di Moni Ovadia *
Yad Vashem è il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, il sacrario della Shoah, ma per gli israeliani è ben altro che questo. Quel luogo è per molti aspetti, il topos del senso stesso dell’esistenza di Israele come stato ebraico. Ogni cittadino, ogni fanciullo, ogni soldato, si reca in pellegrinaggio in quel luogo per assumere il pieno statuto identitario di ebreo israeliano. Ogni persona, dal semplice turista o viaggiatore, al più illustre politico in visita in Israele, quale che sia la ragione della sua presenza, sa che ha il dovere di rendere omaggio alle vittime dello sterminio nazista recandosi a Yad Vashem.
Con quel solenne pellegrinaggio, il visitatore riconosce il suggello con cui lo stato d’Israele assume su di sé un’intera eredità. Per un grandissimo numero di ebrei che si riconoscono nelle istituzioni ufficiali, Israele diviene acriticamente e senza mediazioni, passato, presente e futuro. Per essi la diaspora perde significato in sé per divenire appendice di un ritorno in pectore anche se procrastinato sine die. Di fatto, essi si sentono israeliani in standby.
Le recenti drammatiche vicende mediorientali, richiedono una rimessa in questione di questi assetti israelo-ebraici e delle dinamiche psicologico-culturali che vi sottostanno. Il movimento sionista ha avuto fra i suoi obbiettivi primari quello di normalizzare gli ebrei, collocandoli in una terra con la quale avevano un’antico legame e facendone un popolo come gli altri. Quando il primo ebreo fu arrestato per furto e messo in prigione nella neonata entità statuale ebraica, il padre fondatore e primo capo del governo, David Ben Gurion, esultò: «Siamo un paese normale!». Mai affermazione fu più rovinosamente scentrata. Israele è tutto fuorché un paese «normale». La sua collocazione geografica è in Medio Oriente ma in questo momento la sua vocazione è occidentale. Per certi aspetti potrebbe essere uno stato degli Stati Uniti, anche se più di metà della sua popolazione viene da stati arabi e il 17% di essa è arabo-palestinese. La sua politica, in grande misura coincide con quella delle amministrazioni americane. È stato fondato da scampati alle persecuzioni antisemite zariste e degli stati autoritari centro-orientali e da sopravvissuti alla Shoà, ha piena dunque titolarità a quella eredità, ma gli ebrei sterminati dai nazisti erano quanto c’è di più lontano da quello che è oggi l’ebreo israeliano. Quelli parlavano lo yiddish ed erano a proprio agio in molte altre lingue, vivevano a cavallo dei confini, erano cosmopoliti, ubiqui, inquieti, refrattari alle logiche militari, poco interessati, quando non ostili ai nazionalismi, erano smunti, fragili, dediti allo studio, alle professioni liberali, intellettuali, al piccolo o grande commercio, appartenevano alla categoria dei paria perseguitati emarginati, erano dalla parte degli sconfitti. L’israeliano delle nuove generazioni si esprime in ebraico moderno, una lingua costruita desantificando l’ebraico biblico e piegandolo alle esigenze di una nazione e la sua seconda lingua è l’inglese.
L’israeliano sta con i vincitori, è forte, determinato, orgogliosamente nazionale, militarmente molto preparato, capace di essere agricoltore e soldato quanto intellettuale e tecnico, ma anche taxista, ingegnere, negoziante o impiegato, operaio e persino occupante e poliziotto di un altro popolo, cosa inconcepibile per un ebreo della diaspora che subì lo sterminio.
Oggi, che nuovamente un leader fanatico di un paese islamico chiede la cancellazione dello stato sionista dalla carta geografica, in Israele e nella diaspora, si evoca il legame con la Shoà in modo univoco e schematico quasi a volere stabilire un parallelo inaccettabile con il ghetto di Varsavia. Ma ancorché Israele viva in stato di grande difficoltà e subisca il terrorismo e l’aggressione di Hezbollah sulla carne della propria gente, pensare di rappresentare la tragica eredità dello sterminio solo con un modello rigido per giustificare l’uso indiscriminato della propria soverchia forza militare e radere al suolo intere città provocando quasi esclusivamente morti civili, è scambiare etica per propaganda.
Se Israele vuole assumere l’eredità di quell’ebraismo ridotto in cenere, deve assumerne la piena eredità morale, cessare di vessare ed imprigionare un altro popolo, diventare più piccolo, molto più democratico, abbandonare la mistica della potenza, diventare leader del processo di pace ed assumere la funzione di ponte fra occidente e Medio Oriente.
* www.unita.it, Pubblicato il 05.08.06
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
ISRAELE E PALESTINA... LA TERRA PROMESSA. Un’indicazione (1930) di Sigmund Freud
Israele-Palestina, la verità del documento dell’Unesco
di Moni Ovadia (il manifesto, 26.10.2016)
Le parole sono importanti! sentenziava Nanni Moretti in una scena da culto di una sua memorabile pellicola, dando ratifica all’affermazione con un sonoro ceffone vibrato ad una giornalista colpevole di esprimersi con un eloquio mediocre ed improprio.
Dal tempo di quell’accorato grido di dolore del geniale cineasta molta acqua è passata sotto i ponti. Abusare perversamente le parole è diventata pratica comune che non provoca reazioni di sofferenza; in questi giorni, il nostro capo del governo si è prodotto in una tecnica di perversione del senso, sostituendo la parola italiana condono con l’anglicismo di sonorità meno sconcia voluntary disclosure.
L’ordine del discorso e la scelta delle parole possono diventare particolarmente insidiosi quando si parla di Israele, governo israeliano, israeliani, ebrei e via dicendo. A me è capitato di sentirmi apostrofare con il termine “antipatizzante” di Israele per avere definito “colonie” le colonie israeliane della Cisgiordania invece di descriverle con il più neutro “insediamenti”. Gli ultras proisraeliani a prescindere, ma anche coloro che non sono estremisti del campo - potremmo definirli i moderati di ogni schieramento - manifestano un’immediata idiosincrasia nei confronti di un crudo linguaggio di verità, qualora utilizzato nei riguardi di Israele.
Per queste sensibilissime persone, parole accettabili all’indirizzo di qualsiasi altro paese occupante e colonialista del mondo, diventano inascoltabili se utilizzate per criticare gli atti dei governi israeliani.
Questa ipersensibilità ha provocato l’ennesima crociata pro Israele sulla stampa mainstream e nelle piazze, per denunciare l’antisemitismo dell’Unesco a proposito della sua risoluzione sulla Palestina occupata.
Nella traduzione integrale della risoluzione al comma 3 leggiamo: “Affermando l’importanza che Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre religioni monoteiste, affermando anche che in nessun modo la presente risoluzione, che intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e di Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative allo status legale di Palestina e Gerusalemme...”
In apertura, la risoluzione riconosce che Gerusalemme e le sue mura sono sacre ai tre monoteismi e ai loro fedeli: ebrei, cristiani musulmani. Non c’era dunque alcuna ragione di gridare all’antisemitismo, di accusare la risoluzione di voler negare il legame degli ebrei con quei luoghi. In realtà a me pare di intuire che la reazione degli ultras pro Israele, senza se e senza ma, dipenda piuttosto dal fatto che nei commi successivi la risoluzione si riferisca ripetutamente ad Israele con la definizione di “potenza occupante” e ne denunci la pratica violenta dei fatti compiuti sul territorio.
Ora, Israele è, piaccia o non piaccia, una potenza occupante e lo è da cinquant’anni e questo secondo le risoluzioni dell’Onu, non secondo i pro palestinesi. Ma attenti a dirlo! Diventereste illico et immediate antisionisti, ovvero antisraeliani, ovvero antisemiti. Guai all’Unesco che osa affermare che Israele è potenza occupante.
Invece, i politici israeliani di governo possono gridare ai quattro venti che Gerusalemme è la sacra ed indivisa capitale dello Stato di Israele nell’assoluto silenzio delle anime belle, e i leader dei partiti religiosi possono sostenere impunemente che tutta la terra di quella che fu la Palestina mandataria appartiene agli ebrei perché fa parte della terra “donata” da Dio.
Gli zeloti che fanno parte dell’elettorato della destra utrareazionaria sostenitrice di Netanyahu, possono farneticare di distruggere le moschee per edificare al loro posto il “Terzo Tempio” e compiere atti aggressivi nei confronti dei palestinesi, nessuno scandalo. È scandalo invece se il documento dell’Unesco non riconosce alle autorità israeliane e ai fanatici di Israele il diritto ad esercitare il proprio arbitrio.
Forse disturba la mancata identificazione di ebrei e governo israeliano in carica. Le anime belle della democrazia a popoli alterni sanno che le due cose sono diverse, ma dà loro un incontenibile fastidio. Eppure il problema di una precisa distinzione fra israeliani ed ebrei è ormai incandescente.
Un recente articolo apparso sul quotidiano israeliano Ha’aretz a firma di Chemi Shalev titolava: “Trump mostra agli estremisti di destra come amare Israele ed odiare gli ebrei” (alcuni estremisti di destra americani disprezzano gli ebrei progressisti con lo stesso veleno con il quale la destra israeliana odia gli ebrei di sinistra).
Eccolo il capolavoro che hanno edificato i nazionalisti e i fanatici religiosi israeliani con la fattiva collaborazione degli ultras pro sionisti e il benevolo sussiego di certi moderati che sono amici di Israele a prescindere.
Grazie a loro, gli eredi degli antisemiti di ogni tipo possono tornare ad odiare gli ebrei cominciando dai maledettissimi rossi e poi... Poi si vedrà.
Massa d’urto religiosa di questa nuova ideologia sono i cosiddetti cristiano/sionisti. Sono milioni, appartengono a chiese evangeliche millenariste e avventiste, sono sostenitori del sionismo integralista, rivendicano il diritto degli ebrei a possedere tutta la Terra Promessa e auspicano il ritorno di tutti gli ebrei in Eretz Israel perché secondo le loro profezie ciò provocherà la seconda parusia di Gesù e l’Armageddon. E gli ebrei? Quelli che riconosceranno il Cristo saranno salvi. E gli altri? Si fotteranno bruciando nelle fiamme dell’inferno! (L’interpretazione è mia).
Unesco, approvata una nuova risoluzione su Gerusalemme. Netanyahu pronto a richiamo ambasciatore
Documento nega ancora il legame fra gli ebrei ed i luoghi sacri della città. Gentiloni: ad aprile l’Italia voterà no
DI Redazione ANSA *
Il comitato del patrimonio mondiale dell’Unesco ha approvato oggi una risoluzione che nega nuovamente il legame millenario tra gli ebrei e i luoghi sacri di Gerusalemme. Il voto si è svolto a scrutinio secreto: 10 a favore, due contrari e otto astenuti. Il premier Benyamin Netanyahu sarebbe pronto a richiamare per consultazioni l’ambasciatore israeliano all’Unesco Carmel Shama Cohen per protesta contro la risoluzione.
Il testo approvato fa riferimento ai luoghi sacri di Gerusalemme con la sola denominazione musulmana e denuncia i "danni materiali" perpetrati da Israele, come già nelle precedente risoluzione adottata la settimana scorsa dall’Unesco. Gli attuali 21 membri del comitato sono: Angola, Azerbaigian, Burkina Faso, Croazia, Cuba, Finlandia, Indonesia, Giamaica, Kazakistan, Kuwait, Libano, Perù, Filippine, Polonia, Portogallo, Repubblica di Corea, Tanzania, Tunisia, Turchia, Vietnam, Zimbabwe.
Obiettivo del comitato è concedere un’assistenza finanziaria in funzione delle richieste degli Stati membri ed esaminare, tra l’altro, lo stato dei siti iscritti al patrimonio mondiale. In questi ultimi giorni il ministero degli Esteri israeliano aveva moltiplicato le missioni diplomatiche per ottenere che i 21 membri votassero contro la risoluzione.
Il nuovo voto ha provocato una nuova reazione indigrata di Israele che tramite il portavoce del ministero degli esteri Emmanuel Nahshon ha definito il documento "spazzatura" sottolineando che "giustamente l’ambasciatore israeliano nell’organismo ne ha gettato il testo nel bidone dell’ immondizia". "Lunga vita - ha concluso - a Gerusalemme ebraica".
E il presidente della Knesset (Parlamento) Yuli Edelstein in una lettera al Segretario di Stato vaticano Cardinale Parolin chiede l’intervento della Santa Sede. La Risoluzione, afferma, è "un affronto per i cristiani e per gli ebrei" ed il Vaticano dovrebbe "usare i suoi migliori uffici per impedire il ripetersi di questi sviluppi di questo tipo".
"Se le stesse proposte ci saranno ripresentate ad aprile - ha commentato il ministro degli Esteri Gentiloni al Question time - il governo italiano passerà dall’astensione al voto contrario". "La risoluzione - ha spiegato il ministro - si ripropone due volte l’anno dal 2010. Dal 2014 contiene le formulazioni che negano le radici ebraiche del Monte del Tempio".
Per il responsabile della Farnesina bisogna "lavorare affinché l’Unesco faccia l’Unesco. Non c’e’ dubbio che si tratti di una delle organizzazioni Onu che ha un ruolo importante, soprattutto per noi che abbiamo molti siti patrimonio umanità. Ma non si può accettare l’idea che invece di concentrarsi sul patrimonio culturale diventi cassa di risonanza di tensioni politiche".
La Shoah oggi? Ovadia: il nuovo Olocausto è nella fossa comune del Mediterraneo
L’artista ospite del Teatro "Gesualdo" per una due giorni in città all’insegna della memoria come insegnamento per l’oggi
di Emma Barbaro (Il Ciriaco. Notizie di Avellino e provincia, 26 Gennaio 2016)
"Io conosco la Shoah. Tuttavia ritengo che oggi essa venga strumentalizzata per altri scopi. Il giorno della memoria sta diventando il giorno della falsa coscienza e della retorica. L’Ebreo è divenuto il Totem attraverso cui ricostruire la verginità della civiltà occidentale. Ma l’ebreo di oggi è il rom, considerato ancora paria dell’umanità; è il musulmano, il palestinese; è il profugo che trova la morte nella fossa comune del Mediterraneo". A parlare è l’artista poliedrico Moni Ovadia. Un ebreo italiano, nato in Bulgaria nel 1946. Un uomo, innanzitutto. La sua famiglia vive gli anni della persecuzione nella schiera dei ’fortunati’. Sfuggono ai campi di concentramento perché Bulgaria e Danimarca non cedono alle pressioni internazionali e scelgono di non piegarsi alle deportazioni di massa. "Vuol dire che si poteva fare- ricorda Ovadia- e che gli altri Stati hanno deciso consapevolmente di non farlo".
Parole dure come macigni, che rispolverano quel concorso di colpa tutto italiano nelle vicende della Seconda Guerra Mondiale. La memoria scivola a quel 16 ottobre del 1943, data in cui 1024 ebrei romani, 1024 italiani, furono arrestati, tenuti prigionieri e infine caricati come bestiame sui quei vagoni la cui ultima fermata recava ’Auschwitz Birkenau’. Circa 847 di loro furono direttamente ’selezionati’ all’arrivo per le camere a gas. Tornarono in sedici, una donna e quindici uomini. "Abbiamo bisogno di sapere- suggerisce Ovadia- che la memoria serve ad edificare presente e futuro. Altrimenti, è solo vuoto celebrativismo. E allora, che si parli pure di una giornata ’delle memorie’".
Ad ascoltare, attenti, gli studenti della Scuola Media ’Perna-Alighieri’ e quelli del Liceo delle Scienze Umane ’P. V. Marone’ che ogni anno, nel mese di febbraio, porta i suoi studenti a visitare il tristemente noto campo di concentramento di Auschwitz Birkenau. Nell’ambito della rassegna ’Teatro Civile’, il Teatro Carlo Gesualdo e il Conservatorio Cimarosa di Avellino si sono fatti promotori di una due giorni incentrata sul ricordo delle vittime della Shoah. Presenti all’incontro il presidente dell’Istituzione Teatro comunale Luca Cipriano, l’assessore con delega alla Cultura Teresa Mele e l’assessore alle Politiche Sociali Marco Cillo, che nel donare a Moni Ovadia una sciarpa realizzata nel maglificio confiscato alla camorra ’CentoQuindici Passi’ ricorda le vittime trasversali del ’sonno della ragione’. "Se il compito del Terzo Reich- afferma Cillo- è stato quello di cercare di cancellare dalla memoria le vittime innocenti del genocidio, al pari la mafia tenta di nascondere alle coscienze il ricordo dei suoi morti. Oggi abbiamo il compito di affidare questi nomi agli studenti per dar loro la possibilità di perpetrare la memoria. Il 27 gennaio dovrebbe uscire dal calendario ed entrare nella nostra quotidianità".
Ma è Moni Ovadia a rinsaldare la consapevolezza. A ricostruire il sottile legame con la coscienza. "Si è passati- afferma- dallo sterminio degli ebrei alla israelianizzazione della memoria. Ho ascoltato politici, per me furfanti, uscire dal campo di concentramento di Auschwitz e dire "mi sento israeliano". Ma che affermazione è questa? Non sento nessuno affermare di sentirsi rom, omosessuale, antifascista, slavo o menomato. Eppure anche loro furono vittime dello sterminio. Vedete, distinguere tra morti è uno schifo. Primo Levi ha scritto un capolavoro assoluto della memorialistica e della riflessione, ma non l’ha intitolato ’Se questo è un ebreo’ ma ’Se questo è un uomo’.
Ricordiamoci degli esseri umani. Anche se noi italiani siamo specialisti in retorica e falsa coscienza, sfatiamo il mito degli ’italiani brava gente’. Ricordiamo che quello fascista è stato il regime dei genocidi: in Cirenaica, ad opera del generale Graziano; in Etiopia, il generale Badoglio ordinò lo sterminio col gas. Centotrentacinquemila morti civili, innocenti spariti in una volta sola. Ricordiamoci della ex Jugoslavia. Facciamo come i tedeschi. Loro hanno fatto chapeau. Loro, con la storia, ci hanno fatto i conti. Forse dovremmo iniziare a farlo anche noi".
