Gli intellettuali sul rischio-autoritarismo.
La fondatrice del "manifesto": con Di Pietro in piazza mai
La Rossanda e l’allarme di Umberto
"Gran brutta aria, regime ancora no"
"Se il 47% degli italiani rifiuta i rom, bisogna battersi contro di loro"
Lo scrittore Matvejevic: in Italia solo l’involucro della democrazia
di Alessandra Longo (la Repubblica, 03.07.2008)
ROMA - Difficile non confrontarsi con le parole di Umberto Eco. Difficile non chiedersi se davvero noi italiani siamo con un piede nel burrone, se davvero la democrazia qui, adesso, è in pericolo. «Non siamo ancora al regime - dice Rossana Rossanda - ma ci sono molti segnali di avvicinamento. Siamo al limite, tira un’aria brutta. Trovo importante che Eco sia intervenuto. Il rischio c’è. E a preoccuparmi non sono solo le gesta di Berlusconi, di La Russa, della "banda" che ci governa, ma il guasto profondo che si è prodotto nella società italiana, nell’opinione pubblica».
Da Parigi, dove ormai vive quasi in pianta stabile, senza tuttavia perdere nulla di quel che succede in Italia, Rossanda vede un Paese incline al «populismo», in cerca del «capro espiatorio», «del poveraccio, del diverso», su cui far convergere frustrazioni, rancori, paure: «Se è vero che il 47 per cento degli italiani prova repulsione all’idea di vivere accanto a un Rom, allora bisogna battersi contro quel 47 per cento, ribellarsi all’egoismo, all’individualismo, risvegliare le coscienze».
Una democrazia, quella italiana, che scivola lentamente in altro. Dice Eco che «la maggioranza ha diritto di governare», ma altra cosa è il sentirsi depositari dell’unica verità. Dacia Maraini si farà prendere pubblicamente le impronte, il 7 luglio prossimo, a Roma, come atto di protesta contro uno dei provvedimenti più odiosi decisi da questo governo, la schedatura dei piccoli Rom. E’ d’accordo con Eco: «Questo Paese è borderline dal punto di vista della democrazia. Berlusconi non tiene conto di nulla, è un estremista, gestisce l’Italia come fosse una sua azienda. Maggioranza non può essere diritto di impunità, non è dominio sulla minoranza, non implica l’uso personalistico, poliziesco della politica».
La storia non si ripete o, semmai, si può ripetere in farsa, «ma anche le farse, a volte, possono essere inquietanti», avverte Rossanda che attribuisce un certo torpore etico anche alla scomparsa dei comunisti alla Berlinguer: «Potevi non essere d’accordo con loro, ma il Pci di allora, con le sue denunce, ti faceva sentire in colpa, agitava le coscienze». Oggi gli anticorpi sembrano minori. Che serva il ritorno alla piazza? «Se fossi a Roma - dice Rossanda - non andrei alla manifestazione dell’8 luglio perché intravvedo in Di Pietro un’idea della democrazia alimentata dalla vendicatività che non condivido». A ognuno il suo.
Vincenzo Cerami pensa che, «per carità, un girotondo vada benissimo» ma da un «grande partito come il Pd, doverosamente dotato di senso delle responsabilità istituzionali, ci si attende una manifestazione alta, matura». Eco, dice Cerami, ha ragione quando fiuta il pericolo-regime in Italia ma l’immagine di «una minoranza che non osa reagire» non si applica certo all’opposizione veltroniana che, a mio avviso, non è né paciosa né tranquilla. Io dico: una manifestazione il Pd la farà, con i suoi tempi, con i suoi modi, senza un linguaggio impulsivo. Lasciamo che la maggioranza si cuocia nel suo brodo, lasciamo che vengano più allo scoperto...».
Lo scrittore Predrag Matvejevic, che ha conosciuto il regime croato di Tudjman e l’aria irrespirabile dei Paesi dell’Est, e ha ricevuto la cittadinanza italiana dal presidente Napolitano, tifa per un’Italia più reattiva: «Una democrazia a rischio può scivolare facilmente in quello che io chiamo "democratura" dove tutto sembra come prima, dove si proclama con forza il rito della democrazia ma, in realtà, è rimasto solo l’involucro».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NO CAV DAY - INTERVENTO DI MONI OVADIA
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
FLS
I DUE VERSI DI EMILY DICKINSON
di Beniamino Placido *
Sempre per loro. Perché non si disperino. Cosa non si fa per loro, per quelli che verranno dopo di noi: fra cinquanta, cento, cinquecento anni. Poveretti, cercheranno di capire la nostra storia di oggi e si metterranno le mani nei capelli, ci sembra già di vederli. Come mai vinse quel Berlusconi: che non era un politico, che tre mesi prima non era ancora entrato in politica?
