Netanyahu sfida Obama a Washington: «Gerusalemme è la nostra Capitale» *
Continua la sfida del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, al governo Usa e alla comunità internazionale: alla vigilia dell’incontro odierno alla Casa Bianca con Barack Obama, previsto per stasera, Netanyahu ha detto che «Gerusalemme non è un insediamento», ma la «capitale israeliana». Intanto, Netanyahu vuole il rinvio dell’apertura dei negoziati per la pace in Medio Oriente se i palestinesi manterranno la loro richiesta di congelamento degli insediamenti. La nuova posizione israeliana è stata espressa dal premier dello Stato ebraico nel corso di un incontro con il vice presidente americano Joe Biden.
Nel discorso dinanzi alla Riunione annuale dell’Aipac (il Comitato per gli Affari Pubblici Israelo-Americani), la principale lobby pro-Israele degli Stati Uniti, lunedì sera Netanyahu ha detto che «il popolo ebraico costruì Gerusalemme 3.000 anni fa e costruisce Gerusalemme ancora oggi. Gerusalemme non è un insediamento, è la nostra capitale».
L’espansione degli insediamenti israeliani ha reso molto critiche le relazioni tra Usa e Israele, specialmente dopo che il 9 marzo Israele ha annunciato la costruzione di 1.600 nuove case a Ramat Shlomo, un insediamento a Gerusalemme Est, proprio mentre il vicepresidente degli Stati Uniti, Joseph Biden, era in visita nel Paese.
Netanyahu ha ricordato di aver mantenuto la politica dei governi precedenti, tanto laburisti che della destra Likud, e che l’annuncio di nuove abitazioni non viola nessuno degli impegni. «Tutto il mondo sa che questi quartieri (dove Israele pianifica le costruzioni) saranno parte di Israele in qualunque accordo di pace. Per tanto, costruire in quelle zone non impedisce la possibilità di una soluzione a due Stati». E ha aggiunto che Israele vuole la pace, ma che «la pace richiede la reciprocità. Non può essere una strada a senso unico in cui solo Israele fa concessioni».
Poi ha lanciato un messaggio chiaro di rifiuto a chi gli chiede un avvicinamento alla Casa Bianca: «Il futuro dello Stato ebraico non può dipendere in alcun modo dalla benevolenza, neanche se fosse dell’uomo più nobile. Israele deve sempre riservarsi il diritto a difendersi». E ha però espresso fiducia nella relazione tra i due Paesi: «Quando il mondo affronta sfide monumentali, è il momento in cui Israele e gli Usa le affronteranno insieme». E in questo senso ha lanciato un avvertimento sul programma nucleare iraniano, «una minaccia a Israele, ma anche una grave minaccia per la regione e contro il mondo».
A poche ore dall’incontro in programma alla Casa Bianca con il presidente Obama, Netanyahu ha risposto in questi termini all’invito rivoltogli in mattinata da Hillary Clinton. Il ministro degli Esteri Usa, pur ribadendo l’impegno americano nei confronti del Paese, aveva invitato Israele a «scelte difficili ma necessarie» sulla via della pace. E aveva ribadito che gli Usa guardano con favore alla strategia diplomatica dei «colloqui indiretti» (proximity talks) per rilanciare il percorso di pace.
Intervenendo anch’ella all’AIPAC, la più importante lobby ebraica d’America, Hillary Clinton aveva detto in mattinata che «lo status quo è insostenibile per tutte le parti in causa: promette soltanto nuove dosi di violenza». Per questo aveva invitato le parti a riprendere i «colloqui indiretti», unica strategia al momento possibile per rilanciare un possibile percorso di pace tra israeliani e palestinesi. «Il cammino da seguire è chiaro: due Stati e due popoli che vivono fianco a fianco» aveva detto. E se questo è l’obiettivo, costruire nuove case israeliane a Gerusalemme est «danneggia la fiducia reciproca, mette a rischio i colloqui indiretti», e indebolisce la capacità Usa di giocare «un ruolo unico e essenziale» nel processo di pace.
Dissensi fra amici»: così il segretario del governo israeliano Zvi Hauser ha definito oggi le divergenze di opinione su Gerusalemme est emerse anche ieri con i dirigenti americani ai margini della visita a Washington di Benyamin Netanyahu.
Il primo ministro israeliano sarà ricevuto oggi, in visita privata, dal presidente Barack Obama. Riferendosi in una intervista a radio Gerusalemme anche agli incontri con il vicepresidente Joe Biden e con il segretario di Stato Hillary Clinton, Hauser ha rilevato che l’accoglienza riservata a Netanyahu è stata «calorosa».
Circa lo status politico di Gerusalemme est, Hauser ha ricordato che i dissensi fra Israele e Usa risalgono all’indomani della Guerra dei sei giorni, del 1967. «Da allora la loro posizione di fondo non è cambiata, e nemmeno la nostra» ha affermato. Netanyahu è dunque determinato a portare avanti la politica perseguita dai governi israeliani precedenti e a costruire nuovi progetti a Gerusalemme «non solo per gli ebrei - ha precisato Hauser - ma anche per gli arabi».
Cinque palestinesi sono rimasti feriti la notte scorsa nel corso di un raid israeliano contro una zona situata a nord della città di Gaza. L’operazione militare è scattata poche ore dopo la rivendicazione da parte di militanti del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina del lancio di un razzo di fabbricazione artigianale contro la parte meridionale del territorio israeliano.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il sionismo non è l’ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
L’organizzazione dei sopravvissuti alla Shoah non sta con Netanyahu
Germania/Israele. Il Vvn denuncia i crimini israeliani contro i palestinesi. Lo scrittore Tomer Dotan Dreyfus e il suo reportage da Tel Aviv: «Perché in Germania i palestinesi contano meno di noi?»
di Sebastiano Canetta (il manifesto, 19.05.2021)
BERLINO. È stata la prima organizzazione fondata dai sopravvissuti ai campi di sterminio, combatte l’antisemitismo da ben 74 anni e non sta per niente dalla parte di “Bibi” Nethanyau. L’Unione dei Perseguitati dal regime nazista (Vvn) è la più antica istituzione antifascista tedesca, con una lista di membri illustri da enciclopedia della Resistenza: da Hannelore Willbrandt, militante della Rosa Bianca insieme ai fratelli Scholl ai tempi di Hitler, alla Pantera Nera Mumia Abul Jamal, prigioniero degli Usa dal 1981. Ieri non sono stati zitti di fronte all’oppressione di ebrei, rom e musulmani; oggi non tacciono di fronte ai crimini commessi in Palestina.
«La comunità ebraica tedesca non è responsabile della politica di Israele, quindi gli attacchi contro le sinagoghe sono atti di antisemitismo da condannare». L’Achtung preventivo campeggia sui social del Vvn insieme alla video-testimonianza dell’indicibile orrore di Abu Suhiab, padre di tre bambini di 5, 8 e 14 anni assassinati sabato scorso dagli F-16 di Tel Aviv.
L’equidistanza per il Vnn è solo questa. Mentre la sua idea di libera informazione su ciò che accade in Medio Oriente coincide con l’analisi a tutto tondo di Tomer Dotan Dreyfus, lo scrittore israeliano-tedesco che fra pochi giorni rappresenterà ufficialmente la Germania alla “Jewish Book Week” di Londra. Di pubblico dominio (sul sito freitag.de) il suo «Avviso agli spettatori»: la corrispondenza da Tel Aviv che a Berlino nessuno sembra volere leggere.
«Abbiamo i cartelli con scritto “ebrei e arabi rifiutano di essere nemici!”. Di fronte a noi la sede del Likud su cui pende ancora lo striscione elettorale: “Molti politici, un solo...”; è sempre difficile tradurre leader in tedesco, ma la foto è di Netanyahu. La polizia è tranquilla: siamo ebrei hipster, mica palestinesi. Alcuni uomini ci gridano: “siete malati” e “le vite di migliaia di palestinesi non superano quella di un singolo ebreo!”. Una ragazza risponde: “Fra tutti i popoli, proprio noi non abbiamo il diritto di dirlo”».
Fin qui la cronaca dei fatti, che pure già restituirebbe la complessità del malessere del popolo che ha subito la banalità del male. Ma Dreyfus continua: «A leggere i media tedeschi viene da pensare che 7 morti israeliani, indubbiamente terribili, valgano più di 100 palestinesi. Ma gli attacchi missilistici su Israele sono riportati più dei raid aerei su Gaza. È inquietante: non che non sia giusto denunciare i razzi - sono dovuto correre al rifugio in piena notte per questo - ma il focus significa che l’idea centrale è sempre la supremazia».
È il punto chiave per capire la logistica dell’odio che Dreyfus spiega esemplarmente. «Sui siti tedeschi dilagano le accuse contro i palestinesi: “Si nascondono dietro i civili”. Come se a Gaza ci fosse altra possibilità, come se la principale base dell’esercito israeliano non fosse nel mezzo di una città molto popolata. Di sicuro, solo che tutti sono disposti a sacrificare i bambini». È l’unico dato certo di questo conflitto dalle mille risposte e troppo poche domande.
«Perché in Germania si vuole considerare che i palestinesi contano meno di noi? Forse, perché ci sono rifugiati anche lì. E se piangiamo i morti di Gaza allora vale anche per chi lasciamo annegare nel Mediterraneo». Sillogismo impeccabile, peraltro all’attenzione di tutti i governi della Fortezza Europa.
A Berlino gli slogan contro gli ebrei scanditi da (pochi) ultras alla manifestazione pro-Palestina di sabato scorso hanno alimentato il timore per il crescente antisemitismo, che per Dreyfus è giustificato ma «c’è in tutte le forme e, secondo la polizia, molto più tra i tedeschi bianchi di estrema destra. Lo Stato sembra sopraffatto di fronte al fenomeno che è incistato nella Bundeswehr come nei parlamenti dei Land».
Due mezzi e due misure, come mai? «Il lutto per i morti ebrei nella percezione collettiva tedesca è legato alla lotta contro l’antisemitismo, quindi è più facile se i morti palestinesi sono anche antisemiti. Eppure se la Germania fosse un vero amico di Israele avrebbe denunciato per tempo le politiche di discriminazione di Netanyahu. La frase “Israele è sotto tiro” induce a credere che siamo un’unica entità politica, invece dopo 12 anni di Netanyahu la società è lacerata, piena di odio e sangue, mentre la destra israeliana è più forte che mai: Itamar Ben Gvir, che minacciò pubblicamente di morte Rabin, oggi dalla Knesset invita i suoi seguaci a picchiare gli arabi».
Quindi Dreyfus riassume la realtà quotidiana dei palestinesi nel Paese che l’Occidente considera l’unica democrazia del Medio Oriente. «Quando sono vittime di un crimine la polizia israeliana se ne frega, soffrono più degli ebrei per la povertà e le loro scuole ricevono meno fondi pubblici. E mentre vengono sfrattati sulla base di contratti di due secoli fa, non sono autorizzati a tornare nelle case da cui sono fuggiti nel 1948».
Razzi su Gerusalemme, bombe su Gaza: uccisi 20 palestinesi
A tutta Spianata. Irruzione della polizia israeliana ieri all’alba nella moschea di Al Aqsa. Quasi 300 feriti. Poi i razzi di Hamas e la reazione di Tel Aviv. Morti 9 bambini
di Michele Giorgio (il manifesto, 11.05.2021)
GERUSALEMME. L’urlo delle sirene di allarme ha colto tutti di sorpresa alla Porta di Damasco. Da qualche minuto decine di giovani palestinesi celebravano una piccola ma importante vittoria. L’aver costretto, con le proteste di questi giorni, gli apparati di sicurezza israeliani e il governo Netanyahu a cambiare il percorso all’annuale Marcia delle Bandiere nella città vecchia, con cui i nazionalisti religiosi affermano il controllo di Israele su tutta Gerusalemme, incuranti delle risoluzioni internazionali. E i poliziotti israeliani, sempre pronti a far capire chi comanda, per diversi minuti hanno lasciato fare quei ragazzi, non pochi dei quali nelle sere passate sono stati portati in manette alla stazione di polizia di Moskobiyeh. «Così come li abbiamo sconfitti alla Porta di Damasco, sapremo sconfiggere i coloni a Sheikh Jarrah» ci diceva Yusef, palestinese cattolico amico fin da bambino della musulmana Mona al Kurd, portavoce delle 28 famiglie che rischiano di ritrovarsi in strada se, tra un mese, la Corte suprema israeliana darà ragione ai coloni in una vicenda diventata un caso internazionale e che rappresentare uno degli aspetti centrali del conflitto israelo-palestinese. «Tra un po’ vado a Sheikh Jarrah per partecipare al presidio notturno a difesa delle case in pericolo» diceva ancora Yusef. Alle 18, le 17 in Italia, quando nessuno più pensava all’ultimatum lanciato da Hamas a Israele - ritirare entro quell’ora i poliziotti dalla Spianata di Al Aqsa o pagarne le conseguenze - sono partite le sirene. Ed è cambiato lo scenario, almeno parte di esso.
Confermando quanto avevano minacciato, in nome della difesa della moschea di Al Aqsa, Hamas e Jihad hanno lanciato sette razzi in direzione di Gerusalemme e altri 30 verso il sud di Israele. «Si è trattato di una risposta - ha rivendicato Hamas - all’aggressione e ai crimini contro la città santa e alle prevaricazioni contro il nostro popolo nel quartiere di Sheikh Jarrah e nella moschea al-Aqsa». I razzi non hanno causato danni alle persone ma in pochi attimi migliaia di israeliani si sono ritrovati nei rifugi e la vita nel sud del paese ha rallentato per alcune ore. A Gerusalemme gli abitanti, ebrei e palestinesi, hanno risentito le sirene di allarme come non accadeva dal 2014, durante l’offensiva israeliana Margine Protettivo contro Gaza. A Gerusalemme sono state avvertite le esplosioni dei razzi ma i danni sembravano ieri sera di lieve entità. Inoltre un razzo anticarro ha colpito un veicolo israeliano che transitava vicino a Gaza.
Non è stata invece di lieve entità la reazione di Israele contro Gaza. Un bombardamento aereo scattato in pochi minuti ha trasformato in un inferno il villaggio di Jabaliya e la cittadina di Beit Hanoun, nel nord della Striscia. È stato un bagno di sangue: 20 i morti, tra i quali nove minori, e 65 feriti. Un bilancio così alto di vittime a Gaza in una sola giornata non si registrava da anni. Le immagini girate nei social subito dopo l’attacco hanno mostrato la disperazione dei sopravvissuti che, nella polvere alzata per metri dalle esplosioni, portavano soccorso ai feriti e si affannavano a cercare superstiti tra le macerie degli edifici colpiti. Scene di dolore hanno attraversato la rete. «Avvertiamo il nemico sionista che se colpisce installazioni civili o case che appartengono al nostro popolo a Gaza, la nostra risposta sarà forte e dolorosa e oltre le aspettative del nemico», ha avvertito un portavoce delle brigate Izz al-Din al-Qassam, braccio armato di Hamas. Il Jihad alle 21, come aveva annunciato, ha sparato altri razzi e ieri sera si prevedeva che altri ne sarebbero stati lanciati da Gaza nel corso della notte.
Israele non ha riconosciuto i venti morti nei suoi bombardamenti. Anzi, sostiene che tre dei bambini morti non siano stati uccisi dalle sue bombe bensì da un razzo palestinese caduto sulla loro casa. E aggiunge di aver colpito e ucciso otto uomini di Hamas. «Se non l’ha capito fino ad ora, Hamas adesso lo capirà» ha detto un portavoce delle forze armate. «Siamo preparati - ha aggiunto - e se dopo la nostra risposta la sparatoria continuerà addebiteremo ad Hamas un prezzo molto». Intorno a Gaza c’è già uno schieramento di forze pronto per un’offensiva ad ampio raggio. E le parole del premier Netanyahu sono inequivocabili. «Hamas ha varcato una linea rossa» lanciando razzi su Gerusalemme e «pagherà un duro prezzo», ha detto. «Israele colpirà con grande potenza - ha proseguito il premier - non tolleriamo attacchi al nostro territorio, alla nostra capitale, ai nostri cittadini e ai nostri soldati. Chi ci attacca pagherà un duro prezzo».
Non pochi palestinesi ieri celebravano per la prova di forza offerta da Hamas. Dovrebbero però valutare anche l’impatto dell’escalation militare sui risultati della mobilitazione popolare avvenuta in quest’ultimo mese, intorno a Sheikh Jarrah e alla Spianata di al Aqsa. Razzi e bombe, i corpi straziati dei bambini uccisi a Gaza, le scene di sofferenza, inevitabilmente hanno oscurato i 278 palestinesi feriti ieri all’alba dalla polizia israeliana sulla Spianata di Al Aqsa. Alcuni ieri sera erano ancora in ospedale. E il timido appoggio offerto da alcuni paesi occidentali, Usa e Ue in testa, alla difesa delle ragioni delle famiglie di Sheikh Jarrah che rischiano di essere buttate in strada, è già svanito. La provocatoria Marcia delle Bandiere è ormai una storia di poco conto per i media occidentali. Invece il tema di Gerusalemme e del suo status è sempre lì, lontano dalla legalità internazionale e pronto a riesplodere.