Nella memoria di Ovadia sfilano gli armeni, lo sterminio di massa in Manciuria, quello delle Filippine; ma anche il tentativo di cancellazione di un’intera generazione in Argentina con i desaparecidos, la lotta interna della Cambogia, la guerra civile dell’ex Jugoslavia tra coloro che pregavano lo stesso Dio: i cattolici-croati e i serbi-ortodossi. E l’Europa, ferma a guardare le sue faglie in rotta di collisione tra loro. Pronta a favorire gli uni piuttosto che gli altri interessi. Per non parlare delle crociate di democrazia moderne, dei morti civili in Iraq, Afghanistan, Siria, Libano, Palestina.
La lista è lunga, ma la domanda resta: si può oggi escludere una persistenza della mentalità degli stermini? "Il Mar Mediterraneo è una fossa comune- aringa Ovadia- Ancora una volta gli interessi economici vengono anteposti alla dignità degli esseri umani. Eppure siamo stati noi occidentali a dire che ’gli uomini nascono liberi e uguali, pari in dignità e diritti’. Ma ancora manca il diritto di residenza universale. Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, ed io condivido con tutto il cuore questa impostazione, propone l’abolizione universale del permesso di soggiorno. Altrimenti non saremo mai una vera umanità. I dati Onu ci dicono che le ’guerre moderne’ causano oggi il 95 percento delle vittime civili. La guerra non è di per sé un atto criminale?".
"Io voglio stare in esilio finché vivrò- conclude l’artista- L’Italia è il mio Paese ma non la mia patria. Patrie non ne voglio avere. Vengo a parlare con questi ragazzi perché le loro vite non subiscano passivamente la falsa coscienza e retorica. Perché oggi i rom vengono considerati ancora i paria dell’umanità mentre gli ebrei sono le vacche sacre? Perché i primi non hanno uno Stato, mentre i secondi sono armati fino ai denti con testate nucleari e cercano costantemente di estendere i propri confini. Ecco perché l’antisemitismo di Stato è scomparso. Per carità, sopravvive in alcuni corpuscoli nazisti, ma è stato espunto dallo spazio pubblico. Si deve avere coraggio e lungimiranza per affermare certe idee. Poi ne paghi il prezzo: io non dirigo teatri o festival, collaboravo per alcune testate e ora non mi ci fanno più scrivere. Ma settant’anni cominci a fregartene e comprendi che l’informazione è importante, ma non deve mai ridursi a mera comunicazione. In questi giorni assisteremo ad un profluvio di trasmissioni sulla Shoah, ma nessuno penserà di collegare quel ricordo con gli stermini di massa di cui siamo complici nel presente. L’informazione- conclude- va incrociata con l’indagine del presente per poter essere un elemento fruibile dalle future generazioni".
Quando un termine stravolge una lotta
di Nino Lisi (Adista Segni Nuovi n. 2 del 18/01/2014)
A sentire Moni Ovadia durante la tavola rotonda “Antisemitismo/antisionismo. Quando un termine stravolge una lotta” (il 6 dicembre all’Università Roma Tre), il sionismo politico, quello sorto alla fine dell’800 «abbastanza ex abrupto», non sotto la spinta di un’autonoma esigenza ampiamente avvertita ma «nella testa di un uomo solo, Theodor Herzl», è finito da un pezzo; è un mito irrimediabilmente estinto.
Quel sionismo era sorto a Parigi, dove Herzl si era trovato nel pieno di una furibonda campagna antiebraica scatenatasi a seguito dell’affaire Dreyfus. L’accusa di spionaggio in favore dei tedeschi nel corso della guerra franco-prussiana, rivelatasi poi falsa, mossa ad un ufficiale ebreo, l’alsaziano Alfred Dreyfus, aveva provocato il divampare di un parossismo antiebraico che nella furia di risolvere la questione degli “ebrei infidi” giunse a ventilare di eliminarne un terzo e di convertirne un altro terzo forzosamente. Per di più, al tradizionale antigiudaismo di matrice cristiano-cattolica, stava subentrando un antisemitismo razzista e con pretese scientifiche, che dichiarava l’ebreo corpo estraneo alla nazione.
Di fronte alla novità di un antisemitismo su base razziale, Herzl, secondo Ovadia, «cadde nella trappola del nazionalismo» e propose di fare come la cultura del tempo suggeriva: anche noi ebrei facciamo una nazione. Il sionismo nacque dunque come «risposta disperata e parzialmente non lungimirante» ad una forsennata ondata di antisemitismo. Ma nacque laico, senza riferimento alcuno al mito della terra promessa. Tant’è che per il movimento sionista non era la Palestina la terra destinata ad accogliere gli ebrei. Lo divenne solo nel 1917 con la Dichiarazione Balfour, quella del ministro degli Esteri dell’Impero Britannico che, secondo la logica colonialista imperante, informò gli esponenti sionisti che il governo inglese vedeva con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, senza pregiudizio, beninteso, per i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche presenti in Palestina, né per i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni. Ancorché non ricalcasse le forme del colonialismo il sionismo, avendo trovato nella Dichiarazione di Balfour la propria legittimazione, assunse inevitabili connotazioni coloniali. E rimase laico, sicché l’augurio pasquale che gli ebrei si scambiano da duemila anni, «l’anno prossimo a Gerusalemme», poté continuare ad esprimere solo una mera tensione spirituale, un legame con il passato, non una proiezione verso il futuro.
Quel sionismo dopo la guerra del Kippur del 1973 è andato scomparendo. Muore - sostiene Ovadia - intorno al 1976, sostituito ormai da un ultranazionalismo furioso, con forti declinazioni di fanatismo religioso, che sfocia nel fascismo.
Il sionismo con evidenti connotazione di socialismo, così ben considerato dalle sinistre europee che per questo non si avvidero subito del dramma palestinese, aveva due componenti essenziali: l’obiettivo di dare una terra agli ebrei - e dopo Balfour di portare gli ebrei in Palestina - e la promessa che in quella terra tutti, senza discriminazioni, potessero vivere con pari dignità e libertà, come proclama la stessa Dichiarazione del 1948, fondativa dello stato di Israele. Promessa poi tradita: in Israele oggi c’è l’apartheid, ci sono cittadini di serie a, b e c, anche tra gli ebrei.
Non avrebbe senso perciò, secondo Ovadia, continuare a parlare di sionismo ed antisionismo, se non fosse che, come potente arma di propaganda, è sorta l’equazione antisioni-smo=antisemitismo. Che si accoppia con un’altra arma anche più micidiale, l’israelizzazione della Shoah, costituendo con essa un prisma malato che rifrange in maniera strumentale e distorta le idee, impedendo a monte l’ordine del discorso. E questo, afferma Ovadia, sta uccidendo l’ebraismo che nasce dall’indagine del pensiero, dal confronto tra i maestri. Dov’è finita - chiede Ovadia - la grande sapienza, dove sono andati lo sguardo ampio e lo spessore del pensiero che hanno sostenuto il contributo che la cultura ebraica ha dato alla civiltà?
È riapparso così in tutta la sua gravità il problema della distorsione del linguaggio su cui aveva riflettuto Francesca Koch introducendo la tavola rotonda: fornire «una serie infinita di false rappresentazioni» della realtà che hanno buon gioco essendo «mancata dopo la Nakba una seria riflessione politica, come è mancata una riflessione sul ruolo della democrazia nell’evoluzione della società». False rappresentazioni che costituiscono la condizione perché, da parte israeliana, si possa negare persino l’esistenza del popolo palestinese e gestire la questione palestinese semplicemente sul piano militare e, da parte degli altri Paesi, ci si possa limitare a fronteggiarla sul terreno degli aiuti umanitari.
La politica israeliana, ha affermato Giacomo Marramao, non va solo contro i palestinesi ma contro gli stessi ebrei, in particolare quelli della diaspora. La loro è un’identità in viaggio, che viene quotidianamente contraddetta dalla politica colonialista israeliana. Di fronte alla condotta di Israele molti intellettuali della diaspora si rifiutano al confronto, si chiamano fuori dal campo della discussione. Chi non lo fa viene zittito, come vengono censurati i molti intellettuali israeliani che criticano gli indirizzi del loro governo. Ma questo distrugge la cultura ebraica, perché in essa è centrale la figura dello straniero, tanto da poter far dire che ebreo è colui che sa di essere straniero allo straniero. Non si tratta solo di rispettare e di accogliere l’altro; la relazione con l’altro è costitutiva dell’identità ebraica, ne è l’essenza, come lo sono la precarietà e l’instabilità. La differenza tra Gerusalemme ed Atene sta in questo: Gerusalemme, sull’esempio di Abramo, è alla ricerca incessante dell’identità, peregrinando di luogo in luogo, senza mai poter dire questo luogo è definitivo, è mio. Se per i greci il concetto di popolo era collegato al radicamento sul territorio, per gli ebrei è collegato all’esodo: all’idea di terra è sostituita l’idea del viaggio, alla fissità delle radici la dinamicità della storia. Ciò riecheggia anche in Jeshua di Nazareth quando dice di essere «la via, la verità e la vita», suggerendo che la verità e la vita si costruiscono per via e sono strada l’una all’altra. Insomma solo sul recupero dell’autenticità dell’ebraismo e sulla prospettiva dell’affratellamento di due popoli ambedue perseguitati può fondarsi la possibilità di salvezza per lo stesso Israele, perché, come la storia insegna, uno Stato, un popolo, una nazione che si chiudano in una fortezza in preda alla sindrome dell’assedio, come la Germania di Hitler, preparano la propria rovina.
A proposito dell’affratellamento tra i due popoli, Giovanni Franzoni ha confessato di nutrire un sogno, e cioè che proprio da Gaza, dove l’umanità è tanto fortemente provata, possa nascere, come un fiore da un marciume, una realtà geopolitica innovativa ed inedita che renda possibile la “confidenza” tra le persone, ovvero una reciproca totale fiducia. Perché il sogno si avveri bisognerebbe però battere l’antisemitismo dove è praticato, cioè da e in Israele. È ben noto infatti che gli arabi sono semiti, e dunque quella israeliana che discrimina e perseguita gli arabi è una politica antisemita, come è una pratica antisemita la discriminazione che Israele compie anche tra gli stessi ebrei, selezionando la propria dirigenza in grandissima prevalenza tra gli ashkenaziti, venuti in maggioranza dal continente europeo, mentre relega in secondo piano i sefarditi. I quali risiedono da secoli in Palestina dove, scacciati dalla Spagna della cattolicissima regina Isabella, non avevano trovato soltanto ospitalità, ma realizzato una convivenza pacifica e reciprocamente proficua con gli arabi. Un’esperienza multisecolare che attesta come l’affratellamento degli arabi e degli ebrei non sia necessariamente destinato a restare sogno irraggiungibile e come nell’ebraismo ci sia la capacità di convivere e di confrontarsi con punti di vista diversi. Capacità distrutta dall’avvento di uno Stato nazionalista che si è impadronito di alcuni vocaboli facendone un linguaggio che ne altera il senso. Restituire loro il significato autentico è il primo passo per ricostruire la giustizia nel Medio Oriente.
E se qualcuno auspica che ebrei ed arabi imparino a dialogare, Franzoni, ricordando che il dialogo è un discorso tra punti di vista diversi (dià in greco significa tra) nel quale ciascuno sostiene le proprie ragioni rimanendo il più delle volte fermo su di esse, invoca il colloquio. Colloquiare vuol dire parlare insieme, ragionare con, scambiarsi le opinioni, arricchirsi reciprocamente del pensiero dell’altro.
A ripensarci la tavola rotonda è stato appunto un colloquio che è riuscito, intrecciandole, a recuperare il significato profondo di tre parole: sionismo, ebraismo, antisemitismo. Un primo, piccolissimo passo verso il sogno? Chissà.
* CdB di San Paolo e Rete romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese
Perché lascio la «mia» comunità ebraica
di Moni Ovadia (il manifesto, 8 novembre 2013)
Lunedì scorso tramite un’intervista chiestami dal Fatto Quotidiano, ho dato notizia della mia decisione definitiva di uscire dalla comunità ebraica di Milano, di cui facevo parte, oramai solo virtualmente, ed esclusivamente per il rispetto dovuto alla memoria dei miei genitori. A seguito di questa intervista il manifesto mi ha invitato a riflettere e ad approfondire le ragioni e il senso del mio gesto, invito che ho accolto con estremo piacere. Premetto che io tengo molto alla mia identità di ebreo pur essendo agnostico.
Ci tengo, sia chiaro, per come la vedo e la sento io. La mia visione ovviamente non impegna nessun altro essere umano, ebreo o non ebreo che sia, se non in base a consonanze e risonanze per sua libera scelta. Sono molteplici le ragioni che mi legano a questa «appartenenza».
Una delle più importanti è lo splendore paradossale che caratterizza l’ebraismo: la fondazione dell’universalismo e dell’umanesimo monoteista - prima radice dirompente dell’umanesimo tout court - attraverso un particolarismo geniale che si esprime in una "elezione" dal basso. Il concetto di popolo eletto è uno dei più equivocati e fraintesi di tutta la storia.
Chi sono dunque gli ebrei e perché vengono eletti? Il grande rabbino Chaim Potok, direttore del Jewish Seminar di New York, nel suo «Storia degli ebrei» li descrive grosso modo così : «Erano una massa terrorizzata e piagnucolosa di asiatici sbandati. Ed erano: Israeliti discendenti di Giacobbe, Accadi, Ittiti, transfughi Egizi e molti habiru, parola di derivazione accadica che indica i briganti vagabondi a vario titolo: ribelli, sovversivi, ladri, ruffiani, contrabbandieri. Ma soprattutto gli ebrei erano schiavi e stranieri, la schiuma della terra». Il divino che incontrano si dichiara Dio dello schiavo e dello Straniero. E, inevitabilmente, legittimandosi dal basso non può che essere il Dio della fratellanza universale e dell’uguaglianza.
Non si dimentichi mai che il «comandamento più ripetuto nella Torah sarà: Amerai lo straniero! Ricordati che fosti straniero in terra d’Egitto! Io sono il Signore!» L’amore per lo straniero è fondativo dell’Ethos ebraico. Questo «mucchio selvaggio» segue un profeta balbuziente, un vecchio di ottant’anni che ha fatto per sessant’anni il pastore, mestiere da donne e da bambini. Lo segue verso la libertà e verso un’elezione dal basso che fa dell’ultimo, dell’infimo, l’eletto - avanguardia di un processo di liberazione/redenzione.
Ritroveremo la stessa prospettiva nell’ebreo Gesù: «Beati gli ultimi che saranno i primi» e nell’ebreo Marx: «La classe operaia, gli ultimi della scala sociale, con la sua lotta riscatterà l’umanità tutta dallo sfruttamento e dall’alienazione».
Il popolo di Mosé fu inoltre una minoranza. Solo il venti per cento degli ebrei intrapresero il progetto, la stragrande maggioranza preferì la dura ma rassicurante certezza della schiavitù all’aspra e difficile vertigine della libertà.
Dalla rivoluzionaria impresa di questi meticci «dalla dura cervice», scaturì un orizzonte inaudito che fu certamente anche un’istanza di fede e di religione, ma fu soprattutto una sconvolgente idea di società e di umanità fondata sulla giustizia sociale.
Lo possiamo ascoltare nelle parole infiammate del profeta Isaia. Il profeta mette la sua voce e la sua indignazione al servizio del Santo Benedetto che è il vero latore del messaggio: «Che mi importa dei vostri sacrifici senza numero, sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso dei giovenchi. Il sangue di tori, di capri e di agnelli Io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i Miei Atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio, noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io li detesto, sono per me un peso sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, Io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, Io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova».( Isaia I, cap 1 vv 11- 17). Il messaggio è inequivocabile. Il divino rifiuta la religione dei baciapile e chiede la giustizia sociale, la lotta a fianco dell’oppresso, la difesa dei diritti dei deboli. Un corto circuito della sensibilità fa sì che molti ebrei leggano e non ascoltino, guardino e non vedano. Per questo malfunzionamento delle sinapsi della giustizia, i palestinesi non vengono percepiti come oppressi, i loro diritti come sacrosanti, la loro oppressione innegabile.
Qual’è il guasto che ha creato il corto circuito. Uno smottamento del senso che ha provocato la sostituzione del fine con il mezzo. La creazione di uno Stato ebraico non è stato più pensato come un modo per dare vita ad un modello di società giusta per tutti, per se stessi e per i vicini, ma un mezzo per l’affermazione con la forza di un nazionalismo idolatrico nutrito dalla mistica della terra, sì che molti ebrei, in Israele stesso e nella diaspora, progressivamente hanno messo lo Stato d’ Israele al posto della Torah e lo Stato d’Israele, per essi, ha cessato di essere l’entità legittimata dal diritto il internazionale, nelle giuste condizioni di sicurezza, che ha il suo confine nella Green Line, ed è diventato sempre più la Grande Israele, legittimata dal fanatismo religioso e dai governi della destra più aggressiva. Essi si pretendono depositari di una ragione a priori.
Per questi ebrei, diversi dei quali alla testa delle istituzioni comunitarie, il buon ebreo deve attenersi allo slogan: un popolo, una terra, un governo, in tedesco suona: ein Folk, ein Reich, ein Land. Sinistro non è vero? Questi ebrei proclamano ad ogni piè sospinto che Israele è l’unico Stato democratico in Medio Oriente. Ma se qualcuno si azzarda a criticare con fermezza democratica la scellerata politica di estensione delle colonizzazioni, lo linciano con accuse infamanti e criminogene e lo ostracizzano come si fa nelle peggiori dittature.
Ecco perché posso con disinvoltura lasciare una comunità ebraica che si è ridotta a questo livello di indegnità, ma non posso rinunciare a battermi con tutte le mie forze per i valori più sacrali dell’ebraismo che sono poi i valori universali dell’uomo.
