Palestina, Israele e la rinascita della lingua ebraica....

ELIEZER BEN-YEHUDA. “Tante parole nuove dovranno essere inventate, e quando l’Ebraico non basterà, la lingua araba, sorella della nostra, ci fornirà i suoi suggerimenti. Che cos’è infatti un amico, se non quello che ti offre la parola mancante?” Memoria di ELIEZER BEN-YEHUDA - di Massimo Leone.

giovedì 29 giugno 2006.
 

-  Alla lingua ebraica

-  Memoria di Eliezer Ben-Yehuda

-  di Massimo Leone*

La mia ombra si proietta nel cerchio chiaro di una lampada, mentre siedo, la nuca irrigidita, ad una delle scrivanie di questa biblioteca. Sono qui dentro da undici ore, chino sul mio lavoro. La vista mi si annebbia e gli occhi sono ormai due piccoli bracieri, la schiena mi si incurva e gambe e braccia ormai mi dolgono. Respiro affannosamente, qualche piccola macchia rossa si nasconde minacciosa nel mio fazzoletto. Ho sessantun anni, ma mi sento molto più giovane e molto più vecchio. Giovane è la mia impresa, vecchio l’involucro del mio corpo. Tossisco una, due volte, una fitta lancinante mi scuote il petto. Ma non posso fermarmi. Colui il cui nome sia benedetto per quanti granelli di sabbia ha il deserto dei deserti plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche. Ma poi l’uomo dimenticò questi nomi. Tanto tempo è passato, e tanto dolore. E per questo io adesso sono qui, con il mio piccolo, insignificante dolore. Cerco di ricordare. Di ricordare tutti questi nomi.

Accanto a me un giovane americano legge una traduzione inglese dei Mystères de Paris. Mi chiedo se questa lettura avrà su di lui la stessa influenza che ebbe su di me, tanti anni fa. Probabilmente no, il ragazzo sbadiglia. Invece mi torna in mente [come un lampo che squarcia la notte] la sorpresa dei miei genitori, quando un amico di mio padre ci portò una copia in Ebraico di quel romanzo. Chissà quanto tempo Kalman Schulman aveva dedicato a questa versione. Chissà come la rifarebbe adesso, se potesse consultare il mio dizionario. All’epoca, nella piccola Luzhky, il villaggio dove passai i primi anni della mia vita, quando il gelido freddo invernale si impossessava della Lituania, non vi erano scrittori che fossero più in auge: Kalman Schulman, il grande traduttore, ma ancor di più Abraham Mapu, il bardo ebreo dell’Amore di Sion. Quanti avranno deciso di partire leggendo questo romanzo, uno dei primi in lingua ebraica! Me lo chiedo spesso.

Curioso, poi, che Sue, lo stesso autore che gli aveva ispirato questo inno alla terra promessa, scrivesse qualche anno dopo l’Ebreo errante. Le parole "errante" ed "errore" hanno la stessa radice etimologica, un lessicografo lo sa bene. Ciò vuol dire che chi ha commesso un errore è destinato a smarrire la propria strada, oppure invece che lo stesso essere errabondi, senza una terra propria, è il segno di una storia sbagliata? Sono stati forse i Cristiani ad inventare questa storia, secondo cui l’ebreo che errò insultando Cristo crocefisso fu costretto ad errare in eterno, senza meta? Ma io credo il contrario. Credo che sia la storia ad aver sbagliato, a renderci errabondi per tanti secoli. Questa è la nostra croce, come direbbero i gentili. Ecco perché Mapu sognava una Sion che accogliesse tutti gli ebrei, anche se allora i nostri sogni erano maldestri come la nostra lingua.