Gerusalemme, il cuore della crisi internazionale
di Alberto Negri (il manifesto, 11.05.2021)
Sì, la storia siamo noi. Come questa nuova Intifada. Ci eravamo dimenticati dei palestinesi? Eccoli, con le braccia al cielo davanti alla polizia. Il nostro corrispondente Michele Giorgio riferisce di 20 morti. Tra cui 9 bambini, nei raid israeliani seguiti al lancio di razzi verso Gerusalemme. Non abbiamo paura di morire, dicono, perché siamo morti e risorti mille volte. Il messaggio è duro, tragico vista la disparità delle forze, ma inequivocabile: non ci arrendiamo. Viene dai tempi dei tempi che vi piaccia o no, noi non alziamo le braccia verso questo mondo iniquo e ingiusto. Siamo masse e individui che non si arrendono... Gli scontri nel «miglio sacro» di Gerusalemme, dove già iniziarono negli anni Ottanta e Duemila la prima e la seconda Intifada, rilanciano una terza rivolta innescata dagli sfratti nel quartiere arabo di Sheikh Jarrah.
Ci sono le coincidenze e anche alcuni elementi di fondo per andare in questa direzione. Nelle prime rientrano le proteste cominciate mentre gli israeliani celebravano l’annessione di Gerusalemme nel 1967 e gli arabi si preparavano alla fine del Ramadan. Ma anche il quadro politico è agitato, da una parte e dell’altra. In Israele è in corso il tentativo di Lapid di formare un nuovo governo che significherebbe la fine dell’attuale premier Netanyahu, un evento che scuote la destra israeliana e anche il movimento dei coloni, più agguerrito che mai. Nel campo arabo c’è stata la decisione di del presidente dell’Anp Abu Mazen di rinviare le elezioni palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme, esacerbando così gli animi dei palestinesi, inferociti con una leadership accusata di essere sempre più succube di Israele.
Davanti all’esplosione degli scontri sulla spianata delle Moschee, vicino al Muro del Pianto e non lontano dal Santo Sepolcro - luoghi sacri a musulmani, ebrei e cristiani - le autorità israeliane hanno preferito rinviare ogni decisione sugli sfratti. La Corte Suprema israeliana ieri avrebbe dovuto emettere il suo verdetto in merito a una tentativo di espulsione di tredici famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, ma la decisione è stata rinviata a causa delle violenze degli ultimi giorni.
Questa non è l’unica causa delle tensioni ma ne è il detonatore. Gli argomenti di scontro sono tanti. In pieno Ramadan c’è prima di tutto l’accesso alla moschea Al Aqsa e alla Cupola della roccia, luoghi sacri dell’islam dove il 7 maggio ci sono stati violenti incidenti. Poi c’è la pressione costante delle autorità israeliane per separare il problema di Gerusalemme dal resto della questione palestinese.
In Israele operano forze politiche di estrema destra legate a Netanyahu e decise a espellere i palestinesi da Gerusalemme. Il mese scorso abbiamo assistito a una serie di cacce all’uomo condotte da estremisti religiosi israeliani al grido di “morte agli arabi” nella più totale impunità.
Questi incidenti mettono in luce che lo status quo è fragile mentre sbaglia chi ritiene ineluttabile la perdita di «centralità» della questione palestinese nei rapporti tra Israele e il mondo arabo. E forse si sbaglia ancora di più se pensa che il problema svanirà da sé. In più adesso c’è il fattore Biden. Il nuovo presidente non ha messo in discussione la decisione di Trump di riconoscere nel 2018 Gerusalemme capitale di Israele e di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv, ma l’amministrazione democratica ha qualche idea diversa sul Medio Oriente rispetto a quella repubblicana. C’è voluto un po’ di tempo prima che le cancellerie internazionali si accorgessero che a Gerusalemme stava accadendo qualcosa. Una realtà che, agli occhi esterni, appare congelata, è invece in involuzione ed evoluzione.
Invece no: Gerusalemme è il cuore del conflitto internazionale, non solo mediorientale. Quella che sembrava una confisca come un’altra - le case palestinesi di Sheikh Jarrah a favore del movimento dei coloni - è diventata adesso un fattore assai preoccupante. L’espansione della protesta palestinese al cuore della città santa e ad altre città, sta svegliando dal torpore i governi arabi. A interessare di più però non è soltanto la reazione giordana, iraniana o tunisina ma quella che arriva dagli Usa. Mentre l’I’talia e l’Ue o tacciono o raccontano il mantra bugiardo del «no alla violenza da una parte e dall’altra», dimenticando che lì c’è una occupazione militare, quella d’Israele sui Territori palestinesi.
Biden finora non ha preso una posizione precisa e non ha messo in discussione nessuna delle decisioni incendiarie del predecessore Trump (da Gerusalemme capitale israeliana alla sovranità sul Golan siriano occupato) ma ha cominciato ad agitare il premier Netanyahu iniziando il dialogo con l’Iran per il rientro degli Usa nell’accordo sul nucleare.
Ma sugli scontri di Gerusalemme si è fatto sentire il Dipartimento di Stato che ha usato parole, come sottolinea Chiara Cruciati sul manifesto, che di solito l’amministrazione americana non utilizza. Nessun comunicato ufficiale ma la portavoce del segretario di Stato Blinken ha espresso «grande preoccupazione» per le azioni israeliane e per «l’eventuale sgombero di famiglie palestinesi dai quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah, molte delle quali vivono in quelle case da generazioni». Mentre una lettera di deputati indirizzata a Blinken ha chiesto di esercitare pressione diplomatiche per impedire gli sgomberi e ribadire quello che il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu già prevedono: «Gerusalemme est è parte della Cisgiordania ed è sotto occupazione militare israeliana», realtà che rende «illegale la sua annessione da parte di Tel Aviv». Un linguaggio esplicito e diretto come forse non era mai venuto dai deputati americani. E noi?
Israele-Palestina, la verità del documento dell’Unesco
di Moni Ovadia (il manifesto, 26.10.2016)
Le parole sono importanti! sentenziava Nanni Moretti in una scena da culto di una sua memorabile pellicola, dando ratifica all’affermazione con un sonoro ceffone vibrato ad una giornalista colpevole di esprimersi con un eloquio mediocre ed improprio.
Dal tempo di quell’accorato grido di dolore del geniale cineasta molta acqua è passata sotto i ponti. Abusare perversamente le parole è diventata pratica comune che non provoca reazioni di sofferenza; in questi giorni, il nostro capo del governo si è prodotto in una tecnica di perversione del senso, sostituendo la parola italiana condono con l’anglicismo di sonorità meno sconcia voluntary disclosure.
L’ordine del discorso e la scelta delle parole possono diventare particolarmente insidiosi quando si parla di Israele, governo israeliano, israeliani, ebrei e via dicendo. A me è capitato di sentirmi apostrofare con il termine “antipatizzante” di Israele per avere definito “colonie” le colonie israeliane della Cisgiordania invece di descriverle con il più neutro “insediamenti”. Gli ultras proisraeliani a prescindere, ma anche coloro che non sono estremisti del campo - potremmo definirli i moderati di ogni schieramento - manifestano un’immediata idiosincrasia nei confronti di un crudo linguaggio di verità, qualora utilizzato nei riguardi di Israele.
Per queste sensibilissime persone, parole accettabili all’indirizzo di qualsiasi altro paese occupante e colonialista del mondo, diventano inascoltabili se utilizzate per criticare gli atti dei governi israeliani.
Questa ipersensibilità ha provocato l’ennesima crociata pro Israele sulla stampa mainstream e nelle piazze, per denunciare l’antisemitismo dell’Unesco a proposito della sua risoluzione sulla Palestina occupata.
Nella traduzione integrale della risoluzione al comma 3 leggiamo: “Affermando l’importanza che Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre religioni monoteiste, affermando anche che in nessun modo la presente risoluzione, che intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e di Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative allo status legale di Palestina e Gerusalemme...”
In apertura, la risoluzione riconosce che Gerusalemme e le sue mura sono sacre ai tre monoteismi e ai loro fedeli: ebrei, cristiani musulmani. Non c’era dunque alcuna ragione di gridare all’antisemitismo, di accusare la risoluzione di voler negare il legame degli ebrei con quei luoghi. In realtà a me pare di intuire che la reazione degli ultras pro Israele, senza se e senza ma, dipenda piuttosto dal fatto che nei commi successivi la risoluzione si riferisca ripetutamente ad Israele con la definizione di “potenza occupante” e ne denunci la pratica violenta dei fatti compiuti sul territorio.
Ora, Israele è, piaccia o non piaccia, una potenza occupante e lo è da cinquant’anni e questo secondo le risoluzioni dell’Onu, non secondo i pro palestinesi. Ma attenti a dirlo! Diventereste illico et immediate antisionisti, ovvero antisraeliani, ovvero antisemiti. Guai all’Unesco che osa affermare che Israele è potenza occupante.
Invece, i politici israeliani di governo possono gridare ai quattro venti che Gerusalemme è la sacra ed indivisa capitale dello Stato di Israele nell’assoluto silenzio delle anime belle, e i leader dei partiti religiosi possono sostenere impunemente che tutta la terra di quella che fu la Palestina mandataria appartiene agli ebrei perché fa parte della terra “donata” da Dio.
Gli zeloti che fanno parte dell’elettorato della destra utrareazionaria sostenitrice di Netanyahu, possono farneticare di distruggere le moschee per edificare al loro posto il “Terzo Tempio” e compiere atti aggressivi nei confronti dei palestinesi, nessuno scandalo. È scandalo invece se il documento dell’Unesco non riconosce alle autorità israeliane e ai fanatici di Israele il diritto ad esercitare il proprio arbitrio.
Forse disturba la mancata identificazione di ebrei e governo israeliano in carica. Le anime belle della democrazia a popoli alterni sanno che le due cose sono diverse, ma dà loro un incontenibile fastidio. Eppure il problema di una precisa distinzione fra israeliani ed ebrei è ormai incandescente.
Un recente articolo apparso sul quotidiano israeliano Ha’aretz a firma di Chemi Shalev titolava: “Trump mostra agli estremisti di destra come amare Israele ed odiare gli ebrei” (alcuni estremisti di destra americani disprezzano gli ebrei progressisti con lo stesso veleno con il quale la destra israeliana odia gli ebrei di sinistra).
Eccolo il capolavoro che hanno edificato i nazionalisti e i fanatici religiosi israeliani con la fattiva collaborazione degli ultras pro sionisti e il benevolo sussiego di certi moderati che sono amici di Israele a prescindere.
Grazie a loro, gli eredi degli antisemiti di ogni tipo possono tornare ad odiare gli ebrei cominciando dai maledettissimi rossi e poi... Poi si vedrà.
Massa d’urto religiosa di questa nuova ideologia sono i cosiddetti cristiano/sionisti. Sono milioni, appartengono a chiese evangeliche millenariste e avventiste, sono sostenitori del sionismo integralista, rivendicano il diritto degli ebrei a possedere tutta la Terra Promessa e auspicano il ritorno di tutti gli ebrei in Eretz Israel perché secondo le loro profezie ciò provocherà la seconda parusia di Gesù e l’Armageddon. E gli ebrei? Quelli che riconosceranno il Cristo saranno salvi. E gli altri? Si fotteranno bruciando nelle fiamme dell’inferno! (L’interpretazione è mia).
Unesco, approvata una nuova risoluzione su Gerusalemme. Netanyahu pronto a richiamo ambasciatore
Documento nega ancora il legame fra gli ebrei ed i luoghi sacri della città. Gentiloni: ad aprile l’Italia voterà no
DI Redazione ANSA *
Il comitato del patrimonio mondiale dell’Unesco ha approvato oggi una risoluzione che nega nuovamente il legame millenario tra gli ebrei e i luoghi sacri di Gerusalemme. Il voto si è svolto a scrutinio secreto: 10 a favore, due contrari e otto astenuti. Il premier Benyamin Netanyahu sarebbe pronto a richiamare per consultazioni l’ambasciatore israeliano all’Unesco Carmel Shama Cohen per protesta contro la risoluzione.
Il testo approvato fa riferimento ai luoghi sacri di Gerusalemme con la sola denominazione musulmana e denuncia i "danni materiali" perpetrati da Israele, come già nelle precedente risoluzione adottata la settimana scorsa dall’Unesco. Gli attuali 21 membri del comitato sono: Angola, Azerbaigian, Burkina Faso, Croazia, Cuba, Finlandia, Indonesia, Giamaica, Kazakistan, Kuwait, Libano, Perù, Filippine, Polonia, Portogallo, Repubblica di Corea, Tanzania, Tunisia, Turchia, Vietnam, Zimbabwe.
Obiettivo del comitato è concedere un’assistenza finanziaria in funzione delle richieste degli Stati membri ed esaminare, tra l’altro, lo stato dei siti iscritti al patrimonio mondiale. In questi ultimi giorni il ministero degli Esteri israeliano aveva moltiplicato le missioni diplomatiche per ottenere che i 21 membri votassero contro la risoluzione.
Il nuovo voto ha provocato una nuova reazione indigrata di Israele che tramite il portavoce del ministero degli esteri Emmanuel Nahshon ha definito il documento "spazzatura" sottolineando che "giustamente l’ambasciatore israeliano nell’organismo ne ha gettato il testo nel bidone dell’ immondizia". "Lunga vita - ha concluso - a Gerusalemme ebraica".
E il presidente della Knesset (Parlamento) Yuli Edelstein in una lettera al Segretario di Stato vaticano Cardinale Parolin chiede l’intervento della Santa Sede. La Risoluzione, afferma, è "un affronto per i cristiani e per gli ebrei" ed il Vaticano dovrebbe "usare i suoi migliori uffici per impedire il ripetersi di questi sviluppi di questo tipo".
"Se le stesse proposte ci saranno ripresentate ad aprile - ha commentato il ministro degli Esteri Gentiloni al Question time - il governo italiano passerà dall’astensione al voto contrario". "La risoluzione - ha spiegato il ministro - si ripropone due volte l’anno dal 2010. Dal 2014 contiene le formulazioni che negano le radici ebraiche del Monte del Tempio".
Per il responsabile della Farnesina bisogna "lavorare affinché l’Unesco faccia l’Unesco. Non c’e’ dubbio che si tratti di una delle organizzazioni Onu che ha un ruolo importante, soprattutto per noi che abbiamo molti siti patrimonio umanità. Ma non si può accettare l’idea che invece di concentrarsi sul patrimonio culturale diventi cassa di risonanza di tensioni politiche".
Benjamin Netanyahu non è un negazionista, ma un politico che manipola la storia
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 23.10.2015)
La storia si manipola quando si strumentalizzano intenzionalmente momenti, aspetti, passaggi problematici della vicenda storica - a fini politici.
In questo caso, il premier israeliano ha attribuito al Gran Muftì di Gerusalemme Amin al Husseini la responsabilità d’aver convinto Hitler a sterminare gli ebrei anziché procedere al loro trasferimento fuori dalla Germania.
Netanyahu fa questa affermazione in un momento di estrema conflittualità tra ebrei e palestinesi, mettendo insieme tre elementi: l’esistenza negli ambienti nazisti di una alternativa allo sterminio; la presunta indecisione di Hitler su come intendere e attuare la «soluzione finale» e il filonazismo e l’antisemitismo radicale del Muftì.
E’ opportuno fare chiarezza su questi punti per ristabilire la verità nella sua complessità, anche a beneficio di una politica che deve agire oggi con memoria vigile in un contesto molto diverso.
Un punto però è fuori discussione. Lo ha espresso con chiarezza il portavoce della cancelliera Angela Merkel: «Noi tedeschi conosciamo molto bene la storia della pazzia razzista criminale dei nazionasocialisti che ha condotto alla catastrofe di civiltà della Shoah. Non vedo alcuna ragione per cambiare in qualche modo il quadro storico. Conosciamo la responsabilità originaria tedesca per questo crimine contro l’umanità».
Anche Netanyahu la pensa così, ma nel suo discorso dà rilievo ad un dettaglio che implicitamente modifica il quadro storico: l’esistenza di un progetto diverso per colpire gli ebrei. Un progetto che sarebbe stato scartato per intervento del Muftì di Gerusalemme.
Qui Netanyahu fa confusione. Esisteva in effetti un’ipotesi alternativa allo sterminio con il trasferimento degli ebrei in Madagascar. Al ministero degli Esteri e anche in alcuni uffici d’emigrazione delle Ss si parlava di trasportare milioni di ebrei in quell’isola. Ma non c’era alcun progetto di fattibilità. Non si può escludere che fosse un’opera di disinformazione. Ma ottenne successo, dal momento che molti tedeschi ne erano convinti - anche quando vedevano intere famiglie ebree caricate sui vagoni ferroviari.