Lascio la Comunità ebraica, fa propaganda a Israele
intervista a Moni Ovadia
a cura di Silvia Truzzi (il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2013)
Diceva don Primo Mazzolari che “la libertà è l’aria della religione”. Non era ebreo, come non lo era George Orwell che in appendice alla Fattoria degli animali scrive: “Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire”. L’eco di queste frasi si sente entrando nella casa di Moni Ovadia a Milano. Per dar seguito al nome pacifista, il cane Gandhi si accomoda sul divano insieme a un paio di gatti; il caffè bolle, l’attore con il capo coperto racconta la storia del festival promosso dalla comunità ebraica che si è svolto alla fine di settembre a Milano, Jewish and the city. “Qualcuno, durante una riunione tra gli organizzatori ha posto il veto alla mia presenza. E gli altri hanno ceduto”.
Perché?
Per le mie posizioni critiche nei confronti del governo Netanyahu. Le violazioni del diritto internazionale, mi riferisco all’occupazione e alla colonizzazione dei territori palestinesi, durano da oltre cinquant’anni. Ho imparato dai profeti d’Israele che bisogna essere al fianco dell’oppresso. Io esprimo opinioni, non sono depositario di nessuna verità. Penso però che questa situazione sia tossica. Per i palestinesi, che sono le vittime, ma anche per gli israeliani: non c’è niente di più degradante che fare lo sbirro a un altro popolo. Aggiungo però che io m’informo esclusivamente da fonti israeliane. Non palestinesi: gli ultrà palestinesi sono i peggiori nemici della loro causa. Apprezzo molto due giornalisti israeliani di Haaretz, Gideon Levy e Amira Hass. Quello che dico io, rispetto a quello che scrivono loro, è moderato. Bene: vivono in Israele, scrivono su un quotidiano israeliano, sono letti da cittadini israeliani e pubblicati da un editore israeliano.
È iscritto alla Comunità ebraica di Milano?
Sì, per rispetto dei miei genitori. Ma ho deciso di andarmene. Io non voglio più stare in un posto che si chiama comunità ebraica ma è l’ufficio propaganda di un governo. Sono contro quelli che vogliono “israelianizzare” l’ebraismo. Ho deciso di lasciare, come ha fatto Gad Lerner a causa della mancata presa di posizione dei vertici milanesi dopo l’uscita di Berlusconi al binario 21, nel Giorno della Memoria.
Dicono che le sue critiche a Israele nascono dal desiderio di avere consensi, successo, denaro.
Ma oggi chi è a favore della causa palestinese? La sinistra? Nemmeno più Vendola lo è! E allora dove sarebbe il grande pubblico che mi conquisto? Più ho radicalizzato le mie critiche, più il mio lavoro è diminuito, mi riferisco agli ingaggi e non al pubblico. Il teatro è per tutti, il teatrante è un cittadino e come tale ha diritto alle sue idee.
Lei non è abbastanza “carino”?
Per niente, ma non si parla di cose carine. Il comportamento della comunità internazionale nei confronti del popolo palestinese è semplicemente schifoso. Nel 2000 intervistai per il Corriere della Sera un colonnello della Golani, le teste di cuoio d’Israele. Mi disse: “Se tu hai un bazooka in mezzo ai denti e un mitragliatore tra le chiappe, ci sono almeno due modi per uscirne”. Da militare m’insegnò che se si vuole fare la pace, si riesce. Se io dicessi che il governo Netanyahu è un po’ birichino, ma non così tanto, diventerei immediatamente il più grande artista ebreo italiano. Invece offendono i miei spettacoli.
È vero che riceve minacce?
Appena scrivo qualcosa, sul mio sito arriva di tutto: minacce, insulti, parolacce. I termini sono sempre “rinnegato”, “traditore”, “nemico del popolo ebraico”. Ho criticato l’episodio del bimbo palestinese di cinque anni che aveva lanciato una pietra ed era stato portato via da undici militari israeliani. Mi hanno scritto: “Avesse potuto quella pietra arrivare sul tuo cervello marcio”. Questi sono i termini, mai risposte nel merito. Mia moglie, che gestisce la mia pagina Facebook, spesso non me li fa leggere, li cancella e basta.
Sono ebrei quelli che la insultano?
La gran parte sì.
Aver subito la discriminazione non è servito a nulla?
Si, ma paradossalmente questo ha un aspetto positivo. Significa che gli ebrei sono come tutti gli altri. Si trovano in una condizione in cui il nazionalismo è a portata di mano? Diventano i peggiori nazionalisti, malgrado la Torah condanni l’idolatria della terra. L’ebraismo è una cosa, lo Stato d’Israele un’altra. Qualcuno ha sostituito la Torah con Israele. Il buon ebreo, dunque, non è quello che segue la Torah, ma quello che sostiene Tel Aviv. I sinceri democratici - tipo La Russa - sono amici d’Israele. E non importa se fino a poco tempo fa facevano il saluto romano inneggiando a quelli che hanno sterminato la nostra gente.
Dell’affaire Vauro cosa pensa?
La vignetta su Fiamma Nirenstein prendeva in giro la disinvoltura con cui una donna, appassionatissima della causa israeliana, può sedere in Parlamento accanto a uno come Ciarrapico, che non ha mai smesso di dirsi fascista. Ha fatto benissimo Vauro a querelare chi gli dava dell’antisemita. Non solo perché ha vinto in due gradi di giudizio, ma perché l’accusa di antisemitismo è troppo grave per usarla a sproposito.
Lei cosa chiede?
Vorrei essere criticato - non calunniato o insultato - ma rispettato. Vorrei semplicemente avere il diritto di dire la mia opinione e potermi confrontare.
Antisemitismo. Fatti e opinioni
di Moni Ovadia (l’Unità, 24 novembre 2012)
Il lettore di questo giornale sa che sono un suo collaboratore con una rubrica settimanale e con qualche altra rapsodica «incursione» che mi viene richiesta di tanto in tanto. Spesso approfitto dello spazio concessomi per scrivere di Medioriente e specificamente di conflitto israelo-palestinese (fatto).
Ogni volta che, sulla dolorosa questione, esprimo le mie idee strettamente personali e, ribadisco «strettamente personali» perché non rappresento nessuno, piovono contro di me le accuse di ebreo antisemita, nemico del popolo ebraico o traditore (opinioni). Questo avviene tramite mail, post e dichiarazioni su vari blog e siti inviatimi da fanatici, farabutti o sbroccati di varia risma (opinione). Alcune persone, sia amici che detrattori, ritengono che ciò che dico e penso, anche a causa della passione partecipante con cui mi esprimo, abbia un’influenza rilevante a causa della mia notorietà e che quindi dovrei essere cauto (opinione).
Io sostengo invece che ogni essere umano, in democrazia, sia libero di esprimere come meglio crede le sue idee (opinione) e se coloro che non le condividono o vi si oppongono ravvisano nei suoi discorsi i reati di istigazione all’odio o al razzismo, possono rivolgersi all’Autorità giudiziaria per denunciarlo (fatto) in luogo di spargere vigliaccamente ripugnanti accuse protetti dalla libertà della rete (fatto).
Sono ebreo e, a mio modo, ho dedicato trent’anni e più della mia vita professionale e di studio, alla cultura ebraica della Diaspora in particolare quella yiddish (fatto). Ho contribuito alla diffusione dei suoi valori e della sua espressività nel mio Paese (fatto).
Antisemitismo è sottocultura dell’odio e della violenza contro gli ebrei (fatto) ed io ho sempre combattuto con tutte le mie forze quest’ideologia criminale come ebreo e come essere umano (fatto).
Ho invece criticato aspramente le politiche di molti governi israeliani (fatto). Esponenti istituzionali e della destra e dell’estrema destra e loro sostenitori in Israele e nella Diaspora, sostengono che chi professa posizioni politiche radicalmente avverse alla loro, sia antisemita tout court (opinione). Io penso invece che costoro siano fanatici, affetti da cortocircuiti psicopatologici o, peggio, siano dei fascisti (opinione).
Non ho mai messo in discussione il diritto di Israele all’esistenza, né la sua piena legittimità (fatto), in primis perché la proclamazione e la nascita dello Stato di Israele è stata sancita a grande maggioranza da una risoluzione dell’Onu (fatto) e io credo al valore della legalità internazionale pur riconoscendo gli enormi limiti che limitano l’efficacia dell’azione degli organismi preposti alla sua tutela (opinione). Altresì condivido l’assioma che non possa essere messo in discussione l’inviolabile diritto a tutelare la sicurezza dei propri cittadini per ogni nazione, nessuna esclusa (fatto).
Nethanyahu, Lieberman e i loro ultras invece praticano il credo che al governo israeliano sia sempre e comunque consentito violare il diritto internazionale (fatto). Condannano giustamente il lancio di razzi da parte di Hamas sulle città israeliane (fatto) e gli attentati terroristici (fatto), ma hanno trovato giusto blindare Gaza come in una gabbia con un blocco totale, compreso quello navale, glissando sulle convenzioni che considerano l’assedio un atto di guerra (fatto).
Praticano l’occupazione e la colonizzazione di terre dei palestinesi con ininterrotto accanimento (fatto), li espropriano dalle loro case a migliaia o le demoliscono (fatto), li cacciano dalle loro terre e gliele rubano (fatto), razionano loro l’acqua (fatto), praticano durante le operazioni militari stragi di civili e punizioni collettive che rendono un inferno la vita della popolazione inerme, in particolare quella dei bimbi (fatto), hanno instaurato un apartheid de facto e promuovono l’ «ebraizzazione» di Gerusalemme con continue requisizioni (fatto).
Questi sedicenti democratici promuovono, senza se e senza ma, questi abusi e criminalizzano chi li condanna con l’infamante calunnia di antisemita (opinione). Ma se stare dalla parte degli oppressi, dei discriminati, dei segregati, chiunque essi siano e chiunque sia l’oppressore è antisemitismo, allora sì, lo confesso, sono un ebreo antisemita (opinione e fatto).
Ovadia: bene hanno fatto a contestare Pacifici
di Paola Zanca (il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2010)
“Fosse per me farei una Comunità degli ebrei italiani democratici”. Il giorno dopo le dimissioni in blocco dei consiglieri di minoranza della Comunità ebraica romana, Moni Ovadia festeggia: “Sia lode a loro, non aspettavo altro”. Può sembrare una questione da addetti ai lavori, ma dietro lo scontro che si sta consumando tra gli ebrei romani, c’è una chiave di lettura interessante per leggere i rapporti tra politica e religione. Sia chiaro, i motivi che hanno spinto gli undici consiglieri eletti nella lista “Per i giovani insieme” a mettersi di traverso alla gestione del presidente Riccardo Pacifici non sono solo politici. C’è a chi - come Roberto Coen, il primo ad andarsene - non è andata giù la visita del Pontefice in Sinagoga, nel gennaio scorso. Qualcun’altro non può più sopportare di “ratificare decisioni prese in altre sedi, di solito nella stanza del presidente”.
Altri ancora sono atterriti dal vedere trasformata la Consulta in “uno strumento per organizzare riunioni politiche col sindaco in Campidoglio, invitare a conferenze del presidente della Camera, organizzare manifestazioni a cui intervengono e fanno passerella i politici e non solo”. Insomma, la Comunità ebraica romana - almeno una minoranza - è stanca di fare da “lavatrice per molti politici dalle frequentazioni impresentabili”. Anche ai cattolici il Papa chiede di essere “intransigenti con il peccato”, ma “indulgenti con le persone”, si dirà. Ma va detto che, con la destra al potere e la quantità di soggetti in cerca di patenti da antifascista, il gioco è ancora più facile.
Nei
mesi scorsi, decine di famiglie si sono cancellate dalla Comunità ebraica romana. Ora i consiglieri
si sono dimessi, e l’aria che tira, per la gioia di Moni Ovadia, è quella di fare armi e bagagli e
fondare un’altra comunità. Gad Lerner, par di capire, non la vedrebbe di cattivo occhio: “Condivido
spiega - il percorso di Victor Magiar e Claudia Fellus (anche loro usciti dal Consiglio, ndr) e la
loro concezione del ruolo che l’ebraismo può avere in Italia”. Di tutt’altra partita la deputata Pdl
Fiamma Nirenstein: “Sono stupefatta - dice - delle accuse che gli vengono rivolte. Riccardo
Pacifici è una persona di grande generosità e sincerità nel suo lavoro”. “È un po’ che dovevano
svegliarsi, meglio tardi che mai”, insiste invece Moni Ovadia. “Da tempo sono disinteressato alle
questioni che riguardano le Comunità ebraiche, ma sono sempre stato convinto che Riccardo
Pacifici, se non fosse ebreo, sarebbe in un partito di destra. Ma il problema non sono tanto i partiti -
prosegue Ovadia - è che le Comunità sono disposte a svendere qualsiasi cosa pur di andar dietro a
chi fa le moine al governo israeliano. Hanno accettato una legge di stampo nazista sugli immigrati,
non dicono quasi nulla sulla discriminazione dei nostri fratelli rom. C’è un ex-fascista che vuole la
‘photo opportunity’? E loro stendono i tappeti. Poi questi stessi politici li vedi che vanno ad
Auschiwitz, escono dai cancelli e dicono ‘Mi sento israeliano’. Perchè non ebreo? Perchè non sinti,
non rom, non slavo, non testimone di Geova? È una bizzarra dichiarazione. Il ruolo delle Comunità
ebraiche oggi - sostiene Ovadia - è tutto in subordine alle politiche del governo di Israele. Non
vedo vivacità, non riconosco la linea vibrante e rivoluzionaria dell’ebraismo. Vedo solo pavida
autoconservazione, senza nessun afflato morale. Ma l’ebraismo è uno schianto, non è una lagna.
Invece qui basta dire che le 1600 case che Netanyahu vuole costruire a Gerusalemme est sono uno
schifo per sentirsi dare dell’antisemita”.
Ovadia e la Terra del Santo
L’attore Moni Ovadia ha rilasciato un’interessante intervista a "Terrasanta sulla situazione in Medio Oriente. Ve la offriamo.
di MARCO TOSATTI ( La Stampa, 1/2/2010
Cos’è per Moni Ovadia la Terra Santa?
Cominciamo con il dire che io preferisco a Terra Santa il termine «Terra di santità» o «Terra del Santo». È una terra la cui destinazione è di costruire santità. Il Santo Benedetto dice infatti nella Bibbia: «Sarete santi perché io sono santo». Costruire santità significa allora perseguire l’imitatio Dei, evitando di cadere nella luciferina tentazione della substitutio Dei; infatti esiste sempre la tentazione di dire: so io quello che dice Dio! Invece la verità appartiene solo a Dio, se Dio esiste. La terra dunque non è di per sé santa. Il problema semmai è come perseguire la santità. Secondo me è ben espresso nel Levitico, quando viene annunciato il Giubileo ebraico. Qui, il Santo Benedetto dice una delle frasi che io preferisco: egli dice infatti che la terra è sua e non è degli uomini.
E questo cosa comporta?
È come dire che chi vuole vivere in Terra Santa deve sapere che è ospite, e comportarsi da ospite, non da padrone. Qualcuno invero sostiene che la Terra sia stata donata; ma se fosse stata donata, perché il Santo Benedetto dovrebbe ripetere continuamente, la terra è mia? Io non credo che sia donata nel senso che tu ne sei proprietario, perché nel Levitico è detto: la terra non verrà venduta in perpetuità. In effetti il Giubileo ebraico prevedeva che tutti gli incrementi di terra ottenuti attraverso le dinamiche del mercato, venissero azzerati ogni 50 anni. La terra veniva riassegnata, era una sorta di «rivoluzione permanente», come diceva un noto rabbino anarchico. Incrementare la terra può produrre ricchezza; ma bisogna sapere che dopo 50 anni tutto ritorna secondo l’equilibrio originario.
Ad un certo punto nell’annuncio del Giubileo è detto: «Tu abiterai in questa terra come Gher Toshav», che può essere tradotto come «residente soggiornante»; ma la parola gher è anche la parola che la lingua santa usa per «straniero». Quindi tu, ebreo, devi vivere in quella terra come «straniero soggiornante». Allora, forzando un po’ il testo, la dignità di risiedere te la dà il fatto di essere straniero. Quindi dovresti vivere da straniero in quella terra. Il comandamento più ripetuto nella Torah è: ama lo straniero come te stesso, ricordati che fosti straniero in terra d’Egitto. Alla fine dell’annuncio poi si dice: voi davanti a me, dice il Santo Benedetto, siete tutti stranieri soggiornanti. Allora si potrebbe concludere che la terra è santa se tu ci vivi da straniero tra gli stranieri.
Quali segni di speranza si possono vedere oggi in Terra Santa?
Israele è un Paese democratico, anche se a volte si comporta nei confronti dei palestinesi non democraticamente. Però per osmosi i palestinesi imparano molte cose. Infatti diventano sempre più scomodi per il mondo arabo. E io credo che l’evoluzione non possa che andare in questo senso. Israele ha due alternative se non vuole finire in un vero e proprio apartheid: o riconosce la soluzione due popoli e due Stati, secondo gli accordi di Ginevra, con il confine posto sulla Linea verde, con Gerusalemme capitale dei due Stati, e un’equa compensazione dei profughi; oppure, come ha affermato lo stesso Ehud Olmert, ex primo ministro israeliano, sarà la fine per Israele.
Purtroppo nella società civile israeliana c’è una patologia: quella di credere che i servizi segreti possano risolvere ogni problema. Qualcuno giustamente, ha detto invece: è meglio che ci diamo una regolata: viviamo in un mare di arabi e in un oceano di musulmani... Se si vuole ricreare il ghetto, sarà un ghetto armato e blindato ma davvero un triste posto. Noi aspettiamo che diventi invece una terra di santità. Ma sarà possibile solo attraverso la pace e la giustizia, perché pace e giustizia sono sinonimi.
