David Bidussa
Impronte ai Rom. La lezione della storia
in "il Secolo XIX", 9 luglio 2008, p. 23
==================
Perché, a proposito delle impronte digitali all’accusa di razzismo, nessuno risponde, come se fosse un dettaglio irrilevante? Eppure chi esprime quest’opinione, quando interviene su altre questioni suscita attenzione e rispetto. Chi infatti usa il termine razzismo non è un esaltato estremista, sono: la Conferenza Episcopale Italiana, il settimanale "Famiglia cristiana", il quotidiano "Avvenire", infine la Comunità di Sant’Egidio. Tutti a sottolineare come il vocabolario politico, le espressioni usate, l’ambiguità e la doppiezza del linguaggio ripropongano gli stessi dati presenti nell’Italia del 1938 all’avvio della campagna per il varo delle leggi razziali.
Perché nessuno si prende la briga di smentire o di replicare e allo stesso tempo perché nessuno si scandalizza? Perché il paragone con il 1938 non fa problema?. E che cosa significa riflettere sui diritti oggi in Italia?
Me lo chiedo da storico, perché vorrei capire e riflettere sulla realtà culturale del Paese in cui viviamo. E da storico mi sembra che il fenomeno più rilevante che ci troviamo di fronte in questi giorni non sia il provvedimento annunciato dal ministro, ma la sostanziale indifferenza che lo accompagna.
Mi sembra che ciò avvenga per quattro ragioni, due specifiche e due generali. Quelle specifiche riguardano la memoria del 1938, mentre quelle generali chiamano in causa la natura della politica nell’Italia attuale.
Ovvero:
1) Se è vero che il linguaggio è lo stesso nel 1938, l’opinione pubblica ritiene che allora furono espulsi cittadini appartenenti e riconosciuti nella nazione italiana, mentre oggi non sarebbe così. Così quando si parla dei Rom, che pure anche allora come gli ebrei subirono la stessa discriminazione ed esclusione, si ha la sensazione non di escludere qualcuno che c’è, ma di fare barriera nei confronti di qualcuno che vuole godere diritti di cui non ha diritto.
2) E’ probabile che il 1938 oggi non sia più una data collettiva, ma ne rappresenti una archeologica: ovvero rinvii a una questione non di diritti violati, ma di nazione divisa oggi percepita invece come ricomposta. Da questo lato alle orecchie di molti l’esempio 1938 probabilmente è una realtà considerata non solo chiusa ma sanata, perché percepita solo come un conflitto tra due attori specifici: il fascismo e gli ebrei con gli italiani alla finestra a guardare il match. E dunque è probabile che per molti il paragone 1938 risulti non solo sproporzionato, ma anche improprio e pretestuoso. Il senso comune ragiona così: parla forse Roberto Maroni di ebrei? E allora perché agitare il paragone con le leggi razziali?
3) la fine dei partiti politici come organi collettivi della rappresentanza, ha fatto emergere il primato delle identità primarie e di appartenenza. L’effetto è l’eclisse di un’idea di interesse generale sostituito da uno comunitario, oggi prevalente e decisivo. Una modalità di pensiero trasversale sull’asse destra-sinistra. E’ uno dei motivi che spiegano come il consenso al provvedimento Maroni non arrivi solo dall’elettorato che ha votato Pdl e Lega, ma anche coinvolga anche settori non marginali di chi il 13 aprile ha votato per l’attuale opposizione;
4) La politica dei diritti e la cultura dei diritti nella storia italiana non riguarda i diritti generali, ma quelli specifici, sociali, o di settore lavorativo, corporativi si potrebbe dire.
Porre il problema dei diritti dei rom è percepito non come una battaglia sui diritti, ma come un contenzioso che riguarda solo loro. In breve sulla questione dei diritti noi siamo un Paese che si chiede: A chi giova? E non se lo Stato di diritto, quale noi crediamo di essere e vogliamo essere, è in contraddizione con l’idea di diritto che abbiamo.
Qual è l’idea di politica che sta prevalendo? Quale uso politico del passato sta diffondendosi in Italia? E soprattutto: serve la storia? E infine: qualcuno risponderà, senza fare spallucce?
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La Chiesa di Pio XII e i totalitarismi *
di Anna Foa, storica *
Torna ad accendersi il dibattito sulle responsabilità della Chiesa di Pio XII nei confronti della Shoah, in concomitanza dell’apertura dell’Archivio Apostolico Vaticano (già Archivio Segreto) per gli anni del suo pontificato. E non manca chi, pur fra gli storici, avanza scoop azzardati, data la brevità del tempo concesso dall’epidemia di coronavirus ai ricercatori, una settimana appena, e il fatto che molte delle nuove scoperte non modificano che in minima parte realtà note da decenni alla storiografia (come ad esempio, a proposito della conoscenza da parte del Vaticano di quanto stava accadendo in Polonia, sappiamo già dal libro di Walter Laqueur del 1980).
Di tutt’altro tenore è il libro di David Bidussa La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi tra il 1932 e il 1948, che esce in questi giorni per le edizioni Solferino. Un libro intelligente, innovativo e carico di suggestioni e di stimoli. Un libro inoltre che ha il grandissimo merito di ricollocare in un contesto assai più ampio, quello dell’atteggiamento della Chiesa di fronte ai totalitarismi e ai fascismi, il problema dello specifico ruolo di Pio XII di fronte allo sterminio nazista, con un approccio che consente di liberarsi finalmente dal confronto tra leggenda nera e leggenda rosa, diventate entrambe, più che uno stimolo, un vero e proprio ostacolo alla conoscenza. Il libro è, come dicevo, molto ricco e tocca temi di vasto respiro. Più che una recensione, queste mie note vogliono essere quindi soprattutto un invito alla discussione, un’apertura di dibattito, in cui mi soffermerò soprattutto sull’impianto generale del libro.