Ma è altrettanto certo che il colloquio tra il Muftì e Hitler cui si riferisce Netanyahu ha avuto luogo - 28 novembre 1941 - quando l’operazione che aveva di mira lo sterminio era già iniziata. Abbiamo testimonianze dirette di gerarchi e ufficiali in contatto con Hitler. Il 31 luglio 1941 Goering diede esplicitamente ordine al capo del Servizio di Sicurezza Reinhard Heydrich di «procedere alla soluzione finale del problema ebraico».
L’espressione «soluzione finale» è diventata per noi un termine-chiave inequivoco, ma non possiamo ignorare la sua ambiguità letterale. Qui si apre il capitolo del linguaggio dissimulatore e ingannatore che è parte essenziale della comunicazione nazista. Sono innumerevoli le parole apparentemente tecniche o neutre (emigrazione, pulizia, trattamento speciale, cambiamento di residenza) che nascondevano brutali realtà criminali.
Tornando all’incontro tra Hitler e il Muftì, questi (secondo Netanyahu ) avrebbe detto «Se cacciate via gli ebrei, verranno tutti in Palestina». «Allora che cosa devo fare di loro?» - avrebbe chiesto Hitler. «Bruciateli» - fu la risposta. Secondo il premier israeliano, il Muftì avrebbe anche accusato gli ebrei di voler distruggere la moschea sul Monte del Tempio.
Inutile dire come quest’ultima osservazione da parte del premier israeliano accentui ancora più esplicitamente il nesso che vuole proporre come autoevidente tra quegli eventi passati e il presente. Innescando un corto-circuito inaccettabile e pericoloso. La drammatica situazione di oggi in Israele richiede una intelligenza storica e politica ben più matura.
Netanyahu non ha capito il significato di Auschwitz
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 23.10.2015)
In un momento così grave per il proprio Paese un leader politico dovrebbe anzitutto pesare le parole. E dovrebbe guardarsi dal fare un uso strumentale della storia a fini politici. Non solo Israele, ma tutto il mondo ebraico della diaspora, è oggi costernato e non potrà facilmente dimenticare l’intervento di Netanyahu che parlando al XXXVI Congresso sionista di Gerusalemme ha di fatto ridotto e sminuito le responsabilità di Adolf Hitler, fin quasi alla negazione.
Non si tratta solo di un falso storico. Al-Husseini, il Gran Muftì, è stato un seguace, non certo l’ispiratore del Führer - come emerge con chiarezza dall’intervista sul Corriere della Sera di Dino Messina allo storico Mauro Canali.
Agghiaccianti sono le parole di Netanyahu per almeno due motivi. Il primo riguarda il crimine della Shoah. Le ricerche condotte negli ultimi anni mostrano che sin dall’inizio i nazisti non pensavano a una espulsione miravano invece allo sterminio degli ebrei d’Europa. Temevano la «nazione ebraica». Basterebbe leggere Mein Kampf. Ma c’è di più: ormai è sempre più chiaro che il nazismo hitleriano è stato il primo rimodellamento biopolitico del pianeta. Sta qui la sua peculiarità - anche rispetto ad altri genocidi. In questo progetto politico non era previsto più nessun luogo per gli ebrei. Con le sue parole Netanyahu mostra di non aver compreso, o di non voler comprendere, che cosa ha significato Auschwitz. E non basterà chiedere scusa ai sopravvissuti, ai parenti delle vittime, e a tutti gli ebrei costernati oggi dopo questa patetica, importuna e deplorevole boutade del premier.
Il secondo motivo riguarda l’abuso della Shoah in un discorso pubblico per acquisire consensi. È forse proprio questo che offende e irrita di più. Perché ci si poteva attendere da altri un disinvolto e bieco cinismo, che pure ogni giorno si tenta di contrastare. Non certo dal primo ministro dello Stato di Israele.
Halina Birenbaum
“Scandaloso. Ha stravolto la realtà”
di Francesca Paci (La Stampa, 22.10.2015)
«Non potevo credere alle mie orecchie: dal 1967 vado nelle scuole a raccontare cosa ho vissuto a Auschwitz, ho parlato con migliaia di studenti israeliani e centinaia di tedeschi, faccio incontri in tutta Europa e ora Netanyahu viene a spiegarmi che avevo frainteso le intenzioni di Hitler».
Dire che Halina Birenbaum è arrabbiata è riduttivo. Classe 1929 è cresciuta nel ghetto di Varsavia prima e poi nel più noto dei lager nazisti dove ha perso la famiglia ma non la forza per emigrare nel ’47 in quello che sarebbe diventato Israele: «Se penso al dolore, mamme e figli in fila per essere gasati, la fame, l’umiliazione... e oggi devo ascoltare queste idiozie. Mi chiedo in che mani siamo. Netanyahu vuole scaricare tutto lo sporco sugli arabi, vuole provare che non ci sono chance di dialogo né di pace perché ci odiano da sempre e cavalcare l’antisemitismo che pure esiste. O forse voleva compiacere i tedeschi. Non capisco. Ma è uno scandalo. In questa situazione poi, con le colonie che si moltiplicano e vogliono sempre più terra, gli accoltellamenti, così non finirà mai».
Lo storico Mauro Canali: è un falso clamoroso, l’incontro con Hitler solo nel 1941 ma il leader islamico era antisemita e in sintonia col nazismo
Corriere della Sera, 22.10.2015
Far passare il Gran Muftì di Gerusalemme come l’ispiratore di Hitler nella strategia di sterminio degli ebrei è un falso colossale. Questo il giudizio che sull’uscita di Netanyahu dà Mauro Canali, storico dell’età contemporanea che ha studiato a fondo il fascismo e esplorato anche le vicende del Medio Oriente nel periodo fra le due guerre (per esempio con «Mussolini e il petrolio iracheno», Einaudi 2007).
Basta incrociare due date per svelare la bufala: Haj Amin al-Husseini incontra Hitler, dopo una rocambolesca fuga dall’Iraq dove aveva tentato un golpe anti-britannico, nel dicembre 1941, quando la politica di sterminio del popolo ebraico era già avviata; il massacro di Babij Jar, il fossato nei pressi di Kiev dove i soldati nazisti uccisero 33.771 civili ebrei, è della fine di settembre dello stesso anno. Tuttavia, secondo Canali, Netanyahu ha costruito una tesi falsa su dati veri o verosimili: è vero per esempio che in un primo tempo il Führer pensava di confinare gli ebrei in una enclave lontana dall’Europa, ma quando capì che così avrebbe favorito la nascita di una nazione ebraica abbandonò l’idea.
«Il gran Muftì di Gerusalemme, figlio del radicalismo islamico, tra i primi sostenitori dei Fratelli Musulmani, era fautore di un panarabismo che univa una forte politica anti-inglese all’odio contro gli ebrei - dice Canali -. Con il crollo dell’impero ottomano e la nascita dei mandati britannici e francesi, dopo il sogno iniziale di costruire una nazione panaraba, una Grande Siria che comprendeva la Mesopotamia e anche la Terra Santa, al-Husseini circoscrive le sue ambizioni alla Palestina. Il suo principale obiettivo è ostacolare la realizzazione della dichiarazione Balfour del 1917, che favoriva la nascita di un focolaio ebraico in Palestina».
Evaporata l’illusione panaraba, «è evidente che al-Husseini, personaggio centrale nel radicalismo mediorientale fra le due guerre, saluti con favore l’ascesa al potere dell’antisemita Hitler e cerchi alleanze anche con l’Italia». Prima di andare a Berlino, dove incontrerà Ribbentrop e Hitler, il Muftì passa dall’Italia (il ministro degli Esteri Ciano ammetterà di averlo finanziato).
Durante la guerra si spinge a organizzare dei reparti musulmani nei Balcani che si distingueranno nella lotta contro i partigiani di Tito e soprattutto nel massacro degli ebrei bosniaci. Dalla Germania, a conflitto concluso, al-Husseini cercherà rifugio in Svizzera, verrà catturato in Francia e fuggirà in Egitto per nascondersi infine nella citta vecchia di Gerusalemme, dove gli inglesi non riterranno prudente andarlo a scovare.
Il nome del Gran Muftì tornerà infine al processo di Norimberga, tra gli amici di Eichmann, il burocrate della «soluzione finale». Ciò non toglie che al-Husseini sia da iscrivere tra i seguaci, non certo tra gli ispiratori di Hitler.
Lo storico del nazismo Kellerhoff:
“Le prime fantasie di sterminio vennero al Führer già nel 1919”
“Antisemitismo ossessivo”
Il “Mein Kampf” sarà ristampato a gennaio: “Ecco le sue bugie”
di Tonia Mastrobuoni (La Stampa, 22.10.2015)
All’inizio degli anni Venti, Adolf Hitler era ospite fisso dei salotti di Monaco, dove i ricchi borghesi si divertivano ad ascoltare l’eccentrico austriaco abbaiare i suoi proclami antisemiti. Quando l’attenzione scemava, il tribuno di Braunau schioccava il suo frustino sugli stivali da cavallerizzo, per costringere famiglie come i Bechstein - quelli dei pianoforti - a non perdersi neanche una sillaba delle sue tirate contro gli ebrei «parassiti». I monacensi facoltosi adoravano quello strano politicante che indossava lisi completi blu e che da lì a poco avrebbe organizzato l’inquietante putsch nella capitale bavarese. E il suo odio viscerale, ossessivo per gli ebrei non li disturbava: «l’antisemitismo era molto diffuso, nella borghesia tedesca, ma anche in quella francese o austriaca, in quegli anni» ricorda Sven Felix Kellerhoff.
Un odio antico
Nel 1919, sottolinea lo storico e giornalista tedesco, Hitler aveva già espresso in una lettera ad un soldato, Adolf Gemlich, il suo odio malato contro gli ebrei, evocando pogrom, discriminazioni per legge, allontanamenti. «Le fantasie da sterminio - argomenta Kellerhoff - sono già evidenti in quella lettera, ma anche in “Mein Kampf”», il delirante manifesto scritto in carcere nel 1924 e venduto 12 milioni di copie prima della fine della Seconda guerra mondiale. Kellerhoff ritiene «totalmente prive di ogni fondamento storico» le argomentazioni del premier israeliano Netanyahu: Hitler «sognava già di sterminare gli ebrei quando il Muftì di Gerusalemme non era neanche lì». L’antisemitismo ossessivo e la teoria dello spazio vitale per i tedeschi sono i due cardini del libro del Fuehrer, argomenta l’esperto di storia del nazismo.
Kellerhoff ha appena dato alle stampe un documentatissimo libro sulla bibbia dei nazisti: «“Mein Kampf”. Die Karriere eines deutschen Buches» (Klett-Cotta), alla vigilia di un evento storico. A gennaio dell’anno prossimo sarà pubblicata in Germania la prima edizione commentata del manifesto di Hitler, dopo ben 70 anni. Il libro non è mai stato vietato, ricorda l’autore: ne è stata proibita la ristampa, dopo la guerra (i diritti appartengono al Land Baviera). «Un errore clamoroso - per Kellerhoff - perché ha alimentato miti e leggende false». In quasi 800 pagine il Fuehrer ha condensato un’opera «intellettualmente misera, piena di errori grammaticali, stilisticamente obbrobriosa, che pullula di insulti, falsi autobiografici - su cui sono inciampati persino biografi del calibro di Joachim Fest - e assurdità storiche». Kellerhoff ha le idee chiare sull’origine dell’antisemitismo di Hitler, ma smaschera il teorico del Terzo Reich anche su aspetti biografici assolutamente grotteschi.
Manie di grandezza
La frenesia agiografica dei nazisti ha distorto molti aspetti della vita di Hitler, cercando di confermare i deliri di «Mein Kampf». Kellerhoff ne elenca molti. Il primo è quello della giovinezza povera e disagiata a Vienna e Monaco. È vero che nella capitale asburgica Hitler visse momenti terribili, alla vigilia della Grande guerra, di fame e pernottamenti negli alberghi dei poveri. Anni in cui fu aiutato economicamente, peraltro, da alcuni amici ebrei. Ma la verità è che riusciva ogni mese a spendersi la pensione da orfano e i soldi della famiglia in un battibaleno. Un bamboccione, più che un bohèmien.
Nessun eroismo
Anche i racconti epici delle battaglie combattute nell’esercito tedesco durante la Grande guerra sono da ridimensionare. Il «battesimo di fuoco» di Hitler avvenne effettivamente nelle Fiandre. «Mein Kampf» non lascia spazio alla fantasia: pallottole che fischiano intorno alle orecchie del giovane Fuehrer, botti assordanti, un corpo a corpo micidiale e la battaglia che culmina in un coro che si leva dalle prime file, intona «Deutschland, Deutschland ueber alles», contagiando tutto il battaglione.
Fantasie, secondo la ricostruzione storica: di fronte all’avanzata micidiale dei francesi, molti commilitoni si buttarono a terra fingendosi morti, il comandante gridò tre volte invano «all’attacco». E Hitler? A giudicare dalle cronache, al suo solito posto: nelle retrovie. E fu la costanza - non l’eroismo - mostrata in quelle retrovie che gli valse poi la Croce di ferro. Medaglia di cui il Fuehrer parlò sempre con timidezza. Strano, si dirà. Ma il motivo è ovvio. Il luogotenente che aveva insistito per conferire una medaglia al merito al giovane Hitler, Hugo Gutmann, era ebreo.
L’amaca
di Michele Serra (la Repubblica, 17.02.2015)
BIBI Netanyahu ci ricorda che l’ottusità è, nella storia umana, un fattore purtroppo notevole. Come ha spiegato benissimo, e con condivisibile animosità, Gad Lerner su questo giornale, invitare gli ebrei europei ad abbandonare i loro paesi per trovare rifugio in Israele equivale a concedere all’antisemitismo e al terrorismo una patente di invincibilità: come se la sola cosa da fare fosse scappare a gambe levate. E come se le comunità nazionali delle quali quegli ebrei, a milioni, fanno parte a pieno titolo da molte generazioni fossero così imbelli e impreparate da non essere in grado di proteggere i propri cittadini.
Di peggio c’è solo da aggiungere che il pensiero di Nethanyau racchiude, alla massima potenza, la perniciosa idea che ognuno di noi sia ciò che è solo in conseguenza della religione e/o dell’etnia; mentre essere francesi o inglesi o italiani o danesi o europei è uno status che, anche formalmente, non deriva in alcun modo da religione o etnia.
Qualcuno spieghi a Bibi che gli ebrei francesi e gli ebrei danesi sono francesi ebrei e danesi ebrei: e non è la stessa cosa. Il patto sociale, nelle democrazie moderne, non è tra correligionari, è tra concittadini. Un mondo organizzato alla maniera di Netanyahu prevede tutti gli ebrei in Israele, tutti gli islamici in Arabia e tutti i cristiani a Roma? E gli atei? Tutti a Las Vegas?
Israele e l’orrore dei ragazzi assassini
A ISRAELE, per fortuna, non basta consolarsi additando la barbarie praticata dal nemico per trovare giustificazione alla barbarie perpetrata dai suoi figli. La ricerca di alibi morali, o magari di attenuanti, cede il posto a un profondo turbamento interiore.
di Gad Lerner (la Repubblica, 08.07.2014)
OGGI Israele deve guardarli in faccia, questi suoi figli che per vendetta hanno afferrato un coetaneo palestinese di 16 anni, Mohammad Abu Khdeir, e lo hanno bruciato vivo in un bosco di Gerusalemme. Li guarda in faccia e li riconosce perché gli sono ben noti, familiari. Magari finora se ne vergognava un po’, ma liquidava la loro esuberanza come teppismo generazionale proletario.
Sono i ragazzi di stadio della curva scalmanata del Beitar, organizzati come ultràs in un raggruppamento dal nome sefardita, “La Familia”, scelto in contrapposizione linguistica all’élite tradizionalmente ashkenazita dello Stato. Anche il premier Netanyahu tifa per il Beitar, il che naturalmente non significa nulla, se non che il sabato sugli spalti udiva spesso lo slogan “morte agli arabi” rivolto contro i calciatori arabo-israeliani; così come udiva le irrisioni blasfemedella fede musulmana.
Di fronte al baratro della perdizione e del disonore, Netanyahu agisce da politico responsabile di uno Stato di diritto. Parla di «atto ripugnante», telefona le sue condoglianze al padre di Mohammad, assicura che «nella società israeliana non c’è spazio per gli assassini, ebrei o arabi». Lo avevano preceduto, con parole nobilissime, i genitori in lutto per la morte di Eyal, Gilad e Naftali. Loro certamente si sono immedesimati nella sofferenza di una famiglia che non possono sentire nemica. Ma per poter sperare che l’orrore degli adolescenti ammazzati a casaccio rimanga un episodio circoscritto, sarà inevitabile un’autocoscienza collettiva delle società che tanto odio hanno generato. E qui viene il difficile.