Non siamo egoisti. Diamogli una mano. Aiutiamoli a sgrovigliare nella loro Biblioteca i nostri giornali ingialliti, dove si naviga fra quattro, cinque ipotesi concorrenti. Berlusconi ha vinto perché era (o si presentava) come "nuovo". Il vecchio non andava più di moda. Berlusconi ha vinto perché era o si presentava come uomo "non politico". La politica non andava più di moda. Oppure: perché si presentava come l’ uomo dei "fatti", contrapposto agli uomini delle chiacchiere.
Le chiacchiere circolavano molto ma erano molto chiacchierate, in Italia. O ancora: Berlusconi ha vinto perché si presentava (e certamente era anche) un "vincente". Ce l’ ha fatta? Si è fatto da sé? Ebbene, farà in modo che ce la facciamo anche noi.
Altra ipotesi ancora: ha vinto perché aveva a disposizione tante televisioni, e le usava. Si può fare una previsione sicura, eccola. Sarà questa alla fine l’ ipotesi vincente. Perché la più comoda, la più pittoresca. Ma non necessariamente la più fondata. Se li avessi davanti, questi studiosi di domani (o dopodomani), impegnati a capire le nostre vicende di oggi, farei loro questo discorso. Non date retta. La televisione è potente, ma non onnipotente. Negli Anni Settanta la Democrazia Cristiana - al governo da sempre - aveva a disposizione tutta la Televisione che c’ era (tutta) e tuttavia non riuscì ad impedire che l’ aborrita legge sul divorzio passasse. Negli Anni Ottanta Umberto Bossi riuscì a creare la sua Lega, dal nulla, infischiandosene della Televisione.
Forse c’ entra qualche altra cosa. Forse c’ entra anche quel che si dice in televisione.
Se li avessi davanti, quegli storici di domani (o dopodomani) li costringerei a metter l’occhio su una cronaca da Torino (Massimo Gramellini, La Stampa, venerdì 1 aprile). Siamo a Mirafiori. Ecco un vecchio operaio che spiega come mai ci siano stati tanti voti per la destra. Anche a Mirafiori.
"Alza un braccio e lo punta su un condominio con tante finestre tutte uguali. Poi dice: io abito là. Tremila famiglie; di media in ogni alloggio c’ è un disoccupato e una tv: hanno votato Berlusconi perché lui ha fatto delle promesse, e noi nemmeno quelle".
E’ chiaro: non basta la televisione; ci vuole anche un disoccupato in casa (e c’è per spiegare il risultato elettorale del 27 marzo. A quel disoccupato Berlusconi ha promesso un milione di posti di lavoro. Ce ne sarà qualcuno (forse due) anche per lui, perbacco.
Supponete che quel disoccupato abbia venticinque anni e magari un diploma, o una laurea, in tasca. Segue la pubblicazione dei bandi di concorso sulla Gazzetta Ufficiale. Poi accende il televisore (ecco dove la televisione conta) e vede che per una manciata di posti ci sono centinaia, migliaia di concorrenti. Famelici. E’ un incubo. Sarà sciocco, ma volete che non presti l’ orecchio alla prima promessa che gli viene fatta? Sarà imprudente, ma volete che non ceda al primo sogno che gli viene prospettato ("un nuovo miracolo economico")?
Su questo tema - della Fata Morgana, delle illusorie promesse, delle artificiose illusioni elettorali - si è molto discusso in questi giorni in Italia. C’ è stato anche chi ne ha negato ogni importanza. I sogni ad occhi aperti: ma figuriamoci. Lo ha negato anche Rossana Rossanda (il manifesto, venerdì 8 aprile).
Mi pare strano. Rossana Rossanda non può non saperlo: ci sono due versi della poetessa americana Emily Dickinson che le danno torto. Meglio un sogno che niente. E la Dickinson è una poetessa dura, aspra, essenziale. Fatta di pietra e di quarzo. Non si fa illusioni. Non ne autorizza. Non crede nel paradiso in terra, non le piace ("I don’ t like Paradise").
Eppure è lei l’ autrice di quei due versi dove è detto che quando si è al buio persino un fuoco fatuo è meglio di niente. Meglio della totale assenza di luce "Better an ignis fatuus / Than no illume at all"é. Dove quel latino di "ignis fatuus", dove l’ arcaico di quell’ "illume" vogliono dire che è così, fatalmente. E’ una vecchia storia. Possiamo (dobbiamo anzi) contrastarlo. Non possiamo negarlo.