Al centro dello studio di Bidussa sono gli anni fra il 1932 e il 1948: sedici anni che vedono l’affermarsi dei fascismi e dei totalitarismi, le leggi razziste e l’antisemitismo razziale, la guerra di Spagna, la guerra, la Shoah, il dopoguerra e la nascita di Israele. Per la Chiesa, sono gli anni dei Concordati con fascismo e nazismo, del pontificato di due pontefici spesso contrapposti l’uno all’altro, dell’emergere di un razzismo basato sul sangue difficile da conciliare con la dottrina cattolica, della neutralità nel corso della guerra, del controverso atteggiamento di fronte alla Shoah, degli aiuti dati agli ebrei perseguitati, del ritorno ad un antigiudaismo che non avrà tuttavia vita lunga dato il peso della frattura che la guerra e la Shoah hanno avuto sull’Occidente e l’avvicinarsi della svolta conciliare.
Merito grande del libro di Bidussa è quello di aver sempre tenuto presente il nesso tra le vicende storiche più generali e le scelte del papato. In questa prospettiva, assume particolare rilievo l’importanza attribuita alla guerra di Spagna, una guerra in cui tutti coloro che avrebbero combattuto il nazismo videro i prodromi della guerra, la sua anticamera (“Oggi in Spagna, domani in Italia”, affermava Carlo Rosselli) e in cui la Chiesa vide uno scontro di civiltà, una crociata da appoggiare senza tentennamenti. In quel contesto la difesa dell’identità nazionale cristiana era affidata alle armi di Mussolini e di Hitler. Un tema su cui poco si è riflettuto nel contesto più generale del rapporto tra Chiesa e totalitarismi e la cui analisi può aggiungere tasselli significativi di conoscenza a questi controversi problemi.
Oltre ad allargare il quadro storico complessivo, Bidussa si propone di estendere anche il quadro cronologico: ad essere analizzati non sono solo gli anni della guerra, ma anche quelli che li precedono e li seguono, che egli considera altrettanto importanti. Quelli cioè in cui la Chiesa elabora giudizi e politiche sui totalitarismi, come anche sui fascismi, e quelli che seguono, quelli della ripresa della tradizione antigiudaica, dello schierarsi della Chiesa in funzione anticomunista, della sua posizione rispetto alla nascita di Israele. Molto attento è inoltre l’autore a distinguere non solo fra le diversi posizioni all’interno della Chiesa ma anche sui mutamenti delle politiche della Chiesa nei confronti della guerra e quindi anche nei confronti della politica nazista di sterminio degli ebrei.
La svolta tra una politica di neutralità ed una di avvicinamento alle potenze alleate è, analizza Bidussa, collocabile fra il 1942 e il 1943, accompagnata da un aumento della sensibilità, non solo della Chiesa ma in genere dell’episcopato sia in Italia che negli altri paesi occupati, nei confronti dello sterminio degli ebrei. Sono i mesi in cui, ad esempio, dopo la Rafle du Vel d’Hiv, molti vescovi francesi denunciano dai pulpiti le deportazioni, senza che i nazisti e i collaborazionisti di Vichy reagiscano ed anzi riuscendo ad impedire o a rallentare le deportazioni (contrariamente a quanto succede invece, com’è noto, in Olanda).
Parlare di atteggiamento della Chiesa verso i totalitarismi e non di Chiesa e Shoah, allargare quindi la prospettiva, contestualizzando la politica della Chiesa entro una storia più ampia che non riguarda solo gli ebrei e l’antisemitismo, offre alla ricerca e alla riflessione storica dei notevoli vantaggi. Il primo dei quali è quello di uscire da un’ottica giudeocentrica, quella legata per intenderci ad una concezione dogmatica della Shoah, che la vedeva come un capitolo assolutamente unico rispetto alla storia del mondo, un momento tragicamente glorioso dell’eterna storia ebraica. Un conseguenza che Bidussa non esplicita apertamente, ma che emerge con chiarezza dall’intero impianto del libro e che la frase di Claudio Pavone sulla storia come nemica di ogni fondamentalismo, posta come esergo al libro, non fa che confermare.
In sostanza, un libro che spero farà discutere, dal momento che si muove fuori dagli schemi precostituiti e dalle banalità del senso comune storiografico. Un libro di storia e di riflessione, un libro di cui c’era davvero bisogno.
*Anna Foa, storica
Moked/מוקד il portale dell’ebraismo italiano - 15/05/2020 - 21 אייר 5780
Cultura
Maturità 2019, impariamo a insegnare la Storia
di David Bidussa (Il Sole-24 ore, 28 febbraio 2019)
A proposito della ipotizzata soppressione della traccia di storia alla prossima maturità non si può non sottolineare il paradosso: da una parte le istituzioni possono decidere che la storia si può anche mandare in soffitta perché è un genere che non ha successo (la traccia di storia è stata scelta all’ultima maturità dal 3% dei candidati); dall’altra sta una domanda di storia che è in crescita e attrae (per esempio ne parla Marta Stella nell’ ultimo numero di “Marie Claire” in un articolo dal titolo Perché abbiamo sempre più bisogno di ritrovare le nostre origini?).