Estrema e degenere, ma è la filiazione di una storia importante la vendetta che si è consumata all’alba di mercoledì 2 luglio in un bosco di Gerusalemme. Ha rilevato i codici di un fascismo-razzismo che pensavamo rinchiuso negli stadi di calcio, proprio come, vent’anni fa, le belve della guerra etnica dell’ex Jugoslavia si forgiarono nelle tifoserie organizzate.
Naturalmente il fascismo-razzismo in Israele ha altri luoghi d’aggregazione. La componente ultràs ne rappresenta solo un orpello simbolico, tipico del linguaggio giovanile universale. Non a caso, però, il suo retroterra culturale porta lo stesso nome della squadra di calcio giallo-nera di Gerusalemme. Beitar è il movimento del cosiddetto “sionismo revisionista” fondato nel 1923 da Zeev Jabotinsky, in contrapposizione al sionismo ufficiale accusato di sinistrismo filo-socialista e di eccessiva moderazione. Dal Beitar nascerà il Likud, cioè l’attuale destra israeliana, oggi affiancata (e insidiata) da nuovi movimenti messianici e etnicisti.
In forma laica o religiosa, l’ideologia postulata da costoro snatura il significato biblico di terra promessa. Per la precisione, idolatrano la terra e ne rivendicano la proprietà. L’esatto contrario di quanto è scritto nel Levitico 25-23: “...Mia è la terra, perché voi siete forestieri e residenti provvisori presso di Me”. Un Dio che si è fatto annunciare da patriarchi ebrei senza fissa dimora, eternamente stranieri anche nella terra promessa, viene strumentalizzato come fonte del diritto in base a cui negare legittimità alla residenza dei palestinesi.
Questo naturalmente non basta a spiegare la predicazione dell’odio trasformatasi in azione violenta già prima che il delitto di Hebron sollecitasse pulsioni di vendetta. L’organizzazione “Price Tag” votata a seminare il terrore fra i palestinesi con centinaia di agguati ai civili e alle loro proprietà è attiva da qualche anno, senza che le forze di sicurezza israeliane agissero efficacemente per smantellarla. A legittimarla non è stato solo il fanatismo religioso, ma anche l’affermarsi di una diversa forma di razzismo: l’islamofobia. L’idea, cioè, che gli arabi, ormai quasi tutti musulmani, per loro stessa natura siano inaffidabili e irriducibili. Solo la forza può tenerli a bada, non intendono altro linguaggio. Poco importa chiedersi le ragioni del loro agire, tanto meno intenerirsi per la loro sofferenza. Bisogna solo combatterli. Allontanarli a meno che accettino di sottomettersi.
Va rilevato come questi argomenti riavvicinino la componente ebraica che li propugna alle destre europee che nel frattempo, dopo la Shoah, hanno per lo più ripudiato il loro tradizionale antisemitismo. Anzi, di Israele ammirano proprio l’inflessibilità con cui esercita il suo diritto alla sicurezza e disconosce l’interlocutore palestinese.
“Beitar puro per sempre”, avevano scritto su uno striscione gli ultràs di “La Familia” l’anno scorso, quando la loro squadra voleva ingaggiare due calciatori musulmani. La ebbero vinta, in un paese in cui la stessa nozione di purezza razziale dovrebbe far correre tuttora brividi lungo la schiena. Si tratta di quel medesimo gusto per la violazione di un tabù che spinge molti politici della destra israeliana a accusare di nazismo gli avversari. Ma che ha suscitato enorme scalpore quando è stato lo scrittore Amos Oz a paragonare ai “neonazisti europei” gli estremisti che aggrediscono gli arabi o imbrattano di scritte odiose chiese e moschee.
C’è chi sostiene amaramente che la ricomparsa di Hitler nel dibattito pubblico, sia pure come estrema provocazione, rappresenti una sua vittoria postuma. Anche quando (succede spesso) sono gli oltranzisti ebrei a definire nazisti Hamas o gli Hezbollah. Temo invece che si tratti di qualcosa di più semplice e feroce al tempo stesso, nascosto chissà dove nella natura umana: l’odio inebriante che può sospingere un ragazzo a cospargere di benzina un suo coetaneo e dargli fuoco, pensando di trarre sollievo dall’annientamento di un corpo indifeso eletto a simbolo del nemico.
Il grande storico del fascismo e del pensiero reazionario Zeev Sternhell, vincitore del premio Israele, ha denunciato un cambiamento verificatosi addirittura nella “psicologia della nazione”. La stessa idea di pace si è deformata fino a concepirla possibile solo quando gli arabi accettino il proprio status di inferiorità. I ragazzi ebrei assassini dello stadio di Gerusalemme ne sono una terribile espressione.
Israele-Palestina, l’escalation di brutalità non ha futuro
La violenza non ha mai generato pace ma soltanto ed esclusivamente altra violenza
di Luigi Bonanate (l’Unità, 08.07.2014)
Tre ragazzi israeliani uccisi, un altro palestinese bruciato vivo, nove militanti di Hamas uccisi dai droni, 800 palestinesi arrestati a partire dal 12 giugno, quando furono rapiti i tre ragazzi israeliani. Dopo una forsennata caccia all’uomo, vana perché non si sono trovati i colpevoli dell’assassinio dei tre ragazzi, una frangia estremistica israeliana ha proceduto direttamente alla vendetta dando fuoco a un ragazzo rapito di fronte a casa sua e che - neppure lui - aveva nulla a che fare con gli eventi.
Poi, Netanyahu ha parlato con il padre della vittima palestinese e si è scusato, riconoscendo che il terrorismo e la violenza sono sempre la stessa cosa, chiunque vi ricorra; Abu Mazen ha chiesto un’inchiesta Onu sulla vicenda, e Lieberman, capo di uno dei partiti di ultra-destra israeliani, parte dell’attuale coalizione al potere, ha dichiarato che pur senza far cadere il governo il suo partito esce dall’alleanza politica con il Likud di Netanyahu.
L’unica dimensione nella quale una parte di Israele e una della Palestina si incontrano, anzi, si apparentano, è la facilità con cui ricorrono alla violenza e commettono azioni orrende e assolutamente ingiustificabili. Nessuno può permettersi di giudicare e condannare se non ha le mani nette, e purtroppo nessuno si trova in questa condizione, il che significa che la violenza o la accettiamo in toto o la respingiamo altrettanto totalmente. Questa considerazione vale per tutti e non soltanto per scusare gli atti degli amici o condannare quella degli avversari.
Dobbiamo lasciare la politica ai politici, mentre noi dobbiamo cercare di capire, formarci un’opinione, contribuire a formarne una collettiva e a prendere posizioni pubbliche: tutte cose a cui abbiamo purtroppo ormai perduto l’abitudine. Il primo impegno in ogni tentativo di ricostruzione delle dimensioni di questo problema riguarda il potere della violenza: sappiamo per certo che la violenza (politica) non ha mai generato pace ma soltanto ed esclusivamente altra (semmai maggiore, in una escalation che può essere senza fine) violenza. Ciò significa che la violenza deve, prima o poi, venire abbandonata: se non lo si fa, è perché si teme quella dell’altro, in un perverso (ma ingenuo) gioco di sfiducia reciproca.
La storia - 66 anni sono ormai passati da quando tutto ciò è incominciato - ci dice che, andando avanti così, nulla mai cambierà. Abbiamo avuto alternanze di riduzione della violenza e di recrudescenze, un numero imprecisato di guerre e due intifade: non sono servite a nulla. Esiste qualche modo di sbloccare questa situazione che, lasciata alle attuali dimensioni, non ne ha alcuno? Le guerre si muovono normalmente su una base di presunta reciprocità, altrimenti non inizierebbero mai, sapendosi prima chi ne sarebbe il vincitore.
Tra Israele e la Palestina c’è invece una fondamentale differenza: il primo è uno Stato solido, ricco, riconosciuto dalla comunità internazionale, salvo che da alcune pochissime frange estreme (Hamas, l’Iran); il secondo, la Palestina, è povero e statualmente pressoché inesistente (piccolo com’è, è persino territorialmente diviso).
In una situazione del genere non c’è che una via: che il più fortunato (lasciamo stare da dove questa fortuna gli sia giunta) aiuti il più debole. Per pura e semplice riconoscenza per la fortuna avuta. Israele sa che in una qualsiasi nuova spirale di violenza, uscirebbe sempre vittorioso. Non gli resterebbe allora che una via: spazzar via l’Autorità Nazionale Palestinese (annessi e connessi), e attirarsi contro l’esecrazione planetaria. Gli converrà mai? Ovviamente no, così come non conviene a nessun israeliano né a nessun palestinese pensare che i propri rispettivi figli e discendenti continueranno a vivere nella paura e nel terrore. Non ha alcun senso, perché non c’è argomento che superi quello di un progetto di pacificazione e la conseguente domanda, tanto semplice quanto insuperabile: ma la vita non è meglio della morte?
Filosofi e teologi ricorrono talvolta, per spiegare congiunture particolarmente complesse e difficili, alla formula della «eterogenesi dei fini», che si verificherebbe quando, intendendo con una qualche azione perseguire un certo fine, in realtà si finisce per realizzarne uno diverso. Da certe intenzioni discendono conseguenze che non vi corrispondono. Che sia questo il caso del conflitto israelo- palestinese, in questa sua sorta di inspiegabile inestinguibilità? Ma sia ben chiaro: non è ad azioni casuali, caotiche, sporadiche, che possiamo affidare il futuro del conflitto israelo-palestinese. Tutti - Hamas compreso e come pure i partiti ultra-ortodossi israeliani - diano una prova di saper lavorare con la ragionevolezza e non con la brutalità. Che questo bruttissimo episodio segni finalmente un trionfo dell’eterogenesi dei fini: da un male potrebbe discendere un bene.
Elezioni Israele, Netanyahu primo ma in calo
Exit poll, boom dei centristi di Lapid *
Likud-Beitenu, la lista di destra guidata dal premier Benyamin Netanyahu ha la maggioranza relativa nelle legislative israeliane, ma subisce un forte calo. Ottiene solo 31 seggi. Il giornalista Yair Lapid, con la sua nuova lista centrista, è secondo con 19, secondo gli exit-poll.
Il blocco di destra conquista 62 seggi alla Knesset (parlamento), mentre i partiti di centro sinistra ne ottengono 58, secondo i primi exit poll delle elezioni in Israele. Il blocco delle destre disporrebbe nel complesso di una maggioranza risicata (61-62 seggi sui 120 della Knesset), inferiore - a sorpresa - a quella ottenuta alle elezioni israeliane del 2009. Stando agli exit poll della tv pubblica, dietro la lista del premier in carica Benyamin Netanyahu e dell’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman (Likud-Beitenu) e quella del centrista Yair Lapid (vera sorpresa del voto odierno), figurano i laburisti di Shelly Yachimovich (in leggera ripresa) e il Focolare ebraico di Naftali Bennet (ultradestra nazional-religiosa legata al movimento dei coloni).
I tre exit-poll condotti dalla televisione di Stato, da Canale 10 e da Canale 2, confermano il clamoroso successo della lista centrista ’Yesh Atid’ (C’é un futuro), del centrista Yair Lapid.
Questi i dati in seggi forniti dai rispettivi exit-poll: - Likud-Beitenu (destra): 31-31-31 - Yesh Atid (centro laico): 19-18-19 - Laburisti (centrosinistra): 17-17-17 - Focolare ebraico (ultradestra nazional-religiosa): 12-12-12 - Shas (destra confessionale sefardita): 11-11-12 - HaTnuà (Tzipi Livni, centro): 7-6-7 - Meretz (sinistra sionista): 7-6-7 - Fronte della Torah (destra confessionale ashkenazita): 6-6-6 - Hadash (comunisti): 3-3-4 - Ràam Taal (lista araba): 3-4-4 - Balad (lista araba): 2-2-0 - Otzma le-Israel (nazionalisti estremisti): 2-0-0.
* ANSA,22 gennaio 2013, 21:29 (cliccare sul rosso per aggiornamenti).
Uno spiraglio di pace
Israele, parlamento spaccato a metà
di Bernardo Valli (Corriere della Sera, 24.01.2013)
IL SORPRENDENTE risultato elettorale di martedi sera è per Israele una boccata d’aria fresca. Non rappresenta una svolta politica epocale. Questo no. Ne è un raggio di luce che si accende sul grigio, anzi cupo, panorama mediorientale. Non è insomma un passo decisivo verso la soluzione dei principali e angoscianti problemi quali sono la questione palestinese e la minaccia nucleare iraniana. Sono in pochi a farsi delle illusioni. Non se ne fanno neppure coloro che si rallegrano per la risicata, corta vittoria di Benjamin Netanyahu, vista come l’inizio del suo declino politico. Attendono con evidente soddisfazione i tormentati compromessi cui il primo ministro incaricato dovrà scendere al fine di creare una maggioranza parlamentare. E soprattutto apprezzano l’arresto della crescita nazional-religiosa, ai loro occhi laici un’ombra minacciosa sulla democrazia israeliana. Ma gli avversari di Netanyahu pensano che lo scossone elettorale non sarà sufficiente per smuovere Israele dallo statu quo in cui è trincerato, protetto da una sofisticata superiorità militare, dalla dinamica della sua società tecnologicamente avanzata, e dall’alleanza con la superpotenza americana. Un’alleanza resistente a tutte le polemiche, anche allo sgarbo di Netanyahu di novembre, quando si è apertamente schierato contro Obama, durante la campagna per la rielezione. Israele è ed è destinato per Washington a restare un irrinunciabile “fortino occidentale” nel Medio Oriente instabile e complicato. (Ciò non toglie che Obama si sia in cuor suo rallegrato per lo schiaffo elettorale ricevuto da Netanyahu, del quale non ha una grande stima).
Ma perché parlare di una boccata d’aria fresca se prevale tanto scetticismo sugli effetti positivi del risultato elettorale? In barba a tutti i pronostici, l’ex giornalista televisivo Yair Lapid ha conquistato diciannove seggi nella Knesset, che ne conta centoventi. Quindi ha adesso in mano la chiave della nuova coalizione di governo, perché con i suoi soli trentun seggi Benjamin Metanyahu avrà bisogno di lui per creare una maggioranza parlamentare. Ma votando per Lapid gli israeliani non hanno puntato soltanto su un personaggio nuovo, ed anche giovane, perché Lapid non dimostra neppure i quarantanove anni che ha, ma hanno scelto l’apolitica, qualcosa di diverso dal soffocante dibattito in cui l’esigenza della sicurezza, usata anche come un ricatto, è sempre presente, più o meno sottintesa.
Il voto a Yair Lapid è stata un’evasione dalla spirale della paura. Ed anche dalla politica. Un modo di mandare al diavolo la classe dominante, mi dice con espressioni più marcate un intellettuale di Tel Aviv. Il quale confessa di avere votato per Lapid con quell’intenzione. Non perché l’apprezza come uomo politico. Di politica l’ex giornalista non se ne è in effetti quasi mai occupato fino a qualche mese fa, quando ha deciso di affrontare le elezioni. È stato un animatore intelligente del reality show alla tv. Il suo carisma ha origini telegeniche. Hanno contribuito alla sua popolarità l’aspetto e la simpatia. La sua rubrica sul settimanale Yediot Ahronot, il quotidiano più diffuso, aveva accenti più personali che politici e aveva come titolo “Dov’è il denaro”.
Gli autori dei sondaggi gli assegnavano la metà dei seggi poi conquistati pensando che i temi della sua campagna elettorale fossero banali, marginali, fossero quelli di una società normale, ad esempio le tasse imposte ai ceti medi urbani, su cui gravano le spese pubbliche, e in particolare quelle in favore dei religiosi, disoccupati volontari, perché dediti allo studio della Torah. Yair Lapid ha apertamente deplorato, e si è impegnato a combatterla, l’esenzione dal servizio militare degli studenti religiosi ortodossi. Perché noi siamo soggetti al fisco e loro sono assistiti? L’argomento ha avuto successo nella laica Tel Aviv, in generale nel ceto medio, emarginato dalla crescente sperequazione nei redditi.
I giovani “indignati”, nel 2011 animatori di imponenti manifestazioni di protesta contro la situazione economica, sono stati i grandi elettori di Lapid nel 2013. La boccata di ossigeno è stata questa: appoggiare un candidato con la pacifica aureola della popolarità televisiva, ma in politica una faccia nuova, persino ingenua, che affronta, appunto, le preoccupazioni di una società normale, non assediata, non angosciata dal mondo circostante. Il partito di Lapid, collocato al centro dello schieramento politico, ha un titolo candido, significativo: “C’è un futuro”.
