue, ha aggiunto Ashton, «invita tutte le parti a esercitare la massima moderazione e ad evitare qualsiasi azione che possa ulteriormente minare gli sforzi di pace e la fattibilità di una soluzione tra i due Stati». «Mrs Pesc» ha rimarcato che «l’Unione europea si aspetta che si continui a sostenere il principio della non violenza, rimanendo impegnati a raggiungere una soluzione negoziata e pacifica, compreso il legittimo diritto di Israele ad esistere». «Il fatto che il presidente Abbas rimarrà pienamente responsabile del processo di negoziazione avendo mandato per negoziare a nome di tutti i palestinesi - conclude Ashton - significa inoltre la garanzia che i negoziati di pace possono e devono procedere».
Grossman: “Così finalmente hanno capito la nostra tragedia”
di Vanna Vannuccini (la Repubblica, 28.04.2014)
GERUSALEMME. DAVID Grossman, che effetto le hanno fatto le parole di Abu Mazen? «Credo che la sua dichiarazione sia un passo molto positivo di comprensione per quello che gli ebrei hanno subito nella Shoah. I palestinesi non sono stati in grado di esprimerlo in passato, anche perché si sentivano loro stessi vittime delle vittime. Ed è necessario aver presente che non è possibile paragonare ciò che Israele compie nei Territori occupati con l’orrore della Shoah. Sono due dimensioni di malvagità totalmente differenti ed il paragone fra loro è sbagliato. Spero che questo consenta anche agli israeliani di capire l’essenza della tragedia dei palestinesi, anche se probabilmente questo è ancora più difficile, poiché si aggiungono sensi di colpa inevitabili, dovuti a ciò che noi abbiamo fatto loro».
Si parla sempre di due narrative inconciliabili, è stato fatto ora il primo passo?
«Riconoscere le sofferenze del popolo ebraico durante la Shoah è un passo molto importante nella comprensione della narrativa ebraica e israeliana. La prima fase di ogni processo di pace secondo me è che le due parti riescano identificarsi vicendevolmente con la sofferenza dell’altra parte, con quella di cui loro stessi sono responsabili e con quella che altri hanno inflitto all’altra parte. Solo se smetteremo di difenderci, a volte selvaggiamente, contro la sofferenza del nostro avversario saremo in grado di capire la narrativa dell’altro. Questa può non essere sempre in accordo con i fatti storici, ma ha una forza enorme nel fissare l’identità di un popolo e va rispettata».
Perciò la dichiarazione di Abu Mazen è un buon segno?
«La cosa più deprimente per me è vedere il livello di sfiducia, di sospetto e di odio esistenti fra Israele ed i palestinesi. Sembra che ogni volta che le parti arrivano a un bivio, entrambe prendano la direzione più distruttiva e più aggressiva possibile. Anche quando usano espressioni apparentemente moderate, è percepibile l’odio che le pervade. Per questo è molto preoccupante che Israele abbia deciso di interrompere i colloqui di pace. E per questo è bene che il presidente dell’Anp, nel giorno della Memoria della Shoah, abbia riconosciuto la dolore degli ebrei».
Che cosa pensa dell’accordo di Fatah con Hamas?
«Anche se Hamas viene considerata un’organizzazione terroristica, e di fatto spesso agisce come tale, penso che sia stato fatto un passo molto importante: la riunificazione di due parti di un popolo che le circostanze hanno separato. Se siamo interessati ad avere un giorno una pace stabile, essa deve includere il milione e mezzo di palestinesi che vivono nella striscia di Gaza. Per anni in Israele molti si opponevano alle trattative con Abu Mazen con il pretesto che non rappresenta tutto il popolo palestinese. Può darsi che ora vi sia una opportunità: molto piccola forse, ma che non possiamo tralasciare».
Non teme che Hamas sia un pericolo?
«Ieri ho sentito Abu Mazen dichiarare che il nuovo governo unitario sotto la sua guida riconoscerà Israele, si opporrà alla violenza e si impegnerà a rispettare tutti gli accordi internazionali firmati in passato da Al Fatah. Se sarà effettivamente così, può darsi che si crei davvero una situazione nuova. La reazione del governo israeliano è ancora una volta di paura e di rifiuto. Io vedo nella riunificazione palestinese piuttosto la possibilità di dare una spinta al processo politico fra i due popoli. È una sfida per Hamas, che dovrebbe dichiarare esplicitamente che cambia direzione e che rinuncia alla parte del proprio statuto in cui è invocata la distruzione di Israele. Però non nascondo di essere scettico sulla possibilità che l’accordo regga, e che Hamas e Al Fatah riescano veramente a mettersi d’accordo: perché Hamas dovrebbe cessare di essere Hamas. E non è facile credere che ciò possa succedere».
Che ruolo dovrebbero avere gli Stati Uniti e l’Europa?
«Vedo con dispiacere che anche a Washington hanno cominciato ad arrendersi. Quando Obama dice che forse gli israeliani ed i palestinesi non sono ancora pronti alla pace, vuol dire che gli Stati Uniti stanno convincendosi che non gli conviene investire sforzi e prestigio nella risoluzione di un problema così complesso da non far intravedere vie d’uscita. Ma nella realtà il vuoto non esiste: senza un accordo fra Israele ed i palestinesi tra poco la terra qui comincerà a bruciare. Sarà difficile impedire ai palestinesi di intraprendere azioni anche violente. E in un clima di violenza e frustrazione la voce che prenderà il sopravvento sarà quella bellicosa ed estremista di Hamas».
Coi palestinesi ad Auschwitz:, ora è accusato di tradimento
di Maurizio Molinari (La Stampa, 23.04.2014)
Dajani nasce nel 1946 a Bakaa, Gerusalemme Ovest, nella famiglia dei Daoudi che si vanta di aver conservato per secoli le chiavi della Tomba di Davide, e dopo la nascita di Israele fuggono, iniziando un percorso che lo porta ad aderire all’Olp in Libano nel 1964, prima ancora della leadership di Yasser Arafat. Condivide la lotta armata, diventa il responsabile della propaganda dell’Olp in lingua inglese e Israele gli vieta, per 25 anni, di entrare nei Territori. Sono gli accordi di Oslo del 1993 a consentirgli di tornare e vede gli anziani genitori, gravemente malati, curati entrambi «da medici ebrei in ospedali israeliani». «Fu il momento in cui iniziai a vedere l’umanità del nemico», racconta, ammettendo che gli studi negli Usa «mi hanno aiutato ad avere una visione più ampia».
La formazione anglosassone lo porta a guidare il Centro di studi americani dell’ateneo di Al Quds, dove nel 2007 fonda Wasatia» (moderazione), il gruppo che si propone di «superare l’incomprensione fra i due popoli». «I palestinesi devono mostrare comprensione per la Shoà e gli israeliani devono farlo con la Naqba», spiega, precisando però che «lo sterminio degli ebrei non può essere paragonato alla tragedia dei palestinesi». Per Dajani «ciò che conta è la comprensione reciproca delle altrui sofferenze» senza «banalizzare la Shoà». Quando l’Università di Jena ha proposto un programma di dialogo sulla memoria, Dajani ha aderito per Al Quds in parallelo alle scelte di docenti israeliani di Beer Sheva e Tel Aviv.
E’ nato così «Cuori di carne, non di pietra», da una citazione di Ezechiele, che prevede la visita ad Auschwitz di 30 studenti palestinesi e una visita parallela di 30 coetanei israeliani in un campo profughi a Betlemme. «Ho ricevuto più di 70 richieste di studenti palestinesi e - ammette - le difficoltà sono arrivate subito». Alcuni ragazzi hanno dato forfait all’ultima ora e gli altri, una volta nel lager, hanno rifiutato un sopravvissuto come guida, preferendo un polacco. Poi, al ritorno, è stato il putiferio. «Mi hanno accusato di essere il re dei traditori, sono stato messo all’indice», dice con amarezza.
Anche Al Quds ha preso le distanze, parlando di «iniziativa di singoli» e alcuni studenti gli hanno imputato di «fare il gioco degli estremisti». Senza contare le minacce dei più estremisti. «Sfidare i tabù è sempre difficile ma non mi tiro indietro - afferma - se avessi saputo che sarebbe finita così, avrei fatto comunque il viaggio». Ecco perché: «Visitare Auschwitz spazza via i dubbi su veridicità storica e aberrazione morale di quanto avvenuto» e in questa maniera «possiamo parlare alla mente degli israeliani con maggiore possibilità di fargli comprendere le nostre sofferenze».
Dajani è convinto che il riconoscimento della Shoà sia un pilastro della convivenza e legge dunque come «un passo positivo» la scelta del presidente palestinese Abu Mazen di inviare ad Israele un messaggio per il giorno dell’Olocausto. Ciò non toglie che molto resta da fare: i libri del «Mein Kampf» sulle bancarelle di Ramallah celano un negazionismo frutto del rigetto di Israele. «Dobbiamo entrambi rinunciare ai grandi sogni e accontentarci di piccole speranze» conclude Dajani, spiegando che «il desiderio di veder sparire l’altro non si avvererà mentre l’empatia per la sofferenza altrui ci può portare lontano».
Israele Palestina
Il falso rituale chiamato trattative
di Moni Ovadia (l’Unità, 12.04.2014)
APPENA MI SVEGLIO, GRAZIE AI PRODIGI DELLA TECNOLOGIA, COMPIO IL RITO di scaricare sul tablet i quotidiani. È un eccellente sistema per farsi del male. Il primo giornale che scarico è l’israeliano ha’aretz, nell’edizione internazionale. Autorevole foglio progressista dello Stato ebraico, ha’aretz è scritto in un eccellente inglese e si avvale della collaborazione di giornalisti, editorialisti ed opinionisti di prim’ordine. I miei preferiti sono Gidon Levy e Amira Hass. Apprezzo e condivido il loro approccio critico alla questione israelo-palestinese e a quella mediorientale in genere. Ma ha’aretz gode anche dell’apporto di altre firme di grande livello.
Due giorni fa accingendomi alla lettura della sezione opinioni, sono stato colpito da un titolo: «Per favore signor Kerry, ci lasci perdere».
L’articolo a firma di Avirama Golan, iniziava così: «Per favore, signor Kerry ci lasci soli, lasci che i nostri veri colori splendano. Se riusciamo a vederli in tempo forse c’è ancora la possibilità di cambiarli. Per favore la smetta di fare la spola fra noi e i palestinesi. Basta! Si prenda una vacanza, si riposi. Avremmo dovuto essere lasciati per conto nostro sin dal principio - senza l’America, l’Ue e tutti i benintenzionati del mondo -, fra il mare a cui diamo le spalle e le montagne che idolatriamo, con tutti i vicini intorno a noi, inclusi quelli della porta accanto che abbiamo imprigionato all’interno di muri, su una terra solcata dalle cicatrici delle tangenziali che solo a noi è permesso usare, il cui paesaggio è asfissiato da case dai tetti rossi in cui noi soli possiamo abitare, le cui strade sono bloccate da check point sorvegliati dai “nostri” ragazzi di modo che i “loro” ragazzi non possano passare. Forse se veniamo abbandonati da soli con il falso rituale chiamato negoziati e che è diventato fine a se stesso, lo faremo finire (...). Lo stato degli ebrei che si proponeva di offrire rifugio a profughi perseguitati e di essere un’entità sovrana e libera per tutti i suoi cittadini, è diventato uno stato ebraico isolazionista, che esclude e gestisce le vite della sua cittadinanza secondo una visione del mondo, razzista, conservatrice, ortodosso- religiosa colorata di crudo nazionalismo».
Così la vede Avirama Golan, giornalista israeliana, così da «lontano» appare anche a me. E per contorno a tutto questo l’attuale governo israeliano si segnala per l’apoteosi della prepotenza che esercita nei confronti dei «vicini della porta accanto».
Ad ogni atto che l’Autorità palestinese compie per accedere alle grandi istituzioni internazionali per la tutela dei diritti, Netanyahu reagisce con rappresaglie che sarebbero infantili se non fossero tragicamente brutali.
Sepolto Sharon con raid su Gaza resta il massacro di Sabra e Shatila
Due razzi dai territori palestinesi. Risposta dell’esercito nel giorno dell’addio
di Roberta Zunini (il Fatto, 14.01.2014)
La terra polverosa del deserto del Negev copre da ieri le spoglie di Ariel Sharon, ma non la sua macchia. Quella resterà indelebile, perché non risiedeva nel corpo ma nell’anima del contadino-generale-statista. E pertanto continuerà ad aleggiare come un cupo spettro sulla coscienza collettiva e a provocare incubi nelle notti spezzate dei sopravvissuti al massacro di Sabra e Shatila. Oltre a turbare quegli ebrei israeliani che, subito dopo la strage, nel settembre del 1982, scesero in piazza per chiedere le dimissioni del generale, allora ministro della Difesa.
Se l’inevitabile ritiro da Gaza e otto anni di coma hanno cancellato la memoria a tanti, compresi i leader mondiali, non solo israeliani, questo non è accaduto al parlamento europeo dove ad Ariel è stato negato il minuto di silenzio.
IL PRESIDENTE Martin Schulz ha respinto la richiesta presentata - in apertura della sessione plenaria - dall’olandese Laurence Stassen, esponente del partito xenofobo, razzista e anti-islam Pvv, appoggiando invece l’obiezione del deputato ceco Richard Falbr. Il socialdemocratico ha contestato la richiesta della Stassen chiedendo: “Vogliamo davvero tenere un minuto di silenzio per Sharon, responsabile della morte di decine di migliaia di palestinesi? ”.
Per quanto riguarda la strage nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila, a Beirut, la sua responsabilità non fu diretta ma indiretta. Che, in quel caso, però fu quasi peggio. Perché Sharon aveva il compito di tenere sotto controllo il campo, custodirlo, invece ha dato l’ordine ai suoi soldati, appostati su una collinetta confinante, di accendere tutte le luci affinché Sabra e Shatila (in realtà erano lo stesso campo, sebbene molto vasto), solitamente buie, fossero illuminate al meglio per consentire ai falangisti cristiani di entrare e uscire facilmente e trucidare quante più persone possibile. Molti avevano cercato rifugio negli anfratti più nascosti ma furono scovati grazie alla potente illuminazione.
Le immagini insopportabili di donne incinte sventrate, bambini sgozzati e vecchi fatti a pezzi, diffuse dalla stampa, generarono anche in Israele un’ondata di critiche e manifestazioni per quel generale-ministro dai modi gentili ma dall’animo spietato, che non aveva fatto nulla per fermare il massacro, anzi l’aveva appoggiato. Tanto che nel 1983 fu costituita una commissione d’inchiesta (Kahan Commission) i cui atti sono disponibili sul sito del ministero degli Esteri israeliano.
NEL CAPITOLO che riguarda le responsabilità israeliane si legge che “nonostante il Mossad non avesse avvisato delle intenzioni dei falangisti... a nostro avviso, anche in assenza di tale avviso, è impossibile giustificare il ministro della Difesa (Sharon, ndr) per il disprezzo del pericolo di un massacro. Non ripeteremo qui ciò che abbiamo già detto circa la conoscenza diffusa ‘dell’etica di combattimento dei falangisti’, il loro odio nei confronti dei palestinesi (...) Oltre a saperlo, il ministro della Difesa ha avuto anche relazioni speciali e non trascurabili con i responsabili falangisti ancora prima dell’assassinio di Bashir (Gemayel, il presidente falangista assassinato, ndr). Dare ai falangisti - si legge ancora - la possibilità di entrare nei campi profughi senza prendere misure per la supervisione delle loro azioni avrebbe creato un grave pericolo per la popolazione civile nei campi (...) Nelle circostanze che hanno prevalso dopo l’assassinio di Bashir, si era tenuti a sapere che esisteva il pericolo concreto di atti di macellazione quando i falangisti sono stati lasciati liberi di entrare nei campi (...) il senso di un tale pericolo avrebbe dovuto essere ben presente nella coscienza di chi conosceva la situazione e certamente nella coscienza del ministro della Difesa, che ha preso parte attiva in tutto ciò che riguarda la guerra... ”.
L’anno scorso Il Fatto si recò a Sabra e Shatila per la commemorazione del trentesimo anniversario. C’erano uomini che piangevano ricordando i padri sgozzati davanti a loro bambini, aggrappati a madri impazzite dal dolore. Il numero dei morti è stato calcolato intorno ai 3500, quasi tutti civili. Molti corpi furono fatti sparire per far sembrare meno enorme il massacro.
Restituitemi casa mia
«Noi palestinesi, un popolo di espropriati»
Suad Amiry racconta il nuovo romanzo «Golda ha dormito qui» e dice: siamo invisibili come gli indiani d’America
La domanda è che cosa possiamo fare ora, nel presente, per farci «vedere» per essere un popolo che ha una Terra
intervista di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 06.11.2013)
ROMA. LA CASA COME METAFORA STRUGGENTE DI UNA IDENTITÀ NEGATA. ORGOGLIO, DOLORE, SPERANZA. SONO I SENTIMENTI CHE PERMEANO «GOLDA HA DORMITO QUI» (FELTRINELLI), l’ultima produzione letteraria di Suad Amiry, la più conosciuta tra le scrittrici palestinesi contemporanee. In Italia per presentare il suo libro, l’Unità l’ha intervistata.
Cosa significa vivere e pensarsi come un «popolo di espropriati»? «È esattamente il tema principale di questo nuovo libro. Perché poche persone sono consapevoli del fatto che i palestinesi che vivono in Palestina sono considerati “assenti” dagli israeliani. Quando si parla di palestinesi rifugiati, generalmente si pensa o si fa riferimento a persone sparse per il mondo, mentre in realtà sono tutti a Gaza o in Cisgiordania, nei territori occupati, parliamo di milioni di persone che pure se fisicamente presenti in Palestina, sono considerati da Israele “assenti”.
Sappiamo che questo fatto dell’essere “invisibili” agli occhi degli occupanti, è un meccanismo tipico della colonizzazione che non è caratteristico solamente del caso d’Israele nei confronti della Palestina, ma è tipico di tutti gli Stati colonizzatori. È il caso, ad esempio, del territorio americano, in cui gli americani dichiaravano di non aver visto, di non aver preso consapevolezza della presenza degli “indiani” d’America; è lo stesso è avvenuto in Algeria, nei Paesi arabi sotto la Francia.
Tutto questo non è un fatto casuale, bensì scientificamente pianificato. Tornando a noi, è dal primo giorno, dalla prima dichiarazione che Israele ha sancito che il popolo palestinese non esisteva, benché ci fossero sui Territori in quel momento più di un milione di persone. E questo è un processo che continua, che non riguarda solo il 1948, ma che continua ancora oggi sempre con questa logica dell’alibi della non espropriazione a fronte di un popolo che, secondo loro, non esiste. Emblematico di questo modo di viversi, è quanto ebbe a dire Golda Meir (la Golda del titolo, ndr), riguardo la Palestina e il popolo ebraico: “Un popolo senza terra, per una terra senza popolo”».
Nel libro la casa è un po’ come un ancoraggio materiale e, al tempo stesso, spirituale, alla propria identità personale, familiare, nazionale. Nel libro, c’è un passaggio in cui Huda, una delle protagoniste del romanzo, «non poté fare a meno di ripensare al funzionario israeliano che l’aveva interrogata solo qualche settimana prima». Il funzionario le si rivolge così: «Smettila di vivere nel passato. È il vostro problema. Voi arabi continuate a vivere nel passato». E ancora: «Svegliati, siamo nel 2011, non nel 1948. Khalas Huda, khalas, è tutto finito».
È così? Si può immaginare un futuro rimanendo prigionieri del passato?
«Questo paragrafo è molto indicativo di questo fatto curioso, cioè che i palestinesi non hanno, secondo Israele, il permesso di ricordare quello che è successo 65 anni fa. Ma d’altro canto, Israele si riallaccia a quello che è successo in questa terra, la Palestina, duemila anni fa. È proprio una questione di “doppio standard”: noi dovremmo dimenticare, mentre loro tendono a giustificare la loro presenza lì proprio dalla storia e dalla memoria. Io ho scritto questo libro non solo per parlare di questa ferita non cicatrizzata, ma anche per dichiarare che per fare pace, perché ci possa essere pace fra Israele e Palestina, è necessario che Israele prenda atto della nostra identità, e di questa nostra memoria, che è una memoria recente. La casa di cui parlo nel libro, è la casa di mio padre, non è la casa di otto generazioni fa, quindi è parte integrante della mia identità. Non è pensabile una pace che possa prescindere dal riconoscimento di questa nostra identità, dal riconoscimento, reciproco, dell’altro da sé. La soluzione dei “due Stati”, è una soluzione che prevede l’accettazione di moltissimo dolore, e per lenirlo almeno in parte, è necessario comunque questa forma di riconoscimento della nostra identità. Possiamo accettare tutto il doloro che fa parte di questa soluzione, ma non possiamo prescindere dal riconoscimento di questa nostra identità. È sempre necessario mettersi nei panni dell’altro. Quando si parla di un “popolo espropriato” delle proprie case, della propria terra, si parla sempre del ‘48, ma questi sono fatti che continuano ancora oggi, quotidianamente, negli insediamenti, a Gerusalemme, in tutti i Territori. La mia domanda, che è una domanda molto concreta, non un mero esercizio intellettuale, è: che cosa possiamo fare ora, nel presente, per fermare questa espropriazione che continua tutti i giorni».
Una risposta la dà Hudna. Nel difendere la casa da cui era stata scacciata la sua famiglia, Hudna preferisce testardamente la cella alla condanna di non poter rientrare nella casa dei genitori. È una sfida o un segno di sconfitta?
«Ne romanzo mi focalizzo su quattro personaggi, tra cui ci sono io stessa e la mia famosa suocera, Umm Salim (protagonista del libro Sharon e mia suocera, Feltrinelli, 2003, ndr). Ognuno di noi fa i conti con la perdita in modo diverso. Per quanto mi riguarda, io non vado a vedere la casa della mia famiglia, perché per me è una emozione troppo forte che preferisco non affrontare. L’altro personaggio, Andoni, che è un architetto, un intellettuale, decide di adottare le vie legali, e prova attraverso un tribunale israeliano di riprendere possesso della sua casa. Huda è una persona di “pancia”, e quindi gestisce e reagisce a questa perdita in maniera molto viscerale, istintiva. I mezzi diversi che i vari personaggi e persone scelgono di usare, sono un modo per fare i conti con questa perdita. Mia sorella che è una psicanalista, dice, per l’appunto, che se hai paura di qualche cosa, bisogna affrontarla, guardarla in faccia. Huda ha sposato questo tipo di atteggiamento. E lo ha fatto anche perché ha visto suo padre che piangeva ripensando a quella casa da cui era stato scacciato, il ricordo del cane che abbaiava. Huda è stata così segnata dall’esperienza traumatica del padre, che dice se io non posso tornare in questa casa, nessuno potrà abitarla in pace».
«Noi israeliani e palestinesi uniti dal rock, insieme in tour» I due gruppi metal: sfidiamo la guerra con la nostra musica
di Irene Soave (Corriere della Sera, 31.08.2013)
Hanno molto in comune: capelli lunghi, barbe folte, magliette nere. E fanno la stessa musica: metal con venature folk. Ma gli Orphaned Land, considerati fondatori dell’oriental metal con all’attivo 22 anni insieme e 7 dischi in ebraico e inglese, fanno base a Gerusalemme; i Khalas, più giovani, sono arabi e vivono ad Acri, a nord di Haifa. Le due band, israeliana e palestinese, sono in partenza per il loro primo tour insieme: 18 concerti in tutta Europa, che gireranno a bordo dello stesso pulmino, arrivando in Italia per due date a ottobre, rispettivamente il 22 a Roma e il 23 a Romagnano Sesia (Novara).
«Il messaggio è semplice: siamo sul palco insieme. Suoniamo insieme. Andiamo a tempo, si spera», ride Kobi Farhi, leader degli Orphaned Land. «Il messaggio è: si può fare. Solo chi ci comanda non lo vuole. La guerra conviene a tutti i nostri politici, che basano il loro potere su sfumature, opinioni, equilibri che in pace non esisterebbero. Servirebbe un leader disinteressato come Gandhi o Mandela».
In Israele gli Orphaned Land sono il gruppo metal più famoso, e hanno un discreto seguito - censura permettendo - anche nei Paesi arabi: «In quasi tutti, con il nostro passaporto israeliano, non possiamo esibirci - continua Farhi - e i nostri dischi non sono distribuiti. Ma nel nostro primo live in Turchia, pochi mesi fa, dal pubblico spuntavano bandiere iraniane, tunisine, egiziane, siriane. E naturalmente palestinesi».
Viceversa i Khalas suonano spesso a Gerusalemme o a Tel Aviv, e i loro pezzi passano alla radio israeliana. Proprio lì, nel 2005, i due gruppi si sono incontrati. «Dietro le quinte, ospiti dello stesso programma. Da lì ci siamo piaciuti, non so come dire - racconta il chitarrista e fondatore dei Khalas, Abed Hathut -. Siamo diventati amici: i nostri figli giocano insieme, parliamo di tutto e litighiamo solo per chi paga al ristorante. Ecco quanto è facile».
La «coesistenza pacifica» di musicisti israeliani e palestinesi su un palco ha un precedente autorevole: la West Eastern Divan Orchestra di Daniel Barenboim, che dal 1998 riunisce in una formazione sinfonica giovani musicisti dei due Paesi. Ma il metal è tradizionalmente un genere più aggressivo (quando non addirittura esplicitamente razzista, come alcuni gruppi di black metal).
«Che vuol dire? Ci sono metallari vegetariani e band come i Black Sabbath che staccano la testa ai pipistrelli in scena», protesta Farhi. «Il nostro modello sono i Rage against the machine, antisistema come noi. Che cantiamo solo di politica, mai fatto una canzone d’amore; ma non prendiamo le parti, non sosteniamo una linea, come fece Roger Waters che suonava in Israele al grido di “Abbattete il muro”. Io non ho mai votato nella mia vita. Credo però nella pace».
Meno duri e puri sono invece i Khalas (il cui nome, comunque, significa «basta»): il loro ultimo album, in arabo, è una collezione di musiche da matrimonio, anche se «da 15 anni suoniamo insieme, e siamo sempre stati piuttosto impegnati», spiega Hathut. «Però non è che si può cantare solo dell’occupazione, come certo pubblico pretende da noi. Ci danno dei filoisraeliani tutti i santi giorni, solo perché dopo quindici anni di musica da trincea abbiamo fatto un album sentimentale. E dall’annuncio di questo tour la nostra pagina Facebook è stata assaltata. Per questo ci terrei a dire che questo tour non è un progetto politico. Al contrario, è un progetto sovrapolitico: la musica è al di sopra, si eleva. E ci eleva, facendoci scordare gli estremismi».
Tu sei chi escludi
intervista a don Andrea Gallo
a cura di Fulvio Renzi (il manifesto, 28 maggio 2013)
«Restiamo Umani»: per me è diventato proprio un motto, vuol dire riconoscere la nazionalità unica di tutti gli esseri umani: noi abbiamo tutti nazionalità umana. Questo è fondamentale. Ormai per me è una specie di deformazione professionale, è la mia prima giaculatoria, come prete cattolico (sai che i preti usano molto le giaculatorie....) Ovunque io vada, e ormai giro l’Italia, e non solo, mi invitano e io incomincio e dico: «Vi dò intanto la mia giaculatoria: Restiamo Umani!».
E ne faccio seguire un’altra, imparata per strada, sostituendo quel vecchio proverbio molto noto, «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei», con quello che mi è stato suggerito per strada: «Dimmi chi escludi e ti dirò chi sei». Ecco quindi il mio motto, è fondamentale. Se ciascuno di noi riconosce la sua appartenenza a questa umanità, senza nessuna distinzione di razza, di religione, di sesso, superando tutte le discriminazioni, allora diventiamo veramente «uomini» e camminiamo insieme verso l’obiettivo comune di una civiltà che, grazie all’impegno personale, rendiamo a misura d’uomo.
Intanto vorrei fare una piccola premessa: quando io parlo di Vittorio Arrigoni, rivedo la mia storia, perché io a 16 anni, al termine della tragica seconda guerra mondiale, grazie a mio fratello maggiore, tenente del Genio Pontieri, disertore che aveva formato una brigata partigiana, io divento partigiano, cioè entro nella Resistenza. Ti dirò che allora la nostra era una resistenza armata, e approvata addirittura dalle gerarchie cattoliche; ma dopo gli anni ’50 ho incontrato i partigiani della Selva Lacandona, i Sem Terra, le cooperative indiane, in Africa il Burkina Faso, il Frelimo... Tutti han fatto la loro resistenza e io mi inchino... Pensa alla rivoluzione cubana! Ma la svolta epocale - e questo è Vittorio - è la scelta della non violenza. Altrimenti si andrebbe in contraddizione anche con il grande grido «Restiamo Umani».
La scelta della non violenza è la svolta fondamentale dell’umanità, ma una non violenza che vuol dire pacifismo attivo; ripercorrendo le antiche radici dell’uomo, via via nei secoli, ecco che arriva Gesù di Nazareth, arrivano altri profeti, arriva Gandhi... E arriva anche la scelta dell’autentica non violenza.
Il potere ormai è onnipresente, il potere è di per sé crudele, i poteri sono diventati così (crudeli) per difendere il loro modello di sviluppo imperialistico - basato sull’assenza e sulla brama del lucro, quindi le uccisioni, gli esuberi... È chiaro che ormai il potere schiaccia tutti e poi oggi il monopolio dei mass media ha causato una perdita di coscienza, ed ecco che si accentuano le divisioni. E allora qual è l’unico valore,la sola speranza di questo nuovo terzo millennio? È la non violenza. L’umanità stessa. Però dev’essere contagiosa, cioè si deve allargare.
La democrazia è l’unico limite per un sistema economico ancora così - come dire? - da genocidio, che ricorre a tutti i mezzi, comprese le armi, per far prevalere l’imperialismo occidentale (ma il discorso vale anche per altre forme di imperialismo che si potrebbero creare); l’imperialismo si sconfigge con la democrazia partecipata, la partecipazione democratica - e pertanto anche libera, indipendente e pacifica. È un cammino duro, difficile, è un cammino faticoso, ma è questa secondo me la strada.
Qui devo citare il mio Papa Giovanni XXIII, che lascia l’ultima sua lettera del ’63, e dice: «Chi sostiene di portare la democrazia con le armi è pazzo!». Il testo latino dell’enciclica papale dice alienum est a ratione: è pazzo! Quindi la non violenza è proprio guarire da tutte le nostre malattie mentali. È chiaro che per diventare come Vittorio, e come tantissimi altri in tutto il mondo, è necessario, alla greca, una metànoia, cioè bisogna non solo migliorare, approfondire, avere sempre altre motivazioni, no: bisogna tagliare la nostra testa e metterne una nuova... Il termine greco intende proprio questo.
Devo ricordare il mio incontro con i Sem Terra del Brasile. Essi, per sopravvivere, decidono di coltivare gli immensi campi abbandonati dai padroni terrieri, e lo fanno, restando fedeli alla non violenza. Il succo di questo incontro qual è stato? «Vedi Don Gallo, noi in questi anni abbiamo avuto già 3000 morti tra i nostri ragazzi, uccisi dagli squadroni paramilitari» e, qui in questa stanzetta, ho visto brillare gli occhi di questi Sem Terra, orgogliosamente... Sì, era vero. «...almeno 3000 ce ne hanno uccisi, però noi abbiamo già 3000 iscritti alle università brasiliane, il futuro del Brasile!»
Vedi, questa fiducia immensa, come dire, quasi una certezza che la non violenza è l’unica strada per vincere... Cioè praticamente dice: «Il male grida forte e tutti si accorgono della realtà, ma la speranza in un mondo migliore è ancora più forte e proprio attraverso l’umano, donando la propria vita. Perché si rischia...»
Donare la vita: io la chiamerei proprio - se così si può dire - una religione universale, che racchiude tutte le altre, nel senso che a un certo momento uno si alza la mattina, è uscito fuori dalla società dello spettacolo, dove tutto è dovuto e allora nascono nuovi consumismi e garantismi. No! Il pacifista umano si alza la mattina e dice: «Cosa posso fare per gli altri?». A cominciare dalla propria famiglia fino ad allargare lo sguardo al mondo intero.
Hanan Ashrawi: «Il tempismo di Israele è significativo: è un affronto diretto a ogni tentativo di negoziazione»
Piano d’Israele per legalizzare 4 insediamenti nei Territori *
GERUSALEMME - Israele vuole rendere legali quattro nuovi insediamenti in Cisgiordania. A riferirlo è il quotidiano israeliano Haaretz, che cita un documento presentato martedì dalle autorità all’Alta corte di Giustizia.
I quattro avamposti, per i quali era prevista la demolizione, sono quelli di Maale Rehavam, Haroeh, Givat Assaf, e Mitzpe Lachish. La notizia arriva a pochi giorni dalla missione del segretario di Stato Usa, John Kerry, che intende far ripartire il negoziato di pace israelo-palestinese. «Il tempismo di Israele è significativo: è un affronto diretto a ogni tentativo di negoziazione», afferma Hanan Ashrawi, esponente dell’Olp.
L’associazione pacifista israeliana «Peace Now» interpreta la scelta di Tel Aviv come «uno schiaffo in faccia al nuovo processo di pace» e «una vistosa rassicurazione degli interessi dei coloni». Il piano «legalizzerebbe» in modo retroattivo la fondazione di quattro dei sei insediamenti non autorizzati in Cisgiordania.
* Il Corriere della Sera, 17.5.13
Appello di Abu Mazen all’Italia
“Ci avete aiutato all’Onu ora fate pressioni su Israele”
Il presidente palestinese: la pace dipende da Netanyahu
di Vincenzo Nigro (la Repubblica, 01.05.2013)
NAPOLI - Il presidente palestinese Abu Mazen si è goduto a lungo la cittadinanza onoraria che Napoli gli ha concesso sabato mattina. Da venerdì sera a lunedì pomeriggio se ne è rimasto in città mentre l’Italia cambiava governo. «Già mi sento napoletano! E sono molto contento che l’Italia abbia il suo nuovo governo, sono sicuro che saprà seguire i destini del popolo palestinese con la saggezza e la comprensione che l’Italia ha sempre mantenuto, confermata dal voto all’Onu favorevole alla Palestina».
Il rais palestinese siede in una suite dell’hotel Vesuvio, aziona un telecomando, e dalla sala attigua entra un assistente: lui alza la mano destra con le dita a “V”, e quello gli infila una sigaretta fra l’indice e il medio, e gliela accende.
Presidente, qualcuno dei suoi funzionari teme che nel nuovo governo italiano ci siano amici troppo stretti di Israele, come il ministro degli Esteri Emma Bonino?
«Siamo felici di avere nel governo italiano un partner saggio ed equilibrato, e se in questo governo ci sono amici di Israele siamo ancora più felici. Sapranno parlare con Israele, convincerli di una cosa che tutti dicono essere vera: questa situazione di né pace-né guerra non è più sostenibile, l’Italia e l’Europa l’hanno capito, gli Stati Uniti stanno lavorando per far ripartire il negoziato. Poche settimane e vedremo».
Cosa pensa del nuovo governo di Israele?
«Ci sono ministri, alcuni vice-ministri, di orientamento profondamente radicale. Ma nonostante tutto sarà il primo ministro a decidere. Dipende dalla sua volontà: se Netanyahu vuole, i negoziati partono; e se i negoziati partono noi e gli israeliani, faremo un accordo».
Quali sono i risultati politici della vostra ammissione alle Nazioni Unite?
«Adesso la Palestina è uno Stato, anche se lo status è quello di “membro osservatore”. Ciò significa che in questo momento i nostri sono i territori di uno stato membro dell’Onu sottoposti ad occupazione. Se noi perderemo ogni altra possibilità, ogni altra speranza, potremo ricorrere alle Nazioni Unite per veder riconosciuti i nostri diritti».
Gli Usa vi hanno presentato un loro piano?
«Per ora non ci hanno presentato nulla. Quando il presidente Obama ci ha fatto visita abbiamo discusso degli aspetti politici, della sicurezza, dell’economia. Per cui la fotografia della situazione è molto chiara agli Usa: loro stanno lavorando, fra un certo periodo di tempo torneranno da noi e ci diranno se hanno avuto successo o meno, se si potrà andare avanti».
Molti vedono l’Europa come un buon partner, pronto ad aiutare i palestinesi, a finanziare progetti di ogni tipo, ma incapace di fare politica, di contribuire a disegnare un futuro per la regione.
«Non è vero: l’Europa, o almeno alcuni paesi della Ue, stanno lavorando molto seriamente per costruire qualcosa di concreto, per aiutare gli americani a capire meglio quali sono gli spazi di manovra, e non sprecare anche questa occasione. L’Europa ci conosce meglio degli americani, siamo vicini. Sapete meglio degli altri quali potranno essere le difficoltà a cui andremo incontro se continuerà questo stato di “né pace né guerra”, che è una condizione destinata a saltare. Avete visto cosa sta succedendo con le primavere arabe?»
Cosa succede? C’è un processo che oggi crea enormi problemi, ma potrebbe portare a maggiori forme di inclusione dei popoli nel governo dei loro Paesi.
«Queste “primavere arabe” sono state un grosso problema per i paesi in cui sono esplose: come vedete il caos sta crescendo ovunque. Dopo una rivoluzione è normale che ci sia un periodo di confusione, ma qui le cose si stanno mettendo male. I contrasti in molti paesi si stanno approfondendo, stanno per diventare irrisolvibili, le contraddizioni si preparano a diventare ancora più violente. Prendiamo l’esempio dell’Iraq, delle sue divisioni. Guardiamo alla Siria, alla guerra che colpisce il suo popolo. Queste rivoluzioni possono portare la democrazia senza distruggere quei Paesi?».
Fra i leader cancellati dalle primavere arabe c’è il rais egiziano Hosni Mubarak, un presidente per il quale lei non ha cessato di manifestare rispetto e gratitudine.
«Mubarak ci ha aiutato, molto. Sta all’Egitto decidere. Ma io non posso cancellare la storia, ha lavorato con noi, ci aiutato. Col nuovo governo abbiamo relazioni normali; lo sappiamo, sono Fratelli Musulmani, hanno un’ideologia diversa dalla nostra. Per noi non è un problema, e tra l’altro sono i mediatori della riconciliazione fra noi dell’Anp e Hamas, e continuano a lavorare su questo».
Alla fine farete un governo con Hamas?
«Il nostro governo ha rassegnato le dimissioni; abbiamo fissato un periodo di 5 settimane per formare un governo di transizione che dopo 3 mesi ci porterà alle elezioni, a Gaza e in Cisgiordania. Credo che Hamas sia ancora indecisa, spero che vogliano coinvolgersi nel processo elettorale: per il momento però non ci hanno dato risposte concrete».
Ma se non parte il negoziato con Israele cosa farete? Avete dato un tempo preciso agli americani per il loro tentativo, ma poi cosa accadrà?
«Gli americani ci hanno chiesto due mesi e mezzo. Se tutto rimarrà bloccato sappiamo già cosa proporre al nostro popolo. Non torneremo alla lotta armata, alla violenza, ma sappiamo bene cosa fare. Abbiamo delle idee, ma per il momento le teniamo per noi».
Obama ai palestinesi: «Meritate uno Stato» Il presidente a Ramallah, tra rabbia e speranza Abu Mazen: «Stop alle colonie o niente negoziati»
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 22.03.2013)
Al presidente del «Nuovo Inizio» chiedevano parole chiare sugli insediamenti e sulla possibilità di coltivare ancora, e con ragione, la speranza di uno Stato. Barack Obama e la Palestina. Barack Obama in Palestina. Il viaggio a Ramallah è una strada in salita per il presidente Usa. Il sentimento che accomuna la gente palestinese è un misto di rabbia e delusione. A raccontarlo sono le trecento persone che inscenano, agitando le scarpe, una manifestazione di protesta davanti alla Muqata, il quartier generale dell’Autorità nazionale palestinese in cui si svolge l’incontro tra il capo della Casa Bianca e il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
«I palestinesi hanno diritto ad un loro Stato sovrano», ribadisce Obama durante la conferenza stampa a Ramallah, tenuta congiuntamente con Abu Mazen. «Non dobbiamo smettere di cercare una soluzione pacifica» ha continuato il presidente Usa, aggiungendo che gli Stati Uniti sono decisamente favorevoli alla soluzione dei «due stati».
La Palestina deve avere uno Stato «indipendente e in grado di sostenersi» nell’interesse sia dei palestinesi sia degli israeliani. Anche se risolvere la situazione degli insediamenti non porterà direttamente ad un accordo di pace con i palestinesi, continua Obama, «questo non vuol dire che la questione degli insediamenti non sia importante», ma, puntualizza Obama, significa che «non esistono scorciatoie» e che il modo migliore per portare la pace è quello di riaprire i «negoziati diretti» fra le parti. Per questo gli Stati Uniti hanno detto al premier Benjamin Netanyahu che la modalità con cui si porta avanti il progetto per nuovi insediamenti israeliani nella zona «E-1» non è appropriata per giungere ai negoziati di pace, rimarca Obama.
I CONFINI DEL ‘67
Una ripresa dei negoziati non è possibile senza un congelamento degli insediamenti israeliani nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza», avrebbe detto Abu Mazen a Obama nel corso delle due ore e mezza di incontro a Ramallah, secondo quanto riferito dal consigliere politico del leader palestinese Nemer Hammad. Concetto che, sia pur in modo più sfumato, è stato rimarcato dallo stesso Abu Mazen. I palestinesi vogliono che sia rispettato il loro diritto «all’indipendenza, alla libertà e alla pace», ribadisce il presidente palestinese in conferenza stampa a fianco di Obama. Abu Mazen rivendica il diritto per il popolo palestinese a vivere in una terra «secondo i confini del 1967 e con Gerusalemme est come capitale».
Dopo aver ringraziato il presidente Usa per aver espresso la richiesta di riaprire i negoziati, il leader dell’Anp ha detto che per arrivare alla pace ci vuole «coraggio» e non «violenza, arresti, occupazioni e insediamenti» e «l’assedio» da parte dello Stato di Israele. I palestinesi, sottolinea Abu Mazen, sono «pronti a rispettare le promesse fatte e i loro obblighi» per la soluzione dei «due Stati», ricordando da parte sua che «la chiave per la pace» risiede nel trovare unità di intenti «tra Hamas e Fatah».
«Chiediamo al governo israeliano di fermare gli insediamenti, per discutere tutte le nostre questioni e le loro preoccupazioni», incalza Abu Mazen al fianco di Obama. Questi ha sottolineato di aver fatto presente al premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che la strategia di continuare a sviluppare gli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi non è «costruttiva, appropriata, e non fa compiere passi avanti alla causa della pace». Abu Mazen, da parte sua, si è detto «convinto» che il presidente Usa e il segretario di Stato, John Kerry, sapranno «eliminare tutti gli ostacoli nel cammino verso la pace».
Il presidente americano ha condannato il lancio di razzi Qassam da parte dei miliziani palestinesi contro il sud di Israele condanna reiterata dallo stesso Abu Mazen, proseguito anche nelle ore precedenti al suo arrivo a Ramallah. All’alba le sirene d’allarme erano risuonate a Sderot, la città di confine dove Obama era stato nel 2008, quando era solo un candidato alla presidenza Usa, seguite dall’arrivo di quattro razzi (uno caduto nel cortile di un’abitazione). Non ci sono stati né danni, né feriti.
«Israeliani, guardate con occhi palestinesi»
Obama sprona i giovani delle università. E ad Abu Mazen: «Sì ai due Stati»
di Massimo Gaggi (Corriere della Sera, 22.03.2013)
GERUSALEMME - «Mettetevi nei loro panni, guardate il mondo coi loro occhi. Oggi a Ramallah ho incontrato ragazzi palestinesi che sono come voi: stessi desideri, stessi sogni. Non è giusto negargli il diritto di avere un loro Stato, né farli crescere con la presenza costante di un esercito straniero che controlla i loro genitori. Non è giusto impedire ai contadini di curare la loro terra, costringere molti a lasciare la loro casa, impedire ai giovani di muoversi liberamente in Cisgiordania, lasciare impunite le violenze di alcuni coloni». Nella giornata «clou» della sua visita in Israele e nei Territori palestinesi, ieri Barack Obama ha vissuto una giornata di straordinaria intensità, culminata nel discorso pronunciato davanti a una platea di giovani ebrei che ha invitato ad agire, a far sentire la loro voce per costringere i politici a uscire dallo stallo nel quale è finito il dialogo tra i due popoli.
Il presidente ha parlato con una franchezza - e in qualche passaggio una durezza - mai sperimentate da una platea israeliana in un’occasione così solenne. Eppure Obama è stato applaudito con calore perché nel suo discorso, attentamente calibrato, ha ribadito il sostegno assoluto e incondizionato per la sicurezza di Israele, anche e soprattutto sulla questione del nucleare iraniano («Non avranno mai la bomba e noi sosteniamo la protezione antimissile dai possibili attacchi col sistema "Iron Dome"»).
Ha, poi, reso omaggio a un Paese con una storia millenaria di lotta per la libertà e di martirio; una nazione che può essere «motore di prosperità per tutto il mondo». E’ arrivato ad abbracciare l’idea base del sionismo: il popolo libero che vuole vivere in una sua patria, la «Terra promessa» che diventa rifugio dalla diaspora.
La libertà va, però, curata, soprattutto nel Medio Oriente delle tensioni esplosive, ora accentuate anche dall’ayatollah Ali Khamenei che minaccia di distruggere Tel Aviv e Haifa se verranno colpiti gli impianti nucleari iraniani. «Spetta a voi decidere come restare sicuri e democratici» ha detto Obama. «Per me, alleato che sarà comunque al vostro fianco, sarebbe più facile non intervenire, evitare discorsi che a molti non piacciono. Ma io vi parlo con la confidenza di un amico: la pace è l’unico modo per garantirvi davvero la sicurezza. E la pace va negoziata. Decidete voi come. So che è difficile e frustrante, che molti tentativi hanno avuto esiti negativi».
Ma Israele, ha incalzato Obama, è il Paese più potente dell’area: «Dovete avere la saggezza di capire il mondo com’è, ma anche il coraggio di vederlo come dovrebbe essere».
Di coraggio il presidente americano ieri ne ha usato molto: prima è andato a Ramallah, a incontrare il presidente palestinese Abu Mazen. Una visita difficile con la contestazione di alcuni dissidenti palestinesi e quelli radicali di Gaza che hanno ricominciato a lanciare razzi contro il territorio israeliano. Obama non ha concesso nulla ad Abu Mazen, chiedendogli di riprendere il dialogo con Israele senza condizioni, pur riconoscendo che lo sviluppo di nuovi insediamenti dei coloni ebraici in Cisgiordania è un grosso ostacolo alla pace.
Poi, però, davanti a una platea tutta ebraica, ha avvertito che, anche se Israele ha buone ragioni per essere diffidente, commetterebbe un errore se non sfruttasse lo spiraglio che si è aperto con Abu Mazen e il premier palestinese Fayyad. Sulla cui buona fede Obama scommette senza riserve. Certo, anche se coraggioso e nobile, quello del presidente Usa è pur sempre un discorso dietro il quale non si vede un piano.
Lo stesso Obama ha ammesso che la situazione è assai complicata: ma, scavalcando il premier Netanyahu, ha invitato i giovani d’Israele a far sentire la loro voce spingendo il governo sulla via delle concessioni e del negoziato. «Ve lo dico da politico», ha scandito: «Noi non facciamo scelte difficili, non prendiamo decisioni impopolari se non veniamo spinti dalla gente».
E, per convincere una platea che si è spellata le mani sulla creazione dei due Stati indipendenti, ma è stata molto più tiepida sui riconoscimenti al popolo palestinese, Obama ha usato le parole del «falco» Sharon: Israele può avere molto, ma se pretende troppo rischia di perdere tutto.
L’avvertimento di un amico, non della superpotenza che impone la trattativa. Obama, leader di un’America che presto sarà indipendente dalle forniture energetiche del Medio Oriente, si affida ai popoli e ai giovani. Con parole ispirate quasi quanto quelle del Cairo, 4 anni fa, ma un atteggiamento più disincantato.