Dove sta la verità? Qui e là e, contemporaneamente, né qui e né là. Dunque la storia è una disciplina in riserva: destinata a un pubblico sempre più ristretto, secondo le opinioni di chi ci governa; disciplina lontana, e non coltivata, comunque scarsamente attraente (nel 2018 solo 20 classi a Roma hanno scelto come una delle mete di gita scolastica l’archivio di Stato).
Disciplina che non gode di investimenti, o in cui si investe sempre meno (secondo alcuni dati nel giro di 15 anni gran parte dei corsi di laurea in storia presso gli atenei italiani andranno a chiudere, o comunque saranno destinati ad essere assorbiti all’interno di strutture disciplinari più generali).
Contemporaneamente aumenta in misura considerevole la domanda di sapere il passato (più spesso di sapere il passato della propria famiglia è in crescita, basta guardare i numeri della consultazione on-line del portale Antenati, il portale dedicato alle storie di famiglia, segno evidente che pur in maniera molto complicata la storia ha ancora un volto, un fine per le persone.
Ma appunto si potrebbe osservare che quel fine ha una fisionomia «privata», personale, non implica una funzione pubblica, collettiva della storia. Allora proviamo a precisare la domanda: perché la storia è percepita come una risorsa privata, volta a soddisfare la propria ansia di sapere passato, di avere un radicamento nella storia, ma questa ansia non si traduce in dimensione pubblica, ovvero nella percezione e nella convinzione che la storia sia un bene pubblico? Che cos’è dunque che non va?
L’opinione comune più ricorrente è che prima di tutto ci sia un difetto di didattica della storia, ovvero che la causa principale sia da cercare in chi insegna la storia, e principalmente tra gli insegnanti delle scuole, soprattutto della fascia tra 14 e 19 anni, per non dire della capacità didattica della gran parte del corpo docente accademico. Dunque un tema è la formazione verso la didattica del corpo docente.
Un’altra opinione molto comune è la convinzione che l’insegnamento della storia in gran parte segua programmi che non sono capaci di sollevare l’interesse di un pubblico, perché difficilmente si immergono nel presente, o nel passato immediato, e dunque parlino di temi, di scene, di questioni lontane, incapace di coinvolgere. In breve una narrazione che non susciterebbe passione, emozione, coinvolgimento.
Per quanto sia convinto che in queste due spiegazioni ci sia del vero, tuttavia a me sembra che la crisi alluda ad altro, o almeno che per superarla occorra impegnarsi a trovare risposte su altre questioni che non sono solo la senescenza dei programmi (e dunque un dato burocratico, percui sarebbe sufficiente svecchiarli o renderli più agili) oppure produrre un corso di aggiornamento alla didattica per i docenti.
Il primo dato importante è che noi in Italia difettiamo di una capacità di saper narrare storia. Riguarda come pensiamo, progettiamo e costruiamo musei di storia, per esempio. Ma non solo. La misura su cui valutare questa incapacità è nella dimensione ridotta che dedichiamo ai percorsi e alle problematiche della Public History.
Public History non è né solo, né prevalentemente la divulgazione della storia, ma è quell’ambito disciplinare che si occupa di come rendere fruibile, interessante, motivante e soprattutto ricco di suggestioni l’insegnamento della storia. E contemporaneamente, è quella disciplina che si pone anche il problema di costruire format per la didattica della storia (pensando per esempio alla drammaturgia, alla rappresentazione scenografica, alla produzione di podcast, alla costruzione di kit didattici;...).
Si analizzi, tanto per fare un esempio, la produzione di materiali relativi al centenario della Prima guerra mondiale, che in questi anni, a partire dal 2014, ha coinvolto istituti, centri di ricerca, associazioni di giovani storici che si dedicano alla didattica alternativa, alla didattica “a distanza”, e si vedrà che il complesso delle attività, prime fra tutte le diverse modalità della comunicazione social con cui in realtà come Francia, Regno Unito, Germania, Spagna hanno sollevato e coinvolto docenti, studenti, segmenti non irrilevanti di società civile, “università della terza età”, realtà di formazione volte alla cura educativa di adolescenti di prima immigrazione, ovvero i nuovi e i futuri cittadini di domani, in Italia ha avuto scarso seguito.
La storia trasportata sul web è stata spesso lo stesso pacchetto di contenuti che veniva proposto nella didattica tradizionale. Comunque scarsamente lavorato. Il risultato è stato, prima ancora della noia, l’inutilità. Spesso una quantità di risorse investite nella costruzione di progetti la cui ricaduta è stata scarsa, comunque di scarso effetto.
E’ un ambito enorme che non riguarda solo la storia attuale, ma riguarda forse la storia che ha più successo (sia nei giochi on line che nella fiction) che è la storia medievale, da molti ritenuta anni fa un a storia “finita” di scarso interesse, ma che ha una sua stagione rinnovata ormai da tempo, ma su cui in Italia soffriamo, eccetto alcuni poli di eccellenza, di una scarsa diffusione di competenze, spesso perché la storia medievale è assorbita o assimilata a un’immagine, malintesa, di storia locale, di esaltazione del proprio territorio, di ricerca della propria tradizione folclorica, perché ossessionata dall’ansia di rimarcare e ribadire una identità, con scarsa propensione a pensarla come un modi diverso di raccontarla e di affrontarla come “storia mondo” con cui dobbiamo prendere la misura.