Il diritto all’esistenza
di Moni Ovadia (L’Unità, 16.06.2007)
La distorsione e la manipolazione delle parole e del pensiero altrui sono un vecchio sport a cui si dedica chi non è in grado di misurarsi criticamente con opinioni diverse dalle sue. E, a volte, questo sport assume i connotati di vera e propria possessione. Giorni fa un conoscente israeliano mi ha telefonato per chiedermi se io avessi dichiarato nel corso di un dibattito radiofonico che non avrei mai detto: «viva Israele», intendendo che io rifiutassi di augurare vita allo Stato d’Israele e alla sua gente. Sono rimasto interdetto e gli ho risposto che ciò che gli avevano riferito era una solenne idiozia.
Uno dei tanti “invasati per Israele”, un Hezbollah del “sionismo” aveva distorto il senso di una mia affermazione nel corso di un pacato e civile dibattito sul libro di Magdi Allam «viva Israele!» a cui ho partecipato insieme all’autore e a Fuad Allam, deputato dell’Ulivo, sociologo del mondo arabo e corsivista de la Repubblica. In quell’occasione dissi che non avrei scritto un libro simile, perché sostiene tesi sbilanciate che non condivido e perché quel titolo da tifo sportivo o da ideologia politica che rimanda ad altri tempi, non favorisce il dialogo e la pace. Non mi sono mai sognato di mettere in discussione il diritto di Israele all’esistenza e alla piena sicurezza, né di augurare del male a quel Paese e alla sua gente non solo per ragioni personali e affettive, ma anche e soprattutto per ragioni attinenti al diritto internazionale che si chiamano diritto all’autodeterminazione dei popoli e legalità internazionale ossia le risoluzioni dell’Onu.
Mi batterei con tutte le forze per impedire la distruzione di Israele come quella di qualsiasi altro popolo e Paese. Ma agli Hezbollah dell’ “ebraismo” non importa di quali siano le vere opinioni di coloro che criticano la politica dei governi israeliani in merito all’occupazione e la colonizzazione e denunciano l’immane tragedia del popolo palestinese. Costoro non vogliono discutere, hanno già deciso che quelli come me sono antisemiti, ebrei che odiano se stessi, seminatori di odio. I giudici autonominatisi del bene d’Israele in realtà, quando non sono agiti da turbe della sfera emotiva, sono esimi esponenti di una mentalità fascista o stalinista che considera i critici e gli avversari orridi nemici da estirpare.
Oggi comunque il problema è che se c’è una identità che rischia un cancellazione reale questa è quella palestinese. Ci si sono messi in tanti a congiurare perché i palestinesi arrivassero sull’orlo dell’abisso: molti dei governi israeliani come quello attuale, con politiche miranti a mantenere lo status quo dell’occupazione, con lo stillicidio della colonizzazione, con l’umiliazione sistematica di Abu Mazen celebrato come interlocutore affidabile solo per raggirarlo meglio, con la pratica degli omicidi mirati il cui esito è stato quello di fomentare de facto la conflittualità fra le fazioni palestinesi. Non pochi dei governi arabi che hanno avvolto in un polverone di retorica e strombazzamenti bellicosi la finta solidarietà, maschera di un boicottaggio, ovvero nessun vero atto politico per dare futuro ad uno Stato palestinese laico democratico.
E, last but not least, il teatrino dell’imbelle e ipocrita comunità internazionale, a partire dagli Usa con gli chiffon de papier della sua penosa road map, per finire con la Ue che tradisce l’esemplare lezione di democrazia delle libere e corrette elezioni palestinesi con una punizione che lungi da indebolire l’ala militare di Hamas l’ha resa sempre più forte, togliendo ogni legittimità al democratico Abu Mazen e vessando ulteriormente i già vessati cittadini più poveri ed indifesi dei Territori.
Esiste ovviamente anche una responsabilità dei palestinesi. In un simile contesto i peggiori e i più violenti esponenti di ciascuna fazione hanno preso il sopravvento contro il proprio infelice popolo. Probabilmente gli Hezbollah del “sionismo” gioiranno nel vedere che i palestinesi si fottono da soli. Ma se si illudono che da questo vergognoso scenario uscirà un rafforzamento della sicurezza di Israele o sono privi di senno o ci fanno. La sicurezza autentica non germina dalla prevaricazione immorale, la sicurezza e la dignità dell’esistenza si riverberano solo nella sicurezza e nella dignità dell’altro. Malatempora
RIVELAZIONE E RIVOLUZIONE L’umorismo nell’utopia Recensione al libro di Moni Ovadia, Lavoratori di tutto il mondo ridete, Einaudi, Torino 2007
di LAURA TUSSI
“Utopia” è il termine che sottende la negazione di un’ubilocazione, di un dove concreto nel crollo delle ideologie, in quanto in “nessun luogo” si è realizzato il vangelo di Marx nel corso della historia universale. Una fede profonda nell’ironia delle “storielle” che riecheggia con esilarante sagacia, in un tripudio umoristico declinato in frizzi, lazzi, motti e citazioni sul Regime. Le storielle ebraiche traggono origine dall’ermeneutica talmudica in una weltanschauung umanistica dove l’utopia smarrisce i propri sogni e le promesse tanto da non riconoscere le esacerbate finzioni delatorie del dispotismo di regime. Il significato dell’utopia è l’instaurazione di una società ideale di libertà, fratellanza, giustizia e uguaglianza. L’uomo è complesso nella potenzialità della realizzazione di alti ideali con i valori della negazione di prevaricazione sul proprio simile, della giustizia sociale, dell’altruismo, dell’accettazione dell’altro e del diverso, dell’amore, della solidarietà, sentimenti non scontati nelle relazioni fra individui. Dunque non è lecito considerarli irrealizzabili e utopici nei rapporti fra soggetto e collettività. “Neanche l’URSS fu l’impero del male”, ma una federazione di repubbliche dell’epoca staliniana sotto l’egida di un totalitarismo perfetto, con tristissime note di drammaticità e terrore. La storia non è finita e la società socialista dovrà ancora realizzarsi nella libertà e nella democrazia, in un’utopia verificabile e immanente non riscontrabile in “nessun luogo”, ma che pervaderà l’intera globalità collettiva della società mondiale all’insegna del comunismo in un umanitarismo sociale che si contrapporrà ai simulacri del bieco capitalismo e delle dittature del novecento. Ogni rivelazione si tradurrà in rivoluzione rigenerante e rifondatrice di topofanie (rivelazioni di luoghi della memoria) contrapposte alle utopie, dove ogni manifestazione dei luoghi di benessere sociale e civile è realizzazione di società solidali e umanistiche, quali luoghi di un’olotopia, una nuova globalizzazione mondiale all’insegna di ideali e valori umanistici e umanitari, dove le rivelazioni del “bene sommo” trionferanno sui ciarpami di sistemi politici esacerbati in dispotismi conservatori. Le storielle dell’umorismo ebraico svelano con l’ironia le ottusità del regime dittatoriale del periodo staliniano, facendo crollare tabù e pregiudizi di un periodo oscurantista tramite l’umorismo ironico che fa partorire i fantasmi dalla mente di un sistema destinato al collasso, in plurime e poliedriche catarsi ermeneutiche di significato ironico sul senso dell’esistere.
LAURA TUSSI
Le parole di Grossman e il coraggio della pace
di Moni Ovadia *
Ho aderito alla manifestazione per la pace che si terrà oggi a Milano e vi parteciperò personalmente. Le mie ragioni, nell’ordine, sono queste: fine dell’occupazione e della colonizzazione delle terre palestinesi, compresa Gerusalemme est, concordata nei tempi e nei modi dalle due parti con pari dignità e sotto l’egida delle istituzioni della comunità internazionale, cessazione delle ostilità in ogni forma, garantita dall’interposizione di una forza di pace sotto le bandiere dell’Onu, trattativa con tutte le parti in causa del conflitto medio orientale nel quadro di una conferenza internazionale, creazione dello Stato Palestinese con massicci investimenti culturali, sociali ed economico-finanziari per riattivare il circuito virtuoso dello sviluppo, pace definitiva nel quadro della riconosciuta esistenza e piena sicurezza di ogni paese dell’area.
Ritengo che questo sia l’ordine logico in cui procedere. Non è sensato chiedere alla dirigenza sotto assedio o in prigione, di un popolo ridotto in condizioni disperate, che vive sotto occupazione, colonizzato ed imprigionato, di assumersi responsabilità definitive. Ma se qualcuno sapesse arrivare agli stessi risultati per altre vie riceverebbe ugualmente la mia approvazione e, verosimilmente, quella di quanti in tutto il mondo si battono per vedere la fine dello spargimento di sangue, delle violenze e dell’ingiustizia, in quelle terre martoriate. Fatta questa premessa, è molto importante a mio parere fare chiarezza su alcuni punti chiave. Se qualcuno intende trasformare questa occasione in una dimostrazione contro Israele tout court, mi dissocerò da chiunque lo faccia.
Io manifesto aspramente contro la politica del governo israeliano, non contro lo Stato d’Israele e tanto meno contro il suo popolo. Ripudio sin d’ora qualsiasi forma di violenza, pratica o simbolica, tipo il rogo delle bandiere, che trovo stupida, indegna, controproducente, figlia di una logica narcisistica e non politica. Non mi farò tuttavia intimidire dalle eventuali reprimende o criminalizzazioni di chi strumentalizza i gesti violenti per liquidare un intero movimento e continuerò con tutte le mie forze a sostenere le ragioni della pace. Sarò con i suoi stendardi
come essere umano universale,
come cittadino italiano e
come ebreo.
Come essere umano universale perché la pace è la più grande delle benedizioni che l’umanità possa ricevere, come cittadino italiano in piena sintonia con la nostra mirabile Costituzione ed in questo momento con l’ottima azione diplomatica del nostro governo rappresentato egregiamente dal ministro degli Esteri Massimo D’Alema, di D’Alema condivido anche la sollecitazione rivolta agli ebrei democratici ad unirsi all’appello dello scrittore israeliano David Grossman e trovo le critiche rivoltegli da molti esponenti della comunità ebraica ingenerose e surrettizie, segno di una iper reattività immotivata e un po’ sterile. Come ebreo sfilerò perché l’amore per l’altro e particolarmente per lo straniero è l’humus fondante di tutta l’etica che promana dalla Torah e perché, senza l’afflato universalista e la passione per l’accoglimento dell’alterità nelle forme più alte della giustizia, l’intero ebraismo regredisce ad un pensiero tribale.
La pace è l’imperativo categorico che fa uscire il nostro simile dalle tenebre del non uomo, la pace in Medio Oriente unisce ai valori intrinseci propri di ogni pace un significato simbolico dirompente di cui oggi abbiamo grande bisogno per riprendere il cammino a fianco dei nostri fratelli dell’Islam.
* www.unita.it, Pubblicato il: 18.11.06 Modificato il: 18.11.06 alle ore 10.44
INTERVISTA CON MONI OVADIA L’impegno culturale, sociale e artistico per la rivendicazione della pari dignità sociali
Progetto che raccoglie interviste comparate tra celebri personaggi della vita politica, culturale, sociale e dello spettacolo italiani
di LAURA TUSSI
Moni Ovadia uomo d’estro e d’ingegno, politicamente impegnato sul fronte del mondo in fermento dei sindacati per le tutele dei lavoratori e delle rivendicazioni per i diritti dei “più deboli”, nell’impegno culturale militante delle pari dignità sociali, per la fratellanza universale tra uomini...nella militanza “senza armi”, disarmante degli strapoteri, finalizzata ad un’utopia realizzabile, sociale, con risvolti comunitari e democratici de facto... L’impegno politico alla luce di una profonda, costruttiva e lucida critica di libera ispirazione marxista nella “lotta” di rivendicazione per le pari dignità sociali... In Italia, per una cultura delle memorie di ieri e pluriappartenenze di oggi.
Come si collocano il Suo teatro, l’espressione musicale e cinematografica rispetto al personale impegno politico, sociale e culturale?
L’arte è uno strumento di espressione e di comunicazione che costituisce la forma dello specifico dell’artista, ma la scelta dei contenuti che l’arte deve esprimere non è più una questione di scelta dell’artista solo, ma è anche un’opzione dell’artista in quanto cittadino ed essere umano. Allora siccome l’arte deve esprimere l’essere umano in tutte le sue variegate contraddizioni e sfaccettature ed il senso della nostra presenza sulla terra, ne consegue un significato connesso a valori etici e quindi politici, non nell’accezione degli schieramenti e delle fazioni, ma nel senso lato del concetto di polis come città e comunità educante, luogo di incontro e di formazione della società: allora l’arte è uno strumento tramite cui l’artista esprime la relazione con questi valori.
Come può il centro-sinistra far fronte alle nuove sfide dettate da una società e da un mondo sempre più globalizzanti, segnati da diversità multiculturali e dalla coesistenza di variegate culture e differenti modi di essere e di pensare?
Uno dei primi compiti del centro-sinistra è proprio definire la propria identità culturale, il che non implica un’identità monolitica, ma dove convivano differenti culture del centro-sinistra, ma in modo sinergico e non in un’ottica autodisgregante. Personalmente sono ebreo e laico, però posso tranquillamente partecipare a battaglie politico-sociali nel campo della pace e dei diritti anche con dei sacerdoti cattolici, perché condividiamo una comune cultura valoriale. Allora il centro-sinistra deve definire la propria identità e l’identità delle proprie identità al suo interno e trovare il modo che queste realtà ideative operanti si sinergizzino e si arricchiscano reciprocamente; perché un’elezione, cioè la “battaglia” si può vincere sul piano della tattica politica, la guerra si vince sul piano della cultura. Berlusconi lo ha dimostrato. Prima ha imposto la sottocultura, di cui è figlio e padre, al Paese e quindi ha vinto le elezioni, addirittura influenzando la temperie dell’intera società negativamente, come una gramigna devastante ed influenzando anche i comportamenti di molta sinistra, che ha perso per molti aspetti la propria fibra morale. Occorre che la sinistra definisca la propria identità e l’identità delle molteplici realtà interne in modo sinergico, ossia reciprocamente, in modalità arricchenti. In seconda istanza la realtà di centro-sinistra deve essere ferma e chiara nei principi e affrontare le congiunture che si presentano. Le grandi “battaglie” operaie si svolgevano in una società che aveva appunto la classe operaia come pilastro portante delle trasformazioni sociali. Attualmente la classe operaia costituisce solo una componente ed anche in via di trasformazione impetuosa, e per certi aspetti di sparizione: oggi si fanno avanti nuovi soggetti politici e sociali. I grandi valori non sono negoziabili, ma i problemi della politica, della gestione del reale, richiedono agilità e velocità di pensiero. Allora occorre che la sinistra sappia guardare avanti e non indietro, abolendo inutili e stantie nostalgie per la bella epoca delle lotte con le bandiere rosse, pur essendo state un grande valore che tutti devono conservare nel cuore, come principio di senso e significato del nostro patrimonio storico e identitario. Occorre guardare avanti sapendo che si è collocati nella Storia e non nella nostalgia, che è un sentimento personale rispettabile. La nostalgia è un sentimento rispettabile sul piano personale, ma non può condizionare l’azione politica. La memoria deve costruire futuro, non si deve ripiegare sterilmente sul passato. L’altro pericolo è quello di abbandonare il terreno dei principi per stare al passo con una sedicente modernità che cinicamente svende i valori per la logica del profitto e del potere. Solo quando si sa coniugare la tattica veloce, la capacità di vedere le trasformazioni e di cavalcarle e non di seguirle arrancando, con la grande fermezza di principi, allora ci si rende conto che i valori non mutano, ma devono trovare nuove modalità per essere applicati. Oggi siamo di fronte a nuove forme di sfruttamento e di dominio e possiamo anche utilizzare la parola forte “asservimento”, che hanno un aspetto seducente, la cui brutalità non è rozza come la brutalità dello sfruttamento di oggi su contadini e operai. Bisogna tenere conto delle nuove condizioni esistenziali dei soggetti che sono in fondo alla scala sociale, compresi i piccoli imprenditori del proprio lavoro, perché oggi anche questo è il proletariato, per preparare forme di lotta e strategie di opposizione democratica a questi processi. Il fenomeno della globalizzazione si presenta come un avvenimento nuovo ed inedito, quindi occorre adattare le strategie di rivendicazione sociale e politica, alle sfide poste dalla globalizzazione stessa. I mercati finanziari sono internazionali, le transazioni sono transnazionali, le lotte di rivendicazioni che non abbiano questo ampio respiro rischiano di farsi sconfiggere, provocando devastanti frustrazioni. In questo senso la lezione di Marx rimane straordinaria: per capire la realtà che lo circondava, Marx, oltre a partecipare alle lotte politiche del suo tempo, studiò per dieci anni al British Museum. Ecco ciò di cui abbiamo bisogno attualmente: studiare le trasformazioni, cercare di capirne i movimenti, sia strutturali che sovrastrutturali e non ritirare fuori ideologie schematiche, stantie ed ammuffite. Per vincere una battaglia, per vincere una guerra, occorre capire contro chi si sta combattendo, per cosa e quali sono i migliori strumenti per combattere le battaglie per la giustizia sociale, in favore della democrazia, della fratellanza, dell’uguaglianza nel proprio tempo e guardando il proprio tempo, con libertà di pensiero, comprendere il tempo che aspetta alle generazioni che verranno dopo di noi, per poter consegnare a loro un’eredità culturale che sia uno strumento vivo e non un pensiero pietrificato come sempre succede alle ideologie. Per esempio certi concetti e categorie marxiste non si possono applicare schematicamente nel mondo attuale: sono cambiate troppe condizioni! E’ proprio il modo di pensare marxista che dovrebbe suggerire di abbandonare certe categorie del pensiero di Marx, che diventano obsolete e desuete, perché sono cambiate proprio le modalità di produzione e sono impazziti i rapporti fra i parametri economici fondamentali. Un altro problema è questo: ci troviamo di fronte a una nuova sfida, la democrazia autoritaria, che non passa più con il consenso popolare, nel senso pieno del termine, ma con una minoranza degli elettori e con manovre che scardinano il meccanismo costituzionale ed istituzionale, e lo condizionano. Una sovrastruttura, ossia il sistema di informazione, che oggi chiamiamo sistema massmediatico, diventa struttura di potere. Ecco che la sinistra deve studiare i fenomeni socioeconomici, deve saperli interpretare e collocare i movimenti di rivendicazione dei principi dentro le nuove temperie e le attuali prospettive storiche, senza mai abbandonare il terreno dei valori; perché non si può affermare ad esempio che il lavoro debba essere flessibile? Cosa significa “lavoro flessibile”? Non è corretto trasformare il luogo del lavoro al punto da non riconoscere più i diritti dei lavoratori, perché sussistono i problemi della flessibilità. Dobbiamo far sì che i problemi economico finanziari siano sempre contemperati con i diritti, i principi, i valori. Perché creare posti di lavoro è uno dei miti del populismo e di coloro che fanno false promesse. La flessibilità va contemperata con i diritti del lavoratore di avere una pensione e una vecchiaia serena e non ammettere contratti di lavoro schiavistico. Non dobbiamo (noi sinistra) abbandonare il terreno dei principi perché creare il lavoro sulla base dello sfruttamento e delle false promesse è rendere gli uomini servi. Oggi il potere economico, quello che rudemente chiamavamo “padronato” richiede lavoro flessibile. Questo significa che il lavoratore non deve essere più fornito di diritti? Non è più un cittadino? La flessibilità richiede al lavoratore di recedere dalla sua condizione di essere umano? Questa non è flessibilità, questo è sfruttamento, è asservimento, allora bisogna che le dinamiche economiche, la trasformazione dello stato sociale, il rispondere alle nuove sfide e alle nuove esigenze, sia contemperato con la non negoziabilità dei grandi valori e principi che formano qualsiasi società democratica degna di questo nome. Occorre riappropriarsi dei valori della vita: tenere il proprio destino in mano ed essere consapevoli dei diritti, della possibilità di crescere come persona, con la formazione, l’istruzione, la cultura. L’intervento delle destre consiste nel rendere più agile possibile il profitto. La sinistra deve darsi delle priorità: innanzitutto, vincere questo governo e questo dobbiamo farlo per il nostro Paese. C’è un momento in cui il proprio Paese è persino più importante delle idee personali. E’ meglio creare un centro-sinistra, magari un po’ zoppo e che scontenta qualche elettore, perché ormai il Paese sta andando in rovina...perché poi è inutile battersi in Parlamento per le rivendicazioni degli operai quando il tuo Paese diventa come l’Argentina. In primo luogo occorre sanare l’equilibrio economico e riportarlo nel quadro di un minimo denominatore comune, basato sulla prima parte della costituzione: l’equilibrio di salute del nostro Paese. Cioè prima di intervenire occorre asportare la corruzione e il modo distorto di fare politica. Quindi occorre vincere le elezioni contro Berlusconi, sanare i guasti economici e sociali che il suo governo ha prodotto, solo dopo sarà opportuno riaprire il dibattito tra le due diverse anime del centro-sinistra e della Sinistra.