L’Onu condanna Israele: «Rimuovete tutte le colonie»
di Davide Frattini (Corriere della Sera, 01.02.2013)
GERUSALEMME - I cinquanta testimoni sono stati ascoltati in Giordania perché Israele non ha concesso l’ingresso ai tre magistrati. Non riconosce la missione - «abbiamo deciso di non rispondere alle loro lettere e neppure alle telefonate» - e boicotta il Consiglio per i diritti umani che lo scorso marzo li ha incaricati di valutare «l’influenza delle colonie ebraiche sulla vita nei territori palestinesi».
I risultati di questi mesi d’indagine sono raccolti in trentasette pagine: condannano gli insediamenti costruiti in Cisgiordania e nelle zone di Gerusalemme Est, invitano la comunità internazionale a prendere in considerazione sanzioni economiche e politiche. «Abbiamo messo in evidenza la responsabilità degli Stati, perché questi sono problemi noti a tutti e nessuno fa nulla per risolverli. Anche le aziende private che operano nei o con i territori devono vagliare il rispetto dei diritti umani e delle leggi internazionali». È la prima volta che la proposta di boicottaggio arriva da un organismo delle Nazioni Unite.
Il ministero degli Esteri israeliani definisce il dossier «controproduttivo e fazioso»: «L’unico modo di risolvere tutte le questioni aperte con i palestinesi, compresa la questione degli insediamenti, è negoziare senza pre-condizioni. Interventi come quello dell’Onu minano gli sforzi per trovare un accordo di pace. Il Consiglio per i diritti umani si è già distinto in passato per il suo approccio anti-israeliano, questa è solo una conferma», commenta il portavoce Yigal Palmor. Hanan Ashrawi, tra i leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, è esaltata dall’inchiesta: «Offre il quadro sincero ed esemplare delle violazioni israeliane».
La francese Christine Chanet, che ha guidato la Commissione, chiede che lo Stato ebraico «cessi tutte le attività legate all’espansione delle colonie, fornisca un adeguato ed efficace risarcimento alle vittime e inizi immediatamente il processo di ritiro». Gli insediamenti - spiega il magistrato da Ginevra - contravvengono alla Quarta Convezione di Ginevra che proibisce di trasferire la propria popolazione civile in aree occupate: «Un’infrazione che può venire considerata crimine di guerra e finisce sotto la giurisdizione della Corte penale internazionale». A fine novembre l’Assemblea generale dell’Onu ha riconosciuto la Palestina come Stato osservatore, una posizione che permette all’Autorità di Ramallah di ricorrere ai giudici dell’Aja.
Il rapporto calcola 250 colonie realizzate dal 1967 per un totale di 520 mila abitanti: «Un’annessione strisciante che impedisce la nascita di uno Stato palestinese e mina il dritto all’autodeterminazione di un popolo».
I testimoni hanno raccontato degli attacchi organizzati dai coloni. «La Commissione è convinta che la motivazione dietro a questa violenza sia intimidire i palestinesi e spingere la popolazione locale ad andarsene per permettere la crescita delle colonie. I bambini subiscono abusi e per loro è difficile frequentare le scuole, questo limita il diritto di accesso all’educazione».
Già martedì, prima della pubblicazione del dossier, la delegazione israeliana a Ginevra non si è presentata per l’«esame periodico universale», che serve a determinare la situazione umanitaria in tutti i 193 Paesi membri dell’Onu. È la prima volta che uno Stato boicotta l’«esame» ed è la risposta alle iniziative del Consiglio per i diritti umani che il premier Benjamin Netanyahu considera ossessionato da Israele. «Finora ha adottato 91 decisioni: 39 di esse riguardavano noi, tre la Siria e una l’Iran», aveva dichiarato lo scorso marzo.
Israele, al via mega progetto sulle colonie L’Ue: «Scelta gravissima»
di U.D.G. (l’Unità, 21.12.2012)
Dopo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, anche l’Unione Europea ha preso posizione contro la prevista realizzazione da parte di Israele di nuovi insediamenti per i coloni a Gerusalemme est e in Cisgiordania: in un comunicato Catherine Ashton, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dei Ventisette, sottolinea di «opporsi con forza a una tale espansione senza precedenti degli insediamenti» intorno alla Città Santa, che definisce «estremamente allarmante» perché rischia di vanificare definitivamente il processo di pace con l’Autorità Nazionale Palestinese.
«L’Unione», scrive infatti il capo della diplomazia comunitaria, «si oppone in particolare all’attuazione di piani che espongono a gravi rischi le prospettive di una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese, mettendo a repentaglio la possibilità stessa di uno Stato palestinese coeso e fattibile, e di Gerusalemme come la capitale futura di due Stati. Alla luce del proprio essenziale obiettivo di realizzare la soluzione dei due Stati», prosegue lady Ashton, «l’Unione seguirà con la massima attenzione l’evolversi della situazione e le sue più ampie implicazioni, agendo di conseguenza».
Nella nota, «Mrs Pesc» sottolinea tra l’altro che i nuovi insediamenti di fatto taglierebbero completamente i collegamenti tra Betlemme e Gerusalemme. Durissima anche la reazione di Parigi: «Il rilancio senza precedenti dei progetti di colonizzazione è una provocazione che danneggia in primis la fiducia necessaria alla ripresa dei negoziati e ci porta a interrogarci sull’impegno di Israele a favore della soluzione dei due Stati», dichiara il portavoce del Quai d’Orsay, Philippe Lalliot.
Israele sarà «responsabile» della costruzione dei nuovi insediamenti programmati a Gerusalemme Est e in Cisgiordania: questa la prima reazione dell’Anp all’approvazione da parte del governo israeliano di un progetto per la costruzione di altre 523 abitazioni che andranno a costituire «una nuova città a Gush Etzion». «I coloni e il governo israeliani dovrebbero ben sapere che saranno chiamati a risponderne», dice Nabil Abu Rudeina, portavoce e consigliere del presidente dell’Anp, Abu Mazen, ricordando come lo status palestinese di Paese osservatore non membro dell’Onu permette di ricorrere davanti alle istanze giuridiche internazionali.
Israele "trattiene" le tasse dei palestinesi.
Ue a Netanyahu: "Stop a nuovi insediamenti"
La ritorsione del governo di Tel Aviv che respinge la decisione dell’Onu sul riconoscimento dello stato palestinese. I fondi dovevano essere girati all’Anp in base agli accordi di Parigi. Il premier insiste: "Continueremo a costruire ovunque ci siano nostri interessi strategici in ballo". Mazen: "Nei prossimi giorni verranno fatti dei passi per la riunificazione di tutte le altre fazioni fazioni palestinesi" *
GERUSALEMME - Il governo israeliano all’unanimità ha respinto la risoluzione approvata dall’Onu che accredita la Palestina come Stato-non membro dell’organizzazione. In una nota ufficiale, il governo - che si è riunito oggi a Gerusalemme - sostiene che "il popolo ebraico ha un naturale, storico e legale diritto nei confronti della sua terra natale e di Gerusalemme come sua capitale. La risoluzione non servirà come base per futuri negoziati né fornisce una via per una soluzione pacifica".
La rappresaglia. Non è l’unica decisione destinata a pesare sulla tregua e in generale sui rapporti fra Israele e il governo palestinese. Per rappresaglia rispetto alla decisione dell’Assemblea generale dell’Onu, Tel Aviv infatti ha annunciato il blocco del trasferimento delle tasse raccolte da Israele per l’Autorità nazionale palestinese. Si tratta di 460 milioni di shekels (circa 92 milioni di euro), che dovevano essere trasferiti questo mese all’Anp. La risoluzione è stata approvata dalla riunione domenicale del governo israeliano, che ha inoltre precisato che non avvierà nessun negoziato sulla base del riconoscimento dei territori di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza in un unico stato palestinese.
Ogni mese, sulla base dei Protocolli stabiliti a Parigi nel 1994, Israele trasferisce decine di milioni di euro derivanti dalle tasse destinate ai mercati palestinesi e fatte passare dai porti israeliani. Il ministro delle finanze israeliano, Yuval Steinitz, ha spiegato invece che il governo utilizzerà gli introiti della nuova tassa per pagare il debito degli stessi palestinesi con Israel Electric Corp., per le forniture di energia, ed altri organismi israeliani.
Si tratta del secondo atto di rappresaglia, dopo l’annuncio della costruzione di tremila nuove case negli insediamenti dei coloni. Su questo punto è tornato oggi il premier Benyamin Netanyahu, rincarando la dose: "Israele continuerà a costruire a Gerusalemme - ha detto il premier - e in ogni luogo della mappa degli interessi strategici dello stato di Israele". Secondo l’agenzia Ynet, Netanyahu ha anche sottolineato che "la mossa unilaterale dell’Autorità palestinese all’Onu è un’impudente violazione degli accordi firmati": "Uno stato palestinese - afferma il capo del governo - non sarà stabilito senza un connesso accordo sulla sicurezza dei cittadini israeliani e prima che l’Autorità palestinese riconosca Israele come stato del popolo ebraico e dichiari la fine del conflitto".
Mazen: "Riconciliare le fazioni palestinesi". In un clima sempre più teso, Abu Mazen ricorda quanto sia necessaria una riconciliazione nazionale. "La riconciliazione nazionale è necessaria per raggiungere la liberazione dell’occupazione israeliana", ha detto Mazen nel suo discorso alla folla davanti la Muqata. "Nei prossimi giorni - ha aggiunto - verranno fatti dei passi per la riunificazione di tutte le altre fazioni fazioni palestinesi".
Intanto l’annuncio dei nuovi insediamenti nei Territori ha provocato reazioni preoccupate da parte della comunità internazionale. Il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, ha esortato Israele a retrocedere dai suoi piani per la costruzione di 3.000 nuovi alloggi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, in quanto rappresentano un "ostacolo alla pace". "L’Ue ha ripetutamente affermato che l’espansione degli insediamenti è illegale secondo il diritto internazionale", ha detto Ashton che ha chiesto al governo israeliano di "mostrare il suo impegno per una ripresa dei negoziati di pace non perseguendo questo progetto".
L’annuncio dei nuovi alloggi negli insediamenti è "uno schiaffo in faccia" al presidente americano Barack Obama. Lo ha detto l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, parlando a Washington al Saban Forum, un centro di dibattito sul Medio Oriente. Olmert ha affermato che il governo americano ha dato prova di amicizia a Israele votando contro il riconoscimento della Palestina. E Israele ha mostrato la sua "gratitudine" a Obama con lo "schiaffo" dei nuovi insediamenti.
* la Repubblica, 02 dicembre 2012
Palestina, la bella vittoria del paziente Abu Mazen
di Moni Ovadia (l’Unità, 1.12.2012)
Giovedì 29 novembre 2012 è stata e rimarrà una data memorabile nel bene (lo speriamo con tutte le nostre forze) o nel male (lo deprechiamo con tutto il cuore). Gli uomini che credono nella pace, nella giustizia e nell’eguaglianza, hanno visto sorgere il primo lucore di un’alba che era attesa da lunghissimo tempo. Il popolo palestinese ha finalmente scorto la luce in fondo al tunnel oscuro in cui era confinato da 45 anni. L’Assemblea dell’Onu, a grandissima maggioranza, ha accolto nel proprio seno come membro osservatore, la Palestina. È solo un inizio ma ha un grandissimo significato. Le piazze della Cisgiordania e di Gaza si sono riempite di folla tripudiante.
L’uomo che ha ottenuto questa luminosa vittoria per il suo popolo, il paziente Abu Mazen, ha ricevuto gli abbracci calorosi di una folla di rappresentanti delle Nazioni Unite. La sua tenacia ha avuto ragione, non si è fatto intimidire e ha incassato con determinazione, tutte le false promesse di trattativa, tutte le azioni miranti a delegittimarlo, non ha ceduto alla frustrazione, non ha aperto le porte alla tentazione della violenza e ce l’ha fatta. Anche Hamas, bon gré mal gré, sarà costretta a riconoscerlo. Le piazze palestinesi festanti, hanno rievocato simbolicamente, le piazze ricolme di ebrei «palestinesi» pervase dalla gioia che ascoltarono la proclamazione dello Stato d’Israele votata a maggioranza dall’ Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948. Per la popolazione ebraica di allora, uscita dalla Shoà, fu il coronamento di un sogno. Per i Palestinesi fu l’inizio della Nakhba, la catastrofe, la perdita di terre e case che, nel ’67, dopo la Guerra dei Sei Giorni, avrebbe conosciuto la seconda interminabile fase che perdura ancora oggi.
Ora, questa profonda lacerazione ha visto la possibilità di essere sanata. Grandi assenti a questa giornata di festa: i governanti israeliani e il Presidente degli Usa Barack Obama, incastrati in una miope solidarietà risentita senza orizzonte e senza futuro. Netanyahu e Obama fingono di non sapere che la trattativa è possibile solo fra interlocutori di pari dignità. Nel mio piccolo ho parteggiato con tutte le energie per questa prospettiva, senza risparmiare le critiche più aspre ai governi israeliani della colonizzazione e dell’occupazione e senza il minimo sconto.
Per questa ragione, proprio oggi mi sento di dire che chi si serve di stereotipi antisemiti con la pretesa di esprimere solidarietà ai palestinesi, mente. L’antisemitismo è stata una delle peggiori pestilenze che abbia attraversato l’umanità nel suo cammino, si nutre dell’humus dell’odio e del razzismo, è un pensiero criminoso che colpisce gli ebrei ma che prepara anche la catastrofe per tutti gli uomini che credono nella fratellanza, nella libertà e nella pari dignità di tutti gli esseri umani. Chi cerca di giustificarlo con l’esistenza di Israele, dimentica capziosamente che l’antisemitismo si è manifestato, nella sua forma più virulenta e genocida, quando gli ebrei non avevano terra e neppure aspiravano ad una terra nella forma di nazione moderna.
Lo ripeto, le critiche alle azioni dei governanti israeliani messe in atto contro la popolazione civile palestinese, anche le più dure e provocatorie, sono del tutto lecite e condivisibili quando suffragate da fatti e da prove ma i complottismi modello «Protocolli dei Savi di Sion» in riedizione «antisionista» comprese le identificazioni fra governo, Stato e popolo israeliano non sono altro che la versione antiisraeliana dell’antisemitismo. In Israele non vivono solo truppe militari Droni e gli elicotteri Apache, ma donne, uomini, bambini, vecchi, giovani, madri, figli, fratelli, sorelle come in Palestina pur nella drammatica differenza delle condizioni esistenziali. Ma di tutto hanno bisogno i palestinesi per trovare giustizia, fuorché degli antisemiti dichiarati o camuffati che siano.
Ultima opportunità per dare vita a due Stati sicuri e indipendenti
di Daniel Barenboim (Corriere della Sera, 1.12.2012)
Il 29 novembre è una data storica. Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite, con il «Piano di partizione della Palestina», stabilirono la suddivisione della regione in un territorio per gli ebrei e uno per i palestinesi. Fino a quel giorno eravamo tutti «palestinesi»: musulmani, cristiani ed ebrei.
La ripartizione del 1947 fu accolta con gioia dagli ebrei di tutto il mondo e rifiutata dal mondo arabo, che considerava la Palestina come una terra propria ed esclusiva. Seguì una guerra, cominciata il giorno dopo la dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele, il 14 maggio del 1948.
Il 29 novembre 2012, esattamente 65 anni dopo, i palestinesi hanno chiesto e ottenuto a grande maggioranza il riconoscimento dello status di «Stato osservatore» presso le Nazioni Unite. Questi sono semplicemente i fatti. Un’interpretazione potrebbe essere: hanno avuto bisogno di 65 anni per rendersi conto che Israele è divenuta una realtà innegabile e sono dunque pronti ad accettare il principio della ripartizione del territorio palestinese rifiutato nel 1947?
In questo senso diventa chiaro che la decisione presa ieri dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite deve essere un motivo di soddisfazione anche per lo Stato d’Israele. Non voglio dare lezioni di morale o di strategia politica né agli israeliani né ai palestinesi; però desidero ricordare che se questo conflitto non è stato risolto per molti anni, è forse perché né gli uni né gli altri e nemmeno il resto del mondo, ne hanno colto l’essenza profonda.
Il conflitto israelo-palestinese non è un’ostilità politica tra due Stati che si possa risolvere con mezzi diplomatici o militari: un dissidio politico tra due nazioni può riguardare problematiche relative ai confini, al controllo dell’acqua, del petrolio o casi simili. Questo è prima di tutto un conflitto umano tra due popoli che sono profondamente convinti di avere entrambi il diritto di vivere nello stesso piccolo territorio e preferibilmente in maniera esclusiva.
È ora, anche se tardi, di riconoscere il fatto che israeliani e palestinesi hanno la possibilità di vivere o insieme, o uno accanto all’altro, ma non negandosi. La decisione presa ieri da 138 Paesi è forse l’ultima opportunità per dare vita al progetto di due Stati indipendenti, sicuri, ognuno con un proprio territorio continuo e non frammentato. Forse è il destino o la giustizia del tempo che dà oggi ai palestinesi la possibilità di iniziare un processo verso l’indipendenza in maniera identica a quelli che furono gli esordi dello Stato israeliano.
È il momento giusto anche per le riconciliazioni interne, essenziali per risolvere la situazione, a partire da quella tra Hamas e Fatah, riconciliazioni necessarie per avere un’unica posizione e direzione politica.
D’altra parte è un errore pensare, come spesso accade, che sia meglio avere di fronte a sé un nemico diviso; per questo, anche per Israele è meglio che i palestinesi siano politicamente uniti. Sono altresì cosciente che i palestinesi non accetteranno mai una soluzione ideologica al conflitto, perché la loro storia è diversa e dovrebbe essere lo Stato d’Israele a cercare una soluzione pragmatica.
Credo infine che gli ebrei abbiano un diritto storico-religioso di vivere nella regione ma non in forma esclusiva. Dopo la crudeltà europea verso il popolo ebraico nel ventesimo secolo ci sarebbe la necessità di aiutarlo ora con i suoi problemi per il futuro e non solo riconoscendo le responsabilità del passato.
Sono commosso dalla quantità di nazioni che hanno votato a favore della risoluzione; mentre mi rattrista la posizione assunta dal governo israeliano, che mi sembra poco lungimirante nel non cogliere le opportunità che si offrono per un futuro migliore, e degli Stati Uniti, l’unico Paese in grado di far pesare la propria influenza. Mi riempie di felicità che l’Italia, dove trascorro diversi mesi l’anno in qualità di Direttore Musicale del Teatro alla Scala, abbia votato a favore di una speranza per tutti i popoli della regione.
Israele risponde con 3000 coloni
Il governo aumenta gli insediamenti nella Palestina occupata
Gli Usa; “Controproducente”
di Roberta Zunini (il Fatto, 1.12.2012)
Lo vedi questo bicchiere pieno d’acqua? È tuo, ma non puoi bere. Gli israeliani si comportano così. Ci dicono, sì, questa terra che vedi è tua, prendila pure ma non puoi utilizzarla”, spiega l’ingegnere civile palestinese Ibrahim Hussein che vive nella zona East1. Meglio conosciuta come E1, è l’area che collega Gerusalemme est alla Cisgiordania del nord, cioè mette in continuità quella che dovrebbe essere la capitale dello Stato palestinese con il resto del territorio statale. Per questo il progetto israeliano di realizzare e quindi ampliare l’insediamento ebraico di Ma’ale Adumim, che è stato costruito proprio in quest’area, è da sempre considerato il più “diabolico”. Significherebbe infatti creare una lunga barriera di edifici, case, stazione di polizia e check point, che recinterebbe di fatto Gerusalemme Est - secondo il diritto internazionale territorio occupato, annesso unilateralmente dallo Stato ebraico nel 1980 - isolandola e spaccando la parte nord e quella sud della Palestina.
NONOSTANTE gli Stati Uniti di Obama abbiano mantenuto la loro promessa, votando, assieme a soli altri otto Paesi, contro la richiesta all’Onu dell’Anp, sembra che il premier Netanyahu e i suoi accoliti, infuriati per la débâcle diplomatica, stiano per fare l’ennesimo affronto proprio al loro più stretto alleato, tirando una corda già sottile. E non a caso l’Amministrazione Obama sbotta: “Controproducenti i nuovi insediamenti”.
Su Haaretz il giornalista israeliano Barak Ravid rivela: “Il governo farà costruire tremila nuove case per i coloni a Gerusalemme est e in Cisgiordania come risposta all’ammissione della Palestina come Stato osservatore. Le nuove case saranno edificate in aree già oggetto di un forte contenzioso con i palestinesi, come la E1. Tutto ciò, nonostante Netanyahu abbia assicurato in passato a Barack Obama che il progetto E1 sarebbe stato congelato in base a quanto stabilito dalla roadmap siglata nel 2003”. Se il via libera alle costruzioni non troverà ostacoli, difficilmente assisteremo a una ripresa dei negoziati di pace diretti.
Il presidente dell’Anp, Abu Mazen nel suo discorso all’Onu è stato chiaro e ha ribadito che la capitale della Palestina non può essere che Gerusalemme Est. Ma che capitale potrà essere se separata dal resto dello Stato? Il problema è che anche tutto il resto del territorio è a macchia di leopardo. “Non ci sarà mai un vero Stato palestinese se continueranno a esserci gli insediamenti ebraici che lo spezzano di continuo, anche qualora dovesse finire l’occupazione, cosa che peraltro non avverrà”, ha detto Robert Fisk, giornalista tra i più esperti del Medio Oriente.
DOPO gli accordi di Oslo del 1993, la Cisgiordania, ossia l’attuale Stato palestinese, è stata suddivisa in tre aree. Solo la A - la più piccola, Ramallah e poco altro - è sotto il totale controllo dell’Anp. La zona B è amministrata dall’ Anp, ma le attività di polizia sono dell’esercito di Israele, che controlla totalmente la zona C. Le nuove colonie “sono un tentativo per far saltare la decisione dell’Onu”, ha dichiarato il portavoce della presidenza dell’Anp, Nabil Abu Radieneh, ribadendo che “non ci saranno negoziati con la ripresa degli insediamenti nei territori palestinesi”.
medioriente - voto storico
La Palestina diventa “Stato”
All’Onu anche l’Italia dice sì
Ira di Israele: “Molto delusi”
Arriva il via libera alla risoluzione
L’Ue divisa, la Germania si astiene
Netanyahu frena: non cambia nulla *
new york
La Palestina diventa Stato «osservatore» dell’Onu. Il suo rango viene elevato a quello di altri Stati, come il Vaticano e la Svizzera. Esattamente 65 anni dopo il voto sulla spartizione della Terra Santa in due Stati (era il 29 novembre del 1947, e persino un giovedì) l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si rende dunque protagonista di un’altra giornata storica, approvando una risoluzione che il presidente dell’Anp Abu Mazen ha voluto con forza. E che i vertici dell’Autorità nazionale palestinese considerano solo un primo passo verso la nascita di un vero e proprio Stato e verso il riconoscimento della Palestina come Paese membro a pieno titolo delle Nazioni Unite.
LA VITTORIA DI ABU MAZEN
Per Abu Mazen si tratta di una enorme vittoria diplomatica, che lo rafforza anche sul fronte interno e nei confronti di Hamas. Mentre il sì alla Palestina da parte dell’Assemblea Onu consegna alla storia un mondo occidentale spaccato, diviso: con gli Stati Uniti al fianco di Israele nel dire “no” al riconoscimento della Palestina come Stato “osservatore” e i Paesi europei in ordine sparso, incapaci di parlare con una sola voce e di raggiungere una posizione comune. Posizione che aveva auspicato l’Italia, a cui fino all’ultimo ha lavorato la diplomazia del nostro Paese, che alla fine ha optato a favore della risoluzione insieme a Francia, Spagna e molti altri Stati della Ue. Provocando la reazione dell’ambasciata israeliana a Roma che parla di «delusione». Altri Stati europei, come Germania e Regno Unito, hanno optato per l’astensione. Ma dietro il sì italiano, c’è la scelta di Monti per un’Unione Europea più coesa.
TENSIONE IN MEDIORIENTE
Nei Territori i palestinesi sono in festa. Quello che conta oggi è lo storico riconoscimento, votato dai due terzi della comunità internazionale. Questo nonostante il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, a poche ore dal voto sia tornato a ribadire con forza che la decisione dell’Assemblea delle Nazioni Unite «non avvicinerà la costituzione di uno Stato della Palestina. Anzi - ha sottolineato - l’allontanerà». Per gli israeliani infatti (e in questo l’appoggio di Washington è pieno) un vero e proprio Stato palestinese che viva in pace e sicurezza accanto ad Israele può scaturire solo da un negoziato che porti a un definitivo e duraturo accordo di pace. Netanyahu, quindi, assicura come il voto all’Onu di fatto non cambi nulla: «Non sarà costituito uno Stato palestinese senza il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico, senza la proclamazione della fine del conflitto e senza misure di sicurezza reali che difendano lo Stato di Israele e i suoi abitanti».
COSA CAMBIA
Da domani però qualcosa cambia. E il neo “Stato palestinese”, per esempio, avrà accesso a molti trattati e organizzazioni internazionali che finora le erano preclusi. A partire dalla Corte penale internazionale, davanti alla quale i palestinesi potrebbero decidere di portare Israele per denunciare la questione dei Territori Occupati. Questo uno dei timori più grandi degli israeliani e di molti altri Paesi, anche se i vertici dell’Anp hanno assicurato che non compiranno tale passo automaticamente: dipenderà dalla politica che Israele deciderà di portare avanti sul fronte degli insediamenti.
IL PROCESSO DI PACE
Intanto Abu Mazen guarda già alla prossima sfida, questa sì impossibile e simbolica: il sì alla Palestina Stato membro dell’Onu da parte del Consiglio di sicurezza. Una mossa già tentata dal presidente dell’Anp ma che si è inevitabilmente scontrata con il veto degli Stati Uniti. L’auspicio di tutti, però, è che dalla storica giornata al Palazzo di Vetro nasca una nuova spinta verso il dialogo. In questo senso il segretario generale dell’Onu, Ban ki-Moon ha lanciato un chiaro appello a israeliani e palestinesi: «È giunta l’ora di rianimare il processo di pace». Un processo di pace in stallo da troppo tempo.
*La Stampa, 29/11/2012
29/11/2012
Palestina all’Onu, l’Italia voterà sì
Israele: “Roma ci ha molto deluso”
Abu Mazen, cerca all’Onu il riconoscimento della Palestina come Stato osservatore non membro *
ROMA In aperta sfida agli Usa e alle minacce israeliane di recedere dagli Accordi di Oslo, il presidente dell’Anp, Abu Mazen, cerca oggi all’Onu il riconoscimento della Palestina come Stato osservatore non membro. La risoluzione, che darà un implicito seppur solo simbolico riconoscimento alla sovranità statuale palestinese, dovrebbe passare con un’ampia maggioranza: solo una manciata di Paesi, insieme a Israele e Usa, voteranno contro. Il voto arriverà nella tarda serata italiana.
A Ciosgiordania e a Gaza c’è un clima di festa, anche se molti riconoscono che la vittoria non cambierà la situazione sul terreno. Uno degli effetti più attesi è che consentirà ai palestinesi di chiedere al Tribunale Penale Internazionale di indagare su eventuali crimini commessi dalla leadership israeliana durante il pluridecennale conflitto israelo-palestinese. In Israele l’atmosfera è di rassegnazione. Il governo ha fatto sapere che non modificherà alcun accordo in ritorsione del voto, ma il premier, Benjamin Netanyahu, ha tenuto a precisare che «sul terreno non accadrà nulla, anzi la prospettiva di uno Stato si allontana».
Abu Mazen ha cercato di garantirsi quanti più voti possibili dalle consolidate democrazie europee: il risultato è la risoluzione avrà l’appoggio della maggioranza dei Paesi Ue, Francia e Spagna in testa, ma di fatto ha diviso i 27. I Paesi europei favorevoli saranno almeno 15 (Francia, Spagna, Danimarca, Irlanda, Portogallo, Austria, Lussemburgo, Cipro, Malta, Finlandia, Grecia, Belgio); la Repubblica Ceca, l’Olanda e la Bulgaria dovrebbero votare contro; la Germania ha annunciato che si asterrà, e anche la Gran Bretagna a meno che i palestinesi non si impegnino a evitare il ricorso al Tpi e tornino immediatamente al tavolo del negoziato.
Il Governo italiano intende dare il proprio sostegno alla risoluzione per attribuire alla palestinese lo status di `Stato non membro osservatore’ delle Nazioni Unite. Lo riferiscono fonti di governo. L’Ue, dal canto suo, ricorda che vuole uno Stato palestinese a pieno diritto nelle Nazioni Unite, ma che questo deve avvenire nel quadro di una soluzione del conflitto con Israele e quindi ha esortato le parti a riprendere da subito il negoziato.
«Siamo molto delusi dalla decisione dell’Italia - uno dei migliori amici di Israele - di sostenere l’iniziativa unilaterale dei Palestinesi alle Nazioni Unite». Non si è lasciato attendere il commento a caldo dell’ambasciatore israeliano a Roma Naor Gilon, secondo cui «tale iniziativa indebolisce le relazioni tra israeliani e palestinesi fondate sugli Accordi di Oslo». «Dopo quattro anni in cui i Palestinesi hanno rifiutato di tornare al tavolo negoziale - prosegue Gilon - assistiamo ora al tentativo palestinese di influenzare i risultati dei negoziati stessi per mezzo di istituzioni internazionali. Questa mossa, non soltanto non migliorerà la situazione sul terreno, ma aumenterà le preoccupazioni di un ritorno alla violenza e, soprattutto, allontanerà le prospettive di pace».
* LA STAMPA, 29/11/2012
Uno Stato palestinese all’Onu: l’Italia dica sì
Tra i firmatari Bersani, Vendola, Ovadia, Camusso, Beni, Raciti
La Palestina all’Onu: l’Europa divisa alla prova
Al Palazzo di Vetro il voto sul riconoscimento richiesto da Abu Mazen
A favore 150 Paesi, tra i contrari gli Stati Uniti
La Francia per il sì, la Germania si astiene. L’Italia pure. Critico il Pd
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 28.11.2012)
L’«intifada diplomatica» vivrà domani il suo momento della verità, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite sarà chiamata a pronunciarsi sulla richiesta avanzata dall’Autorità nazionale palestinese (Anp) per il riconoscimento della Palestina come Stato «non membro» al Palazzo di Vetro. «Abbiamo i numeri necessari», anticipa a l’Unità - nel giorno in cui a Ramallah veniva riesumata la salma di Yasser Arafat alla ricerca di prove di un sospetto avvelenamento il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat che, pressato, azzarda anche un numero: «Riteniamo di poter contare sul sostegno di 150 Stati (su 193)». Tra questi conta due membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Russia e Cina), il Sudafrica, il Brasile, il blocco dei Paesi «non allineati», oltre quelli arabi e musulmani.
Le votazioni dell’Assemblea non sono soggette al veto dei membri del Consiglio di sicurezza e questo consente all’ambasciatore Ryad Mansour, osservatore permanente dell’Anp al Palazzo di Vetro di affermare: «Il prossimo 29 novembre prometto che avverrà un evento storico». «La modifica dello status palestinese a Stato non membro dell’ organizzazione internazionale spiega è un momento storico sia per le Nazioni Unite che per il nostro popolo. La soluzione dei due Stati, da una prospettiva Onu, diventerà una realtà». «Quello che stiamo facendo conclude è legale, democratico e multilaterale». Per Mansour «la prima priorità per Abu Mazen è negoziare, la seconda negoziare, la terza negoziare» per arrivare alla soluzione dei due Stati.
L’Europa si presenta in ordine sparso al voto. La Francia voterà in favore della concessione dello status di «Stato non membro per la Palestina all’Onu». Ad annunciarlo è il ministro degli Esteri, Laurent Fabius che ha ricordato la «posizione costante» di Parigi in favore del riconoscimento di uno Stato palestinese, fin dal discorso del 1982 dell’allora presidente, Francois Mitterrand. Il titolare del Quai d’Orsay, parlando davanti ai deputati in Assemblea nazionale, ha quindi annunciato formalmente che la Francia voterà «sì» alla risoluzione Onu sulla Palestina.
La decisione di Parigi amplifica la prospettiva di una nuova spaccatura fra i Paesi Ue su un importante dossier di politica estera. Anche la Spagna, stando ad una anticipazione di El Pais on line, voterebbe a favore, così come l’Austria. La Gran Bretagna apre, ma ad una condizione. Due i caveat al suo sì: che l’Anp si impegni a riprendere subito, senza condizioni, i negoziati di pace con Israele e che l’Anp si astenga dal chiedere di entrare alla Corte Penale Internazionale e alla Corte Internazionale di Giustizia, istituzioni che potrebbero essere usate per mettere Israele sul banco degli imputati per crimini di guerra. Richieste queste che troverebbero ascolto nella dirigenza palestinese. Un’altra condizione è che la risoluzione dell’Assemblea Generale non richieda al Consiglio di Sicurezza di seguirne le mosse.
LE CONDIZIONI DI LONDRA
La svolta britannica è delle ultime ore e fa seguito a colloqui dell’altro ieri del ministro degli Esteri, William Hague con il presidente dell’Anp, Abu Mazen e con il collega francese Laurent Fabius. Abu Mazen ha chiesto a Londra di appoggiare la sua richiesta all’Onu invocando la speciale responsabilità della Gran Bretagna come ex potenza coloniale nei confronti della Palestina. Finora il Foreign Office aveva sempre opposto resistenza alla risoluzione, citando le obiezioni di Stati Uniti e Israele e il timore di danni a lungo termine nelle prospettive di negoziato. Un sì all’Onu di Londra, quindi, è condizionato a modifiche nella richiesta dell’Anp che domani verrà messa ai voti dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Stati Uniti e Israele hanno prospettato pesanti rappresaglie in caso di approvazione della risoluzione e la posizione della Gran Bretagna è tesa a ridurre il rischio di queste minacce.
Sul fronte opposto, quello dei «no», ci sono gli Stati Uniti e, naturalmente, Israele che per bocca del suo ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman ha bollato come una «grave provocazione che non resterà senza conseguenze» l’iniziativa palestinese. L’azione unilaterale dell’Anp all’Onu perché lo status della Palestina sia portato da osservatore a Stato non membro è definito «un errore» dalla portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Victoria Nuland. «Non pensiamo che questo passo porterà il popolo palestinese più vicino a uno Stato» afferma. Per concludere: «Crediamo sia un errore e ci opponiamo». E l’Italia? Bocche cucite alla Farnesina, ma a quanto risulta a l’Unità l’opzione più accreditata in queste ore è quella dell’astensione, che sarebbe condivisa dalla Germania. Ma questa linea che non convince il partito democratico che con il suo responsabile Esteri, Lapo Pistelli insiste perché l’italia sostenga la richiesta di Abu Mazen.
L’Europa si presenta dunque divisa ad un appuntamento cruciale. E questo è di per sé l’indice di un fallimento politico. L’ennesimo sullo scacchiere internazionale.
L’Italia sostenga la richiesta dell’Anp
l’Unità 28.11.12
QUATTRO ANNI FA, IN QUEI DRAMMATICI GIORNI CHE seguirono l’assedio di Gaza, lanciammo un appello dal titolo: «La questione morale del nostro tempo». Rappresentava il tentativo non solo di uscire dalla spirale della guerra, ma anche dai rituali dello schierarsi con le parti in conflitto per provare ad indicare una prospettiva diversa, capace di modificare il nostro sguardo su un conflitto che affonda le proprie radici nel cuore di tenebra dell’Europa e del suo Novecento.
Si avviò una carovana. Si nutriva di culture e di storie che la guerra intendeva cancellare, di resistenza nonviolenta a dispetto della chiamata alle armi, di relazioni fra territori e persone nell’intento di valorizzare luoghi e saperi che nell’intreccio del Mediterraneo hanno costruito straordinarie civiltà niente affatto in conflitto. Una rete fittissima di esperienze che hanno interagito con la «primavera araba» dopo la quale niente è più come prima. Oggi la storia sembra ripetersi, quasi a voler abbattere i ponti di dialogo costruiti a fatica nel contesto dei grandi cambiamenti di questo tempo. Di nuovo assistiamo impotenti al dilagare della guerra. Le popolazioni civili vedono aggiungersi nuove sofferenze e nuove distruzioni, tanto in Palestina dove nuovi lutti si aggiungono ad una interminabile lista del dolore, quanto in Israele dove un numero pur minore di vittime non attenua lo stato di tensione e di paura. Per entrambi, l’insicurezza e l’incertezza del domani avviliscono l’esistenza ed offuscano le menti. Ora che i bombardieri tacciono e la tregua sembra reggere, dobbiamo sapere che i problemi sono immutati e che il campo della belligeranza si è fortificato, che i sondaggi di opinione danno in crescita i falchi ottusi e le tendenze estreme. I proclami di guerra e di odio hanno contaminato il linguaggio quotidiano, costringendo in una posizione minoritaria la ragionevolezza e il buonsenso, mentre tutti noi diventiamo vittime collaterali. Eppure siamo consapevoli che la guerra non porta da nessuna parte, tanto è vero che gli ultimi conflitti nel Vicino Oriente si sono risolti in un vano e catastrofico esercizio di potenza, deteriorando situazioni già intollerabili, impoverendo di umanità e di intelletto popolazioni già provate e allontanando l’orizzonte di pace e serenità per una vita dignitosa. E che il dialogo è l’unica alternativa alla guerra.
In queste ore, con un nuovo appello vorremmo essere vicini a tutti, gettare una pietra nello stagno che ci ha trasformato in impotenti spettatori o in agguerriti tifosi.
Noi sappiamo che nel diritto, nella legalità internazionale e nelle sue molteplici convenzioni, esiste uno spazio di vita e di dignità per tutti. Sappiamo anche che il Mediterraneo è uno spazio non solo geografico ma anche culturale e politico nel quale costruire una prospettiva di incontro e convivenza fra i popoli. Così come sappiamo, infine, che «la pace dei coraggiosi» continua a rappresentare l’unica scelta possibile per una vita in sicurezza, per la dignità, la crescita umana e culturale di entrambi i popoli. Per questo siamo a chiedere la convocazione di una nuova conferenza internazionale per la pace che riparta da dove i colloqui si sono interrotti. Chiediamo all’Italia e all’Europa di sostenere, presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite la richiesta di Abu Mazen a nome di tutto il suo popolo per il riconoscimento dello Stato palestinese entro i confini del 1967, come contributo a rafforzare la pace in tutta una regione oggi segnata dall’instabilità, dal soffocamento violento delle istanze di libertà e di democrazia. Questo passaggio aiuterà altresì le nuove democrazie nel mondo arabo ad evolversi verso un vero stato di diritto e getterà le basi per una proficua cooperazione regionale e mediterranea, nel quale le grandi risorse umane e materiali siano valorizzate a favore della vita e dello sviluppo umano.
Con il nostro appello intendiamo dare vita ad un presidio permanente contro la guerra a favore della pace in Palestina e Israele, sulla base della legalità internazionale. Ci rivolgiamo a tutti, in modo particolare a tutti i giovani, senza distinzione di fede o nazionalità, che hanno ereditato un mondo dilaniato dalla guerra e depauperato da scelte politiche insensate, perché il nostro Mediterraneo riacquisti il suo splendore.
(Per adesioni: mezzalunafertile.wordpress.com)
Moni Ovadia, Ali Rashid, Fausto Raciti, Paolo Beni, Antonio Bassolino, Pierluigi Bersani, Mercedes Bresso, Susanna Camusso, Nandino Capovilla, Raya Cohen, Andrea Cozzolino, Rosario Crocetta, Leonardo Domenici, Vasco Errani, Stefano Fassina, Lorenzo Floresta, Roberto Gualtieri, Antonio Liaci, Federica Martiny, Davide Mattiello, Gennaro Migliore, Michele Nardelli, Matteo Orfini, Antonio Panzeri, Gianni Pittella, Alessandro Portinaro, Enrico Rossi, Pasqualina Napoletano, Nichi Vendola.
Riyad Malki: «Il seggio Onu alla Palestina è per la pace»
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 25.11.2012)
L’«intifada diplomatica» non si ferma. E avrà un suo passaggio cruciale il 29 novembre prossimo al Palazzo di Vetro. «I riscontri che abbiamo ci inducono all’ottimismo: riteniamo di avere i voti sufficienti per far sì che la Palestina diventi Stato non membro dell’Assemblea generale delle nazioni Unite». A sostenerlo è Riyad Malki, ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), impegnato nei giorni scorsi a Roma nella riunione della Commissione mista Italia-Territori palestinesi.
Signor ministro, dopo otto giorni di guerra a Gaza, è stato raggiunto un accordo di tregua tra Israele e Hamas. Diversi analisti sostengono che si tratta di una vittoria di Hamas a cui corrisponde una marginalizzazione dell’Anp del presidente Abbas (Abu Mazen).
«Si tratta di una lettura forzata della realtà. Il 29 novembre alle Nazioni Unite si discuterà, e voterà, la nostra richiesta di riconoscere la Palestina come Stato non membro delle Nazioni Unite. Siamo molto ottimisti di avere i voti sufficienti per ottenere questo riconoscimento. Di fronte a questa realtà di fatto, è davvero singolare parlare di una emarginazione dell’Anp. La grande maggioranza degli Stati membri dell’Onu sostiene la nostra iniziativa che non ha nulla di estemporaneo, ma è legata ad una strategia politica che non nasce oggi ma è lo sviluppo di un percorso avviato da Yasser Arafat. Noi crediamo che l’unica via per dare pace e stabilità nella Regione è realizzare un accordo fondato sulla legalità internazionale e sul principio “due Stati per due popoli”. Questa linea gode del sostegno della maggioranza del popolo palestinese. Mi creda, non ci sentiamo affatto isolati».
Israele considera la richiesta palestinese all’Onu come una forzatura unilaterale.
«Votare il riconoscimento della Palestina come Stato non membro, è votare per la pace. È un voto “per” il dialogo e non “contro” Israele. Ed è proprio per questo che chiediamo all’Italia, come agli altri Paese dell’Unione europea, di sostenerci. In questo senso, riteniamo di grande significato il fatto che il Parlamento europeo abbai votato (con 447 voti a favore, 113 contrari e 65 astensioni, ndr) un paragrafo con cui si dichiara il sostegno alla candidatura della Palestina come Stato non membro osservatore permanente alle Nazioni Unite».
In questi giorni al centro dell’attenzione internazionale sono stati i leader di Hamas, Khaled Meshaal, Ismail Haniyeh. E il presidente Abbas?
«Di certo non è restato a guardare. Il presidente ha compiuto due mosse importanti: ha invitato a un incontro tutti i movimenti palestinesi per discutere come rispettare la tregua e promuovere gli sforzi per la riconciliazione. Al tempo stesso, il presidente Abbas ha chiesto alla Lega araba la convocazione di una riunione urgente per esaminare le continue aggressioni di Israele a Gaza e le sue azioni nei Territori occupati. Il presidente Abbas sta agendo per la riconciliazione nazionale, assumendosi la responsabilità di indicare una strategia che rafforzi, ad ogni livello interno e internazionale, la causa palestinese».
Perché ritiene così dirimente la luce verde al Palazzo di Vetro?
«Perché rappresenterebbe un segnale tangibile che la diplomazia non si piega alla forza delle armi e alla logica del più forte. Questo per noi è davvero un momento della verità. Il voto all’Onu non sarà solo per la Palestina ma per la pace».
La tregua come primo passo....
«Un primo passo necessario, fondamentale ma non esaustivo. Perché la tregua deve servire a riaprire il tavolo delle trattative. I contenuti per un compromesso accettabile ad ambedue le parti sono da tempo definiti. Non c’è nulla da inventare. Ciò che continua a mancare è la volontà politica da parte israeliana di muoversi con convinzione su questa strada. Ma noi non desistiamo. Non esiste un’alternativa alla pace. Chi pensa di poter perpetuare lo status quo coltiva una illusione, una tragica illusione. Il diritto alla sicurezza per Israele e il diritto del popolo palestinese ad uno Stato indipendente sono tra loro indissolubilmente legati. Non ci può essere pace senza giustizia. Ai governanti israeliani chiediamo di realizzare quella “pace dei coraggiosi” che fu avviata da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin».
Signor ministro, cosa intende per «Stato indipendente» di Palestina?
«Uno Stato che ha il pieno controllo di tutto il suo territorio nazionale. Uno Stato sui territori occupati nel ‘67, con Gerusalemme città aperta e capitale condivisa. Al tavolo negoziale è possibile discutere su una “ricalibratura” contenuta dei confini dei due Stati, sulla base della reciprocità. Ma perché ciò possa realizzarsi, Israele deve porre fine alla politica degli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Pace e colonizzazione sono tra loro inconciliabili. Lo stop agli insediamenti non è una nostra pregiudiziale per il negoziato, ma è il rispetto di accordi già sottoscritti da Israele».
Tregua Israele-Hamas. Garanti Egitto e Usa
A Gaza si festeggia nelle strade
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 22.11.2012)
Annunciata e poi rinviata. Negoziata nei dettagli, strappata a contraenti recalcitranti. Alla fine è tregua tra Israele e Hamas. Dopo otto giorni di ostilità costate la vita a oltre 140 palestinesi e a cinque israeliani, arriva l’annuncio del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton e del presidente egiziano Mohamed Morsi: «Israele e Hamas hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco a partire dalle 20 di stasera». In base all’accordo, Israele interromperà per prima le ostilità. A seguire, anche Hamas, la Jihad islamica, i Comitati di resistenza popolare e gli altri gruppi palestinesi faranno altrettanto.
Questo il testo dell’accordo reso noto dal portavoce della presidenza egiziana Yasser Ali: «Israele deve cessare le ostilità, atti ostili, aggressioni contro Gaza per mare, aria e terra, inclusa l’invasione e colpire obiettivi umani. Tutte le fazioni palestinesi devono cessare tutte le ostilità, atti ostili o aggressioni, e il lancio di razzi contro Israele e gli attacchi dalle frontiere. Vanno aperti i passaggi e facilitati gli spostamenti di persone che non devono essere prese di mira nelle zone di confine. L’Egitto otterrà garanzie da entrambe le parti per il rispetto dell’accordo raggiunto. Le due parti devono impegnarsi a non violare le clausole dell’accordo e in caso di violazione l’Egitto, sotto i cui auspici questo accordo è stato raggiunto, interverrà».
I garanti della tregua saranno dunque due, l’Egitto che vigilerà su Hamas e gli Usa che si impegneranno a mantenere la sicurezza di Israele.
Questo accordo è anche l’investitura del presidente egiziano Mohamed Morsi sulla scena internazionale e lo «sdoganamento» del suo governo «islamico». Lo ha riconosciuto la stessa Hillary Clinton quando ha affermato, nella conferenza stampa tenuta ieri sera al palazzo presidenziale, che il nuovo governo egiziano ha mostrato «responsabilità e leadership».
Per Hillary, forse alla sua ultima missione, è un indubbio successo personale. Il suo messaggio agli israeliani è stato chiaro ed è stato ribadito molte volte in questi giorni dalla Casa Bianca e dal presidente Barack Obama. «L’impegno americano per la sicurezza d’Israele è solido come una roccia. Ed è per questo che è essenziale evitare una escalation della situazione a Gaza» è stato il suo messaggio appena arrivata a Gerusalemme, dove ha incontrato per due volte il premier Benjamin Netanyahu. Ed è soprattutto su Israele che si è giocato il pressing Usa perché accettasse la proposta di cessate il fuoco.
LE REAZIONI
Parlando alla Nazione per la prima volta dopo l’annuncio dal Cairo della tregua con i palestinesi, Netanyahu ha spiegato di aver accettato il cessate il fuoco su pressione americana ma ha anche aggiunto che «è bene per lo Stato israeliano un cessate-il-fuoco durevole»; ha aggiunto che l’operazione «Pilastro di Difesa» ha consentito di distruggere migliaia di basi di lancio dei miliziani palestinesi a Gaza e ha ripetuto di avere voluto dare «una chance» al cessate-il-fuoco, dopo aver ammesso che in Israele c’era anche chi propendeva per una «operazione molto più dura» nei confronti di Hamas. Il premier ha infine ringraziato l’intera comunità internazionale, Usa in testa, ma anche l’Egitto di Mohamed Morsi per il suo ruolo di mediatore per l’appoggio ricevuto durante l’offensiva nell’enclave palestinese.