C’è un secondo aspetto della storia e della marginalizzazione della storia nella scuola che riguarda la riduzione delle ore dedicate alla storia nella ripartizione dei programmi e delle ore di insegnamento. Una questione che riguarda soprattutto gli istituti tecnici e professionali. L’effetto nel tempo medio-lungo (ma in questo caso parliamo di pochi anni) è quello di dare luogo a una conoscenza della storia rigidamente separata riproponendo la vecchia ripartizione tra scuole volte alla formazione per un mestiere e scuole destinate a definire un profilo culturale per le libere professioni. In un qualche modo la riproposizione del sistema scolastico proprio della prima metà del’900.
Come si risponde a questa scelta? Difficilmente si darà uno spazio ampliata o allargato alla storia negli istituti professionali, ma le ore di letteratura. Non si tratta di abbandonare la studio della letteratura, ma di proporre lo studio della letteratura come occasione di scavo nella storia.
Mi limito ad indicare alcuni testi del Novecento che di fatto hanno svolto questa funzione e che la possono svolgere anche in relazione ai vuoti di programma. Una questione privata di Beppe Fenoglio o L’orologio di Carlo Levi sono nei fatti due testi con cui poter discutere, raccontare, analizzare la Resistenza o l’inizio dell’Italia repubblicana. Ma lo stesso di potrebbe dire per Caro Michele di Natalia Ginzburg, se qualcuno avesse per davvero interesse a parlare di ’68 e di generazione ’68; di Buio a Mezzogiorno di Arthur Koestler se il tema fosse lo scavo negli anni bui dello stalinismo e di cosa sia stato il socialismo reale, di Niente di nuovo sul fronte occidentale di E. M. Remarque o di Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu per parlare di Prima guerra mondiale. Senza dimenticare i film.
Di nuovo non per sostituire l’approfondimento di storia, ma per renderlo un momento di formazione in cui contano le risorse culturali, documentarie, che si propongono. Ma soprattutto per proporre un’idea di storia dove essenziali sono le domande e non tanto le risposte definitive che si danno. Perché lo studio della storia, che piaccia o no, non è trovare la risposta definitiva, avere l’ultima parola. Ma proporre domande, fare questioni, sapendo che dopo, arriveranno altri a proporre altri percorsi, altre questioni, spesso modificando strutturalmente l’ordine del racconto.
Il bravo storico è insomma uno che ha, al massimo la possibilità di proporre la penultima parola e di insegnare che appunto la avere la penultima parola non è un difetto, o una mancanza, ma è la consapevolezza che il dossier non è chiuso. Perché uno storico non è un giudice. E nemmeno un ideologo. Anche questo è, a suo modo, una funzione civile dell’insegnamento della storia. Forse non solo della storia.
Mattarella mette in guardia dal razzismo
“Veleno che penetra ancora nella società”
Il Capo dello Stato: anche i rom e i sinti tra le vittime delle Leggi Razziali del fascismo. Salvini: basta parassiti
di Francesco Grignetti (La Stampa, 26.07.2018)
Era il 26 luglio 1938, ottanta anni fa: il Duce riceveva in pompa magna a palazzo Venezia alcuni tra gli scienziati più illustri d’Italia per la consegna del Manifesto della razza. A rileggerlo, c’è da rabbrividire: «La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana... Gli ebrei non appartengono alla razza italiana». Fu la premessa delle leggi razziali. E ieri Sergio Mattarella ha voluto ricordare quel passaggio orribile della nostra storia. «Questa presa di posizione - afferma il Capo dello Stato - rimane la più grave offesa recata dalla scienza e dalla cultura italiana alla causa dell’umanità».
Parla del passato, Mattarella, ma in tutta evidenza parla anche dell’oggi perché il virus del razzismo è sempre più forte anche oggi. Non è un caso che Mattarella rievochi la crudeltà verso le popolazioni africane nelle nostre colonie, la persecuzione dei cittadini di religione israelita e la caccia spietata a rom e sinti. «Quelle mostruose discriminazioni sfociarono nello sterminio, il porrajmos, degli zingari», dice il Presidente sulla scorta di un dossier che La Stampa ha potuto consultare negli archivi del Quirinale. Guai allora a dimenticare le scelte che gli italiani compirono nel 1938. «Il veleno del razzismo - conclude Mattarella - continua a insinuarsi nelle fratture della società e in quelle tra i popoli. Crea barriere e allarga le divisioni. Compito di ogni civiltà è evitare che si rigeneri».
E se non sfugge la coincidenza tra questa ricorrenza e l’animosità della maggioranza giallo-verde nei confronti di stranieri e zingari, il ministro Matteo Salvini svicola con eleganza. «Il Presidente Mattarella - dice - con le sue parole ricorda un passato che non dovrà mai più tornare. È folle e fuori del mondo ritenere una razza superiore a un’altra». Ma intanto, a proposito dei Rom, usa toni brutali: «In Italia ci sono 150 mila persone rom ma i problemi sono limitati a 30 mila che si ostinano a vivere nell’illegalità. Il problema è questa sacca parassitaria».
Fanfani e padre Gemelli firmarono contro gli ebrei
di Fra. Gri. (La Stampa, 26.07.2018)
A firmare il Manifesto della razza furono 10 scienziati, alcuni notissimi come Sabato Visco, direttore dell’Istituto di fisiologia dell’Università di Roma, o Nicola Pende, direttore dell’Istituto di Patologia alla stessa Università. I loro nomi sono noti, anche se poi alcuni cercarono di sottrarsi alla responsabilità, e qualche storico ha ritenuto che le loro firme fossero state in qualche modo «sollecitate» dal regime, visto che era stato Mussolini stesso a ispirarne parole e concetti.