Le ultime guerre in Medioriente hanno fatto intravedere diverse tipologie di “dittatura” capitalista. Quali ne sono le caratteristiche e le negatività più salienti?
Il crimine più grave commesso da questa democrazia autoritaria di cui è espressione prima e massima l’amministrazione degli Stati Uniti d’America del Presidente G.W. Bush che già ha scippato le elezioni con manovre oscene, è di avere demolito quel poco di legalità internazionale che si teneva su di un equilibrio non certo ideale, tutt’altro che perfetto, che è stato sciagurato demolire con la prepotenza, invece di lavorare per emendarlo, migliorarlo e renderlo più efficiente. Una volta che si spezza la fragile ossatura della legalità internazionale, ognuno è legittimato a fare quello che gli pare. Questo è l’aspetto più devastante. Gli Americani non vogliono più sottoporre a discussione e verifica i problemi, ma sostengono di avere ragione a priori e di essere la “democrazia a priori”, il “bene a priori”. Gli Americani hanno combattuto contro i nazifascisti, è vero, ma l’hanno fatto anche per i propri interessi e solo dopo aver subito l’attacco Giapponese a Pearl Harbor. La partecipazione alla seconda guerra mondiale ha permesso loro di costruire un’egemonia sul mondo che permane ancora oggi. Dunque la guerra contro il nazifascismo era conforme ai loro interessi politico-strategici ed economici. Inoltre Roosevelt era profondamente diverso da Bush. E’ stato Roosevelt che ha liberato l’Europa, non Bush. Il progetto del New Deal di Roosevelt era un piano politico di natura socialista, radicale a favore di un’idea di stato sociale, di giustizia sociale, di eguaglianza democratica. Quello che gli Americani vogliono esportare non è la democrazia, ma il loro modello amministrativo basato sul predominio dell’economia. Quindi il loro non è affatto un atteggiamento democratico, ma autoritario e colonialista. Oltretutto sussiste in tutto questo un elemento pesante di idiozia. La democrazia implica libere elezioni che però in molti Paesi Arabi porterebbero la vittoria degli estremisti islamici o comunque dei partiti musulmani radicali. La costruzione di una democrazia, che è un legittimo principio, va ponderata con le culture, le diverse esigenze, attivando le forze che possono costituire una democrazia con la cultura, con relazioni basate sulla legalità internazionale, rispettando gli specifici culturali. Questa politica non è segno di forza, ma di debolezza da parte degli Americani. L’attuale amministrazione americana è un disastro, perché non vede le complessità, si comporta esattamente come quei sedicenti no global fracassatori che non sanno interpretare la complessità del reale e credono che sia sufficiente avere poche idee schematicamente “giuste” per risolvere il problema, non considerando che l’essere umano è contradditorio, complesso, fragile, opportunista, ma anche vile e talvolta persino eroico, e poi vile: è molto difficile governare con sapienza.
La Shoah ha precipitato l’umanità in un abisso di abiezione. Cosa occorre attualmente per esorcizzare ogni spettro di genocidio e stillicidio, di conflitto armato e di negazione di ogni tipologia di diversità all’interno del tessuto sociale?
E’ necessaria una lotta costante, una battaglia diuturna che non conosce pause contro ogni forma di pregiudizio di sopruso. Quando si ricorda la Shoah è grave che non si rievochino con sufficiente enfasi le realtà perseguitate degli zingari, degli omosessuali, dei testimoni di Geova, che ancora sono vittime di pesanti pregiudizi. Paulo Coelho dice “stai attento ai tuoi pensieri, si trasformano in parole. Stai attento alle tue parole, si trasformano in pallottole”. Noi dobbiamo insorgere contro il più piccolo e minuscolo sopruso. Dobbiamo anche tenere d’occhio noi stessi. Anche in noi stessi, nel migliore, alberga la tendenza a generalizzare, a schematizzare, a fare di ogni erba un fascio, che alimenta il virus orrendo del pregiudizio. Non dobbiamo solo guardare la pagliuzza negli occhi dell’altro, ma anche la trave nei nostri occhi. Siamo chiamati ad un impegno e a una vicinanza continua dei nostri pensieri e delle nostre parole: solo allora potremo attuare la sorveglianza delle parole degli altri. Per esempio è intollerabile che non si lasci parlare qualcuno perché non piace ciò che dice.
Quanto la Shoah è figlia del cristianesimo? (Domanda posta da Giovanni Sarubbi, direttore della rivista telematica www.ildialogo.org )
La Shoah non è figlia del cristianesimo: sarebbe un’affermazione assolutista. Esistono responsabilità di “un certo” cristianesimo, o meglio della depravazione dei valori cristiani e della deriva del messaggio di Gesù Cristo, che si ripresentano indietro nel tempo, già con certe posizioni sui Vangeli. Occorre sempre ricordare che i primi martiri cristiani erano ebrei. Comunque l’idea di criminalizzare un popolo, di accusarlo di deicidio è un fatto di enorme gravità; intanto è una deriva del messaggio cristiano che enfatizza l’amore, la pace, anche l’amore verso chi non "ti" è amico. Dunque il messaggio cristiano viene a un certo punto pervertito. Infatti il cristianesimo pervertito, deviato è stato una delle concause scatenanti dell’antisemitismo, che ha contribuito a portare al disumano apogeo della Shoah. La memoria della Shoah ci deve portare a costruire un mondo di giustizia, di fratellanza, di uguaglianza e di solidarietà. Proprio per questo è importante per tutti trarre ammaestramenti dalla comprensione profonda di ciò che è accaduto, anche quando capire, vedere senza lenti deformanti e senza la patina dell’autoindulgenza è molto doloroso. Per dare un contributo alla riflessione sulla Shoah voglio mettere in relazione e in risonanza due solenni affermazioni del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II e una del sinodo dei Vescovi Cattolici tedeschi nel cinquantesimo anniversario della liberazione dai campi di sterminio. La prima affermazione è contenuta nell’enciclica Nostra Aetate del 1987: sostiene il fatto che Gesù è ebreo e lo è per sempre. Poi il Papa ripetutamente, in occasione del cinquantesimo della liberazione dei campi di concentramento, dichiara che “Auschwitz è il Golgota del 2000”. Il Golgota è l’apoteosi dell’esperienza cristica prima della resurrezione. Il Calvario termina con la salita al Golgota e la crocefissione. Ecco un ponte tra queste due affermazioni: 2000 anni or sono è salito sulla croce un giovane ebreo di nome Gesù. 2000 anni dopo sulla stessa “croce” è salito tutto il popolo ebraico, con il suo milione di bambini, il popolo zingaro, i comunisti e i socialisti oppositori di vario segno, sono saliti sulla croce i testimoni di Geova, i menomati, i delinquenti comuni, gli omosessuali, tutti i diversi, ma su quella "croce" non sono saliti i cristiani in quanto tali, vi salirono molti cristiani, ma non per la fede professata, per il fatto di essere oppositori del regime. Dunque i cristiani in quanto tali stavano dalla parte dei carnefici, ossia dei romani, come ha sostenuto il sinodo dei vescovi cattolici tedeschi nel 1995 con una dichiarazione solenne e lapidaria:” i cattolici tedeschi durante la Shoah furono complici o nel migliore dei casi indifferenti”. I cristiani, in quanto tali, nella Shoah non hanno seguito le parole di Cristo, ma lo hanno “rinnegato”, comportandosi tutti come Simon Pietro. Laura Tussi
Due interventi: Rossanda, La paura dell’altro; Dominijanni, Ribaltare la Shoah? (il manifesto, 08.08.2006)
La paura dell’altro di Rossana Rossanda
Condivido la collera di Angelo d’Orsi verso chi accusa di antisemitismo ogni critica alle scelte del governo israeliano. Non succede nei confronti di nessun altro paese. Non era neanche mai successo prima degli anni ’70. Né l’accusa ci viene da parte di chi ha sofferto di persona delle leggi razziali e delle deportazioni, se è scampato ai campi di sterminio. Penso che ci sia voluta la guerra dei sei giorni e un vero e proprio cambio generazionale, più ancora che qualche scivolata dell’estrema sinistra degli anni ’70, nello scordare la tragica percezione di sé da parte degli ebrei; sono episodi che si contano sulle dita d’una mano. Mentre non è accettabile il sospetto che alcuni nuovi esponenti della comunità ebraica gettano di continuo su ogni parola detta dalla sinistra che non approva né l’occupazione dei territori, né l’unilateralismo dei ritiri e dei muri, né la guerra al Libano, mentre aprono con entusiasmo le porte agli eredi della destra, fascisti inclusi.
D’Orsi ha ragione anche nell’infastidirsi del silenzio con il quale lasciamo passare queste accuse, come se avessimo da vergognarci di qualcosa, noi, i soli che si sono battuti assieme agli ebrei. Se il movimento operaio e comunista è stato alle origini antisionista lo è stato per motivi opposti alla discriminazione, perché riteneva ogni questione nazionale secondaria rispetto al battere il capitale. Ma così pensavano anche Rosa Luxemburg e ai suoi amici tedeschi, i molti ebrei del Bund polacco, quelli che facevano parte del gruppo dirigente leninista e perfino staliniano fino al dopoguerra. Antisionismo e antisemitismo non sono stati affatto la stessa cosa. Quanto all’Italia, se le leggi razziali passarono senza vere proteste degli antifascisti, era perché non si potevano esprimere. L’antifascismo poi unificò tutti; la mia generazione è venuta su, se mai, con la ripugnanza a distinguere fra religioni ed etnie, la rivalutazione delle differenze le è estranea, il che le viene, se mai, rimproverato. Ha colpito quelli come me il bisogno di tornare alle proprie radici dopo la sconfitta del 1968, che era stato forse approssimativamente universalista. Accresciuto in molti giovani dalla percezione di essere sopravvissuti al destino dei loro genitori o nonni . Per chi andava in cerca delle radici c’era nell’ebraismo un grande «in più», la scoperta d’una tradizione sapienziale che dette a molti una nuova dimensione del vivere.
Risalgo negli anni perché se l’accusa di antisemitismo è tutto sommato stupida, mi sembra oggi tessuta in una vicenda assai più grande e sofferente che non siano gli strepiti d’un Giuliano Ferrara. C’è nella coscienza di Israele il senso d’un eterno essere in pericolo cui non sa rispondere che con la forza delle armi, la guerra preventiva e la protezione degli Stati Uniti, compiendo un errore fatale verso i paesi che la circondano.
Angelo d’Orsi parla della lettera d’una giovane libanese, io ho sotto gli occhi quasi con le stesse parole nell’email d’una giovane e a me assai cara israeliana, e tutte e due hanno paura l’una del paese dell’altra. Sono giovani, nate là, e poco sanno di come si sia arrivati a questa ultima tragedia. La libanese ha sperimentato la crudele invasione israeliana, e poi l’occupazione siriana ed è terrorizzata dall’offensiva di Israele condotta fuori di ogni regola di guerra, con un’enormità di distruzioni e vittime civili, che viene detta contro gli Hezbollah e colpisce lei fra i libanesi, e non viene fermata da nessuno. La israeliana ha alle spalle secoli di negazioni e sofferenze, arrivate fino alla Shoah, ha imparato a scuola che gli arabi che circondano il suo paese non ne hanno mai accettato l’esistenza, dall’Iran con Israele confina ed è infinitamente più grande, Ahmadjnejad contiua a ripeterglielo, alcuni suoi amici sono morti per l’attacco dei kamikaze palestinesi e lei ha contato nell’ultimo mese i missili di Hezbollah.
Nessuna delle due donne riesce a figurarsi l’altra. Sono terrorizzate. Lo stesso pensano in Israele gli amici di Peace Now e uomini che ammiriamo come Yehoshua, Grossmann e perfino Amos Oz: pensano che «stavolta la guerra è giusta» - anche se gli pare che come «ammonimento al popolo libanese basti». Intanto quella del 1967 era finita in sei giorni, mentre adesso gli Hezbollah tengono testa da oltre tre settimane a uno degli eserciti più preparati del mondo. Va a spiegare la spirale degli avvenimenti e il meccanismo delle rappresaglie all’una e all’altra. Va a far capire alla mia giovane amica israeliana che Israele occupa la Palestina da quasi quaranta anni e ha fatto dei giovani di quel popolo, il più colto e laico del Medioriente, che non sono mai stati un giorno liberi, seguaci di un fondamentalismo che ne esprime la collera. Va a farle capire che anche l’arabismo è ormai vittima di un fondamentalismo che apparteneva solo a minuscoli gruppi, prima che la politica del suo paese in Palestina, e poi quella americana in Afganistan e poi l’invasione dell’Afganistan e poi dell’Iraq lo moltiplicasse, così come l’attuale guerra moltiplicherà gli Hezbollah. Va a farle capire che questi prima del 1982 non esistevano. Né i kamikaze durante la prima Intifada. Va a persuaderla che l’accettazione da parte israeliana di uno stato palestinese avrebbe da decenni staccato la spina che avvelena il Medio Oriente, e fatto dimenticare che Israele vi è stato installato a forza dalle potenze occidentali per garantire in qualche modo gli ebrei da una nuova Shoah di cui noi, l’Europa, eravamo soli colpevoli. Installato in un mondo che della Shoah nulla era tenuto a sapere e tanto meno di una terra promessa qualche migliaio di anni fa a sconosciuti da un Dio sconosciuto. E dalla quale venivano cacciati coloro che per duemila anni vi avevano lavorato. Va a farle capire oggi che la giovane Israele doveva vincere la diffidenza dei vicini, o almeno dopo la guerra dei sei giorni stare a quelle risoluzioni dell’Onu che adesso invoca contro i libanesi.
Qualche settimana fa Luciana Castellina scriveva su queste colonne: Io ho paura per Israele. Io non ho paura per la sua esistenza, noi tutti la difenderemmo a ogni costo. Ho paura delle sofferenze che Israele impone e si impone in una spirale di errori. Mi fa impressione il colono che dice rassegnato: «Ebbene, se Israele deve vivere grazie alla spada, viva con la spada», ma mi riempie di collera Claude Lanzmann, quello del film sulla Shoah, che protesta su Le Monde perché Israele è stata accusata di esagerare in Libano. Come, Israele non esagera, non può esagerare, il sangue fatto versare agli ebrei non sarà mai abbastanza compensato da altro sangue - gli ebrei sono stati colpiti in modo che il loro paese ha tutti i diritti e nessun dovere verso gli altri. Sono parole dementi come quelle del presidente iraniano, il reciproco l’una dell’altra. Ma il premier Olmert le sta praticando. E come Sharon non si accorge non solo dell’odio che si tira addosso, ma dell’errore strategico che fa. Rabin è stato ammazzato e dimenticato.
Di questa sciagurata spirale l’agitazione di parte della comunità ebraica italiana è un frammento derisorio. Ma è vero - ha ragione d’Orsi - che dovremmo smettere di stare in silenzio perché la matassa è complicata e ancora recente la perdita di innocenza del nostro paese. La posta in gioco è troppo alta, il pericolo troppo bruciante, il ricatto troppo stupido. Bisogna dirlo alto e forte che il governo di Israele sbaglia. Che si deve fermare. Che l’amministrazione americana è il suo più pericoloso alleato e consigliere. Che la comunità internazionale è stata finora troppo corriva. E che se c’è una discontinuità che urge per il centrosinistra al governo è questa. Se ne faccia carico.
