LA SOCIETA’ IN ROSA
In Occidente le donne stanno assumendo un ruolo centrale nel tentativo di combattere gli effetti negativi della modernizzazione: le fratture tra corpo e mente, interesse ed emozione, diverso e simile: non agiscono in quanto movimento collettivo, ma come forza di trasformazione culturale.
di Alain Touraine (Il sole-24 ore, 4 giugno 2006: www.libreriadelledonne.it)
Il soggetto è una figura dell’individualismo occidentale, liberato dalle regole della comunità, della tradizione e degli apparati del potere e questo sarebbe ancora più vero per le donne. Sottomesse alla propria funzione sociale e insieme al potere degli uomini in gran parte del mondo, sperano nella libertà di lavorare per sottrarsi alla tutela del marito o della suocera, nell’indipendenza economica, nell’uguaglianza giuridica e nella libertà sessuale. L’emancipazione non è forse il principio stesso della formazione del soggetto? La donna occidentale della classe media incarnerebbe quindi l’idea di soggetto, mentre nel resto del mondo gli ideali femminili sarebbero contraddetti dalle pressioni comunitarie e dai divieti religiosi.
Questa visione "liberale" si oppone all’idea si soggetto come io l’ho definita e posta al centro della mia analisi: il soggetto non dipende da una qualche forma di individualismo o di emancipazione. E’ l’affermazione del diritto di ognuno alla libertà e alla responsabilità e ciò implica che la libertà individuale sia concepita da un lato come liberazione, dall’altro come solidarietà e almeno altrettanto come ricerca della produzione del sé contro tutti i determinanti sociali, culturale, psicologici o politici che riducono l’individuo a mero consumatore. La formazione del soggetto può imboccare ognuna delle strade tracciate della modernizzazione e, necessariamente, ha effetti sull’ambiente sociale, sulle istituzioni sulle rappresentazioni.
La parola delle donne che si fa sentire mentre si esaurisce una modalità particolare della modernizzazione è propria delle società occidentali, più deboli e al contempo più dolci, nelle quali un’idea collettiva irrompe con forza. Combattere gli effetti negativi della modernizzazione che ha creato forme di dominio estreme e distrutto la natura mentre la conquistava. Noi cerchiamo di ricomporre l’esperienza collettiva ed individuale che è stata lacerata, legami tra termini che fasi anteriori della modernizzazione avevano contrapposto: il corpo e la mente, l’interesse e l’emozione, il diverso e il simile.
È questo il progetto del mondo presente, dal quale dipende la nostra sopravvivenza come dicono i militanti dell’ecologia politica: all’interno di questo nuovo orientamento, quali sono gli autori della ricostruzione? Chi occupa il posto dei lavoratori manuali nella società industriale, o dei mercanti che distrussero il sistema feudale? Sono le donne rispondo, perché sono state le vittime più complete della polarizzazione di società che avevano accumulato tutte le risorse nelle mani di un’èlite dirigente fatta di uomini bianchi, adulti, padroni o proprietari di ogni reddito ed armati, le donne considerate come non-attori, prive di soggettività, definite dalle proprie funzioni invece che della propria coscienza.
A farne le attrici sociali più importanti è il fatto che non agiscono in quanto movimento sociale quale è stato il movimento femminista oggi passato in secondo piano. Coscienza femminile e mutamento sociale non sono più separabili e le donne costituiscono piuttosto un movimento culturale.
Nel ribaltamento che porta da una società di conquistatori del mondo a una società della costruzione del sé, la società degli uomini è sostituita da quella delle donne. Non c’è alcun motivo di pensare che l’inferiorità delle donne lasci ora il posto all’uguaglianza: oggi le donne più che gli uomini hanno la capacità di comportarsi come soggetti in quanto portatrici dell’ideale storico della ricomposizione del mondo e del superamento di antichi dualismi, e perché si fanno direttamente carico del proprio ruolo di creatrici di vita, della propria sessualità.
Per un lungo periodo, gli uomini hanno gestito la storicità e creato la coscienza di sé. Da alcuni decessi ormai, e per un tempo indeterminato forse senza una fine prevedibile, siamo in una società ed abbiamo una vita individuale il cui "senso" sta nelle mani, nelle teste e nel sesso delle donne, più che nelle mani, nelle teste e nel sesso degli uomini.
L’universalismo, in cui vedo un attributo essenziale della modernità, è altrettanto sinonimo di difesa dei diritti individuali che dei risultati della scienza. E l’importanza suprema del femminismo è che, al di là delle lotte contro la disuguaglianza e l’ingiustizia, ha formulato e difeso i diritti fondamentali di ogni donna che si posso riassumere con una formula: il diritto di essere un individuo/a libero, gestito dai propri orientamenti e nel rispetto delle proprie capacità e potenzialità, di un "poter essere" per riprendere l’espressione con la quale Paul Ricoeur ha reso il termine capability usato da Amartya Sen.
Per due secoli abbiamo ascoltato la voce dei cittadini che hanno rovesciato lo Stato assoluto, dei lavoratori che hanno difeso i propri diritti all’interno delle imprese, dei popoli colonizzati che si liberavano da un dominio straniero e delle donne che rifiutavano il dominio maschile.
Ma il postfemminismo di cui si occupa il mio libro incita ad andare oltre, non a combattere un dominio in nome di una verità oggettiva o di una volontà collettiva, ma dare per scopo all’azione collettiva la proclamazione della libertà di soggetti creatori e liberatori di se stessi. E questo rende caduca quella sociologia basata sull’idea di un sistema sociale che mira all’integrazione e a gestire i cambiamenti. -(Traduzione di Silvie Coyaud).
* Alain Touraine è un sociologo militante: Con le Monde des Femmes (Fayard, pagg. 246 Euro 19,00) dice di questo libro: "Da uomo, non avrei mai osato scrivere un libro che tratta direttamente delle donne, se non per mostrare che esse creano una nuova cultura e segnalarne la natura storica e sociale, questo libro è rivolto a quegli uomini che ignorano l’esistenza di donne che si autodefiniscono e che si legittimano tra loro".
La modernità salvata dalle donne
di Alain Touraine *
Se faccio il bilancio dei temi cui ho fin qui accennato, vedo da un lato del quadro un movimento coerente, creativo, che è quello delle donne. Alla periferia, cioè lontano dalla creazione culturale, si collocano i movimenti di rottura e di critica radicale, come gli alter-mondialisti e le diverse forme di sogno della rivoluzione. Infine, una terza, nuova e importante categoria è quella della ricerca di combinazioni fra orientamenti opposti ma inseparabili, come si osservano nel caso dell’immigrazione e dell’integrazione degli immigrati.
Un quadro complesso che mostra il frantumarsi del modello culturale in cui i rapporti conflittuali fra classi socio-economiche occupava il posto centrale, mentre gli altri settori della vita sociale e culturale non potevano dar vita che a dei «fronti» specializzati: contadini, femminili, regionali o parlamentari. Questo ci obbliga a porci una domanda imbarazzante: in questa nuova situazione in cui coesistono almeno tre grandi forme di azione collettiva, nessuna delle quali corrisponde alla definizione precisa di movimento sociale, esistono movimenti propriamente sociali, movimenti cioè in cui gli attori si oppongono sul modo di utilizzare socialmente le risorse e gli orientamenti valorizzati da entrambe le parti?
La risposta non può essere che negativa. Esattamente come non può esistere un movimento politico al centro della società industriale, perché quel centro è occupato dai problemi del lavoro e dai conflitti che a quest’ultimo si associano. Ma questa risposta negativa deve essere corretta e completata perché ne sia chiaro il significato reale. Se è vero che le poste in gioco culturali sono diventate più importanti delle poste in gioco sociali, questi ultimi conservano, in molti casi, un’importanza considerevole, ma che prende una forma negativa.
Per dirlo più chiaramente, il lavoro non è più la categoria centrale, ma il non lavoro, la mancanza di un impiego, e, al di là della disoccupazione, l’esclusione di una parte della popolazione dal mercato del lavoro, hanno un’importanza sociale e politica considerevole. Soprattutto se vi si aggiunge il caso di coloro che, al vertice e non alla base della società, vivono di fatto al di fuori della loro società. Essi appartengono al mondo dei mercati internazionali, piuttosto che ad una nazione o ad una regione.
La nostra visione quotidiana del mondo dà una grande importanza a quelle macchie bianche che vediamo stendersi sulle carte, mentre in realtà la loro superficie non fa che diminuire da più di un secolo. Queste categorie ricoprono in parte quelle di cui già ho parlato, quelle degli immigranti o quelle dei piccoli salariati o dei lavoratori indipendenti che si sentono minacciati dalla globalizzazione e in particolare dalla delocalizzazione di alcune attività economiche, ma l’esclusione ha degli effetti specifici.
Questa analisi può essere generalizzata. Le categorie che si trovavano un tempo al centro di un tipo di società non possono giocare un ruolo importante in una diversa società che come forza negativa, come fattore di perdita di senso. Il caso più vistoso è quello delle categorie religiose. La loro deistituzionalizzazione conferisce loro un senso solo metaforico.
L’idea di una società completamente controllata da istituzioni e credenze religiose non ha un senso reale che quando queste istituzioni dispongono di un potere totalitario. Per questo non è un gioco di parole dire che questi movimenti sono «a-sociali». Come un secolo e mezzo fa si parlava di classi pericolose a proposito dei lavoratori che non avevano più posto nel sistema di produzione. Questi movimenti «a-sociali» prendono, al loro inizio, la forma di denuncia della violenza totalitaria che si esercita in primo luogo sulle categorie espulse dalla società.
Tutto sembra portarci a concludere che questo insieme di azioni collettive non si situa più all’interno della modernità e, in termini più concreti, all’interno di quello che ho definito il modello europeo di modernizzazione. È però meglio non arrivare a conclusioni affrettate. Occorre precisare i rapporti, positivi o negativi, che hanno legato la nozione di modernità a quella di movimento sociale e culturale e a diversi tipi di azione collettiva.
Non possiamo, in questo caso, affidarci completamente a studi empirici: occorre anche spiegare le ragioni per le quali si può affermare che le nozioni di movimento sociale e di modernità sono collegate e, in secondo luogo, perché la configurazione di azioni collettive che ho disegnato nel corso di questo articolo si colloca ancora all’interno della modernità.
A. Ricordando la definizione di movimento sociale che ho adottato, si vede che essa implica due elementi indispensabili: un conflitto fra due attori o gruppi sociali, ma finalizzato al controllo delle principali risorse culturali o materiali di una società. Un movimento sociale non può essere un conflitto fra idee religiose o morali; esso è gestito razionalmente, per esempio quando cerca di migliorare la relazione fra lavoro e salario. Un movimento sociale si iscrive in un quadro di razionalità, ma nello stesso tempo il riferimento comune degli avversari ad una posta in gioco, conferisce un significato superiore al loro conflitto. Si tratta dei diritti degli individui e delle comunità.
Ma questo riferimento comune a dei diritti nutre un conflitto sociale perché le idee di razionalità e di razionalizzazione, cha hanno occupato il posto centrale nella società industriale, non hanno lo stesso senso quando sono usate dai dirigenti che contano su un comportamento puramente razionale dei lavoratori, che permette una maggiore produttività oppure quando, e ciò è assai differente, dai lavoratori che difendono contemporaneamente la dignità di ogni lavoratore e la loro solidarietà.