In cambio della tregua, Obama ha promesso ulteriori sforzi per combattere il traffico di armi ed esplosivi verso Gaza e più soldi per i programmi di difesa missilistica di Israele, come l’Iron Dome. «I nostri obiettivi sono stati raggiunti in pieno»: a sostenerlo è il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak. Fra questi, ha menzionato il rafforzamento del deterrente israeliano e la protezione delle retrovie israeliane da Hamas e dalle altre fazioni palestinesi di Gaza.
«Grande vittoria per le Brigate al-Qassam» è stato il primo commento a caldo di Hamas che celebra così la tregua conseguita a suo avviso grazie al «proprio braccio armato». In una trasmissione radio, Hamas ha chiesto alla popolazione di scendere in piazza per celebrare.
Dopo un primo momento d’incertezza, per il timore di nuovi raid dei caccia con la stella di David, Gaza ha accolto con fuochi di artificio e con raffiche di spari in aria l’inizio del cessate il fuoco con Israele. «Allah Akbar, la resistenza ha trionfato» grida la gente. Hamas prepara un raduno di massa di fronte all’ospedale Shifa: «La nostra vittoria afferma il movimento è stata completa. Israele ha dovuto accettare le nostre condizioni per una “’hudna”», ossia per la sospensione delle ostilità.
«L’avventura israeliana a Gaza è fallita», afferma in un’affollata conferenza stampa al Cairo, Khaled Meshaal, il leader di Hamas, sottolineando che le due condizioni poste da Hamas, stop agli omicidi mirati e all’invasione, sono state inserite nell’accordo di cessate il fuoco. Meshaal ha anche ringraziato l’Iran per le armi ricevute e per il sostegno finanziario garantito ai palestinesi. Proclami di vittoria. Ma quella che attende la gente di Gaza è una lunga notte di attesa. La tregua resta appesa a un filo.
All’Onu un posto per la Palestina
di Lapo Pistelli (l’Unità, 22.11.12)
COME PUÒ RIPARTIRE IL DIALOGO IN MEDIORIENTE? È velleitario pensare alla pace mentre esplodono le bombe? Possiamo arrenderci? La guerra conferma le lezioni di sempre: la forza non rende più credibili le rivendicazioni dei palestinesi, Israele conferma una indiscussa supremazia militare ma non si assicura solo così il diritto di vivere in pace, i civili e fra essi le donne e i bambini pagano un prezzo insostenibile alla logica dello scontro. La tregua interrompe la spirale dei lutti e della paura. Ma una tregua non è una pace. Ed è quello invece il nostro obiettivo per la regione più martoriata del mondo a noi vicino. È necessario però prendere le mosse da più lontano.
Israele e le fazioni palestinesi non prevedevano la primavera araba. Israele non ripone fiducia in questo processo, rivendica di essere l’unica democrazia dell’area e rimprovera l’Occidente di non capire la vera natura degli islamici al potere. Hamas e Fatah hanno sperato che la «primavera» ponesse al centro la loro questione, che le masse arabe premessero i nuovi governi. Hanno sofferto dunque la delusione di vedere i Paesi arabi concentrarsi sulle proprie transizioni. Così, si sono intrecciate più crisi. Il processo di pace è rimasto in uno stallo senza precedenti: nessuna trattativa, né palese, né riservata fra Israele e Anp.
La riconciliazione tra Fatah e Hamas, mediata dall’Egitto e firmata a denti stretti, carica di promesse di finanziamento dai Paesi del Golfo, è rimasta lettera morta. È invece continuato lo scontro in Hamas, fra il governo Haniyeh a Gaza e l’ufficio politico di Meshal, espulso da Damasco per non aver appoggiato Assad e ora ospitato in Qatar. In questo quadro cupo è maturata l’escalation delle violenze di Gaza, le azioni anti-terrorismo, i razzi, l’omicidio mirato di Al Jabaari, la cronaca di questa settimana di sangue.
Israele non ha interesse strategico a invadere Gaza per tenerla. L’azione «punitiva» deve mostrare di ridimensionare la capacità di Hamas e trasmettere un messaggio di forza alla regione, in particolare all’Iran. Ma il quadro strategico è assai diverso dal 2008. Allora, Hamas aveva al suo fianco Hezbollah in Libano, un forte regime siriano e un Iran senza sanzioni, mentre l’Egitto sosteneva Israele.
Oggi, Siria e Libano hanno altro cui pensare, Meshal ha trovato nuovo protagonismo in Egitto; Israele non può contare sulla Turchia, ma intanto l’Egitto è divenuto protettore e garante di Gaza. Si sono recati lì, l’emiro del Qatar, il premier egiziano, i ministri degli esteri turco e tunisino. Hamas non piace, ma Gaza non è più isolata. La primavera araba ha cambiato il quadro. Tregua subito. Ma quale pace vogliamo dopo? Non vediamo alternative all’obiettivo «due popoli, due Stati», anche se oggi sul campo vige semmai la regola del «due popoli, tre Stati». Da una parte il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza entro confini riconosciuti. Dall’altra il diritto del popolo palestinese a un proprio Stato. Più volte l’accordo è stato solo sfiorato.
Con chi negoziare la pace? Israele ha mostrato sempre grande pragmatismo, arrivando a trattare perfino con Al Jabaari, capo dell’ala militare di Hamas poi eliminato, la liberazione del caporale Shalit. Crediamo che sarebbe più semplice e utile negoziare con l’Autorità Nazionale Palestinese, dando un segnale al fronte moderato. Come aiutare i moderati? L’Anp ha chiesto alle Nazioni Unite di votare fra poco sullo status di Paese osservatore.
Nel 2010, il Quartetto promise che di lì a un anno la Palestina sarebbe divenuto Paese membro dell’Onu. Nel 2011, la richiesta fu affidata a un’istruttoria che ne ha certificato l’impossibilità politica ma fu chiesto a Abu Mazen di accontentarsi dello status di «osservatore». Oggi quella cambiale politica arriva a scadenza. Può il mondo chiedere ancora tempo?
Cosa devono fare l’Europa e l’Italia? Nel prossimo decennio, gli Usa ridurranno il loro impegno nel Mediterraneo e in Medioriente. L’Europa dovrà assumere un ruolo più deciso. Iniziare rifugiandosi dietro una ventilata astensione mentre la maggioranza del mondo pare orientata verso il sì, sarebbe un esordio di inutile timidezza. Non siamo ingenui ottimisti e conosciamo la fatica della politica. Proprio per questo, una tregua a Gaza, un voto alle Nazioni Unite potrebbe muovere il rapporto fra Israele e Palestina dalle secche in cui è attualmente precipitato. È questa la prospettiva dei democratici.
* responsabile esteri del Pd
Gaza non sei sola ma la politica EUROPEA ha dimenticato gli ESSERI UMANI
di amina salina
Mentre un popolo inerme viene massacrato non da 6 giorni ma da anni con un pesante stillicidio di civili uccisi in modo vigliacco dall’esercito sionista, mentre oltre l’80 per cento del popolo israeliano appoggia questo genocidio, la stampa italiana come al solito mette sullo stesso piano aggressori ed aggrediti.
Nel silenzio tombale della classe politica impegnata a rimanere col deretano attaccato alla poltrona per altri 5 anni, Nichi Vendola ha fatto alcune dichiarazioni a favore dei palestinesi per una pace giusta e duratura.
Scrive sulla sua pagina di FB:«Anche oggi penso al cielo sopra Gaza. A quelle colonne di fumo che vorrebbero nascondere l’oscena contabilità delle "vittime collaterali". Mi dicono che il governo di Israele ipotizza a breve un’operazione di terra. Gaza è sola, anche oggi. Io credo che all’Europa dovrebbero ritirare il premio Nobel per la Pace. Non lo merita».
Sempre su FB era intervenuto dicendo "Ancora morti innocenti, ancora ’esecuzioni mirate’, contrarie a ogni convenzione internazionale e, soprattutto, ad ogni elemento di diritto. La polveriera del medio Oriente rischia di scoppiare. Per noi è fondamentale l’immediato cessate il fuoco e scongiurare il paventato intervento di terra, che porterebbe morte e distruzione in una popolazione civile stremata dall’isolamento imposto da Israele. Una "spedizione punitiva" verso i palestinesi di Gaza sarebbe un crimine inaudito. Chiediamo inoltre che cessi l’occupazione militare israeliana e che il governo italiano insieme all’Ue richieda l’apertura di un tavolo negoziale, per il riconoscimento dello stato di Palestina. Auspichiamo infine che il 29 novembre prossimo l’Onu riconosca con un voto lo status di osservatore per la Palestina".
Subito e arrivata la scomunica del portavoce della Comunita Ebraica che ha dichiarato la sua contrarietà al fatto che Vendola possa avere incarichi di Governo, mettendo un’ipoteca sul futuro Governo italiano.
Da oggi siamo una colonia di Tel Aviv, come se non bastassero gli americani ci si mettono anche i sionisti italiani. Tutto questo in un clima politico allucinante dove non solo in Italia, per fini bassamente elettorali e senza un minimo di etica, le persone non sono più di competenza della politica.
Gaza non è certamente sola contando sull’appoggio a livello mondiale delle masse islamiche di uomini e donne di tutto il mondo, ebrei compresi, e addirittura di rabbini che difendono il diritto all’esistenza ed alla resistenza del popolo palestinese, un popolo a tutt’oggi senza stato, senza una vera e propria autonomia, senza un esercito che si batte disperatamente per il diritto all’esistenza sulla sua terra.
Sono 60 anni che ogni giorno muoiono civili palestinesi che sono persone, esseri viventi e senzienti, non danni collaterali, mentre si parla di loro solo come terroristi, ignorando e tacendo quello che fa Israele ai danni non solo dei palestinesi ma anche degli attivisti pacifisti non di rado picchiati o espulsi, ai danni dei bambini detenuti contro ogni convenzione internazionale, all’uso della tortura eccetera.
L’Europa non ha una politica per il Medio Oriente, cosi come non ha una politica per la crisi poiché ormai le persone non sono più di competenza della politica. Il Nobel per la Pace dato all’UE non è altro che una gigantesca ipocrisia in quanto la pace in Europa e direttamente il frutto della guerra fuori d’Europa. Cosi come i paesi ricchi vivono dello sfruttamento bestiale dei paesi poveri, oltre che dello sfruttamento un po meno bestiale dei loro stessi cittadini ed immigrati poveri, cosi l’Europa vive del traffico di armi, di cui le potenze europee sono le maggiori produttrici. Armi che vengono vendute a chiunque in modo legale o illegale dai Governi come da altri loschi soggetti.
I governanti israeliani hanno impunemente usato un linguaggio irriferibile senza scandalo per le cancellerie europee, cosi sensibili alle offese di soggetti più deboli e meno protetti. Per capire che aria tira sentite il vice premier israeliano Eli Yishai. Secondo il ministro bisognerebbe distruggere «tutte le infrastrutture, comprese strade e fonti d’acqua».
In un’altra occasione disse che i musulmani erano «inferiori all’uomo bianco». Per il vice di Netanyahu, i non ebrei dovrebbero «prestare il loro lavoro sotto forma gratuita in appositi campi». Perché, «i non ebrei che scelgono di vivere in Israele devono in qualche modo ripagare il popolo ebraico di tanta generosità». Naturalmente nessuna solidarietà viene dall’Occidente per un Governo eletto dal popolo, quello di Ismail Hanyeh, colpevole di non aver accettato il genocidio del suo popolo, viene lasciato solo da coloro che dovremmo votare con poche lodevoli eccezioni. Ricordatevene ai seggi. Vergogna.
amina salina
* Il Dialogo, 21 Novembre 2012
Cento morti in sei giorni a Gaza
Riservisti già schierati ai confini
La lista delle vittime diffusa da una blogger: «Non siamo solo numeri»
di U.D.G. (l’Unità, 20.11.2012)
Rinan Arafat, 7 anni. Omar Al-Mashharawi, 11 mesi. Walid Al-Abalda, 2 anni. Hanin Tafesh, 10 mesi. Oday Jammal Nasser, 16 anni. Fares Al-Basyouni, 11 anni. Mohammed Sa`d Allah, 4 anni. Gumana Salamah Abu Sufyan, 1 anno. Tamer Salamah Abu Sufyan, 3 anni... Non sono numeri gli oltre 100 palestinesi morti nei primi sei giorni dei raid aerei israeliani su Gaza. Ognuno di loro, ha un volto, un nome, una storia. Una giovane blogger palestinese residente a Gaza, Shahd Abusalama, ha deciso di pubblicare i nomi e l’età delle persone uccise nei raid aerei israeliani. «Siccome non siamo solo numeri, continuate a seguire questo post sui nomi ed età delle persone assassinate, vittime nei giorni scorsi degli attacchi israeliani a Gaza da mercoledì», ha scritto Abusalama sul blog.
Mentre al Cairo si tratta, a Gaza si continua a morire. In cinque giorni di attacchi i feriti sarebbero oltre 700. Lunedì mattina l’offensiva israeliana contro i gruppi palestinesi avrebbe mietuto oltre dieci vittime. In mattinata quattro persone sono state uccise in un quartiere di Zeitun, nella città di Gaza: fra le vittime 2 ragazze di 20 e 23 anni e un bambino di 5 anni. Altri tre palestinesi, tutti membri della stessa famiglia, sono morti quando l’auto sulla quale viaggiavano è stata colpita nei pressi di Deir al-Balah, zona centrale del territorio palestinese. Un’altra vittima è un agricoltore di 50 anni, ucciso dai bombardamenti su Beit Lahiya, nel nord della Striscia. Altri 2 sono morti durante un raid su Qarara, ad est di Khan Yunes, nel sud della Striscia.
Almeno 18 bambini palestinesi hanno perso la vita e 252 sono quelli rimasti feriti dall’inizio delle ostilità a Gaza, e ci sono bambini anche tra i 50 civili israeliani feriti: questi i dati dell’Unicef aggiornati alle ore 15,00 di ieri. Ma il bilancio delle vittime, avverte l’organizzazione, si aggrava di ora in ora. L’Unicef esprime la sua profonda preoccupazione per il deteriorarsi della situazione e per l’impatto che essa ha sull’infanzia sia a Gaza che in Israele.
A Gaza, secondo l’organizzazione, desta allarme soprattutto la situazione sanitaria: gli ospedali sono sovraffollati a causa dell’afflusso continuo di feriti e le scorte di alcuni farmaci si sono rapidamente esaurite. L’Unicef sta predisponendo l’invio, dal suo centro logistico di Copenaghen, di scorte di emergenza per 14 farmaci di base. In queste ore, secondo l’agenzia per l’infanzia delle Nazioni Unite, le condizioni di sicurezza non consentono interventi umanitari all’interno di Gaza, anche se 5 team di psicologi dell’organizzazione stanno visitando ospedali e abitazioni private per fornire assistenza ai bambini che hanno subito shock o hanno assistito a scene violente.
L’ATTACCO AL CENTRO MEDIA
Anche uno dei media center di Gaza City è stato colpito e almeno 4 persone sono morte, mentre diverse altre sono rimaste ferite. Si tratta di un complesso già colpito nella notte fra sabato e domenica e che ospita anche alcune redazioni giornalistiche straniere e gli studi di Al-Aqsa tv, canale di Hamas. Fra le vittime del media center c’è anche Ramez Harb, il leader delle brigate Al Quds, braccio armato della Jihad islamica. E si conta anche un primo morto in Cisgiordania: si tratta di un palestinese identificato come Rushdi al-Tamimi, 31 anni. Era stato ferito gravemente dai colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia di frontiera dello Stato ebraico mentre partecipava a una manifestazione di solidarietà con la popolazione della Striscia nel villaggio di Nabi Saleh, una quindicina di chilometri a nord-ovest di Ramallah.
La Striscia di Gaza assomiglia ormai a una «giungla di fuoco», dove la morte sembra in agguato ovunque: negli edifici governativi come nelle basi delle milizie; nello stadio di calcio come nel Media Center al-Shoruq; nei campi agricoli vicini al confine, sulle strade dove chi cavalca una motocicletta desta immediato sospetto e rischia di diventare un obiettivo di droni o aerei israeliani. Le statistiche delle vittime vengono aggiornate di ora in ora.
Dopo una notte di relativa calma nel sud di Israele, decine di razzi sono stati lanciati di nuovo verso il Negev ed uno è esploso vicino una scuola ad Askhelon, senza grandi conseguenze. L’altra notte e per tutta la mattinata di ieri, Israele ha continuato a bombardare i «siti del terrore» (postazioni per il lancio dei razzi, tunnel e campi di addestramento). Almeno ottanta gli obiettivi colpiti, tra cui anche edifici dei militanti di Hamas, tunnel per il traffico di armi tra Gaza e Rafah e lo stadio usato come base missilistica. Dall’inizio dell’offensiva, lanciata mercoledì, sono oltre 540 i razzi lanciati da Gaza e caduti in territorio israeliano.
Un comunicato del portavoce militare precisa che dall’inizio dell’operazione, l’aviazione israeliana ha colpito 1.350 «siti terroristici». Dei 75.000 riservisti israeliani richiamati in servizio per l’eventuale offensiva di terra nella Striscia di Gaza, già 40.000 sono schierati lungo il confine dell’enclave costiera, con decine di carri armati e blindati in attesa di ordini. A riferirlo è la radio israeliana. Tutto è pronto per l’invasione. A meno che al Cairo le trattative in corso per la tregua non arrivino a buon fine.
Israele, cento morti per vincere le elezioni
di Maurizio Chierici (il Fatto, 20.11.2012)
IL MESSAGGIO di un’amica che vive a Tel Aviv fa sapere quali sono le condizioni che una parte e l’altra propongono per la tregua. Israele chiede il controllo sui rifornimenti che dall’Egitto arrivano a Gaza, 15 anni di tranquillità e libertà di eliminare leader pericolosi con assassini mirati. Hamas pretende la riapertura e gestione del porto che Gerusalemme controlla. Arbitro di pace: il presidente egiziano Muri, avvolto nel sospetto che una certa Washington stia tramando per collaudare la moderazione dei Fratelli musulmani. Proposte contestate, il fuoco continua.
Due anni fa avevo pregato amici ebrei milanesi (con i quali condivido la speranza di una pace “normale”) di confortare le voci di chi trema in Israele per la violenza che coinvolge nella responsabilità dei governi il buonsenso di cittadini incolpevoli e ricattati dalla paura agitata appena una crisi politica divide il paese.
Tacere non aiuta la ragione di fronte alle violenze quotidiane dell’espropriare le terre di chi da secoli abita lì, violazione al diritto internazionale e a decisioni Onu mai rispettate. L’indignazione che avvilisce la coscienza della diaspora perseguitata da una tragedia che ci copre di vergogna, dovrebbe scoppiare ogni volta che migliaia di famiglie vengono strappate dalle loro case requisite nel nome di una “sicurezza” da trasformare in palazzoni per “coloni” arrivati chissà da dove.
L’obiettivo è rendere impossibile lo Stato palestinese e suscitare rabbie esplosive da contenere come stiamo vedendo. Alla vigilia dell’attacco a Gaza e della reazione di chi ha i razzi contati e irosamente sfida superarsenali nutriti dalle solite potenze; ancor prima che il primo ministro Netanyahu cogliesse al volo la reazione calcolata per scatenare il finimondo, Gideon Levy recensisce su Ha’aretz (ripreso da ’Internazionale) il documentario girato in un villaggio palestinese: giardini d’ulivi requisiti per costruire nuove colonie. “Film che farà vergognare ogni israeliano dotato di un minimo di onestà”. Racconta di una casa sgomberata nella notte, sempre per sicurezza. Bambini trascinati in strada e la voce di un tenente che dà ordini come chi non oso dire. Ha’aretz è il giornale che fa capire lo spirito di un Israele diverso dalle catastrofi dei protagonisti di oggi. Salviamolo.
QUALCHE GIORNO fa Avidgor Liberman, ministro degli Esteri alla Borghezio, annunciava alla signora Ashton, ministro della Commissione europea: “Se i palestinesi insistono nel voler lo Stato (disegnato dall’Onu) distruggeremo la loro Autorità e bombarderemo Gaza”. Arriva prima Netanyahu, capo del governo dimissionario: si vota e ha bisogno delle sirene della guerra per dimostrare ai falchi di Lieberman che i palestinesi lui li tratta così. Sperava nella vittoria del Romney bombe e cannoni, ma l’Obama in difficoltà per il “precipizio fiscale”, Cia decapitata, Segreteria di Stato senza segretario, è debole al punto giusto per scatenare l’inferno: palestinesi bersagli comodi e necessari. Cari amici ebrei, pacifisti sgomenti, è ancora possibile far finta di niente?
Izzeldin Abuelaish: “Il mondo deve aprire gli occhi!”
intervista a Izzeldin Abuelaish,
a cura di Anne Gujon
in “www.lavie.fr” del 18 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Ho incontrato il dottor Izzeldin Abuelaish una prima volta all’ospedale Tel A Shomer a Tel Aviv, due settimane dopo la morte di tre delle sue figlie e di sua nipote uccise durante l’operazione Piombo fuso nel 2009. Questo dramma, vissuto in diretta alla televisione israeliana, aveva svegliato gli israeliani che fino ad allora sembravano come anestetizzati, davanti agli orrori di una guerra che ha fatto 1450 morti da parte palestinese, 13 morti in Israele.
All’epoca, quest’uomo parlava già di pace. Pareva quasi una stranezza, tanto l’odio sembra naturale in simili circostanze. “L’odio è una malattia, diceva allora. Un dottore cura le malattie. Io non voglio soffrire di questo e rifiuto che i miei figli ne siano malati.”
Quattro anni dopo, di nuovo le bombe cadono sulla striscia di Gaza. Izzeldin Abuelaish vive oggi a Toronto, in Canada, con la sua famiglia. È di passaggio a Parigi per promuovere il suo libro “Non odierò” e parlare della sua fondazione Daughters for life che promuove l’istruzione delle ragazze in Medio Oriente. E ancora una volta il dottore mi sorprende: lo immaginavo immerso nei suoi ricordi, abbattuto davanti a questa storia che sembra balbettare. Ed eccolo invece, certo in ansia, ma piuttosto combattivo.
Come si sente?
Mi sento triste e angosciato di fronte a ciò che sta succedendo. Ci sono molte ferite in quella
regione del mondo. E invece di curarle non facciamo che aggravarle, le infettiamo e vi mettiamo
sopra del sale. Questo mi fa veramente arrabbiare. Che cosa potremo fare per ricostruire,
annullando i danni? Non parlo delle ricostruzioni materiali, ma delle ferite nelle menti, negli animi
causate da tutto questo orrore. I palestinesi hanno sofferto molto e continuano a soffrire.
Anche gli
israeliani sono feriti. Ma invece di dedicare energie nel curare queste piaghe, il governo israeliano
aggiunge altre ferite: non fa che aumentare l’odio e allargare il fossato tra palestinesi e israeliani.
Non è la prima volta: che cosa vogliono i leader israeliani? Hanno già fallito agendo in questo
modo! La sicurezza di Israele è forse stata rafforzata dopo Piombo fuso? No. Perché non cambiano
approccio? Tutto ciò che possono ottenere agendo così è l’aumento della paura.
Allora, secondo lei, perché il governo israeliano ricomincia?
Per orgoglio, per ignoranza. E perché la comunità internazionale non svolge il suo ruolo di arbitro. Deve alzare la voce e dire: basta, smettetela con il massacro. Se non si tratta il paziente mentre sta perdendo sangue, morirà. Dobbiamo reagire adesso. Questo nuovo picco di violenza è un test per la comunità internazionale. Siamo responsabili dei nostri atti.
Crede davvero che la comunità internazionale possa agire questa volta?
Ho appena incontrato Stéphane Hessel. Mi ha detto “Niente è impossibile in questa vita. L’Unione Sovietica era un impero, e oggi non esiste più!” Nessuno sa che cosa succederà domani. Il mondo può svegliarsi e rendersi conto di quale interesse avrebbe la comunità internazionale nel porre fine a questa ingiustizia. Permetterebbe di salvare gli israeliani da se stessi. O piuttosto di salvare il popolo israeliano dai suoi capi che portano avanti un processo di autodistruzione. Siamo in un momento chiave. Il mondo comincia ad aprire gli occhi e a guardare. Con internet e i social network il mondo è diventato un libro aperto. Non è mai stato così piccolo. Oggi la gente può farsi da sola un’opinione su ciò che avviene.
Ha notizie dei membri della sua famiglia che sono ancora a Gaza?
Li ho sentiti al telefono alcune ore fa. Erano vivi quando li ho chiamati, ma tutto può succedere. I palestinesi di Gaza sono la mia famiglia! È una grande famiglia. Ed è come se aspettassero la morte on line. Nessuno è al sicuro. Sa, i bambini sono la metà della popolazione di Gaza. Il mondo deve aprire gli occhi: non è una guerra tra combattenti ma una tragedia umana!
Dieci volte peggio dei nazisti (18) *
di Piergiorgio Odifreddi
Uno dei crimini più efferati dell’occupazione nazista in Italia fu la strage delle Fosse Ardeatine. Il 24 maggio 1944 i tedeschi “giustiziarono”, secondo il loro rudimentale concetto di giustizia, 335 italiani in rappresaglia per l’attentato di via Rasella compiuto dalla resistenza partigiana il 23 maggio, nel quale avevano perso la vita 32 militari delle truppe di occupazione. A istituire la versione moderna della “legge del taglione”, che sostituiva la proporzione uno a uno del motto “occhio per occhio, dente per dente” con una proporzione di dieci a uno, fu Hitler in persona.
Il feldmaresciallo Albert Kesselring trasmise l’ordine a Herbert Kappler, l’ufficiale delle SS che si era già messo in luce l’anno prima, nell’ottobre del 1943, con il rastrellamento del ghetto di Roma. E quest’ultimo lo eseguì con un eccesso di zelo, aggiungendo di sua sponte 15 vittime al numero di 320 stabilito dal Fuehrer. Dopo la guerra Kesselring fu condannato a morte per l’eccidio, ma la pena fu commutata in ergastolo e scontata fino al 1952, quando il detenuto fu scarcerato per “motivi di salute” (tra virgolette, perché sopravvisse altri otto anni). Anche Kappler e il suo aiutante Erich Priebke furono condannati all’ergastolo. Il primo riuscì a evadere nel 1977, e morì pochi mesi dopo in Germania. Il secondo, catturato ed estradato solo nel 1995 in Argentina, è tuttora detenuto in semilibertà a Roma, nonostante sia ormai quasi centenario.
In questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine. Con la scusa di contrastare gli “atti terroristici” della resistenza palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di migliaia di truppe. Il che d’altronde aveva già minacciato e deciso di fare a freddo, per punire l’Autorità Nazionale Palestinese di un crimine terribile: aver chiesto alle Nazioni Unite di esservi ammessa come membro osservatore! Cosa succederà durante l’invasione, è facilmente prevedibile. Durante l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi.
Ma a far condannare all’ergastolo Kesserling, Kappler e Priebke ne è bastato uno solo, e molto meno efferato: a quando dunque un tribunale internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi generali?
Piergiorgio Odifreddi
*
Repubblica cancella il post di Odifreddi su Israele. Lui lascia: “Meglio fermarsi”
Gaza, strage di bambini
Hamas: "Vicini a un accordo"
Intercettati due razzi contro la capitale, un missile colpisce Ashqelon. Continuano le trattative per un cessate il fuoco. Appello dell’Onu. Oltre 70 vittime solo da parte palestinese dall’inizio dell’offensiva. Anonymous pubblica i dati di 5.000 funzionari israeliani *
E’ STATO il giorno della strage dei bambini. Nove piccoli hanno perso la vita durante un raid israeliano a Gaza, mentre altri sono rimasti gravemente feriti. Ma in serata, proprio mentre arrivavano notizie di altre vittime palestinesi, il portavoce di Hamas, Razi Hamed, ha detto che il 90% degli elementi necessari per raggiungere una tregua con Israele sono stati definiti. Lo riferisce la rete al Jazira. Il segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-moon si è detto"profondamente addolorato" per le morti di civili nella Striscia di Gaza e "allarmato per i continui lanci di razzi contro le città israeliane". Da lui parte un appello per un "cessate il fuoco immediato"
I razzi hanno ucciso almeno 28 persone nelle ultime ore nella città. Domenica sera due uomini e un bambino di 6 anni sono morti, dopo l’ennesimo attacco. Molte ore prima, in un’incursione nel quartiere residenziale di Nasser, hanno perso la vita sette membri di una stessa famiglia. Sotto le macerie sono rimasti i corpi senza vita di due donne e quattro ragazzini. Altri tre, fra loro un bimbo di 18 mesi, sono morti nelle prime ore del giorno. Solo oggi, oltre dieci abitazioni di comandanti di Hamas o di loro familiari sono state colpite dai bombardamenti. La maggior parte era vuota, ma almeno tre famiglie si trovavano ancora all’interno. Tra gli obiettivi dell’attacco a Gaza anche l’abitazione di Ihya Abia, uno dei principali dirigenti di Hamas. Abia è rimasto ucciso.
Obama chiede una tregua. Una tensione ai massimi livelli che oggi ha spinto il presidente degli Stati Uniti Barack Obama a chiedere una tregua. "Il lancio di razzi contro Israele ha fatto precipitare la situazione a Gaza", ha detto Obama ribadendo che gli Stati Uniti sostengono il diritto di Israele all’autodifesa. "Ciò che ha fatto piombare gli eventi nella crisi attuale sono stati i razzi lanciati su zone abitate". Una possibilità che però sembra lontana. Israele sta preparando un’offensiva di terra e ha richiamato 75.000 riservisti. E oggi il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito che eventuali negoziati per un cessate il fuoco potranno iniziare solo dopo che dalla Striscia di Gaza non saranno più lanciati razzi.
Oltre 70 vittime. Si continua a combattere e il bilancio delle vittime si aggrava di ora in ora. Secondo la televisione Al Jazeera le vittime palestinesi dall’inizio dell’offensiva "Pilastro di difesa", scattata la settimana scorsa, sono oltre 70, mentre quelle israeliane sono 3. Oltre 100 razzi sono stati lanciati a sud di Israele dalla mezzanotte scorsa. L’esercito israeliano sostiene di aver colpito solo 50 strutture a Gaza, tra le quali postazioni di lancio, tunnel e depositi di armi. Israele è ancora una volta bersaglio dei cyber-attacchi da parte di Anonymous. Oggi sono stati pubblicati i dati di 5.000 funzionari israeliani.
Sirene a Tel Aviv. Paura anche a Tel Aviv, dove sono tornate a risuonare per due volte le sirene. Il sistema anti missile Iron Dome ha intercettato un missile lanciato da Gaza in direzione della città. Dopo l’avvio dell’allarme gli abitanti della città sono andati nei rifugi.Secondo le forze di sicurezza israeliana molti razzi erano senza esplosivo per spaventare il nemico. Scene di panico anche nei quartieri residenziali di Ashqelon, a Sud d’ Israele, dove da Gaza i palestinesi hanno sparato quattro missili. Un uomo è rimasto ferito. La trattativa. In serata il portavoce di Hamas, Razi Hamed, ha detto che che il 90% degli elementi necessari per raggiungere una tregua con Israele sono stati definiti. Una notizia arrivata poco dopo che l’inviato israeliano aveva lasciato il Cairo dopo aver partecipato alle trattative mediate dall’Egitto per raggiungere un accordo per una nuova tregua con Hamas. Al Cairo sono infatti in corso negoziati a cui partecipa il capo dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal, e il capo della Jihad islamica, Ramadan Shallah. La testimonianza dei cooperanti. Nella notte fra gli obiettivi dei raid israeliani anche il complesso Al-Shawa, a Gaza, dove hanno sede alcuni media locali e stranieri. "Hanno bombardato da cielo e mare, attaccando e colpendo i palazzi dei media center che ospitano radio e tv, li hanno bombardati per mettere fuori uso tutta la comunicazione interna", ha detto Meri Calvelli, una dei 9 cooperanti italiani che fino a questa mattina si trovavano bloccati a Gaza. Gli italiani sono riusciti a lasciare la zona grazie a un’operazione realizzata dal consolato generale italiano a Gerusalemme. "Siamo riusciti a lasciare la Striscia in Gaza in uno dei rari momenti in cui la situazione si era tranquillizzata" e "abbiamo raggiunto Gerusalemme". "Ora staremo qui qualche giorno, ma la nostra intenzione è tornare presto nella Striscia per dare sostegno alle famiglie più disagiate".
* la Repubblica, 18 novembre 2012
Cloud Pillar su Gaza? No. Dio non c’entra.
di Pax Christi
in “www.pahchristi.it” del 18 novembre 2012
Operazione Cloud Pillar: colonna di nuvole. Nella Torah e nel libro dell’Esodo della Bibbia, al capitolo 13, si racconta che Dio ha protetto così il suo popolo dal nemico egiziano, consentendogli di passare indenne il mar Rosso.
Ma Dio non sta con l’esercito potente di uno stato occupante, proteggendolo e difendendolo con le armi. Quel Dio che ama tutti i suoi figli non sta assecondando una strage di civili, a Gaza. Non ha ammantato di nuvole di sicurezza lo scempio di 340 civili feriti e di decine di morti in soli pochi giorni. In nome del diritto all’autodifesa non copre, con una coltre di ipocriti eufemismi, l’assassinio ‘mirato’ di nemici ‘eliminati’ da droni intelligenti. E non ha lasciato passare da nuvole intrise di morte i volantini di avviso ai civili che le bombe sarebbero arrivate, bastava spostarsi. Tutto questo lo sta compiendo in queste ore l’esercito israeliano.
La popolazione di Gaza non ha rifugi di emergenza, non ha strade per fuggire dalla gabbia in cui è costretta a vivere da anni, non ha nemmeno più la luce per illuminarle.
Dio non avvolge dentro nessuna nuvola i razzi palestinesi che hanno ucciso tre persone in Israele, e che provocano angoscia tra la popolazione dello stato occupante. Ma l’inferno di fuoco è quello che in queste ore sta bruciando ancora una volta le persone, le case, la vita della Striscia.
Chiediamo alla comunità internazionale, all’Europa e al nostro governo che intervengano per un immediato cessate il fuoco, la fine dell’occupazione militare e il rispetto del diritto internazionale.
Ci impegniamo, come cittadini italiani assieme ai credenti di ogni fede che hanno a cuore i diritti umani di ogni individuo, del popolo palestinese come di quello israeliano, a non lasciare che il fumo tossico delle menzogne di guerra diffuse da gran parte della stampa possa avvelenarci tanto da stravolgere completamente la realtà dei fatti.
Il Dio della pace, il Dio di ogni creatura, può solo coprire di un unico pianto i corpi massacrati di chi quella terra benedetta dal suo amore per tutti, chiama casa.
Noi, tutti noi, siamo chiamati a sgomberare il cielo e la terra di Palestina e Israele da nubi che soffocano la giustizia e da cingolati che straziano la vita di bambini, uomini e donne.
Pax Christi Italia
Firenze, 18 novembre 2012
Israele pronta all’attacco di terra
Centrato il quartier generale di Hamas. Mille finora gli attacchi di Tsahal
Batterie anti-missile fermano i razzi su Tel Aviv
L’Egitto media la tregua. La Lega araba: missione entro 48 ore
di U.D.G (l.’Unità, 18.11.2012)
Le sirene d’allarme spezzano il silenzio di shabbat, il sabato ebraico. Un attimo, un boato, e Israele riscopre la paura. Un missile sparato da Gaza verso Tel Aviv è stato intercettato in volo, alla periferia della città, dalla batteria «Iron Dome» di difesa aerea, entrata in attività proprio ieri. A riferirlo è la radio militare israeliana. Testimoni oculari dal canto loro hanno raccontato di aver visto levarsi in cielo, al di sopra della periferia meridionale della capitale economica dello Stato ebraico, le scie di fumo lasciate dietro di sé dai missili intercettori, e di aver udito l’eco di un’esplosione quando hanno colpito il bersaglio. Hamas ha subito rivendicato il lancio del missile, riferiscono fonti di Gaza.
Migliaia di soldati israeliani si stanno ammassando al confine con la Striscia di Gaza: lo riferisce la Cnn, precisando che l’esercito dello Stato ebraico ha mobilitato «30.000 militari» per una possibile operazione di terra. «Stiamo in una fase di espansione della campagna», ha confermato il generale Yoav Mordechai, portavoce dell’esercito, citato dall’emittente Usa. L’operazione in corso a Gaza non è ancora completata, dichiara al sito «Ynet» il ministro dell’Educazione Gideon Saar. «Hamas non è nella posizione di poter dettare alcuna condizione. Qualunque cosa ha aggiunto sia successa prima dell’operazione non continuerà dopo che sarà finita. Nel momento in cui potremo essere certi di questo, ci fermeremo». Intanto cresce il numero delle vittime. È salito a 44 (tra cui 8 bambini e una donna incinta) il bilancio provvisorio dei palestinesi rimasti uccisi dal fuoco israeliano in questa ultima tornata di violenze. Almeno dodici hanno perso la vita ieri. Lo riferiscono fonti mediche di Gaza. Tre i civili israeliani uccisi.
NUOVI RAID
Proseguono incessanti i raid israeliani nella Striscia: in sei ore sono stati colpiti 85 nuovi siti terroristici, ha riferito in tarda mattinata l’esercito. Colpita con quattro attacchi anche la sede del governo di Hamas a Gaza, che è andata distrutta, ma dove non ci sono state vittime. «I sionisti credono che il loro attacco ci indebolirà, ma è vero il contrario. Rafforza la nostra determinazione a liberare la Palestina finché non vinceremo», ha replicato su Twitter il premier di Hamas Ismail Haniyeh. Più di 255 persone sono state ferite dagli attacchi, secondo fonti mediche di Gaza, la gran parte civili, tra cui 100 bambini.
L’aviazione israeliana ha condotto 1.000 attacchi dall’inizio dell’attuale offensiva contro le infrastrutture militari di Hamas. Ad affermarlo, in un colloquio con la stampa estera, è il generale Eden Atias, ex comandante della base aerea di Nevatim (Neghev) e attuale rappresentante delle forze armate israeliane in Canada. Atias ha affermato che i piloti israeliani hanno avuto istruzione di operare a Gaza con la massima accuratezza e di evitare nei limiti del possibile danni collaterali, specialmente ai civili palestinesi. I piloti ha aggiunto sono in grado di controllare i missili anche dopo il lancio e di deviarli all’ultimo momento verso zone aperte, se necessario. Nei quattro giorni dall’inizio dell’offensiva israeliana a Gaza i miliziani palestinesi hanno lanciato 737 razzi: lo afferma un portavoce di Tsahal, precisando che 492 razzi hanno colpito il suolo del Paese mentre 245 sono stati intercettati dal sistema anti-missile.
Una corsa contro il tempo per scongiurare una invasione di terra e mediare una nuova tregua. In prima fila l’Egitto, che sta lavorando a un cessate il fuoco accettabile sia per Israele e sia per le forze di Hamas a Gaza. Le autorità del Cairo hanno contattato Hamas e la Jihad islamica per verificare se cesserebbero i lanci di razzi, su una base di reciprocità con Israele. Secondo il quotidiano palestinese «al-Quds», Hamas ha fatto sapere di volere un tangibile allentamento del blocco alla Striscia nonché la cessazione delle attività militari israeliane lungo le linee di demarcazione fra la Striscia ed il Neghev occidentale. I dirigenti di Gaza vogliono anche garanzie internazionali che impediscano ad Israele di colpire oltre i loro esponenti di spicco.
Queste richieste sarebbero state inoltrate dal leader politico di Hamas Khaled Meshaal al capo dell’intelligence egiziana, Rafat Shehade. L’«aggressione» israeliana a Gaza è un «crimine contro l’umanità», afferma dal Cairo il segretario generale della Lega araba Nabil el Araby, aprendo la riunione straordinaria dei ministri degli Esteri arabi. «A fianco dei fratelli palestinesi romperemo l’assedio israeliano». La Lega è pronta a inviare una missione a Gaza entro 48 ore. Al Jazeera considera vicino un accordo sul cessate il fuoco. Intanto, però, la morsa israeliana attorno a Gaza si fa sempre più stringente. E l’invasione di terra sempre più vicina.
Israele-Gaza, si tratta per una tregua
Hamas: pronti a discutere, ma fermare subito gli omicidi mirati *
Si fa strada l’ipotesi di una tregua tra Gaza e Tel Aviv. Nel tentativo di fermare lo scontro, l’Egitto è al lavoro per mediare, mentre il gruppo dei Paesi arabi all’Onu discute gli ultimi sviluppi della situazione, anche alla luce delle condizioni che la dirigenza di Hamas avrebbe fatto trapelare - riportano media arabi - per una possibile tregua: rimozione del blocco alla Striscia e garanzie internazionali che impediscano ad Israele di colpire i loro esponenti di spicco.
Sul campo continuano senza sosta i raid dell’aviazione israeliana sulla Striscia e la pioggia di razzi su Israele da Gaza. E il terzo attacco di oggi (in tre giorni) su Tel Aviv sembra drammatizzare ancora di più la crisi in corso. Nella città più popolosa di Israele l’atmosfera si è fatta più pesante. Allo stesso tempo, Gaza, dove oggi è stato distrutto dai raid israeliani il quartier generale di Hamas, si sta preparando ad affrontare una nuova notte di paura.
Resta in campo però l’opzione dell’operazione di terra da parte delle forze armate di Israele - con 30 mila uomini già pronti al confine - : «Se nelle prossime 24-36 ore - ha detto il viceministro degli esteri israeliano Danny Ayalon - continueranno a cadere i razzi, questo potrebbe innescarla». Dall’altra, Hamas si è detta pronta a respingere la possibile operazione terrestre, se Israele deciderà in questo senso. Al di là delle mediazioni in atto, il campo indica però un’altra realtà ed è quella del conflitto: i morti palestinesi provocati oggi dai raid israeliani sono 12 (per un totale di 44 dall’inizio del conflitto). Da parte israeliana restano le tre vittime dei giorni scorsi, a fronte di 492 razzi lanciati da Gaza che hanno colpito Israele e altri 245 intercettati dal sistema di difesa “Iron Dome”, per un totale - dall’inizio del conflitto - di 737. Gli obiettivi centrati, nell’ intero periodo, dall’aviazione israeliana - ha rivelato oggi l’esercito - sono 1000: e uno di questi questa mattina ha distrutto, senza fare vittime, la sede del governo di Hamas a Gaza.
Alle porte di Gaza sono schierati oltre 30 mila soldati israeliani, pronti ad entrare in azione se - come hanno ripetuto oggi molti esponenti militari e politici dello stato ebraico -«fosse necessario». Un quadro che parla da solo e che la diplomazia tenta di fermare ad ogni costo: a parte l’iniziativa egiziana, la Casa Bianca, pur riaffermando il diritto di Israele alla difesa contro il continuo lancio dei razzi, pre-crisi, da Gaza (additato come motivo dello scontro), teme - secondo il New York Times - che «un’incursione via terra di Israele possa danneggiare la stessa Israele e aiutare Hamas». E per questo sta facendo pressioni sul governo Netanyahu per impedirla. Anche i leader europei, da Mario Monti a Angela Merkel - che pure sostengono Israele nella sua politica - hanno affrontato con il premier Netanyahu il precipitare della crisi stessa. Monti ha assicurato in un colloquio telefonico con il suo omologo israeliano che l’Italia è pronta a svolgere «un ruolo di mediazione» e Angela Merkel - che ha incoraggiato la mediazione del presidente egiziano Mohammed Morsi -, ha concordato con Netanyahu sulla necessità di arrivare al più presto ad un cessate il fuoco che raffreddi la situazione.
Meno conciliante il premier turco Recep Tayyp Erdogan -, anche lui oggi al Cairo dove ci sarebbero pure i dirigenti di Hamas - secondo il quale «Israele dovrà rendere conto per il massacro di bambini innocenti a Gaza». Gli ha fatto eco il segretario generale della Lega Araba Nabil el Araby, deciso insieme ai ministri degli affari esteri arabi a «non allentare tutto il sostegno incluso con la rottura dell’embargo». Su questo scenario, la notte sembra riservare una nuova tappa dello scontro.
* La Stampa, 17/11/2012
Mohamed El Baradei: «La Striscia è una prigione. La soluzione non è nelle armi» Ex direttore dell’Aiea, premio Nobel per la pace, tra i protagonisti della «primavera egiziana», fondatore del partito laico Al-Dostour di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 16.11.2012)
La nostra conversazione spazia dal Medio Oriente in fiamme alla controversa transizione egiziana. Un giro d’orizzonte alquanto interessante se il «compagno di viaggio» è un uomo che ha accumulato nel corso della sua vita pubblica un bagaglio considerevole d’esperienza: Mohamed El Baradei, già direttore dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica delle Nazioni Unite, premio Nobel per la pace, tra i protagonisti della «primavera egiziana».
A Gaza è guerra: «Non basta far tacere le armi riflette El Baradei se poi si lascia che la Striscia di Gaza resti una enorme prigione a cielo aperto, isolata dal resto del mondo, dove cresce solo rabbia e disperazione. Non c’è pace senza giustizia, e giustizia vuole che al popolo palestinese sia riconosciuto finalmente il diritto ad uno Stato indipendente. È con la politica e non con le armi che Israele può difendere la sua sicurezza. Israele ha nel presidente Abbas (Abu Mazen, ndr) un interlocutore saggio, disposto a negoziare una pace giusta, duratura, tra pari. Delegittimarlo come Israele sta facendo è un altro errore esiziale».
El Baradei si sofferma anche sul dossier iraniano e sulle voci di contatti segreti tra Washington e Teheran: «Non so se questi contatti si sono svolti - osserva l’ex direttore dell’Aiea ma sono convinto che il dialogo costruttivo è la linea giusta da seguire, perché le sanzioni da sole non risolveranno il problema, tanto meno l’opzione militare che, se praticata, avrebbe effetti devastanti per l’intero Medio Oriente e per la sicurezza nel mondo. Se l’Iran venisse aggredito, riceverebbe immediato appoggio non solo da tutti i cittadini iraniani, ma anche da quasi tutti gli abitanti del Medio Oriente, oltre che da un vasto numero di persone sparse in tutto il mondo».
«Prego aggiunge affinché una cosa simile non possa mai accadere. Mi auguro che gli israeliani si rendano conto che una tale decisione ne minerebbe gravemente la posizione, invece che consolidarne la sicurezza. La questione potrà essere risolta solo quando Stati Uniti e Iran decideranno di sedersi al tavolo delle trattative intenzionati a giungere a una soluzione che accontenti entrambi».
A Gaza è di nuovo guerra. È la resa dei conti finale tra Israele e Hamas?
«Chi lo pensa è un irresponsabile e gioca con il fuoco. Già in passato, Israele ha provato a risolvere con la forza il “problema-Hamas” eliminando molti dei suoi dirigenti. Ma altri li hanno sostituiti e la storia si ripeterà. Non è con le armi che Israele potrà sentirsi più sicuro. La sua sicurezza è legata indissolubilmente alla realizzazione del diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente. Un diritto fin qui colpevolmente negato».
C’è il rischio che la guerra di Gaza possa estendersi?
«Certo che sì. Ed anche per questo che l’incendio va domato al più presto. La “primavere arabe”, non in termini anti-israeliani ma come parte di quelle istanze di libertà e di giustizia che non valevano solo per l’interno. Sono il primo a ritenere che non esista alternativa al dialogo e che il diritto di resistenza non vada confuso con attacchi indiscriminati contro i civili. Ma, lo ripeto, alla pace va data una chance, vera, reale. Solo così potranno essere sconfitti gli estremisti».
Mentre a Gaza si combatte, l’Egitto fa i conti con una transizione difficile e per molti aspetti contraddittoria.
«Dagli avvenimenti dell’ultimo anno dobbiamo trarre la lezione che divisi si perde. La divisione delle forze laiche, democratiche e progressiste ha pesato in misura decisiva alla vittoria di Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani nelle elezioni presidenziali. Occorre voltar pagina e l’unità raggiunta tra Al-Dostour (il partito della Costituzione di cui El Baradei è stato co-fondatore, ndr) e l’Al-Adl (Giustizia», partito laico centrista, ndr) va nella giusta direzione».
A proposito di Costituzione, un punto centrale nel programma dell’Al-Dostour, è proprio quello di battersi per una nuova carta costituzionale che recepisca lo spirito e le istanze che furono alla base della rivolta anti-Mubarak.