Ribaltare la Shoah? di Ida Dominijanni
Sottrarsi al ricatto della Shoah e dare voce a un grido liberatorio contro la politica di Israele: sul manifesto del 3 agosto e su Liberazione del 4 Angelo d’Orsi propone questa sorta di «programma minimo» per la sinistra - intellettuali, politici, giornali e comuni mortali in grado di sottrarsi al «chiacchiericcio opinionistico» che ci martella con la sicurezza di Israele e in nome della Shoah giustifica la sua aggressività in Medioriente, la sua pulizia etnica verso i palestinesi e la sua arroganza verso l’Onu. A costo di alimentare il chiacchiericcio, mi permetto di dissentire fermamente. Prima che sul merito, su una pratica intellettuale che perimetra la sinistra coi picchetti, gerarchizza intellettuali e senso comune, identifica verità e razionalità senza nulla apprendere dallo scacco della ragione in cui sulla questione mediorientale tutti, intellettuali e ordinary people, siamo presi e persi.
Sulla Shoah e sull’antisemitismo «scientifico» novecentesco che portò alla macchina dello sterminio di Hitler, molti intellettuali di sinistra, argomenta d’Orsi, hanno le carte in regola e le credenziali in ordine: energie, saggi, volumi dedicati a analizzare, condannare, combattere. Insomma: abbiamo dato. Basta questo per sentircene affrancati? Basta per decidere che siamo in un’altra epoca e in un mondo rovesciato, in cui «le vittime si sono trasformate in carnefici» e le energie, l’analisi, la denuncia e la condanna vanno spostati tutte e solo dall’altra parte? Tutte e solo, sottolineo. Perché è ovvio che su molti degli argomenti di d’Orsi siamo d’accordo: sull’aggressività e la cecità strategica della politica di Israele; sulla cecità politica della comunità israelitica italiana; sull’uso a dir poco strumentale della Shoah da parte della destra e dei giornali di destra (e non solo) italiani. Ribaltando lo schema retorico di d’Orsi verrebbe però da dire: non abbiamo già denunciato più e più volte tutto questo su questo giornale (e altrove)? Non abbiamo anche qui le carte in regola e le credenziali in ordine? E dunque in che dovrebbe consistere quell’appello a sottrarsi al ricatto della Shoah che d’Orsi ci rivolge, e da quale spostamento dovrebbe sgorgare quell’ulteriore grido d’indignazione che ci chiede di lanciare?
Temo che la chiave stia in quel presunto ribaltamento delle vittime in carnefici, che domanderebbe e autorizzerebbe il ribaltamento di cui sopra dell’epoca, del mondo, delle ragioni e dei torti. Con due conseguenze nefaste. La prima è lo schiacciamento - antisemita e antidemocratico - del popolo ebreo sul governo israeliano, schiacciamento speculare all’integralismo che d’Orsi denuncia nello stato di Israele. La seconda è la valutazione delle poste in gioco in Medioriente che ne consegue. Se le vittime si sono trasformate in carnefici, il conto è facile: tutti i torti a Israele, tutte le ragioni ai palestinesi e al Libano. Ma è così? Davvero, fermo restando il giudizio sulla politica israeliana, non c’è anche il problema del riconoscimento e della sicurezza di Israele? Davvero, fermo restando il giudizio sulla deriva integralista di Israele, non c’è anche il problema del fondamentalismo di Hamas e Hezbollah? Davvero su Hamas e Hezbollah possiamo farci scudo della religione democratica e della fede nella legittimazione elettorale, o non è piuttosto la fede democratica a essere scossa dalla legittimazione elettorale di Hamas e Hezbollah? Davvero l’11 settembre e la guerra in Iraq non ci obbligano a guardare al Medioriente con lenti modificate? La tragedia mediorientale non sta in un ribaltamento dei torti e delle ragioni: sta in una loro, spesso indecidibile, complicazione. Lo scacco della ragione sta qui, e brucia le migliori carte e le migliori credenziali.
Qual è l’eredità della Shoah in gioco nella discussione pubblica sul Medioriente, e per chi gioca? L’ha scritto domenica Sveva Haertter su queste pagine: la Shoah ha colpito il popolo ebraico ma pesa su tutta l’umanità. E’ un crimine dell’umanità contro l’umanità: nella sua memoria non ne va solo del destino delle sue vittime, ma della colpa europea. Non ne va solo dell’antisemitismo novecentesco, ma di qualsivoglia biopolitica che faccia tutt’uno di una razza, una religione e uno stato. Non abbiamo svoltato pagina in un hegeliano e razionale ribaltamento del secolo e delle ragioni: quella pagina si sta tragicamente e irrazionalmente riaffacciando, per fortuna senza la macchina hitleriana dello sterminio, per disgrazia in più punti del mondo e su tutti i fronti del micro-mondo mediorientale. La sua memoria non parla a una parte o all’altra: parla a ciascuna e a noi spettatori, o tace per tutti.
LA CULTURA DELLA PACE Il superamento della deumanizzazione dell’altro
di LAURA TUSSI
Per fondare una cultura della pace è indispensabile contrastare il processo di deumanizzazione, ossia di inserimento dell’altro in una categoria non umana che va quindi contrastata, ostacolata e annientata. Il pregiudizio rappresenta un mezzo di propagazione del processo di deumanizzazione. Un’educazione per la pace a tutti i livelli sociali e nei rapporti interpersonali deve compiere progressi a favore dell’identificazione con l’altro, il riconoscimento degli altri come uguali a sé che diviene ancora più necessario e auspicabile quando gli altri si oppongono a noi. La tendenza a demonizzare il nemico, l’altro da noi, come spesso fanno colpevolmente i mezzi di comunicazione di massa, allargando le distanze che separano noi dagli altri, aumenta il rischio di aggressività e distruttività sempre più intense e radicate nel costume quotidiano.
Il terrificante interiore e la demonizzazione dell’altro
E’ davvero evidente che la demonizzazione del nemico costituisce un meccanismo di difesa rispetto al negativo che rifiutiamo dentro di noi, come persone, ma anche come gruppi sociali, in quanto l’altro e gli altri si configurano come una realtà separata di deumanizzazione e distruttività. Anche la scuola ha dato inconsapevolmente, forse, il proprio contributo al processo di deumanizzazione quando ha esaltato il concetto di “identità nazionale”, dimenticando che siamo tutti cosmopoliti, cittadini del mondo. Il riconoscimento dell’altro come simile a sé transita attraverso la condivisione, lo scambio, la comunicazione delle emozioni e dei sentimenti. Per esempio all’interno del gruppo classe è possibile aiutare il bambino a riconoscere nel compagno, con cui spesso litiga, il proprio stesso vissuto, come questa comunicazione deve essere facilitata tra i gruppi sociali, soprattutto i contesti che il bambino vive come nuovi, diversi e pericolosi. Per combattere il processo di deumanizzazione occorre facilitare le occasioni di condivisione, di scambio, di incontro, sottolineando tutte le cose che uniscono, anziché ciò che divide. I mezzi di comunicazione di massa negano implicitamente per i loro messaggi l’umanità dei singoli e dei gruppi sociali, facilitando ostacoli che si frappongono all’incontro tra i bambini, tra gli uomini, tra i gruppi sociali. Un’educazione alla pace si deve proporre di facilitare l’acquisizione di atteggiamenti cooperativi e non competitivi, oltre a favorire le condizioni per un uso non lesivo, ma adattivo dell’aggressività nella sicurezza, la possibilità di affermazione di sé, l’identificazione con l’altro. Gli studi sull’acquisizione dei comportamenti cooperativi e non competitivi e sulla genesi di atteggiamenti costruttivi indicano che queste caratteristiche non lesive della relazione sono strettamente correlate con la capacità di allontanarsi, sia emotivamente, sia cognitivamente, dall’impellenza delle situazioni frustranti e conflittuali, al fine di trovare una risoluzione complessa e mediata, tenendo presente l’esistenza e le esigenze dell’alterità.
Il decentramento emotivo e cognitivo
La ricerca di una soluzione pacifica, cooperativa e collaborativa comporta un impegno di decentramento cognitivo dalla situazione emotiva che deve essere analizzata in un’ottica decentrata, appunto dall’esterno, per ritrovare soluzioni ulteriori, più complesse e mature che richiedono una ristrutturazione del campo cognitivo, ossia una rivalutazione degli elementi complessivi della situazione, in una prospettiva globale, dove emergano connessioni e collegamenti innovativi. La rapidità con cui si intuiscono queste risoluzioni non deve trarre in inganno sulla complessità del processo di ristrutturazione cognitiva e di distanziamento e decentramento emotivo richiesto. Sussiste un diretto collegamento tra capacità collaborativa e facoltà di simbolizzazione, attraverso cui il bambino realizza il distacco dall’immediatezza della realtà, rendendo possibile la ristrutturazione cognitiva. Collaborare significa trovare un percorso comune complesso e difficile, che tenga conto delle esigenze complessive nella soluzione di situazioni di opposizione. Educare alla pace significa anche stimolare la capacità di simbolizzazione del bambino. Una delle più importanti manifestazioni della capacità simbolica è il linguaggio, per cui il primo compito della scuola consisterà nell’aiutare i bambini ad esprimere personali emozioni, sentimenti e stati d’animo come l’aggressività, in forma verbale, tramite lo scambio verbale e la discussione, tramite cui risulta attuabile un processo di pattualità e negoziazione che consente di vagliare ed esaminare i punti di vista altrui, fino a giungere ad una soluzione cooperativa e collaborativa. La scuola deve porsi l’obiettivo di insegnare a dialogare anche quando sorge il conflitto, sostando in esso come un valore, una risorsa che può giungere ad una pattualità collaborativa Laura Tussi
Il sonno dogmatico
di Barbara Spinelli (La Stampa, 6/8/2006)
Gli israeliani lo sperimentano sulla propria pelle ogni giorno, da quando il 12 luglio si son trovati nell’obbligo di rispondere a un attacco Hezbollah che non ha più come scusa i territori occupati, ma è un’aggressione che minaccia esistenzialmente Israele ed è al contempo laboratorio di uno scontro Iran-Usa: in questa guerra libanese sono in realtà soli, nonostante le attestazioni solidali che vengono da Bush e Blair. Non si sentono rassicurati neppure dall’accordo, ambiguo, che si delinea fra Parigi e Washington al Consiglio di sicurezza Onu. Quella congerie di stati cui viene dato il nome falso di comunità internazionale si agita, domanda la «piena cessazione di ostilità», ma non osa chiedere che essa sia «immediata» e simultanea. Nell’immediato devono cessare gli attacchi Hezbollah e le operazioni offensive israeliane: una formula che consente a Israele di restare in Libano per operazioni difensive, ma che non gli risparmierà aggressioni. Difficilmente infatti Hezbollah - non sconfitto - accetterà la tregua. Alcuni governi europei son pronti a schierare soldati per aiutare l’esercito libanese a conquistare il monopolio della violenza ai confini meridionali, ma è improbabile che intervengano finché la tregua sarà ambigua: un’ambiguità cui l’amministrazione Usa non sembra rinunciare.
Quel che Bush desidera è la continuazione della guerra contro Hezbollah, fatta da Israele o da altri: gli strumenti impiegati possono cambiare ma non l’obiettivo, e l’obiettivo è una guerra-test con l’Iran, con la Siria, per interposte persone. È come se l’amministrazione volesse proprio quello che sta accadendo: lo stato d’Israele sprofondato in un conflitto che sta perdendo, il Libano che è stato scardinato e offeso, l’Iran e la Siria che manovrando Hezbollah son divenuti attori di primo piano in Medio Oriente e nell’Islam, e in quanto tali vengono messi in guardia e minacciati. Poi c’è il conflitto in Iraq, da cui l’odierna catastrofe discende e che il Libano ha obnubilato: anche qui, è forte l’impressione di un voluto ampliamento dei disastri. Ogni giorno muoiono 100 civili in Iraq, ma è la guerra in Libano che occupa le prime pagine dei giornali. In America, lo spazio televisivo dedicato a Baghdad è caduto del 60 per cento fra il 2003 e questa primavera. Una manna, per il governo americano: fin quando dura la piaga libanese, Washington non dovrà rispondere del caos suscitato - tramite Iraq - in Medio Oriente e nel mondo.
Non son pochi gli israeliani che cominciano a intuire il terribile ingranaggio in cui rischiano di restar impigliati: un ingranaggio che fa del loro Paese il tassello della strategia Usa di esportazione della democrazia e di mondiale guerra antiterrorista, e che ha finito col debilitare Israele anziché proteggerlo. Una strategia che ha tutta l’aria di trattare Israele come un mezzo, non un fine come Bush pretendeva. Lo storico Tom Segev s’indigna sulle colonne di Haaretz, denunciando una politica americana che lascia solo Israele, che lo aizza in guerre perdenti, che ha perduto ogni autorità nel mondo. Daniel Levy che ha partecipato a numerosi negoziati di pace (Oslo, Taba, accordi di Ginevra) scrive che Israele non può continuare a subire una linea dettata fin dal ’96 da neoconservatori come Richard Perle e Douglas Feith (Haaretz 4-8-06). E ricostruisce quella linea, che i neocon suggerirono all’allora Premier Netanyahu e che aveva come scopo la fine delle trattative di pace e una rivoluzione nei rapporti tra Israele e Usa. Oggi, essi adoperano la guerra libanese per rifarsi della bancarotta irachena.
Molti (Tom Segev, Avi Schlaim sull’Herald Tribune) sostengono che l’America non aiuta più Israele, dal momento che l’aizza invece di disciplinarlo: «Mai nella nostra storia è accaduto che Washington ci spronasse così poco all’autocontrollo», scrive Schlaim, ed è il motivo per cui gli Stati Uniti «sono ormai parte del problema e non della sua soluzione». Segev sospetta che le modalità della guerra libanese nascano da un coordinamento con Washington e ricalchino il modello Iraq, con effetti perniciosi: anche questa guerra sembrava facilissima, anch’essa era tassello d’una vasta lotta contro l’asse del male, e la degenerazione insidia anche lei. Uscire dall’Asse del Bene, ritrovare la realtà di questioni e guerre che hanno origini locali: è questa l’opportunità, per i critici dell’America in Israele, di uscire dal sonno dogmatico che l’alleanza esclusiva con Washington impone agli israeliani.
Il sonno dogmatico sacrifica l’esperienza, sull’altare di concetti generali e globalizzanti; non vede il particolare, dunque il reale. Secondo Levy, questo è il vizio dei neoconservatori che da un decennio propugnano un Nuovo Medio Oriente, una rottura netta con le passate politiche israeliane (così s’intitola il documento del ’96, A Clean Break). Il loro obiettivo: spingere i governi israeliani ad abbandonare la strategia di restituzione dei territori; incitarli a regolare i conti con Siria, Iran, Autorità palestinese; convincerli a cercare un’autosufficienza che spezzi le pratiche del contenimento e della cooperazione internazionale tornando ai vecchi equilibri di potenza. La cosa più esiziale è stata quando questa visione s’è intrecciata con quella degli evangelicali, in cui Bush si riconosce. Gli evangelicali americani sono filo-israeliani solo in apparenza. Nei loro affreschi messianici la nazione ebraica deve disporre di territori possibilmente vasti, per poter accogliere il secondo avvento di Cristo. Un avvento non promettente per gli ebrei: nei Tempi Finali Israele sarà convertito, distrutto. Anche per gli evangelicali Israele è un mezzo, non un fine.
Chi aspira all’uscita dal sonno dogmatico chiede passi politici sostanziali anche se scabrosi, per il Libano. Chiede che si negozi col nemico (fu Rabin a dirlo, dopo gli accordi di Oslo nel ’93: «Con chi dobbiamo negoziare, se non con il nemico? La pace non si fa con gli amici!»). Chiede il ritorno alla diplomazia, alla restituzione delle terre, e se la guerra è necessaria: che sia la continuazione di una politica, non di una non-politica. L’uso americano d’Israele è un male che può rivelarsi grande, ed è la ragione per cui Segev e altri sperano disperatamente nell’Europa: «La spinta su Israele perché eserciti autocontrollo non viene più da Washington, ma dagli europei». Il senso delle realtà locali sono gli europei ad averlo. Bisogna negoziare con Iran, con Siria: gli europei ne sono convinti e sapranno farlo. La maniera in cui Israele viene adoperato (come non-persona) è utile a tutti coloro che si sentono orfani di lotte ideologiche fra bene e male, fra destra e sinistra. Israele è pedina dispensabile, in quest’ordine del giorno interamente occidentale.
«Anche se l’America conquistasse l’Iran, a Israele resterà pur sempre l’obbligo di vivere accanto ai palestinesi», spiega Segev. Il che vuol dire: Israele deve capire di cosa è fatto l’odio Hezbollah in Libano, deve distinguerlo da quello di Hamas nelle terre occupate, deve tener conto che la Siria reclama con ragione la restituzione delle alture del Golan. Hezbollah è una malattia difficilmente estirpabile perché non è solo una cellula terrorista: in Libano è al governo e ha un’agenda politica, si occupa di sanità e scuola in regioni povere, è profondamente scontento per come gli sciiti sono emarginati, nonostante l’alta loro forza demografica (40-50 per cento della popolazione. Gli equilibri attuali si basano sul censimento del 1932, che premiava sunniti e cristiani). Secondo Robert Pape, studioso di terrorismo a Chicago, il partito di Dio è proteiforme, raccoglie tutti coloro che hanno combattuto i 18 anni d’occupazione israeliana. Nel suo libro sul terrorismo, ha studiato da vicino il profilo di 38 Hezbollah kamikaze: «Ho scoperto che solo 8 erano fondamentalisti islamici. 27 appartenevano a gruppi di sinistra (Partito comunista, Unione socialista araba), 3 erano cristiani, tutti erano libanesi» (New York Times 3-8-06. Il libro s’intitola: Dying to Win - Morire per Vincere, Usa 2005):
Studiare più da vicino e non da lontano: uscire dai sonni dogmatici comincia così, aiutando davvero Israele. Ed è significativo che siano studiosi di terrorismo come Pappe a mostrare la strada. O come Jessica Stern, che suggerisce di non mescolare Iraq e Libano, guerra globale anti-terrore e guerre locali: «Gli errori fatti su un fronte guastano l’efficacia nell’altro, anche perché gli eventi (Guantanamo, Abu Ghraib, Cana) vengono filmati, confermando l’idea che l’Occidente stia combattendo una guerra contro l’Islam» (The Boston Globe, 1-8-06). Da questo punto di vista, scrive Stern, i terroristi hanno vinto. Il Gihàd è divenuto una «moda globale», non diversa dai violenti ritmi del gangsta rap: si nutre di bambini morti, di risentimento, pervadendo le zone di conflitto come le città d’Occidente. Ignorare questi pericoli è sonno dogmatico.