Questo consente loro di ricorrere all’idea di diritto, conferendo all’azione di ciascuno una dimensione universalistica. È più semplice ancora trovare in un movimento culturale lo stesso contenuto conflittuale e lo stesso appello ai diritti fondamentali della persona umana.
Un movimento sociale non è né una semplice rivendicazione né un progetto di negoziato. Esso comprende sempre dei principi universalistici, a volte anche molto direttamente, come nel caso dei movimenti per l’uguaglianza e la libertà delle donne, dei lavoratori immigrati e di altre categorie. Ma sempre conservando una dimensione di conflitto.
Questo significa che ciò che costituisce un movimento sociale, è esattamente ciò che definisce la modernità, nel senso classico che io attribuisco a questa nozione, e cioè l’impegno per liberare l’individuo o il gruppo da ogni dipendenza esclusiva da situazioni sociali e credenze culturali. Questo movimento di liberazione si realizza con il ricorso alla ragione e per la difesa dei diritti individuali, considerati come diritti universali. Ogni movimento sociale è quindi apparso come rivendicazione e come promozione dei diritti politici, sociali o culturali, che devono essere conquistati da tutti. È questo richiamo ai diritti universali che sta al centro delle dichiarazioni americana e francese della fine del XVIII secolo.
Si può criticare la definizione ristretta che io dò sia dei movimenti sociali che della modernità; ma queste due nozioni, così come io ne parlo e le utilizzo in quest’occasione, sono strettamente legate. Esse si oppongono entrambe ad ogni comunitarismo, come ad ogni forma di dittatura di classe.
B. Questo principio generale d’analisi si applica ad una situazione come quella che io ho analizzato ora? Mi pare proprio di sì perché un movimento culturale come quello delle donne, si riferisce ancora più direttamente ai diritti universali, al di là degli interessi particolari che devono essere nello stesso tempo definiti razionalmente. Lo si nota chiaramente quando si considera che il movimento delle donne sostiene la necessità di lottare contro la disuguaglianza e la violenza e si afferma come volontà di far riconoscere una soggettività che è sempre stata rifiutata alle donne. (...)
Solo una società femminile può allargare il campo della modernità abbastanza per incorporare alcuni dei suoi avversari ed evitare gli altri.
Tratto dalla relazione proveniente dal convegno "Colloqui" a Cortona organizzato dalla Fondazione Feltrinelli
www.unita.it, Pubblicato il: 21.10.06 Modificato il: 21.10.06 alle ore 11.11
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Pari opportunità.
Perché oggi anche la scienza ha bisogno di avere più donne
A livello globale riesce ad affermarsi nel mondo della ricerca non più del 30% di esponenti del genere femminile, e solo poche di esse raggiungono posizioni apicali
di Vittorio A. Sironi (Avvenire, sabato 13 febbraio 2021)
«Vogliamo incoraggiare una nuova generazione di donne scienziate per affrontare le principali sfide del nostro tempo, facendo leva sulla loro creatività e favorendo l’innovazione che le donne possono portare nella scienza». Lo ha ricordato la direttrice generale dell’Unesco Audrey Azoulay per la celebrazione della “Giornata internazionale delle donne nella scienza” (11 febbraio).
Una ricorrenza annuale istituita dall’Onu a partite dal 2015 per promuovere e sensibilizzare l’uguaglianza di genere a favore dell’accesso paritario delle donne nella scienza. “Il mondo ha bisogno della scienza e la scienza ha bisogno delle donne” è il titolo-programma del manifesto delle Nazioni Unite, ben consapevoli che per trasformare e migliorare il mondo è necessaria una solida formazione scientifica, che deve essere accessibile in uguale misura agli uomini e alle donne, superando quelle differenze (e diffidenze) di genere che per troppo tempo hanno limitato alle donne l’accesso alla scienza.
Per secoli la loro presenza nella vita pubblica - tranne poche eccezioni - è stata modesta. Solo a partire dagli inizi del Novecento il crescente ruolo dell’istruzione femminile ha permesso alle donne, sia pure in modo non facile e con fatica, di iniziare ad affermarsi in ambito scientifico. È pur vero che la storia ricorda emblematiche figure femminili del passato che hanno saputo fornire importanti contributi alla scienza.
Nell’XI secolo Trotula de’ Ruggiero è stata la prima donna medico d’Europa, prima e unica magistra della celebre Scuola medica di Salerno ad avere coltivato nella storia una “medicina per le donne”. In tempi a noi più vicini altre due figure hanno segnato nel profondo, con i loro studi, la comprensione del mondo dell’infanzia. Maria Montessori (1870-1952), una delle prime donne a laurearsi in medicina in Italia, ha elaborato un originale metodo pedagogico per l’insegnamento infantile, operando anche attivamente per contrastare l’analfabetismo mondiale. Anna Freud (1895-1982), figlia del padre della psicanalisi Sigmund, ha dedicato la sua vita allo studio e alla comprensione dei meccanismi psichici delle prime età della vita.
Per la matematica giganteggia nel XVIII secolo la figura di Maria Gaetana Agnesi (1718-1799), mentre tra fine Ottocento e inizio Novecento domina la personalità di Marie Curie (1867-1934), vincitrice di due premi Nobel: nel 1903 per la fisica e nel 1911 per la chimica. Ancora però eccezioni in un mondo dominato dalla cultura e dal potere maschili. In questi ultimi decenni molte più donne hanno saputo affermarsi in ambito accademico e scientifico, anche se la loro presenza resta tuttora minoritaria.
L’ultimo rapporto “Women in science” dell’Unesco dello scorso anno evidenzia come nel mondo della scienza riesca ad affermarsi a livello globale non più del 30 per cento delle donne e che solo poche di esse riescono a raggiungere posizioni apicali. Eppure “primedonne della scienza” che hanno rivoluzionato conoscenze consolidate non sono mancate.
Emblematico in tal senso il ruolo svolto in ambito medico da due italiane. Rita Levi Montalcini (1909-2012), neurologa e premio Nobel per la medicina nel 1986 per aver scoperto il Nerve Growth Factor (fattore di crescita nervoso), con la sua tenacia scientifica ha rivoluzionato, dopo due secoli di consolidate nozioni neuroanatomiche, le conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso centrale, ribaltando la convinzione che, a differenza di altri organi, esso fosse una struttura statica nella vita adulta e dimostrando invece uno dei principi fondamentali delle moderne neuroscienze: la plasticità neuronale, cioè la caratteristica dinamicità intrinseca del sistema nervoso che dura per tutta la vita di un individuo.
Ilaria Capua, veterinaria e virologa, attuale direttrice dell’One Health Centre of Excellence dell’Università della Florida, ha cambiato il modo di fare ricerca quando nel 2006 ha sconvolto il mondo accademico con la sua scelta di rendere di pubblico dominio la sequenza genica del virus dell’influenza aviaria. Una decisione che ha avuto notevole risonanza internazionale e ha contribuito alla diffusione dell’open access ai contributi scientifici (prima gelosamente custoditi come preziosi segreti nell’ambito dei santuari accademici della ricerca), iniziando così a promuovere una campagna internazionale a favore del libero accesso ai dati sulle sequenze genetiche dei virus patogeni, in modo da favorire e velocizzare la ricerca di mezzi e metodi per contrastarne la diffusione. Se oggi non ci fosse questa libera condivisione globale delle informazioni scientifiche inaugurata dalla scienziata italiana, certamente non si sarebbe potuto arrivare in tempi così rapidi alla realizzazione dei vaccini per sconfiggere la pandemia di Covid-19.
Nella fisica delle particelle e in quella dello spazio, altre due donne hanno saputo dimostrare l’importanza e l’autorevolezza femminile in questi ambiti: Fabiola Gianotti, dal 2106 direttrice generale del Centro Europeo Ricerche Nucleari (Cern) di Ginevra, di recente riconfermata sino al 2025 (è la prima volta nella storia di questo ente che un direttore generale è selezionato per un secondo mandato), e Samantha Cristoforetti, ingegnere e astronauta, che con le missioni spaziali del 2014 e del 2015 ha stabilito il record europeo e il primo record femminile di permanenza nello spazio in un singolo volo (199 giorni).
Anche nell’ambito dello studio della natura nell’ultimo secolo le donne hanno svolto un ruolo di primo piano nella conoscenza dell’uomo e dei suoi stretti parenti animali. La zoologa statunitense Dian Fossey (1932-1985) - la “signora dei gorilla”, come è passata alla storia - ha contribuito in modo determinante a far conoscere le abitudini comportamentali dei gorilla di montagna del Parco nazionale dei vulcani in Ruanda, aprendo le porte a una nuova disciplina: l’etologia dei primati. Un filone di ricerca ripreso e ampliato dall’antropologa Jane Goodall con lo studio degli scimpanzé nel Parco Gombe in Tanzania, che ha portato alla comprensione del comportamento sociale di questi animali, dei loro processi di pensiero e della loro cultura. Un percorso metodologicamente non dissimile da quello pionieristico intrapreso molti anni prima da un’altra antropologa statunitense, Margaret Mead (1901-1978), applicato però alla specie umana, per illustrarne la complessità e le potenzialità individuali, mettendo in discussione i modelli culturali della sessualità alla base di ogni struttura sociale. Modelli che sono continuamente usati per costruire categorie stereotipate e per riprodurre all’infinito gerarchie di potere e ineguaglianza di diritti tra uomini e donne.
Oggi le neuroscienze forniscono un ulteriore contributo alla rivoluzione antropologica operata dalla Mead per il superamento delle discriminazioni uomo/donna. Il sesso è determinato dal fatto che un individuo è biologicamente maschio o femmina, mentre il genere è il risultato di un costrutto sociale o culturale. Altre differenze, come quelle cognitive, sono legate a una diversa organizzazione dell’encefalo nei due sessi, che però non indica la presenza di un talento più marcato negli uomini rispetto alle donne, ma semplicemente è espressione di possibili diverse modalità di funzionamento cerebrale. Nessun neurosessismo, dunque, ma una parità intellettuale tra generi che può e deve trasformarsi in positiva integrazione cognitiva. “Il futuro è delle donne” è uno slogan, ma racchiude una grande verità: pari capacità, pari diritti e pari opportunità tra uomini e donne costituiranno sempre più un vantaggio a favore di tutta l’umanità.
Lavoro, come approdare all’ozio evitando sensi di colpa
Scaffale. Il monumentale «Il lavoro nel XXI secolo» di Domenico De Masi, per Einaudi
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 04.08.2018)
Definire il lavoro oggi è il problema più importante. Esiste un uso lavorista del concetto che si presta al ricatto: ricevere una retribuzione, o un «reddito», a condizione di svolgere un lavoro qualsiasi, anche se questo è inutile o nocivo. Lavorare, ad ogni costo, attesta l’impegno morale dell’individuo a non farsi trattare un lazzarone, schizzinoso, free-rider o «neet».
ESISTE UN ALTRO USO del concetto di lavoro: quello neoliberale. In questo caso, l’emancipazione passa dalla valorizzazione del «merito» individuale sul mercato. I due approcci si intrecciano in combinazioni inattese sullo sfondo di una condizione comune: la crescita impetuosa del lavoro gratuito, sottopagato, iper-precario che con Marx si può definire «pluslavoro assoluto».