Per Yair Lapid la questione palestinese non dovrebbe costituire un grave problema nel caso di una partecipazione a un governo con Netanyahu primo ministro, e quindi a fianco del Likud, formazione di destra, e di “Casa Israele”, il partito ultranazionalista di Liberman, esponente della comunità russa. I quali non hanno nelle loro intenzioni una ripresa rapida del processo di pace. Lui, Lapid, è favorevole all’idea di uno Stato palestinese, come del resto è capitato di esserlo anche a Netanyahu almeno in un’occasione; e al tempo stesso, sempre come Netanyahu, Lapid è contro lo smantellamento delle colonie nei territori occupati e si oppone alla divisione di Gerusalemme. In sostanza non si pone troppo la questione palestinese. La schiva. Avrà invece un serio problema con il partito religioso Shas, indispensabile alla vagheggiata coalizione guidata da Netanyahu, che esige l’esenzione dal servizio militare obbligatorio degli studenti religiosi. E naturalmente anche le sovvenzioni alle scuole in cui si studia la Torah, condannate da Lapid, perché appesantiscono le tasse dei ceti medi. Questi sono i temi che hanno favorito il successo dell’ex giornalista televisivo.
Il diciannovesimo voto politico dalla nascita dello Stato ebraico non cambia la situazione mediorientale, ma ha fermato la svolta a destra della società israeliana. E quindi apre qualche spiraglio. Il successo dei partiti centristi, non solo di “C’è un futuro “ di Yair Lapid, ma anche del “Movimento” di Tzipi Livni, l’ex ministro degli esteri, che ha conquistato sette seggi, e l’affermazione di Meretz, la formazione di sinistra, che ne ha ottenuti sei, il doppio di quelli che aveva, sono piccoli squarci in un orizzonte politico fino a pochi giorni fa oscurato dall’annunciato successo dei partiti del rifiuto di ogni concessione ai palestinesi.
Lo smacco subito obbligherà Netanyahu a venire a patti con partiti meno intransigenti del suo, anche se non ben determinati sulle grandi questioni. Il primo ministro ha perduto un quarto dei suoi seggi in Parlamento (da quarantadue è sceso a trentuno) perché la formazione di estrema destra “Focolare ebraico”, fondata da Naftali Bennet, campione dell’hi-tech e patrono dei coloni, gli ha sottratto l’ala più intransigente del suo elettorato.
Ma la fragilità di Netanyahu risulta ancora più evidente se si pensa che il suo partito, il Likud, ha conquistato soltanto venti seggi se si sottraggono quelli dell’ultra nazionalista Liberman, suo alleato provvisorio. Egli si appresta a costruire una maggioranza da una posizione di debolezza e quindi si può dubitare che riesca. L’aiuta il fatto che, pur essendosi creato un equilibrio tra forze di destra e di sinistra alla Knesset, quest’ultima, la sinistra, non è in grado di offrire un’alternativa. Il partito laburista, grande protagonista della storia di Israele, ha ottenuto quindici seggi, meno del telegenico Lapid. La destra è stata fermata, ma una vera sinistra capace di offrire un cambiamento non c’è ancora.
Dieci volte peggio dei nazisti (18) *
di Piergiorgio Odifreddi
Uno dei crimini più efferati dell’occupazione nazista in Italia fu la strage delle Fosse Ardeatine. Il 24 maggio 1944 i tedeschi “giustiziarono”, secondo il loro rudimentale concetto di giustizia, 335 italiani in rappresaglia per l’attentato di via Rasella compiuto dalla resistenza partigiana il 23 maggio, nel quale avevano perso la vita 32 militari delle truppe di occupazione. A istituire la versione moderna della “legge del taglione”, che sostituiva la proporzione uno a uno del motto “occhio per occhio, dente per dente” con una proporzione di dieci a uno, fu Hitler in persona.
Il feldmaresciallo Albert Kesselring trasmise l’ordine a Herbert Kappler, l’ufficiale delle SS che si era già messo in luce l’anno prima, nell’ottobre del 1943, con il rastrellamento del ghetto di Roma. E quest’ultimo lo eseguì con un eccesso di zelo, aggiungendo di sua sponte 15 vittime al numero di 320 stabilito dal Fuehrer. Dopo la guerra Kesselring fu condannato a morte per l’eccidio, ma la pena fu commutata in ergastolo e scontata fino al 1952, quando il detenuto fu scarcerato per “motivi di salute” (tra virgolette, perché sopravvisse altri otto anni). Anche Kappler e il suo aiutante Erich Priebke furono condannati all’ergastolo. Il primo riuscì a evadere nel 1977, e morì pochi mesi dopo in Germania. Il secondo, catturato ed estradato solo nel 1995 in Argentina, è tuttora detenuto in semilibertà a Roma, nonostante sia ormai quasi centenario.
In questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine. Con la scusa di contrastare gli “atti terroristici” della resistenza palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di migliaia di truppe. Il che d’altronde aveva già minacciato e deciso di fare a freddo, per punire l’Autorità Nazionale Palestinese di un crimine terribile: aver chiesto alle Nazioni Unite di esservi ammessa come membro osservatore! Cosa succederà durante l’invasione, è facilmente prevedibile. Durante l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi.
Ma a far condannare all’ergastolo Kesserling, Kappler e Priebke ne è bastato uno solo, e molto meno efferato: a quando dunque un tribunale internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi generali?
Piergiorgio Odifreddi
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Repubblica cancella il post di Odifreddi su Israele. Lui lascia: “Meglio fermarsi”
Il matematico aveva scritto parole dure sul conflitto in Medio Oriente accusando lo Stato ebraico di "logica nazista", ma il suo intervento è scomparso dopo 24 ore. Oggi il saluto ai lettori: "Continuare sarebbe un problema. D’ora in poi dovrei ogni volta domandarmi se ciò che penso o scrivo può non essere gradito a coloro che lo leggono"
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A Robert Klopstock [Matliary, giugno 1921] *
Mio caro Klopstock, veranda, con l’antica insonnia, con l’antico calore degli occhi, la tensione nelle tempie: ... incredulo non sono stato mai in questo punto, ma stupito, angosciato, la testa piena di tanti interrogativi quanti sono i moscerini su questo prato. Nella situazione, diciamo, di questo fiore accanto a me che non è del tutto sano, solleva bensì la testa verso il sole, e chi non lo farebbe ma è pieno di segrete preoccupazioni a causa di dolorosi avvenimenti nelle sue radici e nei succhi, qualcosa vi è successo, e succede ancora, ma esso ne ha soltanto notizie molto vaghe, dolorosamente vaghe, eppure non può curvarsi, scalzare il terreno e controllare, ma deve fare come i suoi fratelli e tenersi ritto, lo fa anche ma con stanchezza.
Potrei anche immaginare un altro Abramo che (ma non arriverebbe a essere il patriarca, anzi nemmeno un mercante di abiti usati) fosse pronto a adempiere la richiesta della vittima, pronto come un cameriere, ma ciò nonostante non riuscisse a fare il sacrificio perché non può allontanarsi da casa, è indispensabile, l’andamento della casa ha bisogno di lui, c’è sempre ancora qualche cosa da mettere in ordine, la casa non è finita, ma senza che sia finita, senza questo appoggio egli non può allontanarsi, lo capisce anche la Bibbia poiché dice: “Egli sistemò la sua casa” e Abramo aveva realmente già prima ogni abbondanza; se non avesse avuto la casa, dove avrebbe allevato suo figlio, in quale trave avrebbe tenuto conficcato il .coltello del sacrificio.
Il giorno seguente: ho riflettuto ancora molto su questo Abramo, ma sono vecchie storie, non mette conto di parlarne, specialmente del vero Abramo; egli ha avuto tutto già prima, vi fu portato fin dall’infanzia, non riesco a vedere il salto. Se aveva già tutto e tuttavia doveva essere condotto piú in alto, ora bisognava togliergli qualcosa, almeno in apparenza, questo è logico e non è un salto. Non così gli Abrami superiori, questi stanno nel loro cantiere e a un tratto devono salire sul Monte Moria; può darsi che non abbiano ancora un figlio e già lo debbano sacrificare. Queste sono cose impossibili e Sarah ha ragione se ride. Rimane dunque soltanto il sospetto che costoro facciano apposta a non portare a termine la loro casa e - per citare un esempio grandissimo - nascondano la faccia in magiche trilogie per non doverla alzare e vedere il monte che sorge in lontananza.
Ma ecco un altro Abramo, uno che vuole assolutamente offrire un sacrificio giusto e, in genere, ha il giusto fiuto di tutta la questione, ma non può credere che tocchi a lui, l’antipatico vecchio, e a suo figlio, il sudicio giovane. Non che gli manchi la vera fede, questa fede ce l’ha, e sacrificherebbe nello stato d’animo giusto, purché potesse credere che si intenda lui. egli teme che uscirà a cavallo in qualità di Abramo con suo figlio, ma lungo il percorso teme di trasformarsi in Don Chisciotte. Il mondo di allora sarebbe rimasto atterrito se avesse guardato Abramo, questo invece teme che a quella vista il mondo muoia dal ridere. Non teme però il ridicolo in sé (certo teme anche questo, soprattutto la sua partecipazione alla risata), soprattutto però teme che questo ridicolo 1o renda ancore più vecchio e antipatico, e suo figlio ancora più sudicio, ancora più indegno di essere realmente chiamato. Un Abramo che arriva senza essere chiamato! È come se lo scolaro migliore dovesse ricevere solennemente il premio alla fine dell’anno e nel silenzio dell’attesa lo scolaro peggiore, in seguito a un malinteso, uscisse dal suo lurido ultimo banco e tutta la classe scoppiasse a ridere. E forse non è affatto m malinteso, egli è stato veramente chiamato per nome, la premiazione del migliore dev’essere, nelle intenzioni del maestro, ad un tempo la punizione del peggiore.
Cose orrende... basta.
Lei si lamenta della felicità solitaria, che dire della solitaria infelicità? Davvero, fanno quasi una coppia. [...]
* Franz Kafka, Tutte le opere, Epistolario, vol. IV, t. I, a c. di Ervino Pocar, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1964, pp. 393-395, senza le note.
Intervista a Shulamit Aloni
«Israele non è le sue armi. Chi lo dice ci porta al disastro»
Appello al mondo: «Sostenete la richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese»
La scrittrice fondatrice di «Peace Now» ha firmato un manifesto di intellettuali israeliani per chiedere il rispetto delle frontiere del ’67. «Sì a uno Stato palestinese, basta apartheid»
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 07.05.2011)
L’altro Israele alza la voce, scende in strada e si ribella: «Dovrebbe essere chiaro a tutti l’inconciliabilità tra democrazia e oppressione esercitata contro i palestinesi. I governanti d’Israele hanno solo un disegno in testa e lo perseguono con ogni loro atto: il disegno del Grande Israele. Ne faranno un ghetto atomico in guerra con il mondo». L’altro Israele, quello che l’altra sera ha dato vita a una manifestazione di massa conclusasi in piazza Yitzhak Rabin, nel cuore di Tel Aviv, si riconosce nelle affermazioni di Shulamit Aloni, fondatrice di «Gush Shalom» (Pace adesso). «Chi persegue la colonizzazione dei Territori palestinesi occupati, chi opprime un altro popolo afferma Aloni coltiva l’illusione che la sicurezza d’Israele possa reggersi sulla forza delle armi. Ma questa è una illusione che ha già prodotto disastri e altri ne provocherà ancora, se il mondo non farà sentire la sua voce di protesta. A cui deve unirsi l’Israele che non accetta di essere complice di questi crimini».
Shulamit Aloni è una delle venti personalità israeliane tra cui l’ex presidente della Knesset, Avraham Burg, il premio Nobel Daniel Kahneman, l’ex presidente dell’Accademia delle Scienze di Israele Menahem Yaari che hanno firmato un appello ai leader europei affinché appoggino la richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente sulla base del confini del 1967, quando verrà presentata a settembre alle Nazioni Unite. Il nostro colloquio parte da qui.
Qual è il senso di questo appello e delle mobilitazioni di piazza che ne sono seguite?
«È l’affermazione di un concetto fondamentale che rappresenta il vero discrimine oggi...».
Quale sarebbe questo concetto?
«La pace, una pace giusta, fondata sul principio di “due popoli, due Stati”, non è una concessione che Israele fa al “Nemico”, e neanche un atto di giustizia. È semmai un sano atto di “egoismo”...».
In che senso?
«Nel senso che solo riconoscendo ai palestinesi il loro diritto a vivere da donne e uomini liberi in uno Stato indipendente, integro territorialmente, solo così Israele potrà difendere il bene più prezioso: la sua democrazia. Perché dovrebbe essere chiaro a tutti l’inconciliabilità tra democrazia e oppressione esercitata contro i palestinesi. Non c’è democrazia in uno Stato che impone a un altro popolo un regime di apartheid. Da qui nasce l’appello e le mobilitazioni che l’hanno seguito. Il passaggio chiave è questo: come cittadini israeliani dichiariamo che se e quando la Nazione palestinese dichiarerà uno Stato sovrano e indipendente, che vivrà a fianco di Israele in pace e sicurezza, appoggeremo questa dichiarazione e riconosceremo uno Stato palestinese basato sui confini del 1967, e chiediamo alle Nazioni del mondo di dichiarare la loro volontà a riconoscere uno Stato palestinese indipendente basato su questi principi».
Il presidente Usa, Barack Obama, non sembra essere di questo avviso...
«Rispetto la sua posizione e ho anche apprezzato alcuni passaggi del suo recente discorso in cui ha fatto riferimento ai confini del ‘67. Ma il presidente Obama sa bene che gli appelli alla ragionevolezza rivolti a più riprese agli attuali governanti d’Israele sono puntualmente caduti nel vuoto. Per questo occorre cambiare registro, e dimostrare a questi oltranzisti che si è capaci di dire basta. Se non ora, quando?».
La destra israeliana non ha nascosto il suo scetticismo, se non la sua contrarietà, verso le rivolte che stanno scuotendo il mondo arabo...
«Il mio atteggiamento, e per fortuna non sono la sola a pensarlo, è diametralmente opposto: la “primavera araba” può avere ricadute importanti per l’intera regione e anche per Israele. In Piazza Tahrir, il cuore della rivoluzione egiziana, non ho visto bruciare una bandiera israeliana. E questo è un segnale di straordinaria importanza che noi israeliani non dovremmo sottovalutare. Io sono con loro, e non sento minimamente nostalgia per i raìs che hanno spazzato via dalla scena».
* Chi è
La leader storica dei pacifisti israeliani
Scrittrice, combattente nella guerra d’Indipendenza, fondatrice di «Gush Shalom» (Pace Adesso), parlamentare per diverse legislature, è stata più volte ministra nei governi laburisti guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres. Per le sue battaglie democratiche è stata minacciata di morte dall’ultradestra israeliana.
Netanyahu, un negoziatore con il mitra
Lo scrittore Yehoshua attacca la politica del premier israeliano
di Stefano Citati (il Fatto, 07.06.2011)
Benjamin Netanyahu non crede ai palestinesi, non crede alla riconciliazione. Partendo da questo punto la sua strategia è quella di tirare per le lunghe, di arrivare a settembre, alla risoluzione che porterà alla nascita dello Stato palestinese, per iniziare le vere trattative, per ridurre al minimo l’estensione della nuova nazione, che per lui non può essere uno Stato a tutti gli effetti, ma avere solo la consistenza di un’ampia autonomia. Vista sotto quest’ottica la resistenza all’America, alle proposte di Obama, si spiegano con la volontà di prendere tempo e far esaurire le possibilità di trattative, per arrivare a concedere ai palestinesi il 60-70% dei territori occupati della Cisgiordania”. Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua è più arrabbiato che stupito dopo l’ennesimo atto di violenza del suo governo che ha sparato addosso ai manifestanti nel Golan; una nuova strage che attira su Israele gli strali della comunità internazionale e la frustrazione rabbiosa dei palestinesi. Dal suo punto di osservazione di Haifa - che lascia piuttosto raramente per rispondere agli inviti internazionali: il prossimo, questo fine settimana, a Marina di Pietrasanta per parlare del progetto del suo prossimo libro - non risparmia critiche al suo premier in modo chiaro e netto, come è nel suo stile.
Visto dall’Italia e più in generale dall’estero, l’atteggiamento di Netanyahu appare spesso ottuso e catastrofico. È lo stesso in Israele?
L’opinione pubblica israeliana è tendenzialmente sbilanciata verso il centro-destra: la loro visione è però quella di non rompere la corda che lega all’America e all’Europa, e per questo la posizione migliore è quella di tenere spesso la testa sott’acqua, in modo da non doversi occupare troppo la situazione. Il timore di Netanyahu, di dover rimpatriare di fatto i coloni è condiviso, ed è questo ostacolo interno che condiziona il modo di fare del premier ben oltre le pressioni internazionali, partendo dalla sfiducia nei confronti della controparte.
Netanyahu non rischia di trovarsi a settembre con uno stato di fatto contro il quale non sarà più possibile trattare? Tantissimi Stati riconosceranno il nuovo Paese, ma Netanyahu potrà ancora contare sulla debolezza europea: l’incapacità dimostrata finora di sostituirsi agli Stati Uniti, che non possono essere i guardiani del mondo, e di essere un interlocutore credibile e solido, che controbilanci il potere e l’influenza statunitense. Al premier interessa tenere in piedi la facciata del processo di pace senza agire, spostando il pendolo della pace da una parte all’altra senza arrivare a un movimento completo e decisivo, prendendosi tutto il tempo possibile e annacquando le possibilità di uno Stato palestinese forte e completo. Cosa può rompere questo meccanismo?