«La Costituzione è la legge fondamentale, quella che dà l’impronta ad un Paese, e i suoi dettami non possono compromettere la libertà umana, la dignità e l’uguaglianza. Diritti civili e giustizia sociale: sono i pilastri di una battaglia che ha come posta in gioco il futuro dell’Egitto».
Lei è stato molto critico con i Fratelli Musulmani. Perché?
«Perché il modo in cui il Fratelli Musulmani gestiscono il bene pubblico si scontra con i tentativi del popolo di trasformare l’Egitto in uno Stato di diritto. A ciò si aggiunga che nulla è stato fatto per migliorare le condizioni di vita della popolazione e offrire una prospettiva alle nuove generazioni. La lotta ora non è a Piazza Tahrir (il centro della rivolta anti-Mubarak, ndr) ma nell’arena politica. L’impegno del mio partito è quello di radicarsi in ogni segmento della società egiziana».
Scene di guerra a Gaza: ucciso il capo militare di Hamas
Israele: «È solo l’inizio» La risposta: «Sarà l’inferno»
di U.D.G. (l’Unità, 15.11.2012)
La guerra è iniziata. È la guerra di Gaza. Sono di disperazione e rabbia le prime reazioni a Gaza dopo l’uccisione da parte d’Israele di Ahmed Jaabari, capo militare di Hamas, considerato in questi anni il vero uomo forte della Striscia. Nell’ospedale Shifa di Gaza, dove è stato portato il cadavere dello «shahid» (il martire), sono presto giunti i suoi più stretti familiari. Attorno a loro si è raccolta in pochi minuti una folla di migliaia di persone: fra queste, numerosi combattenti di Hamas, precipitatisi in armi a dare l’estremo saluto al loro capofila. All’ospedale il lutto si è intrecciato al furore, mentre i miliziani sparavano in aria prolungate raffiche di arma automatica e invocavano a gran voce vendetta contro «l’occupante». «Adesso ci sarà una nuova guerra con Israele», è ormai la convinzione di molti, fra la gente della strada. Poco lontano dall’ospedale, nella centrale via Omar al-Mukhtar, un’altra folla è rimasta lungamente radunata sfidando gli allarmi per i ripetuti raid israeliani attorno alle lamiere contorte dell’automobile su cui viaggiava oggi Jaabari, centrata in pieno nel primo pomeriggio da un missile aereo. In quei momenti da altre zone di Gaza già rimbalzavano le prime notizie frammentarie su ulteriori esplosioni e nuovi attacchi condotti dall’aviazione con la Stella di David.
«COLONNA DI NUVOLA»
Secondo alcune informazioni, due altri responsabili militari di Hamas sarebbero stati uccisi dal fuoco israeliano: Raed Attar e Muhammed al-Ammas. Ma Hamas per ora non conferma queste perdite. Fonti di Gaza parlano di sei morti, tra cui il figlio di Jaabari. Nel frattempo i dirigenti politici della fazione islamica, dal capo dell’esecutivo Ismail Haniyeh in giù si sono resi irreperibili. In base a piani di emergenza pronti da tempo, tutti sembrano aver immediatamente spento i propri telefoni cellulari e raggiunto località segrete dalle quali dovranno riaversi dalla sorpresa e organizzare una prima reazione contro Israele. Tutte le formazioni armate si sono già dette pronte a una risposta coordinata. Ma mentre a Gaza calavano le tenebre, era l’aviazione israeliana a mantenere l’iniziativa: fra incursioni e incessanti voli di ricognizione lanciati nel tentativo di intercettare le cellule dei lanciatori di razzi e i loro bunker. Il cielo della Striscia è destinato d’altronde a restare illuminato dal fuoco per molte ore, prevede la gente, mentre sull’altro lato del fronte i primi razzi palestinesi partono in direzione di Beer Sheva, nel Neghev, e della città di Ashqelon.
«L’esercito è pronto a estendere l’operazione, se necessario», avverte il premier di Israele Benyamin Netanyahu parlando in serata alla tv dopo gli attacchi aerei su Gaza. «Non siamo disposti ha continuato Netanyahu nel suo discorso in tv ad accettare che i nostri civili siano minacciati da continui lanci di razzi». Il premier ha poi sottolineato che «nessun paese al mondo accetterebbe una situazione del genere». «Siamo solo all’inizio di questo evento, non alla fine. Occorrerà mantenere la vigilanza sia in territorio israeliano, sia in Cisgiordania», gli fa eco il ministro della difesa israeliano Ehud Barak, in un intervento in diretta dalle emittenti televisive dal ministero della difesa, riguardo all’operazione nella Striscia.
«Gli obiettivi della operazione “Colonna di nuvola” aggiunge Barak sono i seguenti: il rafforzamento del deterrente israeliano; la distruzione dei depositi di razzi palestinesi a Gaza; la necessità di infliggere colpi a Hamas e alle altre organizzazioni terroristiche; e la difesa delle retrovie di Israele». Barak, riferisce la televisione commerciale Canale 2, ha ordinato il richiamo immediato di alcune unità di riservisti per far fronte alla situazione creatasi a Gaza sull’onda dell’uccisione del capo militare di Hamas, riferisce la televisione commerciale Canale 2. Israele ha colpito a Gaza, secondo il portavoce militare, diversi siti dove Hamas custodiva razzi con una gittata superiore ai 40 chilometri: dunque potenzialmente minacciosi per la zona centrale di Israele, Tel Aviv inclusa.
Sul fronte opposto, il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha chiesto la convocazione urgente di una riunione straordinaria della Lega Araba per discutere dell’ondata di raid aerei israeliani sulla Striscia. Lo riferisce l’agenzia egiziana Mena dal Cairo, dove ha sede la Lega. E sempre dal Cairo arriva la notizia l’Egitto ha richiamato il suo ambasciatore in Israele per consultazioni dopo gli attacchi lanciati dall’esercito israeliano sulla Striscia di Gaza. Uccidendo Ahmed Jaabari, Israele ha «aperto le porte dell’inferno», proclamano in un comunicato le brigate Ezzedine al-Qassam. Nella nota, le «Brigate» scrivono di «portare il lutto di uno dei loro capi principali, Ahmed Jaabari, e s’impegnano a continuare sul cammino di resistenza... l’occupante si è aperto da solo le porte dell’inferno». La guerra è iniziata.
La campagna elettorale di Netanyahu e Lieberman
La scelta dell’obiettivo ha un valore simbolico oltre che operativo:
i falchi giocano la partita finale contro Hamas. E contro il moderato Abu Mazen
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 15.11.2012)
Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman hanno iniziato la loro campagna elettorale. Scegliendo il terreno più favorevole alla destra israeliana: quello della sicurezza. E lo hanno fatto scegliendo con cura l’obiettivo da colpire. Una «cura» che tiene insieme vari piani: da quello simbolico a quello operativo. Con la consapevolezza che Hamas non può non rispondere alla sfida lanciata da Israele. Una sfida mortale. Che dalla Striscia di Gaza può estendersi al vicino Egitto e al fronte Nord, quello con Siria e Libano, facendo dell’intero Medio Oriente una polveriera pronta ad esplodere. La posta in gioco è politica ma, come spesso accade nell’eterno conflitto israelo-palestinese, la «partita» è condotta con lo strumento di sempre: quello militare. Uno strumento che diviene ancor più dirompente ogni qual volta la diplomazia alza bandiera bianca.
AZZARDO
Da tempo il negoziato tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) è in stallo. E da tempo la «questione palestinese» sembra essere uscita dalle priorità internazionali di Usa ed Europa. Una latitanza colpevole perché, come i più avvertiti analisti israeliani e palestinesi non hanno mai smesso di denunciare anche attraverso le colonne dell’Unità, pensare di perpetuare lo status quo in Terrasanta è una illusione, una tragica illusione, anticamera di nuovi, sanguinosi conflitti. Come quello riapertosi ieri a Gaza. L’uccisione del capo militare di Hamas va oltre il diritto di difesa rivendicato dallo Stato ebraico a fronte dei ripetuti lanci di razzi dalla Striscia contro le città frontaliere israeliane. Chiudere il «lavoro» iniziato 4 anni fa con l’Operazione «Piombo Fuso» e infliggere un duplice colpo mortale: ad Hamas ma anche alla leadership moderata di Mahmud Abbas (Abu Mazen) colpevole, agli occhi dei falchi israeliani, di aver rialzato la testa rilanciando l’«intifada diplomatica» con la richiesta che sarà discussa il 29 novembre al Palazzo di Vetro di veder riconosciuto alla Palestina lo status di «Stato non membro» (modello Vaticano) all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Una «provocazione» per Israele, al punto che se Abu Mazen si ostinerà su questa strada e se la maggioranza dell’ Assemblea voterà a favore, allora la sola opzione per Israele è rovesciare il presidente palestinese e il suo governo. L’ipotesi israeliana è contenuta in una bozza di documento del ministero degli Affari esteri dello Stato ebraico guidato dall’ultranazionalista Lieberman, citato ieri dai media israeliani e internazionali che hanno ripreso un servizio della tv pubblica Canale 2.
La nuova guerra di Gaza ha questa portata. E, stavolta, non prevede terzi tempi. Da qui, la scelta dell’uomo da eliminare: Ahmed Jaabari, capo militare di Hamas, considerato in questi anni il vero uomo forte della Striscia. Un uomo temuto, ma anche circondato da un alone di ammirazione popolare. Fra l’altro gli viene attribuito un ruolo chiave nella gestione del rapimento di Shalit, il soldato israeliano catturato nel 2006 e tenuto in ostaggio nella Striscia di Gaza per oltre cinque anni, fino allo scambio con oltre mille detenuti palestinesi imposto a Israele nel 2011. Alla fine è lui a scortare personalmente la «preda» a Rafah, posto di frontiera con l’Egitto, al momento del rilascio.
La decina di razzi sparati in serata da Gaza verso la città israeliana di Beer Sheva, nel Neghev, così come la minaccia di una ripresa di attacchi suicidi nelle città israeliane per «vendicare il martire» Jaabari, danno conto di una guerra destinata a segnare le prossime settimane, a due mesi dal voto (anticipato) in Israele. L’agenda della campagna elettorale è già stravolta: l’emergenza sociale terreno su cui i laburisti intendevano concentrare la propria iniziativa risalendo nei sondaggi è destinata a lasciare il campo all’emergenza sicurezza, terreno su cui la destra israeliana si muove con ben maggiore disinvoltura. Israele torna in trincea: da Gaza al Golan, mentre resta ancora in campo l’opzione militare contro l’Iran.
Le armi dettano i tempi della politica. Il futuro si fa passato, e il caos di Gaza e la paura di Beer Sheva sembrano riportare indietro le lancette del tempo. L’eterno presente è nella convinzione (dei falchi che governano Israele) che possa esistere una soluzione militare alla questione palestinese. L’eterno presente è nell’illusione, propria del variegato fronte radicale palestinese, che i diritti nazionali di un popolo possano realizzarsi per via armata. La storia ha dimostrato che ambedue sono scorciatoie impraticabili, peggio, disastrose. La legge del più forte può far vincere una battaglia, magari una elezione, di certo, però, annienta qualsiasi soluzione politica dell’eterno conflitto israelo-palestinese. L’uso della forza serve a mascherare un vuoto di strategia politica da parte israeliana. Così come le divisioni interne al campo palestinese hanno fortemente indebolito l’autorevolezza internazionale della leadership di Abu Mazen.
La guerra di Gaza inchioda la comunità internazionale alle proprie responsabilità, o per meglio dire, all’irresponsabilità dell’inazione. A cominciare dal rieletto presidente Usa. All’inizio del suo primo mandato, Barack Obama aveva affermato di voler porre la questione israelo-palestinese tra le priorità della sua politica estera, puntando sulla soluzione a due Stati. Quel «nuovo inizio» è rimasto confinato nell’etereo alveo delle buone intenzioni. Sta a Obama, e con lui ai leader europei, dare un segno di vita. Subito. Perché il tempo non lavora per la pace. La guerra di Gaza ne è una tragica conferma.
«La Palestina all’Onu come Stato non membro»
IL CAIRO - Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato ieri sera al Cairo ai ministri degli Esteri della Lega Araba riuniti nella capitale egiziana che la domanda di ammissione della Palestina come Stato non membro dell’Onu verrà presentato all’Assemblea Generale dell’organismo il prossimo 29 novembre. Abbas, che la settimana scorsa aveva parlato di questo tema con il segretario generale della Lega Araba, Nabil Al Araby, ha chiesto l’appoggio delle nazioni arabe: «Non vogliamo scontrarci con gli Stati Uniti né con Israele. Se sarà possibile iniziare un dialogo o dei negoziati il giorno seguente al voto, noi la faremo - ha aggiunto -. Vogliamo però che il mondo comprenda che i territori palestinesi sono sotto occupazione». Attualmente l’unico rappresentante dei palestinesi all’Onu è l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) che ha ottenuto lo status di osservatore nel 1974. La campagna per ottenere un seggio per l’Autorità palestinese era iniziata lo scorso anno.
* Corriere della Sera, 13.11.2012
Israele: prova di logoramento.
di Rosario Amico Roxas
Un ufficiale della polizia del governo di Gaza e due membri delle brigate al-Qassam sono stati uccisi all’alba di giovedì 15 novembre.
Le vittime identificate nella giornata di mercoledì sono:
Ahmed Said Khalil Al-Jabari, 52 anni; Mohamed Hamed Subhi al-Hams, 28 anni; Mohamed Hani Ibrahim, 18 anni; Essam Mahmoud Ahmed Abu al-Ma’za, 19 anni; Heba Adel Mashharawi, 19 anni; Rinan Yousef Arafat, 3 anni; Omar Mashharawi Jihad, 11 mesi; Mahmoud Abu Soawin, 65 anni.
Nessuna azione intrapresa dalle Nazioni Unite.
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha tenuto una riunione di emergenza a New York, per discutere degli attacchi israeliani contro la Striscia di Gaza, ma non ha intrapreso alcuna azione.
Il governo di Gaza, l’Anp di Ramallah, il governo egiziano, che mercoledì ha richiamato il proprio ambasciatore da Tel Aviv, così come altri nel mondo, insieme alla Fratellanza Musulmana, hanno chiesto alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale di fermare la mattanza israeliana contro la Striscia di Gaza.
Le navi da guerra israeliane hanno preso parte all’aggressione in corso nella Striscia di Gaza per il secondo giorno consecutivo, e hanno sparato decine di missili e aperto il fuoco di mitragliatrici pesanti contro le case adiacenti la spiaggia, mentre l’artiglieria israeliana ha sparato contro le zone orientali. I Palestinesi della Striscia di gara hanno poi esercitato il diritto alla difesa, pur con i mezzi modestissimi di cui dispongono.
C’è la sensazione che il sionismo israeliano voglia mettere alla prova il neo-eletto Obama e tenersi pronto per il grande attacco all’Iran.
Rosario Amico Roxas
Così Vittorio restò umano
di Egidia Beretta Arrigoni (il manifesto, 13 novembre 2012)
Il suo «battesimo» come scudo umano, nel primo viaggio in Palestina, fu proprio con i piccoli. Fuori dalle scuole ad attenderli non c’erano i genitori ma i carri armati e Vittorio, con altri internazionali, a frapporsi fra di loro. Quei soldati aspettavano solo il lancio di una pietra per puntargli i cannoni addosso. Quando ci sentivamo per telefono, da Gaza, udivo spesso un gran frastuono di sottofondo. Erano i bambini. «Se tu sapessi, mamma, quanti bambini ci sono a Gaza! Sono qui sotto che mi stanno chiamando perché mi vedono affacciato alla finestra e vogliono che vada da loro.»
Era un’affinità spirituale, intima, quasi mistica, quella che Vittorio aveva con i ragazzini. Era la gioia nel riconoscersi simili, l’innocenza ritrovata. Ancora adesso, quando mi invitano nelle scuole per parlare di lui, mi accorgo di come i bambini mi seguano con occhi incantati.
«L’estate scorsa a Nablus mi sono reso conto, puntando gli occhi in aria, di quale potenza di suggestione abbia la fantasia dei bambini. Chiusa da mesi e mesi, le strade semideserte, le piazze ridotte a un cumulo di macerie, in aria si scorgeva la sfida dei bambini. Guardata verso l’alto, Nablus appariva come una città in festa, centinaia e centinaia di aquiloni ne coloravano il cielo in vortici di volo, come a dichiarare al mondo un segno di libertà a cui tutti questi uomini in miniatura agognano. I soldati sparano spesso contro gli aquiloni, sono il primo bersaglio dopo i lampioni per strada di notte. Ma ad ogni aquilone distrutto, il giorno dopo se ne presentano di nuovi più belli e colorati. "Possono rinchiuderci, toglierci il cibo, l’acqua e anche la luce, ma non potranno mai privarci dell’aria, del cielo e della nostra voglia di sognare", mi mormora un bambino impegnato a sciogliere la matassa dei suoi sogni incastrati su un’insegna arrugginita». (Vittorio, Nablus, estate 2003)
Quei bambini, il bersaglio più comodo. «Sfilano timorosi con gli occhi rivolti in alto, arresi ad un cielo che piove su di loro terrore e morte; timorosi della terra che continua a tremare sotto ogni passo, che crea crateri dove prima c’erano le case, le scuole, le università, i mercati, gli ospedali, seppellendo per sempre le loro vite». (Vittorio, Gaza City, 7 gennaio 2009).
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Non si uccidono così neanche i gattini. «Recandomi verso l’ospedale Al Quds dove sarò di servizio sulle ambulanze tutta la notte, correndo su uno dei pochi taxi temerari che zigzagando ancora sfidano il tiro a segno delle bombe, ho visto fermi a un angolo della strada un gruppo di ragazzini sporchi, coi vestiti rattoppati, tali e quali i nostri sciuscià del dopoguerra italiano, che con delle fionde lanciavano pietre verso il cielo, in direzione di un nemico lontanissimo e inavvicinabile che si fa gioco delle loro vite. La metafora impazzita che fotografa l’assurdità di questi tempi e di questi luoghi. Restiamo umani.» (Vittorio, Gaza City, 8 gennaio 2009).
Vittorio si era innamorato di Handala, questo bambino palestinese creato dalla matita di Naji Ali che gira le spalle al mondo perché il mondo volta le spalle a lui. Se l’era fatto tatuare su un braccio e raccontava dell’entusiasmo che aveva suscitato fra i palestinesi del campo profughi di Beddawi, in Libano. Tutti conoscevano la storia di Handala. Che un ragazzo italiano lo portasse con sé, forse significava che Handala aveva trovato un amico e aveva finalmente deciso di girarsi. Dopo la morte di Vittorio il disegnatore brasiliano Carlos Latuff li unì in un disegno. Un’immagine che è diventata universale. Vittorio, con la sua pipa e il berretto da marinaio, si gira sorridendo verso Handala tenendolo per mano; il bambino, ancora di spalle, alza però il braccio a indicare la «V». «V» di vittoria e «V» di Vittorio?
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Da Nablus i suoi racconti iniziarono a farsi più duri, taglienti come coltelli, cominciarono le descrizioni delle case occupate, dei check point, delle corse in ospedale. I check point a volte potevano rappresentare la differenza che passa tra la vita e la morte. File interminabili di persone, molti vecchi, ammalati, donne incinte, che attendevano di poter tornare a casa o recarsi al lavoro o in ospedale. A volte chiudevano all’improvviso e si doveva aspettare la notte intera prima che riaprissero. È facile intuire la rabbia e l’angoscia provate da Vittorio di fronte a questi evidenti soprusi.
Portava spesso una maglietta dei Nirvana, una specie di portafortuna, e raccontava che quei «bambocci», come lui definiva i soldati israeliani ai check point, innamorati del rock americano, ammiravano trasognati la maglietta, e aprivano i cancelli più in fretta.
«Check-point. Mi sono mosso un paio di giorni fa verso Nablus. Giunto innanzi alle porte della città ho veduto una fila di 200 persone sotto un sole cocente che soffrivano e soffocavano per il caldo impietoso e nel tentativo di tornare a casa. Io ultimo della fila, mi preoccupavo del rischio disidratazione che le ore di attesa sotto trentacinque gradi mi avrebbero potuto ben presto riguardare, quando qualcuno mi ha messo a braccetto il più anziano e malato di tutti: "Tu puoi passare, tu puoi passare, tu puoi far passare quest’uomo". Allora ho baciato la mano tremante di questo vecchio arabo, e sussurrandogli le poche parole che conosco della sua lingua tanto per tranquillizzal ci siamo incamminati verso il filo spinato e il cannone del carro armato sembrava riprenderci come in un film. Ho percorso 150 metri fra i bambini piangenti, carrozzelle con infanti e carretti cosparsi di alimenti che si sfaldavano al sole e verdura e frutta che veniva depredata da sciami di insetti. Donne disperate pregavano sotto vesti soffocanti. Uomini tristi e accovacciati in attesa del loro turno. Di fronte al gabbiotto dove il mio passaporto veniva sfogliato con dovizia di domande, ho recitato per benino la parte del turista capitato lì per caso (per caso, a Nablus sotto assedio?) e mi sono stupito ancora una volta della poca arguzia di questi ragazzini vestiti da soldati. Sono scivolato via senza problemi con il baba sottobraccio che mormorava incessantemente parole di benedizione in mio favore». (...)
«A volte il check-point chiude improvvisamente, allora intere famiglie sono costrette a dormire per strada in attesa che pigri ufficiali di servizio decidano di riaprire le imposte la mattina seguente. Un dottore di Ramallah mi ha mostrato i dati che segnano le morti durante le lunghe attese ai posti di controllo, un centinaio di persone in cura di dialisi decedute nei primi due anni di Intifada. E quante madri con un bimbo in grembo, in attesa di un cesareo, sono morte al di là del filo spinato?» (Vittorio, Nablus, estate 2003).
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Sabato 27 dicembre Vittorio mi chiamò verso le 11 del mattino e con sgomento mi annunciò che Gaza era sotto attacco. I bombardamenti erano iniziati. La domenica ci fu la prima strage di bambini. Durante la Messa ascoltai le parole dell’Antico Testamento e mi parvero scritte per le mamme di Gaza. Le pubblicai su Guerrilla. «28 dicembre 2008 - Santa messa nel IV giorno dell’Ottava di Natale - Santi innocenti martiri - Dal Vangelo secondo Matteo: «Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande. Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» - Geremia, 31, 15.
Io sono Rachele e migliaia di madri con me. Quando finirà questo olocausto? «Caro Vittorio, in questa ultima mezzanotte dell’anno siamo qui, io e papà, ad ascoltare i botti che diventano i rumori della guerra. Vediamo le facce e gli auguri ipocriti in tv e pensiamo a te, a voi. Nelle nostre calde case, al sicuro, solo minimamente riusciamo a essere voi e a provare quel che provate. Ci aiutano le tue parole. Hai il dono di saper trasformare in parole - e che parole! - i pensieri, i convincimenti e i sentimenti. È anche questa una missione e la stai compiendo molto bene». (...) «Non ti faccio auguri da formuletta, mi auguro e ti auguro che tu tenga in buon conto la tua vita, che è preziosa, per le future battaglie che ti aspettano nell’anno che verrà. Ti pensiamo sempre e ti abbracciamo. Mamma e papà». (da Egidia a Vittorio, 31 dicembre 2008).
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La motivazione e l’obiettivo dell’attacco addotta dal governo israeliano era la distruzione di Hamas. Ma non solo il gruppo non venne distrutto, riuscì al contrario a consolidare il proprio potere, ristabilendo anche, in quelle circostanze, rapporti migliori con Al Fatah. Chi pagò il prezzo dei bombardamenti furono gli abitanti di Gaza: Piombo fuso si trasformò in una carneficina di civili, soprattutto bambini.
«Quando le bombe cadono dal cielo da diecimila metri, state tranquilli, non fanno distinzioni fra bandiere di Hamas o Fatah esposte sui davanzali. Non esistono operazioni militari chirurgiche: quando si mette a bombardare l’aviazione e la marina, le uniche operazioni chirurgiche sono quelle dei medici che amputano arti maciullati alle vittime senza un attimo di ripensamento, anche se spesso braccia e gambe sarebbero salvabili. Non c’è tempo. Bisogna correre, le cure impegnate per un arto seriamente ferito sono la condanna a morte per il ferito successivo in attesa di una trasfusione». (Vittorio, Gaza City, 31 dicembre 2008).
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La fine dei bombardamenti su Gaza non riportò la normalità in quella terra straziata. Ci fu la conta dei morti, oltre 1400, in ampia maggioranza civili. Vittorio partecipò a numerosi funerali. Ogni cosa sembrava sospesa, non si poteva ricostruire perché le macerie invadevano le strade, si viveva nelle tende, c’era poco da mangiare. Si rimpastava il vecchio pane ammuffito, o si utilizzava la farina che veniva data normalmente agli animali. Israele non lasciava passare nulla attraverso i valichi, perché considerava pericolosa ogni merce, a iniziare dal cemento, dal ferro, dal vetro, ma nulla scuoteva il mondo dall’apatia verso il popolo palestinese martoriato.
Dopo le bombe, le distruzioni, le morti, Vittorio non fu più lo stesso. Riprese a uscire con i pescatori e con i contadini, ma ci confidò gli incubi a occhi aperti che popolavano le sue giornate e le sue notti. Non passava giorno senza che ricevesse richieste di interviste da radio, giornali, televisioni. Era sempre disponibile; sperava, attraverso i media, di poter comunicare a sempre più persone ciò che stava vivendo il popolo di Gaza. Gli interessava molto poco la celebrità; si stupiva se in una manifestazione compariva il suo motto: «Restiamo umani».
«Cara famiglia, spero che ora converrete con me che la decisione di voler tornare quaggiù, e subito, era la decisione più giusta. Immaginatevi se non ci fosse stato nessuno a raccontarlo questo massacro...». (...)
«Soprattutto, adesso che ho modo di leggiucchiare le centinaia di mail che ho ricevuto, pare che la forza delle mie parole abbia veramente scosso le coscienze, riscosso ciò che di umano in molti si era assopito. Sono stati giorni d’inferno, e continuano a essere durissimi. Potevamo morire, siamo sopravvissuti. L’inferno non è certo finito. Io in particolare, minacciato di morte da più parti, se sono rimasto vivo è perché non sono stato lasciato solo, preda di questo moloch fascista assetato di sangue. Non lasciato solo da migliaia di persone, ma soprattutto dalla mia famiglia, le mie radici affettive. Non so se mi sto guadagnando un posto in paradiso, certo è che lenire l’inferno di questi innocenti è una vita che vale la pena di essere vissuta... Restiamo umani». (Vittorio, Gaza City, 27 febbraio 2009).
Saeb Erekat: «Obama dica sì a un posto all’Onu per la Palestina»
Capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp)
È la memoria storica del lungo processo negoziale in Terrasanta
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 9.11.2012)
«Una vittoria di Romney sarebbe stata la pietra tombale per la pace in Medio Oriente. La nostra speranza è che la seconda presidenza di Barack Obama sia una presidenza di pace, stabilità e democrazia nel corso della quale venga realizzato il principio dei “due Stati” ed Israele si ritiri lungo le linee antecedenti la guerra del 1967». Da una speranza a una richiesta: «Chiediamo al presidente Obama di non opporsi alla richiesta avanzata dal presidente Abbas (Abu Mazen, ndr) di essere riconosciuti come “Stato non membro” all’Assemblea generale delle Nazioni Unite». Così è vista la rielezione di Barack Obama dal campo palestinese e da uno dei suoi più autorevoli esponenti: Saeb Erekat, 57 anni, capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), memoria storica del lungo e tortuoso processo negoziale in Terrasanta. Quanto al presente, Erekat non si fa soverchie illusioni sulla disponibilità al dialogo della controparte israeliana: «Netanyahu e Lieberman dice a l’Unità Erekat hanno rigettato anche le ultime aperture del presidente Abbas. Se Obama vuole davvero imprimere una svolta in Medio Oriente, deve riporre al centro della sua agenda internazionale la questione palestinese e non avallare più la politica unilateralista e colonizzatrice dei falchi israeliani».
All’inizio del suo primo mandato presidenziale, Barack Obama aveva manifestato la volontà di riportare la questione israelo-palestinese ai primi posti della sua agenda internazionale, sostenendo apertamente la soluzione “due Stati”.
Cosa si aspetta ora con la sua rielezione?
«Parole importanti che, però, in questi quattro anni non si sono trasformate in fatti. Al momento della sua prima elezione, il presidente Obama aveva suscitato grandi speranze ed aspettative tra i palestinesi e nel mondo arabo. Obama aveva parlato di un “Nuovo Inizio”, di un dialogo alla pari tra l’Occidente e il mondo arabo e musulmano ed aveva affermato il diritto del popolo palestinese a vivere in uno Stato indipendente a fianco d’Israele. Ma le sue buone intenzioni si sono scontrate con l’intransigenza dei governanti israeliani che hanno proseguito nella colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, rendendo impossibile un vero dialogo e un serio compromesso. Se Obama vuole determinare una svolta in Medio Oriente deve incrinare il “Muro” dell’intransigenza edificato da Netanyahu e Lieberman. D’altro canto, non è un caso che i falchi israeliani abbiano tifato per Romney...».
Lei parla di atti concreti di Obama che segnalino un “nuovo inizio”. Ne può indicare uno in particolare?
«Il sostegno alla richiesta, in discussione nelle prossime settimane all’Onu, di un nostro riconoscimento come “Stato non membro” all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Vogliamo che la Palestina torni sulla mappa, entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Ben 150 nazioni su 170 l’hanno riconosciuta. Speriamo che il presidente Usa sia dalla nostra parte. Obama deve fermare la politica degli insediamenti e le altre violazioni israeliane e non la richiesta palestinese all’Onu. Appoggi la nostra richiesta che certo non mette in pericolo l’esistenza d’Israele: un suo sostegno, questo sì che sarebbe un grande segnale di speranza per quanti, in campo palestinese ma anche in quello israeliano, credono ancora nel dialogo e in una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”».
Più volte, la leadership palestinese ha affermato la sua disponibilità a tornare al tavolo delle trattative ponendo come condizione il blocco degli insediamenti. C’è chi sostiene, anche in Europa, che questa richiesta è in contrasto con l’appello, rilanciato di recente dal presidente francese Francois Hollande, ad una ripresa “senza condizioni” dei negoziati.
«Noi non poniamo condizioni alla ripresa dei negoziati, e Netanyahu come il presidente Hollande sanno bene che il congelamento della colonizzazione non è una condizione palestinese, ma un impegno israeliano. Quello che poniamo non sono condizioni, ciò che chiediamo è l’applicazione da parte di Israele dei suoi impegni, a cominciare dalla cessazione della colonizzazione e dalla liberazione dei prigionieri palestinesi. Mi lasci aggiungere che un negoziato non può durare in eterno, altrimenti non di negoziato si tratta, ma di una farsa che nessun dirigente palestinese, neanche il più disposto al compromesso sarà mai disposto ad avallare».
Nuovo tentativo di forzare il blocco
Israele, nave per Gaza bloccata dalla Marina
di Francesca Paci (La Stampa, 21.10.2012)
Fra i trenta attivisti a bordo dell’Estelle un italiano e cinque deputati europei Gli attivisti filo-palestinesi a bordo del veliero «Estelle» hanno mancato l’obiettivo concreto - essendo stati fermati dall’esercito israeliano prima di raggiungere Gaza - ma sono riusciti nell’intento «politico» di puntare ancora una volta l’indice contro il blocco navale che isola Gaza dal 2007, la presa di potere di Hamas.
Israele fa sapere che i circa 20 militanti, tra cui alcuni parlamentari internazionali e l’italiano Marco Ramazzotti Stockel, «non hanno opposto resistenza», scongiurando così lo spettro di due anni fa, quando nell’arrembaggio alla nave turca Mavi Marmara morirono 9 persone. Ma dalla Freedom Flotilla, salpata dalla Svezia il 6 ottobre, replicano ribadendo la propria «missione umanitaria» e denunciando «l’assalto di navi da guerra» all’imbarcazione «disarmata», un’azione che il portavoce di Hamas Abu Zuhri definisce «pirateria, crimine contro l’umanità e disprezzo del diritto internazionale» giacché, sostiene, avvenuta in acque internazionali).
Gaza è l’estrema frontiera e non solo geografica per Israele (ma anche per Hamas che sembra ne stia perdendo il controllo a vantaggio dei salafiti e per palestinesi di Cisgiordania che ieri, a differenza dei fratelli di Gaza, hanno votato per le amministrative). A bordo della «Estelle», che si trova ora al porto di Ashdod in attesa dell’espulsione dei suoi passeggeri, c’è anche l’attivista israeliano Reut Mor. «Il blocco è inumano e immorale» dice al suo governo che ne ripete la necessità in funzione anti-terrorismo. Due giorni fa la Freedom Flotilla aveva ricevuto il plauso del linguista americano Noam Chomsky in visita a Gaza.
La Estelle circondata al largo
Flottilla Italia: "Israele ci attacca"
La nave che trasporta aiuti umanitari ed attivisti filo-palestinesi verso Gaza abbordata dalla Marina israeliana. "Persi i contatti con le persone a bordo". C’è anche un italiano, attivata la Farnesina. Ora il veliero diretto verso il porto di Ashdod *
ROMA - La Estelle, la nave che trasporta, oltre ad aiuti umanitari, un gruppo di attivisti filo-palestinesi determinati a forzare il blocco navale imposto da Israele, è stata bloccata al largo dalle navi dello Stato ebraico. "Siamo sotto attacco", ha detto all’Ansa uno dei responsabili stampa di Flotilla Italia, spiegando: "abbiamo perso i contatti con le persone a bordo, siamo convinti sia in corso un attacco". Un portavoce militare israeliano ha confermato l’avvenuto abbordaggio del veliero, "in accordo con le leggi internazionali e con le direttive del governo israeliano dopo aver effettuato ogni tentativo di impedire alla nave dal raggiungere la Striscia di Gaza".
La nave, con bandiera finlandese ma di proprietà svedese, è salpata da Napoli il 6 ottobre 1, dove aveva fatto tappa, con a bordo 20 persone di otto diversi Paesi - fra cui l’italiano Marco Ramazzotti Stockel - con l’intenzione di sfidare, in modo pacifico, il blocco imposto da Israele nei confronti di Gaza, attuato dopo che Hamas ha assunto il controllo della Striscia, nel 2007.
L’ambasciata italiana a Tel Aviv si è attivata per seguire la situazione "affinchè venga garantita l’incolumità del nostro connazionale che risulta imbarcato sulla Flotilla", ha fatto sapere il ministero degli Esteri italiano.
"Abbiamo seguito la nave tutta la notte e la navigazione è proceduta serenamente, come da programma, fino a questa mattina", racconta Paola Mandato di Freedom Flottilla Italia. "Alle 10:20, improvvisamente, l’ultima segnalazione: ci stanno arrembando". Il veliero, partito originariamente dalla Svezia tre mesi fa, è stato circondato e abbordato da unità israeliane in acque internazionali, a 17 miglia nautiche a nord della località egiziana di Arish, riferiscono gli attivisti.
A bordo ci sono attivisti per i diritti umani e membri dei Parlamenti di diversi Paesi europei. Il veliero era diretto a Gaza in missione di pace, sottolineano da Flottilla, spiegando che la nave è disarmata, in missione umanitaria, con cargo ispezionato più volte, equipaggio con dichiarate intenzioni non violente, in rotta da acque internazionali direttamente in acque territoriali di Gaza. "A bordo ci sono alberi di ulivo, stampelle, sedie a rotelle, palloni da calcio, generi di prima necessità ma anche attrezzature teatrali, libri per bambini, strumenti musicali", spiega ancora Mandato.
Ora il veliero viene condotto verso il porto di Ashdod. Secondo un portavoce militare israeliano, l’abbordaggio è avvenuto dopo diversi richiami all’equipaggio che ha ignorato gli appelli a cambiare rotta. I soldati, ha riferito il portavoce, "non hanno avuto bisogno di usare la forza, i passeggeri sono stati accuditi e a loro sono stati offerti cibi e bevande". Dopo l’arrivo nel porto di Ashdod, saranno trasferiti alla custodia della polizia israeliana e delle autorità di immigrazione del ministro dell’interno.
I partigiani e il veliero amico dei palestinesi
di Marco Rovelli (l’Unità, 29.09.2012)
UNA COLTRE DI SILENZIO È CADUTA SULLA PALESTINA, DOPO LE PRIMAVERE ARABE E LA CRISI SIRIANA. Eppure lì le cose continuano ad andare male come sempre: la West Bank colonializzata e frantumata come un arcipelago di tante isolette non comunicanti fra loro, Gaza assediata da un blocco che priva i suoi abitanti dei più elementari diritti umani, oltre che distruggendo l’economia del Paese. Ecco dunque l’importanza, anche solo simbolica e comunicativa, di imprese come quella della Freedom Flotilla. Nel 2010 una nave turca venne attaccata dagli israeliani, che fecero nove morti, mentre l’anno scorso le navi vennero bloccate in porto in Grecia.
Stavolta è stato un gruppo di svedesi ad acquistare un vecchio veliero finlandese, Estelle, che adesso si sta dirigendo verso Gaza. In questo viaggio la nave ha fatto tappa in diversi porti, e adesso è attraccata nel porto di La Spezia, dove stamani, al molo, ci sarà un corteo marino dove vecchi partigiani accoglieranno l’equipaggio, nel pomeriggio visite guidate alla nave, e in serata un concerto. Poi sarà la volta di Napoli, dove il Comune ha patrocinato l’evento (tutti i programmi su freedomflotilla.it).
A bordo, nell’equipaggio, c’è Dror Feiler, un ex paracadutista israeliano che nel 1970 si rifiutò di prestare servizio nei Territori occupati, uno dei primi refusniks. Feiler, che oggi è un artista, e portavoce dell’organizzazione European Jews for a Just Peace, era presente sulla nave turca assaltata dai militari israeliani, e anche lo scorso anno era sull’unica nave che riuscì a salpare dalla Grecia. È necessario sostenere queste imprese, fatte di tante singole testimonianze come quella di Feiler: laddove la politica internazionale non è in grado di risolvere la questione, è solo l’impegno dal basso che può sbrogliare il tragico intrico della matassa israeliano-palestinese.
Il discorso ‘sparito’ del patriarca
di Giovanni Panettiere (Quotidiano.net, 16 settembre 2012)
«Il riconoscimento dello Stato palestinese è il bene più prezioso che il mondo arabo possa ottenere in tutte le sue confessioni cristiane e musulmane». Quelle parole non avrebbe dovuto pronunciarle, almeno non davanti al papa, ma, alla fine, il patriarca greco cattolico melchita di Damasco,
Gregorio Laham III - al vertice di una comunità di oltre 1,3 milioni di fedeli -, ha rotto gli indugi. Accogliendo l’altro giorno Benedetto XVI nella basilica di San Paolo ad Harissa, in Libano, dove il Santo Padre ha firmato l’esortazione apostolica post sinodale sul Medio Oriente, il presule si è lanciato in un pieno e convinto sostegno alla causa palestinese, spronando il pontefice a dare il via libera allo Stato arabo.
Per il patriarca «il riconoscimento potrà garantire la realizzazione degli orientamenti espressi in questa esortazione apostolica post-sinodale per la quale abbiamo manifestato la nostra più viva gratitudine. Preparerebbe la strada verso una vera primavera araba, una vera democrazia e una vera rivoluzione capace di cambiare il volto del mondo arabo e dare la pace alla Terra Santa, al vicino Oriente e al mondo».
Non è la prima volta che Laham III si sbilancia sulla questione palestinese. Solo due anni fa, nel corso del sinodo sul Medio Oriente, il patriarca tradì la sua simpatia per Ramallah, senza però incontrare il favore della maggioranza dei padri sinodali. Nei giorni scorsi, invece, sul sito ufficiale della visita del papa in Libano (www.lbpapalvisit.com), era stato pubblicato in anteprima il testo del saluto del presule a Benedetto XVI. L’intervento conteneva anche un richiamo esplicito alle vicende della Terra santa. Ma il messaggio in rete c’è rimasto solo qualche giorno: alla vigilia dell’arrivo di Ratzinger è stato espunto dal web. Censura vaticana?
«Il testo è stato rimosso semplicemente perché questo genere di interventi si pubblicano dopo che sono stati pronunciati», si è affrettato a dire il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi. Appena in tempo, dal momento che fonti vaticane avevano già manifestato una certa irritazione per l’anteprima dell’intervento di Laham III. «È solo la posizione personale del patriarca», avevano precisato alla stampa. In effetti, la tesi del melchita appare chiaramente in disaccordo con l’orientamento della diplomazia d’Oltre Tevere, più propensa ad attendere un intervento delle Nazioni unite che ad avanzare la prima mossa sul terreno minato del riconoscimento di uno Stato palestinese.
Tolto il discorso dal web, Laham III ha tenuto il suo discorso davanti al pontefice. Liberamente, o quasi. Rispetto alla versione pubblicata on-line, il saluto pronunciato ad Harissa è stato, infatti, ripulito dei riferimenti più problematici: via il passaggio sul riconoscimento dello Stato palestinese come «atto coraggioso di equità, di giustizia e di verità», omesso il rimando al Vaticano che, con il disco verde a Ramallah, finirebbe «per incoraggiare gli altri Stati europei e non solo a riconoscere la sovranità dello Stato palestinese». A questa revisione del testo si aggiunge il caso della ripubblicazione sul sito ufficiale del viaggio papale: nonostante siano trascorsi due giorni dalla sua pronuncia, dell’intervento non c’è traccia. Molto probabilmente, una volta che il papa sarà rientrato a Roma, la pagina verrà aggiornata per dare al pubblico un quadro d’insieme della tre giorni in Medio Oriente. Al momento nulla si muove.
Senz’altro Ratzinger avrebbe preferito omettere nella sua visita in Libano qualsiasi riferimento alla politica, specie quella israelo-palestinese dato il rapporto, non sempre facile, tra il Vaticano e Tel Aviv. Solo qualche settimana fa Israele aveva protestato con la Santa sede per la nomina del nuovo nunzio apostolico, mentre resta sempre aperta la questione della beatificazione di Pio XII.
Benedetto XVI, come è suo stile, avrebbe voluto dare un taglio esclusivamente pastorale alla sua tre giorni in Medioriente. Tuttavia, di fronte alle violente manifestazioni nel mondo islamico di questi giorni, c’’è da chiedersi se il richiamo alla Palestina del patriarca Laham III non sia stato, non solo inevitabile, ma anche utile per allentare le tensioni tra Occidente e musulmani.
Giovanni Panettiere
Sabra e Chatila
Entrai in quel campo, ecco ciò che vidi
Puzza di morte: è l’orrore della Storia
di Robert Fisk (il Fatto e The Independent, 16.09.12)
Quei ricordi, ovviamente, non si cancellano. Lo sa bene l’uomo che aveva perso la sua famiglia in un precedente massacro e poi vide, impotente, i giovani di Chatila costretti a mettersi in fila e a marciare verso la morte. Ma il tanfo dell’ingiustizia soffoca ancora i campi profughi nei quali esattamente 30 anni fa furono massacrati 1700 palestinesi. Nessuno è stato processato e tanto meno condannato per quel massacro, che persino uno scrittore israeliano paragonò all’assassinio dei partigiani jugoslavi ad opera dei simpatizzanti nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Sabra e Chatila sono un monumento eretto ai criminali che l’hanno fatta franca.
KHAKED ABU Noor era un adolescente, un futuro miliziano ed era partito per le montagne poco prima che i falangisti alleati di Israele facessero irruzione. Si sente in colpa per non aver potuto combattere contro i violentatori e gli assassini? “Il sentimento che ci accomuna è la depressione”, mi risponde. “Abbiamo chiesto giustizia, abbiamo invocato processi internazionali, ma nulla è accaduto. Nemmeno una sola persona è stata ritenuta colpevole di quell’orrore. Nessuno è finito dinanzi ad un tribunale. Forse per questo abbiamo dovuto soffrire ancora nella guerra del 1986 (per mano dei libanesi sciiti) e forse per questo gli israeliani hanno potuto massacrare moltissimi palestinesi nel 2008-2009 durante l’invasione di Gaza. Se i responsabili del massacro di trenta anni fa fossero stati processati, non ci sarebbero stati i morti di Gaza”. Ha le sue ragioni per pensarla a questo modo.
L’11 settembre a Manhattan decine di presidenti e primi ministri hanno fatto la fila per commemorare le vittime dell’attentato criminale al World Trade Center, ma nemmeno un leader occidentale ha avuto il coraggio di far visita alle fosse comuni sudice e spoglie di Sabra e Chatila. Ad onor del vero, va detto che in trenta anni nemmeno un solo leader arabo si è preso la briga di visitare il luogo in cui riposano almeno 600 delle 1700 vittime. I potenti del mondo arabo piangono, a parole, per la sorte dei palestinesi massacrati nei campi, ma nessuno ha voluto affrontare un breve volo per rendere omaggio a questi morti dimenticati.
E poi chi se la sente di offendere gli israeliani o gli americani? Per ironia - ma significativa - del destino, il solo Paese che ha svolto una seria indagine ufficiale, pur finita in un nulla di fatto, è stato Israele. L’esercito israeliano lasciò entrare gli assassini nei campi e rimase a guardare senza intervenire mentre le atrocità si consumavano.
La testimonianza più significativa è quella fornita dal sottotenente israeliano Avi Grabowsky. La Commissione Kahan ritenne l’allora ministro della Difesa di Israele, Ariel Sharon, personal-mente responsabile per aver consentito ai sanguinari falangisti anti-palestinesi di fare irruzione nei campi “per ripulirli dai terroristi” - rivelatisi inesistenti come le armi di distruzione di massa dell’Iraq 21 anni dopo.
Sharon fu costretto a dimettersi, ma in seguito divenne primo ministro fin quando fu colpito da un ictus. Elie Hobeika, il leader della milizia cristiana libanese che guidò gli uomini nei campi - dopo che Sharon aveva detto ai falangisti che i palestinesi avevano appena assassinato il loro capo Bashir Gemayel - fu assassinato qualche anno dopo nella zona est di Beirut. I suoi nemici dissero che era stato ucciso dai siriani, i suoi amici incolparono gli israeliani. Hobeika, che aveva stretto una alleanza con i siriani, aveva appena annunciato che avrebbe “detto tutto” sulle atrocità di Sabra e Chatila dinanzi ad un tribunale belga che voleva processare Sharon.
Naturalmente quanti di noi entrarono nei campi il terzo e ultimo giorno del massacro - il 18 settembre 1982 - hanno i loro ricordi. Io ricordo il vecchio in pigiama disteso a terra supino nella strada principale del campo con accanto il suo innocente bastone da passeggio, le due donne e il bambino uccisi accanto a un cavallo morto, la casa privata nella quale mi nascosi dagli assassini insieme al collega del Washington Post, Loren Jenkins. Nel cortile della casa trovammo il cadavere di una giovane. Alcune donne erano state stuprate prima di essere uccise. Ricordo anche la nuvola di mosche, l’odore penetrante della decomposizione. Queste cose le ricordo bene.
ABU MAHER ha 65 anni. La sua famiglia era fuggita da Safad, oggi Israele, e abitava nel campo profughi nei giorni del massacro. Sulle prime non voleva credere alle donne e ai bambini che gli dicevano di scappare. “Una vicina di casa cominciò ad urlare, guardai fuori e vidi mentre la uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. La figlia tentò di fuggire; gli assassini la inseguirono gridando ‘Ammazziamola, ammazziamola, non ce la lasciamo sfuggire! ’. Lanciò un grido verso di me, ma io non potevo fare nulla. Ma riuscì a salvarsi”.
Le ripetute visite ai campi, anno dopo anno, hanno creato una sorta di narrazione ricca di stupefacenti particolari. Le indagini condotte da Karsten Tveit della Radio norvegese e da me hanno provato che molti uomini, proprio quelli che Abu Maher vide marciare ancora vivi dopo il massacro iniziale, in seguito furono consegnati dagli israeliani agli assassini falangisti che li tennero prigionieri e Beirut est per diversi giorni e, quando si resero conto che non potevano servirsene per scambiarli con ostaggi cristiani, li giustiziarono e li seppellirono in fosse comuni.
Altrettanto atroci e crudeli le argomentazioni a favore del perdono. Perché ricordare alcune centinaia di palestinesi massacrati quando in 19 mesi in Siria furono uccise 25.000 persone? I sostenitori di Israele e i critici del mondo musulmano negli ultimi due anni mi hanno scritto insultandomi per aver più volte raccontato il massacro di Sabra e Chatila, come se il mio resoconto di testimone di quelle atrocità fosse soggetto alla prescrizione.