Grave fu però la corsa di tanti intellettuali, ben 330, ad aggiungere la propria firma a quello che chiaramente era un passaggio ispirato dal Duce. Uno fu padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Un altro, il giovane professore di Storia economica Amintore Fanfani. Oppure il poeta Ardengo Soffici, lo scrittore Giovanni Papini, il giornalista Mario Missiroli, il critico cinematografico Luigi Chiarini.
A dare spazio alle teorie del razzismo italiano nacque una rivista specifica, La difesa della razza, diretta da Telesio Interlandi, giornalista distintosi per le campagne antisemite promosse sulle pagine del giornale Tevere e per un libro dal titolo Contra Judeos. Caporedattore era Giorgio Almirante.
Fin dal 1926 respingimenti e allontanamenti forzati
di Fra. Gri. (La Stampa, 26.07.2018)
È una pagina semi-ignorata della storia italiana, la persecuzione degli zingari che il regime portò avanti fin dal 1926 con respingimenti e allontanamenti forzati di Rom e Sinti stranieri. Il Viminale diramò circolari per «epurare il territorio nazionale dalla presenza di zingari, di cui è superfluo ricordare la pericolosità nei riguardi della sicurezza e dell’igiene pubblica per le caratteristiche abitudini di vita».
Furono coinvolte le forze di polizia e le prefetture dell’Istria e del Friuli, in particolare, nel tentativo di sbarrare la strada ai gitani dei Balcani che nel loro nomadismo tentavano di entrare in Italia. E siccome a loro volta la polizia del confinante Regno di Jugoslavia si rifiutava di accettarli, sono accertati i respingimenti clandestini a opera della Guardia di Finanza presso certi valichi di frontiera incustoditi.
Con il 1938, Mussolini si convinse che occorreva la pulizia etnica degli zingari nelle regioni di confine, in quanto tutti potenziali spie del nemico. Furono fatti rastrellamenti e deportazioni. Dall’Istria e dal Trentino gli zingari furono portati al confino in Sardegna. Il 20 ottobre 1942 il nuovo prefetto istriano Berti poteva dichiarare che con le ultime deportazioni in Istria non c’era più un solo Rom. I confinati si poterono allontanare dall’isola soltanto dopo il 1945.
Un richiamo necessario per un Paese smemorato
di Amedeo Osti Guerrazzi (La Stampa, 26.07.2018)
Sono parole molto forti quelle che vengono dal Presidente della Repubblica, una delle poche autorità morali ancora riconosciute dalla stragrande maggioranza della società italiana. E forse era ora. Non esiste nessun mito più radicato nella nostra opinione pubblica di quello degli «italiani brava gente»; sebbene sia stato sfatato dagli storici, il concetto che gli italiani siano stati, anche durante il fascismo, fondamentalmente «buoni» è duro a morire.
Se anche si dice che il fascismo «sbagliò» nell’emanare le leggi antiebraiche, è opinione comune che queste furono applicate «all’acqua di rose», e che in fondo gli ebrei «non se la passavano tanto male». Nulla di più falso. La persecuzione fu durissima, e colpì ogni aspetto della vita degli ebrei italiani, rendendo loro impossibile lavorare, avere amici non ebrei, accedere a una istruzione superiore. La persecuzione, anche se non sfociò in un massacro operato direttamente dagli italiani, fu estremamente dura, e dopo l’occupazione tedesca fu la necessaria premessa al collaborazionismo fascista, e alla deportazione e allo sterminio di oltre 7000 cittadini italiani di fede ebraica.
Ma il Presidente richiama l’attenzione anche sulla sorte di sinti e rom. Chi ricorda che anche loro sono stati vittime del razzismo fascista? Chi conosce i campi di concentramento di Boiano e Agnone, dove centinaia di «zingari» furono rinchiusi durante la guerra, considerati come soggetti pericolosi per la patria italiana? Chi sa che le condizioni in quei campi erano difficilissime?
Tutto questo ha voluto ricordare Mattarella. È un richiamo duro, amaro da mandare giù, ma necessario. Necessario per un Paese che, oltre a essere smemorato, sembra continuare negli errori del passato.
Furio Colombo sfata gli stereotipi. Un’enciclopedia contro le falsità
Nella raccolta di scritti «Clandestino» (La nave di Teseo), il giornalista smaschera le mistificazioni del razzismo e le forze politiche che cavalcano l’insicurezza dei cittadini
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 18.06.2018)
Sembra venuto dall’aldilà il libro di Furio Colombo uscito proprio in questi giorni contemporaneamente all’odissea dell’Aquarius. Si intitola Clandestino. La caccia è aperta. Protagonisti sono i migranti, la loro tragedia, la nostra angoscia di spettatori impotenti. Nel momento di confusione crudele in cui stiamo vivendo, il libro (La nave di Teseo) sembra un ex voto che serve a ragionare, un rimedio utile a smentire le bugie che ci vengono quotidianamente ammannite, un aiuto per capire quali potrebbero essere le soluzioni per risolvere un problema reale che una classe dirigente imberbe, intrisa di razzismo più o meno mascherato, non si preoccupa di trovare, attenta solo ai problemi del potere, ignara delle conseguenze dell’alzare la voce nel consesso internazionale. Questo in un Paese di emigranti come il nostro dove milioni di uomini e donne, dall’Unità a oggi, hanno pagato con le lacrime e il sangue la perdita della patria per trovare lavoro.