Dimostrazioni ripetute e davvero pacifiche dei palestinesi nei territori occupati. Se sapranno scendere in strada con le mani disarmate disinnescheranno la reazione delle forze di sicurezza israeliane e non daranno motivo di essere attaccate e dell’uso della forza. Toglieranno l’alibi a Netanyahu e spezzeranno il meccanismo della risposta violenta . Per cambiare questa atmosfera e questo futuro prossimo questo Israele dovrebbe da subito compiere un gesto unilaterale: fermare e riportare indietro tutti i coloni, anche senza accordi con i palestinesi; sarebbe un segno di volontà seria e responsabile. Come si vede da Israele il sommovimento del mondo arabo; dà più timori o più speranze. È ancora in una fase interlocutoria, ma la chiave resta l’Egitto, se non diventerà un regime ancor più militare, o fondamentalista, un cambio generale sarà possibile.
Il rabbino razzista
di Moni Ovadia (l’Unità, 11.12.2010)
Il razzismo è una patologia e una peste sociale da cui nessuno è immune. Lo testimonia una recente insorgenza del morbo che ha scosso la società israeliana e ha fatto grande scandalo. La vicenda è questa: alcuni rabbini che ricoprono cariche ufficiali in municipalità dello Stato d’Israele, di concerto, hanno emesso una raccomandazione a tutti i cittadini israeliani ebrei sollecitandoli a non affittare o vendere case a non ebrei, e nella fattispecie il non ebreo è quasi sempre il palestinese.
Questi rabbini si sono espressi dall’alto della loro autorità religiosa e “morale” e con il conforto dello stipendio pagato loro, in quanto funzionari pubblici, dal contribuente israeliano. Questa specie di fathwa rabbinica ha provocato reazioni molto dure di condanna anche in esponenti del governo e del mondo religioso.
Persino il premier Nethanyau ha condannato il pronunciamento delirante dei rabbini razzisti chiedendo loro di immaginare cosa accadrebbe se qualche antisemita, in un qualsiasi luogo del mondo, avesse raccomandato ai cittadini di quel luogo di non affittare case agli ebrei. La pronta indignazione del sensibile Bibi è commovente a me però fa venire il voltastomaco, il suo tasso di ipocrisia supera la soglia di guardia della decenza.
Chi ha contribuito a creare, fomentare e nutrire la deriva razzista e xenofoba di cui il pronunciamento dei rabbini fanatici è solo il volto sincero. Di quale governo è ministro degli Esteri l’ultranazionalista reazionario e fascistoide Liebermann? Chi ha condannato i palestinesi a diventare cittadini di seconda classe espropriandoli giorno dopo giorno delle loro terre e della loro vita con la violenza dell’occupazione e del colonialismo? Bibi ci risparmi almeno la pagliacciata della sua indignazione.
Amo Israele ma combatto l’illusione delle colonie
di David Grossman (la Repubblica, 13 novembre 2010)
La parola "boicottaggio" non compare nella petizione firmata finora da 51 attori, registi di teatro e altri artisti contro il centro culturale di Ariel. Quella del boicottaggio è un’arma grave ed estrema che evoca echi amari nella memoria collettiva ebraica. Considero questa petizione una richiesta di astensione: astensione da qualsiasi iniziativa che oscuri il fatto che Ariel sorge in una zona occupata e la sua esistenza crea una realtà che rischia di portare lo Stato di Israele alla catastrofe.
Anche se i coloni proclameranno giorno e notte con squilli di tromba che Ariel esisterà in eterno non saranno in grado di nascondere la loro situazione problematica, sia sul piano morale che pratico, e nemmeno il pericolo - nato dall’enorme e avventata scommessa politica alla base dell’ideologia degli insediamenti - che corre Israele.
Da quando ho scritto Il vento giallo rimango sbalordito dalla capacità di negazione dei coloni che consente loro di convivere con le profonde contraddizioni della situazione in cui si trovano. I più sono indubbiamente lucidi e realistici e le ragioni della loro presenza nei territori occupati non sono sempre ideologiche.
Quindi, il meccanismo psicologico che gli consente di mantenere una vita all’apparenza normale, civile e anche del tutto "borghese" nel cuore di territori occupati, ostili e pieni di violenza, in mezzo a circa due milioni di persone che vivono in condizioni di oppressione e di umiliazione (in larga misura a causa della presenza degli insediamenti) mentre gran parte del mondo si oppone alla loro scelta e alle loro azioni, è estremamente affascinante.
In generale, sembra che quanto più l’ideologia degli insediamenti diventa infondata e pericolosa tanto più i suoi sostenitori sono quasi condannati a esaltarla, a investirla di un sacro senso di missione. A volte mi chiedo se questo sforzo nasca anche dalla paura che filtra in loro, a dispetto di tutto, proprio a causa del loro essere persone lucide, realistiche e corrette in qualunque altro ambito della vita. Una paura causata dalla realtà insostenibile e suicida che il loro modo di agire sta imponendo al paese e a loro stessi. Se infatti i coloni negano completamente questa realtà insostenibile, nonché le conseguenze dello stato di apartheid che hanno creato, ciò significa che hanno semplicemente e letteralmente perso il contatto con essa. È quasi divertente vedere come, prigionieri del proprio sogno, definiscano "deliranti" o "pazzoidi" i loro oppositori; e la loro paura del risveglio è comprensibile. Quando gli si pone davanti uno specchio che riflette in modo semplice e chiaro l’assurdità e l’avventatezza del processo storico da loro avviato e condotto, non sono in grado di sopportarlo e si fanno prendere da una rabbia parossistica. La petizione è un simile specchio.
Personalmente non "boicotto" i residenti di Ariel, o nessuno dei coloni. Sono interessato a dialogare con loro e nel corso degli anni ho partecipato a numerosi incontri a tale scopo. In gran parte incontri avvincenti e preziosi ma, purtroppo, inutili. Riuscivano a dissipare la diffidenza e l’ostilità, a risvegliare un senso di affetto e di stima, ad abbattere i reciproci stereotipi, ma nessuno dei partecipanti si discostava dalle proprie posizioni. In fin dei conti, anche dopo quattro decenni di dialogo, l’occupazione continua a essere sempre più profonda e ramificata e molti israeliani, tra cui due generazioni già nate in questa realtà, considerano Ariel e tutti i Territori occupati parte legittima e naturale dello Stato di Israele senza capire il motivo di tanto baccano.
La nostra petizione intende minare e scuotere questa illusione, questa menzogna, che è stata ripetuta talmente tante volte da cominciare ad apparire verità. C’è un gruppo di persone qui in Israele, me incluso, per il quale lo Stato ebraico è prezioso quanto la propria anima. Non siamo disposti a rimanere in silenzio quando vediamo il nostro paese dirottato verso il delirio e il fascismo e siamo pronti a pagare un prezzo per la nostra presa di posizione, che sapevamo fin dal principio quanto fosse impopolare. Non demonizziamo i coloni né idealizziamo i palestinesi e conosciamo bene i pericoli e le minacce che Israele deve affrontare. E proprio per questo ci è difficile comprendere come l’ideologia degli insediamenti possa far progredire Israele verso il futuro che merita. Proprio per questo ci mobilitiamo e alziamo un grido.
Sarò felice di condurre un dialogo con i coloni di Ariel qui, in Israele, a casa. Il pensiero di organizzare una "serata letteraria" nel cuore dei Territori occupati, quando a così poca distanza vive gente perennemente umiliata, privata della libertà e dei fondamentali diritti umani, mi appare infatti scandaloso e ripugnante. So bene che ci sono argomenti e ragioni, alcuni molto pesanti, a sfavore della pubblicazione di tale petizione, ma a volte ho il sospetto che alcuni di questi argomenti non siano altro che pretesti per astenersi da un’azione che comporta un caro prezzo a livello personale. E forse, proprio a causa di questa indecisione infinita ed estremamente cauta nell’operare una scelta dolorosa tra i pro e i contro, la maggioranza moderata in Israele ha permesso a una situazione tanto estrema di mettere radici.
Più volte, questa settimana, ho sentito gente che, pur identificandosi con il contenuto della petizione, ritiene che pubblicarla sia stato un "errore tattico". Anche questo è un problema: i sostenitori della pace che temono di essere sospettati di "slealtà" sono sempre più impegnati con la tattica, mentre la destra e i coloni portano avanti una strategia. Sono pochissimi coloro che sono entrati nel merito delle semplici e risolute affermazioni apparse nella petizione. La maggior parte degli israeliani ha reagito con grande sconcerto non alla petizione stessa bensì - così pare - all’ansia che questa ha suscitato e alla sua pretesa nei loro confronti. Per confrontarsi veramente con il suo contenuto occorre spazzare via l’ondata di kitsch nazionalista che sommerge il paese e lo spinge verso angoli malati e pericolosi. In fin dei conti, se si esamina lucidamente l’incredibile ginepraio entro il quale gli insediamenti hanno spinto Israele e i disastri che possono ancora causare, forse sempre più israeliani avranno il coraggio di reclamare il diritto, un tempo dato per scontato, di vivere in un paese concepibile e realistico. Ma perché questo avvenga, come i firmatari della petizione hanno cercato di sottolineare, occorre agire, tracciare una linea e colorarla di verde.
(Traduzione di Alessandra Shomroni)
“Gerusalemme, un laboratorio della biodiversità umana”
colloquio di Jean-Yves Leloup e Elias Sanbar,
a cura di Josyane Savigneau
in “Le Monde” del 3 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Un prete ortodosso, Jean-Yves Leloup, e un saggista palestinese, Elias Sanbar, sono gli autori di due dictionnaires amoureux. Uno su Gerusalemme, l’altro sulla Palestina. Hanno accettato di dialogare.
Jean-Yves Leloup, lei ha scritto un “Dictionnaire amoureux de Jérusalem” (Plon, p. 960, € 27) e lei, Elias Sanbar, un “Dictionnaire amoureux de la Palestine” (Plon, p. 496, € 24,50). Avrebbe accettato questo dialogo se l’autore del “Dictionnaire amoureux de Jérusalem” fosse stato un ebreo israeliano?
Sanbar: Se si trattasse di attaccamento personale, non di un qualsiasi diritto esclusivo sulla città basato sulla religione, sì, sinceramente.
Simbolicamente, l’editore ha pubblicato questi due libri contemporaneamente, ma uno è fatto da un palestinese, quindi dall’interno, l’altro da un cristiano francese.
Leloup: Un cristiano aperto ai palestinesi, agli ebrei e a tutte le tradizioni che sono vive a Gerusalemme.
Jean-Yves Leloup, che cosa pensa dell’affermazione di Elias Sanbar su Gerusalemme, una città che deve essere concepita in funzione della condivisione, “una capitale per due Stati”?
Leloup: È forse una cosa possibile, conoscendo l’attaccamento degli uni e degli altri a questa terra e a questa città, e la confusione che vi regna tra il politico e il religioso?
Sanbar: Io ci credo. Bisognerà arrivare a questo, perché non c’è altra soluzione. La grande difficoltà, ancor prima che inizino i negoziati, è la confusione permanente tra lo strato spirituale, simbolico della città, ciò che costituisce la sua universalità, e il problema della sovranità. Per il momento, i negoziati e i discorsi trattano la città come un luogo di disputa tra due sovranità divine: vale a dire, quale dio sarebbe più sovrano? E la cosa è tanto più complicata per il fatto che è lo stesso dio per i tre monoteismi! Bisogna riconoscere alla città la sua importanza spirituale e, su questo piano, essa appartiene all’umanità. Ma bisogna anche trattarla come una città, semplicemente, non diversa da altre città del paese, senza tuttavia rinnegare la sua dimensione di futura capitale della Palestina. Come avrete capito, parlo di Gerusalemme est. Solo a quel punto, si potrà negoziare.
Leloup: Ogni realtà è una realtà “costruita” o immaginaria. Particolarmente a Gerusalemme dove ciascuno investe talmente tanti sentimenti e così tante memorie sulle sue pietre... Come ritrovare la terra che vi è sotto?
Sanbar: I palestinesi hanno il vantaggio di non dover fare nulla per considerarla anche come una città reale. Noi ci stiamo. Sentiamo così tanti discorsi deliranti, sulla Terra santa, i Luoghi santi, ma per noi è anche la nostra terra, banalmente. Abbiamo pagato caro il prezzo di questi immaginari. L’imposizione dell’aspetto mitico sui luoghi è stata origine di morte e non di vita. Senza rinnegare la sua dimensione universale, se non ci si rende conto anche che questo paese esiste, non si troverà la soluzione.
Che cosa significa per voi due l’idea di “città santa”?
Leloup: La santità è l’alterità. Una città santa è il luogo di incontro delle alterità. Gerusalemme è una sorta di laboratorio della biodiversità umana. Non far entrare in relazione queste alterità rende la vita impossibile all’umanità.
Elias Sanbar, nel suo dizionario, alla voce “Fondamentalismo” lei scrive: “È una malattia che colpisce i tre monoteismi.”
Leloup: Lo penso anch’io, è una patologia che vuol ridurre l’altro a sé: fare di Gerusalemme una città ebraica, una città musulmana o una città cristiana. Gerusalemme all’origine è una sorgente in un deserto, un pozzo; bisogna avere cura del pozzo, non solo per sé, ma anche per i cammelli dell’altro.
Elias Sanbar, che cosa ha pensato della voce “Palestina” del “Dictionnaire amoureux de Jérusalem”?
Sanbar: È una breve voce storica. Io torno allo spazio reale e alla terra familiare, cosa complicata per i nativi di questa terra, perché alla loro familiarità dei luoghi viene sempre opposta l’immensità del sacro. Ma essa è anche terra familiare. L’identità della Palestina è spesso a torto analizzata col metro della vicinanza di comunità del vicino Libano. In Palestina, non si è nelle terre vicine. Ma in una realtà forgiata nella durata, che fa sì che le persone del luogo, pur appartenendo ciascuna ad una religione, si ritengono depositari, attraverso il luogo, di tutto ciò che vi è accaduto. Si parla molto di questa pluralità della Palestina, oggi minacciata, poiché sia il sionismo che il fondamentalismo musulmano cercano di darle un solo colore. Anche le crociate, un tempo, hanno cercato di darle un colore, allora esclusivamente cristiano. Nella seconda metà del XIX secolo, ci sono stati degli scontri “comunitari” sanguinosi nei paesi vicini, Libano e Siria, dovuti fondamentalmente all’arrivo della modernità industriale, che sconvolgeva le strutture tradizionali. In Siria, ad esempio, abbiamo assistito ad un’alleanza della comunità ebraica e di quella musulmana contro la comunità cristiana. In Libano, ci sono stati degli scontri tra drusi e maroniti. Da noi, questo non è avvenuto. Certi parlano di una sorta di “attitudine democratica” precoce nei palestinesi: è ridicolo. Semplicemente si tratta del sentimento dei palestinesi di essere i depositari di tutto ciò che era accaduto nella loro terra. È ciò che chiamerei la loro pluralità. Del resto oggi minacciata, e questo per la prima volta nella loro storia.
Jean-Yves Leloup, la sua voce “Terrorismo” è molto breve. Perché ha affrontato il tema? In un “Dictionnaire amoureux”, si è totalmente liberi di scegliere le voci.
Leloup: I terroristi si presentano purtroppo anche come innamorati della legge, della religione, della terra. Uccidono in nome del loro amore. Di quale amore parlano, di quale dio parlano? Per quanto mi riguarda, dico con Albert Camus: “Quale che sia la causa che si difende, essa resterà sempre disonorata dal cieco massacro della folla innocente.”
Jean-Yves Leloup, lei ha sviluppato molto le voci “Resistenti”, “Commando-suicidi”...
Sanbar: Ho affrontato non il terrorismo, ma il problema che mi sembra inglobare tutto ciò, nella voce “Vivere e morire”. Ciò che è molto preoccupante oggi, è che sia la morte e non la libertà a diventare la finalità della lotta. Capisco la metafora usata da Jean-Yves Leloup su terrorismo e amore. Ma essa non esprime la terribile realtà, quella realtà nuova che fa dire a dei giovani: “Io mi batto per morire.” Le generazioni precedenti hanno certo rischiato e spesso perso la vita, ma si battevano per vivere, la finalità della loro lotta era la libertà: vivere liberi, a rischio, e non con lo scopo, di morire per questo.
Il suo “Dictionnaire amoureux”, Elias Sanbar, è quello di un esiliato.
Sanbar: Sì, ma ho anche voluto presentare la Palestina reale. Noi siamo vivi e c’è un modo di ridere palestinese, di autoderisione, che si esprime bene nei nostri film e nella nostra letteratura. È una forma superiore di resistenza, perché esprime la fede nella vita che abita, malgrado tutto, questa terra semplice, schiacciata in un conflitto interminabile.