Quando mio padre era ancora un bambino un gruppo sparuto di coraggiosi cercava di ridare linfa vitale alla lingua ebraica, scomparsa come lingua d’uso quotidiano in seguito ad una diaspora millenaria. Tuttavia, se non era difficile scrivere un romanzo biblico in Ebraico biblico, parlare della vita di tutti i giorni con questo lessico di 8000 parole non era impresa semplice. Ancora sorrido quando penso che l’Ebraico biblico ha solo tre colori, il bianco, il nero e il rosso, e che in tutti gli esperimenti di romanzo dell’epoca le leggiadre fanciulle erano destinate ad avere la pelle bianca come la neve, le guance rosse ed i capelli nero pece. Senza contare che le circonlocuzioni adottate per sfuggire all’esiguità del lessico rischiavano sempre di oltrepassare la linea sottile fra il ridicolo e il blasfemo. Nel ginnasio russo che decisi di frequentare dopo aver abbandonato la yeshiva, la scuola talmudica, un amico ebreo raccoglieva in un quadernetto tutte le espressioni curiose che si coniavano all’epoca. Dal Salmo 113, 5-6 l’espressione "Lui che siede nelle altitudini e si abbassa per guardare" fu presa a prestito per indicare "ciò che è troppo basso perché vi si possa sedere", vale a dire una balaustra. Anche i giochi di parole non erano infrequenti; "choli ra’", "brutta malattia", parve parola adatta per denominare il colera. Senza poi nemmeno menzionare la pesantezza di certe frasi: "ho dato il mio orologio a un orologiaio" diventava "ho dato il mio indicatore di ore a un riparatore di indicatori di ore".

Nel 1877, lo stesso anno in cui terminai il mio ginnasio, la Russia dichiarò guerra contro l’Impero Ottomano al fine di supportare i Bulgari nelle lotte per la loro indipendenza. I Greci ce l’avevano fatta nel 1829 (e ancora circolava per l’Europa il fantasma irrequieto di Byron, accorso in difesa dell’Ellade e poi morto di malaria); intorno alla metà del secolo gli Italiani avevano sognato e ritrovato una patria. Così, pensai che anche gli Ebrei dovevano ritrovare una patria, ma non immaginai soltanto un pezzo di terra in cui vivere insieme.

Sognai - ed è questo il sogno che ancora mi spezza la schiena - che tutti gli Ebrei potessero un giorno abitare la stessa lingua. Lasciai dunque la Russia nel 1878, deciso a recarmi in Palestina. Prima, tuttavia, volevo studiare medicina a Parigi, per poter essere d’aiuto agli altri Ebrei. In Francia trovai insieme la gioia ed il dolore. Non ricordo più dove conobbi il primo colpo di tosse, come non so quando e dove sopraggiungerà l’ultimo. Tuttavia, mi piace pensare che io abbia scoperto la prima macchia di sangue in quello stesso caffè dove incontrai anche la gioia.

Non potrò mai dimenticare il colore verde brillante delle sedie, il fruscio dei paltò lungo i tavoli, una tenue campanella che indicava nervosamente l’aprirsi ed il chiudersi della porta, il viavai dei camerieri. Era una giornata fredda e solare, una di quelle in cui i pensieri si affinano ed acquistano insieme vigore e leggerezza. Fu lì, seduto in quel caffè lungo il boulevard Montmartre, che ebbi una conversazione interamente in lingua ebraica con Getzel Zelikovitz e Mordecai Adelman. Di certo non si trattò di una lunga chiacchierata: pochi erano i nostri vocaboli e la nostra lingua era ancora legata. Ma fu in quella occasione che capii, per la prima volta, che l’Ebraico poteva tornare a vivere. E fu allora che presi una decisione irrevocabile, che vaste conseguenze avrebbe avuto sulla mia vita. Qualunque cosa accadesse, per quante difficoltà si presentassero, non avrei mai parlato altra lingua che l’Ebraico (con gli altri Ebrei, naturalmente, ma non c’è bisogno di specificarlo...).

Così, quando nel 1881 arrivai a Jaffa, parlai in Ebraico con un cambiavalute, poi con il proprietario di un albergo, quindi con un carrettiere. Tuttavia, ben presto mi accorsi di quanto impoverita e frusta fosse divenuta questa lingua. Ebrei di diversa provenienza lo parlavano nelle strade e nelle piazze, è vero, ma quanto stentatamente, e ognuno con una diversa pronuncia, che spesso rendeva le parole degli uni incomprensibili agli orecchi degli altri. Ad ogni piccola difficoltà l’Ebraico veniva mescolato con altre lingue, e poi soprattutto non varcava le porte delle case. Quasi ogni ebreo, nel chiuso delle mura domestiche, parlava una lingua diversa dall’Ebraico.