Mi pare strano che la Rossanda non se ne ricordi. C’ è un vecchio volumetto della Savelli, dove quella poesia (tradotta da Barbara Lanati) figura. La prefazione al volumetto - e che prefazione: acutissima, splendida - era di Rossana Rossanda.
* Fonte: la Repubblica, 10 aprile 1994
IDEOLOGIA E LINGUAGGIO: "ULISSE-POLIFEMO":
I’m Nobody! Who are you?
Are you - Nobody - too?
Then there’s a pair of us!
Don’t tell! they’d advertise - you know!
How dreary - to be - Somebody!
How public - like a Frog -
To tell one’s name - the livelong June -
To an admiring Bog!
***
Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!
Che grande peso essere Qualcuno!
Così volgare - come una rana
che gracida il tuo nome - tutto giugno -
ad un pantano in estasi di lei!
Emily Dickinson ("Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1997).
***
Nota:
Ideologia, linguaggio, e psicoanalisi (in memoria di Edoardo Sanguineti).
NESSUNO (NOBODY)?
Cum grano salis: il nome di moltissimi "Nessuno" è solo l’altro nome di "nani sulle spalle di giganti", Polifemo... Perciò il naufragio e l’inferno di "Ulisse" (Dante, Inf. XXVI).
Federico La Sala
«Il Mose è lo scandalo mondiale sulle opere pubbliche più grande della nostra storia recente»
Disastro annunciato: hanno pagato, si fa per dire, i corrotti. Ma gli incompetenti non saranno chiamati a risponderne
di Massimo Cacciari (L’Espresso, 05 Aprile 2021) 05 Aprile 2021
Occorre purtroppo continuare a parlare del Mose poiché si tratta del più grande scandalo mondiale in tema di lavori pubblici nell’intera storia del secondo dopoguerra. E di una vergognosa devastazione di risorse del nostro Paese che dura ormai da un trentennio. La parte destinata a corruzione e tangenti, passata quasi in giudicato, è quella quantitativamente meno rilevante. Sono le deficienze complessive del progetto, sotto tutti i profili, che sono costate miliardi di euro e continueranno a costarli, se si vuole in qualche modo «salvare» l’opera, almeno nel senso che di quando in quando le paratoie possano sollevarsi. Di tutto potrei stupirmi fuorché della denuncia della dottoressa Ramundo e del professor Paolucci.
Loro illustri colleghi avevano già ricordato cose analoghe fin da quando il progetto delle dighe mobili venne approvato. Che dico approvato! Esaltato, magnificato, sostenuto contro ogni evidenza da tutti i governi e tutti i ministri dei Lavori Pubblici succedutisi nel Bel Paese tra anni ’90 e nuovo millennio. Con la complicità della totalità o quasi dei media nazionali. E contro le posizioni, i documenti, le analisi, gli studi promossi dalle Amministrazioni comunali che ho diretto, 1993-2000, 2005-2010. Chi è interessato, può facilmente rintracciare tutta la documentazione, presentata a Comitati tecnici, Consigli superiori dei Lavori Pubblici, Corte dei Conti, provveditori e ministri di ogni colore. Tutti sapevano, o sarebbero stati tenuti a sapere.
Votai contro, unico, in Comitato inter-ministeriale per la salvaguardia di Venezia, mettendo agli atti le ragioni del mio radicale dissenso, e mi arresi. Il fronte era invincibile, dal Governo alla Regione, Galan e Zaia, dalle Associazioni di categoria tutte, alla Confindustria, alla stragrande maggioranza di tecnici impiegati dal Consorzio, a tv e giornali (con la lodevole eccezione della Nuova Venezia),e via cantando. Capitolo ben triste della storia civile patria.
Il problema della corrosione, drammatico come si evince dalle parole di Ramundo e Paolucci, è uno dei tanti irrisolti. Vi è quello del traffico portuale. Vi è quello del soggetto che dovrebbe gestire il sistema e decidere del suo funzionamento in condizioni critiche. Vi è quello straordinario della manutenzione in generale.