Sulla base dei miei interventi su Sabra e Chatila raffrontati con miei articoli sull’oppressione turca, un lettore mi ha scritto che “sono portato a concludere che nel caso di Sabra e Chatila, lei mostra un pregiudizio contro Israele. Giungo a questa conclusione per il numero sproporzionato di citazioni di questa atrocità...”. Ma è possibile esagerare nel ricordare un massacro? La dottoressa Bayan al-Hout, vedova dell’ex ambasciatore a Beirut dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ha scritto la più autorevole e dettagliata ricostruzione dei crimini di guerra di Sabra e Chatila - perché di questo si è trattato - ed è giunta alla conclusione che negli anni seguenti la gente aveva paura a ricordare.
“POI ALCUNI gruppi internazionali hanno cominciato a parlarne. Dobbiamo ricordare: le vittime portano ancora le cicatrici di quei fatti e ne saranno segnati anche coloro che debbono ancora nascere”. Alla fine del libro, al-Hout pone alcuni interrogativi difficili e pericolosi: “Gli assassini sono stati i soli responsabili? Possiamo definire criminali solo gli autori del massacro? Solo chi diede gli ordini può essere considerato responsabile? ”. In altre parole, non è forse vero che il Libano aveva un parte di responsabilità a causa dei falangisti, Israele un’altra parte a causa del comportamento del suo esercito, l’Occidente un’altra parte per avere Israele come alleato e gli arabi un’altra parte per avere gli americani come alleati? Al-Hout chiude citando le parole con le quali il rabbino Abraham Heschel si scagliò contro la guerra del Vietnam: “In una società libera alcuni sono colpevoli, ma tutti sono responsabili”. © The Independent, Traduzione di Carlo Biscotto
I morti e i vivi, una strage lunga 40 ore
Il Libano e la rimozione della grande vergogna
di Roberta Zunini (il Fatto, 16.09.2012)
Beirut Un cane randagio dorme accanto al piccolo massetto di marmo su cui appassiscono due solitarie corone di fiori, ignaro di essere accucciato sulla terra che ricopre dal settembre del 1982, i corpi di bambini, donne e anziani soprattutto palestinesi, ma anche libanesi, trucidati, smembrati, sgozzati e sventrati, nel vicino campo profughi di Sabra e Chatila dai falangisti cristiani. Dopo aver schivato paccottiglie varie, pile di ciabatte di plastica e computer di contrabbando, allineati senz’ordine sul marciapiede fino al cancello d’ingresso di questo spiazzo vuoto, grande non più di 500 metri quadrati, la sensazione che si prova è di squallore e desolazione. Sopra la fossa comune solo terra riarsa, qualche bottiglietta d’acqua vuota buttata qua e là, un pacchetto di sigarette accartocciato e quattro bandierine palestinesi ammosciate dietro una povera sfera di alluminio.
I cartelloni con le foto dei corpi ammassati sono sbiaditi e ricoperti di polvere. Questo indegno cimitero è la prova che gli uomini - gli autori del massacro quanto la comunità internazionale - non intendano, ancor oggi, assumersi la responsabilità di quanto accaduto. Come leggere altrimenti questa incuria? Osservando come vengono trattati i familiari dei morti, i sopravvissuti e, in generale, tutti i profughi palestinesi che oggi vivono nel campo, si ha un’ulteriore prova della totale indifferenza del mondo nei confronti di quanto accadde 30 anni fa.
BASTA SPOSTARSI di poche centinaia di metri dal cimitero e si incrocia Sabra, che è la via d’accesso al campo di Chatila. Un odore di pollame e fogna a cielo aperto dà il benvenuto. Da lì in poi solo vicoli stretti, bui, grondanti di fili elettrici scoperti che sfiorano le teste dei 12mila abitanti registrati dall’ente Onu che dovrebbe provvedere alla pulizia, all’istruzione, al rifornimento di medicinali. In uno dei tanti cubi di cemento che arrivano fino a 5 piani lavora Nasser Saleh. “Idee tante per migliorare la vita dei profughi ma pochissimi soldi”, dice mentre bussano alla porta. Portare a termine un discorso è quasi impossibile: il pellegrinaggio di derelitti che vengono a implorare questo giovane libano-palestinese di trovare loro un lavoro, di dar loro un po’ di soldi per le loro case, di mandare i genitori nell’ospedale di un altro campo, è infinito.
La disoccupazione è altissima anche perché dal 1997 i rifugiati palestinesi non possono fare lavori fuori dal campo. Nemmeno gli spazzini. Ma è proibito soprattutto svolgere professioni che richiedono l’iscrizione agli albi professionali: medici, ingegneri, avvocati che sono riusciti a laurearsi, possono lavorare solo dentro questa prigione a cielo aperto. Così i loro padri, sono costretti a cercare altre fonti di guadagno. O prendere la tessera di Hamas o Fatah, i partiti palestinesi che hanno una rappresentanza nel campo e offrono cibo e denaro da mettere da parte per cercare di andare illlegalmente in Europa o negli Usa.
Ogni anno dal campo scappano centinaia di persone. “Vorremmo andarcene legalmente ma ottenere un permesso di studio o di lavoro è quasi impossibile. Bisogna che un cittadino del paese dove decidiamo di andare presenti al proprio ministero un invito che serve da garanzia. Funziona così anche se vogliamo andare a fare un viaggio”, ci spiega in inglese Lara, una bellissima 17enne, figlia di Maria, una sopravvissuta palestinese di religione cristiana e Ahmed, scampato al massacro di Tel al-Zaatar. Maria aveva 7 anni la notte in cui iniziò la strage, durata 40 ore. Passiamo con Ahmed davanti a un garage trasformato in cimitero: sotto una colata di cemento ci sono 700 corpi. Ma si tratta dei morti della rivolta dei campi del 1985. “Meglio la morte che una vita senza diritti, emarginati e allontanati da tutti”, dice con le lacrime agli occhi.
Il terrorismo, la violenza e i valori di Bibi
di Moni Ovadia (l’Unità, 25 agosto 2012)
Il 19 agosto il quotidiano israeliano Ha’aretz, in un articolo a firma di Barak Ravid, ha riferito che il 16 un taxi palestinese ha preso fuoco nei territori occupati, nei pressi dell’insediamento israeliano di Bat Ayin, per il lancio di una bomba incendiaria da parte di alcuni coloni mentre viaggiava vicino al campo rifugiati di Al Arub che si trova vicino alla colonia israeliana. L’atto criminale ha provocato il ferimento grave di sei palestinesi appartenenti alla stessa famiglia.
L’articolo riferisce che il giorno dopo 4 giovani palestinesi sono stati aggrediti a Gerusalemme da una dozzina di loro coetanei israeliani, che secondo alcuni testimoni, giravano in cerca di palestinesi da pestare. Jamal Julani, una delle vittime dell’attacco, versa in serie condizioni. Julani, 17 anni, proveniente dal quartiere di Gerusalemme di Ras al Amud, è stato ammesso all’unità di terapia intensiva dell’ospedale universitario di Hadassah, Ein Karem.
Il vice primo ministro Moshe Aya’alon ha detto: «Gli attacchi dei coloni contro arabi nel West Bank e a Gerusalemme sono atti terroristici. I crimini di odio commessi nel weekend contro arabi in Giudea e Samaria (sic!) e a Gerusalemme sono oltraggiosi ed intollerabili e vanno affrontati con la massima fermezza». Ha poi soggiunto: «Questi attacchi terroristici sono contrari all’etica e ai valori ebraici e costituiscono un fallimento educativo e morale».
Ma di quale fallimento parla il ministro, e soprattutto di quale etica e di quali valori. Quali sarebbero i valori ebraici del governo di Bibi? L’occupazione di terre altrui? La colonizzazione perversa capillare ed inarrestabile di terre espropriate contro tutte le norme della legalità internazionale? Lo sradicamento di migliaia di ulivi? Il razionamento dell’acqua? La demolizione sistematica di case palestinesi? La costruzione di una prigione a cielo aperto? Il disprezzo razzista per chi chiede i propri diritti di popolo? L’apartheid de facto? Il muro della vergogna?
Questi non sono valori ebraici, sono i valori barbari di un nazionalismo fanatico e ottuso. Il governo di Bibi non solo ha fatto carne di porco dei valori ebraici ma insulta, intimidisce, perseguita coloro che con passione e disperazione, in Israele e in Diaspora, continuano a difenderli
LA SENTENZA
La morte di Corrie "uno spiacevole incidente"
per corte di Haifa avrebbe ignorato il pericolo
L’attivista Usa, travolta da un bulldozer militare nel 2003 a Gaza, è stata uccisa mentre protestava in forma non violenta contro la demolizione di alcune abitazioni palestinesi. Lo Stato, ha detto il giudice, non può considerarsi responsabile per alcun "danno causato" in situazioni di combattimento *
ROMA - Finisce con una sconfitta la battaglia legale avviata in Israele dai genitori di Rachel Corrie, l’attivista americana di 23 anni schiacciata da un bulldozer dello Stato ebraico mentre faceva da scudo umano contro la demolizione di alcune case palestinesi.
La morte della ragazza è infatta stata definita in ultima analisi "uno spiacevole incidente". Per la corte di Haifa, l’uccisione di Rachel è stato niente altro che un deplorevole evento che la vittima avrebbe potuto evitare, perché consapevole dei rischi cui andava incontro.
Il tribunale distrettuale di Rafah ha così respinto la richiesta di indennizzo dei genitori, che avevano avviato un causa civile contro lo Stato israeliano, accusandolo di essere responsabile dell’uccisione della figlia e di non aver condotto un’indagine credibile.
Il giudice Oded Gershon ha sottolineato che Israele non può considerarsi responsabile per alcun danno provocato in situazioni di combattimento, ha ricordato l’attacco subìto dai militari dello stato ebraico, nella stessa zona, nelle ore immediatamente precedenti la morte di Corrie, e ha infine spiegato di non aver riscontrato alcuna negligenza da parte dell’esercito israeliano e che l’inchiesta della polizia militare è stata condotta nel modo opportuno.
"Non vi è alcun fondamento per richiedere un indennizzo allo Stato", ha concluso, sottolineando che Rachel "si mise da sola e volontariamente in pericolo. Fu un incidente da lei stessa provocato". Una formula che ha lasciato Cindy Corrie, madre della vittima, "profondamente rattristata e dispiaciuta".
"Anche se non sorprendente, questo verdetto è un esempio ulteriore della vittoria dell’impunità sulla responsabilità e sulla onestà ", ha commentato l’avvocato Hussein Abu Hussein, legale della famiglia Corrie, dopo aver appreso della decisione del tribunale.
Attivista dell’International Solidarity Movement - lo stesso in cui militava Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza l’anno scorso - Rachel era originaria di Olympia, nello Stato di Washington. Il 16 marzo 2003, assieme ad altri compagni, stava cercando di ostacolare le operazioni di demolizione israeliane a Rafah, nel sud della Striscia, al confine col Sinai. Era di fronte alla casa di un medico palestinese, un amico, quando fu investita da una ruspa. Gli israeliani stavano portando avanti una campagna di demolizioni delle abitazioni arabe e l’obiettivo, secondo le autorità di Tel Aviv, era fermare gli attacchi contro l’esercito e i coloni ebrei a sud della Striscia, lungo il confine con l’Egitto.
La comunità internazionale condannò la pratica, che secondo l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, lasciò senza la casa oltre 17mila persone tra il 2000 e il 2004. Per gli attivisti filopalestinesi Corrie è diventata il simbolo delle repressioni da parte delle autorità israeliane nei confronti del movimento nonviolento di protesta.
"Questa corte - ha aggiunto l’avvocato - in questo modo ha avvallato pratiche illegali, fra cui l’aver trascurato la protezione di vite umane. E questo verdetto biasima in definitiva la vittima, sulla base di fatti presentati al giudice in forma distorta".
Da parte sua, la rappresentante della pubblica accusa ha sostenuto che nel dibattito processuale è stato dimostrato oltre ogni dubbio che il conduttore del bulldozer militare non poteva in alcun modo vedere, dalla propria cabina, la figura di Rachel Corrie, che si era venuta a trovare a brevissima distanza dal veicolo.
* la Repubblica, 28 agosto 2012
L’Unesco accoglie la richiesta dei palestinesi
La Natività di Betlemme patrimonio dell’umanità.
Protestano Usa e Israele
di Alberto Mattioli (La Stampa. 30.06.3012)
La Basilica della Natività è la chiesa più celebre di Betlemme dove la tradizione vuole che sia nato Gesù Per i palestinesi «esisteva il rischio che fosse danneggiata o distrutta» Da ieri, la Basilica della Natività di Betlemme fa parte del Patrimonio mondiale dell’umanità.
L’ha deciso l’Unesco durante la sessione del Comitato ad hoc a San Pietroburgo, in Russia. Il sito del «Luogo della nascita di Gesù» che comprende, oltre alla chiesa, anche la strada dei pellegrini, è stato ammesso con procedura d’urgenza, come chiedevano i palestinesi. A voto segreto, su 21 membri del Comitato 13 hanno votato sì, sei no e due si sono astenuti.
Fin qui l’aspetto culturale. La questione, però, è tutta politica. L’Unesco è la prima organizzazione dell’Onu ad aver ammesso lo Stato palestinese e la Basilica è il primo sito palestinese a ottenere il bollino dell’Unesco. Naturalmente, la decisione è stata pesantemente contestata da Israele e dagli Stati Uniti. Già l’ammissione dei palestinesi, nell’ottobre scorso, aveva scatenato una crisi politica, subito diventata anche economica per l’organizzazione perché gli Usa hanno congelato per rappresaglia il loro contributo. Adesso la polemica riparte.
La lite non è se la Basilica sia o meno un patrimonio dell’umanità, ma se fosse opportuno applicare la procedura d’urgenza. Il Consiglio internazionale dei monumenti e dei siti (Icomos) aveva infatti dato parere sfavorevole, chiedendo ai palestinesi di rivedere il dossier della candidatura e le misure di conservazione previste. Identica l’opinione delle tre chiese che celebrano nella chiesa, cattolica, grecoortodossa e armena, che temono «strumentalizzazioni».
I palestinesi, ovviamente, giubilano. «Questo riconoscimento da parte del mondo dei diritti del popolo palestinese è una vittoria per la nostra causa e per la giustizia», ha dichiarato Nabil Abou Roudeina, portavoce del presidente Abu Mazen. Il delegato palestinese a Pietroburgo è andato più in là, motivando così l’urgenza: «Questi siti sono minacciati di distruzione totale dall’occupazione israeliana, dalla costruzione del muro di separazione, a causa delle sanzioni israeliane e dalle misure prese per opprimere l’identità palestinese». La Basilica, peraltro, è visitata ogni anno da due milioni di pellegrini.
Da parte israeliana, si obietta che «la decisione presa è assolutamente politica e costituisce una grave lesione alla convenzione sul Patrimonio mondiale». Più grave, per l’Unesco e soprattutto per il suo budget, la reazione americana.
A Parigi, dove ha sede l’Unesco, l’ambasciatore David Killion ha detto che gli Usa sono «profondamente delusi». Ricordando che la procedura d’urgenza è stata usata solo quattro volte in 40 anni «e sempre seguendo le raccomandazioni del Consiglio», Killion ha accusato una volta di più l’Unesco di essere «politicizzata». E il braccio di ferro continua.
Betlemme, vittoria palestinese
la Chiesa della natività diventa
patrimonio dell’Unesco
di Fabio Scuto (la Repubblica, 30 giugno 2012)
La notizia sulla Piazza della Mangiatoia invasa dal sole la porta il cronista che chiede ai negozianti di souvenir cosa cambierà adesso che la Basilica della Natività è stata dichiarata Patrimonio universale dell’Umanità. Stupore, sorpresa, un pizzico di orgoglio. C’è chi telefona subito ai parenti per raccontare la novità. Le reazioni sono improntate alla chiara speranza che qualunque cosa significhi la decisione dell’Unesco, l’importante è che porti più turisti.
Nessuno degli abitanti di Betlemme poteva immaginare che il 29 giugno sarebbe diventata una data storica. Ancora fuori dall’Onu come Stato - per il veto degli Usa al Consiglio di sicurezza - la Palestina ha da ieri il suo primo sito protetto come Patrimonio mondiale dell’umanità.
La richiesta di includere la Chiesa della Natività e la Via dei Pellegrini nella città di Betlemme nella lista dei siti protetti è stata votata ieri a San Pietroburgo dal Comitato di cui fanno parte 21 Paesi, ed passata con una maggioranza di 13 voti contro 6 e due astenuti. Si felicita per la grande vittoria il presidente dell’Anp Abu Mazen.
«E’ un momento di gioia per i palestinesi, un momento di orgoglio nazionale e una conferma dell’unicità e della ricchezza della propria identità», spiega Hanan Ashrawi, dirigente cristiana dell’Olp, che rafforza la determinazione ad agire per la nascita di uno Stato indipendente entro i confini del 1967. Secca la reazione israeliana che con Netanyahu critica una decisione «totalmente politica » che «danneggia gravemente la convenzione Onu e la sua immagine».
Negative anche le reazioni degli Stati Uniti. Dice l’ambasciatore americano presso l’Unesco David Killion: «Si tratta di un sito sacro per tutti i cristiani» e l’Unesco «non dovrebbe essere politicizzato»; e critica anche la “procedura d’urgenza” che negli ultimi 40 anni è stata adottata solo quattro volte in casi estremi.
La richiesta di inserire il «Luogo di nascita di Gesù» nella lista Unesco è stata presentata dall’Anp, dopo che l’organizzazione con sede a Parigi ha riconosciuto la Palestina come suo membro a tutti gli effetti nell’ottobre 2011. All’epoca come misura di ritorsione Stati Uniti e Israele sospesero i loro finanziamenti all’Unesco, privandola del 22% delle sue entrate. Tiepide per ora le reazioni dei religiosi Cristiani, Ortodossi e Armeni che gestiscono la Basilica.
Costruita dall’imperatore Costantino nel IV° secolo, la Natività necessita certamente di serie opere di restauro, inclusa la riparazione di parte del tetto attualmente mancante. «È stata fatta giustizia e ne siamo molto contenti» - spiega il vice sindaco George Saade», perché tutti a Betlemme sperano che la decisione dell’Unesco riscatti la città da un lento declino.
Con quasi due milioni di presenze l’anno, è il luogo più visitato da turisti e pellegrini tra quelli nei Territori palestinesi, ma la città soffre perché nessuno si ferma. I turisti arrivano in pullman e due ore dopo se ne vanno, alberghi, e ristoranti restano vuoti. Il senso di isolamento poi è certamente aumentato da quando si è trovata circondata dal Muro di sicurezza costruito da Israele. I turisti sono costretti a lunghe code di ore ai check-point israeliani per il controllo dei documenti, mentre gli abitanti di Betlemme che vanno in senso opposto devono ora richiedere un permesso speciale, raramente concesso, per andare a Gerusalemme, che dista appena sei chilometri.
Tagliata fuori dalle terre coltivate a nord e a ovest dal Muro, a sud e ad est dalle strade che soltanto i coloni israeliani possono percorrere, la città è diventata un ghetto. Pieno di torri di guardia, il Muro è dentro il perimetro urbano, aumentando il senso di una prigione a cielo aperto. «Il simbolo di tutto ciò che è sbagliato nel cuore dell’uomo», lo definì l’Arcivescovo di Canterbury quando lo vide durante la sua visita alla Basilica.
Israele
Vince l’”Intifada della fame" dei detenuti
(la Repubblica, 15.05.2012)
GERUSALEMME - Festa nei Territori ieri per la vittoria dei "guerrieri della fame": un nucleo di 1600 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane a digiuno da oltre 77 giorni come protesta non violenta contro la "detenzione amministrativa" praticata da Israele, senza accuse né processo, e contro le misure straordinarie a cominciare dall’isolamento, il divieto delle visite familiari e degli studi. L’accordo è stato firmato nel carcere di Ashkelon. Una mobilitazione internazionale aveva sostenuto la protesta, guidata da Thaer Halahleh, 33 anni, 10 anni di carcere in totale senza accuse né processo giudiziario. Ora Israele dovrà rilasciare 310 detenuti "amministrativi" o formalizzare le accuse nei loro confronti.
Accordo sui prigionieri nelle carceri israeliane
(l’Unità, 15.05.2012)
I palestinesi hanno oggi una ragione per festeggiare nel solitamente luttuoso giorno della Nakba, anniversario dell’inizio dell’esodo e dell’occupazione israeliana nel maggio 1948. Ieri infatti è stato firmato un accordo sulle condizioni di detenzione dei palestinesi nelle carceri israeliane.
L’intesa, raggiunta grazie alla mediazione egiziana, ha interrotto un devastante sciopero della fame contro condizioni di detenzione considerate illegali in base alla Convenzione di Ginevra e giustificate attraverso decreti speciali antiterrorismo. Isolamento, nessuna visita accordata per i detenuti di Gaza e detenzioni amministrative reiterate senza processo anche per anni.
Fra un terzo e la metà dei 4.700 prigionieri palestinesi in Israele (di cui 310 in detenzione amministrativa) si trovavano in sciopero della fame, 7 dei quali da oltre un mese e mezzo, 2 gravi. I servizi segreti interni dello Shin Bet hanno confermato l’accordo con poche righe sottolineando come i prigionieri si siano impegnati «a fermare assolutamente l’attività terroristica nelle carceri israeliane» e i comandanti di gruppi militanti fuori dalle carceri si siano impegnati «a prevenire attività terroristiche».
«Tutte le fazioni hanno sottoscritto un accordo per porre fine al digiuno», ha dichiarato Qadura Fares, capo del Palestinian Prisoners Club dopo diverse ore di trattative con le autorità israeliane e i detenuti di spicco della prigione di Ashkelon. L’intesa è stata confermata anche dal dipartimento penitenziario israeliano.
Quel silenzio dei Grandi sui detenuti palestinesi
di Moni Ovadia (l’Unità, 12 maggio 2012)
Prof. Henry Siegman, ordinato rabbino ortodosso dalla Yeshiva Torah Vadaath e cappellano militare nella guerra di Corea, è stato Executive Director dell’American Jewish Congress (dal 1978 al 1994) e del Synagogue Council, Senior Fellow al Council on Foreign Relations. I suoi scritti sono pubblicati dai maggiori quotidiani Usa e dalla New York Review of Books. Il prof Siegman ha scritto: «I fondatori del sionismo furono fra i leader più illuminati e progressisti del mondo ebraico ... loro non erano razzisti... Ma il governo Nethanyahu ha provato che, benché il sionismo non sia razzismo, ci sono dei sionisti che sono razzisti.
Nel 1980 molti nell’establishment ebraico americano parteciparono alle dimostrazioni contro il regime dell’apartheid in Sud Africa. La battaglia contro l’apartheid era considerata - non solo dai liberals - una causa ebraica. Oggi in Israele l’apartheid, non è una possibilità futura come molti non hanno smesso di ammonire, ma è una realtà attuale. Nethanyahu e il suo governo si sono impegnati a travestire il loro regime di apartheid de facto fingendo che lo status quo nei territori occupati sia temporaneo... ».
In questo regime di apartheid creato progressivamente dal governo Nethanyahu vedono la luce tutte le vessazioni tipiche di tali regimi. Oggi, detenuti palestinesi in sciopero della fame per protestare contro le illegali detenzioni amministrative e le brutali condizioni di detenzione, subiscono ogni sorta di violenza punitiva fisica e psicologica, due di essi Bilal Thaer e di Diab Halahleh, in sciopero da 67 giorni rischiano la vita. Il silenzio dei grandi della terra è assordante.
L’Intifada della fame il digiuno dei detenuti diventa una bandiera
Oltre 1500 reclusi nelle prigioni israeliane rifiutano il cibo da settimane:
chiedono l’abolizione degli "arresti preventivi"
Decine le manifestazioni di sostegno nei Territori occupati
Si mobilitano anche le ong e la Croce rossa internazionale
di Fabio Scuto (la Repubblica, 09.05.2012)
È stato un altro lungo giorno di digiuno per Taher Halahla e Bilal Diab, i due detenuti palestinesi arrivati al settantaduesimo giorno senza cibo. Non sono soli, altri sette detenuti da qualche giorno si sono uniti a loro. Sono pronti ad andare avanti a oltranza fino alle estreme conseguenze, lasciarsi morire di inedia dietro le mura grigie del famigerato carcere di Ofer, l’Incarceration Facility 385 secondo il linguaggio burocratico dell’Amministrazione penitenziaria israeliana. Altri 1600 li stanno seguendo ormai da quasi un mese. Perché lo sciopero della fame è l’unico mezzo che i detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane senza accuse formali - qui li chiamano "arresti amministrativi", si tratta dell’equivalente di una detenzione preventiva - hanno per ottenere la liberazione.
Come i ragazzi dell’Ira a Belfast nel penitenziario di Maze nel 1981, Taher, Diab e gli altri hanno intenzione di andare avanti fino alla fine, come gli otto che seguirono il destino di Bobby Sands, il primo che si lasciò morire scuotendo le coscienze nel maggio del 1981 dopo 66 giorni di digiuno. Se dovesse morire uno di loro questa "Intifada della fame" dietro le sbarre potrebbe scatenare violenze in tutti i Territori palestinesi occupati, dove questa protesta è sentita, sostenuta e appoggiata. Ieri la Croce rossa internazionale ha chiesto per sei di questi detenuti il ricovero in ospedale per le loro gravi condizioni e ha chiesto anche, per ora invano, che sia consentito loro di ricevere le visite dei parenti in carcere. Dopo la rivolta della rete, le denunce su Facebook e Twitter, sono decine le manifestazioni anche nei paesi più piccoli della Cisgiordania e le marce di sostegno, con la gente che mostra le foto dei parenti incarcerati che partecipano alla protesta nelle celle. Lo scorso 17 aprile in occasione della "giornata del detenuto" tre quarti dei 4700 prigionieri palestinesi hanno rifiutato il cibo.
Non è il primo grande sciopero nelle carceri israeliane - nel 2004 diecimila detenuti rifiutarono il cibo per 17 giorni - ma è la prima volta che un gruppo ha deciso di portare avanti fino alla fine. L’iniziatore di questa protesta è stato un fornaio di 34 anni, Khadnan Adnan, militante della Jihad islamica, che aveva iniziato lo sciopero della fame dopo essere finito in cella lo scorso anno senza imputazioni. In carcere per un "arresto amministrativo" - e senza essere mai stato portato davanti a un giudice - Adnan ha rifiutato il cibo per 73 giorni prima di vincere la sua battaglia ed essere rilasciato.
L’avvocato Jawad Boulos, che rappresenta l’Associazione dei palestinesi detenuti in Israele, spiega a Repubblica che lo sciopero della fame a oltranza nelle prigioni israeliane viene condotto da due gruppi distinti, che hanno obiettivi diversi. Il primo gruppo di sette carcerati ha iniziato lo sciopero della fame circa due mesi fa. Alcuni, come appunto Diab e Halahla, vogliono l’annullamento degli arresti amministrativi decretati da un tribunale militare. Un altro, Muhammed Taj, chiede di essere riconosciuto "prigioniero di guerra". Un altro ancora, catturato a Gaza, chiede di tornare libero nella Striscia. Il secondo gruppo - che conta circa 1.600 prigionieri - lotta per un miglioramento delle condizioni di reclusione. Fra le richieste, l’abolizione dell’isolamento e l’accesso a siti accademici online. Poi ci sono settecento detenuti originari di Gaza - sempre secondo l’avvocato Boulos - che non ricevono visite dei loro congiunti da cinque anni, come ritorsione per il rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit, che però nel frattempo ha riacquistato la libertà.
Il trattamento dei detenuti in Israele è uno dei temi più sentiti tra i palestinesi. I crimini per cui vengono arrestati sono dei più vari, dal semplice lancio di pietre all’organizzazione di attacchi terroristici. Tra i 4700 palestinesi detenuti nelle carceri 302 sono in regime di detenzione amministrativa. Una misura usata prevalentemente nei casi in cui gli indizi disponibili consistono in informazioni ottenute dai servizi segreti (come lo Shin Bet), e nei casi in cui un processo pubblico potrebbe rilevare informazioni ritenute di sicurezza dalle forze israeliane. Ogni comandante dell’esercito locale può diramare un ordine di detenzione amministrativa, che può essere appellato presso la locale Corte militare e, se negato, alla Corte Suprema.
Anche in questo caso, l’ordine è valido per sei mesi, ma può essere rinnovato a tempo indefinito dall’autorità. Nel territorio palestinese questa forma di detenzione extra giudiziale esisteva sin dal mandato britannico del 1945. L’ordine militare che legifera la detenzione amministrativa è il n. 1651 del 1970 che nel 1979 è stato ribadito, nonostante il Parlamento israeliano avesse stabilito già nel 1951 che questa misura andava abolita.
Dietro le quinte i contatti fra la direzione del Servizio carcerario israeliano e una rappresentanza di reclusi per trovare uno sbocco alla crisi si sono fatti febbrili. Ieri sera il governo palestinese ha chiesto alle Nazioni Unite e all’Europa di intervenire, ammonendo che «riterrà Israele responsabile della vita dei prigionieri palestinesi». Nessuno vuole un Bobby Sands palestinese.
Israele alzerà un muro alconfine con il Libano
di P. Dm. (La Stampa, 24.04.2012)
Israele comincerà la prossima settimana a costruire un muro di due chilometri lungo la sua frontiera con il Libano, attorno alla località di Metoulla. L’annuncio è arrivato ieri sera dal Canale 10, una emittente privata della televisione israeliana. La nuova barriera, alto dieci metri, servirà a evitare frizioni tra le truppe israeliane e quelle libanesi, le cui rispettive posizioni si trovano a pochi metri di distanza.
In gennaio, l’esercito israeliano aveva annunciato il progetto precisando che il muro avrebbe dovuto proteggere gli edifici costruiti recentemente a Metoulla dagli spari dei cecchini, situati nel villaggio libanese di Kfar Kila. Israele ha coordinato la costruzione di questa opera con il Libano, ha precisato ancora il Canale 10, attraverso l’intermediazione della Finul, la missione delle Nazioni Unite in Libano che dall’estate del 2006 controlla la parte meridionale del Paese proprio per evitare scontri fra libanesi e israeliani.
L’uso delle barriere di cemento in Israele è al centro delle polemiche da quando è cominciato la costruzione di un muro nella West Bank per separare i territori israeliani da quelli più densamente abitati dai palestinesi. La costruzione della barriera, in quel caso, è stata criticata dall’Onu
Interrogazione del Partito democratico
Quaranta attivisti internazionali arrestati a Tel Aviv
La Flytillia: “Alitalia ha consegnato a Israele l’elenco dei nostri nomi”
di Roberta Zunini (il Fatto, 18.04.2012)
Tra le migliaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane per reati legati alla lotta contro l’occupazione della Cisgiordania, in agitazione per protestare contro le durissime condizioni di detenzione, 1200 sono entrati ieri in sciopero della fame. Tra loro ci sono anche una quarantina di attivisti internazionali della Flytilla, tra cui una diciottenne canadese, Charlotte Gaudreau, e un giovane cittadino italiano dell’International Solidarity Movement, Marco Abdel Al Mohammed (padre egiziano), che vogliono richiamare l’attenzione sull’ingiustizia a cui sono sottoposti. “Marco è in carcere dall’11 aprile, dopo essere stato aggredito assieme al signor Giorgio Catalan da alcuni soldati israeliani mentre con altre decine di partecipanti cercavano di rientrare nel centro di Hebron dove si teneva una conferenza dei comitati popolari palestinesi”, dice Simone Colombo un attivista dell’Ism (l’ong di cui faceva parte Vittorio Arrigoni).
“Io ero con loro, avevamo appena finito di mangiare e mentre stavamo camminando siamo stati bloccati con la forza dai soldati che ci hanno accusato di fare una manifestazione non autorizzata. Abbiamo cercato di spiegare loro che stavamo solo camminando in gruppo per tornare a seguire assieme la conferenza ma non ci hanno creduto e dopo aver chiamato la polizia hanno portato via Marco e Giorgio”.
I DUE italiani dopo essere stati sottoposti a fermo, sono stati arrestati e portati in carcere a Givot. Mentre il signor Catalan due giorni fa ha firmato il foglio di espulsione (è appena rientrato a Trieste), Al Mohammed ha deciso di rimanere perché sostiene di non aver commesso né il reato di partecipazione a manifestazione non autorizzata né di aver oltraggiato alcun pubblico ufficiale e dunque di non meritare l’espulsione, cosa che compromette per dieci anni un eventuale rientro in Israele e di conseguenza in Cisgiordania. Omer Shatz e Iftah Cohen, i suoi avvocati israeliani hanno detto al Fatto che verrà sottoposto a un’audizione alla corte distrettuale lunedì.
Le vicende degli attivisti della Flytilla e dell’Ism si incrociano dunque nel carcere di Givot, nella cittadina di Ramla a sud di Tel Aviv. “La Flytilla, che è composta da vari gruppi formati da europei, canadesi e statunitensi, aveva come scopo l’ingresso dichiarato in Palestina per ricordare l’assedio che Israele ha messo in atto nei Territori - dice Patrizia Cecconi, coordinatrice della Flytilla Italia - e per portare avanti un progetto di costruzione di scuole.
La missione si chiamava ‘benvenuti in Palestina’ e avrebbe dovuto portare in Cisgiordania circa 1500 attivisti”. Ma sono riusciti a entrare solo una cinquantina tra cui due italiani. Non è andata così, invece, per Marco Varasio, un ragazzo di 23 anni che è stato subito bloccato all’aeroporto di Tel Aviv e portato anche lui nel carcere di Givot, visto che non voleva essere espulso. Dopo due giorni di carcere però ha ceduto e ha firmato il foglio di espulsione.
“Domenica all’imbarco di Fiumicino, l’Alitalia ha tirato fuori una lista nera consegnata da Israele, con i nostri nomi. Ciò significa che Alitalia ha fornito all’intelligence israeliana i nominativi di privati cittadini, violando la privacy. Due giorni fa però non ha fatto altrettanto con la Farnesina che aveva chiesto la lista dei passeggeri per verificare che sull’aereo ci fosse anche Varasio di cui non avevamo più notizie. Stiamo preparando un’azione legale”, conclude Cecconi. Il deputato Vincenzo Vita ha presentato un’interrogazione al ministro Terzi per questa violazione della privacy, ricordando che la legge israeliana del 1952 con cui l’Alitalia ha legittimato il mancato imbarco dei passeggeri vale solo una volta giunti in Israele.
Israele, pugno duro contro la «Flytilla». Arresti a Tel Aviv
Israele contro la «Flytilla».
Seicento agenti schierati all’aeroporto di Tel Aviv, liste di «indesiderati» consegnate alle compagnie aeree a Roma, Bruxelles, Parigi. È la risposta dello Stato ebraico ai «filopalestinesi»
Liste «nere» di attivisti filopalestinesi consegnate a diverse compagnie aeree, tra cui Alitalia
Seicento agenti presidiano l’aeroporto Ben Gurion. Ma c’è chi è riuscito a raggiungere la meta
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 16.04.2012)
Bloccati a Roma, a Parigi, a Bruxelles...Fermati a Tel Aviv. Trattati come «Nemici» dello Stato ebraico. Israele dichiara «guerra» alla «Flytilla». Israele ha ieri messo in mostra i propri muscoli per scompaginare una manifestazione internazionale di solidarietà ai palestinesi (Benvenuti in Palestina, Flytilla) concepita per evidenziare le difficoltà negli spostamenti per chi da decenni vive sotto occupazione militare nei Territori.
Vedendo negli attivisti «elementi visceralmente anti-israeliani, quasi antisemiti» (queste le parole del ministro Ghilad Erdan, Likud) il governo di Benyamin Netanyahu ha condotto una operazione «a due fasi». Innanzi tutto ha inoltrato alle compagnie aeree dirette a Tel Aviv «liste nere» di militanti sgraditi allo Stato ebraico: non solo è stato avvertito costoro non avrebbero avuto il permesso di ingresso ma le spese di rimpatrio sarebbero state addossate alle stesse società di volo. In seguito la polizia israeliana ha presidiato l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv con oltre 600 agenti, per lo più in borghese.
A Betlemme (Cisgiordania) gli organizzatori attendevano 1.500 dimostranti, per i quali hanno organizzato una settimana di attività sociali. Ma i filtri predisposti da Israele hanno subito preso a funzionare a tutto ritmo. Centinaia di attivisti si sono visti così bloccati durante le operazioni di check-in a Parigi, Londra, Roma, Bruxelles, Londra, Ginevra, Istanbul. All’aeroporto Ben Gurion sono arrivate in definitiva solo diverse decine di attivisti che sono stati scortati ed interrogati in un terminal separato.
Gli ordini di espulsione, secondo valutazioni provvisorie, sono una sessantina. Almeno 20 attivisti sono stati subito rimandati a casa. Gli altri, a quanto pare, trascorreranno la notte nel centro di detenzione Givon. E a quanto si apprende, i funzionari dell’ambasciata italiana a Tel Aviv sono impegnati nel valutare la situazione dei nostri connazionali in loco. Fra quanti sono riusciti a superare tutti i filtri predisposti dai responsabili alla sicurezza di Israele alcune decine di attivisti di vari Paesi vi è stata anche la combattiva a ottantenne Rossana Platone, ex docente dell’Università di Napoli. Cosa l’ha spinta alla azione? «La mia motivazione generale ha spiegato Platone, appena arrivata a Betlemme è stata la sete di libertà. Avrei voluto atterrare direttamente in Palestina, ma un aeroporto non c’è. Sono stata obbligata a passare per Tel Aviv».
FALLE
Ma il pugno duro contro gli attivisti di «Flytilla» scatena polemiche anche nello Stato ebraico. In uno dei più duri editoriali degli ultimi tempi il quotidiano liberal Haaretz sostiene che in questa circostanza Israele si sta comportando in maniera non dissimile dall’Iran. «L’Iran nota l’articolista impedisce l’ingresso nelle proprie installazioni nucleari ai controllori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che vorrebbero riferire quanto vi avviene». «Israele aggiunge ha deciso di impedire l’ingresso nei Territori occupati di attivisti dei diritti umani che vorrebbero riferire dello stato dei diritti umani nella Regione». Questo editoriale (titolato: «Accoglieteli con i fiori») ha scatenato la rabbiosa reazione in alcuni siti della destra nazionalistica israeliana. E non solo. Ad alimentare ulteriormente le polemiche è una lettera, messa a punto da un funzionario dell’ufficio del primo ministro Benyamin Netanyahu, che invita gli attivisti in arrivo in Israele a dimostrare piuttosto per il rispetto dei diritti civili in Siria, in Iran e a Gaza.
Ma «nonostante l’imponente schieramento militare e di intelligence israeliano, attivisti italiani e francesi sono entrati in Palestina, dichiarando apertamente le proprie intenzioni, e sono già stati accolti dalle associazioni partner della missione «Benvenuti in Palestina». Ad annunciarlo in serata sono gli attivisti italiani della «Flytilla». «Siamo orgogliosi spiegano di questi compagni e compagne, come di quelli che sono stati illegalmente bloccati negli aeroporti di partenza e di quelli che in questo momento si trovano in stato di detenzione».
Nuovi insediamenti
Il piano d’Israele nelle mappe segrete
Messe a punto dall’Amministrazione civile dello Stato ebraico delineano l’esproprio del 10% della West Bank palestinese per ampliare gli abitati esistenti o realizzarne di nuovi
di U. D. G. (l’Unità, 31.03.2012)
L e mappe «segrete» raccontano di un piano studiato nei minimi dettagli. Quelle mappe delineano un processo di espropriazione che di fatto rende improponibile la realizzazione di una pace fondata sul principio di «due popoli, due Stati». Improponibile perché lo Stato di Palestina sarebbe più simile ad una sorta di bantustan mediorientale piuttosto che ad un vero Stato, con piena sovranità su tutto il proprio territorio nazionale. Le mappe in questione, di cui l’Unità ha potuto prendere visione, sono quelle tracciate dall’Amministrazione civile israeliana, comparto del ministero della Difesa dello Stato ebraico.
Quelle mappe tratteggiano una espropriazione del 10% del territorio palestinese della Cisgiordania allo scopo di amplare-costruire insediamenti ebraici. Altri dettagli: il territorio «sequestrato» è di 569 appezzamenti, per un totale di 620mila dunam (equivalenti a 155mila ettari». L’espropriazione dall’altro lato del Muro. Una condizione di sofferenza raccontata così nel rapporto 2011 di Amnesty International: «Alla fine dell’anno (2010, ndr) era stata completata la costruzione di circa il 60 per cento dei 700 km pianificati del muro-barriera; oltre l’85 per cento del suo intero percorso è in terra palestinese, all’interno della Cisgiordania. Il muro-barriera ha separato migliaia di palestinesi dai loro terreni agricoli e dalle risorse d’acqua, mentre i palestinesi della Cisgiordania in possesso di permessi d’ingresso hanno potuto accedere a Gerusalemme Est soltanto attraverso tre dei 16 posti di blocco lungo il muro-barriera. Ciò ha avuto conseguenze particolarmente gravi per i pazienti e il personale medico che cercavano di raggiungere i sei ospedali specialistici palestinesi di Gerusalemme Est».
«I palestinesi rimarca ancora Amnesty hanno continuato a veder loro negato l’accesso a vasti appezzamenti di terreno nei pressi delle colonie israeliane, fondate e mantenute in violazione del diritto internazionale». Una situazione insostenibile. Al punto che nei giorni scorsi con 36 voti a favore, 1 contrario (gli Usa) e 10 astensioni (tra cui l’Italia), il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha approvato, per la prima volta nella storia, la costituzione di una commissione d’inchiesta internazionale indipendente che si rechi nei territori palestinesi per verificare le conseguenze della costruzione di colonie israeliane nei territori palestinesi occupati, Gerusalemme Est inclusa. La missione d’inchiesta «dovrà indagare sulle conseguenze che le colonie israeliane hanno sui diritti civili, politici, economici, sociali e culturali del popolo palestinese». Immediata la reazione israeliana: il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman (capofila dei falchi nel governo Netanyahu) ha deciso di «rompere ogni contatto» con l’Agenzia dell’Onu: «Non risponderà più neanche alle loro chiamate telefoniche», taglia corto uno stretto collaboratore di Lieberman.
Netanyahu: tutta ipocrisia
L’Onu apre un’inchiesta sulle colonie israeliane “Violano i diritti umani”
di P. Dm. (La Stampa, 23.03.2012)
GINEVRA Il Consiglio dei diritti dell’uomo dell’Onu ieri ha dato il via libera alla prima inchiesta internazionale indipendente per valutare l’impatto degli insediamenti israeliani nei «territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est». I 47 Stati membri del Consiglio hanno adottato con 36 voti a favore, uno contrario e dieci astenuti (tra cui l’Italia) - la risoluzione presentata dai palestinesi per «indagare sulle conseguenze degli insediamenti israeliani dal punto di vista politico, economico, sociale e culturale del popolo palestinese».
Presentando la risoluzione, il rappresentante pakistano ha criticato Israele per aver insistito nel costruire nuovi insediamenti nei territori occupati, sottolineando che si tratta di «violazioni delle leggi internazionali sui diritti umani».
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, in una nota ha accusato il Consiglio di ipocrisia: «Deve vergognarsi di se stesso. Con una maggioranza ostile a Israele, ha preso 91 decisioni, di cui 39 relative a Israele». Soddisfatti invece i palestinesi. «Questa posizione internazionale manda a Israele il messaggio che gli insediamenti sono illegali e vanno fermati», ha dichiarato il portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas.
Chiamatela col suo nome: carneficina
di Nandino Capovilla
in “Pax Christi” ( www.paxchristi.it) del 15 marzo 2012
Adham, di dodici anni, era quasi arrivato a scuola, nel campo profughi di Jabalya. Quando il drone lo ha colpito a morte teneva lo zainetto nella mano destra e la mano del fratellino di sette anni nella sinistra. Muhammad al-Ghumri, è stato fatto a pezzi dai missili israeliani che hanno disintegrato la sua sua auto nella cittadina di Deir el-Balah. Il corpo di Hamed, anziano contadino, era irriconoscibile quando è stato portato all’Ospedale Al Shifa. A Khan Yunis, un aereo di ricognizione ha bersagliato la motocicletta guidata da Husayn, di cinquant’anni mentre Mansur e tanti altri sono stati colpiti dai raid mentre sfilavano in processione durante il corteo funebre dei primi uccisi.
A fianco del fotografo dell’agenzia Maan, ucciso dai missili mentre guidava la sua auto, c’era sua moglie. In questo caso sono tre i morti, perché tragicamente, lei era incinta.
Vogliamo immaginarci lì, per le strade e nelle case di Gaza, con i genitori di Adham e i ragazzini della scuola di Jabalya...
Persone, gazawi, giovani vecchi, bambini e nascituri, accomunati dal destino di nascere e - obbligatoriamente crescere - in una striscia di terra senza vie di fuga, anche volendo. Tra loro, probabilmente qualche militante nella lotta armata. Per tutti, la pena di morte senza nessun tribunale, senza nessun arresto, nemmeno preventivo. Tra loro, come sempre, la maggioranza era composta da civili. Eppure.
Eppure ancora una volta non ce l’hanno detto, o meglio, ci hanno raccontato versioni distorte di una carneficina. Ai giornalisti radio televisivi e della carta stampata che ancora si ostinano a cercare di raccontarla, vorremmo dire che non si affannino nemmeno più a dare una parvenza di resoconto obiettivo ai loro reportage.
Ormai lo sappiamo che le notizie non arrivano dalle loro voci colpevoli di occultamento di verità. Le dobbiamo cercare, le notizie. Tra chi vive con la povera gente della Striscia. Tra chi tra i giornalisti verifica le fonti e non ha paura di raccontare, di denunciare, di squarciare il velo.
Quanta ipocrisia nel risolvere tutto nella “necessaria risposta” di Israele! L’inizio di tutto è stato un assassinio di stato: il 9 marzo è stato ucciso un leader palestinese con un’esecuzione, un omicidio mirato. E da lì è iniziata una notte di inferno per Gaza, dove l’aviazione israeliana ha lanciato raid a ripetizione, in risposta al lancio di alcuni razzi, in vari punti del capoluogo, uccidendo, nella sola nottata, 12 palestinesi e ferendone 25. Raid che non si sono più fermati.
Mentre scriviamo, le agenzie continuano ad aggiornare il numero dei morti, anzi, degli uccisi. E la gran parte sono donne, bambini, civili, insomma. Non terroristi. Chiamiamola con il suo nome: carneficina.
l’Unità 17.3.12 Gaza risponde Luigi Cancrini
Ho letto un libro quest’inverno che mi ha colpito. Il titolo del libro è Ogni mattina a Jenin, l’autrice del libro è Susan Abulhawa nata e vissuta, appunto, a Jenin, uno dei primi campi allestiti per i palestinesi profughi dalle terre che Israele decise di far sue, nel 1948, dopo l’allontanamento delle truppe inglesi. Tenero e struggente, attento al cuore che batte negli uomini e nelle donne che il destino ha messo dall’una e dall’altra parte di questa guerra infinita, il racconto di Susan Abulhawa propone una riflessione su cui oggi si torna poco a proposito del modo in cui, freschi degli orrori dell’olocausto, si mossero gli israeliani nei confronti degli arabi che senza loro colpa erano nati e vissuti nella «terra promessa».
L’odio genera odio e l’odio si trascina attraverso le generazioni, da Auschwitz a Jenin fino a Sabra e Shatila e negli autobus dilaniati dalle bombe dei kamikaze e non si è ancora spento perché ancora non si ha la forza di fermarsi per ascoltare le ragioni dell’altro. Di ricordare insieme, liberandosi dalla paura, in questa storia triste in cui l’unica cosa certa è il dolore sparso a piene mani nella vita di tutti.