Si tratta dell’estrazione del valore da un’attività produttiva (anche su facebook) al di là del rapporto fondato sullo scambio tra salario e vendita della forza lavoro. Prospettive diverse che si accordano su un obiettivo: fare crescere a ogni costo l’occupazione - relitto della mentalità industrialista in un’economia finanziarizzata - affinché il governo di turno possa dire che una riforma del mercato del lavoro, o il marketing politico sull’ultimo decreto, funzionano.
IN QUESTO SCENARIO Domenico De Masi pubblica il monumentale Il lavoro nel XXI secolo (Einaudi, pp. 819, euro 24), libero dalle malposte provocazioni sul lavoro gratuito contenute nel precedente Lavorare gratis, lavorare tutti. Perché il futuro è dei disoccupati.
Da questo volume emerge il profilo di un sociologo che si è formato sui libri di Alain Touraine, critico dell’industrialismo e dell’alienazione del lavoro salariato, consapevole del ruolo occupato oggi dalla soggettività nella produzione, sensibile alle ragioni dell’ecologia critica e alle trasformazioni del ruolo dei movimenti sociali, della rappresentanza politica e sindacale.
I PUNTI DI MAGGIORE interesse di questo affresco di storia dell’umanità sono due. Il primo è che il lavoro è un prodotto storico. Ciò che in un tempo è ritenuto produttivo, o improduttivo, in un altro può non esserlo. De Masi suffraga questa tesi con l’analisi della transizione del lavoro dalla società industriale a quella postindustriale.
Il secondo elemento di interesse emerge già dalla sintesi esposta sulla copertina del libro. «L come lavoro - si legge - Un fenomeno che da sempre accompagna gli esseri umani come una condanna. Ma che nel XXI secolo potrà finalmente diventare una gioia creativa».
L’obiettivo è quello indicato da Marx, da alcuni dei suoi antesignani e da alcuni discepoli (il genero Paul Lafargue, ad esempio): la liberazione dal lavoro (salariato), la creazione di una società che non considera l’ozio come una colpa morale o attività riservata a una classe di ereditieri, ma come l’attività liberata dalle leggi del profitto.
Nel XXI secolo questa liberazione non si realizzerà grazie al capitalismo, ma attraverso la liberazione dal capitalismo. Non saranno le macchine a permetterlo, ma un loro uso diverso basato sulla cooperazione tra gli uomini e quella con le macchine al di là della proprietà.
PRODUZIONE, RIPRODUZIONE e redistribuzione del valore prodotto dalla «macchina combinata» composta dalla nostra forza lavoro e dall’algoritmo: questa è la tesi alternativa alla fede teologica nel positivismo tirato a lucido che percorre gran parte della copiosa produzione sul capitalismo digitale. E, in fondo, questo è il problema del comunismo in un mondo dove la produzione dei dati e la loro valorizzazione privatistica sono centrali
Il libro di De Masi è fiducioso nelle prospettive miracolistiche della rivoluzione digitale raccontate da una narrazione futurologica rilanciata anche dall’industria editoriale italiana.
CIÒ CHE SI CONSIDERA una realtà acquisita - il verbo dell’ideologia californiana per cui le macchine sostituiranno il lavoro umano - è in realtà una prospettiva molto sfumata e incerta messa in dubbio dalle ricerche più innovative. Il ruolo delle tecnologie capitaliste non è quello di assorbire lavoro, ma di sfruttarlo più intensamente, 24 ore su 24, senza nemmeno chiamarlo «lavoro». È una differenza enorme che può cambiare l’interpretazione della trasformazione in corso.
Il Lavoro nel XXI secolo non offre molti spunti sul modo in cui queste credenze vanno decostruite, anche se invita a immaginare un’esistenza non più centrata sul lavoro, o sulla sua mancanza. È già qualcosa in un momento in cui il lavoro è inteso come l’alternativa allo sfruttamento, mentre è una merce e, in quanto tale, la sua premessa e destinazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Michelle Perrot, quando la storia è sessuata
Un’intervista con la militante, attivista e intellettuale francese. Cruciale la sua «Storia delle donne in Occidente», insieme a Georges Duby per Laterza nel 1990
di Francesca Maffioli (il manifesto, 02.03.2018)
Nel 1973 Michelle Perrot, insieme a Pauline Schmidt e Fabienne Bock intitolano il loro primo corso all’Università Paris-Diderot: Les femmes ont-elles une histoire? (Le donne hanno una storia?). Tale interrogativo, provocatorio, rappresentava il mezzo per affermare l’esistenza di un campo di conoscenza e di studio pressoché sconosciuto. La seconda generazione della scuola storiografica delle Annales aveva rinnovato le prospettive d’osservazione e d’analisi della storia, comprendendo la storia economica, quella sociale e la considerazione delle categorie oppresse, tra le quali spiccavano le donne. Tuttavia, nei primi anni Sessanta la storia insegnata anche in ambito universitario restava una disciplina tendenzialmente asessuata.
L’INTERROGATIVO delle giovani studiose aveva messo a fuoco la questione dell’invisibilità delle donne nella storia e aveva condotto a domande sui tempi, i luoghi e le modalità dell’oppressione e della dominazione maschile. La storia di questa dominazione aveva cominciato a mettere in risalto la place degli uomini attraverso i secoli, guardando al loro ruolo in quanto soggetti non universali né neutri, ma maschili. In tal senso era stato necessario esaminare e riflettere sul confronto e lo studio della differenza tra i sessi, al fine di consentire una visione più ampia, rinnovata, diremmo più completa, della storia.
Negli anni Novanta la pubblicazione dei cinque volumi della Storia delle donne in Occidente, opera curata dalla stessa Michelle Perrot e da Georges Duby, costituisce uno spartiacque di riconoscenza della legittimità di una storia delle donne. È da ricordare che tale pubblicazione venne proposta e sostenuta dall’editrice italiana Laterza, solo a seguito della quale l’opera venne editata anche in Francia. La riflessione epistemologica attorno alla storia delle donne resta ancora valida, sebbene da una storia in cui le donne sono le protagoniste assenti si è passati a una storia sessuata del mondo intero. Ne chiediamo conto proprio a Michelle Perrot, oggi professoressa emerita all’Università Paris-Diderot, autrice di numerosi testi sulla storia delle donne, tra i quali Mon histoire des femmes (Seuil, 2006) e direttrice, con Georges Duby, del già citato Histoire des femmes en Occident, (Plon, 1991-1992).
La sua opera sulla storia delle donne in occidente ha conosciuto un grande successo. Si tratta di un frutto monumentale - sulla storia della rappresentazione delle donne e sulla storia dei rapporti tra i sessi attraverso i secoli. Quale il legame, quale la connessione, nella storiografia femminile, tra la storia della vita privata e quella pubblica?
È doveroso riconoscere la lungimiranza della casa editrice italiana Laterza, la quale chiese a Georges Duby, ed egli a me, di scrivere una storia delle donne. In realtà l’equipe che lavorò all’opera si era formata molto prima, circa 10 anni, e le nostre riflessioni erano già arrivate a un certo livello di maturazione. Per me e l’equipe (una settantina di persone) fu prioritario che il titolo portasse il sostantivo «donne» al plurale, per rappresentare un panorama tanto composito.
Bisogna tener conto che Duby codiresse precedentemente un’opera a più volumi che trattava della «storia della vita privata», dall’impero romano fino ai giorni nostri; questo aspetto dimorava ampiamente nella sua prospettiva di ricerca. Certo, quando si pensa alla storiografia femminile l’aspetto «del privato» non può essere trascurato, in ordine al legame intrinseco, secolare, tra donne-famiglia-casa; tuttavia a me interessava descrivere in che modo il legame tra le donne e la dimensione pubblica poteva costituirsi come dispositivo per rendere visibili le donne e la loro parola alla luce di una «storia pubblica» che le ignorava. Significava andare oltre la questione privata dei legami e delle strutture della parentela ad esempio, significava distaccarsi da Lévi-Strauss. Per me si trattava anche di una sorta di evoluzione rispetto al debutto dei miei studi: sono stata allieva di Ernest Labrousse, storico e militante anarchico, poi socialista e con lui mi ero specializzata sulla questione degli scioperi in seno al movimento operaio. Non senza stupore da parte del mio maestro sono passata a occuparmi della storia delle donne. Nonostante le polemiche a tal proposito, in particolare mi riferisco a quelle che hanno visto il femminismo degli anni Sessanta «traditore» delle istanze della lotta operaia, sono convinta che le due prospettive non siano da considerarsi in opposizione o inconciliabili. Anzi il contrario.
Fare la storia delle rappresentazioni e dei discorsi maschili riguardo le donne può rischiare di farci dimenticare le donne in quanto soggetto?
Non posso negare che il rischio sia presente, anche in misura piuttosto decisiva. In effetti la storia delle rappresentazioni e dei discorsi maschili mette in luce una prospettiva parziale e circoscritta. Tuttavia possiamo analizzare lo stesso attraverso la differenza dei sessi, possiamo cercare di interrogarlo, di decostruirlo. Faccio un esempio: invece di studiare il tema della «bellezza femminile» attraverso i secoli, secondo la prospettiva dello sguardo maschile, si può farlo chiedendosi come le donne hanno reagito a tale sguardo e qual è il loro. Si tratta di essere in grado di capovolgere delle prospettive attraverso la consapevolezza della loro parzialità. Credo che il recente movimento del #me too possa a tutti gli effetti rappresentare un esempio del capovolgimento di prospettiva e una rideterminazione del ruolo delle donne, a fronte dell’invisibilizzazione e del silenziamenento forzato. Non esito a ribadire che protestare contro le violenze, le più subdole, vuol dire rideterminare il proprio ruolo e reimpossessarsi della propria voce e del proprio corpo in quanto soggetti.
Da quale momento, nella storia delle donne in occidente, possiamo cominciare a parlare di «svolte storiche» per i rapporti tra i sessi? E a partire da quale momento si comincia a percepire il mondo e la storia come sessuate?
Questo interrogativo mi consente di dichiarare a piena voce che il mio punto di vista riguardo a queste svolte storiche coincide con quello di Michel Foucault esposto nella sua Histoire de la Sexualité (1976-1984). Credo infatti che una grande svolta sia stata quella che ha coinciso con la maturazione del pensiero sulla sessualità sviluppato nei testi dell’antichità cristiana; non il pensiero sessuato greco-romano ma soprattutto quello dei padri della Chiesa, in particolare S. Agostino. L’incisività di quest’ultimo limitatamente alla peccaminosità dell’atto sessuale o all’imposizione del velo definiscono la sua auctoritas sul pensiero del rapporto tra i sessi. Tengo a sottolineare quest’ultimo aspetto, per ribadire «il primato» della patristica a fronte delle polemiche che da anni si susseguono a tal proposito. Anche il XVII secolo, di prospettive sorprendentemente egualitarie, rappresenta una svolta storica: penso a François Poullain de La Barre e a Marie de Gournay - in che misura il loro razionalismo ha prodotto delle svolte di pensiero sull’eguaglianza dei sessi. Bisogna sottolineare che si può assistere anche a regressi in tal senso: un esempio è stato il secolo successivo, il XVIII, che ha rimesso in discussione quanto sembrava acquisito, con un ritorno al biologismo più basilare e alla «re-naturalizzazione».
Che ne pensa della tendenza a concepire una storia delle donne attorno alle grandi figure, secondo «un sostenersi» alle singolarità, alle biografie di donne più o meno celebri? Mi riferisco in tal senso alla recentissima traduzione francese di «Storie della buonanotte per bambine ribelli» (Mondadori), ma anche a «Ni vues ni connues» (Hugo doc-Les Simone) del collettivo Georgette Sand...