Quando il sottoscritto chiedeva disperatamente ne venisse esplicitato il costo, si parlava di 30-40 milioni all’anno, ora questa cifra dovrà essere almeno raddoppiata. Chi scoverà queste risorse per i prossimi anni, nella situazione in cui si trova il Paese? E senza manutenzione il Mose semplicemente si disfa, come risulta chiaro dalle lettere di dimissioni dei due ex consulenti. Chi dovrà pagare per questo annunciato disastro? Finora hanno pagato, si fa per dire, soltanto corrotti e corruttori. Ma incompetenti lautamente remunerati e compagnia bella non devono pagare? Chi ha fatto il collaudo non si è accorto della qualità dei materiali utilizzati? Chi doveva dirigere il tutto non ha avuto notizia della mancata manutenzione? Come salvare il salvabile?
Un’unica via: trovare i soldi necessari per fare tutto quello che Ramundo e Paolucci direttamente e indirettamente richiedono e affidare a loro o a gente seria come loro, che non deve obbedire a nient’altro che alla propria coscienza, il lavoro da fare e la gestione dell’opera.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
La crisi di sistema
IL FALLIMENTODEGLI UOMINI NUOVI
DI GUIDO CRAINZ (L’Espresso, 07 febbraio 2021)
Neppure il pessimismo più cupo poteva immagi-nare un’implosione così radicale, un crollo cosìprivo di dignità, una abdicazione così totale del"sistema dei partiti" (odi quel che ne resta). Eppure è difficile stupirsi: quante volte abbiamo dovuto interrogarci sulla crisi sempre più grave della politica e dei suoi attori, dei suoi contenutie del suo modo di essere? E quando abbiamo iniziato ad avvertire le derive?
Solleviamo per un attimo lo sguardo dalle misere e drammatiche dinamiche dei giorni scorsi, vi è sul lontano sfondo qualcosa di profondo: uno spartiacque d’epoca avvertito sin dagli anni 80. Iniziano ad emergere allora le trasformazioni destinate ad erodere gli scenari del Novecento: con la crisi delle ideologie e il progressivo incrinarsi dei partiti dimassa fondati sulla militanza e l’appartenenza. Con il modificarsi dei soggetti sociali: si pensi al progressivo uscir di scena della "classe operaia", fulcro della realtà e dell’immaginario della sinistra. E con radicali trasformazioni delle forme della politica, nel delinearsi dei "partiti personali" e della "democrazia del pubblico".
Con la trasformazione cioè della comunità dei cittadini in una platea di telespettatori, in rapporto diretto con il leader: si erode anche per questa via l’insediamento sociale dei partiti e si delineano progressivamente, per dirla con Ilvo Diamanti, leader senza partiti e partiti senza società. Si rivedano le intense immagini dei funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984: fotografano un punto alto e al tempo stesso l’inizio del declino del "popolo comunista". E oggi ci appaiono anche un inconsapevole e commosso addio ai grandi partiti del Novecento, già incrinati nei loro tratti ideologici e nel loro radicamento territoriale.
Pochi mesi prima il leader comunista erastato fischiato al Congresso di Verona del Psi che aveva riconfermato Craxi per acclamazione: «la più radicaleantitesi dell’elezione democratica», annotava Nor-berto Bobbio. Il primo annuncio dei "partiti perso-nali", e nelle scenografie dei congressi socialisti di allora è facile intravedere anche l’avanzare della"politica-spettacolo".
Naturalmente non è solo italiana la crisi delle forme novecentesche della politica. Per certi versi, ha osservato Sabino Cassese, l’indebolimento del partito-organizzazione può essere anche «un passo avanti perla democrazia - consente di rompere le fortificazioni erette intorno ad essa - ma produce un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente al quale bisogna porre rimedio». In quel vuoto aumentò invece nei nostri anni 80 la deformazione di partiti di governo portati a surrogare il calo dei consensi con l’uso dissennato del denaro pubblico, sempre più intrecciato a fenomeni corruttivi. E a trasformarsi così in «federazioni di correnti, di camarille, ciascunacon un boss e dei sotto-boss»: era parsa estrema, nel 1981, la denuncia di Berlinguer.
Dieci anni dopo Edmondo Berselli annotava che quel ceto politico sembrava attraversato e scosso, ormai, «da due spinte esattamente opposte: l’istinto di conservazione e una oscura volontà di autoannientamento». E in quella "immobilità parossistica" cresceva una «perfida combinazione di crisi economica conclamata e di marasma politico pericolosamente vicino al collasso del sistema».
II collasso verrà presto e travolgerà i partiti di governo ben oltre la bufera di Tangentopoli, ma non trionferà una sinistra ex comunista che era rimasta in larga parte estranea ai processi corruttivi ma non era stata capace di ripensarsi realmente. E veniva identificata così con il vecchio sistema politico.