Questo deprimente scenario mi fece compiere uno dei passi più dolorosi della mia vita. Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò. Così Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e si mise in viaggio verso il luogo che gli era stato indicato. Il mio coltello mai si è levato contro mio figlio, ma quando egli nacque, nel 1882, in un certo senso lo votai a un sacrificio in nome dell’Altissimo: feci promettere a Deborah, mia moglie, che l’avremmo allevato come il primo bambino di lingua interamente ebraica della storia moderna. Non una singola parola di un’altra lingua sarebbe stata proferita in sua presenza, né da noi, né dai nostri amici e conoscenti. La lingua del popolo ebraico sarebbe cresciuta assieme a mio figlio, ma alto era il prezzo da pagare per questa impresa. Il mio cuore di vecchio si stringe ancora quando penso agli eccessi di quell’epoca. A quattro anni, mio figlio era ancora incapace di parlare. Lo mandavo a letto quando ospiti non ebrei venivano nella mia casa, ed arrivai persino ad impedirgli di ascoltare il nitrito dei cavalli, o il raglio degli asini. Solo il suono dell’Ebraico doveva passare dalle sue orecchie. Poi un giorno, tornando a casa, scoprii Deborah che gli cantava una ninna-nanna in russo, dondolandolo fra le braccia. Andai su tutte le furie e cominciai a gridare. Fu allora che avvenne un piccolo miracolo. L’angelo mi chiamò dal cielo e mi disse: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male!" Quindi, come Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio, io sentii, e ancora risuona nella mia memoria, la prima parola in Ebraico pronunciata da mio figlio.

Egli aveva bisogno ogni giorno di nuove parole, così come gli Ebrei di Palestina. Ma è difficile trovare nella Bibbia parole come "bambola", "gelato", "budino", "omelette", "fazzoletto", "asciugamano", "bicicletta", e molti altri ancora. Capii dunque che se volevo far rinascere l’Ebraico come lingua moderna non potevo limitare la mia ricerca lessicologica alla Bibbia, ma dovevo estenderla ad altre fonti, di altri periodi. E poi dovevo coniare parole nuove sulla base di quelle vecchie, continuare modestamente il lavoro di Adamo.

All’inizio la mia passione linguistica fu oggetto più di scherno che di ammirazione, poi pian piano cominciò a suscitare entusiasmo. Nel 1889 fondai l’associazione Safa Berura, un "comitato di letteratura" incaricato di estrapolare i vocaboli ebraici dai testi in cui si trovavano relegati, per poi pubblicarli. Con la supervisione di grammatici e scrittori, il comitato poteva anche proporre dei neologismi. Fra il 1880 e il 1900, associazioni di questo genere sorsero un po’ dappertutto in Europa, ma fu solo a partire dal 1904 che la mia testardaggine iniziò a dare i suoi frutti. Da quando ero giunto a Gerusalemme mantenevo me stesso e la mia famiglia lavorando come giornalista. Nel 1884 avevo fondato un nuovo giornale, HaTzevi, dapprima un settimanale, poi un quotidiano. Scrivevo tutti i miei articoli ricorrendo all’"Ebraico totale", basato su fonti ebraiche di tutti i tempi, ma inventai anche moltissime parole nuove, più di 230, se ricordo bene.