MEDIO ORIENTE
Raid israeliani sulla Striscia di Gaza almeno 14 i palestinesi uccisi
Negli attacchi aerei sferrati a partire dal pomeriggio di ieri sarebbero morti anche il leader dei Comitati di Resistenza Popolare, Zuhir al Qaisi, e un suo collaboratore *
GAZA - E’ salito a quattordici palestinesi uccisi e altri diciannove feriti il bilancio di una serie di raid israeliani effettuati tra ieri pomeriggio e oggi sulla Striscia di Gaza. Le ultime due vittime sono due giovani che viaggiavano a bordo di una motocicletta a Khan Yunes. Una quarantina di razzi e di colpi di mortaio sono stati lanciati ieri dalla Striscia di Gaza sul sud d’Israele provocando il ferimento di quattro israeliani, dei quali uno in modo grave, secondo quanto rende noto l’esercito israeliano. Lanci sono proseguiti poi per tutta la nottata con altre quattro persone ferite, per lo più in modo leggero.
Sempre secondo fonti israeliane, negli attacchi sarebbero stati uccisi anche il leader dei Comitati di Resistenza Popolare, Zuhir al Qaisi, e il suo collaboratore, Mahmoud Hanani. I due palestinesi viaggiavano a bordo di un’auto che è stata colpita da due missili sparati da un aereo israeliano. Secondo un portavoce dell’esercito, al Qaisi stava organizzando un ampio attacco terroristico coordinato da perpetrare in Israele, vicino al confine con la Striscia di Gaza.
I Comitati di Resistenza Popolare sono responsabili del rapimento in Israele del soldato Gilad Shalit, liberato lo scorso ottobre 1 dopo cinque anni di prigionia a Gaza, in cambio della scarcerazione di migliaia di detenuti palestinesi 2.
La nuova fiammata di violenza è cominciata ieri, quando, dopo il lancio di due colpi di mortaio verso Israele, lo Stato ebraico ha risposto con il raid contro al Qaisi. L’uccisone del dirigente palestinese ha scatenato la ripresa su larga scala dei lanci di missili e colpi di mortaio contro Bèer Sheva, Ashdod, Kiryat Malachi, Netivot e Ashkelon. Attacchi ai quali le forze israeliane hanno reagito con una nuova serie di raid aerei, promettendo di fare altrettanto in futuro. Il capo dello stato maggiore dell’esercito, Benny Gantz, al termine di una riunione dei vertici militari sulla escalation in corso nella Striscia di Gaza, ha annunciato che le forze armate risponderanno con determinazione ad ogni lancio di missili contro Israele.
Da Gaza alcuni gruppi armati hanno annunciato di non sentirsi più impegnati dal tacito periodo di calma con Israele. Messaggi separati di condanna nei confronti di Israele sono giunti nel frattempo da Hamas e da un portavoce dell’Anp di Abu Mazen.
Nella mattinata, dopo diverse ore di quiete, tre razzi sono esplosi nel Neghev senza provocare vittime. Nel timore che gli attacchi possano proseguire, i responsabili alla protezione civile nel Neghev stanno valutando la possibilità di ordinare per domani la chiusura delle scuole nelle zone a rischio.
* la Repubblica, 10 marzo 2012
Gerusalemme libera il «Bobby Sands» della Jihad
Khader Adnan, in prigione in Israele senza processo, ha ripreso a mangiare dopo 66 giorni di sciopero della fame. Folle di palestinesi in festa a Jenin
di U. D. G. (l’Unità, 22.02.2012)
Il «Bobby Sands» di Palestina ce l’ha fatta. Dopo 66 giorni di sciopero della fame, Khader Adnan (33 anni) ha vinto la sua battaglia. Incarcerato dal 17 dicembre scorso nonostante non vi fosse alcuna accusa formale nei suoi confronti, il palestinese, un tempo portavoce della Jihad islamica, sarà liberato il prossimo 17 aprile. «C’è un accordo», ha fatto sapere il ministero della Giustizia israeliano, per cui Khader Adnan «sospenderà lo sciopero della fame e non sarà prorogata la sua detenzione amministrativa», ovvero la misura che i militari dello Stato ebraico posso prendere nei confronti di sospettati anche in assenza di imputazioni specifiche. In base a questa norma Israele ha fatto arrestare almeno 315 palestinesi, ancora in carcere.
L’intesa, legittimata dalla Corte suprema di Gerusalemme, prevede che Khader Adnan cessi lo sciopero della fame e resti ricoverato nell’ospedale Ziv di Safed (Galilea), viste le sue precarie condizioni di salute. Secondo il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, se nelle prossime settimane non sopraggiungeranno elementi nuovi a suo carico, lo sceicco sarà rimesso in libertà all’inizio di aprile. La «Corte Suprema israeliana ha deciso di rilasciare Khader Adnan il 17 aprile e alla luce di questo lui ha messo fine allo sciopero della fame», dichiara il ministro per gli Affari penitenziari dell’Autorità nazionale palestinese, Issa Qaraqaa. Sul suo caso si erano pronunciate nei giorni scorsi anche le Nazioni Unite e l’Unione europea, chiedendo a Israele di adoperarsi per tutelare la salute dell’uomo.
L’altro ieri, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat aveva fatto sapere di aver inviato un messaggio alla Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, e al capo della diplomazia Ue, Catherine Ashton, sollecitandole a fare pressioni su Israele: «Ho chiesto loro di intervenire sul caso di Adnan. Devono fare pressioni su Israele per ottenerne il rilascio» Una richiesta esaudita. Nel corso dello sciopero della fame l’uomo ha perso oltre 30 chilogrammi e l’altro ieri, ha precisato il suo avvocato, Jawad Boulos, i medici dell’ospedale hanno deciso di sostenere il suo fisico con la somministrazione di un «pacchetto salva-vita» di minerali.
A protestare ora è la destra israeliana. In dichiarazioni riportate dalla radio militare, Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri e leader di Israel Beitenu (destra nazionalista), ha affermato che Israele ha commesso un «grave sbaglio» e si è di fatto arreso di fronte all’esponente della Jihad islamica. Il ministro ha quindi accusato di «tradimento» quei parlamentari arabi israeliani che hanno mediato l’intesa, e ha sostenuto che essi si sono fatti interpreti della volontà di una organizzazione terroristica, ossia della Jihad islamica. Nessun commento dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. La notizia della «vittoria» di Khader Adnan è stata accolta con manifestazioni di gioia nei Territori, in particolare a Jenin, la città natale del «Bobby Sands» palestinese.
Detenuto in Israele
Adnan, 66 giorni senza cibo, il Bobby Sands palestinese
di Francesca Borri (il Fatto, 21.02.2012)
Di Khader Adnan, che adesso che leggete potrebbe essere già cadavere, sappiamo tutto, ormai. Ha 33 anni, studia Economia all’Università di Birzeit e vive a Arabeh, vicino Jenin. Lavora come panettiere e ha una moglie, Randa, 31 anni e una laurea in Giurisprudenza sotto il velo integrale. Ha anche due figlie, Ma’ali di 4 anni, Bissan di 18 mesi. E un terzo bambino in arrivo. Attivista della Jihad islamica, è stato in carcere già altre 8 volte, per un totale di 6 anni. Ma mai per atti di violenza - a lungo, in fondo, è stato reato anche solo sventolare una bandiera palestinese.
SAPPIAMO TUTTO anche del suo arresto. Di quando la notte del 17 dicembre, alle 3, decine di soldati israeliani hanno circondato la sua casa, puntato le mitragliatrici alla testa di Ma’ali e Bissan. Khader è stato trascinato fuori ammanettato e incappucciato, e picchiato e insultato già sulla jeep, mentre veniva trasferito nel carcere di Ofer, vicino Gerusalemme. E lì, per i primi 18 giorni, è stato interrogato, legato con le mani dietro la schiena su una sedia alta 50 centimetri, 7 ore di domande una di pausa, poi altre 7 ore e un’altra ora; e via così. Per 18 giorni. Da allora, non ha mai potuto né lavarsi né cambiarsi. E anche ora che è in una stanza di ospedale, è incatenato al letto, le due caviglie e un polso. Randa ha avuto sue notizie solo il 30 dicembre, e ha potuto incontrarlo solo il 7 febbraio per 15 minuti. Ha commentato solo: traumatico. L’8 gennaio è stato condannato a un mese di reclusione, prolungata poi per altri tre mesi. Fino all’8 maggio.
L’unica cosa che ancora non sappiamo, di Khader Adnan, è di cosa sia accusato. In Cisgiordania il decreto militare 1651 del 1970 autorizza ogni comandante dell’esercito, per non meglio precisate “esigenze di sicurezza”, ad arrestare chiunque nell’area di sua competenza. Mentre il fermo di un israeliano deve essere convalidato da un giudice entro 12 ore, un palestinese può rimanere in detenzione amministrativa, e cioè in carcere senza accusa e senza processo, fino a 6 mesi. Prorogabili di altri 6 mesi, e poi altri 6 mesi - all’infinito. Al momento, secondo i calcoli di Amnesty International, sono in detenzione amministrativa 307 palestinesi, tra cui 21 deputati.
Il 13 febbraio, il giudice Moshe Tirosh ha rigettato l’appello dei difensori di Khader. Le informazioni in suo possesso, ha detto, coperte da segreto, sono sufficienti a tenerlo in carcere. E comunque, “le sue condizioni di salute dipendono dalla sua libera scelta non nutrirsi”.
L’avvocato Jawad Boulos chiede semplicemente che sia processato. Si è rivolto ora direttamente in Corte Suprema, e l’udienza è fissata per giovedì. Una risposta che equivale però a una condanna a morte: perché oggi sono 66 giorni che Khader Adnan è in sciopero della fame - quanto Bobby Sands quando morì. Non è possibile resistere oltre i 70, e già oltre i 55 i danni fisici e mentali sono irreversibili. Khader è alimentato solo da una flebo di soluzione salina, integrata con glucosio e vitamine. Ma i suoi muscoli, cuore incluso, sono ormai atrofizzati, e in via di decomposizione. Interrompere lo sciopero della fame è per lui pericoloso quanto continuarlo.
SULLA STAMPA israeliana il primo articolo è comparso una settimana fa, per il progressista Ha’aretz. Riferisce genericamente che “un tribunale militare lunedì ha rigettato l’appello di un palestinese in sciopero della fame da 58 giorni per ottenere una riduzione della pena”. Ancora più istruttivi, come sempre, i commenti dei lettori. “Israele è una democrazia, ognuno ha il diritto di morire”. Anche perché “è un terrorista in meno”, spiega Aron, “meglio uccida sé stesso che gli altri”. Fino a Mordechai: vorrei sapere chi gli paga le cure, le mie tasse?, chiede.
Ma a colpire, piuttosto, è l’indifferenza palestinese. Mai nessuno ha resistito a lungo quanto Khader, qui, ma “Fatah e Hamas sono impegnate nella formazione di un governo per uno stato che non esiste, e in negoziati che non hanno la minima possibilità di ottenere la fine della detenzione amministrativa di 3,5 milioni di palestinesi”, scrive Ali Abunimah. Statunitense, è il fondatore del sito di controinformazione Electronic Intifada: e l’animatore, su Twitter, di una campagna in sostegno di Khader che è da giorni al numero uno tra gli argomenti più discussi. Ma la solidarietà internazionale sembra più forte di quella palestinese, limitata a poche e rade manifestazioni fuori dal carcere di Ofer. Persino da al-Azhar, dagli ulema del Cairo, è arrivata una fatwa che ricorda come lo sciopero della fame sia una forma di suicidio, contraria dunque al Corano.
Per il resto, l’unico, laconico comunicato stampa è stato quello di Catherine Ashton, responsabile della politica estera dell’Unione europea. Chiede a Israele di tutelare la salute di Khader Adnan. Anche se non è quello che chiede lui, che si sta battendo non per la sua salute, specifica Randa, ma per la sua dignità e libertà. È ancora cosciente. Ha dichiarato solo: muoio perché viviate.
Pellegrini, ora si vola in Terra santa con El Al
di Luca Kocci (il manifesto, 4 febbraio 2012)
Apartheid con approvazione ecclesiastica. Da metà febbraio i pellegrini dell’Unitalsi - la struttura cattolica che organizza i viaggi di ammalati e anziani a Lourdes e negli altri santuari religiosi - si recheranno in Terra santa, ovvero in Israele e Palestina, con i voli della El Al, la compagnia di bandiera israeliana. L’accordo è stato presentato pochi giorni fa a Roma, in un palazzo del Vicariato, alla presenza anche del sindaco Alemanno, e ha incassato la benedizione del patriarca latino di Gerusalemme, mons. Foud Twal. «Grazie all’assistenza a terra e a bordo della compagnia di bandiera El Al Israel Airlines», spiega entusiasta Salvatore Pagliuca, presidente dell’Unitalsi, migliaia di «persone disagiate e disabili, nonostante le loro difficoltà, potranno viaggiare verso gli itinerari dello spirito per scoprire attraverso il pellegrinaggio in Terra santa il cuore delle radici cristiane».
«Un’altra, pesantissima, irresponsabile e deprecabile firma di sostegno diretto all’apartheid più lungo della storia», il duro commento di Pax Christi e del suo coordinatore nazionale, don Nandino Capovilla, principale animatore della campagna «Ponti e non muri», contro il muro di separazione voluto dal governo di Gerusalemme. Si tratta di «un accordo apparentemente solo economicoturistico, ma la potenza occupante che da decenni distrugge nell’impunità il popolo palestinese è riuscita a comprare l’appoggio incondizionato della più grande organizzazione cattolica di pellegrinaggi alle sue politiche di oppressione», aggiunge Pax Christi, e migliaia di malati e anziani delle nostre parrocchie diventeranno «inconsapevolmente sostenitori dell’occupazione di Israele nei Territori palestinesi».
Perché ad Israele «non bastano tank e bulldozer per arrestare e demolire, né caccia e bombe al fosforo», ma anche «milioni di inconsapevoli «soldati» da tutto il mondo che, pensando di aderire ad un percorso spirituale e culturale encomiabile, prestino il loro volto innocente e magari sofferente, alla demolizione di interi villaggi e aiutino a nascondere il vero volto di uno Stato occupante e violento».
Insomma un’operazione di cosmesi al profumo di incenso e mirra, con benedizione ecclesiastica, che chiama i Territori palestinesi occupati con l’edulcorata e bugiarda espressione «Judean desert» e riporta tutti i nomi degli insediamenti israeliani ma dimentica quelli delle città e dei villaggi arabi dove i palestinesi tentano di sopravvivere. Dal prossimo 19 febbraio - quando è previsto il primo viaggio Unitalsi-El Al - migliaia di pellegrini cattolici italiani «diventeranno senza saperlo diretti promotori e finanziatori dei crimini di cui continua a macchiarsi Israele», denuncia Capovilla.
Ma è solo l’inizio, annuncia Pagliuca: «Unitalsi ed El Al contano di incrementare il flusso dei pellegrini in Terra santa ma anche di inaugurare nuove destinazioni europee di pellegrinaggi, Lourdes, Banneaux, Nevers, Fatima e Santiago de Compostela».
Un tabù infranto
di Moni Ovadia (l’Unità, 03.12.2011)
Uno dei leit motiv che ho ascoltato fin da piccolo e che ha nutrito le mie inquietudini ebraiche è che l’antisemita, e in genere chi ha pregiudizi antiebraici, ragiona con questa logica: «Se Paolo uccide, ha ucciso Paolo, se Abramo uccide hanno ucciso gli ebrei».
Per l’antisemita dunque l’ebreo non è colpevole in quanto individuo, è colpevole in quanto tale e collettivamente. Noi ebrei e le nostre istituzioni abbiamo giustamente combattuto questo infame pregiudizio, sostenendo ovviamente che gli ebrei sono uomini come tutti gli altri e che fra di essi vi sono tutte le qualità e tutti i difetti che si incontrano presso le altre genti. Oggi invece molti ebrei hanno paradossalmente mutuato quella logica degli antisemiti escludendo a priori e con furore che ebrei possano macchiarsi di azioni infami come per esempio un apartheid nei confronti di altra gente. Purtroppo ciò che si sta producendo in Israele a causa di una serie di provvedimenti messi in campo dal governo Netanyahu è ormai un vero e proprio apartheid nei confronti della popolazione palestinese dei territori, ma anche contro i palestinesi cittadini dello stato d’Israele.
A sostenerlo è l’editore e proprietario dell’autorevole quotidiano Haaretz, Amos Schocken che ha suscitato grande scalpore con un suo articolo di fondo che demolisce uno dei più potenti tabù della società israeliana e di una parte della diaspora ebraica.
Condividono l’opinione di Schocken altri uomini di pensiero israeliani, come il grande storico Zeev Sternhell, che denunciano anche l’erosione quotidiana della democrazia liberale di cui gli israeliani tanto si gloriano.
Palestina, una decisione coraggiosa
di Filippo Gentiloni (“il manifesto”, 6 novembre 2011
Ci lamentiamo spesso del silenzio vaticano sulle questioni anche importanti che non lo riguardano direttamente. È bene questa volta, invece, sottolineare un importante intervento della Santa Sede in favore del riconoscimento della autonomia e indipendenza della Palestina. Una «decisione coraggiosa», come commenta la rivista "Il Regno" che la riferisce, dopo che la Palestina aveva fatto formale richiesta di diventare membro ufficiale dell’Onu. Così si è espresso il rappresentante della Santa Sede, che ha lo statuto di "osservatore" nell’organizzazione: «Se si vuole la pace occorre saper adottare decisioni coraggiose. Occorre quindi dare concreta attuazione all’obiettivo della realizzazione del diritto dei palestinesi ad avere un proprio stato indipendente e sovrano e del diritto degli israeliani alla sicurezza, avendo i due stati confini internazionalmente riconosciuti».
Il rappresentante della Santa Sede così concludeva: «La Santa Sede esorta le parti a riprendere con determinazione i negoziati e rivolge un pressante appello affinché si giunga ad una pace duratura, nel rispetto dei diritti degli israeliani e dei palestinesi».
La Santa Sede ricorda il documento del 1947 che poneva la base giuridica per l’esistenza dei due stati. Uno di questi ha già da tempo visto la luce, mentre l’altro non è ancora stato costituito, benché siano passati più di 40 anni. La Santa Sede auspica che gli organi competenti delle Nazioni Unite prendano una decisione che aiuti a dare completa attuazione all’obiettivo finale, cioè la realizzazione del diritto dei palestinesi ad avere un proprio stato indipendente e sovrano e del diritto degli israeliani alla sicurezza.
Nei confronti di questa decisa posizione della Santa Sede all’Onu la maggior parte degli stati si è dimostrata favorevole. Contrari, come era prevedibile, sia Israele che gli Usa. L’Italia si è astenuta.
Bibi, Barack e l’amico pavido
di Moni Ovadia (l’Unità, 5.11. 2011)
Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen prosegue nella sua lungimirante e pacifica attività diplomatica di fronte alla comunità internazionale. In attesa della risposta all’istanza di adesione della Palestina all’Onu come membro effettivo, ha fatto richiesta di adesione all’Unesco.
La richiesta è stata calorosamente accettata a stragrande maggioranza, con l’ovvia e miserabile opposizione del governo israeliano, di quella degli Stati Uniti e l’astensione prevedibile di alcuni pavidi europei fra cui brilla quella del nostro governicchio. Netanyahu ha definito l’ingresso della Palestina una tragedia, il presidente Obama si è totalmente appiattito sui desiderata del governo israeliano senza vergogna. I due, da bravi compagni di merende, hanno risposto all’unisono al pacifico atto di civiltà democratica dei palestinesi con squallide e vili rappresaglie improntate alla prepotenza spudorata del più forte.
Barack non verserà il finanziamento all’Unesco, Bibi ha decretato la costruzione di duemila unità abitative abusive a Gerusalemme est e ha sospeso il trasferimento delle entrate fiscali palestinesi all’Anp. Un comportamento davvero esemplare per la sedicente più grande democrazia del mondo e per la ancora più sedicente unica democrazia del Medioriente.
La lezione che si può trarre da questo episodio è che Bibi non considera il moderato, pacifico e democratico Abu Mazen un interlocutore ma predilige il «dialogo» bellico con le frange jihadiste perché non vuole una vera pace. Quanto a Barack si sta applicando per diventare uno dei peggiori presidenti della storia statunitense.
Peres e Barak: raid contro l’Iran sempre più probabile. Francia: attacco sarebbe destabilizzante *
Mentre il mondo guarda alla crisi dell’Eurozona, il G20 discute dell’emergenza economica in Europa, della debole ripresa negli Stati Uniti, e la primavera araba sembra fare un passo avanti e due indietro, si riaccende il fronte Iran, paese che ha visto la nascita di un movimento di protesta giovane, l’Onda verde del 2009, e la sua repressione a opera del regime di Kamenei e del presidente Mamoud Ahmadinejad.
Il presidente israeliano Shimon Peres ha ribadito ieri notte in una intervista ad una tv israeliana: «un attacco all’Iran» da parte di Israele e di altri Paesi fra cui Stati Uniti e Gran Bretagna è «sempre più verosimile». Le sue dichiarazioni sono giunte dopo che da giorni si parla sui media israeliani di un possibile raid aereo contro installazioni nucleari in Iran. Il primo ministro Benyamin Netanyahu non ha accennato alla questione aprendo oggi la consueta riunione settimanale del governo, ma altri ministri hanno criticato i colleghi che hanno affrontato pubblicamente l’argomento. Ma il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha detto alla Bbc che un l’Iran «determinato ad avere capacità militari nucleari» rappresenterebbe «una grossa minaccia per il mondo» anche perché una atomica iraniana «rischierebbe di aprire una corsa al nucleare in Medio Oriente».
Il ministro Juppè: rafforzare sanzioni
Come in altre occasioni, quando si tratta di prendere posizione su questioni mediorientali e del mondo arabo - dai palestinesi alla Libia - spiccano le parole contro della Francia. Un raid militare contro le installazioni nucleari iraniane porterebbe ad una situazione «totalmente destabilizzante» in Medio oriente, dice oggi il ministro degli Esteri francese Alain Juppè, in un’intervista a radio Europe 1, aggiungendo che Parigi insisterá per rafforzare le sanzioni internazionali. «Possiamo ancora rafforzarle (le sanzioni) per premere sull’Iran. Continueremo su questa strada perchè un intervento militare creerebbe una situazione totalmente detabilizzante nella regione, ha detto il ministro- »Dobbiamo fare il possibile -ha aggiunto- per evitare l’irreparabile».
* IL SOLE 24 ORE, 6 NOVEMBRE 2011
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-11-06/peres-barak-raid-contro-162245.shtml?uuid=AaKHoFJE
Una nuova Flottiglia in rotta verso Gaza
Lo Stato ebraico: "Pronti a fermare le navi" *
ISTANBUL Due navi che battono bandiera irlandese e canadese sono salpate dalla Turchia, in rotta verso la Striscia di Gaza per forzare il blocco imposto da Israele. Fanno parte della Freedom Flotilla II. Cariche di medicinali, navigano in acque internazionali. L’arrivo è previsto venerdì. A bordo ci sono 27 persone: giornalisti e attivisti australiani, canadesi, irlandesi, americani, palestinesi.
Il ministero degli Esteri di Ankara conferma la notizia. Stavolta nessun cittadino turco partecipa all’operazione. Il primo tentativo della Freedom Fotilla è del 2010: il raid israeliano per fermare la Mavi Marmara finì con l’uccisione di nove attivisti e innescò una delle più gravi crisi diplomatiche fra Israele e Turchia. Il governo israeliano già preannuncia il ricorso «a ogni misura necessaria» per impedire che «il blocco di Gaza sia violato».
* la Repubblica, 3.11.2011
Israele e Palestina due popoli, due Patrie
di Abraham Yehoshua (la Repubblica, 2.11.2011)
Non c’è nell’identità ebraica concetto più problematico di «patria». «Vattene dalla tua terra, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti mostrerò». È la prima frase che viene detta ad Abramo, il primo ebreo. Nel corso di tutta la storia ebraica, la frase è stata adottata da molti ebrei tanto come comandamento teologico, quanto come possibilità esistenziale e ideologica. Lo stesso Abramo non abbandonò solo la propria patria e la casa paterna, ma perfino la nuova Terra che gli era stata destinata, e discese verso l’Egitto. Il popolo d’Israele non si è formato nella propria patria e anche la Torah, il nucleo essenziale della Bibbia ebraica, non gli è stata consegnata in patria ma nel deserto, zona intermedia fra la diaspora e la patria cui erano diretti.
Sono pochi i popoli che hanno consolidato la propria identità fisica e spirituale in un luogo diverso dalla patria. Gli esiliati condotti in Babilonia dopo la distruzione del primo Santuario di Gerusalemme, cantavano con emozione: «Sui fiumi di Babilonia sedevamo e piangevamo ricordando Sion». Ma quando, dopo soli 40 anni il re di Persia li chiamò per tornare alla loro terra e riedificare il Santuario, solo una parte di loro accettò di tornare nella Terra d’Israele. Per i 600 anni del periodo del Secondo Santuario di Gerusalemme, circa la metà del popolo d’Israele aveva già iniziato a vagare nel mondo antico, contribuendo al progressivo indebolimento del legame fisico con la Terra d’Israele. L’identità nazionale e religiosa ebraica non rinunciò alla patria, ma riuscì a trasformarla da concreta in virtuale.
I romani non esiliarono gli ebrei dalla Terra d’Israele dopo la distruzione del Secondo Santuario di Gerusalemme. Qualsiasi storico di quel periodo può offrirne le prove. E nei 1500 anni seguiti allo sfaldamento dell’impero romano, non c’era alcun presidio di aguzzini sui confini della Terra d’Israele, ad impedire il ritorno degli ebrei alla loro terra. Il falso mito dell’esilio degli ebrei da parte dei romani, profondamente radicato nelle ragioni che ci fanno pretendere il diritto storico sulla Terra, non ha il sostegno neppure della secolare preghiera ebraica, in cui si dice: «A causa dei nostri peccati siamo esiliati dalla nostra terra» e non «siamo stati esiliati». E così, i circa due milioni di ebrei che, secondo le stime più accettate vivevano in tutta la terra d’Israele al momento della distruzione del Secondo Santuario di Gerusalemme, non vennero ammassati su navi romane e forzosamente esiliati (dove poi?), bensì lasciarono pian piano la loro patria (in particolare dopo la rivolta di Bar Kochbà nel 135) e andarono ad unirsi al gran numero di ebrei già sparsi nei Paesi del mondo antico.
Una dispersione che è viva e dinamica anche ai nostri giorni. Dall’Afghanistan all’Iran, da Bukhara all’Uzbekistan, dall’Ucraina alla Romania, alla Turchia, all’Irak, allo Yemen, al Nordafrica e a tutto il bacino Mediterraneo, alla Russia in tutte le sue varianti etnico-regionali, all’Europa occidentale e orientale e in tutto il Nuovo Mondo, e anche le lontanissime Australia e Nuova Zelanda. Dagli inizi del XIX secolo (quando in Terra d’Israele risiedevano secondo fonti storiche solo 5000 ebrei su una popolazione ebraica globale stimata in 2,5 milioni) fino ad oggi, l’80% della popolazione ebraica ha cambiato la propria nazione di residenza. Il massimo dell’orrore può essere rappresentato dal fatto che perfino una gran parte delle vittime della Shoah non è stata eliminata nei luoghi dove risiedeva ma è stata trasportata all’annientamento con la forza, in una non-patria, in campi di sterminio alienati, privi di qualsiasi carattere nazionale.
La «patria virtuale» nella quale gli ebrei si sono specializzati , non è mai piaciuta agli altri popoli. Nelle composizioni filosofiche gordoniane sul rinnovato legame con il lavoro agricolo, nelle ideologie morali brenneriane sulla totale responsabilità verso la realtà, nelle utopie herzliane e nelle ammonizioni di Jabotinsky del genere «se non eliminerete la diaspora, la diaspora eliminerà voi» - i vari padri del sionismo tentarono di convincere gli ebrei agli inizi del XX secolo a restaurare il concetto di patria che tanto si era indebolito con il passare delle generazioni. Urgeva però trovare risposta a un’altra domanda: c’era un territorio libero per realizzare questo programma?
L’unico luogo nel quale sarebbe stato possibile convincere gli ebrei a rinunciare alla propria patria virtuale per identificarsi in una patria reale, fisica, era la Terra d’Israele. Ma la Terra d’Israele era già la patria degli abitanti che vi vivevano. Potevano gli ebrei mantenere con un comando a distanza un diritto storico sulla Terra d’Israele dopo centinaia di anni in cui ne erano stati assenti? Per questo l’unico diritto morale in virtù del quale il popolo ebraico ha potuto rendere la Terra d’Israele patria ebraica reale, gli è derivato dalle tragiche necessità di un popolo che altrimenti sarebbe stato condannato a morte. E così fu. La vecchia-nuova patria salvò di fatto dai campi di sterminio centinaia di migliaia di ebrei europei.
Quindi, dato che la patria non è solo territorio ma anche un elemento primario nella identità individuale e nazionale, la divisione della Terra d’Israele in due Stati non è solo l’unica soluzione politica, ma è anche un imperativo morale. E chi si impossessa di parti di territori palestinesi come fa quotidianamente lo Stato d’Israele al di là della Linea verde, deruba e ferisce la parte più delicata dell’identità dei suoi abitanti.
L’identità patriottica dei palestinesi è quasi opposta alla nostra, e anch’essa ha bisogno di revisione. Di fronte a un popolo che ha cambiato continuamente Paesi di residenza, il concetto di patria dei palestinesi si restringe talvolta al villaggio e alla casa. I palestinesi nei campi profughi a Gaza o in Cisgiordania sono rimasti a vivere a pochi chilometri di distanza dalle case e dai villaggi dai quali sono fuggiti o sono stati allontanati dalla guerra del 1948, e di fatto si trovano ancora nella patria palestinese. Nella loro percezione non sono stati solo esiliati dal villaggio o dalla casa, ma dalla patria stessa, e per questo da 64 anni abitano nelle condizioni umilianti e paralizzanti dei campi profughi. E il diritto al ritorno alla propria patria - una richiesta legittima - si è trasformato nel diritto a tornare nella propria casa dentro Israele - che è una richiesta impossibile e non indispensabile ai fini di una soluzione pacifica.
In giorni di sconforto politico, non vale forse la pena di cercare una nuova strada per la pace, rivedendo nelle due parti concetti antiquati? (Traduzione di Cesare Pavoncello)
L’eroe di Treblinka che tifa per i palestinesi
“Senza un loro Stato sarà la catastrofe”
di Roberta Zunini (il Fatto, 2.11.2011)
All’ultimo piano di una bella palazzina bianca, tardo Deco, su viale Ben Gurion, nel cuore di Tel Aviv, abita Samuel Willerberg, l’ultimo ebreo sopravvissuto alle persecuzioni naziste nel lager di Treblinka. È un eroe nazionale, avendo preso parte alla rivolta del ghetto di Varsavia e a quella del campo di sterminio polacco. “Purtroppo sono anche molto vecchio ormai”, dice sorridendo sul terrazzo dove la moglie Ada annaffia le piante. Nonostante l’età ha 88 anni Willenberg ha una memoria sorprendente: la sua mente è lucidissima, la sua parola ironicamente tagliente e il suo sguardo è preoccupato.
“LA SITUAZIONE non è per nulla rosea, né internamente né per quanto riguarda il conflitto con i palestinesi, per non parlare dell’isolamento internazionale in cui siamo finiti dopo l’esplosione della primavera araba”. È questo voto a favore dell’ingresso della Palestina nell’Unesco (che ieri Israele ha punito bloccando il trasferimento dei fondi all’Autorità nazionale palestinese, ndr) che la preoccupa? “Non è che la logica conseguenza del cambiamento in atto negli equilibri internazionali e dell’inazione intransigente di Israele. Però le vorrei far vedere si alza di scatto e con passo deciso si avvia verso il corridoio quindi entra in una grande stanza piena delle sue sculture - le mappe su cui ho lavorato quando arrivai in Israele dopo essere scampato al genocidio”. Willenberg nacque in Polonia nel 1923, figlio di un insegnante ebreo polacco e di una madre molto devota. “Ma non sono credente: dopo l’Olocausto non ci credo più e non riesco a tornare indietro, a quando ero un giovane fedele praticante che frequentava la sinagoga. Comunque ora parliamo della spartizione di Israele e dei Territori”.
Stendendo la mappa inizia a tracciare con un dito una ipotetica dorsale, al confine tra l’attuale Israele e la Cisgiordania dove secondo lui ci sarebbe stato modo di modificare i confini. “Ho lavorato per tanti anni presso la municipalità e lo Stato israeliano come addetto allo studio delle mappature e non sono d’accordo su come è stato suddiviso il territorio. Avremmo dovuto creare una continuità diversa tra le zone a prevalenza araba, ora ci sarebbero molti meno problemi. Perché, anche se nessuno lo grida, i coloni israeliani e i palestinesi di nazionalità israeliana che vivono a Jaffa, Nazareth, Haifa, (città israeliane a maggioranza araba palestinese, ndr) sono sempre più ai ferri corti: pensi ai coloni estremisti religiosi ebrei che hanno distrutto tombe islamiche e cattoliche nel cimitero di Jaffa”.
Mentre i razzi degli estremisti islamici di Gaza cominciavano a piovere attorno alla capitale amministrativa israeliana, difesa da un potente scudo satellitare. “La situazione si complica, oltre all’imminente voto del Consiglio di Sicurezza Onu che scatenerà il putiferio visto il veto già annunciato di Obama, bisogna vedere se la fratellanza musulmana vincerà le elezioni in Egitto”.
Insomma questo mese sarà cruciale per il Medio Oriente? “Sì, lo sarà, sul fronte diplomatico e arabo, non certo da parte del governo Netanyahu a cui non interessa uscire da questo stallo. È ovvio che i palestinesi cerchino di ottenere ciò che vogliono. Se nessuno risponde fanno bene a chiederlo per via diplomatica.. Siamo noi che non agiamo per biechi scopi elettorali. E non è solo colpa di Netanyahu - che ieri ha deciso di accelerare la costruzione di nuove colonie a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, ndr ma anche della coalizione al governo, fondata sull’ortodossia religiosa più esasperata. Ma non c’è nulla da fare, per sbloccare la situazione, bisogna dare ai palestinesi un Stato indipendente e finirla con l’espansione delle colonie”.
Palestina, quasi Stato nell’Unesco
Gli Usa tagliano i fondi. Ritorsione pro-israeliana: “Così la pace si allontana”
di Roberta Zunini (il Fatto, 1.11.2011)
Pochi mesi fa sono stati festeggiati i diecimila anni di Gerico, la città più antica del mondo, una delle principali attrazioni archeologiche mondiali sul territorio dell’Autorità nazionale palestinese. Che ieri, una delle più importanti agenzie dell’Onu, l’Unesco (organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, ndr) ha promosso da entità a Stato sovrano a pieno titolo, anticipando e, soprattutto, contravvenendo alle indicazioni degli Stati Uniti, in vista dell’imminente voto del Consiglio di sicurezza Onu sull’ingresso della Palestina tra gli Stati membri dell’assemblea generale. “Quest’ammissione è una vittoria della libertà, della giustizia e della cultura intesa nel senso più alto del termine”, ha subito dichiarato il presidente palestinese Abu Mazen. La Palestina è una terra ricca di siti archeologici e con una tradizione culturale antichissima. Ma la diatriba culturale è l’ultimo dei problemi.
Da ieri siamo di fronte a uno degli scontri diplomatici più duri del nuovo millennio. Tanto che gli Usa hanno sospeso, appena 9 ore ore dopo il voto dell’Unesco, il budget federale mensile predisposto: 60 milioni di dollari (gli Usa partecipano al 22% del totale del budget dell’agenzia Onu).
“IL VOTO - ha affermato NAbil Shaat, collaboratore di Abu Ma-zen - è un test riuscito prima del voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di ogni futuro voto in seno all’Assemblea generale Onu per il riconoscimento dello Stato palestinese”. Un voto - previsto per l’11 novembre - che sta mettendo a dura prova le alleanze tra Stati Uniti e Paesi mediorientali, in primis la Turchia, l’Egitto e ultima, ma non ultima, l’Arabia Saudita (finora primo alleato di Washington), visto che il presidente americano Obama ha dichiarato fin dall’annuncio del ricorso all’Onu da parte dell’Anp, che avrebbe posto il veto al riconoscimento, via assembleare, dello Stato palestinese.
Le parole del presidente Abu Mazen e di Nabil Shaath hanno fatto infuriare ancora di più Israele e gli Usa che hanno subito minacciato di ritirare gli aiuti all’Unesco e dunque all’Onu. Contributi ingenti che incidono per un quarto sulla somma globale. Shaath, che è membro del comitato centrale di Fatah, ha ricordato all’agenzia di stampa internazionale Aki che oggi “nove dei Paesi più popolosi al mondo, Cina, India, Russia, Brasile e Pakistan, cioè due terzi della popolazione mondiale, hanno votato a nostro favore”, sottolineando come le dichiarazioni irate degli Usa, “sono una minaccia per la pace e la sicurezza mondiale, nonché una punizione collettiva”. Shaath ha poi detto che il Consiglio di sicurezza deve a questo punto prendere atto del voto, riferendosi al veto già annunciato dagli Usa riguardo alla richiesta di riconoscimento della piena membership, formalizzata il 23 settembre davanti all’assemblea generale Onu da Abu Mazen.
“QUELLO CHE è successo è una vittoria per tutto il popolo palestinese, un nuovo riconoscimento internazionale al diritto del popolo palestinese di avere uno Stato indipendente e sovrano”. L’assemblea generale dell’Unesco di ieri ha mostrato peraltro in anticipo gli schieramenti della comunità internazionale: la Francia, molto dinamica, per usare un eufemismo, durante questa primavera araba di rivoluzioni e guerre per il petrolio mediorientale, si è schierata a favore dell’ingresso della Palestina nell’Unesco. Mentre già si sapeva che la Germania avrebbe votato contro. L’Italia e l’Inghilterra invece si sono astenute... ça va sans dire.
«Se i palestinesi provano a forzare la via diplomatica, come hanno fatto ieri, tutti gridano che queste iniziative «unilaterali» sono un ostacolo alla pace. Ci piacerebbe allora sapere - in particolare da Israele, Stati Uniti, e Italia - esattamente cosa dovrebbero fare i palestinesi, a parte svanire quietamente tra le nuvole»
MEDIO ORIENTE
Shalit, accordo per la liberazione
mille prigionieri in cambio
Il pilota israeliano è prigioniero di Hamas nella Striscia di Gaza dal 2006. I familiari: "Speriamo sia la volta buona"
TEL AVIV - Il governo israeliano e Hamas hanno raggiunto un accordo per la liberazione del soldato Gilad Shalit in cambio della scarcerazione di mille prigionieri palestinesi. "Lo scambio di prigionieri per Shalit verrà attuato all’inizio di novembre, con la medizione dell’Egitto", ha annunciato la tv Al Arabiya.
Abu Obeida, portavoce delle Brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas, ha confermato stasera l’intesa di massima con Israele, mediata dall’Egitto, aggiungendo che il caso Shalit "sarà chiuso in pochi giorni", pronbabilmente nel giro di una settimana.
Shalit è in ostaggio dal 2006: l’accordo prevede che Israele liberi i 1.000 prigionieri palestinesi in due tranche: la prima di 500 quando Shalit lascierà la Striscia di Gaza per passare in Egitto, e gli ulteriori 500 quando tornerà in Israele. Tra i prigionieri liberati ci sarà anche Marwan Barghuti, leader di Tanzim (organizzazione armata legata a Fatah), condannato a 5 ergastoli. Ancora non è chiaro se Barghouti e altri sei miliziani di punta potranno restare nei Territori.
"Abbiamo ricevuto un aggiornamento. Speriamo che questi sviluppi siano seri": hanno dichiarato i familiari del soldato, da oltre un anno sono accampati in una tenda a breve distanza dalla residenza del premier Benyamin Netanyahu, a Gerusalemme. "Manteniamo un cauto ottimismo" hanno aggiunto. "Anche in passato abbiamo visto infatti riunioni urgenti del governo".
Il retroscena. Da fonti politiche israeliane si apprende che dietro allo scambio dei prigionieri fra Israele e Hamas - sul quale è stata convocata una consultazione urgente dei ministri israeliani - c’è stata la apertura di una "finestra di opportunità", di carattere regionale.
Il riferimento è alla situazione creatasi con la ’primavera araba’: in particolare alla crisi nella relazioni fra Hamas e il regime di Bashar Assad a Damasco, aggiunta al desiderio della giunta militare in Egitto di conseguire un successo diplomatico. Viene inoltre citata una asserita necessità per Hamas di ottenere un vistoso successo agli occhi dei palestinesi da opporre a quello registrato da Abu Mazen (Anp) quando ha chiesto la piena adesione della Palestina alle Nazioni Unite.
* la Repubblica, 11 ottobre 2011
Palestina, la battaglia dell’Unesco
L’organizzazione verso il pieno riconoscimento. Gli Usa insorgono: tagliamo i fondi
Israele teme che l’Anp chieda la protezione internazionale dei siti nei Territori
di Alberto Stabile (la Repubblica, 07.10.2011)
BEIRUT - È per lo meno dai tempi degli accordi di Oslo (1993) che l’autorità palestinese chiede, ogni due anni, in occasione della celebrazione del Consiglio generale dell’Unesco, il pieno il riconoscimento come membro effettivo dell’Agenzia delle Nazioni Unite preposta alla salvaguardia del patrimonio educativo, scientifico e culturale del mondo. La novità è che, mercoledì, per la prima volta, il comitato esecutivo dell’organizzazione ha deciso a maggioranza (ma con il voto contrario degli Stati Uniti) di portare la richiesta di full membership palestinese al voto del Consiglio generale che si riunirà dal 15 Ottobre al 10 Novembre, a Parigi. Una decisione che ha irritato Hillary Clinton e provocato le ire del Congresso a maggioranza repubblicana, al punto da minacciare d’interrompere il flusso dei finanziamenti americani all’Unesco, circa 250 milioni di dollari, ogni due anni. Ma perché gli Stati Uniti, anche stavolta spalleggiati da Israele, si oppongono alla promozione dell’Autorità palestinese da "osservatore" a membro a pieno titolo dell’Unesco? La prima, ovvia risposta è che gli americani ritengono che la richiesta presentata all’Unesco non sia altro che una mossa per accentuare la pressione sul Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dopo che il tentativo dei palestinesi di vedersi riconoscere come Stato è stato in qualche modo indirizzato verso una sorta di labirinto burocratico.
Ma c’è un altro motivo che spinge israeliani e americani, a respingere il tentativo di riconoscimento avanzata dai palestinesi all’Unesco. I due alleati temono, in sostanza che una volta sancita la partecipazione a pieno titolo dei palestinesi all’Unesco, gli stessi potrebbero più agevolmente richiedere la protezione internazionale per quei luoghi di interesse archeologico, religioso e culturale che sorgono nei Territori occupati e, comunque, contesi e che sono attualmente sotto sovranità israeliana. In altri termini, la guerra dei siti come aspetto collaterale del più generale conflitto sulla terra.
Già un paio di anni fa il premier Netanyahu stupì il mondo includendo unilateralmente nel patrimonio cultuale israeliano siti quali la tomba di Rachele (Betlemme), la Tomba di Giuseppe (Nablus) e la moschea-sinagoga di Hebron (Mapela, o Grotta dei Patriarchi per gli ebrei, Al Haram al Khalil per i musulmani) che si trovano in zone tuttora al centro del conflitto. I palestinesi risposero stilando, in modo del pari unilaterale, un loro elenco di siti attestanti l’originalità del loro patrimonio nazionale e la loro titolarità sullo stesso. Ad aprire la lista era la città di Betlemme con al centro la Chiesa della Natività (VI Secolo). Seguiva poi la città vecchia di Hebron e la kasbah di Nablus gravemente danneggiata dalle incursioni israeliane durante la Seconda intifada, il sito romano di Sebastia, Tell al Suitan a Gerico e così via.
L’autorità palestinese celebrò quel passo come una vittoria, ma l’Unesco respinse la richiesta obbiettando che non poteva essere un "osservatore" a chiedere l’inclusione di un sito nel patrimonio mondiale, ma uno Stato membro. E’ del tutto evidente che quell’obiezione potrebbe essere travolta dall’imminente decisione del Consiglio generale dell’Agenzia.
Non c’era Gerusalemme nella lista preparata dai palestinesi, perché la Città santa e le sue mura appartengono al Patrimonio mondiale dell’Unesco sin dal 1982. Il che, però, non ha impedito ai progettisti della metropolitana di superficie di far passare la ferrovia a cinque metri, e forse, meno, dalle mura di Solimano il Magnifico. La città vecchia di Gerusalemme, resta, tuttavia, per i palestinesi non meno che per gli israeliani testimonianza viva della loro appartenenza.
Intervista
“Nessuno potrà fermare la nascita della Palestina”
Abu Mazen: se Obama mette il veto va contro i principi stessi dell’America
IN ROTTA CON BLAIR. «Le sue posizioni sono inaccettabili, a volte persino per il Quartetto»
TURCHIA, SIRIA E IRAN. «Abbiamo una relazione eccellente con Erdogan Ma dialoghiamo con tutti»
di Rachida Dergham (La Stampa, 30.09.2011)
Presidente, come si è sentito a parlare davanti all’Assemblea Generale? Che cos’ha provato in un momento simile? «Sentivo di essere testimone di un evento storico, di essere lì a presentare una richiesta giusta e sacrosanta: il diritto di ottenere uno Stato che sia a pieno titolo membro delle Nazioni Unite, come tutti gli altri. Mi è sembrato che se si fosse votato in quel momento avremmo avuto un appoggio unanime. Ma purtroppo ci sono persone che vogliono impedire al popolo palestinese di raggiungere questo traguardo e l’unica cosa da fare è essere pazienti».
Teme le reazioni? Pensa che quest’avventura possa avere conseguenze indesiderate?
«Non è un’avventura. Al contrario, è uno sforzo ben calcolato. Per oltre un anno abbiamo discusso la questione e l’abbiamo esaminata da ogni angolo. Ne abbiamo parlato con le altre nazioni arabe e con la Lega Araba, che sono sempre state al corrente di ogni nostro passo. Siamo stati chiari con tutti, senza trucchi. Nei nostri incontri e nelle nostre dichiarazioni, è sempre stata palese la nostra posizione».
L’eventuale veto degli Stati Uniti vi pone davanti a un bivio. State valutando delle alternative?
«Torneremo in patria e studieremo tutte le possibilità. Ogni proposta che riceveremo sarà presa attentamente in considerazione, ferme restando le condizioni che abbiamo posto. La realtà è che vogliamo tornare a negoziare. Ma senza il riconoscimento delle frontiere del 1967 e senza che gli insediamenti si fermino, non ci siederemo ad alcun tavolo. Attendiamo che la decisione del Consiglio di Sicurezza venga presa e tutti i passi formali. Ma rifiutiamo ogni gioco politico, ogni tentativo di fare ostruzionismo o temporeggiare».
Se la decisione del Consiglio di Sicurezza sarà rinviata, c’è la possibilità che per la Palestina vi sia un posto nell’Onu come «Stato osservatore»?
«Non è una soluzione che stiamo considerando in questo momento. Ripeto: rifiutiamo ogni tipo di rinvio o ostruzionismo.
Se il veto statunitense fosse confermato, la Palestina non sarà riconosciuta come Nazione e non potrà appellarsi alla Corte Penale Internazionale.
«Gli Stati Uniti, la roccaforte della democrazia, farebbero un torto al popolo palestinese negandogli la libertà e il diritto all’autodeterminazione. E dovrebbero rispondere di questa scelta».
Ma c’è chi dice: perché perdere l’appoggio di un presidente americano favorevole alla vostra causa?
«È stato il presidente degli Stati Uniti a parlare dello stop agli insediamenti, di confini del ‘67. Ora dovrebbe dare seguito alle sue parole».
Il presidente francese Sarkozy può essere l’alternativa giusta, se avanzerà delle proposte più dettagliate?
«Apprezziamo il suo impegno, ma daremo una risposta solo dopo aver consultato la leadership palestinese. Solo in quella sede verrà presa una decisione».
L’esperienza del Quartetto può dirsi conclusa? È deluso dalle sue posizioni?