Furio Colombo possiede una profonda esperienza nazionale e internazionale. Ha insegnato alla New York University, all’Università della California di Berkeley, alla Columbia University, ha conosciuto i grandi della terra, è stato direttore dell’Istituto italiano di cultura di New York e in Italia, oltre ad aver pubblicato libri di rilievo sulla politica, la democrazia, il giornalismo, è stato parlamentare della sinistra per tre legislature e ha diretto (dal 2001 al 2005) «l’Unità» che in quegli anni sembrava diventata il giornale di Giustizia e Libertà.
A differenza di tanti politici di governo, con miserrime biografie, ha le carte in regola per discutere e far polemica. Tra l’altro ha scritto (Laterza, 2012) il saggio Contro la Lega. L’esergo del libro chiarisce il suo pensiero: «Avete fatto del Mediterraneo una Guantanamo in alto mare». (Dagli atti del processo intentato dall’Alta Corte di Strasburgo per i diritti umani che il 23 febbraio 2012 ha condannato l’Italia per crimini contro l’umanità, su denuncia di alcuni sopravvissuti consegnati ai libici).
Clandestino, dunque. È una raccolta di scritti di questi ultimi anni. Tra gli altri contiene anche le risposte ai lettori del «Fatto Quotidiano» di cui Furio Colombo era ed è editorialista.
Mette subito le mani avanti, lo scrittore. Il libro comincia così: «Tutto quello che vi hanno raccontato sul traffico in mare, di soldi, barche, navi, soccorso, vita e malavita dei migranti, non è vero: in nessun tempo, in nessun punto. Conservate questa nota e verificate quando qualcuno presenterà le prove».
L’Italia non è assediata dai migranti, come viene detto. La percentuale dei profughi, qui da noi, è minore rispetto agli altri Paesi europei. Un esempio: nella penisola, lo scorso anno, sono arrivati in 60 mila, 230 mila in Germania. Nella polemica furibonda dei giorni passati ci si è dimenticati, tra l’altro, di dire che la maggior parte dei migranti che vivono in Italia non sono sfaccendati che dormono sui cartoni dei marciapiedi: il loro lavoro accresce di circa il 9 per cento il Pil, il Prodotto interno lordo.
Clandestino è una registrazione di eventi quotidiani. In certi ambienti la cattiveria è diventata palpabile, con il disagio e l’insicurezza. Certi segni destano grave preoccupazione. Sulle vetrine di alcuni negozi di città grandi e piccole sono comparsi terrificanti cartelli con la scritta: «Si assume personale soltanto italiano», che rammentano quel che di atroce accadde ai tempi delle leggi razziali del 1938. Certi princìpi, poi, che sorreggono l’idea di nazione, più da noi che nel resto d’Europa, ugualmente in crisi, sembrano incrinarsi, con lo smarrimento della fede nel progresso sociale e civile e con la caduta di tante speranze. (Mentre nei centri piccoli e grandi non pochi si arrabattano, inventano, creano, ma mancano i ponti di collegamento, manca la politica. Si discute di persone, di posti, non di problemi).
In gran parte del Paese, in contrasto con la propaganda razzista della Lega, che un tempo si accaniva contro il Sud e i meridionali - «Affrica» - e ora ha mutato bersaglio, i migranti vengono accolti con semplice umanità. I bambini bianchi e neri studiano e giocano con normalità nelle scuole e così gli adulti che non creano muri tra loro. Non è vero che i migranti «rubano il posto agli italiani». Sono gli italiani che spesso rifiutano gli umili lavori. Sono i migranti a rimanere vittime per bisogno dei crudeli caporali delle campagne.
Il libro di Colombo è una sorta di enciclopedia su quel che si dice dissennatamente dei migranti, protagonisti i politici dalla mente torbida e i loro accoliti, quasi un Dizionario dei luoghi comuni, il catalogo di Gustave Flaubert.
Come si può considerare un tradimento l’ospitalità? Violare le norme elementari del vivere civile, cancellare ogni moto di pietà, considerare nemici i medici che curano i migranti, donne e bambini senza genitori e, anch’esse nemiche, le Ong serie e corrette che vogliono salvare persone vittime della fame e della guerra?
Il problema sembra piuttosto quello di por mano alle leggi e al diritto internazionale, di esigere, non con l’aggressività, la violenza, le urla - un boomerang - che l’Unione Europea non lasci sola l’Italia, come ha detto la Merkel, e di far sì, con le armi della politica professionale e della diplomazia, che il Mediterraneo sia veramente il mare d’Europa, di tutta l’Europa.
Come può chiudere i porti una nazione come la nostra, quasi del tutto coste e mare, che ha sulla bandiera della Marina militare, alla quale, per il suo comportamento, va reso onore, gli stemmi delle nostre quattro antiche Repubbliche marinare?
Come si usa la memoria
di David Bidussa (Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2012)
«La memoria non è il ricordo. La memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro». Lo ha detto di recente Piero Terracina uno degli ultimi testimoni di Auschwitz ancora in vita. Sono parole dense che faccio mie e alludono a questioni che in Italia ci riguardano direttamente.