Ebbe gioco facile, allora, il populismo di un "uomo nuovo" cresciuto neimedia, nelle culture e nelle deformazioni degli anni Ottanta. Intriso di insofferenza alle regole e di antistatalismo, di sostanziale disprezzo per le istituzioni e di illusionismo («un nuovo, straordinario miracolo italiano»). E i peggiori umori sedimentati nel decennio precedente troveranno larga rappresentanza nelle fila di Forza Italia e della Lega di Bossi (sono eloquenti le cronache parlamentari di allora).
Sembrò declinare dopo pochi mesi la stagione berlusconiana, ma poté prolungarsi poi per un ventennio grazie alla incapacità della sinistra di rifondarsi: eppure forme di "buona politica" erano pur emerse allora, dall’elezione diretta dei sindaci alle "primarie". Non trovarono vero ascolto però le istanze ad aprirsi più profondamente alla società civile: l’esigenza di una «politica restituita ai cittadini» è «un mito estremista» tuonò Massimo D’Alema, e chiuse il discorso. Riemersero così vecchi vizi e il centrosinistra vedrà progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico, le proprie rappresentanze e le proprie dinamiche interne.
Vedrà moltiplicarsi microbaronie locali, e sarà sempre più po-vero di ideali e idee. Maturò così la rivincita berlusconiana del 2001, nonostante i risultati positivi rilievo pur conseguiti dal centrosinistra. E di lì a poco la spinta al rinnovamento dei "girotondi" non trovò ascolto in un ceto politico sempre più chiuso in se stesso. Sempre più "casta", come denunciava un libro di enorme successo del 2007: e in quello stesso anno Beppe Grillo occupò la scena con il primo Vaffa.
Esplodeva in quel torno di tempo una crisi finanziaria internazionale destinata a lasciare segni profondissimi. A rendere sempre meno credibile l’illusionismo berlusconiano e a rendere ineludibili nodi irti. Le ferite della globalizzazione avrebbero imposto, ad esempio, un ripensamento profondo del welfare, già incrinato dai mutati rapporti fra ceti e generazioni, ma quel ripensamento non vi fu.
Un’altra prova fallita dalla politica, mentre l’insicurezza era alimentata dal crescere impetuoso dell’immigrazione (e dall’incapacità di dare ad essa risposte reali) e dal comparire all’orizzonte del terrorismo islamico. Affondava in quello scenario il ventennio berlusconiano, lasciando inaspriti e sperduti milioni di italiani che in quell’illusionismo avevano pur creduto. Esposti ora al disincanto e al rancore.
Ben poco sapeva parlare ad essi la retorica bersaniana dell’"usato sicuro", inevitabilmente travolta dall’antipolitica urlata di Beppe Grillo: e in Parlamento irruppero nuove, improbabili schiere di "uomini nuovi" (si rileggano anche in questo caso le cronache dì allora).
Iniziò in quello scenario la breve stagione di Matteo Renzi, e iniziò con un impegno importante: «cambiare la politica e cambiare il Pd». Mai impegno fu più disatteso (eppure era desolante lo "stato del partito" fotografato allora da Fabrizio Barca), e lo stesso appuntamento alla Leopolda diventò la caricatura di un rinnovamento programmatico.
Prendeva corpo inoltre, grazie anche ad altri attori, una "democrazia del leader" segnata non dallo strapotere del capo ma dalla sua fragilità, come ha osservato Mauro Calise: dal suo essere «esposto alla spirale delleaspettative crescenti, dei sondaggi incombenti e delle decisioni impellenti. Con un circuito di legittimazione costantemente sull’orlo di una crisi di nervi».
Crollò così anche la stagionedi Renzi, ridotto ora alla irresponsabile caricatura di se stesso: sarebbe stato (ed è) necessario affrontare radicalmente i nodi che ne avevano provocato al tempo stesso l’ascesa e la caduta.
Sarebbe stato (ed è) necessario avviare, almeno, un ripensamento radicale sulle modalità di formazione del ceto politico,e dare corpo a cantieri reali di riflessione e di proposta suigrandi temi che incombono (dall’Europa al Mezzogiorno, dall’istruzione al lavoro e al welfare). Sarebbe necessaria e urgente, insomma, una vera stagione congressuale, impegno pur preso - a parole - dal segretario attuale del Pd. A parole,appunto, come aveva fatto Matteo Renzi.