«Purtroppo nell’ultimo anno il Quartetto non è riuscito a produrre alcun documento, come invece era avvenuto in passato. Quest’anno il Quartetto ha fallito, almeno fino ad oggi. È stato il Quartetto a rifiutare le proposte americane, non noi. La Russia, l’Europa e l’Onu hanno rifiutato le istanze americane e questo significa che erano inaccettabili per chiunque. Proposte che parlano di uno stato ebraico e del blocco degli insediamenti come se fossero un fatto compiuto e lasciano la gestione della sicurezza in mano israeliana. Di fatto è stato l’inviato del Quartetto, Tony Blair, a portare sul tavolo le idee che lo stesso Quartetto ha rigettato».
Sarkozy ha proposto di fissare un calendario per i negoziati.
«I negoziati sono la vera priorità, vengono prima della tempistica. Quello che conta è la sostanza. Se la sostanza è adeguata, allora siamo disposti a fissare una roadmap e una scadenza».
Hamas è stata critica con il suo discorso.
«Fin dall’inizio, Hamas ha detto che si sarebbe trattato di una mossa unilaterale. È vero, forse non li abbiamo consultati. Dicono “se tu non ci consulti, siamo contro di te”, ma è assurdo. Capisco il succo delle loro posizioni, ma ne hanno fatto una questione di orgoglio. Rifiutano ogni compromesso, anche con pretesti: sostengono che il discorso conteneva contraddizioni, quando invece tutto il mondo ha capito quello che abbiamo detto. È deprecabile».
Lei ha proposto qualcosa di simile a una nuova intifada.
«Non ho parlato di intifada, quella appartiene al passato. Oggi c’è invece una pacifica resistenza popolare a Bil’in, a Ni’lin e in altre città della Palestina vicine al Muro. È una resistenza condotta dai palestinesi, ma anche da israeliani e volontari internazionali. Queste proteste non violano alcuna legge internazionale, le appoggiamo perché si oppongono all’occupazione e solo finché saranno pacifiche. Ora, abbiamo imparato dai nostri fratelli arabi e dalla primavera araba. Le loro proteste pacifiche si sono dimostrate il metodo più efficace per ottenere i propri diritti».
Teme che Benjamin Netanyahu possa minacciare nuove misure?
«Dal punto di vista militare, anche senza minacce, Netanyahu può fare qualunque cosa: non siamo in grado di confrontarci con Israele su quel piano e non vogliamo farlo. Ma se lo vorrà, la nostra porta è aperta».
I primi a congratularsi con lei per il suo discorso sono stati il primo ministro turco Erdogan e l’Emiro del Qatar. Qual è la natura delle vostre relazioni, considerando la rivalità tra Iran e Turchia? E qual è il vostro rapporto con Iran e Siria?
«Qui a New York abbiamo incontrato la delegazione iraniana e quella siriana. Il ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad è venuto a congratularsi con me. Non siamo in alcun modo in cattivi rapporti. Per quanto riguarda Erdogan, la nostra relazione è eccellente, così come quella con l’Emiro del Qatar. Non abbiamo problemi con nessuno».
C’è qualcosa che teme?
«Di chi dovrei aver paura? Se Netanyahu vuole attaccarci, lo faccia. Se vuole annullare gli accordi, lo faccia. È libero di fare quello che preferisce perché è Israele la nazione occupante. Netanyahu occupa la nostra terra e può fare ciò che vuole. Ma non ci sottometteremo alla sua volontà. E ci opporremo con mezzi pacifici».
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Abu Mazen chiede riconoscimento a Onu: ’’E’ il tempo della primavera palestinese’’
New York - (Adnkronos/dpa) - L’istanza consegnata dal presidente dell’Autorità Nazionale palestinese al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki moon: ’’Non voglio credere che la nostra richiesta possa essere respinta’’. Festa a Ramallah, gelo di Israele. Netanyahu: "Prima risolvere i problemi della sicurezza". Frattini: "Ho visto dei leader che vogliono la pace, ma c’è molta sfiducia reciproca". Obama parla all’Onu: "La pace è difficile ma è possibile e la gente la vuole"
"Presidente Abbas... siamo nella stessa città, nello stesso edificio... parliamoci apertamente" e cerchiamo "un terreno comune per la pace". Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha iniziato e concluso il suo discorso all’Onu offrendo ai palestinesi "la mano tesa" per la pace e un negoziato "senza precondizioni". Ma nel suo intervento, poco dopo che il leader palestinese Mahmoud Abbas aveva annunciato di aver presentato la richiesta del riconoscimento dello Stato palestinese all’Onu, Netanyahu ha chiarito che "i palestinesi devono prima fare la pace con Israele e solo dopo potranno avere il loro Stato". I problemi della sicurezza "devono essere risolti prima della pace", non dopo, ha detto ancora Netanyahu, secondo il quale sarà necessario mantenere una presenza militare israeliana a lungo termine in Cisgiordania. E per il primo ministro israeliano il cuore del problema non sono gli insediamenti, ma "il rifiuto palestinese di riconoscere lo Stato ebraico".
"Ho visto dei leader che vogliono la pace", ha commentato il ministro degli Esteri, Franco Frattini. "Si capisce -ha proseguito- che per entrambi la pace non ha alternativa e sono tutti e due sinceramente convinti di questo, però c’è stata una tale stratificazione di sfiducia reciproca per decenni che e’ difficilissima da recuperare".
E a Ramallah, in Cisgiordania, è scoppiata la festa durante il discorso del presidente dell’Anp al Palazzo di Vetro. "E’ arrivato il tempo per la primavera palestinese", "è arrivato il tempo per l’indipendenza", è arrivato il tempo perché i palestinesi "abbiano una vita normale" come tutti gli altri popoli, ha scandito Abu Mazen perorando la causa del suo popolo. "A nome del popolo palestinese", Abbas ha detto di voler "stendere la mano" a Israele per raggiungere la pace e si è detto pronto a nuovi negoziati.
Sottolineando anche che il suo popolo "rifiuta la violenza e il terrorismo e specialmente il terrorismo di Stato". Il suo è stato un appassionato discorso, iniziato ricordando che all’Assemblea Generale di un anno fa vi era "speranza" per i negoziati di pace appena ripresi fra israeliani e palestinesi. Ma è stato anche una dura requisitoria contro la politica israeliana degli insediamenti "che distruggerà le possibilità del raggiungimento di una soluzione con due Stati... che minaccia di minare la struttura dell’Autorità palestinese e anche di metter fine alla sua esistenza".
Abu Mazen, già accolto con calore dalle delegazioni presenti all’Assemblea generale dell’Onu, ha provocato uno scrosciante applauso dell’Aula quando ha citato il leader storico dell’Olp Yasser Arafat: "Arafat nel 1974 -ha detto- venne qui ad assicurare la volontà di pace dei palestinesi ma disse anche non lasciate che i rami d’ulivo cadano dalle mie braccia". Gelo invece dalla delegazione israeliana quando Abu Mazen ha mostrato all’assemblea generale la copia della richiesta consegnata a Ban, in un’immagine che probabilmente è destinata a fare storia mentre nell’assemblea riecheggiavano gli applausi delle delegazioni dei Paesi arabi. . Al termine del suo intervento Abu Mazen è rimasto per qualche minuto ad accogliere l’omaggio della stragrande maggioranza delle delegazioni sostando sul palco per qualche secondo.
Palestina. Tra bandiere e tensioni la festa è pronta
A Ramallah sventolano i 94 vessilli dei Paesi che appoggiano la nuova nazione
Viaggio nella Cisgiordania alla vigilia dell’assemblea a New York che voterà sul riconoscimento dello Stato all’Onu Israele mobilita i riservisti ma le autorità locali garantiscono che vigileranno per evitare qualsiasi atto di violenza
di Fabio Scuto (la Repubblica, 19.09.2011)
RAMALLAH. I bulldozer lavorano senza sosta per spianare la collina di fronte al mausoleo di Yasser Arafat a fianco della Muqata, il Palazzo presidenziale di Abu Mazen. Preparano una grande piazza per i «festeggiamenti dell’indipendenza». Novantaquattro bandiere di nazioni che hanno già riconosciuto lo Stato palestinese circondano la spianata e le vie adiacenti sono già state dedicate ad alcuni di quegli Stati, come il Cile e il Brasile, fra i primi a sostenere la decisione di Abu Mazen di ricorrere all’Onu per l’indipendenza della Palestina, a più di sessant’anni dal voto delle Nazioni Unite che istituiva due Stati su questa terra.
Il clima a Ramallah, come Nablus, come a Hebron - le principali città della Cisgiordania - il clima è da festa di piazza. Fanno grandi affari venditori delle bandierine palestinesi unite a quella bianca con la scritta Palestine 194, le t-shirt vanno a ruba al mercato, nei bar e nei caffè si preparano i maxi-schermi per vedere in diretta il discorso del presidente Abu Mazen, dal podio dell’Onu, dove chiederà il riconoscimento della Palestina come Stato per «riparare a un’ingiustizia della Storia», come ha già detto nel suo discorso di venerdì scorso, andato in diretta tv, prima di preparare le valigie per New York.
Il dispositivo di sicurezza per questa settimana è a livello «rosso». Gli israeliani hanno mobilitato anche reparti di riservisti per far fronte all’emergenza, per il possibile "deragliamento" delle annunciate manifestazioni dei palestinesi. E che lungo i confini con Libano, Siria e Giordania possano esserci nuove proteste dei profughi che vivono in quei Paesi. Ma nessuno sta parlando di una "terza intifada" nelle strade di Ramallah. I palestinesi hanno imparato la lezione e hanno anche capito che devono concentrarsi su una lotta popolare nello stile della "primavera araba" - cortei, manifestazioni - ma niente kamikaze o a attacchi terroristici come era nel loro precedente modus operandi. Tutte le attività previste a partire da mercoledì prossimo sono state organizzate da uno staff creato ad hoc: U. N. Palestine State n°194. Le manifestazioni stando alle indicazioni degli organizzatori si dovranno svolgere nel centro di ogni città della Cisgiordania evitando le zone di «confine» dove dall’altra parte del Muro saranno schierati i militari israeliani.
«Dalla nostra parte non ci dovranno essere né provocazioni né caos», ha ordinato Abu Mazen ai responsabili della sicurezza palestinese, «tenete la gente lontano dai check-point, evitare frizioni con gli israeliani». È una festa, la festa della Palestina, e tale deve restare. Per dare un peso all’ordine del presidente, la leadership palestinese ha reclutato Abdallah Abu Rahma, un avvocato leader del movimento non-violento, come coordinatore delle iniziative. «Dimenticate "la terza intifada"», dice a Repubblica Hafez Barghouti direttore del più importante giornale palestinese, «siamo convinti che oggi solo la resistenza pacifica può portare risultati». Sarà anche per questo che per la prima volta dopo anni Israele ha accettato di rifornire la polizia palestinese di gas lacrimogeni anti-sommossa.
Al check-point Qalandya - il più usato dai palestinesi perché è il più vicino a Gerusalemme - e in altri punti di possibile attrito gli agenti della sicurezza palestinese si sono già «sparsi tra la gente, in borghese, pronti a rompere la testa di chi cercherà di creare disordini». Certo per i palestinesi ottenere il riconoscimento alle Nazioni Unite - a quale livello di status lo scopriremo solo la prossima settimana - non ha alcun potere politico reale immediato, la sostanza sul terreno non è destinata a cambiare dall’oggi al domani e - come sa bene Abu Mazen - è al tavolo delle trattative con Israele che si deciderà il futuro della Palestina. Ma intanto anche solo come "Paese osservatore" riceverà appartenenza almeno 28 organizzazioni internazionali, in primo luogo la Corte penale internazionale dell’Aja dove è possibile denunciare l’occupazione, l’illegalità degli insediamenti - dove vivono 350 mila coloni - giudicati fuorilegge dalla comunità internazionale, l’annessione di Gerusalemme est. La lista è molto lunga.
Ma vi sono anc he implicazioni politiche. «Non c’è dubbio, Fatah e Abu Mazen saranno i vincitori assoluti, mentre Hamas perderà», dice ancora Barghouti. «Se le elezioni presidenziali si tenessero oggi Abu Mazen riceverebbe l’80 per cento dei voti. La gente ha capito che Fatah e Abu Mazen hanno spinto senza cedere alle pressioni internazionali per arrivare alla proclamazione dello Stato palestinese».
Nei corridoi della Muqata si mescolano emozioni e aspettative, ansie e tensioni palpabili perché una pagina della Storia sta per essere voltata. «Sa», dice a "Repubblica" uno dei leader palestinesi della prima ora, «Arafat ci ha guidato fino ad avere una terra ma è Abu Mazen che ci ha portato ad avere uno Stato. Nascerà sul 22% del territorio che ci aveva assegnato l’Onu nel 1948, ma finalmente sarà il nostro Paese».
Occasione da non perdere
di Moni Ovadia (l’Unità, 10.09.2011)
Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, il 21 settembre, parlerà alle Nazioni Unite in seduta plenaria per chiedere il riconoscimento formale dello Stato palestinese.
La comunità internazionale ha un’opportunità preziosa per riparare ad uno dei più gravi torti commessi nella seconda metà del Novecento nei confronti di un piccolo popolo esemplare nella sua dignità e nel suo coraggio, il popolo palestinese che vive sotto occupazione militare israeliana da quasi cinquant’anni, con milioni dei suoi figli dispersi nell’ esilio, espulsi dalle loro terre, con la sua gente privata di ogni diritto, vessata quotidianamente da una colonizzazione perversa ed espropriatrice. La comunità internazionale non può perdere l’occasione di dare avvio ad un processo riparatore dei guasti e delle devastazioni del colonialismo che sono state all’origine del dramma mediorientale.
La decisione di accogliere lo Stato di Palestina nella comunità delle nazioni non potrà non mettere alle corde la politica del governo Netanyahu che mira alla strisciante e progressiva espropriazione dell’identità palestinese attraverso la compressione dei suoi spazi di esistenza e di cultura fino a ridurla ad una marginalità impotente.
Proprio in questi giorni un milione di israeliani chiedono giustizia sociale, sono gli indignados. Costoro, in risonanza con le primavere arabe potrebbero rimettere in moto un’energia virtuosa che faccia uscire gli israeliani dalla palude del discredito e dell’isolamento al quale li condannano il reaganiano Bibi e il razzista Lieberman, per farli entrare in un futuro migliore di quello del «ghetto» supermilitarizzato.
Israele ha innalzato in questi giorni al massimo il livello di allerta e sigillato le frontiere
Favorevoli alla proposta le potenze emergenti India, Cina, Brasile e molti stati europei
È intifada diplomatica per il riconoscimento dello Stato di Palestina
L’Olp prosegue la campagna per l’ingresso dello Stato di Palestina, come 194 ̊ membro, nelle Nazioni Unite. Nonostante il veto annunciato dagli Usa, potrebbe ottenere il sì di 2/3 dell’Assemblea generale Il voto all’Assemblea Onu sarà tra 10 giorni Già 118 Stati per il sì
di Umberto De Giovannangeli
Indietro non si ritorna. La terza Intifada è alle porte ma usa l’arma della politica e ha una data d’inizio: il 20 settembre. Il giorno in cui un intero popolo avrà gli occhi puntati sul Palazzo di Vetro. L’Intifada diplomatica ha un obiettivo dichiarato: ottenere i due terzi dei consensi dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla richiesta ufficiale di adesione all’Onu dello Stato di Palestina, indipendente e sovrano accanto ad un Israele confinato alle frontiere del 1967. L’attesa nei Territori cresce con l’avvicinarsi della data fatidica. I palestinesi rilanciano, gli Stati Uniti fanno muro. Il «no» ribadito dall’amministrazione Usa, su questo punto cruciale decisamente schierata con Israele, non ha incrinato la determinazione della leadership palestinese.
Nei giorni scorsi il Comitato esecutivo dell’Olp si è riunito insieme ai capi di tutte le componenti palestinesi a Ramallah con il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ribadendo la propria decisione di chiedere per la Palestina lo status di «194 ̊ Stato membro delle Nazioni Unite», limitato dai confini del 4 giugno 1967 e con Gerusalemme Est come capitale. Una scelta, afferma un dirigente dell’Olp, Azzam al-Ahmed, «definitiva e irreversibile». Nella convinzione, dice a l’Unità il segretario generale dell’Olp, Yasser Abdel Rabbo, che «arrivare a questo obiettivo favorirà il rilancio di un processo di pace serio e di nuovi negoziati, con il chiaro obiettivo di una soluzione con due Stati sulle frontiere del 1967. Ma c’è il muro di Washington: la nascita di uno Stato palestinese, rimarca la portavoce del Dipartimento di Stato Usa Victoria Nuland, «può avvenire solo attraverso negoziati» e non con un’iniziativa unilaterale. Pertanto, a «qualunque» iniziativa in tal senso che venisse sottoposta al Consiglio di sicurezza, «gli Stati Uniti opporranno il veto», taglia corto la portavoce, aggiungendo che la cosa «non dovrebbe sorprendere». Un muro che rischia ora di creare un’ondata di indignazione in tutto il mondo arabo.A supporto del gesto unilaterale davanti all’Assemblea dell’Onu la leadership palestinese ha chiesto «una vasta mobilitazione in Palestina, nei campi profughi, nel mondo arabo e in tutti i Paesi del mondo per sostenere il passo alle Nazioni Unite. Tanto che in quei giorni “caldissimi”, Israele intende sigillare i Territori e decretare lo stato di massima allerta su tutto il territorio nazionale.
Mentre il Consiglio dell’Olp era riunito, un centinaio di palestinesi con bandiere e cartelli ha sfilato per le strade di Ramallah fino al quartier generale delle Nazioni Unite, dove è stata consegnata la lettera con la richiesta di adesione indirizzata al segretario generale Onu, Ban Ki-moon. A consegnarla è stata Latifa Abu Hamed, 60 anni, rifugiata del vicino campo di Al-Amari, che ha avuto un figlio ucciso dagli israeliani e altri quattro detenuti nello Stato ebraico. «Rivolgo questo messaggio all’Onu per dire che noi abbiamo diritto ad avere il nostro Stato come tutti nel mondo e abbiamo diritto alla fine dell’occupazione».
IL ROUND FINALE
«Al momento possiamo contare sul voto favorevole di almeno 118 Stati membri delle Nazioni Unite, ma riteniamo di arrivare ad oltre 140 superando così i 2/3», degli Stati membri dell’Onu, dice Nabil Abu Rudeinah, raggiunto telefonicamente alla Muqata, il quartier generale dell’Anp a Ramallah. La risoluzione può contare sul sostegno di potenze globali come Cina, Brasile, Sud Africa, India. A sostegno si schierano, compatti, i Paesi arabi e musulmani, dal Pakistan all’Iran, dall’Egitto post-Mubarak alla Turchia di Erdogan. Quel voto è invece destinato a spaccare l’Europa: a favore si sono già dichiarati la Spagna, i Paesi scandinavi, verso il sì sembrano orientarsi la Francia, il Belgio, l’Irlanda e il Lussemburgo, incerta resta la Gran Bretagna, contrari la Germania, la Polonia, l’Olanda. L’Italia, ultima ruota del carro europeo anche stavolta: l’orientamento è verso il no, ma senza sbandierarlo troppo. Un no a bassa voce. Il tono che più si addice al profilo undergronud del Cavaliere nello scenario internazionale.
Turchia
Il premier Erdogan: «Scorteremo le flottiglie per Gaza»
La marina militare turca ha ricevuto mandato di proteggere e scortare le navi cariche di aiuti umanitari destinate alla Striscia di Gaza. Lo ha annunciato ieri il premier turco Recep Tayyip Erdogan all’emittente satellitare Al Jazeera. «D’ora in poi ha dichiarato Erdogan , che ha rinunciato alla visita a Gaza non lasceremo che queste navi vengano attaccate da Israele come avvenne con la Freedom Flottilla». Non si placa la crisi diplomatica scaturita tra Turchia e Israele, che per bocca del suo ministro dell’informazione ha giudicato «gravi e difficili» le parole del primo ministro turco. Il premier israeliano Benyamin Netanyahu invita entrambi i paesi ad una maggiore responsabilità. Ma non sembra intenzionato a porre scuse ufficiali per le 9 vittime turche causate dall’arrembaggio del convoglio umanitario del 2010.
La strage di Sabra e Shatila
di Rosario Anico Roxas (l’Unità Lettere, 08.09.2011)
Saremo investiti dalle commemorazioni dell’11 settembre 2001 ma il mese di settembre sembra che sia il mese ideale per le stragi di Stato ed io ricordo qui quanto avvenne tra i 16 e il 18 settembre del 1982: la strage di Sabra e Shatila. L’evacuazione dell’Olp terminò il 1 settembre 1982. Il 10 settembre, la forza multinazionale lasciò Beirut. Il giorno dopo, Sharon annunciò che «2000 terroristi» erano rimasti all’interno dei campi profughi palestinesi attorno Beirut. Mercoledì 15 settembre, il giorno dopo il misterioso assassinio del presidente libanese Gemayel, l’esercito israeliano occupò Beirut, contravvenendo agli accordi ed alle promesse fatte in sede internazionale, ed accerchiò i campi di Sabra e Shatila, abitati da soli civili palestinesi e libanesi. Sharon aveva già annunciato, il 9 luglio 1982, che era sua intenzione inviare le forze falangiste a Beirut ovest e, nella sua autobiografia, conferma di aver «negoziato» l’operazione con Bashir Gemayel, durante l’incontro di Bikfaya. Secondo le dichiarazioni fatte da Sharon alla Knesset il 22 settembre 1982, la decisione di far entrare i falangisti nei campi profughi fu presa mercoledì 15 settembre, intorno alle 15,30. Sempre secondo Sharon, il comando israeliano aveva ricevuto i seguenti ordini: «Le forze di Tsahal non devono entrare nei campi. La "pulizia" verrà fatta dalla Falange dell’esercito libanese».
All’alba del 15 settembre 1982, i bombardieri israeliani sorvolavano bassi Beirut ovest e le truppe israeliane erano già posizionate attorno i campi. Dalle 9 del mattino, il generale Sharon era presente a dirigere personalmente la penetrazione israeliana. Sharon si trovava nell’area del comando generale, all’incrocio dell’ambasciata del Kuwait, appena fuori Shatila. Dal tetto di quella costruzione era possibile vedere la città ed entrambi i campi profughi. A mezzogiorno fu completato l’accerchiamento dei campi di Sabra e Shatila da parte dei carri armati israeliani e furono installati numerosi checkpoint tutt’attorno. Nel tardo pomeriggio, sino a sera, i campi furono bombardati. Alle 5 del pomeriggio circa, 150 falangisti penetrarono a Shatila dall’entrata sud e sud-ovest; facevano parte della spedizione per la strage anche i mercenari del generale Haddad, il quale ricevette, per sé e per i suoi uomini, un compenso sulla base di oltre 50.000 a morto. Per le successive 40 ore i falangisti della banda Styern e mercenari di Haddad violentarono, uccisero, fecero a pezzi e bruciarono vivi stipandoli nei piani bassi delle abitazioni e infilando dalle finestre i cannelli lancia-fiamme, migliaia di civili disarmati, in grande maggioranza vecchi, donne e bambini; un contingente dell’esercito israeliano impediva la fuga ai pochi che riuscivano a scappare dalla carneficina, mentre il grosso dell’esercito si era ritirato lungo i confini per impedire ai siriani e ai giordani di intervenire per impedire la strage.
Il numero esatto di morti non sarà mai conosciuto perchè, oltre ai 1.000 corpi sepolti in fosse comuni dalla Commissione Internazionale della Croce Rossa, un gran numero di cadaveri furono sepolti sotto le macerie delle case rase al suolo dai bulldozer. Inoltre, centinaia di corpi vennero trasportati via da camion militari verso una destinazione ignota, per non essere più ritrovati. Altri orrori vennero fuori alcuni mesi dopo, quando, ingrossate dalle pioggie torrenziali di quei giorni, le fogne di Sabra e Shatila restituirono migliaia di cadaveri. È accertato che la maggior parte delle vittime fu uccisa con i lanciafiamme e con le bombe al fosforo; totalmente inceneriti non fu possibile fare un corretto censimento.
I sopravvissuti al massacro non furono mai chiamati a testimoniare in un’inchiesta formale sulla tragedia. L’ Onu ha definito questa tragedia «un massacro criminale», Sabra e Shatila restano nella memoria collettiva dell’umanità come uno dei crimini più efferati del 20 ̊ secolo ma l’uomo dichiarato «personalmente responsabile» di questo crimine, come pure i suoi colleghi e coloro che condussero materialmente i massacri, non sono mai stati puniti nè perseguiti legalmente.
Perché Israele deve scegliere il negoziato
di Abraham B. Yehoshua (La Stampa, 11.07.2011)
La campagna condotta da Israele contro l’iniziativa palestinese per ottenere il riconoscimento di un proprio Stato all’Assemblea delle Nazioni Unite il prossimo settembre è a mio parere politicamente e moralmente scorretta e connessa alla questione del riconoscimento internazionale dei confini del 1967. Permettetemi di riassumere brevemente una storia forse poco conosciuta alla maggior parte dei lettori italiani. Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu, che comprendeva un terzo dei Paesi oggi membri, votò la fine del mandato britannico in Palestina.
E votò, nel contempo, la creazione di due diversi Stati: uno ebraico - Israele -, e uno arabo - la Palestina. L’area assegnata a questi due Paesi era più o meno la stessa. Lo Stato ebraico sarebbe stato costituito da circa 14 mila chilometri quadrati di territorio (per metà desertico) e quello palestinese da più o meno 13 mila.
I palestinesi respinsero categoricamente tale decisione, lanciarono attacchi contro gli insediamenti ebraici e nel maggio 1948, dopo la proclamazione della nascita di Israele, sette Paesi arabi invasero il nuovo Stato per annientarlo. Israele non solo si difese dagli attacchi che minacciavano di distruggerlo ma nello slancio della guerra le sue forze penetrarono nel territorio destinato alla futura Palestina (sul quale, nel frattempo, aveva preso il controllo la Giordania) e dopo l’armistizio del 1949 ne annesse circa la metà. Vennero così stabiliti i cosiddetti confini «del 1967» (o meglio, del 1949) riconosciuti dalla comunità internazionale e all’interno dei quali il territorio di Israele si estende per 20.000 chilometri quadrati mentre quello della Palestina (Striscia di Gaza e Cisgiordania) per 7.000.
Nel 1967 Israele fu attaccato da Egitto e Giordania e durante la successiva Guerra dei Sei giorni conquistò i rimanenti territori palestinesi: la Cisgiordania, allora sotto dominio giordano, e la Striscia di Gaza, in mano all’Egitto. Quest’ultima è ora governata dai palestinesi di Hamas mentre la Cisgiordania è ancora in mano israeliana. La decisione dell’Assemblea generale a settembre riguarderà sostanzialmente la questione territoriale del futuro Stato palestinese mentre, a quanto pare, non farà riferimento al ritorno dei profughi, alla smilitarizzazione, a Gerusalemme Est come capitale di tale Stato, e, naturalmente, al futuro degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.
Temi che dovranno essere discussi nel corso di negoziati diretti. Il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 sancirà dunque la decisione presa dalle Nazioni Unite nel novembre 1947 riguardo alla partizione della regione, sostenuta a suo tempo da Israele e alla base della sua legittimità internazionale. Se quindi il governo di Gerusalemme è sincero nel voler riconoscere uno Stato palestinese - come ha ripetutamente dichiarato perché si oppone tanto alla prevista risoluzione di settembre?
Penso che l’unica ragione sia il riferimento ai confini del 1967. Il governo israeliano intende annettere parti della Cisgiordania, sia per via degli insediamenti lì presenti che per i vincoli storici con luoghi sacri agli ebrei. Dobbiamo però renderci conto che il territorio del futuro Stato palestinese (soltanto un quarto dell’intera regione) è il minimo di quanto spetta al suo popolo. E la tesi di Israele secondo la quale i confini del 1967 sarebbero indifendibili è problematica.
È ovvio che lo Stato ebraico va assolutamente protetto da eventuali aggressioni ma tale protezione non sarà assicurata da insediamenti civili nel cuore della popolazione araba né dall’annessione. Solo basi militari, israeliane e internazionali, lungo il Giordano, al confine orientale del futuro Stato, potranno fronteggiare eserciti arabi che vogliano introdursi in Palestina per attaccare lo Stato ebraico. E potrebbe anche essere necessario dislocare postazioni di sorveglianza internazionali e israeliane in punti strategici per garantire che le forze armate palestinesi non si armino con artiglieria pesante.
Tutte queste misure non intaccherebbero l’identità nazionale palestinese (così come le basi militari straniere in Europa e in altre regioni durante la Guerra Fredda). Una presenza militare è sostanzialmente temporanea e un domani, mutate le circostanze, sarà possibile rimuoverla. Viceversa i civili israeliani in enclave all’interno dello Stato palestinese sarebbero una costante provocazione che rinfocolerebbe odio e dissenso.
L’eventualità di una folla di civili palestinesi, tra cui donne e bambini, che si riversano nelle strade di villaggi e città per manifestare in maniera non violenta (come avviene ultimamente in vari Paesi arabi) contro avamposti e insediamenti israeliani in Cisgiordania dopo la decisione dell’Onu a settembre mi inquieta molto. L’Anp saprebbe tenere a bada tali manifestazioni? E cosa farebbe Israele? Invierebbe l’esercito per reprimerle con la forza? E gli estremisti israeliani come reagirebbero a quelle proteste dinanzi alle loro case?
Un simile scenario potrà essere evitato se il governo di Israele sosterrà a settembre la risoluzione delle Nazioni Unite e avvierà subito negoziati diretti su tutte le questioni controverse, come lo ha esortato a fare il Presidente degli Stati Uniti.
Il ministro degli Esteri Lieberman: «Sono terroristi assetati di sangue». La Marina in allarme
In attesa di salpare. Le navi ferme al porto di Atene: cercano di boicottarci
Clima di alta tensione. La stampa israeliana: a bordo armi chimiche pronte all’uso
I pacifisti non demordono e respingono le accuse: sono un incitamento alla violenza
Israele contro la «Flotilla» «Non arriveranno a Gaza»
Accuse pesantissime: vogliono il sangue dei nostri soldati. Israele si prepara ad affrontare la «Flotilla 2», le navi degli attivisti filopalestinesi che intendono forzare il blocco israeliano e arrivare a Gaza.
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 29.06.2011)
Parole che pesano come pietre. Scagliate contro gli attivisti di Flotilla2. «Le questioni umanitarie non gli interessano. Gli attivisti (a bordo della Flottiglia per Gaza, ndr) cercano un confronto, cercano sangue, vogliono molte immagini da rilanciare sugli schermi televisivi»: ad affermarlo, in una intervista a radio Gerusalemme, è il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman. Secondo Lieberman le persone «ragionevoli» che chiedevano di poter aiutare la popolazione di Gaza «hanno ormai compreso che vi sono vie legali per farlo: attraverso il porto di Ashdod (Israele), di el-Arish (Egitto) o attraverso le agenzie internazionali».
PAROLE DI FUOCO
In merito Lieberman, capofila dei falchi israeliani, ha notato con compiacimento che negli ultimi mesi è molto calato il numero di quanti prevedevano di salpare per Gaza. A bordo della Flottiglia, ha proseguito il ministro, si trova dunque «il nocciolo duro degli attivisti terroristi». «Si tratta di attivisti di importanza centrale, attivisti del terrorismo» i quali sembrano, ha avvertito, lanciati a «un confronto». «Sapremo comunque far fronte alla Flottiglia» ha assicurato infine Lieberman. Il clima si fa sempre più rovente, le accuse pesantissime. Alcune persone a bordo della Freedom Flotilla in partenza per Gaza vogliono violare l’embargo e uccidere i soldati israeliani che saliranno sulle loro navi. Questa l’accusa mossa da alcune fonti dell’esercito israeliano, citate ieri dal Jerusalem Post. Secondo i militari, alcuni partecipanti della Flotilla avrebbero preparato sacchi di zolfo, da gettare addosso ai soldati qualora salissero sulle imbarcazioni. «Questa è un’arma chimica ha detto una fonte al JPost se viene gettata su un soldato può paralizzarlo. Se poi gli viene dato fuoco, il soldato può diventare una torcia umana».
Israele ha imposto il blocco navale di Gaza, che la Flottiglia vuole forzare, affermando che è necessario per impedire il contrabbando di armi e terroristi a Gaza. Tra gli estremisti fonti militari israeliane hanno additato due aperti sostenitori di Hamas, il movimento islamico che ha il potere di fatto a Gaza: Amin Abu Rashad, ex direttore di un’associazione benefica islamica chiusa dalle autorità olandesi, e Mohammed Hannun, presidente dell’Associazione dei Palestinesi in Italia «Non è assolutamente vero. Se Israele è passato alle minacce personali, è un segnale del loro fallimento nel tentativo di fermarci», ribatte da Atene Hannun. «Sono sempre stato un moderato. «Sono un architetto, vivo in Italia dal 1983, smi sono integrato nella società italiana e non ho mai avuto problemi di questo tipo. Anche i vostri servizi lo sanno», aggiunge. Hannun ancia un appello al Governo italiano: «Faccia pressione sul governo israeliano perchè rispetti i nostri diritti. Chieda a Israele di autocontrollarsi».
PROVOCAZIONI
In un comunicato, la sezione italiana della Flottiglia ha affermato che quelle lanciate da Israele sono «miserevoli insinuazioni» prive di fondamento. Certo è che la vicenda vede impegnati, oltre ai diretti interessati, anche servizi segreti e governi di diversi Paesi. In questo clima di sospetti e di alta tensione, s’inserisce l’asserito sabotaggio all’elica di una nave della Flottiglia, all’ancora in un porto greco. Il maggiore indiziato, per gli attivisti filopalestinesi, è il Mossad. È inoltre evidente, come hanno sottolineato i media israeliani, che questa volta Israele è deciso a non farsi cogliere impreparato, a differenza di quanto accadde con la precedente flottiglia un anno fa, quando nove attivisti filopalestinesi turchi furono uccisi dai militari israeliani durante l’abbordaggio della nave turca Mavi Marmara. Israele non ha nemmeno lesinato gli sforzi diplomatici, «con centinaia e forse migliaia di colloqui con governi stranieri» esortati a cercare di convincere i loro cittadini a non partecipare alla Flottiglia. In Grecia, per esempio, navi della Flottiglia stanno incontrando impreviste difficoltà a partire per improvvisi e minuziosi controlli burocratici e amministrativi imposti dalle autorità portuali.
Intervista a Dror Feiler
«Arriveremo fin lì senza cadere in provocazioni»
Il leader di Freedom Gaza: «Faranno di tutto per ostacolarci. Hanno provato a sabotare una nave. Dalla nostra abbiamo la volontà della gente» di U.D.G. (l’Unità, 29.06.2011)
Le dichiarazioni di Lieberman sono quelle di un piromane che incita all’odio e alla violenza. E quelle del ministro degli Esteri israeliano non sono solo parole. Hanno già provato a sabotare una nave della Flotilla e cercheranno con ogni mezzo di impedirci di salpare. Ma non ci riusciranno. La nostra determinazione è pari alla volontà di non cadere in provocazioni. Siamo ottimisti poiché abbiamo dalla nostra la volontà della gente. Abbiamo dieci navi e non ci fermeranno. Se cercheranno di bloccarci fisicamente, ci riproveremo di nuovo e poi ancora di nuovo...».
A parlare è Dror Feiler, musicista svedese, ex cittadino israeliano, uno dei leader della «Freddom Flotilla2». L’Unità l’ha raggiunto telefonicamente ad Atene, punto di partenza della Flotilla. Le questioni umanitarie non gli interessano. Gli attivisti (a bordo della Flottiglia per Gaza, ndr) cercano un confronto, cercano sangue, vogliono molte immagini da rilanciare sugli schermi televisivi»: sono parole di Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri israeliano... «Sono parole di un piromane, un incitamento all’odio e alla violenza. Non cadremo nella trappola di rispondere a queste provocazioni. Nessun attivista della Flotilla ha intenzione di colpire i soldati israeliani. Se Israele sospetta qualcuno, mi dia l’informazione e parleremo con gli interessati. Se dovesse essere vero, non porteremo queste persone sulla flotilla. Non abbiamo intenzione di scontrarci con nessuno».
Qual è il clima tra gli attivisti della Freedom Flotilla?
«C’è la frenesia che accompagna gli ultimi preparativi prima di salpare. Ma soprattutto c’è la determinazione ad andare avanti in una iniziativa che intende dare contenuto concreto a parole che per noi hanno un valore universale: solidarietà verso un popolo oppresso, sostegno a quanti rivendicano il sacrosanto diritto all’autodeterminazione nazionale, ricordando a qunati l’’hanno dimenticato che Gaza resta ancora oggi una prigione a cielo aperto, una gabbia isolata dal mondo con dentro un milione e mezzo di persone, in maggioranza bambini e adolescenti». In Israele vi considerano dei provocatori... «Per fortuna non tutti in Israele la pensano come Liebermane Netanyahu. In queste settimane abbiamo ricevuto attestati di solidarietà e di condivisione da parte di tante donne e uomini israeliani, che credono nel dialogo e che non giustificano in nome della sicurezza le punizioni collettive inflitte da Israele, dai suoi governanti, alla popolazione di Gaza. L’Israele che crede davvero nella pace, che continua a battersi contro l’assedio a Gaza, è dalla nostra parte. E questo ci dà più forza».
Cosa accadrà nel momento in cui le navi della Flotilla saranno, abbordate dalla Marina israeliana?
«Ogni persona che s’imbarcherà sulle nostre navi, avrà prima firmato una impegnativa in cui c’è scritto: “Non costituirò una minaccia per Israele”. Non saremo noi a provocare. Ditelo a Lieberman...».
Chi è. Il musicista svedese che ha scelto la pace Per il suo impegno nella prima Freedom Flotilla ha perso la cittadinanza israeliana. Oggi Feiler non può far visita alla madre nell’insediamento israeliano di Yad Hanna. Ma il suo impegno non è venuto meno
Sulla Flottiglia verso Gaza anche un Pulitzer
Alice Walker: “Viaggio di speranza” . Tel Aviv: “È una provocazione”
di Carlo Antonio Biscotto (il Fatto, 26.06.2011)
Poco più di un anno fa, una unità navale della Marina militare israeliana fermò una nave turca in acque internazionali al largo di Israele, aprì il fuoco e uccise nove pacifisti.
La Flottiglia della Libertà era composta da sei imbarcazioni, tra cui la Mavi Marmara, e tentava di forzare il blocco navale per raggiungere Gaza. La condanna internazionale di quello che fu definito da molti un “atto di pirateria”, fu pressoché unanime.
LA SECONDA Flottiglia della Libertà è composta quest’anno da 10 imbarcazioni con a bordo centinaia di attivisti tra cui lo scrittore svedese Henning Mankell, il pacifista americano Hedy Epstein e la scrittrice americana Alice Walker, vincitrice del Pulitzer per il romanzo “Il colore viola”, da cui Steven Spielberg trasse uno stupendo film interpretato da Whoopy Goldberg. La flottiglia annovera imbarcazioni di diversi Paesi: Svezia, Gran Bretagna, Grecia, Spagna, tra gli altri. La nave italiana porta il nome di Stefano Chiarini, giornalista del Manifesto, che dedicò la vita alla solidarietà per i palestinesi e per tutti i popoli oppressi. Gli occhi del mondo sono puntati su Israele e sulle sue reazioni.
RON PRONSOR, ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, ha scritto una lettera nella quale, tra le altre cose, dice: “Israele invita la comunità internazionale a fare tutto il possibile per impedire alla flottiglia di salpare e di mettere in atto quella che il mio governo considera una provocazione”. E tanto per non lasciare adito a dubbi, le lettera finisce con queste parole: “Siamo decisi a difenderci e a riaffermare il nostro diritto ad imporre il blocco navale di Gaza”.
“Non ci faremo intimidire dalla violenza”, risponde Huwaida Arraf, che fa parte del comitato organizzatore della flottiglia. “Nessuno affronta questa cosa a cuor leggero, ma siamo tutti consapevoli della necessità di agire. I nove morti dell’anno passato non sono serviti a scoraggiare i pacifisti di tutto il mondo”. Secondo quanto riferito dalla signora Arraf, circa mezzo milione di persone di ogni parte del mondo hanno chiesto di partecipare alla traversata. “Purtroppo c’era posto solo per circa 400”.
La seconda Flottiglia della libertà è spinta anche dal vento di rinascita della “primavera araba”. Per Chris Doyle, direttore del Consiglio per le relazioni anglo-arabe, l’iniziativa è, se possibile, ancora più importante perché i cambiamenti in molti Paesi del Medio Oriente rischiano di “oscurare” la questione palestinese agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.
“La Palestina resta il nodo centrale del rinascimento arabo”, aggiunge Karma Nabulsi, esperto di questioni mediorientali : “Forse gli occidentali tendono a dimenticarlo, ma la questione palestinese è sempre al centro delle preoccupazioni e dell’impegno politico dei giovani arabi che abbiamo visto dimostrare nelle piazze con così tanta passione”.
LA NAVE britannica, “The Audacity of Hope”, ospita la scrittrice americana Alice Walker che ieri sul Guardian ha spiegato le ragioni della sua partecipazione: “Perché voglio andare a Gaza con la seconda Flottiglia della libertà? Perché alla mia età, a 67 anni, è giusto raccogliere ciò che abbiamo seminato ed è giusto aiutare i giovani a realizzare i loro sogni”.
Il viaggio - sottolinea Alice Walker - “è un viaggio di speranza e di amore”. Un lungo, ininterrotto filo rosso unisce le lotte dei neri d’America, la rivolta dell’India guidata dal pacifista Gandhi, cui Alice Walker dice di ispirarsi, e i movimenti di liberazione in ogni parte del mondo. Ed è anche un modo per rendere omaggio al coraggio dei palestinesi e degli abitanti di Gaza in particolare. L’importante, ricorda la scrittrice, “è non arrendersi, rimanere vivi, continuare a credere”, e restare umani, come avrebbe detto Vittorio Arrigoni, l’attivista italiano ucciso da un gruppo di islamisti salafiti a Gaza.
Nel libro Il colore viola la Walker racconta l’epopea di sofferenze, mortificazioni, oppressione, ingiustizia e violenza dei neri d’America e la capacità di molti di loro di conservare la dignità e la speranza nel futuro. “Sono povera, sono negra, sono anche brutta, ma grazie a Dio sono viva”, dice alla fine del romanzo Miss Celie. Le stesse parole che oggi potrebbero dire molti palestinesi di Gaza.
Gaza, l’appello degli attivisti “L’Italia protegga la Flottiglia"
Il governo: tenteremo di fermarvi
L’anno scorso l’assalto israeliano alla Mavi Marmara si concluse con la morte di 9 persone
La Farnesina: "Gli aiuti vanno portati attraverso i valichi terresti, evitare le provocazioni"
di Giampaolo Cadalanu (la Repubblica, 25.06.2011)
ROMA - La Farnesina non ha nessuna intenzione di schierarsi a difesa della Freedom Flotilla e dei cittadini italiani che saranno imbarcati nel viaggio verso Gaza. Anzi, il ministero degli Esteri «vuole adoperarsi per evitare la partenza» del convoglio intenzionato a forzare il blocco israeliano al largo della Striscia. L’appello dei militanti al governo è stato respinto nettamente: per Franco Frattini «il modo migliore per portare assistenza agli abitanti di Gaza è quello di inviare gli aiuti umanitari attraverso gli appositi valichi terrestri, evitando ogni tipo di provocazione». Tanto più dopo che l’anno scorso la missione della flottiglia era finita tragicamente, con l’assalto delle truppe speciali israeliane alla nave turca "Mavi Marmara" che apriva il convoglio e l’uccisione di nove persone.
Ma i militanti non ci stanno e hanno chiesto l’intervento di Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: «Ci muoviamo con mezzi assolutamente pacifici, siamo disarmati e non riteniamo di essere una minaccia per Israele: il governo italiano è tenuto a garantire l’incolumità dei cittadini italiani che saranno in acque internazionali e disarmati». La delegazione italiana, accompagnata da un robusto numero di giornalisti, sarà a bordo della nave "Stefano Chiarini", carica, garantiscono gli organizzatori, di medicinali, aiuti alimentari e sacchi di cemento per la ricostruzione della Striscia.
Intanto Israele sottolinea che la sua linea non è cambiata. La Marina militare dello Stato ebraico si prepara a bloccare la strada alla flottiglia, annunciando che userà gli idranti. Essa «rappresenta un pericolo per la sicurezza dei civili israeliani», ribadisce un portavoce militare, secondo cui consentendo la libera navigazione verso Gaza si consentirebbe ai «terroristi di Hamas» la possibilità di rifornirsi di armi da utilizzare contro Israele.
Di opinione completamente diversa la scrittrice afroamericana Alice Walker, che in un’intervista a Foreign Policy ha annunciato l’intenzione di far parte della spedizione. L’autrice del "Colore viola" sottolinea che la missione delle navi non è solo quella di portare aiuti, quanto soprattutto quella di «portare attenzione» sulla situazione dei palestinesi. La Walker ricorda che la riapertura del valico fra la Striscia e l’Egitto è insufficiente: «Si possono solo portare due valigie, non si possono certo ricostruire le fognature in questo modo».
“Lo Stato dei palestinesi non nascerà mai”
Clot, ex negoziatore: “È tutto inutile, Tel Aviv non mollerà niente”
Israele simula l’attacco alla Flottiglia: pronti ai raid contro le navi
di Roberta Zunini (il Fatto. 22.06.2011)
Alla vigilia dell’atto di nascita dello Stato di Palestina, previsto per settembre, il processo di pace è soffocato da una tensione crescente. La marina israeliana ieri ha simulato un raid “su una nave di attivisti politici filopalestinesi”. L’arrivo della Flottila 2011 è previsto nei prossimi giorni sul mare che bagna Gaza. Il rischio di uno scontro è alto. E a ogni carota segue una bastonata: Israele ha autorizzato l’Onu a importare materiale nella Striscia per costruire 1200 nuovi alloggi e 18 scuole, ma ha annunciato l’ingrandimento, con 2000 nuovi alloggi, del quartiere ebraico di Gerusalemme Est. Intanto i contatti segreti tra Tel Aviv e la Turchia sono stati palesati ieri dal premier Netanyahu con una lettera a Ankara per il rinnovo di “amicizia e cooperazione”. Proprio nel giorno in cui i leader turchi hanno incontrato il presidente palestinese Abu Mazen, che deve risolvere il nodo dell’unità nazionale con Hamas. La riconciliazione pare arenarsi sul nome del premier: Abu Mazen vorrebbe riconfermare Salam Fayyad di Fatah, gradito secondo alcuni sondaggi sia in Cisgiordania sia nella Striscia, mentre Hamas pone il veto.
Zyad Clot è molto noto in Cisgiordania, noto nell’accezione negativa del termine: è colui che all’inizio dell’anno ha passato centinaia di documenti sulla “farsa” dei negoziati di pace israelo-palestinesi - i cosiddetti “palestinian papers” - a al Jazeera e Guardian. Un traditore per la nomenclatura palestinese, un ficcanaso per gli israeliani, un cittadino del mondo onesto che ha preso parte alla “primavera araba” per tutti coloro che si sono ribellati alle dittature.
Non appena inizia a parlare si capisce che la sua giovane storia - ha 34 anni - l’ha trascorsa sui trattati di diritto internazionale. Come all’Hotel King David quando, dal 2007 al 2008, ha incontrato i negoziatori israeliani sulla questione del “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi. Cresciuto a Parigi, dove si è laureato in legge, è figlio di un francese e di una palestinese naturalizzata libanese. Il nonno, direttore del porto di Haifa e console , all’indomani della proclamazione dello Stato israeliano, dopo la confisca delle proprietà di famiglia, aveva portato i suoi cari in Libano, dove lo aspettava il riconoscimento della cittadinanza onoraria del Paese dei Cedri per permettergli di evitare la difficile vita da profughi. L’uomo accettò il passaporto libanese per la moglie e i figli ma non per sé.
Non voleva cancellare la sua identità ma non potè mai più tornare nella sua terra natale. Il nonno ha così conosciuto la vita sospesa, senza diritti, di milioni di profughi che ancora oggi in Libano come in Siria non possono svolgere molte professioni e spesso sono costretti a lavorano in nero.