Lo dice Thomas Friedman, che approvò la guerra in Iraq e ora invita a riconoscerne il fiasco. Essa ha moltiplicato il terrorismo, ha irrobustito l’Iran suscitando negli sciiti una sete di rivincita mondiale, e ha lasciato solo Israele. Dunque oggi non resta che trattare con l’Iran oltre che con la Siria, «così come la Casa Bianca trattò nel 2003 con la Libia» (New York Times 2-8-06). Non si può ottenere da Ahmadinejad la rinuncia all’atomica, e al tempo stesso tenere l’Iran sotto tiro. Bisogna dargli precise garanzie di sicurezza, simili a quelle date a Gheddafi. Bisogna instaurare con Teheran una guerra fredda, fondata sul suo contenimento anziché sul suo arretramento forzato (roll-back). Si dirà che il comunismo sovietico non colpiva come oggi vengon colpiti Israele e Occidente. Ma l’Urss non aggrediva alla maniera di Hezbollah perché contenimento e dissuasione avevano funzionato, non perché esistessero buone condotte da premiare. È questa dissuasione che oggi non funziona e per questo Washington barcolla come un ubriaco, fra la brama di abbattere regimi avversari e il desiderio - limitato ma più praticabile - di modificare i loro comportamenti.
EDUCARE ALLA MEMORIA Ricordare o dimenticare? Memoria, identità e speranza.
Elaborato di ricerca tratto dall’intervento di Brunetto Salvarani al Convegno Internazionale Ricordati di ricordare. Fammi ricordare, discutiamo insieme(Is 43,26) presso il Teatro Gonzaga di Bagnolo in Piano (RE)
di LAURA TUSSI
Un’interpretazione biblica sostiene che “se non ci fosse la dimenticanza l’uomo penserebbe continuamente alla propria morte”, non costruirebbe case, non si affaccenderebbe, non parlerebbe con gli altri e neppure amerebbe nessuno: perciò Dio ha posto nell’uomo la dimenticanza. Perciò un angelo è incaricato di insegnare al bimbo, cosicchè non dimentichi nulla, ma un altro angelo è incaricato di chiudergli la bocca perché dimentichi quanto aveva imparato. La tradizione è perennemente sospesa nella scelta non di rado traumatica tra memoria e oblio. Parafrasando la litania dei tempi nel capitolo terzo del Qoelet si dovrebbe avvertire che esiste un tempo per fare memoria ed un tempo per astenersi dal ricordare. Il tempo della memoria si esplica perché quanto è accaduto non abbia mai più da accadere. Vi è un tempo dell’oblio per non vedersi inchiodati ad un passato che va superato e messo in discussione, per non farne un idolo pericoloso e dogmatico. Esiste un ricorso retorico all’appello alla memoria, oggi, molto diffuso. Si tratta di un riferimento spesso appunto puramente celebrativo, ornamentale, privo di reale mordente e scadente persino nel linguaggio adottato. E si presenta il rischio di diffondere talvolta in buona fede, la convinzione di una necessità di pacificazione sociale ottenuta al prezzo della smemoratezza, giungendo al punto di occultare le fonti storiche o di riabilitare i colpevoli trovando una colpa nel crimine. La memoria è un esile filo interiore che ci tiene legati al nostro passato, quello individuale, quello familiare, quello della società civile di appartenenza, in quanto risulta faticoso vivere in modo fecondo la relazione con il proprio passato, dato che si corre sempre il rischio di rimanere prigionieri di ciò che è trascorso, incapaci di superarne gli errori, ma anche subentra la tentazione di spezzare ogni vincolo con il passato, come se fossimo i primi abitatori di questo pianeta. Bernardo di Chartres, con un’immagine ormai celebre, diceva che gli uomini sono nani che camminano sulle spalle di giganti, che, fuor di metafora, sono le nostre storie, i successivi e contradditori volti del passato. E’ necessario il coraggio della memoria e non il culto asettico di quanto è accaduto. Comunque non tutto va ricordato in ogni momento di quanto ci è accaduto in termini di male, di sofferenza, di vicende traumatiche. Esistono avvenimenti di tale straordinaria complessità e grandezza che non li si dovrebbe ricordare in ogni momento, ma non li si dovrebbe nemmeno dimenticare: la Shoah è uno di questi accadimenti. La commemorazione rituale non solo è di scarsa utilità per l’educazione della popolazione quando ci si limita a confermare nel passato l’immagine negativa degli altri o la propria immagine positiva. Essa contribuisce anche a sviare la nostra attenzione dalle urgenze presenti, procurandoci una buona coscienza con poco investimento. La ripetizione lancinante del mai più questo, all’indomani della prima guerra mondiale, non ha impedito l’avvento della seconda. La memoria in crisi del secolo breve risale a partire dalla considerazione notissima, di solito citata anche in apertura di ogni riflessione, sulla rinascita della “Teologia narrativa” di Walter Benjamin. La caratterizzazione di questo secolo è appunto la problematicità, la difficoltà e addirittura l’impossibilità di scambiare esperienze e, a partire da questo, evidentemente, una messa in crisi forte della possibilità della memoria. La memoria in disfacimento può essere rappresentata dalla figura ripresa dallo stesso Benjamin del reduce dal fronte della prima guerra mondiale che torna a casa, ma non è in grado di proferire quanto gli è accaduto, perché l’esperienza, le emozioni belliche sono state troppo forti per lui e non trova le parole adatte per tradurle adeguatamente. Accanto al reduce dal fronte si può porre una figura letteraria di Borges, un racconto paradossale secondo cui un ragazzo dell’Uruguay, dopo una brutta caduta da cavallo, è condannato a rimanere paralizzato. Ma, per una sorta di compensazione, egli acquista la memoria di tutto ciò che è successo lungo la storia del mondo. Una memoria totalizzante e omnicomprensiva e proprio per questo inservibile, un deposito di infinito. Il reduce dal fronte e il ragazzo uruguayano sono emblemi dell’atrofizzazione dell’esperienza che rappresenta il tratto caratteristico della modernità, alla base della crisi della memoria, perché subentra un cambiamento incessante dal momento che non appaiono più configurabili né una tradizione, né una memoria collettiva e quindi punti di riferimento comuni e condivisi. Il reduce e il ragazzo sono i simboli contrapposti di un’umanità dalla voce inceppata, incapace di fornire storie di salvezza, impossibilitata a scrollarsi di dosso le ruggini della guerra, le ferite dell’odio, la rabbia impotente dell’ammucchiarsi insensato dei giorni. Del resto persino Dio, in qualche modo, è ammutolito di fronte ad Auschwitz e come ha affermato Adorno “La cultura e la stessa critica della cultura ad Auschwitz non sono altro che spazzatura”. Attualmente viviamo questo estremo paradosso di essere immersi in un mare magnum di stimoli, di informazioni, di notizie grazie ai mezzi informatici, ai musei, agli archivi, ai media, alla persino parossistica riproducibilità tecnica, però immersi in tantissimi ricordi ed in pochissima memoria, cioè poca capacità e strategia selettrice, scarsa riflessione critica rispetto a questo mare magnum di nozioni e informazioni. Quindi le distorsioni della memoria contribuiscono a produrre una sorta di imbarbarimento generale nelle relazioni interpersonali. Vi è un ricorso distorto alla memoria che in anni recenti ha condotto gli uomini del nostro tempo al conflitto etnico, alla ricerca di una impossibile e stupida purezza e superiorità razziale, ad un presunto conflitto di civiltà che assume sempre più, soprattutto dopo l’11’settembre, il sapore contraffatto di "una profezia che si autodetermina", ”l’apparente visione che la guerra possa essere concepita come “giusta" e subentra l’oblio di chi predica la xenofobia, dimenticando colpevolmente, come capita nel nostro Paese, quando, tutti i giorni, gli Albanesi, i profughi, i fuggiaschi, gli emigrati, gli stranieri e i dannati della terra eravamo noi, i nostri genitori, le nostre nonne, i nostri nonni. Così finiamo per confondere le cause con gli effetti e attribuiamo ad un presunto odio ancestrale le guerre tra due popoli, dimenticandoci, al contrario, che sono appunto le guerre a generare e a perpetuare l’odio. Ormai viviamo solo nell’attimo e nelle emozioni, bruciando e spettacolarizzando notizie e informazioni senza mai trovare il tempo e l’occasione di farne reale esperienza, di risponderne con responsabilità, di farne bagaglio utile per il futuro, producendo invece indifferenza, banalizzazione e retorica. In una stagione che i sociologi definiscono in preda all’incertezza più totale, caratterizzata da una memoria ormai in frantumi, che fatica a gestire il proprio ieri, in funzione di un odio aperto al domani, rischia di diventare un’impresa fallimentare e persa in partenza la sfida, pur necessaria di educare alla memoria. Non tanto quella retorica e rassicurante che mira a conservare lo status quo o quella purificazione e riconciliazione delle memorie che pretende la cancellazione di quanto avvenuto, un rischio ben presente agli occhi del teologo Mendes nella sua elaborazione di una teologia politica credibile nel contesto della modernità, tanto da fargli ammettere: ”La memoria sembra essere una controfigura borghese della speranza”, che ci dispensa ingannevolmente dai rischi del futuro. Ci si riferisce alla memoria del buon tempo andato per cui il passato viene inevitabilmente letto come un paradiso incontestato, un asilo delle illusioni attuali, in tal modo il passato viene filtrato attraverso il clichè della iniquità e il ricordo si trasforma in falsa coscienza, il nostro ieri e in oppio, il nostro oggi. Ma esiste un’altra forma di memoria che ci provoca e attraverso cui le esperienze antiche irrompono nel mezzo della nostra vita, regalandoci intuizioni nuove per il presente. Scrive Mendes: “Memorie che perforano il canone dell’evidente comunemente recepite, sabotano in qualche modo le nostre strutture di plausibilità e in questo modo possiedono proprio dei tratti sovversivi. Dunque una memoria pericolosa ed eversiva, una memoria, quella cristiana non meno di quella ebraica, che contempla, in modo specifico, non tanto il ricordo di principi, idee, astrazioni, ma piuttosto rivive le storie, gli eventi, i fatti davvero accaduti, per cui la comunità che ne nasce si autodefinisce come una realtà narrativa e commemorativa: ecco la strategia del ricordo...quando è lecito pensare che il contrario di oblio non sia memoria, ma giustizia. Laura Tussi
L’EDUCAZIONE ALLA PACE. CONFLITTI, AFFETTI, CULTURA: FRANCO FORNARI 2005. Convegno Internazionale
a cura di LAURA TUSSI
In un’epoca in cui i conflitti internazionali producono nuove forme di guerra e in cui assistiamo a grandi trasformazioni delle relazioni tra i popoli e le istituzioni, una lettura dei processi individuali e sociali di rappresentazione degli affetti può offrire un importante contributo alla costruzione di una nuova cultura, un’arte della pace, come capacità di soluzione non ideologica dei conflitti. Franco Fornari (1921-1985), uno dei maggiori psicoanalisti ed esponente di primo piano della cultura italiana, ha elaborato un modello teorico, che ha applicato non solo al lavoro clinico individuale, ma anche all’analisi delle dinamiche dei gruppi, dei conflitti istituzionali e sociali, della guerra e dei prodotti culturali, dalla letteratura all’arte e alla musica. Nel ventennale della sua scomparsa, il Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti (componente della Società Psicoanalitica Italiana), la COIRAG (Confederazione delle Organizzazioni Italiane per la Ricerca Analitica sui Gruppi) e il Minotauro (Istituto di analisi dei codici affettivi) organizzano un convegno che - riconoscendo l’attualità del pensiero di Fornari e l’importanza della sua figura - si propone come spazio di riflessione e dialogo sulla dimensione simbolica e affettiva dei processi sociali e culturali.
Adolescenza, educazione e affetti
I ragazzi considerati “difficili” manifestano comportamenti percepiti come dissonanti rispetto ai modelli condivisi, e danno la percezione effettiva di un disagio interrelazionale all’interno del gruppo sociale. Per gran parte dell’approccio pedagogico, ma anche psicologico, il progetto rieducativo del ragazzo difficile parte dalla presa in considerazione della storia di vita personale, collegata agli affetti, alle figure primarie di riferimento, ai codici comunicativi della prima infanzia, alle dinamiche affettive che si sviluppano all’interno del contesto familiare. Il paradigma pedagogico teoretico individua il contributo del soggetto nella costruzione del proprio modello d’interpretazione del mondo e di azione sullo stesso. Con il paradigma fenomenologico si individua il comportamento deviante come la parte di un tutto complesso ed individuale: il soggetto. Dal tutto si può comprendere la parte. Il “ragazzo difficile”, nella sua globalità di persona, fornisce indizi per cogliere il comportamento deviato. Una relazione educativa, per essere autentica, deve fondarsi sul presupposto di una reale comunicazione con l’altro, in un interscambio che provochi una rivisitazione e rielaborazione personale. Spesso negli adolescenti si avverte un profondo disadattamento interiore, ossia assenza di intenzionalità, per cui il soggetto risulta incapace di attribuire senso e significato alla realtà. Subentra una svalutazione del sé affidata spesso ad un altro coetaneo o ad un adulto, inseguendo una inutile fuga dal proprio sé, che a volte raggiunge gli estremi del suicidio e dell’abuso di sostanze. Con la distorsione dell’intenzionalità si verifica un eccesso dell’io, una volontà assoluta di affermare se stessi, con un posto centrale ed esclusivo nella costruzione della realtà, che paradossalmente rivela una fondamentale incapacità di comunicare con l’altro. L’”altro” diviene un esclusivo mezzo di affermazione di sé, come spettatore del proprio esibizionismo narcisista. Lo scopo pedagogico mira ad una strutturazione dell’intenzionalità, ossia la capacità, anche creativa, di attribuire senso e significato al mondo e alla realtà, giungendo così ad una riappropriazione soggettiva, all’adattamento sociale, al reinserimento, all’entropatia. L’intervento educativo ed anche psicologico sono volti ad ampliare l’orizzonte qualitativo del mondo relazionale del ragazzo, al fine di costruire condizioni di ripensamento della realtà, con l’obiettivo di rieducare e condurre all’ottimismo esistenziale e colmare le carenze con pratiche di restituzione, come attraverso l’educazione al bello, al difficile, all’impegno, al senso di responsabilità.
I codici affettivi
Vengono testimoniati tre livelli importanti su cui opera l’istituto di analisi dei codici affettivi “Il Minotauro” di Milano: il livello della formazione ereditato da Franco Fornari che lasciò ai suoi allievi il compito di portare un’ottica psicanalitica al di fuori del setting, ma di utilizzare la teoria psicanalitica dei codici affettivi nei contesti gruppali ed istituzionali. Questa è l’anima originaria del Minotauro, nato intorno al 1985, con l’obiettivo di cimentarsi in progetti più ampi ed in qualche modo di portare il soccorso, la consolazione e la comprensione che la figura psicanalitica può dare, in un ambito culturale più ampio e non prettamente duale e clinico. In questo libro è testimoniata una forte propensione del centro “Il Minotauro”, a fare ricerca di base, anche spesso su vari argomenti su cui non è stato scritto nulla e su cui non si ha un confronto bibliografico di supporto. Questa passione per la ricerca si è attivata per partire dalla formazione: non si può praticare formazione se non si conosce il gruppo, l’istituzione, il problema di cui si tratta. Quindi la ricerca è a sostegno del lavoro istituzionale, ma essa ha assunto anche un significato diverso, di sostegno alla clinica. In un’ottica psicanalitica classica, quando si tratta di adolescenza, si considera la riedizione di tematiche critiche della prima infanzia. In questo senso si reperiscono dei meccanismi così originari e così antichi in qualche modo fondanti la concezione e costruzione stessa del soggetto infantile, che se si rivede l’adolescenza come riedizione, non è così importante conoscerla nella propria fenomenologia attuale, perché se i meccanismi osservabili sono relativamente invarianti, riguardando la psiche profonda, in un certo senso si può credere, nella ricerca, all’interno del setting psicoanalitico, di conoscere già ciò che non si conosce, in quanto nei soggetti analizzati si ritroveranno dispositivi affettivi, modalità di ripetizione, comportamenti relativi alle difficoltà nel rapporto con le figure primarie di riferimento. “Il Minotauro” non crede, al contrario, nelle riedizioni. Charmet in un altro testo corale pubblicato nel 1990 “L’adolescente nella società senza padri”, nell’introduzione vira decisamente con il discorso verso la clinica, trattando di blocco dei compiti evolutivi e soprattutto di futuro e non di passato, come regista dell’evoluzione adolescenziale. Forse lo stesso gruppo de “Il Minotauro” non ha ancora integrato del tutto le potenzialità di queste affermazioni blasfeme, perché in ambito psicoanalitico prendere in considerazione il futuro come regista, colloca in una condizione difficile e critica in cui è rischioso permanere. I consulenti e gli operatori de “Il Minotauro”, partendo da questi presupposti, sono riusciti ad ampliare le prospettive come nuova forma mentis ed ulteriori conoscenze. La comprensione e la visione del futuro, passa attraverso una competenza anche fenomenologica, per cui risulta indispensabile conoscere le culture adolescenziali, come si declinano attualmente le rappresentazioni del sé degli adolescenti, attraverso quali mode e modalità. Quando di fronte ad un taglio clinico che presenta un nuovo problema, la mente del gruppo, spesso si attiva, iniziando una ricerca, il nuovo paziente può porre un ulteriore quesito. Con la clinica classica si potrebbe comprendere , capire e analizzare quel paziente, svelando le regole di appartenenza ad un determinato contesto sociale o ad un certo carattere culturale. La consultazione psicologica sembra l’unica all’interno della quale vaste aree di adolescenti possono transitare utilmente, essendo la psicoterapia dedicata ad una fetta marginale di adolescenti, tendenzialmente molto evoluti, e di condizioni particolari. Una conoscenza preliminare di affetti sociologici, di rappresentazioni culturali tramite cui gli adolescenti esprimono il loro disagio e l’identità confusa, è un passaggio davvero cruciale e fondamentale. Si avverte una presa di distanza nel modo tradizionale di fare clinica, in particolare riguardante ragazzi con maggiore difficoltà di simbolizzazione. Forse si tratta proprio di una clinica che consente di operare in generale con gli adolescenti tramite un modello analitico che può dare un contributo anche ad altre fasce d’età.