E’ morta Rossana Rossanda, ’la ragazza del secolo scorso’
La fondatrice del Manifesto aveva 96 anni, è stata tra le intellettuali più autorevoli del Paese
di Redazione (ANSA, 20 settembre 2020)
E’ stata tra le intellettuali più autorevoli del Paese, memoria storica dell’Italia del Dopoguerra, ’la ragazza del secolo scorso’, Rossana Rossanda aveva 96 anni e si è spenta nella notte nella sua casa di Roma. Giornalista, intellettuale, comunista, scrittrice, fondatrice del Manifesto. La notizia è stata data dal sito del Manifesto che ha annunciato un’edizione speciale del giornale per martedì per ricordare la giornalista.
Amica di Jean Paul Sartre, aveva vissuto a lungo a Parigi, da dove era tornata due anni fa, stabilendosi a Roma, in una casa nel quartiere Parioli. Una delle sue ultime uscite pubbliche fu l’anno scorso, a maggio, per sostenere alla Casa delle donne alcune candidate della sinistra alle elezioni Europee.
Nata a Pola nel 1924, allieva di Antonio Banfi, antifascista, ha partecipato alla Resistenza. E’ stata dirigente del Partito Comunista Italiano negli anni Cinquanta e Sessanta, fino ad essere nominata da Palmiro Togliatti responsabile della politica culturale del Pci. L’esigenza di elaborare la crisi del socialismo reale, sull’onda dei movimenti studentesco e operaio, la conduce a fondare nel 1969 il gruppo politico e la rivista ’il Manifesto, quotidiano dal ’71, insieme a Luigi Pintor, Valentino Parlato, Lucio Magri e Luciana Castellina.
Le posizioni assunte dal giornale in contrasto con la linea maggioritaria del Partito, in particolare sull’invasione sovietica della Cecoslovacchia, nel 1969 determinano la radiazione della Rossanda e di altri del gruppo dal Pci. L’unica ad aver convinto il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, a parlare in un’intervista del caso Moro. De "il manifesto", un giornale, un collettivo, dal quale si è separata con grande amarezza nel 2012: "Prendo atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione. Smetto di collaborare". Divergenze di linea politica e di approccio editoriale, incomprensione forse sanabile, il gap anagrafico: "Mi hanno sempre visto come una madre castratrice anche se io non mi sono mai sentita tale. Ma forse è una legge generazionale. I figli per crescere hanno bisogno di uccidere i padri e le madri. Ora è toccato a me".
Lucida, laica, politicamente razionale. Del Pci degli Anni 50 e Sessanta ricorda, nella sua autobiografia, pubblicata nel 2005 per Einaudi La ragazza del secolo scorso, tra storia e memoria lo straordinario contributo "al processo di democratizzazione della società italiana". (Una curiosità il libro arrivò nella cinquina dello Strega e fu in testa con Veronesi che quell’anno vince il la prima volta con Caos Calmo).
Il fallimento politico di Magri era anche quello di Rossanda, che lei avvertiva. Dopo essere stata direttrice del ’Manifesto’, continua la riflessione e il dialogo sui movimenti operai e femministi, e si dedica soprattutto alla letteratura e al giornalismo attraverso varie pubblicazioni tra cui, nel 1979, Le altre. Conversazioni sulle parole della politica (Feltrinelli); nel 1981 Un viaggio inutile (Einaudi); nel 1987 Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986 (Feltrinelli); nel 1996 La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita’. Nel 2005 esce per Einaudi La ragazza del secolo scorso, autobiografia tra storia e memoria.
POLITICA
Berlusconi: "Voglio rendere onore alla memoria di Rossana Rossanda"
Il leader di Forza Italia: "Ne apprezzai cultura e spirito critico".
di HuffPost (20/09/2020)
“Voglio rendere onore alla memoria di Rossana Rossanda. Le sue convinzioni politiche erano ovviamente lontane dalle mie, ma questo non mi ha impedito di apprezzarne, anche incontrandola personalmente, la cultura e lo spirito critico”. Lo afferma Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia.
La bustina di minerva
Il Cavaliere, il mugnaio, l’Italia
"C’è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia. Ora possiamo dire, con orgoglio, che c’è un giudice anche a Roma di Umberto Eco * ’Ci deve pur essere un giudice a Berlino’ è espressione che, anche quando se ne ignora l’origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l’aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all’inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Non potendo girare per tutte le città tedesche a cercare soddisfazione, Berlusconi se n’era tornato a casa coi pifferi di Hamelin nel sacco, ma aveva continuato a ignorare che, senza fare dispendiosi viaggi all’estero, si sarebbero potuti trovare giudici corretti (e non corruttibili) anche a Roma.
Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l’aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo.
Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino.
Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all’inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell’imparzialità della giustizia.
Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un’area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Ma, lavorando solo su elementi di diritto e giurisprudenza, indipendentemente dai loro desideri o passioni, e ignorando ogni pressione politica, i giudici hanno scelto di attenersi alla legge, riconoscendo che la sentenza della corte d’appello di Milano non poteva essere annullata (e i particolari sulla durata dell’interdizione erano solo un contentino). Il mugnaio avrebbe detto "Ci sono dunque ancora dei giudici a Berlino". E che ci siano anche a Roma dovrebbe accenderci d’orgoglio. Eppure la cosa ci sconvolge a tal punto che parliamo di tutto meno che di questo. Tra i tanti sciacallaggi politici non riusciamo ad accettare l’idea che al mondo ci siano ancora delle persone per bene.
* Fonte: L’Espresso, 12 agosto 2013
Sul "caso del mugnaio Arnold",, si cfr. anche: Alessandro Barbero, Federico il Grande, Sellerio, Palermo 2007, pp. 119-121.
FLS
Il fascismo non ha data di scadenza, chi non lo vede è come don Ferrante
di Paolo Favilli (il manifesto, 11.05.2019)
Nell’Italia di oggi sono quasi sempre i comici, specialmente quelli dotati della finezza analitica di Corrado Guzzanti, ad interpretare i segni che danno concretezza alle cose. La concretezza della vicenda legata alla presenza di un editore fascistissimo (fortunatamente poi scongiurata) al Salone del libro di Torino.
La concretezza dell’orribile, violenta azione squadristica in una borgata romana condotta in prima persona da Casa Pound, l’associazione dei fascisti del terzo millennio di cui è dirigente il suddetto fascistissimo editore. La concretezza di quello che Marco Revelli ha chiamato «il vero scandalo», uno scandalo «enormemente grave e intollerabile», cioè la consapevole, voluta scelta di un ministro che ha giurato fedeltà alla Costituzione antifascista, di far pubblicare un suo scritto proprio da quel fascistissimo.
Segni, che peraltro vanno tutti con chiarezza in una direzione: quella del consolidamento di un intreccio composto da una molteplicità di lineamenti che in vari modi legano il pervasivo neofascismo di oggi al «fascismo storico».
Uno dei filoni caratterizzanti questo intreccio, consiste nel negare le possibilità di un’analogia tra il fascismo storico ed elementi caratterizzanti il momento attuale definiti tramite il termine «fascismo». Filone interessato, soprattutto, alla banalizzazione di tali fenomeni. E la banalizzazione è un modo particolarmente efficace per immetterci in una «notte in cui tutte le vacche sono nere», dove le parole perdono il senso profondo del loro significato, nella storia e soprattutto nella memoria.
La storia del fascismo nei suoi complessi rapporti con la società italiana, quella risultata sconfitta il 25 aprile, è storia finita? «Sono cose di altri tempi», ripetono in coro pressoché tutte le sfumature della destra, sia le «moderate», sia le «estreme». Se ne comprendono perfettamente le ragioni, ma non possiamo consolarci pensando che si tratta semplicemente di volgari forme di propaganda, anche se lo sono.
Persino autorevoli analisi storiche possono portare a tali conclusioni. Analisi che, giustamente, ci mettono in guardia dall’usare il termine «fascismo» come una sorta di passepartout semantico, ma che concentrate sulla irrepetibilità del «fascismo storico», limitato rigorosamente al ventennio, finiscono per immiserire quello che può essere usato fecondamente come concetto interpretativo che va al là del tempo del regime. Ci sono concetti che «non solo sono indispensabili per pensare l’esperienza storica, ma che addirittura la oltrepassano, sopravvivono ad essa e possono essere utilizzati per comprendere nuove realtà» (E. Traverso, Le metamorfosi delle destre radicali nel XXI secolo, 2019, p. 9). Particolarmente in un caso come quello dell’Italia, là dove il fascismo è stato inventato ed ha preso la sua forma primigenia.
Di che cosa siamo realmente contemporanei? Di che cosa è realmente intessuto l’adesso?
La comprensione storica dell’adesso acquista spessore solo se l’adesso non è semplicemente il punto d’arrivo di un continuum storico, bensì il momento essenziale di una correlazione tra uno, o più momenti del passato, che possono mostrarsi particolarmente significativi per dare senso al presente.