“Quando andai a Ramallah nel 2007 mi fu offerto di diventare consulente giuridico dell’Olp, scelsi di lavorare per portare avanti i negoziati relativi al capitolo diritto al ritrono, che è peraltro un diritto individuale, perché fa parte della mia storia. Quando andai ad Haifa per vedere la casa dei miei nonni, sentì di voler capirne di più ”. Tanto che circa un anno dopo, grazie alla sua preparazione e al suo inglese preciso e fluente, era seduto accanto al più importante negoziatore palestinese, Saeb Erekat, davanti all’allora ministro degli esteri israeliano, Zipi Livni e ai suoi consulenti per riaprire le trattative. “È stata un’esperienza incredibile, difficile e frustrante, che ha cambiato la mia vita e il mio modo di vedere le cose”.
Nel suo libro intitolato “Non ci sarà uno stato palestinese”, diario di un negoziatore in Palestina (pubblicato per ora solo in francese, in Italia dovrebbe uscire a breve), Clot ha la capacità narrativa di far vivere al lettore i retroscena del “circo dei negoziati di pace”, come li definisce più volte, dove l’Anp viene di fatto ammaestrata dagli americani, tanto da essere di-sposta a concedere quasi tutto. “Ma non è mai abbastanza per gli israeliani”, dice. Leggendo i palestinian papers, solo in parte contenuti nel suo libro, ci si rende conto che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen e i principali negoziatori non hanno alcuna possibilità di manovra.
“È una farsa fine a se stessa. È un esercizio sterile che non porterà a nulla - dice - per questo a un certo punto ho deciso di abbandonare, con grande sofferenza, ma non voglio prestarmi a fare il burattino sulla pelle di milioni di profughi e voglio che i palestinesi sappiano”. Una scelta combattuta. Zyad decide di lasciare il tavolo della diplomazia quando capisce che i negoziati “sono solo un inutile esercizio di stile”. E Gerusalemme Est non sarà mai la sua capitale. “Il 15 giugno 2008 - racconta - Erekat offrì a Israele tutto, concedendo l’annessione di tutti gli insediamenti ebraici di Gerusalemme Est, tranne quello di Har Homa, in cambio del riconoscimento dello Stato palestinese. Ma l’offerta fu rifiutata”.
Appello a Freedom Flottilla & C.
Siamo umani anche con Gilad Shalit
di Stefano Jesurum (Corriere della Sera, 18.06.2011)
Il 25 giugno saranno cinque anni da quando il soldato, allora 19enne, Gilad Shalit è stato rapito in territorio israeliano (e non «catturato» in un’operazione di guerra nella Striscia occupata di Gaza). Sequestrato da un commando che lo ha poi consegnato nelle mani di Hamas.
E proprio alla fine di giugno un gruppo di italiani s’imbarcherà sulle navi di Freedom Flottilla 2, destinazione Gaza. Uno degli slogan maggiormente usati dalla galassia filopalestinese più radicale - ambigua nel suo «pacifismo» a senso unico - è «Restiamo umani» . Un bello slogan, un ideale sacrosanto. «Restiamo umani» è quello che hanno ripetuto anche l’altra sera in un teatro di Milano la cantante Noa e lo scrittore David Grossman. Con loro lo gridano - nella vita e nella sofferenza quotidiana, nella realtà vera- gli israeliani e i palestinesi del dialogo, della convivenza, della ricerca di una soluzione giusta.
Noa e Grossman hanno urlato ancora una volta che Israele è «il nostro luogo, la nostra patria, anche se l’instabilità, l’incertezza, il modo di governarlo ci stanno davvero stretti» , anche se troppo spesso l’attaccamento alla loro Terra è messo a dura prova. Grossman: «Anche se tutto ciò mi indurrebbe ad andarmene, so che questo non accadrà mai» .
Altrettanto noi chiediamo agli uomini e alle donne di Freedom Flottilla 2 - e a chi li appoggia - non certo di rinnegare la propria aspra critica, legittima e talvolta condivisibile, ma di ricordarsi lo slogan «Restiamo umani» . Sulle loro navi, di fianco alla bandiera palestinese, srotolino anche un enorme striscione che chiede la liberazione di Gilad Shalit, innalzino cartelli in cui si dice che non è affatto umano lasciare chicchessia prigioniero senza processo, senza garanzie, senza colpe se non quella di esistere, senza visite né controlli della Croce Rossa o di organismi internazionali. Se non lo faranno, Freedom Flottilla &C. continuerà soltanto a portare odio, non aiuti. A fare, insomma, qualcosa di disumano.
Intervista a Shulamit Aloni
«Israele non è le sue armi. Chi lo dice ci porta al disastro»
Appello al mondo: «Sostenete la richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese»
La scrittrice fondatrice di «Peace Now» ha firmato un manifesto di intellettuali israeliani per chiedere il rispetto delle frontiere del ’67. «Sì a uno Stato palestinese, basta apartheid»
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 07.05.2011)
L’altro Israele alza la voce, scende in strada e si ribella: «Dovrebbe essere chiaro a tutti l’inconciliabilità tra democrazia e oppressione esercitata contro i palestinesi. I governanti d’Israele hanno solo un disegno in testa e lo perseguono con ogni loro atto: il disegno del Grande Israele. Ne faranno un ghetto atomico in guerra con il mondo». L’altro Israele, quello che l’altra sera ha dato vita a una manifestazione di massa conclusasi in piazza Yitzhak Rabin, nel cuore di Tel Aviv, si riconosce nelle affermazioni di Shulamit Aloni, fondatrice di «Gush Shalom» (Pace adesso). «Chi persegue la colonizzazione dei Territori palestinesi occupati, chi opprime un altro popolo afferma Aloni coltiva l’illusione che la sicurezza d’Israele possa reggersi sulla forza delle armi. Ma questa è una illusione che ha già prodotto disastri e altri ne provocherà ancora, se il mondo non farà sentire la sua voce di protesta. A cui deve unirsi l’Israele che non accetta di essere complice di questi crimini».
Shulamit Aloni è una delle venti personalità israeliane tra cui l’ex presidente della Knesset, Avraham Burg, il premio Nobel Daniel Kahneman, l’ex presidente dell’Accademia delle Scienze di Israele Menahem Yaari che hanno firmato un appello ai leader europei affinché appoggino la richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente sulla base del confini del 1967, quando verrà presentata a settembre alle Nazioni Unite. Il nostro colloquio parte da qui.
Qual è il senso di questo appello e delle mobilitazioni di piazza che ne sono seguite?
«È l’affermazione di un concetto fondamentale che rappresenta il vero discrimine oggi...».
Quale sarebbe questo concetto?
«La pace, una pace giusta, fondata sul principio di “due popoli, due Stati”, non è una concessione che Israele fa al “Nemico”, e neanche un atto di giustizia. È semmai un sano atto di “egoismo”...».
In che senso?
«Nel senso che solo riconoscendo ai palestinesi il loro diritto a vivere da donne e uomini liberi in uno Stato indipendente, integro territorialmente, solo così Israele potrà difendere il bene più prezioso: la sua democrazia. Perché dovrebbe essere chiaro a tutti l’inconciliabilità tra democrazia e oppressione esercitata contro i palestinesi. Non c’è democrazia in uno Stato che impone a un altro popolo un regime di apartheid. Da qui nasce l’appello e le mobilitazioni che l’hanno seguito. Il passaggio chiave è questo: come cittadini israeliani dichiariamo che se e quando la Nazione palestinese dichiarerà uno Stato sovrano e indipendente, che vivrà a fianco di Israele in pace e sicurezza, appoggeremo questa dichiarazione e riconosceremo uno Stato palestinese basato sui confini del 1967, e chiediamo alle Nazioni del mondo di dichiarare la loro volontà a riconoscere uno Stato palestinese indipendente basato su questi principi».
Il presidente Usa, Barack Obama, non sembra essere di questo avviso...
«Rispetto la sua posizione e ho anche apprezzato alcuni passaggi del suo recente discorso in cui ha fatto riferimento ai confini del ‘67. Ma il presidente Obama sa bene che gli appelli alla ragionevolezza rivolti a più riprese agli attuali governanti d’Israele sono puntualmente caduti nel vuoto. Per questo occorre cambiare registro, e dimostrare a questi oltranzisti che si è capaci di dire basta. Se non ora, quando?».
La destra israeliana non ha nascosto il suo scetticismo, se non la sua contrarietà, verso le rivolte che stanno scuotendo il mondo arabo...
«Il mio atteggiamento, e per fortuna non sono la sola a pensarlo, è diametralmente opposto: la “primavera araba” può avere ricadute importanti per l’intera regione e anche per Israele. In Piazza Tahrir, il cuore della rivoluzione egiziana, non ho visto bruciare una bandiera israeliana. E questo è un segnale di straordinaria importanza che noi israeliani non dovremmo sottovalutare. Io sono con loro, e non sento minimamente nostalgia per i raìs che hanno spazzato via dalla scena».
* Chi è
La leader storica dei pacifisti israeliani
Scrittrice, combattente nella guerra d’Indipendenza, fondatrice di «Gush Shalom» (Pace Adesso), parlamentare per diverse legislature, è stata più volte ministra nei governi laburisti guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres. Per le sue battaglie democratiche è stata minacciata di morte dall’ultradestra israeliana.
Netanyahu, un negoziatore con il mitra
Lo scrittore Yehoshua attacca la politica del premier israeliano
di Stefano Citati (il Fatto, 07.06.2011)
Benjamin Netanyahu non crede ai palestinesi, non crede alla riconciliazione. Partendo da questo punto la sua strategia è quella di tirare per le lunghe, di arrivare a settembre, alla risoluzione che porterà alla nascita dello Stato palestinese, per iniziare le vere trattative, per ridurre al minimo l’estensione della nuova nazione, che per lui non può essere uno Stato a tutti gli effetti, ma avere solo la consistenza di un’ampia autonomia. Vista sotto quest’ottica la resistenza all’America, alle proposte di Obama, si spiegano con la volontà di prendere tempo e far esaurire le possibilità di trattative, per arrivare a concedere ai palestinesi il 60-70% dei territori occupati della Cisgiordania”. Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua è più arrabbiato che stupito dopo l’ennesimo atto di violenza del suo governo che ha sparato addosso ai manifestanti nel Golan; una nuova strage che attira su Israele gli strali della comunità internazionale e la frustrazione rabbiosa dei palestinesi. Dal suo punto di osservazione di Haifa - che lascia piuttosto raramente per rispondere agli inviti internazionali: il prossimo, questo fine settimana, a Marina di Pietrasanta per parlare del progetto del suo prossimo libro - non risparmia critiche al suo premier in modo chiaro e netto, come è nel suo stile.
Visto dall’Italia e più in generale dall’estero, l’atteggiamento di Netanyahu appare spesso ottuso e catastrofico. È lo stesso in Israele?
L’opinione pubblica israeliana è tendenzialmente sbilanciata verso il centro-destra: la loro visione è però quella di non rompere la corda che lega all’America e all’Europa, e per questo la posizione migliore è quella di tenere spesso la testa sott’acqua, in modo da non doversi occupare troppo la situazione. Il timore di Netanyahu, di dover rimpatriare di fatto i coloni è condiviso, ed è questo ostacolo interno che condiziona il modo di fare del premier ben oltre le pressioni internazionali, partendo dalla sfiducia nei confronti della controparte.
Netanyahu non rischia di trovarsi a settembre con uno stato di fatto contro il quale non sarà più possibile trattare? Tantissimi Stati riconosceranno il nuovo Paese, ma Netanyahu potrà ancora contare sulla debolezza europea: l’incapacità dimostrata finora di sostituirsi agli Stati Uniti, che non possono essere i guardiani del mondo, e di essere un interlocutore credibile e solido, che controbilanci il potere e l’influenza statunitense. Al premier interessa tenere in piedi la facciata del processo di pace senza agire, spostando il pendolo della pace da una parte all’altra senza arrivare a un movimento completo e decisivo, prendendosi tutto il tempo possibile e annacquando le possibilità di uno Stato palestinese forte e completo. Cosa può rompere questo meccanismo?
Dimostrazioni ripetute e davvero pacifiche dei palestinesi nei territori occupati. Se sapranno scendere in strada con le mani disarmate disinnescheranno la reazione delle forze di sicurezza israeliane e non daranno motivo di essere attaccate e dell’uso della forza. Toglieranno l’alibi a Netanyahu e spezzeranno il meccanismo della risposta violenta . Per cambiare questa atmosfera e questo futuro prossimo questo Israele dovrebbe da subito compiere un gesto unilaterale: fermare e riportare indietro tutti i coloni, anche senza accordi con i palestinesi; sarebbe un segno di volontà seria e responsabile. Come si vede da Israele il sommovimento del mondo arabo; dà più timori o più speranze. È ancora in una fase interlocutoria, ma la chiave resta l’Egitto, se non diventerà un regime ancor più militare, o fondamentalista, un cambio generale sarà possibile.
Flottiglia per Gaza un anno dopo. Israele tra fuoco e acqua
Nuova sfida al governo Netanyahu: nel 2010 la strage in mare
di Roberta Zunini (il Fatto, 01.06.2011)
Con l’apertura permanente del valico di Rafah la striscia di Gaza non è più completamente isolata. Fatto irrilevante per i sostenitori della Flottila - di cui il pacifista Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza il 15 aprile, era uno degli animatori più attivi - il convoglio di navi che il 31 maggio dello scorso anno fu assalito dalle forze militari israeliane, mentre cercava di rompere l’assedio marittimo della Striscia.
“Per noi non cambia nulla, rifaremo ciò che abbiamo fatto lo scorso anno, solo che questa volta ci sarà anche una nave italiana nel convoglio internazionale - spiega Francesco Giordano del coordinamento Flottilla italiana - che partirà dopo il 20 giugno da un porto italiano. Il fatto che gli egiziani abbiano aperto il confine terrestre di Rafah, non cancella l’ingiustizia perpetrata dallo Stato israeliano che costringe un milione e mezzo di persone a vivere in una prigione a cielo aperto”. Il blitz notturno dello scorso anno, condotto da agenti scelti israeliani, che dopo aver abbordato la nave turca Mavi Marnara, spararono, uccidendo 9 attivisti turchi, provocò reazioni negative anche da parte dei partner storici di Israele e la strategica alleanza tra Turchia e Israele ne uscì a pezzi.
A DISTANZA di un anno, il riavvicinamento è ancora in corso ma l’intransigenza israeliana non aiuta. La Turchia, attraverso il suo ministro degli eEsteri, Ahmet Davutoglu, ha fatto sapere che non potrà fermare le imbarcazioni. Israele ha colto l’occasione di questo tragico anniversario, annunciando che nulla cambia: non verrà tollerato alcun tentativo di varcare il confine marittimo di Gaza, anche se per raggiungerlo, la flottila non entrerà nelle acque nazionali israeliane.
Il problema infatti è raggiungere la Striscia, indipendentemente dalla territorialità marittima. Israele sta tentando di bloccare a monte la partenza delle navi, per evitare un nuovo ricorso alla forza. Fiancheggiato su questo terreno dall’amministrazione Usa, il governo di Benyamin Netanyahu sta puntando in prima battuta sulla dissuasione diplomatica: lanciando appelli in ogni direzione affinchè la spedizione non trovi porti da cui prendere il largo. Se tuttavia questa strada non dovesse funzionare (l’iniziativa è gestita da organizzazioni private e gli Stati non sembrano nelle condizioni legali di poterla fermare), la carta della forza non viene esclusa neppure stavolta, anche se con correzioni di tiro rispetto al 2010.
LE AUTORITÀ israeliane temono in particolare l’Ihh: il sodalizio islamico-militante turco. I vertici politici e militari dello Stato ebraico ripetono in ogni modo d’essere decisi a presidiare. Le esercitazioni delle forze speciali della marina, riferiscono i media, sono già in corso.
Cosa vuol dire per Gaza, e per Israele la riapertura del valico di Rafah
di Antonio Ferrari (Corriere della Sera, 29.05.2011)
Gaza, la striscia palestinese dei senza terra, da ieri non è più una prigione. Dopo quattro anni il passaggio di Rafah, al confine con l’Egitto, è stato riaperto. Il Cairo di Hosni Mubarak l’aveva chiuso come ritorsione alla rivolta dei fondamentalisti di Hamas contro l’Anp del presidente laico Abu Mazen. Ieri la giunta militare egiziana, nata dalla cosiddetta «primavera araba», ha deciso di cancellare il divieto. Ma i cambiamenti nel Nord Africa e nel Medio Oriente c’entrano assai poco con il clamoroso ripensamento.
Riaprire il valico infatti è uno dei risultati dell’accordo, firmato proprio al Cairo, tra laici e integralisti palestinesi, che hanno finalmente deciso di collaborare per chiudere una terribile stagione di scontri fratricidi.
È evidente che la riapertura di Rafah preoccupa Israele, perché ripropone il rischio di traffici pericolosi a ridosso delle sue frontiere, e quindi rappresenta un serio problema. Ma era moralmente ingiusto e politicamente inaccettabile che i disperati della Striscia fossero condannati alla punizione collettiva di una vita da carcerati in casa propria.
Si dirà: «Ma da Gaza partivano attacchi contro Israele» . Vero, questo però non significa che le azioni degli estremisti debbano essere pagate indiscriminatamente da tutti gli abitanti di quello sfortunato lembo di terra. Gerusalemme è comprensibilmente inquieta. In poche settimane ha perduto uno dei partner più affidabili (l’egiziano Mubarak); vede ormai in crisi un leader che è un nemico e, insieme, un futuro potenziale partner, cioè il presidente siriano Bashar el Assad. Adesso assiste alla riapertura di Rafah, il lembo inferiore di quella piccola Gaza dove Hamas, da qualche tempo, sta assumendo un ruolo meno aggressivo e più dialogante.
È anche chiaro che il segnale di Gaza si coniuga con quella spinta internazionale, guidata da Obama, per poter giungere ai due Stati, Israele e Palestina, che vivano in pace e sicurezza.
La Nakba, 63 anni dopo
di Edvino Ugolini (l’Unità, 18.05.2011(
A 63 anni dalla Nakba che vide la cacciata di quasi un milione di palestinesi dalla loro terra e la distruzione di 500 villaggi, si è celebrata questa giornata tra speranze e paure. La speranza per una Palestina finalmente libera e la paura per un ritorno allo scontro armato che ha pesantemente segnato la ricorrenza.
La speranza è data dall’accordo siglato tra le due più importanti fazioni palestinesi, Hamas e Fatah, che come seguito avrà a settembre l’annuncio per la nascita di uno Stato sovrano e indipendente da Israele. Per quella data, il governo israeliano sta valutando anche l’ipotesi per il ritiro delle sue truppe, come riferisce il quotidiano Haaretz.
Sta di fatto che circa quattro milioni di palestinesi continuano a vivere da profughi in Cisgiordania, Gaza, Libano e negli altri stati arabi confinanti. Tutti attendono il diritto al ritorno previsto dalla risoluzione n.194 dell’Onu, risalente al 1948, ma che non ha trovato a tutt’oggi una soluzione concreta, al contrario, essa viene ritenuta dalle autorità israeliane una questione non negoziabile.
Proprio in questi giorni il Convoglio restiamo umani, composto da una ottantina di attivisti, ha raggiunto Gaza, per ricordare il volontario italiano Vittorio Arrigoni ad un mese dalla sua morte.
Musica & pace: Barenboim oggi suona Mozart a Gaza
Prendete uno dei più illustri direttori d’orchestra del pianeta. Aggiungete una cinquantina di musicisti provenienti da compagini di livello mondiale (Scala inclusa). E trasferite tutti nella Striscia di Gaza: ecco servita l’ultima sfida di Daniel Barenboim, bacchetta israelo-argentina celebre per il genio musicale e per l’adesione alla causa della pace.
Un concerto da grand soiree teatrale in una sala attrezzata. Ad annunciarlo è stato ieri a sorpresa un comunicato dell’Onu: l’esibizione è prevista per stasera, in tarda mattinata, nella modesta sede del Museo Archeologico di Gaza. Barenboim dirigerà un’ensemble radunata per l’occasione l’«Orchestra per Gaza» della quale hanno accettato di far parte fra gli altri musicisti della Scala di Milano, dei Berliner e della Filarmonica di Vienna. Pagine di Mozart.
* l’Unità, 03.05.2011
Nel «Divan» di Barenboim prendono posto armonia e tolleranza
L’orchestra fondata nel 1999 dal direttore assieme a Edward Said mette insieme musicisti arabi e israeliani, facendo prevalere le ragioni musicali. Ieri in concerto alla Scala e oggi a Santa Cecilia a Roma con diretta su Radio3.
di Paolo Petazzi (l’Unità, 18.05.2011)
«La qualità musicale è sempre essenziale», osserva Daniel Barenboim a proposito dell’orchestra fondata nel 1999 da lui insieme con Edward Said, per far incontrare e lavorare insieme musicisti provenienti dalla Palestina, da Israele, Egitto, Libano, Siria e altri paesi arabi. Non sono in primo luogo le ragioni musicali che suscitano ammirazione per il coraggio dell’insigne direttore israelo-argentino e del grande intellettuale palestinese (scomparso nel 2003); ma Barenboim sottolinea che «tutto il lavoro deve puntare al massimo». E in verità la assoluta adesione che si deve all’iniziativa non può essere separata dal riconoscimento dello straordinario livello raggiunto dall’orchestra che ha preso nome di «West-Eastern Divan» dal titolo del «Divano occidentale-orientale» di Goethe. Ieri alla Scala e oggi a Santa Cecilia (con diretta su Radio 3) sono in programma la Terza Sinfonia di Beethoven e l’Adagio della incompiuta Decima di Mahler.
La Scala aveva già ospitato la giovane orchestra qualche anno fa, e già allora l’esecuzione delle difficilissime Variazioni op. 31 di Schönberg aveva dimostrato che i giovani musicisti guidati da Barenboim erano diventati una vera orchestra di alto livello. Da poco è stata pubblicata la registrazione del loro concerto a Salisburgo del 2007 con le Variazioni di Schönberg e la Patetica di Ciajkovskij, ed è incredibile che siano bastati otto anni per raggiungere simili risultati. Merito di Barenboim, della bravura di ognuno dei giovani musicisti, e della specifica formazione
Il maestro Daniel Barenboim offerta loro da membri della Staatskapelle di Berlino (l’orchestra della Staatsoper di cui Barenboim è direttore stabile) nelle giornate di lavoro che hanno luogo in Andalusia, la regione autonoma che anche in nome del proprio passato storico offre indispensabile sostegno, borse di studio e ospitalità all’iniziativa. Non c’è e non ci può essere unanimità di opinioni, soprattutto di natura storica e politica, tra i musicisti della Divan; ma si impara a conoscere e a cercare di capire la logica dell’altro, osserva Barenboim. Si parla insieme senza sentirsi obbligati a essere d’accordo. E dopo una giornata di lavoro musicale fianco a fianco, impegnati nello sforzo di raggiungere la massima fusione, se si parla di altri argomenti si discute in un altro modo.
Il concerto scaligero era a favore di «Children in Crisis Italy», una associazione che si adopera per migliorare attraverso l’istruzione e l’assistenza medica le condizioni di vita dei bambini più indifesi, vittime di conflitti, povertà o altre situazioni di grave disagio in diverse parti del mondo.
«l’Orchestra fu fondata per un’intuizione comune dell’israeliano Barenboim e del palestinese Said»
Le note del «ciclone» Baremboim. Quando la musica lascia il segno
di Enrico Girardi (Corriere della Sera, 22.05.2011)
Ogni volta che Barenboim arriva in Italia, è come se un ciclone si abbattesse sulla nostra vita culturale. Questa settimana ha riunito di nuovo i ragazzi arabi, palestinesi e israeliani dell’Orchestra del Divano, li ha portati a suonare presso le massime istituzioni musicali del Paese (Scala e Santa Cecilia), ha provato con loro pezzi nuovi da eseguire a Vienna, ha registrato con loro la bellissima puntata di «Che tempo che fa» andata in onda ieri sera, ha ricevuto dal presidente Napolitano (che ha «girato» l’intero ammontare del premio Dan David, un milione di dollari, appena ricevuto in Israele) un significativo sostegno materiale per coinvolgere nell’esperienza del Divano altri musicisti giovanissimi, ha raccontato quale significato rivesta l’aver portato un gruppo di musicisti europei a suonare Mozart a Gaza. Ma cosa significa tutto questo fare, fare, fare? O si tratta di quella forma di horror vacui che atterrisce decine e decine di artisti che han bisogno di far parlare di sé tutti i giorni per non sentirsi finiti; oppure si tratta di una passione feroce che si alimenta di continuo.
E la risposta al quesito la danno non solo gli esiti artistici delle esecuzioni del Divano ma gli occhi, gli sguardi, le espressioni che abbiamo visto ieri sera sui volti dei ragazzi ospiti da Fazio. Volti aperti, belli, intelligenti, consapevoli che soddisfare un’attitudine alla musica e insieme recare al mondo un messaggio così forte di speranza, di condivisione, di solidarietà- sia pure nella diversità delle proprie opinioni politiche e religiose - è un privilegio impagabile.
Il Divano è stato fondato nel 1999 per un’intuizione comune dell’israeliano Barenboim e del palestinese Said. Ma è ormai chiaro a tutti che questi 12 anni di vita hanno trasformato l’iniziativa in qualcosa di molto più prezioso di quanto i fondatori osassero probabilmente sperare: un segno permanente di civiltà che non cambierà il mondo ma che ha già cambiato il cuore di quanti, a qualunque titolo, hanno avuto a che fare con questi ragazzi. Anche da semplici telespettatori.
Lacrime e bandiere Gaza dà l’ultimo saluto a Vittorio «l’amico italiano»
Poche centinaia di ragazzi palestinesi con bandiere e slogan per l’ultimo saluto a Vittori Arrigoni a Gaza. Stasera la camera ardente al Cairo, poi la salma rientrerà in Italia per i funerali nel paese di Bulciago, in Brianza.
di U.D.G. (l’Unità, 19.04.2011)
Una bara di compensato coperta da una bandiera italiana e una palestinese, gli slogan, e il pianto degli amici, onori funebri solenni, ma non di massa. Si è consumato così, ieri, l’ultimo viaggio di Vittorio Arrigoni nella Striscia di Gaza: lembo estremo di terra palestinese nel quale il volontario italiano aveva scelto di vivere, in nome dell’adesione senza riserve alla causa di un popolo, e dove per tragico paradosso ha incontrato alla fine, a 36 anni, un’atroce morte per strangolamento.
Una morte che le indagini sembrano ricondurre alla mano di una cellula di ultra integralisti salafiti collocati su posizioni ancor più radicali di Hamas (il movimento islamico al potere nella Striscia): su tre dei quali pende adesso una taglia. Sviluppo rimasto sullo sfondo del corteo che ha seguito l’addio a Vik, come amava farsi chiamare. Alcune centinaia di persone in tutto, radunatesi dal mattino dinanzi all’ospedale di Shifa a Gaza City, da dove il feretro è uscito a metà giornata portato a spalla da due file di poliziotti con i baschi rossi. E da dove, cosparso di petali, è stato poi caricato su un’ambulanza (una di quelle su cui Arrigoni accompagnava i feriti durante l’offensiva israeliana “Piombo Fuso”) diretta con una coda di torpedoni e vetture private verso il valico di Rafah, al confine egiziano.
Il percorso si completerà con l’arrivo al Cairo (dove per oggi è stata allestita una camera ardente), con il volo verso Milano e quindi con i funerali di Bulciago, il comune in provincia di Lecco da cui Vik era partito e dove, nella doppia veste di sindaco e madre, Egidia Beretta lo accoglierà.
Per i funerali la madre ha chiesto agli amici e sostenitori di Vittorio di non mandare fiori ma casomai donazioni al conto a lei intestato presso la filiale di Bulciago della Banca popolare di Bergamo (Iban IT16Y0542851000000000000791 ). La famiglia valuterà in seguito a chi destinare i fondi raccolti. A Gaza gli attivisti dei diritti umani amici di Arrigoni hanno deciso di varare una lancia per il monitoraggio dei diritti per la spiaggia di Gaza. La barca, che proseguirà l’impegno di Vik a favore dei pescherecci gazawi sarà battezzata, come lui voleva, «Oliva».
Arrigoni, funerali di Stato a Gaza
L’attivista italiano, dichiarato “martire”, è stato trasferito in Egitto
di Aldo Baquis (La Stampa, 19.04.2011)
Con una cerimonia solenne al valico di Rafah (fra Gaza e l’Egitto) la popolazione della Striscia e i dirigenti dell’esecutivo di Hamas hanno salutato ieri Vittorio Arrigoni, il volontario italiano ucciso venerdì da una cellula di integralisti islamici che con il suo sequestro speravano di liberare un loro dirigente recluso da febbraio in una prigione di Gaza.
Trovatosi in condizioni di difficoltà per l’aperta sfida dei terroristi salafiti, Hamas ha qualificato Arrigoni come «un martire della causa» e ha presentato alla stampa locale come «funerali di Stato» la cerimonia di commiato a Rafah. Nella tarda mattinata il feretro dell’attivista è stato infine issato in spalla da otto uomini di Hamas in alta uniforme ed è uscito dall’ospedale Shifa, avvolto per metà in un vessillo palestinese e per metà in una bandiera italiana. Da ore, sotto il sole, lo attendevano centinaia di amici, sostenitori nonché funzionari ufficiali e rappresentanti di istituzioni locali. Alcuni esponevano immagini di Arrigoni al suo arrivo a Gaza nel 2008 con la flottiglia umanitaria «Free Gaza», mentre altri hanno urlato a gran voce: «Fuori i terroristi da Gaza».
Il corteo funebre, guidato dal viceministro degli Esteri di Hamas Ghazi Hammad, ha lentamente percorso poi i 30 chilometri di tragitto fino al valico di Rafah. La decisione di trasferire la salma via Egitto è stata presa dai familiari della vittima, alla luce della forte animosità che Arrigoni provava verso Israele. Al valico i dirigenti di Hamas hanno reso ancora una volta omaggio alla figura del volontario, hanno espresso condoglianze alla famiglia e al popolo italiano e hanno assicurato che condurranno una lotta serrata per catturare chiunque abbia partecipato al sequestro e alla uccisione. La salma tornerà in Italia domani, da stabilire la data delle esequie a Bulciago, il paese della famiglia in provincia di Lecco.
Il «ricercato numero uno», conferma adesso la direzione di Hamas, è un jihadista giordano penetrato a Gaza molti mesi fa e da allora attivo nel reclutamento di sostenitori. È lui, secondo gli investigatori, il cervello dell’operazione. Fonti locali aggiungono che questi conosceva personalmente Arrigoni, e che dunque poteva seguirne i movimenti con facilità. Il suo nome è Abdul Rahman al Breizat, noto anche come «il Giordano», o ancora come Muhammed Hisani. Le foto segnaletiche lo mostrano a braccetto con un amico, pure ricercato, e poi anche a bordo di una motocicletta. Sulla sua testa c’è una taglia di entità imprecisata. «Chiunque ci fornirà informazioni sarà ricompensato» ha detto ieri un portavoce del ministero degli Interni.
Sempre ieri quel ministero ha pubblicato le foto e i nomi di altri ricercati (Muhammed al Breizat, Billal al Omari, Nimer Salfiti). I servizi segreti di Hamas setacciano a tappeto gli ambienti dei salafiti, e compiono decine di fermi. Di interrogatorio in interrogatorio cresce la sensazione che nel delitto siano implicate forze esterne: integralisti giordani, ad esempio, o anche egiziani che speravano - con la cattura di Arrigoni - di liberare Abu el Walid al Maqdesi, il leader salafita protagonista di una serie di attentati nel Sinai.
Finora sono state arrestate due persone (quattro, secondo altre fonti), direttamente coinvolte nel rapimento. I servizi di sicurezza di Hamas - che pure sono specializzati nel contrabbando di armi dal Sinai verso Gaza - hanno adesso rafforzato i controlli lungo il confine per impedire la fuga dei ricercati nel senso inverso, da Gaza verso il Sinai.
Gli amici dell’attivista lo onoreranno nella spedizione in partenza
"Barche di aiuti nel nome di Vik" torna in mare la Freedom Flotilla
La missione prevista a maggio sarà ribattezzata con il suo motto: "Restiamo umani"
di Valeria Fraschetti (la Repubblica, 17.04.2011)
Non ci sarà, come aveva sperato. Eppure Vittorio Arrigoni sarà presente. Anzi, della flottiglia internazionale che nelle prossime settimane salperà ancora una volta verso la Striscia l’attivista strangolato a Gaza sarà il protagonista morale. Perché quello che era il suo mantra, la sua firma in calce ad ogni messaggio del suo blog, sarà il nome della prossima Fredoom Flotilla: "Stay Human".
L’invito a se stesso e agli altri a "restare umani" lanciato da Arrigoni era nato dopo essere arrivato a Gaza nel 2008 proprio a bordo di una delle prime imbarcazioni del Freedom Gaza Movement: barche dirette verso le coste palestinesi per protesta contro il blocco navale imposto da Israele al milione e mezzo di abitanti della Striscia. Arrigoni era stato uno dei primi 44 attivisti a intraprendere la missione e anche per questo il Coordinamento nazionale della Freedom Flotilla 2 ha deciso di rendergli omaggio: sul suo sito ha annunciato che la missione umanitaria «tornerà a Gaza in suo onore».
«Vittorio era un emblema della flottiglia e le adesioni sono aumentate anche grazie al suo attivisimo», spiega la giornalista Angela Lano, dell’ufficio stampa di Freedom Flotilla nonché direttrice del sito di notizie palestinesi Infopal. La partenza è prevista a fine maggio. Una data precisa ancora non c’è, anche perché, dicono gli organizzatori, la coalizione che costituisce il movimento continua ad ampliarsi e si cercano nuove imbarcazioni. Ad oggi i Paesi partecipanti sono 50, le imbarcazioni previste 12: un migliaio tra attivisti, cooperanti, giornalisti e cittadini salperanno da diversi porti del mondo per ritrovarsi in acque internazionali e dirigersi alla volta di Gaza per consegnare carrozzine per disabili, desalinizzatori, medicinali, kit scolastici e altro materiale umanitario.
Lo scorso anno la spedizione, che Israele accusò di trasportare armi dirette ai miliziani di Hamas, finì in tragedia: l’assalto dei commando dell’esercito israeliano a sei navi fece 20 morti, per la maggior parte turchi. Ora, alla vigilia della seconda Freedom Flotilla, Israele è in fibrillazione. Due settimane fa il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe convocato gli ambasciatori stranieri per avvertirli della spedizione. E gli attivisti arrivano ad ipotizzare: «Abbiamo il forte sospetto che il suo assassinio sia stato un messaggio di Israele ai paesi membri della coalizione pro-Palestina - dichiara la Lano - Ma dopo la morte di Vik siamo ancora più determinati a portare a termine la nostra missione di aiuto agli abitanti di Gaza».
Addio caro Vittorio
di Dr. Yousef Salman
CARO VITTORIO,
Di sicuro i tuoi assassini conoscevano chi eri e cosa rappresentavi. Non è importante chi erano gli assassini e cosa rappresentano, ma alla fine dei conti, hanno commesso un delitto e un brutale odioso assassinio.
Hanno ucciso un uomo libero, un amante della libertà e della giustizia, un amico della pace e del popolo palestinese, che tu hai difeso, hai amato e che hai fatto della sua causa una ragione di esistenza e di vita.
Non so chi sono e cosa rappresentano, ma so che NON sono palestinesi, che sono un pericolo serio e costante per i palestinesi e che sono degli assassini della Palestina, della sua causa, del suo popolo e dei suoi veri e sinceri amici. Sono nemici dell’umanità che Vittorio ha sempre cercato di difendere e fare vincere in Palestina.
Vittorio potevi rimanere in Italia a fare la bella vita e so che tu appartiene a una grande famiglia, benestante e ricca di grandi valori, hai lasciato il tuo benessere per venire a vivere fra i più poveri e sfortunati della terra, nell’inferno di Gaza e hai voluto sposare la giusta causa del popolo più disgraziato e sfortunato al mondo.
La morte drammatica tua, Vittorio non è diversa ed è simile con quella del grande artista palestinese ebreo, Juliano Mer Khamis, ucciso una settimana prima nel Campo profughi di Jenin.
Lo so che il destino dei liberi sognatori, dei veri rivoluzionari, degli onesti idealisti è in contrasto con ed in scontro continuo contro il mondo dell’ignoranza, dell’estremismo, della prepotenza, della pazzia e della repressione e della brutalità dell’occupazione israelo-sionista alla Palestina. Lo so e lo sappiamo che l’arma dell’ignoranza e dell’estremismo è la pallottola, la violenza e l’odio ed in pochi attimi può sterminare una vita buona ed innocente dedicata a favore e al servizio della causa palestinese e del suo popolo.
Di sicuro chi ti ha ucciso, sa chi sei e cosa rappresenti, la carica ideale, i valori che porti e che difendi e di sicuro è riuscito a fare e realizzare ciò che non è riuscito a fare e realizzare da tempo il nemico comune: l’occupante israeliano.
E’ l’occupazione israeliana è l’unica parte vantaggiato dalla tua scomparsa, grande e caro amico Vittorio. Vittorio ti sei innamorato della Palestina e di Gaza in particolare ma anche i palestinesi e particolarmente quelli di Gaza, si sono innamorati di te, Vittorio e della tua bella Italia.
Vittorio sarai sempre nei nostri cuori e viverai sempre nella nostre lotte, per una Palestina libera, laica e democratica.
ADDIO CARO FRATELLO E RESTIAMO ANCORA UMANI..
Dr. Yousef Salman
Delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia
http://www.palestinercs.org
Hanno ucciso Vittorio uno dei nostri
di Moni Ovadia (l’Unità, 16 aprile 2011)
È stato ferocemente giustiziato Vittorio Arrigoni uno dei nostri. Non il militante di una fazione, non solo o non tanto un pacifista o un sostenitore della causa palestinese ma un essere umano che conosceva il significato di questa parola. Essa implica un dovere animato da una passione irreprimibile. Il dovere di stare a fianco al povero, all’oppresso, al perseguitato;i brutali esecutori dell’orrore sarebbero degli islamisti salafiti, vedremo.
Ma i mandanti non sono loro. Il mandante della violenza è l’oppressione, l’ingiustizia, il privilegio, il razzismo. Vittorio era a fianco del popolo palestinese, dei suoi bambini, delle sue donne e dei suoi vecchi, come lo sono molti di noi pur senza la sua coraggiosa determinazione e la sua totale dedizione, perché la popolazione civile di quel popolo da 45 anni subisce la violenza di un’occupazione e di una colonizzazione illegale, ingiusta, violenta che per gli abitanti di Gaza oggi si è trasformata in un vero assedio che strangola in un diuturno stillicidio la sua economia, la sua vita, il futuro dei suoi fanciulli e dei suoi adolescenti.
I mandanti morali di questo ennesimo orrore sono gli sgherri di questo status quo che si sottraggono alla giudicabilità grazie alla sconcia inerzia della vile comunità internazionale. E questo ignobile status quo, voluto per cancellare l’identità di un popolo, proseguirà il suo sporco lavoro. Intanto, in tv, ascolteremo i ributtanti discorsi di circostanza dei soliti soloni che ci spiegheranno che la colpa è tutta del fanatismo islamico che non vuole accettare la superiorità della democrazia di occupanti e di democratici coloni fanaticamente religiosi.
Non ce ne andremo, Vittorio caro!
di Nandino Capovilla
del 15 aprile 2011 *
"Non ce ne andiamo, perché riteniamo essenziale la nostra presenza di testimoni oculari dei crimini contro l’inerme popolazione civile ora per ora, minuto per minuto".
Così ripetevi durante Piombo fuso, unico italiano rimasto lì, tra la tua gente, tra i volti straziati dei bambini ridotti a target di guerra. Così mi hai ripetuto pochi mesi fa prima di abbracciarmi: io obbedivo all’ultimatum dei militari al valico di Heretz che mi ordinavano di uscire dalla Striscia, ma tu restavi. Questa era la tua vita: rimanere.
Sei rimasto con gli ultimi, caro Vittorio, e i tuoi occhi sono stati chiusi da un odio assurdo, così in contrasto, così lontano dall’affetto e dalla solidarietà della gente di Gaza, da tutta la gente di Gaza che non è “un posto scomodo dove si odia l’occidente”, come affermano ora i commentatori televisivi, ma un pezzo di Palestina tenuta sotto embargo e martoriata all’inverosimile.
Immaginiamo i tuoi amici e compagni palestinesi ancora una volta inermi, ancora una volta senza una voce che porti fuori da quella grande prigione la loro disperazione, testimonianza della loro umanità ferita e umiliata.
Non spendiamo parole per quelli che non hanno saputo essere, e per questo non sono restati, umani. La tua gente di Palestina non dimenticherà il tuo amore per lei. Hai speso la tua vita per una pace giusta, disarmata, umana fino in fondo.
Anche a noi di Pax Christi mancherà la tua “bocca-scucita” che irrompeva in sala, al telefono, quando, durante qualche incontro qui in Italia, nelle città e nelle parrocchie dove si ha ancora il coraggio di raccontare l’occupazione della Palestina e l’inferno di Gaza, denunciavi e ripetevi: “restiamo umani!” Tu quell’inferno lo raccontavi con la tua vita. 24 ore su 24. Perché eri lì. E vedevi, sentivi, vivevi con loro. Vedevi crimini che a noi nessuno raccontava. E restavi con loro.
Abbracciamo Maria Elena, la tua famiglia e vorremmo sussurrare loro che la tua è stata una vita piena perché donata ai fratelli e che tutto l’amore che hai saputo testimoniare rimarrà saldo e forte come la voglia di vivere dei bambini di Gaza. Ci inchiniamo a te, Vittorio. Ora sappiamo che i martiri sono purtroppo e semplicemente quelli che non smettono di amare mai, costi quel che costi.
Don Nandino Capovilla
coordinatore nazionale di Pax Christi Italia
Firenze, 15 aprile 2011
Gaza, trovato il corpo di Arrigoni
il pacifista ucciso prima dell’ultimatum
La scoperta fatta dalle forze di sicurezza di Hamas dopo un blitz che ha portato a due arresti. "E’ stato soffocato". La gigantesca caccia all’uomo dopo l’annuncio del rapimento dell’italiano con un video di un gruppo di estremisti salafiti. La richiesta era di liberare dei prigionieri entro il pomeriggio di oggi
dal nostro corrispondente FABIO SCUTO *
GERUSALEMME - L’hanno assassinato senza aspettare la scadenza dell’ultimatum che loro stessi avevano dato. Vittorio Arrigoni, l’attivista pacifista rapito ieri a Gaza City da un commando di estremisti salafiti che minacciava di ucciderlo se non avesse ottenuto dal governo di Hamas il rilascio di un gruppetto di suoi militanti, è stato trovato morto questa notte in una casa abbandonata di Gaza City. A ritrovare il corpo del giovane militante pacifista italiano le forze di sicurezza di Hamas che avevano scatenato una furibonda caccia all’uomo dopo l’annuncio del rapimento con un video su Youtube ieri pomeriggio. Con uno scenario ispirato al feroce rituale iracheno, nel video Arrigoni appariva sanguinante, con gli occhi bendati, tracce di sangue sul volto ed evidenti segni di un pestaggio. Militante dell’International Solidarity Movement (Isn) che comprende militanti di tutto il mondo che partecipano ad atti di protesta non violenta contro l’occupazione israeliana, Arrigoni era conosciuto da tutti a Gaza per il suo impegno e viveva nella Striscia dal 2008.
Un portavoce di Hamas ha precisato che Arrigoni è stato trovato in un appartamento del rione Qarame, a Gaza City, a conclusione di un blitz condotto dai miliziani di Hamas, e che era stato ucciso dai rapitori - soffocato - "qualche ora prima" dell’assalto. Due uomini sono stati arrestati e un numero imprecisato di altri sono ricercati. Il portavoce ha definito Arrigoni "un amico del popolo palestinese" e la sua uccisione "un crimine contro i nostri valori".
Il video di Arrigoni, con l’ultimatum in sovraimpressione in arabo annunciava l’esecuzione nel giro di 30 ore (cioè oggi pomeriggio) se Hamas - che i salafiti avversano da posizioni ancor più oltranziste - non avesse liberato i "confratelli arrestati" negli ultimi mesi nella Striscia. La sovraimpressione dei rapitori - che dicevano di appartenere a un gruppuscolo della galassia jihadista filo-Al Qaida, la "Brigata Mohammed Bin Moslama", coinvolto in tentativi di sollevazione anti Hamas come quello represso nel sangue nel 2009 nella moschea bunker di Rafah - accusavano il volontario di diffondere "i vizi occidentali" fra i palestinesi e l’Italia di combattere contro i Paesi musulmani.
Il video si rivolgeva al governo di Hamas del premier Ismail Haniyeh, salito al potere nella Striscia nel 2007 dopo il golpe islamico contro l’Anp del presidente Abu Mazen, ma ritenuto dai salafiti contrario all’idea di un Califfato mondiale e troppo moderato nell’applicazione della Sharia, la legge coranica. L’intimazione era quella di scarcerare entro oggi "tutti i detenuti" legati alla Brigata Bin Moslama. A cominciare dal capo fazione Hisham Al-Saidni, noto anche come Abu Walid Al-Maqdisi, un egiziano trapiantato nei Territori palestinesi che risulta già sulla lista nera dei ricercati per terrorismo di Egitto e Stati Uniti e che la polizia di Hamas ha arrestato all’inizio di marzo nel campo profughi di Shati, a ridosso di Gaza City.
La crescita della presenza dei gruppi salafiti a Gaza si è di molto accresciuta negli ultimi due anni e i tunnel del contrabbando sotto il confine con l’Egitto sono la via dei loro rifornimenti di armi. Sono tre i principali movimenti salafiti operativi nella Striscia di Gaza e che rappresentano una spina nel fianco per Hamas. Si tratta del Jund Ansar Allah (i Soldati di Dio), del Jaish al-Islam (l’Esercito dell’Islam) e del Jaish al Umma (l’Esercito della Nazione). Il più pericolo di questi gruppi per Hamas e per gli equilibri dell’area è quello dei Jund Ansar Allah. Il leader di questo gruppo salafita, Abdul Latif Abu Moussa, è stato ucciso durante gli scontri con la polizia di Hamas nell’agosto 2009.
Dall’Italia la Farnesina aveva fatto sapere in serata di essersi già attivata, attraverso il Consolato generale di Gerusalemme e tutti i contatti diplomatico-internazionali disponibili, per tutelare la vita di Arrigoni. Il presidente palestinese Abu Mazen aveva lanciato un appello "per la sua immediata liberazione e senza condizioni". Arrigoni è il primo straniero sequestrato nella Striscia di Gaza dopo Alan Johnston, il giornalista della "Bbc" rapito per 114 giorni nel 2007 dall’Esercito dell’Islam", un piccolo gruppo ispirato ad Al Qaida.
Un indubbia difficoltà è rappresentata dal fatto che Hamas è sulla black-list europea per il suo sostegno al terrorismo e ufficialmente non è possibile per il nostro Ministero degli Esteri stabilire un contatto diretto con i dirigenti integralisti. Questo avviene attraverso altri canali che si possono definire "informali", cioè attraverso l’Anp di Abu Mazen. Estrema prudenza e riserbo anche dai responsabili politici di Hamas a Gaza, che si sono limitati a dire d’essere impegnati al momento a "verificare i fatti". Intanto la città si è riempita di agenti in divisa e in borghese e la caccia ai rapitori è cominciata.
* la Repubblica, 15 aprile 2011
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
A EMIL L. FACKENHEIM. (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?”
PER SFIDARE L’EMBARGO
Veliero di pacifisti ebrei verso Gaza
Il «Jews for Justice for Palestinians» ha obiettivi pacifici
Sulla barca salpata da Cipro un sopravvissuto all’Olocausto *
Una nave, con a bordo una decina di attivisti ebrei provenienti da Israele, Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna, ha lasciato ieri il porto di Famagosta, nel nord di Cipro, diretta nella Striscia di Gaza, con la speranza di violare simbolicamente l’embargo israeliano. Richard Kuper, uno degli organizzatori del gruppo britannico «Jews for Justice for Palestinians», ha precisato che uno degli obiettivi dell’iniziativa è mostrare che non tutti gli ebrei approvano la politica israeliana verso i palestinesi. Kuper ha poi precisato che la nave non opporrà alcuna resistenza alle autorità israeliane. La nave trasporta giocattoli per bambini, materiale sanitario e altri aiuti per gli abitanti della Striscia di Gaza.
A bordo dell’imbarcazione c