È un modo come un altro di scrivere la storia delle donne. Tuttavia io trovo che facilmente possa incorrere nel rischio di integrarsi a una tradizione decisamente datata. Mi riferisco a quel biografismo che si attiene a fatti curiosi: penso al biografismo «delle regine, delle sante e delle cortigiane». In questo senso si rischia di perdere la ricchezza della complessità e la storia delle donne rischia di diventare aneddotica.
Cosa ci resterebbe della «Nouvelle Histoire» e della scuola delle «Annales»?
Credo che tale formula possa funzionare solo nella misura in cui l’orizzonte di osservazione delle storiche e degli storici sia aperto. Intendo dire che lo studio delle biografie e degli avvenimenti rivela certi limiti; penso che invece di soffermarsi su individui o eventi eccezionali sarebbe auspicabile studiare le «strutture» e recuperare nuovi soggetti storici, più ribelli e dimenticati.
Non voglio essere troppo severa, anche a me è capitato di redigere capitoli o testi in cui un certo biografismo predominava, tuttavia l’ho sempre fatto col beneficio degli apporti delle scienze umane, che considero espedienti irrinunciabili. La storia dovrebbe avere priorità collettive e problematizzare lo studio sulle differenze tra i sessi, come fanno ad esempio gli studi femminili e di genere.
DAL MOVIMENTO OPERAIO AL FEMMINISMO
Storica e militante femminista, MIchelle Perrot nasce nel 1928 a Parigi. Nel 1947 comincia i suoi studi alla Sorbona; la sua tesi, diretta da Ernest Labrousse, tratta il tema degli scioperi operai. Fin dalla pubblicazione de «Il Secondo sesso» di Simone de Beauvoir desidera avvicinarsi alle scritture delle donne, fino a creare (nel 1974) insieme a Françoise Basch il Ged (Gruppo di studi femministi), sui temi dell’aborto, della violenza sessuale, del lavoro domestico, dell’omosessualità. Professoressa emerita di storia contemporanea all’università Paris VII - Denis Diderot, ha contribuito in maniera decisiva alla nascita degli studi sulle donne e sul genere ed è stata insignita nel 2014 del Prix Simone-de-Beauvoir per la libertà delle donne. Tra le sue opere tradotte in italiano figurano i cinque volumi della «Storia delle donne in occidente» (Laterza), «Immagini delle donne» (Laterza e «Storia delle camere» (Sellerio).
Denuncia Onu. Il quarto che manca agli stipendi delle donne. Campagna social mondiale
Arriva #stoptherobbery ovvero «stop al più grande furto della storia». Mediamente gli stipendi rosa sono inferiori del 23% di quelli degli uomini.
di Antonella Mariani (Avvenire, sabato 20 gennaio 2018)
Un hashtag (il cancelletto che definisce l’argomento sui social network) tira l’altro. Dopo #MeToo, “anch’io”, il movimento contro le molestie sessuali che si è guadagnato il titolo di Persona dell’anno e la copertina del settimanale Time, arriva #stoptherobbery. Il messaggio della campagna dell’Onu è un po’ brutale ma perlomeno è chiaro e concreto: stop al «più grande furto della storia», quello ai danni dei portafogli femminili.
Nel mondo le donne saranno anche l’altra metà del cielo, ma guadagnano in media il 23% in meno degli uomini, a parità di incarico: il dato è stato diffuso ieri dall’economista indiana Anuradha Seth, consigliere dell’Un Women, il dipartimento Donne delle Nazioni Unite creato nel 2011. Dunque, Seth ha riproposto quel che si sapeva già, e cioè che in tutto il mondo le donne guadagnano 77 centesimi per ogni dollaro guadagnato da un uomo. I motivi sono ampiamente analizzati da economisti e sociologi da almeno un ventennio. La stessa Seth ne elenca alcuni, riscontrati in tutti i Paesi del mondo: il livello più basso di qualifiche, la minor rappresentanza nei gradi gerarchici più alti, la iniqua distribuzione delle cure domestiche e familiari che spinge le donne verso impieghi informali, saltuari o a orario ridotto. Secondo stime dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), a ogni figlio che mettono al mondo, le donne perdono il 4% del loro stipendio rispetto agli uomini.
A queste differenze «strutturali» si aggiunge la più classica delle discriminazioni, quella salariale: a parità di incarico «non esiste un solo Paese né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini». L’obiettivo della campagna social dell’Onu (tutte le informazioni su www.23percentrobbery.com) è di aumentare il livello di consapevolezza, in modo da spingere i governi a impegnarsi per colmare la distanza. Il modo più rapido, suggeriscono gli esperti dell’Organizzazione mondiale del lavoro, è la fissazione per legge di livelli salariali minimi e l’estensione di misure di protezione sociale.
Il «grande furto» del reddito femminile offre anche un orizzonte simbolico: un quarto in meno di stipendio significa un quarto in meno di libertà per le donne. Di opportunità. Di autostima, talvolta. Continuando nella lista: un quarto in meno di possibilità di decidere. Di scalfire il famigerato soffitto di cristallo che lascia intravvedere la vetta, ma non consente di raggiungerla. Di cambiare le cose per sé e per le proprie figlie. Molti progressi sono stati compiuti negli ultimi decenni, e la crescente partecipazione femminile nel mondo del lavoro e della politica è un dato di fatto. Non si parte da zero, resta però quell’ultimo miglio che non sono solo i soldi guadagnati sul lavoro, ma è l’essere considerate pari agli uomini, valutate e stimate solo per le idee e per l’impegno, per la creatività e per la passione. È un quarto ancora. Ce la possiamo fare: non da sole, ma con gli uomini al fianco.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Il realismo visionario del mondo che verrà
Alain Touraine. Un’intervista con il teorico francese, in Italia per un ciclo di conferenze. «In un pianeta sempre più connesso, il populismo e il nazionalismo economico sono risposte a buon mercato alla crescente esclusione sociale. Per la sinistra l’Europa è dunque l’orizzonte obbligato perché senza di esso perde la sua ragione d’essere»
di Francesco Antonelli (il manifesto, 10.03.2017)
L’immaginazione sociologica è un’espressione con la quale lo statunitense Charles W. Mills, nell’omonimo libro del 1959, indicava la necessità per le scienze sociali di cogliere, in ogni fenomeno studiato, il legame tra le biografie individuali e la grande storia. Solo così la sociologia avrebbe sviluppato un orientamento critico in grado di metterla al riparo da due rischi mortali: la vuota astrattezza e la banalità ammantata di falsa scientificità. Oggi questi due rischi si trasformano nel pessimismo apocalittico di molta teoria sociale e nell’iperspecializzazione delle scienze sociali che si condannano all’irrilevanza nel dibattito pubblico.
Alain Touraine - uno dei più grandi sociologi viventi la cui fortuna si lega a studi di straordinario successo come quello sull’evoluzione del lavoro operaio, il Maggio francese del Sessantotto, la società postindustriale e, più recentemente, la scomparsa del sociale nel mondo globale - non cita quasi mai Mills.
Eppure, nonostante i suoi 92 anni e a dispetto di chi pensa che gioventù significhi necessariamente vita e novità, Touraine rappresenta una delle migliori espressioni del tentativo di rimettere in moto l’immaginazione sociologica. Con l’obiettivo di contribuire a ricostruire una nuova prospettiva politica per la sinistra, al di là dell’ormai defunta «Terza Via» e delle chimere di un nuovo populismo nazionalista di sinistra. Il futuro dell’Europa, le trasformazioni della democrazia e il modo in cui le scienze sociali dovrebbe approcciarsi alle nuove sfide della globalizzazione sono i temi sui quali abbiamo intervistato Alain Touraine, durante la settimana di conferenze tenute alla Sapienza di Roma.
Nel mondo globale i movimenti sono prevalentemente etico-politici piuttosto che socio-economici: al centro di esperienze come quelle di Occupy Wall Street vi è il richiamo alla dignità umana e ai diritti umani, cioè alla difesa della capacità e della possibilità di ciascuno di essere rispettato e di poter costruire la propria vita e la propria felicità in modo autonomo. Questo appello al soggetto umano è universale e trasversale rispetto le classi sociali. Non ci troviamo più di fronte a movimenti di classe, i singoli non si definiscono più in quei termini quando si oppongono ad un potere che diventa sempre più concentrato e sradicato rispetto alle dinamiche democratiche. Il problema fondamentale che sta dietro le derive attuali è che siamo in una fase di transizione molto veloce.
Le classi politiche occidentali sono completamente spiazzate rispetto a questo e, oggi come in passato, hanno semplicemente assecondato o cercato di moderare gli effetti della globalizzazione economica. Tuttavia, molti dei militanti del movimenti successivi al 2007 non sono stati all’altezza delle sfide e, sotto le pressioni delle circostanze, hanno voluto bruciare le tappe. Per passare dalla fase del movimento sociale a quello politico, la classe operaia ha impiegato almeno Settant’anni. I nuovi movimenti sociali hanno voluto passare immediatamente alla fase organizzata della politica e si sono ritrovati stretti da una contraddizione fondamentale: l’immaturità delle leadership e le nuove tensioni tra sfide globali e rigurgiti nazionalisti. Da questo punto di vista sia Syriza sia Podemos hanno fallito i loro obiettivi.
Il populismo è un’etichetta fuorviante, che non aiuta a capire la natura di questi movimenti politici. In tutti i paesi occidentali si è creato un accentuato dualismo sociale che fa crescere l’area dell’esclusione anche tra i ceti medi. Si tratta di un processo di lungo corso che inizia con la folle scelta - che in Francia è stata perseguita con particolare entusiasmo - di deindustrializzare la gran parte delle economie europee e Nord Americane. La vecchia integrazione sociale è crollata e non è stata sostituita con nulla. In questo vuoto il dualismo sociale è diventato un dualismo politico: da una parte le élites sociali, politiche ed economiche che hanno cavalcato o al limite solo cercato di controllare gli effetti della globalizzazione e dall’altra i danneggiati senza speranza di questo processo.
La nuova centralità della nazione, controllabile, difesa dallo Stato e dalla sua sovranità, come risposta a buon mercato a questo dualismo, è diventato dunque il centro di questa reazione di massa, di questa rivolta contro le élites, nella quale è stata coinvolta un’Europa troppo spesso insipiente e prona ai grandi interessi economici.
La maggior parte dei movimenti - definiti frettolosamente populisti - si colorano così di un’antieuropeismo e di un nuovo nazionalismo che si oppone anche a migranti e rifugiati. Un fenomeno politico che si può capire solo nei termini delle categorie e della concezione Volkisch ( cioè di popolo) anti-plutocratica e ostile al parlamentarismo, come il nazionalismo che fu alla base dei fascismi tra le Due Guerre.
Lo credevo poco probabile fino a poco tempo fa, ma risulta sempre più evidente che l’Italia e la Francia sono sull’orlo di una catastrofe democratica, simile a quella che ha già colpito la Polonia. Quello che manca è una vera iniziativa della società civile per creare una civiltà davvero democratica. Non ci sono movimenti, non ci sono iniziative, ad esempio, di solidarietà verso i migranti, se si eccettuano iniziative come quelle avute in Austria. La parola solidarietà diventa impronunciabile.