LAURA TUSSI
LE IEROFANIE DIVINE Pluriculture e religione. La fenomenologia delle divinità Relazione di ricerca al libro di R. Panikkar, Divinità, EMI con introduzione di B. Salvarani.
di LAURA TUSSI
L’autore Raimon Panikkar ricerca, con questo libro, l’immagine che le divinità rappresentano per l’uomo, in pluriculture sacrali di ierofanie del divino. L’uomo si sente solidale con i ritmi cosmici; la storia sacra viene trasmessa dai miti ed è indefinitamente ripetibile. I modelli delle istituzioni, le norme di condotta si ritengono rivelati dall’inizio dei tempi e di origine sovrumana e tramandati da miti, ossia archetipi e ripetizioni del sacro. Il simbolo, il mito, il rito costituiscono un complesso sistema di affermazione ultima delle cose, una vera metafisica. L’oggetto o l’azione sacra acquistano un valore reale perché partecipano di una realtà che li trascende. Per esempio, una pietra diventa sacra perché costituisce una ierofania oppure perché ricorda un atto mitico, o perché la forma ha un simbolismo. L’oggetto diviene ricettacolo di una forza esterna, che lo differenzia dall’ambiente per senso e valore. L’uomo arcaico compie atti e azioni già compiuti da archetipi mitici. La sua vita è ripetizione di gesti inaugurati da altri. Il rituale è ricordo, di un evento mitico, e ripetizione dell’evento stesso, al contempo. L’evento rivive e ripete ciò che è avvenuto in “illo tempore”, in un passato fuori dal tempo. L’evento sacro originario diviene un modello, un archetipo. Le nostre azioni sono ripetizioni archetipiche. Il tema della ripetizione dell’archetipo è già presente in Platone, infatti egli è il filosofo della mentalità primitiva. L’”eterno ritorno” non va inteso nel senso di ciclicità come per Eraclito, ma l’eterno ritorno a modelli, azioni esemplari, archetipi, in una globale valorizzazione della metafisica dell’esistenza umana, non in quanto individualità e temporalità, ma perché connessa a radici che ne prescindono, ossia trascendenti. La ripetizione caratterizza l’ontologia dell’uomo arcaico. Tutta la vita arcaica è immersa nella sacralità e di conseguenza, noi, traiamo da questa affermazione, il significato che tutta la vita arcaica è immersa nella ripetizione, la quale ha funzione di segregare e isolare la temporalità altra dell’evento esemplare, dall’inserimento nella realtà quotidiana. L’autore ha un’ idea del sacro che si esprime in diverse forme, tutte legittime, per cui rende illogico ogni tipo di lotte confessionali e di particolarismi religiosi, mettendo in guardia riguardo ad un futuro in cui la ripetizione dovesse riguardare non solo il sacro, ma altri ambiti. La ripetizione si presenta a livello sociale nei movimenti totalitari per esempio il comunismo rumeno o il nazifascismo, in cui il capo costituiva l’archetipo e la ripetizione si traduce nella regola.
Il simbolo del “centro”
La realtà è conferita dalla partecipazione al simbolismo del centro, per cui tutto è reale in quanto assimilato al centro del mondo, in cui si trovano la montagna sacra, su cui avviene l’incontro tra cielo e terra, il tempio- palazzo-città sacra, considerati punti di incontro tra cielo- terra- inferno. Nelle varie civiltà la montagna sacra assume connotati topologici e geografici reali. Per esempio per gli indù esiste il monte Meru, in Palestina il monte Thabor, che significa in ebraico “ombelico”= tabbur. Per i Cristiani il Golgota è il luogo in cui Abramo fu creato e poi sepolto e redento dal sangue di Cristo, ivi crocefisso. Per l’Islam la montagna sacra per antonomasia è la KA’aba. La sommità della montagna cosmica è l’ombelico della terra in cui ha avuto origine la terra e la creazione divina. Questi termini specifici sono improntati sull’embriologia trilogica di Dio-Madre-Origine connotati dal simbolismo del “centro” sopravvissuto nei tempi moderni, attraverso l’immagine del templio, imago mundi che si ripresenta nella basilica cristiana, ossia la Gerusalemme Celeste. Il centro è lo spazio limitato, la zona del sacro, quale realtà assoluta per cui la via che vi conduce è difficile come i pellegrinaggi, le peregrinazioni (argonauti), i labirinti, le difficoltà del cammino dentro di sé, al centro dell’essere, quali riti di passaggio dal profano al sacro, dalla realtà all’eternità che preludono l’iniziazione e la consacrazione. Ogni creazione umana ripete l’atto cosmogonico per eccellenza come creazione; tutto ciò che è fondato si trova al centro del mondo, perché la creazione avviene a partire da un centro. In India, per esempio, per fondare una città o costruire una casa, l’astrologo indica il centro del mondo sopra cui si trova il serpente Vrtra che rappresenta il Caos, amorfo, non manifestato. Lo stregone in seguito pianta il palo nella testa del serpente come gesto primordiale di creazione di Soma e Indra, al fine di assicurare Realtà e Durata (spazio trascendente che corrisponde con il centro) di una costruzione: così è ripetuto l’atto divino della creazione esemplare, con la ripetizione dell’atto cosmogonico, per cui il tempo concreto è proiettato in un tempo mitico.
Rituali e gesti profani ripetono atti posti ab origine dagli dei.
Ogni rituale ha un modello divino, un archetipo paradigmatico. Si suppone che tutti gli atti religiosi fondati da dei, eroi civilizzatori, antenati mitici, ma anche ogni azione umana, hanno significato perché ripetono l’azione mitica compiuta dal dio, eroe, antenato, per cui l’uomo ripete l’atto della creazione. Il calendario religioso commemora tutte le fasi cosmogoniche ab origine, per esempio il sabato giudaico, quale imitatio dei. La liturgia ecclesiastica è la totale ripetizione della vita e della passione di Gesù. I riti matrimoniali riproducono la ierogamia, come unione delle divinità cielo e terra. Il mito cosmogonico risulta un modello essenziale per tutte le cerimonie con scopo di restaurazione della pienezza integrale originaria. Si recita il mito cosmogonico della creazione per tutti i seguenti eventi suffragati, nelle varie tradizioni, da cerimonie rimemorative di uno status originario: la guarigione, la fecondità, la nascita, i lavori agricoli. Si può anche affermare che il mondo arcaico ignora le attività profane, infatti molti riti legati ad esso, hanno subito un processo di desacralizzazione. Oggi sono considerati profani diversi rituali come per esempio la danza, che ha origine da un’attività sacra, con riferimento ad un modello extraumano, quale l’animale totemico o emblematico, la divinità, l’eroe. Lo scopo precipuo della danza è rendere onore ai morti e propiziare un buon ordine del cosmo, attraverso movimenti e cadenze che imitano il gesto archetipico o il momento mitico. Dunque la ripetizione è la riattualizzazione e ritualizzazione di “quel tempo”. I rituali del duello, della lotta-conflitto richiamano l’imitazione di modelli archetipici. Per esempio, nella tradizione nordica il primo duello tra il dio Thorr e il gigante Hurungnir prelude a gestualità e movenze che vengono ripetute anche nell’iniziazione militare. Secondo le società tradizionali tutti gli atti importanti della vita quotidiana sono rivelati ab origine da dei o eroi: gli uomini ripetono quei gesti paradigmatici. L’oggetto o l’atto mitici sono reali solo se imitano o ripetono un archetipo. L’uomo arcaico si riconosce reale quando cessa di essere “se stesso” e ripete i gesti di un altro. Questa ontologia primitiva presenta una struttura platonica, ossia arcaica, per l’abolizione del tempo con l’imitazione di archetipi e ripetizione di gesti paradigmatici. Quando l’atto acquista realtà per la ripetizione di modelli archetipici, subentra l’abolizione del tempo profano, della sua durata e della storia, così l’azione è trasportata in epoca mitica. Molti grandi condottieri e sovrani del passato si consideravano imitatori di un eroe primordiale, con la trasformazione dell’uomo in archetipo con la ripetizione dell’atto sacro: tale memoria collettiva conserva il ricordo di un avvenimento storico. L’imperatore Dario si riconosceva nell’eroe della mitologia persiana Traetaona che uccise un mostro. I faraoni egizi si immedesimano nel dio RE vincitore del drago. La storia è una ritualizzazione e riattualizzazione del mito primordiale. Per esempio San Giovanni di Rodi, celebre perché uccise il drago di Malpasso, è integrato in una categoria mitica, in un archetipo, in un modello esemplare, ossia il San Giorgio. La mitizzazione dei prototipi storici dei canti epici popolari sono modellati sugli eroi dei miti antichi. Il ricordo di un avvenimento storico permane per breve durata nella memoria popolare che trasforma e assimila gli avvenimenti in categorie mitiche e i personaggi storici in archetipi: in questo senso la memoria popolare è antistorica.
La rigenerazione del tempo
In ogni civiltà è presente la concezione della fine e dell’inizio di un periodo temporale fondato sulle osservazioni dei ritmi biocosmici in un sistema di purificazioni periodiche (digiuni, confessioni) e di rigenerazione ciclica della vita e del tempo. Alla fine dell’anno subentra l’abolizione dell’anno passato e del tempo trascorso. Le cerimonie di purificazione racchiudono il significato della combustione delle colpe dell’individuo e della collettività, con una nuova nascita mediante la cacciata di presenze demoniache, malattie e peccati, nel tentativo di restaurazione del tempo mitico (puro) della creazione: ogni anno nuovo si ripete la cosmogonia. I rituali in attesa dell’anno nuovo ripetono il passaggio dal caos alla creazione, per esempio l’Akitu babilonese, in cui il dio Marduk combatte il mostro Tiamat e crea il cosmo, ossia l’ordine. L’Akitu comprende elementi drammatici per l’abolizione del tempo passato, la restaurazione del caos e la ripetizione dell’atto cosmogonico. Nel popolo ebraico la vittoria cosmogonica rappresenta la rivincita sugli dei pagani. L’antropologo Wensink studia la simmetria nei rituali del mondo semitico, in cui prevale il concetto di cosmogonia. Vi sono di questi esempi nelle popolazioni dell’Iran e dell’Iraq. Per esempio presso i Mandei, Nauroz riproduce il giorno della creazione in cui si seminano sette tipi di semi in un vaso, per cui traggono le conclusioni dal raccolto. Per i contadini europei i giorni tra Natale e l’Epifania prefigurano i mesi dell’anno. Nel XIX secolo le tribù del nord America accellerano la fine del mondo invocando i morti e la chiusura del ciclo cosmico, come strumenti rituali di rigenerazione il cui scopo è annullare il tempo trascorso e abolire la storia con la ripetizione dell’atto cosmogonico, in un intento antistorico con la volontà di svalorizzazione del tempo, che svaluta gli avvenimenti senza modelli archetipici. Il primitivo vive in un continuo presente ripetendo le categorie mitiche, non registra l’irreversibilità della storia e del tempo che non sono interiorizzati e trasformati in coscienza collettiva. Il tempo ha una direzione ciclica nell’eterno ritorno. L’imitazione degli archetipi è uno sforzo disperato per non perdere il contatto con l’essere assoluto, il sacro, per cui la realtà si differenzia dal mondo profano che è irrealtà. L’uomo arcaico rifiuta di accettare e valorizzare la storia perché è impotente contro la sofferenza delle catastrofi, delle guerre e delle ingiustizie sociali, attribuendo sofferenze e dolore a influenze demoniache.
La storia come teofania
Per gli Ebrei ogni calamità storica era considerata punizione di Dio, Jhavè. I Profeti interpretavano le calamità come teofanie negative o positive. Per la prima volta i profeti valorizzano la storia, scoprendo il tempo a senso unico e non ciclico, quale volontà e personalità di Dio che interviene nella Storia (battaglie, assedi, calamità naturali) epifania divina. La nozione di rivelazione divina era implicita anche in altre religioni, ma avveniva in “illo tempore”, nel tempo mitico e imitata con i rituali della ripetizione. Al contrario la rivelazione monoteista avviene in un tempo con durata storica (per esempio le Leggi di Mosè) e implica l’accettazione della Storia come dialogo continuo con Dio, con la necessità di forte tensione spirituale. La cultura ebraica sopporta la Storia nella speranza che cesserà per sempre, con il Giudizio Universale. Nella concezione Messianica la Storia ha funzione escatologica, in quanto rigenerazione periodica della creazione sostituita dalla rigenerazione unica in futuro
I cicli cosmici
Secondo Anassimandro tutto torna all’Apeiron. Per Empedocle esistono due principi opposti, eterne creazioni e distruzioni del cosmos simili alla dottrina Indù in cui il tempo è suddiviso in Yuga. Eraclito sostiene una conflagrazione universale, ekpirosis. Il motivo dell’eterno ritorno caratterizza la cultura greco-romana. Subentra un atteggiamento antistorico di volontà di difesa contro la Storia e valorizzazione dell’Eterno Ritorno, quale statizzazione del divenire e annientamento dell’irreversibilità del tempo. Il mito dell’eterno ritorno è l’ultima variante del mito arcaico di ripetizione del gesto archetipo. Nelle religioni Iranica, Giudaica e Cristiana viene limitata la durata del cosmo ad un certo numero di millenni. Ma la storia può essere annullata e abolita diverse volte prima dell’escaton finale, per esempio, l’anno liturgico cristiano, caratterizzato dalla ripetizione periodica della natività, passione, morte e resurrezione, nella rigenerazione individuale e cosmica. Tali dottrine relative ai cicli cosmici costituiscono un modo per l’uomo di sopportare la Storia. Tratto comune di queste dottrine ellenistico-orientali è il momento storico contemporaneo, che presenta decadenza rispetto ai periodi storici precedenti, ma nell’aggravarsi della storia contemporanea subentrano segni seguenti di rigenerazione, per cui la storia è sopportata perché è necessaria alla futura rigenerazione. Il popolo romano aveva due miti principali: la vita dell’Urbe, limitata ad un certo numero di anni e il Grande Anno, ossia la fine della storia di Roma con ekpirosis finale. Ma con Augusto si ripete l’età dell’oro cantata da Virgilio che evita l’ekpirosis, ma subentrano guerre e epidemie, segni di passaggio tra l’età del ferro e dell’oro, nel supremo tentativo di valorizzare la storia. Guerre, distruzioni, catastrofi non sono più segni premonitori di passaggio da un’età all’altra, ma esse stesse sono passaggio. Sant’Agostino diceva “una sola città eterna, ossia Dio”, infatti il pensiero cristiano supera gli schemi dell’eterna ripetizione e scopre l’importanza della fede e del rinnovamento personale. La concezione arcaica del tempo è archetipica e antistorica e si distingue dalla concezione moderna, posthegeliana. La prospettiva storicistica permette all’uomo di sopportare le pressioni della storia? Come? Hegel valorizza l’avvenimento storico in se stesso, tramite il concetto di necessità storica che giustifica le sofferenze con la necessità del “momento storico”, anche con il collegamento con la concezione giudeo-cristiana. Secondo Hegel la Storia è avvenimento e manifestazione dello spirito universale, simile a Dio e ripetizione di tesi-antitesi-sintesi. Per i Profeti l’avvenimento è valido e irreversibile perché è manifestazione della volontà di Dio, in una prospettiva rivoluzionaria nella società arcaica dominata dalla ripetizione degli archetipi. Marx spoglia la storia di significati trascendenti, in quanto è epifania della lotta tra classi. Gli avvenimenti portano ad uno scopo preciso, l’eliminazione del terrore della Storia, con l’Età dell’oro, per cui abolito il male subentra la Giustizia. Anche lo storicismo e la filosofia della Storia sostengono l’idea della sopportazione della Storia, ma non è sufficiente se non subentra un significato trascendente, a cui attribuire colpe. Infatti la maggior parte della popolazione europea viveva nella prospettiva tradizionale antistoricistica. L’orizzonte degli archetipi non può essere superato con la prospettiva storicistica, ma è superato, per la prima volta nella storia, dalla religione giudeo-cristiana, che ha introdotto una nuova categoria: la fede, ossia la libertà creatrice per l’uomo che poggia su Dio. La fede può attribuire significato trans-storico alle tragedie storiche. La teoria ciclica del tempo perdura fino al XVII secolo (Dante, Bacone, Campanella, Bruno), mentre dal XVII secolo in avanti subentra la teoria lineare della Storia (Pascal) con la fede nel progresso infinito con Leibniz nel secolo dei lumi. Nel 1900 con Nietzsche ritorna la concezione ciclica della Storia e del tempo.
LAURA TUSSI