A Gerusalemme più che altrove, secondo lei, Jean-Yves Leloup, ci si può interrogare sull’idea di un’etica universale.
Leloup: Ritrovare la realtà di Gerusalemme significa ritrovare il senso dell’altro, del volto unico di ciascuno. Non è forse lì l’inizio dell’etica che può liberarti da ogni idolatria, cioè da ogni forma di appropriazione esclusiva?
Lei dice anche di essere partito dall’idea di un dizionario di una certa leggerezza amorosa e di essere sfociato ad una certa gravità.
Leloup: Non si può essere leggeri né con la Shoah, né con l’esilio dei palestinesi, né con l’emigrazione dei cristiani. Ma, malgrado tutto, tante volte distrutta e tante volte ricostruita, Gerusalemme testimonia una vita più forte della morte.
GAZA
L’ossessione di un Paese
Il dramma al largo di Gaza è devastante per Israele e favorisce i suoi avversari. Tra chi ha segnato punti a proprio vantaggio, in queste ore, c’è anche l’Iran di Ahmadinejad
di BERNARDO VALLI *
IL SANGUINOSO arrembaggio alle navi dei pacifisti dirette a Gaza non può che avere conseguenze politiche devastanti per chi l’ha promosso, quindi per Israele. Commentatori israeliani avveduti avevano già definito "stupido", alla vigilia del dramma, l’atteggiamento intransigente, minaccioso, insomma eccessivo, delle autorità politiche e militari di Gerusalemme nei confronti della "Flotta della pace". Quasi fosse un’armada nelle acque del Mediterraneo pronta a sfidare lo Stato ebraico. E quasi fosse capace di comprometterne sia la sicurezza sia l’onore. Insomma come se fosse un convoglio di terroristi. Certo, la spedizione pacifista sfidava l’embargo imposto a Gaza e quindi si proponeva di infrangere i divieti israeliani. Ma non si affronta una manifestazione pacifista con un arrembaggio, armi alla mano, come se si trattasse appunto di sventare, prevenire un attacco di terroristi corsari. Terroristi corsari che, stando alle denunce di Gerusalemme, possedevano in tutto due rivoltelle (non mostrate), coltelli e sbarre di ferro, usate dai passeggeri quando sono stati sorpresi dal commando israeliano. Il convoglio della "Flotta della Pace" poteva essere bloccato in modo meno rischioso. Meno sanguinoso.
La società israeliana rispetta al suo interno le regole democratiche, applica di solito, sempre entro i suoi confini, metodi civili per affrontare le proteste disarmate, ma quando agisce fuori dalle sue legittime frontiere il governo israeliano e le sue forze armate non ne tengono sempre conto. L’ossessione della sicurezza, in parte giustificata dalla storia dello Stato ebraico e dalla situazione in cui si trova, conduce a eccessi e abusi che l’opinione internazionale, compresa quella favorevole, rifiuta o stenta ad accettare. L’arrembaggio a navi disarmate nelle acque internazionali, che si è concluso con morti e feriti, è uno di questi eccessi. Lo è al di là dei dettagli che le invocate e più o meno attendibili inchieste accerteranno.
Il dramma al largo di Gaza è devastante per Israele e favorisce i suoi avversari. Né il ministro della difesa Ehud Barak, un laburista, che ha certamente studiato e approvato l’operazione, né il primo ministro Benjamin Netanyahu, un falco che quando vuole sa essere pragmatico, avevano previsto le conseguenze di un’azione tanto carica di rischi. Entrambi hanno offerto un’occasione insperata al principale nemico di Israele, in campo palestinese. Hamas in queste ore trionfa. Le piazze arabe si riempiono per manifestare in suo favore e contro Israele. Non solo. Nella Cisgiordania occupata, dove da tempo l’Olp collabora con gli israeliani nel dare la caccia alla gente di Hamas, sono stati decretati tre giorni di lutto e si manifesta in favore di Gaza. Gli integralisti esultano. In quanto ai negoziati indiretti tra l’Olp e Israele ci vorrà del tempo prima di riparlarne. Dopo il dramma al largo di Gaza, Mahmud Abbas, presidente dell’Autorità palestinese, e il suo primo ministro, Salam Fayed, non sono certo disponibili per un dialogo. In queste ore è come se il loro avversario, Ismail Haniyeh, leader di Hamas a Gaza, avesse vinto una battaglia.
La prima nave ad essere attaccata dai commandos israeliani esponeva sulle fiancate un’enorme bandiera turca accanto a quella palestinese. E gli uccisi durante l’arrembaggio erano quasi tutti turchi. Questo non fa che peggiorare i già cattivi rapporti tra Istanbul e Gerusalemme. Da due anni ormai l’alleanza strategica, politica e militare, tra i due Paesi è entrata in crisi. Israele e Turchia sono le due potenze mediorientali più legate agli Stati Uniti. Nel ’96 hanno firmato un accordo di cooperazione militare con grande soddisfazione degli americani. Il vincolo tra la Turchia, vecchio pilastro della Nato, e Israele, alleato irrinunciabile, appariva ai loro occhi prezioso. E lo era. Ma dopo l’operazione israeliana a Gaza, alla fine del 2008, l’amicizia israelo - turca si è trasformata in un’ostilità (finora verbale) sempre più aspra. Istanbul ha condannato l’intervento israeliano e le dichiarazioni critiche di Recep Tayyip Erdogan, alla testa di un governo islamo - conservatore, si sono moltiplicate, fino ad affermare che lo Stato ebraico è "la principale minaccia per la pace" in Medio Oriente. La tensione si è poi accentuata, quando la Turchia (insieme al Brasile) ha concluso con l’Iran un accordo sul problema nucleare. Erdogan è cosi diventato il paladino dei palestinesi e un interlocutore privilegiato dell’Iran. Insomma, un amico degli avversari di Israele. I turchi uccisi dagli israeliani al largo di Gaza potrebbero condurre, col tempo, anche a un rottura dei rapporti diplomatici.
Per Barak Obama è un disastro assistere al divorzio politico e militare dei suoi due (sia pur difficili) alleati in Medio Oriente. Come è un disastro in queste ore assistere alla vampata anti-israeliana nelle capitali arabe. Si era quasi creata obiettivamente un’intesa tra i Paesi sunniti (in particolare l’Arabia Saudita e l’Egitto) e Israele in funzione anti iraniana. Un’intesa tacita, non confessabile, ma implicita, perché basata su un comun denominatore: l’ostilità nei confronti di Teheran. Gli arabi sunniti sono ossessionati dall’influenza dell’Iran sciita; gli israeliani dalla minaccia nucleare iraniana. Nel tentativo di disinnescare quest’ultima, vale a dire la minaccia nucleare iraniana, la diplomazia americana si aggirava nel labirinto mediorientale con fatica. Un accordo israelo - palestinese, o perlomeno la ripresa di un vero dialogo, poteva rappresentare un avvenimento propiziatorio. La ventata anti-israeliana, provocata nella regione dal sanguinoso arrembaggio al largo di Gaza, rende le cose più difficili. Quel che è anti-israeliano in Medio Oriente assume spesso, per riflesso condizionato, accenti anti-americani. Tra chi ha segnato punti a proprio vantaggio in queste ore, c’è anche l’Iran di Ahmadinejad, protettore di Gaza e nemico di Israele.
* la Repubblica, 01 giugno 2010
Equilibri stravolti
di LUCIA ANNUNZIATA (La Stampa, 1/6/2010)
C’era una volta la capacità di Israele di eseguire operazioni militari con il minimo di spargimento di sangue e il massimo di successo. Un esempio, l’«operazione Entebbe» del 4 luglio del 1976, in cui 100 uomini delle forze speciali di Israele sottrassero ai palestinesi 103 su 105 ostaggi ebrei, dopo aver percorso 4000 km in volo senza farsi intercettare dai radar di mezza Africa, e dopo solo 90 minuti di azione di terra. Oggi quello stesso esercito non riesce più nemmeno a fermare una piccola flotta di pacifisti senza fare una strage.
Fra i due episodi un legame evocativo: a Entebbe l’unico morto ebreo fu il comandante del commando, il leggendario Jonathan Netanyahu; l’operazione sanguinosa di Gaza oggi è invece il suicidio politico del fratello minore di Jonathan, il premier Benjamin (Bibi) Netanyahu. Israele è terra di famiglie, terra di storia accelerata e drammatica. Il nesso fra i due Netanyahu, i loro ruoli e il loro successo o no, è una vicenda che misura nello spazio di una generazione familiare le evoluzioni del Paese. Le più rilevanti delle quali riguardano proprio, in maniera intrecciata, l’esercito e la leadership di Israele.
L’operazione Gaza nasce infatti nel segno dell’indebolimento delle forze armate israeliane. Operazione non pensata, non preparata, eseguita con il personale sbagliato - militari invece che poliziotti, tecnica di assalto invece che semplice blocco navale - e, soprattutto, con uomini privi di senso della realtà: soldati che rispondono con il fuoco alla resistenza con sbarre di ferro sono uomini impauriti, confusi sulla propria missione. Cioè l’esatto contrario di un addestrato corpo scelto.
L’indebolimento della forza militare di Israele si è del resto fatto progressivamente sempre più visibile nelle ultime guerre. L’invasione del Libano fu mal calcolata, sanguinosa anche per l’esercito ebraico e, alla fine, non vittoriosa - solo la mediazione internazionale rimise insieme i cocci e la reputazione del governo di Gerusalemme. La successiva invasione di Gaza è stata sproporzionata, inutile e, anche questa, priva di sostanziali risultati. L’indebolimento della supremazia militare israeliana è una delle maggiori evoluzioni strategiche del Medio Oriente e, come si è visto ieri, si rivela un fattore di pericolo per tutta l’area, ma anche per la stessa Israele.
Che ci sia un profondo intreccio fra debolezza militare e indebolimento della leadership è fatto innegabile. Dopo l’ultimo vero leader militare e politico, quel Rabin che piegò la prima Intifada, ma si piegò lui stesso agli accordi di pace, la guida di Israele oscilla fra pragmatici, un po’ corrotti, e superideologizzati, come Netanyahu. La mancanza di un chiaro sbocco per il futuro provoca l’ansia, la confusione, e l’autoritarismo da cui nascono tutte queste guerre sbagliate.
In questo senso il Primo Ministro di Israele è profondamente responsabile di quel che è successo nel mare davanti a Gaza, anche se era in Canada. Sua è la responsabilità di un leader che naviga a vista, e che non sembra capire la possibilità degli eventi di precipitare. Le uccisioni di Gaza sono figlie della paranoia politica che, tra le altre cose, è stata rinforzata nell’ultimo anno dalla convinzione da parte di Israele di non avere più in Obama l’alleato che ha sempre avuto nei precedenti presidenti Usa. E proprio nel nuovo strappo che la strage ha causato nel rapporto con Washington c’è la migliore prova del boomerang che la strage sulla nave costituisce per il governo di Gerusalemme. Saltato è infatti l’incontro che proprio oggi doveva avvenire a Washington fra i due capi di Stato. Questo ultimo, il quarto in pochi mesi, era stato organizzato da Rahm Emanuel, capo dello staff della Casa Bianca, a riprova dei tanti fili ancora da riparare fra Washington e Gerusalemme. Netanyahu e Obama sono oggi invece ognuno a casa propria, e la crisi assume a questo punto una valenza regionale.
Il presidente americano, impegnato con la difficile situazione in Afghanistan, con le tensioni con l’Iran e quelle fra le due Coree e, in patria, con il disastro petrolifero e le elezioni a novembre, non ha né agio né tempo per aprire nuovi fronti. Per l’amministrazione affrontare (sia pur non risolvere) la questione palestinese è snodo cruciale per poter mettere sul tavolo della sua politica in Medio Oriente la prova di qualche progresso nel conflitto più storico. Per questa ragione Washington era riuscita il mese scorso a far digerire a Israele l’idea di una ripresa di colloqui di pace - in verità così sciolti da essere chiamati «proximity talks», fatti cioè attraverso l’inviato Usa George Mitchell. Questi colloqui, appena iniziati, dopo la strage, possono considerarsi chiusi.
Così come interrotti sono ora i rapporti fra Israele e Turchia, che è stato uno dei pochi interlocutori fra i Paesi musulmani di Gerusalemme. Con la conseguenza di spingere ulteriormente in direzione radicale l’orientamento della pubblica opinione di Istanbul. Non meglio esce il rapporto costruito fra Il Cairo e Israele. Finora infatti l’Egitto ha tenuto chiusa la sua frontiera di Rafah con Gaza, in silenzio/assenso alla politica israeliana di isolamento di Hamas. La pressione sull’Egitto a rompere questa politica è ora inevitabile. La strage di Gaza consegna, infine, ad Hamas la più seria vittoria di immagine finora conseguita dall’organizzazione.
La politica palestinese in Cisgiordania e Gaza è profondamente diversa, dopo la rottura che ha opposto Hamas a Fatah. Negli ex Territori Occupati, il Presidente e il primo ministro Fayyad, riconoscono Israele, hanno mantenuto aperti i canali di negoziazione, hanno acquisito una parte di diritto di governo indipendente, in un’alleanza con i governi occidentali. A Gaza invece Hamas è fisicamente accerchiata, è disconnessa per scelta da ogni contatto con Israele, la cui esistenza non è stata mai legalmente riconosciuta, e guarda come alleato principale all’Iran. Da queste differenze sono nate guerre intestine pesanti: Fatah ha fatto prigionieri, torturato e ucciso gli uomini di Hamas - e viceversa, a Gaza. Secondo informazioni recenti, è in corso fra le due fazioni anche un’intensa guerra di spie per boicottare l’uno l’altro. In questa guerra semisegreta Egitto e Usa sono stati finora al fianco dei Palestinesi in Cisgiordania, nella speranza che la conquista di egemonia di Fatah su Hamas fosse l’unica soluzione per riprendere in mano la esplosiva Gaza.
La divisione fra Palestinesi in questi ultimi anni è stata insomma un bonus per il governo di Gerusalemme. La strage di Gaza cambia gli equilibri di nuovo, e consegna la bandiera morale al radicalismo di Hamas e, dunque, dell’Iran.
Se non fosse che Bibi è in queste ore già un politico mezzo morto, varrebbe la pena di dirgli: congratulazioni. Dopotutto ci vuole una grandiosa incapacità per rompere un intero equilibrio regionale, tutto, e tutto insieme.
Il faccia a faccia si è svolto a porte chiuse.
Nessuna conferenza stampa né comunicato finale
Gli Usa chiedono spiegazioni sulle case a
Gerusalemme Est. Il premier israeliano tira dritto
Niente conferenza stampa congiunta. Nessun comunicato ufficiale.
Neanche uno straccio di foto con la classica stretta di mano tra i due protagonisti. Una scenografia della visita decisamente sotto tono.
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 25.O3.2010)
Tra Barack Obama e Benjamin Netanyahu è crisi vera. Politica. E personale. Secondo il giornale The Politico, la Casa Bianca è passata «dalla rabbia al gelido sospetto nei confronti del primo ministro israeliano, che, durante la maratona di incontri con funzionari Usa, ha messo in chiaro che non darà spazio, se non riluttanza, al loro obiettivo di bloccare la costruzione di nuove abitazioni israeliani nel territorio conteso».
L’incontro fra Obama e Netanyahu si è svolto a due riprese, entrambe a porte chiuse: non c’erano fotografi e alla fine dell’incontro non è stato emesso nessun comunicato stampa o organizzato un briefing per i giornalisti. Un fatto inusuale secondo quanto scrive anche il Washington Post: «Generalmente da un leader di un qualsiasi Paese alleato ci si aspetta una conferenza congiunta con il presidente al termine dell’incontro o quantomeno una breve seduta per i fotografi. Ma la Casa Bianca non ha nemmeno reso noto un comunicato per riassumere i temi dell’incontro».
L’incontro fra Obama e Netanyahu non è partito nella situazione migliore, dopo che «Bibi» aveva ribadito al suo arrivo a Washington l’intenzione di continuare a costruire a Gerusalemme, «che non è un insediamento, è la nostra capitale». Proprio mentre iniziava l’incontro alla Casa Bianca, la municipalità di Gerusalemme ha approvato l’altro ieri sera un altro progetto per la costruzione di nuovi 20 appartamenti. L’operazione è finanziata dal miliardario ebreo-americano Irving Moskowitz e prevede la costruzione di nuove case al posto dell’hotel Shepherd, che verrà abbattuto.
L’estate scorsa gli Stati Uniti avevano chiesto a Israele di rinunciare al progetto e avevano anche convocato l’ambasciatore israeliano in merito a questa questione. L’annuncio dei venti nuovi alloggi non ha fatto altro che rafforzare la linea dura scelta da Netanyahu per questa sua visita a Washington. Una pozione, quella del premier israeliano, che era già stata anticipata in un intervento all’Aipac (la più importante lobby ebraica d’America). «Gerusalemme non è una colonia, ma la capitale» d’Israele aveva detto -. È dunque del tutto legittimo che vi possano essere insediamenti israeliani a Gerusalemme Est».