Lentamente, poi, e proprio grazie al mio giornale, questi neologismi entrarono a far parte dell’Ebraico quotidiano: diedi un nome al ristorante, al giornale, alla bicicletta, all’orologio, all’arte, alla bambola, alla rosa, al colore grigio e all’ombrello, al fazzoletto, all’ufficio, al marciapiede. Ma poi, con la guerra del 1914, dovetti dare un nome anche ai soldati, al fronte, alla bomba, alla pistola. Paradossalmente, scelsi di imprigionare il mio corpo per sempre dietro una di queste scrivanie nel 1894, quando le autorità turche mi obbligarono a trascorrere in prigione un breve periodo. Mio suocero aveva pubblicato un articolo in HaTzevi, e una delle sue frasi, "Ne’esof chayil venelekh kadima", "riuniamo le nostre forze e andiamo avanti", fu interpretata come "riuniamo un esercito per conquistare l’Oriente". Questo episodio fece scattare in me il desiderio di compilare un dizionario che raccogliesse tutte le parole dell’Ebraico e le associasse ad un significato preciso. La prigione mi diede tempo a sufficienza per dare avvio a questa impresa, che in seguito ho proseguito a Londra, Oxford, Cambridge, Parigi, Berlino, San Pietroburgo, Parma, Livorno e nel Vaticano, dovunque si nascondano testi in Ebraico. Dopo quindici anni di ricerche, la maggior parte dei quali passati a lavorare fino a diciotto ore al giorno, il primo volume del Thesaurus della lingua ebraica antica e moderna ha visto la luce 11 anni fa, nel 1910. Altri volumi sono stati completati negli anni successivi, e ora la mia mano stanca continua a riempire schede su schede di minute parole, sotto il cerchio di questa lampada. Lavoro al settimo volume del mio agognato dizionario, memoria delle parole di Adamo. Tra le tante parole del passato, ve ne sarà anche qualcuna interamente mia, figlia della mia propria lingua come il primo bambino di lingua ebraica è stato figlio dei miei lombi. Tante parole nuove dovranno essere inventate, e quando l’Ebraico non basterà, la lingua araba, sorella della nostra, ci fornirà i suoi suggerimenti. Che cos’è infatti un amico, se non quello che ti offre la parola mancante?

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-  www.golemindispensabile.it,
-  n° 11 - novembre 2003



Scheda:

LA LINGUA

È assai strano il destino della lingua ebraica: dopo la Diaspora, gli Ebrei sparsi per il mondo avevano cominciato a utilizzare le parlate locali, servendosi dell’ebraico biblico unicamente come lingua del culto o come lingua letteraria. La lingua cominciò a risorgere con il movimento sionista. Il principale fautore della rinascita fu Eliezer ben Yehuda (1858-1922), il quale, trasferitosi dalla Lituania in Palestina, introdusse l’ebraico nella sua casa, rendendo quotidiano l’uso della lingua tradizionale. Imitato da una cerchia di amici e conoscenti, diede così origine alla prima famiglia di lingua ebraica, lasciando in eredità alla sua gente il Dizionario di ebraico antico e moderno, tuttora testo fondamentale della letteratura neoebraica.

Dopo la fondazione dello stato d’Israele, comunità ebraiche giunsero da tutto il mondo al loro paese tradizionale e si sentì il bisogno di ritrovare anche l’antica lingua tradizionale. Così venne naturale seguire l’esempio di Eliezer ben Yehuda e riutilizzare nell’uso comune la lingua e la scrittura ebraica. Caso praticamente unico nella storia delle lingue, l’ebraico tornò ad essere lingua viva e vegeta, ed attualmente è lingua ufficiale dello stato d’israele. Qui, l’Accademia per la Lingua Ebraica presiede alle modifiche cui inevitabilmente la lingua, adattata alle esigenze della civiltà moderna, è sottoposta.

(Dario GIANSANTI)



Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo, Edizioni Medusa, Milano 2010, p. 265:

-  "Theodor Herzel (...) la sua visione non fu abbastanza visionaria: la vecchia lingua che egli considerava morta è rinata" (p. 276, con nota)

-  Nota: "Nello Stato ebraico, Zionist Organization, London 1936, Herzel scrive: "Non possiamo, dopo tutto, conversare tra noi in ebraico. Quanti di noi conoscono abbastanza l’ebraico da chiedere un biglietto del treno in quella lingua? Non si può fare" (p. 134)



Sul tema, nel sito, si cfr.:

ISRAELE E PALESTINA ... la Terra promessa. Una indicazione (1930) di Freud

EMIL FACKENHEIM, TIQQUN.RIPARARE IL MONDO

LA STATUA DELLA LIBERTA’ DEGLI U.S.A. - CON LA SPADA SGUAINATA: "GUAI AI VINTI"!!! "IN GOD WE TRUST": TUTTO A CARO-PREZZO ("DEUS CARITAS EST")!!! LA LEZIONE DI FRANZ KAFKA, IL MAESTRO DELLA LEGGE.

fls


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