Insomma, la democrazia non è solo un fatto istituzionale, come pensa la politologia. Senza movimenti, senza conflitti, senza i soggetti, non c’è democrazia. La depolitizzazione è imperante. Manca la consapevolezza che qualcosa di buono si può e si deve fare.
L’Europa è il problema e la risorsa fondamentale che abbiamo per contrastare tutto questo, e non solo. Anche sul piano geostrategico un’Europa più forte e unita è l’unica alternativa che abbiamo di fronte alla crescente aggressività della Russia di Putin - la più grande minaccia che dovremo affrontare in futuro, a dispetto dei tanti allarmismi sul terrorismo. Infine, il disimpegno degli Stati Uniti di Donald Trump, ormai rivolti completamente verso l’asse del Pacifico, verso la Cina, sono un ulteriore rischio e un’opportunità per l’Europa.
Il problema è come costruire una nuova integrazione europea. E per fare questo c’è bisogno di soggetti sociali e attori politici all’altezza della sfida, che è quella di una democratizzazione delle istituzioni comunitarie sospinta dal basso. Oggi dirsi di sinistra vuol dire essere europeisti: senza Europa, anche se un’Europa diversa, di fronte a noi c’è solo l’isolamento, l’irrilevanza, il regresso umano e civile. E certamente le élites globali dell’economia e della finanza sarebbero meno danneggiate dalla fine dell’Europa di quanto non lo sarebbero le classi medie e i ceti popolari.
Ovunque si ragiona come se la capacità di costruire il mondo degli attori sociali e dei soggetti politici non esistesse: domina scoramento da una parte, determinismo dall’altra, come se ogni cosa fosse un destino inevitabile.
Nel campo delle scienze sociali, sia il poststrutturalismo sia il postmodernismo ci consegnano questa visione apocalittica, apparentemente ipercritica ma, in realtà, politicamente ininfluente. Occorre al contrario riarticolare un’iniziativa democratica che parta dal basso, che faccia crescere la consapevolezza e la necessità dell’estensione dello spazio della dignità e dei diritti umani, in modo da non cercare né scorciatoie né facili soluzioni. Noi siamo gli artefici del nostro mondo, e questo mondo non può essere ricostruito in nome di un nazionalismo che esclude ma di un universalismo dei diritti e delle differenze aperto al mondo stesso.
Il sorpasso in magistratura, ci sono più donne che uomini
Il procuratore generale della Cassazione: hanno raggiunto il 50,7 per cento. Il cambiamento più significativo nelle nomine agli incarichi direttivi
di FRANCESCO GRIGNETTI (La Stampa, 29/01/2016)
ROMA Alla notizia non è stata data l’enfasi che meritava, eppure è possibile leggerla nella relazione del procuratore generale della Cassazione, sua eccellenza Pasquale Ciccolo: «Rispetto agli anni precedenti - scrive - nella popolazione dei magistrati in servizio si ribalta il rapporto tra uomo e donna, pur rimanendo attorno alla parità: 50,7% di donne, e 49,3% di uomini».
È una piccola grande rivoluzione. Alle donne, come ricordava qualche tempo fa a un convegno la presidente dell’Associazione donne magistrato italiane, Carla Marina Lendaro, è stato aperto l’accesso in magistratura appena 50 anni fa. Perciò fecero una festa in Cassazione «per ricordare quelle prime otto temerarie - diceva Lendaro - che affrontarono, vincendolo, il duro primo concorso del 1965».
Molta acqua nel frattempo è passata sotto i ponti. Da qualche anno, al concorso per magistratura le donne stracciano regolarmente gli uomini. È una donna il capo dell’ufficio degli ispettori ministeriali, Elisabetta Cesqui. Ci sono due donne nel consiglio direttivo della Scuola superiore della magistratura. Sono molte le donne ai vertici delle correnti della magistratura associata. Ed è lontano il tempo in cui le (poche) donne che entravano in magistratura finivano confinate nella riserva indiana della giustizia minorile.
LA SVOLTA
Delle 252 nomine fatte dal Consiglio superiore della magistratura negli ultimi 15 mesi sotto l’impulso del vicepresidente Giovanni Legnini, se si guarda agli incarichi direttivi si vede che 101 sono uomini e 25 sono donne; se si esaminano i vicedirettivi, 83 sono uomini e 43 sono donne. Il cambiamento dei vertici della magistratura è in effetti una mezza rivoluzione. «Un passaggio storico e un’autentica palingenesi», lo definisce Legnini.
Il cambio di rotta - più donne, più giovani, più attenzione al merito - ha del clamoroso per un mondo tradizionalista come quello delle toghe. Diceva ieri il ministro Andrea Orlando intervenendo all’inaugurazione dell’Anno giudiziario: «Si sta rompendo il tetto di cristallo che impediva alle donne l’accesso alla guida degli uffici giudiziari. Dobbiamo andare avanti su questa strada partendo dal dato che vede ormai un sostanziale equilibrio di genere nella composizione della magistratura».
Evidentemente stanno meritando i loro successi, le donne in toga. C’è un’altra statistica fondamentale nella relazione del procuratore generale, in una materia che gli compete strettamente: se uomini e donne in magistratura sono in numero pressoché uguale, salta però agli occhi che i magistrati oggetto di procedimenti disciplinare sono al 69,2% uomini e 30,8% donne. A controprova di come sia aumentato il peso specifico femminile in magistratura, però, c’è anche un caso negativo. È una donna, infatti, anche la protagonista della vicenda più dolorosa che la magistratura sta vivendo: l’ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata dai colleghi di Caltanissetta per un uso spregiudicato dei beni confiscati alla mafia, sospesa dal Csm. Guarda caso, ha trascinato nello scandalo anche due prefette, amiche sue. Uno scandalo, quello di Palermo, tutto in rosa.
Più colte e indipendenti il sorpasso delle donne (nonostante la politica)
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 23 Dicembre 2015)
LE DONNE italiane sono state protagoniste di importanti cambiamenti negli ultimi dieci anni. Il fenomeno riguarda soprattutto le più giovani, ma coinvolge anche le anziane, le italiane come le straniere. Le donne, infatti, sono sempre più istruite e nelle generazioni più giovani sorpassano i loro coetanei sia per livello di istruzione, sia per regolarità dei percorsi formativi (meno bocciature, meno fuori corso), sia per i voti che ottengono. Stanno anche in parte cambiando le scelte formative. Più ragazze iscritte a ingegneria, medicina, chimica, agraria, meno iscritte al gruppo letterario e politico- sociale. Anche le straniere, tra le quali sono in aumento coloro che arrivano non per ricongiungimento famigliare, ma come lavoratrici, sono spesso più istruite dei loro conterranei maschi (fanno eccezione le marocchine e le cinesi).
Si sono anche ridotte le differenze di genere nei percorsi formativi, che sono in parte responsabili delle maggiori difficoltà che le donne trovano nel mercato del lavoro. Tra le più giovani (italiane o straniere), si è anche chiuso il divario con i coetanei nell’uso delle nuove tecnologie, che rimane ancora ampio tra le più vecchie; anche se tra queste ultime si sta facendo avanti una generazione di anziane con buona istruzione e con una vita professionale alle spalle pienamente protagoniste dell’“invecchiamento attivo”.
Una maggiore istruzione si è accompagnata a un rimando della maternità, che non dipende solo dalle difficoltà che giovani donne e uomini incontrano nel mercato dal lavoro, ma anche dal desiderio delle giovani donne di investire su di sé, sul piano professionale, della vita di relazione, delle attività culturali e di tempo libero, prima di impegnarsi a formare una famiglia propria. E quando lo fanno, sempre più non passano innanzitutto dal matrimonio, preferendo una convivenza e ritenendo del tutto normale e accettabile avere un figlio anche senza essere sposate.
Tra le più giovani e istruite sono in aumento rapporti di coppia più simmetrici, sul piano del contributo sia al reddito famigliare sia (in minor misura) al lavoro famigliare. Non ci sono solo più donne in Parlamento e al governo e nei consigli di amministrazione. Ci sono più donne che partecipano attivamente al mercato del lavoro, alla cultura, alla vita associata, anche quando hanno responsabilità famigliari.
È quanto emerge dalla fotografia scattata dal rapporto Istat Come cambia la vita delle donne, uscito ieri a cura di Sara Demofonti, Romina Frabboni e Linda Laura Sabbadini, confrontandola con quella di anni fa. Sono mutamenti importanti. Al punto che potremmo dire che gran parte dell’innovazione sociale è dovuta a cambiamenti nei comportamenti femminili.
Rimangono, tuttavia, forti ostacoli a che il cambiamento si generalizzi a tutti i livelli. Proprio questi ostacoli, oltre a pesare in modo sproporzionato sulle donne che spesso devono portare tutta la fatica del cambiamento, rafforzano diseguaglianze sociali e ne creano di nuove. Permangono forti disuguaglianze nel mercato del lavoro, nonostante la maggiore istruzione delle donne nelle coorti più giovani. Non solo, a fronte di un aumento lentissimo dell’occupazione femminile, per altro interrotto dalla crisi, è persino aumentata la percentuale di donne che escono dal mercato del lavoro a causa della maternità, costrette a scelte radicali da una combinazione perversa di rigidità del mercato del lavoro (anche quando chiede flessibilità ai lavoratori/lavoratrici) e carenza di servizi, soprattutto, ma non solo, nel Mezzogiorno.
Una questione per altro ignorata nella legge di stabilità. Ciò crea disuguaglianze tra uomini e donne, ma anche tra donne, tra chi può rivolgersi al mercato (o alle nonne/i) per surrogare servizi mancanti e chi no. L’aumento dell’istruzione, inoltre, non ha riguardato tutte. Mediamente più istruite degli uomini, le giovani donne tuttavia costituiscono la maggioranza dei Neet e quella più difficile da coinvolgere in una operazione di riorientamento (questione del tutto assente dalla riflessione sulla Garanzia Giovani). Rimangono anche forti stereotipi di genere, relativamente a ciò che possono fare le donne e gli uomini, a ciò che spetta agli uni e alle altre. Il che rende difficile modificare sia i comportamenti sia le politiche.
Il sociologo: “Così si fronteggia lo strapotere dei mercati”
Touraine “Ripartiamo dall’etica individuale”
intervista di Fabio Gambaro (la Repubblica, 03.10.2014)
PARIGI «DI fronte alla disgregazione sociale prodotta dall’economia non resta che ripartire dai diritti universali del soggetto ». Da tempo Alain Touraine mette in guardia contro la fine del sociale - lo ha fatto nel suo ultimo libro pubblicato in Francia, La fin des sociétés ( Seuil) - aggiungendo che non saranno i movimenti sociali a salvare la democrazia, ma solo i singoli individui decisi a difendere i loro diritti fondamentali. «Con la dissoluzione del sociale, il potere tende a cambiare natura, diventando totale: oltre alla dimensione oggettiva del reale, controlla anche quella soggettiva, penetrando gli individui, le loro coscienze e i loro comportamenti», spiega il sociologo francese, tra i cui libri figurano La globalizzazione e la fine del sociale ( Il Saggiatore) e Dopo la crisi. Una nuova società è possibile ( Armando). «Proprio perché il potere diventa totale, il movimento d’opposizione - da cui può nascere una nuova vita sociale e politica - deve partire da un’affermazione totale del soggetto e dei suoi diritti universali: il diritto alla libertà, all’uguaglianza e alla dignità».
Quindi non basta difendere i diritti sociali particolari?