Poche ore dopo Netanyahu ha rilanciato: «Non dobbiamo rimanere intrappolati in richieste illogiche e irragionevoli». Se la richiesta di congelare totalmente gli insediamenti dovesse persistere, «i colloqui di pace potranno essere ritardati di un altro anno». E che il clima non sia tra i più sereni lo conferma il gelido, formalissimo, commento del portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs: quello avuto l’altro ieri da Obama con Netanyahu è stato un confronto «onesto» e «diretto», dice Gibbs. Onesto e diretto, tradotto dal diplomatichese, un confronto tra visioni diverse, per molti aspetti, opposte.
LE RICHIESTE USA
Al premier israeliano, il presidente Usa ha chiesto «gesti» nei confronti dei palestinesi e di adoperarsi affinché possa essere ristabilita la «fiducia» nel processo di pace in Medio Oriente. A riferirlo è lo stesso Gibbs: il portavoce della Casa Bianca ha aggiunto anche che gli Stati Uniti intendono chiedere «chiarimenti» sui progetti di Israele riguardanti nuovi insediamenti a Gerusalemme Est.
Una fonte israeliana citata dal sito di Haaretz, riferisce che Obama e la segretaria di Stato Hillary Clinton sono insoddisfatti di una lettera inviata loro da Netanyahu, nella quale vengono dettagliati i passi che Israele intende intraprendere per ricucire i rapporti con gli Stati Uniti. La lettera, confida a l’Unità una fonte diplomatica occidentale a Tel Aviv, conterrebbe anche la richiesta di una dichiarazione di «manifesta disponibilità» da parte americana a spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Il senso della visita di Netanyahu è il messaggio chiaro di rifiuto. E a chi gli chiede un avvicinamento alla Casa Bianca dice: «Il futuro dello Stato ebraico non può dipendere in alcun modo dalla benevolenza, neanche se fosse dell’uomo più nobile. Israele deve sempre riservarsi il diritto a difendersi». E a costruire a Gerusalemme Est.
Cisgiordania ai raggi x. Cresce lo Stato ombra di Giudea e Samaria
Case private, edifici pubblici, strade e stabilimenti, le colonie sono un bottino da 17,5 miliradi di dollari. -Ci vivono 300 mila persone La stampa israeliana: gli insediamenti non si possono fermare
di U.D.G. (l’Unità, 25.03.2010)
Uno Stato «ombra». È lo «Stato ebraico di Giudea e Samaria» (i nomi biblici della Cisgiordania). Uno «Stato» realizzato anno dopo anno, giorno dopo giorno. Uno «Stato» che prende corpo, nelle sue dimensioni, dal documentatissimo rapporto del dottor Rubi Nathanson del «Centro Macro di politica economica». Nathanson ha appena concluso quattro anni di raccolta sistematica di dati sugli insediamenti israeliani. Dati che rendono conto di quanto sia sempre più etereo il principio, evocato da Barack Obama, dall’Unione Europea, dal Quartetto di una pace fondata su «due Stati». Il rapporto Nathanson inchioda tutti ad un’altra verità: due Stati già esistono. Lo Stato (ufficiale) d’Israele e lo Stato (ombra) di Giudea e Samaria.
È di 17,5 miliardi di dollari - stima Nathanson - il valore attuale dell’insieme di case private, edifici pubblici, strade e stabilimenti che si trovano nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Cifra che non tiene conto del valore delle case private ed edifici pubblici e religiosi realizzati da Israele a Gerusalemme Est.
Nelle colonie sono stati costruiti complessivamente 55.708 alloggi (32.711 appartamenti e 22.997 case private). I circa 300 mila coloni beneficiano inoltre di 868 edifici pubblici, 717 stabilimenti ad uso industriale, 555 scuole e asili nido, 321 installazioni sportive, 271 sinagoghe e 187 centri commerciali. Il 71% dei coloni nella West Bank sono concentrati in 8 insediamenti: Muduin ilit, Bitar ilit, Mahalih adumim, Ar-il, Afahat zahif, Alfi manshi, Afrat e Carni shamrun.
Nelle colonie occupate degli ebrei religiosi (Al-haridin), come ad esempio Mudihin ilit e Bitar ilit, la percentuale di residenti è in aumento e arriva a più del 10%. Nemmeno i responsabili di governo disponevano finora di una tale mole di dati di insieme sulle colonie ebraiche in Cisgiordania, rileva il quotidiano Haaretz.
«In Cisgiordania non è possibile fermare le nuove costruzionicommenta Shalom Yerushalmi, editorialista di punta del quotidiano Maariv -. Basta fare un giro nella regione per vedere centinaia di unità abitative che vengono costruite ovunque. Netanyahu dà oggi un fondamento a tutto questo, e perfino se egli annunciasse all’assemblea generale delle Nazioni Unite che ridurrà le costruzioni, i coloni troverebbero il modo di aggirare la cosa. Se i coloni in Cisgiordania dovessero continuare ad aumentare al ritmo attuale rileva Sever Plotzker, analista economico che scrive abitualmente sul quotidiano Yediot Ahronot «il numero di abitanti ebrei al di là della linea verde, che è ormai cancellata dalla coscienza degli israeliani, sarà nel 2025 pari a circa 750.000 persone». Ma anche adesso, con il numero di coloni che si aggira intorno alle 500.000 persone, «le colonie ebraiche nei territori decidono in grande misura il destino di Israele».
«Non va poi dimenticato che un numero non trascurabile di ufficiali delle “Forze di Difesa Israeliane” risiede negli insediamenti, e addirittura la stampa israeliana afferma che essi collaborano con i coloni in svariati modi», rileva Asaad Abdel Rahman, scrittore e politico palestinese. «È ormai tempo che il popolo israeliano alzi la propria voce e dica chiaramente al primo ministro ed al suo governo che lo scontro in cui essi sono impegnati con la comunità internazionale, e il deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti, non sono il risultato della volontà di migliorare la situazione e la reputazione di Israele, ma - al contrario - di una miope volontà politica di migliorare la situazione dei coloni e di salvaguardare la stabilità del governo», afferma a sua volta Yariv Oppenheimer, segretario generale di Peace Now.
L’altra guancia presa a schiaffi
Obama ci riprova con Netanyahu ed è ancora scontro
Mentre il premier isrealiano andava alla Casa Bianca, a Gerusalemme davano l’ok a nuove case nei quartieri arabi
di Giampiero Gramaglia (il Fatto, 25.03.2010)
Lo schiaffo al suo vice Joe Biden era stato forte. Ma Barack Obama, da buon cristiano, ha offerto lo stesso l’altra guancia. E Benyamin Netanyahu non ci ha pensato due volte: giù un altro ceffone, questa volta alla Casa Bianca. Così il presidente degli Stati Uniti ha potuto misurare, e far misurare al Mondo, la sua impotenza di fronte al premier israeliano. Ma chi gliel’ha fatto fare a Obama di ricevere Netanyahu, giunto a Washington con atteggiamento di sfida e senza per nulla nasconderlo?
Ospite di una organizzazione ebraico-americana oltranzista, il premier era latore di un messaggio forte e chiaro: Gerusalemme non è una colonia, è la capitale di Israele e ci costruiamo quel che ci pare dove ci pare, “l’abbiamo tirata su 3.000 anni or sono e continuiamo a tirarla su ora”. E perché non ci fossero dubbi, proprio mentre Netanyahu arrivava alla Casa Bianca, il municipio di Gerusalemme annunciava l’ok definitivo a 20 nuove case ebraiche in un quartiere arabo, parte di un piano per cento abitazioni. Gli Stati Uniti, che non riconoscono l’annessione a Israele dei quartieri arabi occupati nel 1967, s’oppongono ai programmi edilizi a Gerusalemme Est.
Due settimane or sono, l’annuncio di un piano ben più ampio (1.600 nuove case) aveva coinciso con la visita in Israele e nei Territori del vice-presidente Joe Biden, per l’avvio dei “negoziati indiretti” israelo-palestinesi, messi in scacco proprio dalla mossa israeliana. Netanyahu, a Washington, prima di vedere Obama, era stato esplicito: “Se gli americani sostengono le richieste irragionevoli dei palestinesi sul congelamento dell’attività edilizia a Gerusalemme Est, il processo politico rischia di restare bloccato per un anno”.
Gli ingredienti per un flop diplomatico c’erano tutti, anche se i contatti preliminari del premier erano stati definiti “franchi” e “produttivi”: una cena con Biden e il consigliere per la Sicurezza Nazionale James Jones, un colloquio in albergo con il segretario di Stato Hillary Clinton. Certo, Obama non è stato caloroso con l’ospite che lo prendeva a sberle. Le fonti israeliane parlano di “buon clima” durante l’incontro, svoltosi in due fasi. Ma molti rilevano il “silenzio assordante” della Casa Bianca: presidente e premier non si sono presentati insieme ai giornalisti neppure per uno scambio di battute, né hanno diramato una dichiarazione congiunta.
Solo 12 ore più tardi, il portavoce Robert Gibbs ha fatto sapere che Obama ha chiesto a Netanyahu “gesti” verso i palestinesi e “chiarimenti”, in uno scambio “onesto e diretto”. Il fatto stesso che il colloquio, incerto fino all’ultimo, abbia avuto un carattere privato è un segnale di freddezza deliberato, anche se l’incontro è stato lungo e articolato: due ore a porte chiuse, un’ora di pausa perché Netanyahu consultasse il suo staff, quindi un’altra mezz’ora abbondante quattrocchi nello Studio Ovale.
L’esito del colloquio e il gelo conseguente sono segnali d’impotenza degli Usa verso Israele, che non frena davanti alla crisi dei rapporti con il suo unico e vero alleato strategico e neppure davanti agli screzi con altri Paesi amici, come la Gran Bretagna, dopo che il governo di Londra ha espulso il capo del Mossad nel Regno Unito per la falsificazione di passaporti britannici. Obama chiama alcuni leader europei (non Silvio Berlusconi), vede il mediatore Usa George Mitchell. Stati Uniti e Israele continuano a parlarsi, in queste ore, a livello di diplomatici e alti funzionari. Ma l’intesa non c’è e la capacità di Obama di smuovere Netanyahu neppure. E gli Stati Uniti non hanno neppure, in questa fase, la piena fiducia dei Paesi arabi: l’Arabia Saudita chiede al Quartetto (Onu, Ue, Usa e Russia) “spiegazioni” sulla posizione di Israele e le dichiarazioni del premier.
Da oggi, Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, s’appresta a partecipare in Libia a un Vertice della Lega araba. Gli israeliani presentano i contrasti come “dissensi fra amici”, mentre la stampa Usa afferma che la Casa Bianca è passata “dalla rabbia” do- po lo schiaffo a Biden “al gelido sospetto”. Ma Washington non vuole rompere: Obama insiste sul rapporto speciale tra Stati Uniti e “popolo israeliano”. E Nancy Pelosi, speaker della Camera, un’eroina dopo il varo della riforma della sanità, ribadisce “un’amicizia” fondata su valori comuni: “Noi siamo al fianco di Israele”.
Il blitz terminato nelle prime ore di oggi. Ma Natanyahu annuncia nuove ritorsioni
per vendicare la morte dei due soldati dell’esercito di Gerusalemme
Gaza, i tank israeliani si ritirano
Quattro i palestinesi uccisi
GERUSALEMME - Si è chiusa nelle prime ore di questa mattina, con il ripiegamento di cinque blindati, la breve incursione israeliana nel territorio della Striscia di Gaza. Avviata con il violento scontro di confine che ieri pomeriggio aveva provocato anche, per la prima volta da oltre un anno, la morte di due militari.
A riferirlo è stato un portavoce dello Stato maggiore, secondo il quale è salito a quattro il totale dei miliziani palestinesi uccisi nella zona. Due erano stati colpiti a morte già ieri, nel primo scontro con un reparto israeliano intervenuto nel nord della Striscia (presso Khan Yunes), dopo l’esplosione di una bomba all’altezza del varco di Kissufim. Un terzo è stato poi ucciso in tarda serata durante il rastrellamento condotto dai tank nella medesima area (500 metri all’interno della Striscia), mentre un quarto, ferito nel pomeriggio di ieri, è deceduto nella notte per la gravità delle lesioni riportate.
E adesso i si attende per le prossime ore una rappresaglia aerea più pesante da parte di Israele contro obiettivi di Hamas (il movimento islamico radicale al potere nella Striscia): il premier Benyamin Netanyahu ha annunciato "una risposta appropriata" all’uccisione dei due militari. Anche se fonti militari israeliane citate dall’edizione online del giornale Yediot Ahronot ipotizzano "errori" nello svolgimento dell’azione costata la vita al maggiore il maggiore Eliraz Peretz, l’ufficiale più alto in grado sul terreno in quel momento, e al sergente Ilan Sviatkovsky. I due sarebbero morti non per lo scoppio d’un secondo ordigno-trappola, ma perchè colpiti dal fuoco nemico e da schegge d’una granata lanciata dallo stesso maggiore Peretz.
Dal fronte palestinese l’episodio è stato rivendicato da più parti. Le Brigate Ezzedin Al-Qassam, braccio armato di Hamas, hanno affermato di essere state loro a ingaggiare la sparatoria "dopo lo sconfinamento" dell’unità israeliana. Ma anche Jihad Islamica e gli ultraintegralisti di Taleban-Palestina (un gruppuscolo ispirato dagli slogan di Al Qaeda) si sono attribuiti un coinvolgimento nell’accaduto.
* la Repubblica, 27 marzo 2010
TENSIONE IN MEDIO ORIENTE
Lo schiaffo della Turchia a Israele: spazio aereo chiuso ai voli militari
La minaccia di Ankara: "Pronti
a fare lo stesso con quelli civili se
non chiedono scusa per il blitz".
Netanyahu: "Non lo faremo mai" *
ANKARA Si inasprisce la crisi tra Israele e Turchia per il raid contro la flottiglia che trasportava aiuti umanitari a Gaza, che il 31 maggio causò la morte di nove attivisti.
Giorni fa il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva ribadito che il suo governo non presenterà scuse formali ad Ankara. Oggi è arrivata una ferma risposta dal governo turco: il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu ha annunciato che Ankara romperà le relazioni in caso di mancate scuse e ha annunciato la chiusura degli spazi aerei turchi ai voli militari israeliani.
«Le relazioni saranno troncate se Israele non si scuserà e se non accetterà le conclusioni di una inchiesta internazionale sull’attacco del 31 maggio», ha avvertito Davutoglu. «Se la commissione di inchiesta istituita da Israele stabilirà che il raid fu ingiusto e Israele si scuseranno, sarà sufficiente», ha chiarito il ministro. La Turchia minaccia di chiuder anche gli spazi aerei ai voli civili israeliani. Non solo: il capo della diplomazia di Ankara ha minacciato di chiudere gli spazi aerei turchi anche ai voli civili israeliano. Israele non ha fatto una piega. «Non chiederemo mai scusa per il raid», ha ribadito l’ufficio di Benjamin Netanyahu. «Naturalmente siamo dispiaciuti per la perdita di vite umane ma non siamo stati noi a cominciare a usare la violenza», ha aggiunto in portavoce del premier, spiegando che «quando si desidera avere della scuse non si usano minacce o ultimatum».
Mentre si accentua lo scontro diplomatico tra Israele e Turchia, Netanyahu è atteso domani alla Casa Bianca da Barack Obama. Un incontro a cui sono affidate le speranze di una ripresa del dialogo diretto tra israliani e palestinesi. Sulle quali pesa però una data che si avvicina rapidamente: il 26 settembre, giorno della scadenza del congelamento della costruzione dei nuovi insediamenti per coloni in Cisgiordania. Il quotidiano Haaretz ha calcolato che saranno almeno 2.700 le nuove case per coloni che saranno costruite in Cisgiordania. Sono progetti autorizzati prima dell’inizio del blocco disposto da Netanyahu.
Ma il ministero della Difesa ne dovrà approvare di nuovi. E sembra che i Consigli regionali della Cisgiordania non vogliano perdere tempo. Quello di Shomron ha sul tavolo un progetto per la costruzione di 800 unità abitative. Il presidente ha inviato lettere per preparare «la concessione di permessi per costruire, stilare progetti e inviarli ad dipartimento di ingegneria per l’ispezione». «Abbiamo poco tempo e c’è tanto da fare, dobbiamo rilasciare immediatamente le autorizzazione e permettere la costruzione dei nuovi insediamenti non appena scadrà il congelamento», ha aggiunto. Anche il Consiglio reginale di Oranit ha previsto la costruzione di 600 nuove unità, in parte autorizzate prima del congelamento. E questi sono solo i progetti più ampi.
* La Stampa, 5/7/2010