Vorrei proporne tre: 1) abbiamo aperto una riflessione storica e critica sul passato oltre la commemorazione? 2) Abbiamo un calendario civile che esprima quell’idea di memoria? 3) Quella memoria ha un rapporto con la nostra quotidianità?
Storia della Shoah in Italia (Utet, 2010) è una grande opera che due anni fa un gruppo di storici (Simon Levis, Marcello Flores, Enzo Traverso, Anne Marie Matard Bonucci) ha proposto per ripensare quell’evento in relazione alle metamorfosi, della società italiana, nel tempo lungo tra Risorgimento e attualità indagando le lunghe premesse nell’Italia liberale, le vicende della persecuzione; mettendo l’accento sui perseguitati, i persecutori, la grande e diffusa indifferenza, ma anche sulla delazione, sulle sottrazioni di beni e cose; poi sul lento rientro e sulle molte forme di rappresentazioni di quella vicenda che "fanno memoria" di quell’evento (cinema, letteratura, arte, monumenti, web).
Perché quell’operazione culturale di alta qualità e innovativa, ha cozzato sostanzialmente nel silenzio? Che cosa significa fare politiche e pedagogie della memoria oltre la commemorazione? Questa è la questione che quella discussione mancata ci lascia in eredità.
Credo che in Italia oggi questa questione abbia un valore particolare, maggiore che in altri contesti nazionali europei, perché noi oggi siamo un Paese che non ha più un calendario di feste pubbliche, collegate alla propria storia, che abbiano una funzione pedagogica, riflessiva e soprattutto formativa di un ethos pubblico. Paradossalmente, perché siamo il Paese con più date memoriali nel proprio calendario.
Ha ricordato lo storico Giovanni De Luna (La repubblica del dolore, Feltrinelli) come negli ultimi dieci anni sull’Italia si è abbattuta una valanga di date. Oltre al 27 gennaio, abbiamo il 10 febbraio il «giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe; il 9 maggio come «giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo; il 12 novembre «giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace». Poi abbiamo il 4 ottobre, «già solennità civile in onore dei Patroni speciali d’Italia San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena», dichiarata anche «giornata della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse»; il 2 ottobre giorno della Festa dei nonni.
Siamo pieni di tante date di feste e di giorni della memoria, ma abbiamo uno scarso rapporto critico con la storia. Quella ridondanza rischia di incrementare la sacralizzazione del passato e l’irrilevanza degli eventi terribili che accadono nel nostro presente. Si dirà: rispetto a tutte le altre date che ho elencato il «giorno della memoria» ha stabilito una sua "tradizione". Ci è riuscito in forza di una dimensione internazionale (il 27 gennaio non è una data che si riferisce a un fatto accaduto in quel giorno in Italia), ma anche in forza di una certa ambiguità.
Nel suo intervento al Parlamento italiano, il 27 gennaio 2010 il Premio Nobel Elie Wiesel ha sottolineato come porre il problema della memoria significhi come ricordare e non se ricordare. «A qualsiasi livello della politica e al più alto livello della spiritualità - ha detto Wiesel - il silenzio non aiuta mai la vittima: il silenzio aiuta sempre l’aggressore». È un ottimo spunto. Il cuore di questa considerazione, tuttavia, non sta nel l’uso della parola, bensì nella funzione. Ovvero deve rispondere alla domanda: che ce ne facciamo della memoria?
Il senso comune fa coincidere il «giorno della memoria» con impegno contro l’oblio. È lodevole, ma a me pare che la premessa sia errata. Nessuno, né tra i carnefici, né tra gli spettatori, si è mai dimenticato niente. Semplicemente pensava o che fosse un merito (perciò l’ha tenuto bene a mente) o che non valesse la pena preoccuparsi (e l’ha collocato tra le cose viste, ma di secondaria importanza). Nel caso dei carnefici, sconfitto il nazismo, essendo iniziata dopo una stagione in cui bisognava nascondere le proprie emozioni e ciò che si era fatto, occorreva sviluppare una doppia memoria (chi si reinventa un passato da dire in pubblico deve sempre tenere a mente tutto ciò che dice, non può mai distrarsi). Nel caso di chi ha visto e non ha fatto niente perché quel problema rimane sullo sfondo rispetto ad altre cose che lo riguardavano e che ritiene ancora lo riguardino in misura rilevante.
Ma se «la memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro», l’operazione che connette e condiziona il futuro nasce non già dal ricordare ma dal disagio che la memoria procura. La memoria è lo strumento che consente di valutare "gap" tra sapere che cosa sia la verità e la giustizia e la consapevolezza che il proprio "io" ha mancato in qualche punto.
Una questione che mentre si preoccupa di riappacificarci col passato, apre questioni laceranti con i fatti del nostro presente e interroga in forma drammatica il nostro agire. L’episodio più eclatante in senso tragico riguarda Srebrenica e, soprattutto, il disagio che l’Europa ha provato, facendo di tutto per non confrontarsi con ciò che quelle scene significavano se non dopo, a evento consumato, quando ormai negare non era più possibile. Quando nel maggio del 2011 è stato catturato Ratko Mladic, molti, ricordando lo sterminio di Srebrenica del luglio 1995, hanno detto che Srebrenica ci aveva "rivelato" Auschwitz. Ne dubito. Noi di fronte a Srebrenica abbiamo scoperto un’altra cosa, ma non siamo in grado di dirlo perché dovremmo fare i conti con il disagio della memoria.