«È una prospettiva perdente. Il sociale non è più il luogo centrale della battaglia. Non possiamo più pensarlo con le categorie tradizionali del passato ormai inoperanti. La minaccia oggi pesa più in generale sull’essere umano. Bisogna tornare a Hannah Arendt, quando dice che l’uomo ha diritto di avere dei diritti. Una formula che condivido, ma specificando che i diritti - proprio perché universali - sono al di sopra delle leggi e della politica. Per opporsi alla fine del sociale e ricostruire un vivere collettivo occorre legare l’individuale e l’universale, dando luogo a movimenti che non siano più sociali, ma eticodemocratici: democratici perché rimettono in discussione il potere nella sua totalità e etici perché difendono l’essere umano nella sua realtà più individuale e singolare».
In questo modo diventa possibile riappropriarsi della politica e tentare di contrastare l’apparente onnipotenza dell’economia?
«Sì. Nonostante ci sia una tradizione intellettuale che difende il primato della politica, questa oggi è screditata e impotente. Bisogna ripartire dall’etica, che viene prima della politica perché si colloca su un piano universale: solo così sarà possibile rifondare la democrazia e ricreare legami sociali. Quando le intenzioni individuali si caricano di significati universali, si trasformano in agenti di una trasformazione sociale e democratica. L’azione politica democratica non rinasce da una politica di classe, da una politica nazionalistica, da una politica degli interessi privati o da una politica del sacro. L’azione politica democratica rinasce solo dall’etica, il che significa che le leggi devono essere subordinate ai diritti. Se così è, diventa possibile riprendere il controllo sull’economia e arrestare la sua deriva distruttiva nei confronti del sociale».
Qual è il ruolo della cultura in questa prospettiva?
«È fondamentale, perché la lotta per la cultura e l’autocoscienza culturale contribuiscono a trasformare gli individui in soggetti capaci di essere attori postsociali. Di fronte a un’economia di consumo che riduce la società a un mercato dominato dal capitalismo finanziario globale, il lavoro di riflessione e di decostruzione dei modelli di pensiero diventa decisivo. L’accesso alla cultura è un diritto fondamentale. E gli intellettuali devono ritrovare un ruolo indipendente e attivo, guardando a quello che accade al di là del mondo occidentale, la Cina, l’India, il mondo arabo. Lì emergeranno le novità dei prossimi decenni ».
La provocazione di Alain Touraine
La società è finita
Così si è rotto il patto tra lo Stato e l’individuo
di Carlo Bordoni (Corriere La Lettura, 3.11.2013)
Margaret Thatcher l’aveva detto: «Non esiste la società. Esistono solo individui, uomini e donne, e ci sono famiglie», anticipando le conclusioni di Alain Touraine, classe 1925, il maggior sociologo francese vivente. Touraine ha appena pubblicato un corposo volume presso l’editore Seuil, che rappresenta la summa del suo pensiero e l’estremo sforzo di comprendere la modernità. Un testo sorprendente a partire dal titolo, La fin des sociétés , la fine delle società, con un’evidente carica provocatoria: la distruzione delle istituzioni sociali come democrazia, città, scuola, famiglia.
Touraine osserva che la crisi fiscale dello Stato e la sua difficoltà a gestire le risorse necessarie al funzionamento delle istituzioni sociali, per via dell’aumento smisurato del potere della finanza, crea una separazione tra risorse e valori culturali. Così le istituzioni si vengono a svuotare di contenuto e si può parlare di «fine del sociale» o, meglio, di fine delle società.
Ma è possibile ricostruire un controllo sociale dell’economia finanziaria? Touraine sostiene che sono i valori culturali a sostituirsi alle norme sociali istituzionalizzate, opponendosi alla logica del profitto e del potere. Veri e propri valori etici, la cui origine è estranea all’organizzazione sociale, dal contenuto universale, tanto forti da porsi al di sopra delle leggi, quasi un «diritto naturale» che appartiene sia alla tradizione cristiana, sia allo spirito dell’Illuminismo. In questa distruzione epocale sopravvive solo il soggetto, cioè il singolo individuo che non è più un «soggetto sociale».
Il ritorno all’individualismo è stato il Leitmotiv del postmodernismo, con il suo riferimento alla solitudine del cittadino globale, a causa della perdita dei valori e delle ideologie su cui la modernità aveva costruito le sue sicurezze.
Guardando alla società liquida, ci appare sempre più costituita da individui alla ricerca di un’identità, affascinati dall’immensa (quanto precaria) opportunità di costruire relazioni in Rete. Nel loro insieme assomigliano più alle moltitudini di Spinoza che ai popoli di una nazione. Michael Hardt e Toni Negri (Moltitudine , Rizzoli, 2004) ne hanno dato un’interpretazione politica, rilevando la loro potenziale carica rivoluzionaria.
Ma Touraine non sembra credere nelle moltitudini. Piuttosto nella forza del soggetto, figura centrale che si riappropria di ogni diritto, anche al di sopra delle leggi. È la rottura dell’antico patto tra individuo e Stato-nazione, siglato quattro secoli fa per stringere un’alleanza in cui il singolo cedeva al sovrano parte delle sue prerogative di autonomia e libertà, in cambio di alcune certezze fondamentali. Nasceva così la modernità, rappresentata dal mostruoso Leviatano di Hobbes, su cui Touraine si è esercitato a lungo, a cominciare dalla sua fondamentale Critica della modernità (1992).
Ma è soprattutto nel successivo La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore) che Touraine inizia a esporre le sue tesi sulla disgregazione del tessuto sociale, che poi sfoceranno in La fin des sociétés con lucida e implacabile determinazione.
Ma di quale società annuncia la fine? Non possiamo che pensare alla società moderna. O forse a quella postmoderna, visto che Vattimo e altri avevano già decretato la morte della modernità? O non sarà la società liquida di Bauman, prosciugata o evaporata dagli stravolgimenti etici, economici e sociali di una finanza sfuggita al controllo della politica e in rotta di collisione col capitalismo industriale? È più probabile che ci si trovi di fronte alla fine di una certa tipologia di società, piuttosto che alla fine delle società tout court .
Abbiamo assistito a mutamenti irreversibili e non ha grande importanza se questi siano definiti modernità liquida o postmodernità (anche se il movimento postmoderno presenta caratteristiche estetiche e concettuali proprie, ormai definite storicamente). Ciò che è essenziale è che abbiamo modificato il nostro comportamento, le relazioni economiche e politiche, la cultura e la comunicazione, i rapporti tra lo Stato e i cittadini. In questo contesto il ruolo del soggetto, che Touraine rileva come emergente, assume un’importanza determinante.
Allora quando Touraine parla di fine della società, non intende la fine delle relazioni sociali tra gli individui e tra questi e le istituzioni. Intende piuttosto una delegittimazione di quegli ordinamenti e di quelle regole burocratiche che non rispondono più alle esigenze di democrazia, uguaglianza e libertà a cui le persone aspirano. Una sorta di ribellione etica contro la rigidità e l’anacronismo delle norme sociali che regolano la vita contemporanea.
Impolitico, utopistico, veggente? La sua analisi rimette in discussione l’esistenza della sociologia, in quanto scienza della società, la cui crisi era stata annunciata da Alvin W. Gouldner nel lontano 1970. Ma più che una crisi della sociologia, forse oggi è più che mai necessaria una sociologia della crisi.
"È venuta meno l’idea di una legge assoluta"
intervista ad Alain Touraine
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 7 novembre 2011
Nella ricerca dell’autorità perduta ci stiamo facendo guidare dall’autorevolezza dei nostri compagni di viaggio. Che sarà anche difficile da definire, ma è immediatamente percepibile, quando ad esempio ti trovi vis-à-vis con Alain Touraine, stella di prima grandezza della sociologia contemporanea, un imponente ottuagenario con due bellissimi occhi azzurri e un volto grifagno, vagamente beckettiano.
«Mi lasci dire: parlare di scomparsa dell’autorità, sic et simpliciter, è molto vago e confuso. È invece molto più chiaro e preciso dire che è scomparsa quell’autorità, esercitata nelle scuole o nei tribunali, nelle imprese o nella vita politica, sulla base di una legge assoluta. Di natura religiosa. Quella legge, che si conforma alla parola di Dio o alla legge naturale intesa come prolungamento della religione, non funziona più. Dunque sono le basi trascendenti dell’autorità a non fare più presa. E questo per la semplicissima ragione che viviamo in un mondo che non è più governato da principi assoluti, ma mobili, in trasformazione: come avviene nella scienza, nella tecnologia, nella comunicazione».
Però ogni autorità, per essere tale, ha bisogno di un suo fondamento.
«Ci arrivo subito. Vivendo in un mondo retto dai principi della secolarizzazione, della razionalizazione, della laicizzazione, i fondamenti non positivi dell’autorità e del potere sono in via di sparizione. E ciò che resta sul fronte del diritto naturale è piuttosto vago. Potremmo dire che con l ’ingresso nella modernità il novanta per cento dell’esperienza umana è legato alle invenzioni umane, mentre solo il restante dieci per cento discende dalla natura. Ed è esattamente per questo che il ritorno ad un’autorità tradizionale non ha alcun senso. Con ciò non sottovaluto affatto l’influenza religiosa. Semplicemente osservo che siamo calati irreversibilmente in un mondo secolarizzato, fondato sulla scienza e la tecnica. E, almeno in una certa misura, sulla pluralità delle culture. Dunque, sull’impossibilità di regole morali, e prima ancora religiose, valide per tutti. I cattolici la pensano in un modo, i protestanti in un altro, i musulmani in un altro ancora. Quindi, togliamo di mezzo il primo equivoco: la nostalgia per un surplus di autorità, o peggio di repressione».
Ma autorità non è sinonimo di autoritarismo.
«Certo, però è pur vero che nell’idea tradizionale c’è sempre un fondamento trascendente: di ordine politico, religioso. O di filosofia della storia, come nel caso del progresso predicato in epoca sovietica».
Restano però le lacune crescenti dell’autorità secolarizzata e democratica. Basterebbe
osservare la politica.
«Forse non li applichiamo con la necessaria costanza, ma noi disponiamo di due principi fondamentali. Il primo è la scienza, la ragione: non si può dire che un litro d’acqua pesa cinquanta grammi. Non lo si può dire, perché non è vero. E il principio razionale e scientifico ha immediate ricadute sulla moralità e sulla politica: pensi alla questione della razza, di cui non ha neppure più senso parlare visto che non ha una base scientifica. Il secondo, e ancor più importante principio che abbiamo ereditato al medesimo tempo dal cristianesimo e dal secolo dei lumi, è quello dei diritti fondamentali dell’uomo. Questo è l’unico, vero fondamento dell’autorità moderna. Ciascuno ha il diritto di essere un individuo riconosciuto come tale, al pari di tutti gli altri. E nelle situazioni politiche, economiche, sociali ed educative date, beneficia al medesimo tempo di diritti assieme individuali e collettivi. L’autorità, pertanto, non discende più dall’alto, ma matura in basso, in ogni individuo».
Proviamo a vedere, in questo schema, come si concretizza l’esercizio dell’autorità da parte di
un magistrato, un insegnante, un padre di famiglia.
«L’autorità di ciascuna di queste figure si legherà alla sua capacità di combinare leggi, codici e norme, con i diritti individuali. Nel mondo del lavoro, ad esempio, consisterà nel combinare leregole generali dell’organizzazione con le condizioni di accettabilità che queste regole hanno per chi, individualmente, le deve poi mettere in atto. Oppure, venendo alla scuola: un insegnante risulterà autorevole nella misura in cui riuscirà a ottenere con la persuasione il rispetto delle regole anche da parte di chi si dimostra refrattario».
Il caso della scuola è uno di quelli che più frequentemente vengono portati ad esempio da chi
lamenta una crisi dell’autorità.
«È noto che la riuscita scolare ha molto a che fare con l’origine sociale. Ma alcune ricerche sociologiche hanno mostrato che è ancora più importante la qualità della relazione insegnanteallievo. Diciamo che l’origine sociale influisce per il trenta per cento, l’altro settanta rimanda a quella relazione. A mio avviso un buon insegnante è quello che riesce a rapportarsi sia alla classe, intesa come gruppo, quanto alla somma dei singoli casi individuali. Mentre un cattivo insegnante è quello che si preoccupa soltanto della propria disciplina: sono un professore di storia, di chimica o di fisica. Punto e basta. Già, ma quelle diverse discipline vanno insegnate in condizioni date. Insegnare una certa materia a un ragazzo immigrato che non padroneggia bene la lingua del paese di accoglienza, implica un riconoscimento del suo caso specifico, a meno che non lo si voglia ritrovare, vent’anni dopo, in un ospedale psichiatrico. Questo è un caso tipico in cui si affacciano sia la differenza tra le culture quanto il tema dei diritti universali. Il buon insegnante, l’insegnante autorevole, deve essere capace di compiere questo piccolo miracolo: le regole sono uguali e comuni, ma va rispettata la differenza, perché ciascuno ha la propria storia».
Un altro problema legato alla scomparsa della vecchia autorità è il rapporto con il passato:
sempre più labile, sempre più flebile.
«Di formazione sono uno storico e dunque capisce da sé quanto io sia sensibile alla questione. Mi piange il cuore quando vedo persone che non sanno se sia venuto prima Napoleone o Giovanna d ’Arco. Si potrebbe dire che oggi alla storia si è sostituita la geografia. Si ignora sempre di più il passato, mentre grazie ad internet e a spostamenti sempre più frequenti, si ha una diversa dimestichezza con quanto accade su scala planetaria».
Il passato, però, non è soltanto storia pubblica: è anche storia privata.
«E qui le cose vanno meglio di quanto si pensi. Ad esempio se paragoniamo l’Europa agli Stati Uniti. C’è un test quanto mai semplice: la vitalità dei nostri cimiteri, il rapporto con i nostri morti. Magari ci sarà un sottofondo animista, ma è comunque indicativo di relazioni forti, di legami profondi. Bisognerebbe semmai ragionare su come mai il legame tra passato a futuro sia molto più intenso sul piano privato rispetto a quello pubblico».
La tendenza che lei vede è verso l’interiorizzazione dell’autorità?
«Tutto ciò che interiorizza l’autorità è positivo, tutto ciò che la esteriorizza è condannabile. Un individuo che non riconosca alcuna autorità è totalmente disorientato, incapace di distinguere il bene dal male. Ma come affermava proprio la Arendt, ciò che definisce l’essere umano è il diritto di avere diritti. E questo corrisponde, per l’appunto, all’assoluta interiorizzazione dell’autorità».
Al seguente link potete vedere il servizio realizzato da UniromaTV su Alain Touraine "Le donne risolvono la crisi sociale"
http://www.uniroma.tv/?id_video=14936
Ufficio Stampa di Uniroma.TV info@uniroma.tv http://www.uniroma.tv
Perché le donne salveranno il mondo
Anticipiamo un brano del nuovo saggio del sociologo francese
L’opera è frutto di ricerche sul campo fatte in questi anni: la nostra società è indebolita e solo la coscienza femminile può darle forza
"Sembra un’epoca in cui le loro lotte hanno perso di visibilità. Invece io penso che siano il motore della storia"
"Solo loro sanno superare i vecchi dualismi. Il senso della vita, adesso, è sempre di più nelle loro mani"
"Sanno superare i vecchi dualismi e il senso della vita è nelle loro mani"
"Penso che le loro lotte siano diventate il motore della storia"
di Alain Touraine (la Repubblica, 22.04.2009)
Nelle nostre società invecchiate, indebolite e allo stesso tempo addolcite, emerge con forza l’esigenza collettiva di combattere gli effetti negativi della modernizzazione, che ha creato forme di dominio estreme e ha distrutto la natura conquistandola. Noi cerchiamo di ricomporre un’esperienza collettiva e individuale che è stata lacerata. Si tratta di ristabilire una relazione tra i termini che le fasi anteriori della modernizzazione avevano contrapposto gli uni agli altri: il corpo e la mente, l’interesse e l’emozione, l’altro e il medesimo. È questo il grande progetto del mondo attuale, il progetto da cui dipende la nostra sopravvivenza, come ripetono i militanti dell’ecologia politica. Ma chi sono gli attori di questa ricostruzione? Chi occupa il posto centrale che nella società industriale fu degli operai, e, in un passato più lontano, dei mercanti che distrussero il sistema feudale?
La mia risposta è che sono le donne a occupare questo posto, perché sono state più di altri vittime della polarizzazione di società che hanno accumulato tutte le risorse nelle mani di un’élite dirigente costituita da uomini bianchi, adulti, padroni o proprietari di ogni specie di reddito e i soli a poter prendere le armi. Le donne sono state considerate allora come non-attori, private di soggettività, definite tramite la loro funzione più che la loro coscienza. Per verificare questa ipotesi, ho ascoltato voci di donne, un modo di procedere poco frequente poiché di solito si parla di vittime ridotte al silenzio piuttosto che desiderose di far ascoltare la propria voce. Il metodo seguito, che deve essere valutato sia per i suoi limiti che per la sua originalità, consiste nel mostrare che la nuova affermazione di sé da parte delle donne è direttamente e profondamente legata al rovesciamento culturale. Questo fa delle donne le attrici sociali più importanti, ma ha come contropartita il fatto che la loro azione non presenta le caratteristiche tipiche dell’azione dei movimenti sociali, fra i quali rientrava, in un passato ancora recente, lo stesso movimento femminista. Coscienza femminile e mutazione sociale non sono più separabili: le donne costituiscono un movimento culturale più che un movimento sociale.
Mi viene rimproverato di attribuire un’eccessiva importanza alla coscienza femminile proprio nel momento in cui le lotte femministe avrebbero ormai perso la loro radicalità e la loro visibilità. Perché scegliere le donne come figura centrale della nostra società quando le disuguaglianze crescono, la violenza si intensifica a livello internazionale ed eserciti e terrorismo si affrontano? Perché non accordare ai grandi dibattiti politici l’importanza che meritano nella misura in cui cercano di tenere insieme unità e diversità, innovazione e tradizione? In fin dei conti, coloro che, uomini e donne, rifiutano nel modo più completo il mio modello di approccio, sono proprio quelli che credono che la dimensione del genere stia a poco a poco perdendo importanza nella vita sociale.
(***)
Il rovesciamento che ci conduce da una società di conquistatori del mondo a una incentrata sulla costruzione di sé ha portato alla sostituzione della società degli uomini con una società delle donne. Non c’è ragione di pensare che la precedente riduzione delle donne in uno stato di inferiorità lasci ora il posto all’uguaglianza. Le donne, oggi, hanno, rispetto agli uomini, una capacità maggiore di comportarsi come soggetti. Sia perché sono loro a farsi carico dell’ideale storico della ricomposizione del mondo e del superamento dei vecchi dualismi, sia perché mettono più direttamente al centro il proprio corpo, il proprio ruolo di creatrici di vita e la propria sessualità. Per un lungo periodo sono stati gli uomini a determinare il corso della storia e a manifestare una forte coscienza di sé. Ma da alcuni decenni ormai, e per un tempo indeterminato (forse senza una fine prevedibile), siamo entrati in una società e viviamo vite individuali il cui "senso" è sempre più nelle mani, nella testa e nel sesso delle donne, e sempre meno nelle mani, nella testa e nel sesso degli uomini.
Riassumendo: l’importante è scegliere. La categoria delle donne, dato che non si può dare di essa una definizione interamente sociale, deve forse essere considerata più debole di una categoria che ha un significato più specificamente sociale, economico o culturale? O, al contrario, bisogna ritenere che al di sopra dei gruppi sociali reali, dei loro interessi e delle loro forme di azione collettiva è necessario collocare le donne intese come categoria e allo stesso tempo come agenti più di quanto non lo siano gli uomini, perché in grado di mettere in discussione i problemi e gli orientamenti fondamentali della cultura? La prima risposta è stata scelta da molti, in particolare dai marxisti, soprattutto, oggi, dagli uomini e dalle donne che difendono il multiculturalismo. Ovviamente io sono tra quelli che hanno scelto la seconda risposta. L’universalismo, che so essere un attributo centrale della modernità, è sinonimo di difesa dei diritti individuali e dei risultati della scienza. E l’importanza fondamentale del femminismo è che, al di là delle lotte contro la disuguaglianza e l’ingiustizia, ha formulato e difeso i diritti fondamentali di ogni donna, ovvero: il diritto di essere un individuo libero, guidato dai propri stessi orientamenti e dalle proprie capabilities, per usare la formula di Amartya Sen che Paul Ricoeur ha ben tradotto con l’espressione «poter essere».
© Librairie Arthème Fayard,2006
© Il Saggiatore, 2009 Traduzione di Monica Fiorini
Mappe in movimento
Dal lavoro alla cultura, dagli uomini alle donne, attori e conflitti delle società a economia globale. Un incontro con Alain Touraine
di Duccio Zola (il manifesto, 02.11.2006)
Nel 1955, esce in Francia un libro destinato a diventare una pietra miliare della sociologia del lavoro, L’evoluzione del lavoro operaio alla Renault (Rosenberg & Sellier). Lo scrive un giovane ricercatore francese destinato a diventare uno dei più importanti sociologi contemporanei. Oggi, a ottantuno anni, Alain Touraine, direttore di studi dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, conserva intatta la profondità di analisi e la forza polemica che lo accompagnano da più di mezzo secolo. Le sue ricerche coprono tutto l’arco del pensiero sociologico, dal lavoro alla conoscenza, dal mutamento ai movimenti sociali. Nel mezzo, una riflessione trasversale sul soggetto nella modernità, sull’azione collettiva come elemento conflittuale di auto-trasformazione della società, sulla natura della società postindustriale. Tra le sue innumerevoli opere ricordiamo La coscienza operaia (Franco Angeli), La società postindustriale e La produzione della società (Il Mulino), Per la sociologia (Einaudi), Il ritorno dell’attore sociale (Editori Riuniti), Critica della modernità, Libertà, uguaglianza, diversità, Come liberarsi del liberismo (tutti editi dal Saggiatore). Il suo ultimo libro, Le Monde des Femmes, è uscito in Francia a marzo per Fayard. Lo abbiamo incontrato a Cortona, dove ha tenuto la lezione inaugurale del recente convegno su «Cultural Conflicts, Social Movements and New Rights: a European Challenge» organizzato dalla Fondazione Feltrinelli.
Da trenta anni lei studia come cambia l’azione collettiva rispetto alle trasformazioni della società postindustriale. Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono i movimenti sociali contemporanei?