Srebrenica 11 luglio 1995, è la dimostrazione che sapere che sta accadendo qualcosa, vederlo persino, non impedisce che quella cosa non solo sia possibile, ma che avvenga. E soprattutto abbiamo scoperto che dopo, noi, non i carnefici, siamo ancora in grado di vivere senza sentire la vergogna. A Srebrenica, in breve noi abbiamo scoperto, ma non siamo disposti ancora a riconoscere, che non è vero che lo sterminio avviene perché nessuno lo sa e che se avessimo saputo, non sarebbe potuto avvenire. Ma che lo sterminio avviene, lo vediamo in diretta e complessivamente continuiamo a pensare che sono "fatti loro". Comunque che non ci riguarda. Srebrenica luglio 1995, uno sterminio che è avvenuto non mentre tutti eravamo in vacanza, ma in un giorno infrasettimanale (per la cronaca era martedì), a poca distanza di qui, costituisce un evento ineludibile per riflettere sul senso della memoria e sulla sua funzione. Non era la prima volta. Quindici mesi prima era già avvenuto in Rwanda. Anche allora era prevalso il silenzio.
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
Diversità e Sicurezza Culturale
Una risorsa contro l’Antisemitismo e il Razzismo
NON HAI BISOGNO DI ESSERE EBREO
PER OPPORTI ALLA DEPORTAZIONE DEI ROMA !
BANDO DEL PALAZZO APOSTOLICO, 3 DICEMBRE 1557
“Con il presente bando pubblico si comanda a tutti gli Zingari, tanto uomini come donne, che attualmente si trovano dentro o fuori di Roma, vicino alle mura, che sotto la pena della prigione per gli uomini e della frusta per le donne, devono entro due giorni dalla pubblicazione del presente bando, essere tutti usciti ed espulsi da Roma e il suo territorio, avvertendo che si procederà con grande rigore contro i disobbedienti”.
“COMBATTERELA PIAGA DEGLI ZINGARI” CIRCOLARE DI HIMMLER, 8 DICEMBRE 1938 “L’esperienza che si è acquisita nel combattere la piaga degli Zingari, e la conoscenza che è derivata dalla ricerca sulla razza biologica hanno dimostrato che il modo appropriato di attaccare il problema degli Zingari sembra essere quello di trattarlo come una questione di razza.
L’esperienza mostra che i mezzi Zingari giocano il ruolo più importante nella criminalità Zingara. D’altra parte è stato dimostrato che gli sforzi per rendere gli Zingari stanziali non hanno avuto successo specialmente nel caso di Zingari puri, a causa della loro forte spinta a vagabondare. E’ diventato perciò necessario distinguere fra Zingari puri e mezzi Zingari nella soluzione finale della questione Zingara. A questo scopo, è necessario stabilire l’affinità razziale di ogni Zingaro che vive in Germania e di ogni nomade che vive alla maniera degli Zingari.
Per questo io decreto che tutti gli Zingari stanziali e non stanziali, e anche tutti i nomadi che vivono un’esistenza da Zingaro, devono essere registrati presso l’Ufficio di Polizia Criminale - Ufficio Centrale del Reich per combattere la piaga zingara. Le autorità di polizia riferiranno (attraverso l’ufficio di polizia criminale responsabile e gli uffici locali) all’Ufficio di Polizia Criminale del Reich - Ufficio Centrale del Reich, per combattere la piaga degli Zingari, di tutte le persone che in virtù del loro aspetto e della loro apparenza, dei loro costumi ed abitudini, devono essere considerati Zingari o mezzi Zingari.
Poiché una persona identificata come uno Zingaro o come un mezzo Zingaro, oppure come una persona che vive come uno Zingaro, per legge conferma il sospetto che il matrimonio non debba essere contratto (in accordo con il punto 6 del primo decreto sull’implementazione della Legge per la protezione del sangue e dell’onore germanico ... o sulla base della legge sulla idoneità al matrimonio), in tutti i casi i funzionari del registro pubblico devono richiedere un testimone per l’ idoneità del matrimonio per quelli che ne facciano richiesta (di essere sposati).
Trattare la questione Zingara è uno dei compiti del Nazional-Socialismo per la rigenerazione nazionale. Una soluzione può essere raggiunta se vengono osservate le prospettive filosofiche del Nazional-Socialismo. Sebbene il principio che la Nazione Germanica rispetti l’identità nazionale delle genti aliene viene assunto anche per combattere la piaga Zingara, ciò non di meno l’obiettivo delle misure prese dallo Stato per difendere l’omogeneità della Nazione Germanica deve essere la separazione fisica del mondo Zingaro dalla Nazione Germanica, la prevenzione dall’incrocio di razze, e infine, il regolamento del modo di vita degli Zingari puri e dei mezzi Zingari. Il fondamento legale necessario può essere creato soltanto attraverso una legge sugli Zingari che prevenga ulteriori mescolamenti di sangue, e che regoli tutte le questioni più pressanti che vanno insieme alla esistenza degli Zingari nello spazio vitale della Nazione Germanica”.
ORDINE DI HIMMLER, 15 NOVEMBRE 1943
1. Gli Zingari e i mezzi Zingari sedentari devono essere trattati come i cittadini del paese.
2. Gli Zingari e i mezzi Zingari nomadi devono essere considerati sullo stesso piano degli Ebrei e deportati nel campi di concentramento.
UN MONDO SENZA I ROMA E’ UN MONDO INCONCEPIBILE !
VOGLIO I ROMA A CASA MIA !
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani gherush92@gherush92.com