Partiamo dalla mia definizione di movimento sociale, un conflitto tra attori sociali organizzati sull’utilizzazione di risorse simboliche o materiali - modi di produzione, categorie di analisi e di rappresentazione, norme di comportamento - che entrambi gli attori valorizzano. Questa definizione comprende il riferimento da parte dei due avversari agli stessi valori culturali. L’esempio che porto più spesso è quello del conflitto tra datori di lavoro e salariati per l’utilizzo dei beni prodotti in una società industriale, i cui grandi valori - razionalizzazione, lavoro, progresso, differimento della gratificazione - sono condivisi dalle due parti. Oggi però viene a mancare proprio questa posta in gioco comune tra i contendenti, perché il contesto culturale della globalizzazione, è caratterizzato da una «caduta del sociale», cioè da un indebolimento, e talvolta da una scomparsa, delle mediazioni e delle appartenenze sociali. Ecco da dove viene la crisi della famiglia, della scuola o della religione. In questo quadro, si frantuma il modello della società industriale in cui la conflittualità tra classi socio-economiche occupava il posto centrale, e per i movimenti collettivi di oggi si pone il problema di trovare un terreno comune dove possa svilupparsi il conflitto. Il rischio, altrimenti, è lo scontro tra posizioni opposte, come quelle di chi chiede una completa integrazione degli immigrati, e quelle di chi difende l’affermazione di un’identità comunitaria. E’ chiaro che non c’è scelta possibile fra una disintegrazione carica di violenza e un’integrazione che equivarrebbe a una totale assimilazione. Allo stesso modo, non è concepibile una società formata solo da una rete di attori locali, ma neanche la creazione di una società mondiale. In entrambi i casi, la contraddizione prende il posto del conflitto e le parti restano rinchiuse in un «tutto o niente» che le condanna all’immobilità.
Quale deve essere allora il terreno di azione e di conflitto dei movimenti se vogliono essere all’altezza dei problemi posti dalla globalizzazione, e quali attori collettivi sono in grado di portarlo alla luce?
Oggi sono possibili diversi tipi di azione collettiva che si sovrappongono o prendono il posto dei movimenti sociali «classici», come quello operaio. Da una parte ci sono quei movimenti che agiscono nel segno dell’«ambivalenza». Il concetto di ambivalenza è centrale per definire il modello dei rapporti e dei conflitti nella nostra società, perché implica la ricerca di una combinazione di esigenze opposte. Questo porta a una parziale frustrazione dovuta alla limitazione delle soddisfazioni che si possono ottenere da entrambe le parti.
Riprendendo l’esempio dell’immigrazione, l’unica soluzione sta nel combinare il meglio possibile autonomia e integrazione, cioè il riconoscimento dell’altro, della sua identità, e la ricerca degli elementi comuni a tutte le rivendicazioni. Questa soluzione è positiva solo se tiene in vita il conflitto, se la tensione tra i due orientamenti resta forte ed entrambi gli avversari sono in parte feriti. Non è certo uno strumento di pace sociale, ma questa è oggi una maniera di contribuire alla formazione dei movimenti sociali, oltre quelli classici.
Poi c’è il movimento che più mi interessa, quello delle donne. Esso porta a una radicale trasformazione del campo culturale, una vera e propria creazione del contesto conflittuale, che viene così sottratto ai gruppi dominanti: le donne, come attrici collettive, creano la posta in gioco e il campo culturale del conflitto con altri attori sociali. Di fronte alla globalizzazione, che per me è capitalismo estremo, separazione dell’economia da ogni forma di controllo sociale, le donne affermano positivamente la propria identità e le proprie rivendicazioni. In altre parole, costruiscono sé stesse, riparano ciò che è stato smembrato dalla globalizzazione, dall’esposizione alla deriva delle forze del mercato. Ho lavorato con molte donne francesi e musulmane, tutte hanno una coscienza positiva della loro identità, si definiscono donne e non vittime anche se molte hanno subito violenze o ingiustizie.
Se la globalizzazione ci priva delle appartenenze e delle mediazioni sociali e ci lascia in balia di un mercato senza regole, come possono prodursi e svilupparsi le lotte collettive?
Prima di tutto occorre definire il campo in cui si producono i più grandi cambiamenti e i conflitti più gravi. In una società industriale questo campo era il lavoro. Oggi i problemi culturali stanno diventando centrali. Il lavoro prende una forma negativa, segnala una perdita di senso. In altre parole, il lavoro non è più la categoria principale, mentre è il non lavoro ad acquistare un’importanza sociale e politica considerevole. Questo si deve al fatto che la modernità produce un processo di individuazione sempre più marcato, cioè la possibilità di ogni individuo di non lasciarsi più definire da categorie ascrittive, come l’appartenenza di classe. L’individuazione si concretizza nella presa di coscienza di un individuo che vuole essere tale e ne reclama il diritto. Il concetto di individualismo, che storicamente appartiene al vocabolario della destra, acquista nella mia concezione un significato e un valore di sinistra. Il punto da sottolineare è che questi diritti individuali, si ottengono solo con le lotte collettive: diritti individuali e movimenti sociali rappresentano due facce della stessa medaglia. Inoltre le lotte per il riconoscimento dei diritti conferiscono una dimensione universalista, estendibile a tutti, all’azione collettiva. Ogni movimento sociale appare come rivendicazione di diritti politici, sociali o culturali che devono essere conquistati da tutti. Questo richiamo sta al centro delle dichiarazioni francese e americana della fine del XVIII secolo.
Il paese delle escort che dimentica anche Marie Curie
di Nicla Vassallo (l’Unità, 25.01.2011)
La cornice è quella di Massascienza, generosa manifestazione, la cui ultima edizione si è aperta lo scorso 11 dicembre per chiudersi il prossimo 18 febbraio, con un congruo numero eventi, non solo conferenze, anzi, tra cui il mio intervento su «Donne e scienze. Eccellenze e violenze» (Teatrino dei Servi, l’11 febbraio, alle ore 17, Massa, n.d.r), a ricordare un centenario epocale, quello del conferimento del Premio Nobel per la chimica a Maria Sklodowska, ovvero a Marie Curie.
Eccellenze, appunto quali lei, al suo secondo Nobel, dopo quello per la fisica, condiviso con Pierre Curie e Antonie Henrie Becquerel. Docente alla Sorbona, moglie di un docente, madre di Irène Joliot- Curie, a sua volta Nobel per la chimica nel 1935, e di Eve Devise Curie, scrittrice, consigliere del Segretario delle Nazioni Unite, ambasciatrice dell’Unicef. Lei, Madame Curie, tra i pochi a vincere due Nobel. Lei che non brevetta il processo di isolamento del radio: a importare rimangono la libertà e il progresso della ricerca scientifica, null’altro. Lei che si dedica alla diagnosi dei soldati feriti nella Prima Guerra Mondiale. Lei che fonda quanto individuiamo oggi come l’Istituto Curie. Lei che, dopo la morte prematura del marito, investito da una carrozza nell’aprile 1906, prosegue imperterrita a lavorare da scienziata «dura e pura», nonostante gli invidiosi tentino di screditarla - pure certi ambienti, quelli scientifici, pullulano di narcisi gelosi, come ci testimonia, tra gli altri, Patrick Coffey in Cathedrals of Science. ThePersonalities andRivalries That Made Modern Chemistry, Oxford University Press, 2008. In qualmodoscreditare una donna intelligente, impegnata, generosa?
Ovvio, esaltandone la bellezza, il lato sexy predatorio; quindi, Madame non deve valere più di tanto, se non in qualità di un’infiammata femme fatale dai parecchi amanti - l’aneddoto non sfugge a Sam Kean nel divertente e inquietante The Disappering Spoon. And Other True Tales of Madness, Love and the History of the World From the Periodic Table of Elements, Little, Brown & Company, 2010. Lei, l’eccellenza, che smentisce in tutto e per tutto Albert Einstein, stando a cui «quando si tratta di voi donne il centro produttivo non è situato nel cervello». Lei, dai tanti altri riconoscimenti (per esempio, la Medaglia Davy, la Medaglia Matteucci, il Pantheon), muore in un sanatorio della Savoia nel 1934, plausibilmente per una leucemia dovuta a un’eccessiva esposizione al materiale radiativo. Lei che parecchi ricercatori hanno presente per la Marie Curie Fellows Association, nonché per le opportunità che a suo nome offre la Commissione europea per la ricerca e l’innovazione.
Se di Marie Curie sappiano, nonostante dovremmo sapere di più, di altre donne, dalle grandi espressioni cognitive, proseguiamo e insistiamo col voler sapere poco. Rarissime le donne insignite del Nobel, a troppe è stato depredato. In ogni caso, i contributi intellettuali e scientifici “femminili”, fioriti in legami con uomini, vengono di norma attribuiti a questi ultimi.
Alcuni casi emblematici in cui a ottenere fama e onore è l’uomo, quantunque troppi meriti spettino in effetti alla donna: Sophie Brahe e il fratello Tycho, Gabrielle du Chatelet e Voltaire, Marie Paulze Lavoisier e il marito, Ada Byron e Charles Babbage, Jocelyn Bell-Burnell e Anthony Ewish, Rosalind Franklin e Francis Crick, James Watson, Maurice Wilkins, Mileva Maric e Albert Einstein, Lise Meitner e Otto Hahn; Chien-Shiung Wu e Tsung Dao Lee e Chen Ning Yang.
Ci troviamo di fronte a un tipo di violenza epistemica, in cui la capacità di conoscere, in quanto donne, ai massimi livelli, risulta negata. Così capita che queste donne, che faticano, insieme ad altre, non vengano approvate, elogiate, premiate, neanche oggi, mentre le cosiddette escort (non sempre prostitute di alto bordo,come si solevaun tempo) conquistano facilmente denari e potere socio-politico, nella lapalissiana assurdità ove viene consentito tutto ai diversi meccanismi di prostituzione e servilismo, non solo corporei - non illudiamoci - ma pure mentali e, purtroppo, intellettuali, per quanto criminali, perfidi, sleali. Mentre le intellettuali oneste e serie soffrono.
E muoiono senza che il cosiddetto “grande pubblico” lo tenga a mente (più divertente, sebbene degenerante, piazzarsi davanti alla tv con Amici, Colpo Grosso, Drive In, il Grande Fratello, La pupa e il secchione, L’isola dei famosi, X Factor, e via dicendo, quali modelli di riferimento). Chi può ricordarsi allora di Rosalind Franklin, che a trentasette anni muorediuncancro alle ovaie, presumibilmente a causa della forte esposizione ai raggi X, se non quando il misogino James Watson la denigra? E chi si ricorda invece di Marie-Claude Lorne, tra i filosofi della biologia più rigorosi, che a trentanove anni si suicida, gettandosi nella Senna? Forse chi tra noi si trova a leggere il commovente necrologio di Thomas Pradeusu Biology and Philosophy (volume 24, numero 3, pp. 281-282, 2009).
I celebrati nonché le celebrate rimangono altri e altre. Riusciamo a non smentirci: perfino quest’anno, con l’esiguo omaggio tributato nel nostro paese all’esimia Marie Curie. A brillare sempre più persistono le escort. Facciamo sì che le cose vadano altrimenti. Nel frattempo, un grazie a Massascienza. E, in attesa del Festival della Scienza di Genova, che incoraggia a parlare del Nobel per la chimica del 1911, spegniamo la tv e rileggiamo ciò che ci racconta Susan Quinn in Marie Curie, una vita (Bollati Boringhieri, 1998). 24 gennaio 2011