Da più di vent’anni, cioè dal primo governo Berlusconi, nel quale gli eredi conclamati del fascismo storico erano parte integrante ed essenziale, il richiamo senza infingimenti al fascismo è diventato aspetto costitutivo di una vasta alleanza. Aspetto costitutivo, quindi, di una fase della storia d’Italia.
Un’ampia e rigorosa letteratura storica, in particolare straniera, ha ricostruito un quadro impressionante delle forme in cui lineamenti di lungo periodo di tali richiami sono diventati, in Italia, del tutto normali nell’ambito di quell’alleanza. Una normalizzazione che ha raggiunto, tramite personaggi ai vertici del governo, anche centralità istituzionale.
L’attuale salvinismo non è semplicemente il frutto di questo contesto, ma di un percorso che questo contesto ha contribuito a creare. Ed il partito di Salvini ne è stato una delle principali forze costituenti in tutte le esperienze di governo, dagli esecutivi Berlusconi, al ruolo chiave esercitato nella direzione di importanti regioni del Nord. Ecco perché, pur con tutte le opportune distinzioni, dobbiamo interrogarci seriamente, con reale preoccupazione, delle caratteristiche di queste «forme». Non possiamo dire che oggi il «fascismo», non esiste visto che non sono presenti aspetti che hanno caratterizzato il «fascismo regime».
Com’è ben noto, il Manzoni scrive che Don Ferrante sosteneva, «con ragionamenti, ai quali nessun potrà dire almeno che mancasse la concatenazione», che la peste non esisteva. Mancavano, infatti «sostanze ed accidenti»; «non è acqua: perché bagnerebbe (...). Non è ignea: perché brucerebbe». E, «su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle».
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo (Il Fatto, 25.02.2018)
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. -Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza.
Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa.
Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci.
Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool).
Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito.
Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto.
Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire.
Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
“Il fascismo è eterno: ecco come lo si può riconoscere”
Non pensiero ma azione
di Umberto Eco (Il Fatto, 11.01.2018)
Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. [...] Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. che non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
1. [...] Il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. [...] tollerare le contraddizioni. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volte per tutte [...] È sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatore tradizionalisti. [...]
2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. [...] Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). [...] L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.
3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. [...] Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. [...]
4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.
5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. [...] è dunque razzista per definizione.
6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.
7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del “nazionalismo”. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. [...]
8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. [...]
9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico[...].
10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. [...]
L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!! NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’"
UNA DOMANDA ALL’ITALIA: MA COME AVETE FATTO A RIDURVI COSI’?! UN "BORDELLO STATE": UN PAESE BORDELLO. Una nota di Maurizio Viroli (dagli Usa) - e una risposta (agli americani, dall’Italia)
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Federico La Sala
Il populismo in cerca di un vocabolario
di Michele Ainis (la Repubblica, 12.12.2017)
Il populismo è fin troppo popolare. La parola - se non anche la cosa - rimbalza nei discorsi dei politici, tracima sui media e nel web, ci casca addosso. Già, ma che diavolo significa? Le parole, a usarle troppo spesso, subiscono una sorta d’azzeramento semantico, come dicono i linguisti: diventano suoni, non concetti. È successo alla parola «democrazia» (Sartori ne contò decine di definizioni). Sta succedendo al populismo, tanto che ormai viene squadernato come un calendario: populismi di destra o di sinistra, di lotta o di governo, nuovi o stagionati.
Ecco, i vecchi populismi. Quelli, almeno, già li conosciamo: narodniki russi, People’s Party negli Usa, peronismo sudamericano. Ma è una conoscenza teorica, libresca, non avendoli mai sperimentati di persona. E d’altronde pure i libri mentono, talvolta. Così, Mény e Surel ( Populismo e democrazia, 2000) scrivono che un elemento d’identità del populismo è l’avversione verso tutti i poteri neutri, dalla magistratura alle autorità di garanzia; ma allora dovremmo definire populista anche Togliatti, che in Assemblea costituente s’oppose strenuamente all’istituzione della Corte costituzionale.
Sta di fatto che questo fenomeno, oggi come ieri, non si lascia inquadrare in precise gabbie concettuali. Ha tratti mutevoli, cangianti. Tuttavia qualcosa nel populismo si ripete, impermeabile alle stagioni della storia. In primo luogo un elemento nazionalista (oggi diremmo «sovranista»). Poi la critica all’establishment, alle classi dirigenti, sempre bollate come parassitarie e inette. Inoltre una concezione primitiva della democrazia, senza filtri, senza mediazioni, senza le lungaggini delle procedure parlamentari. E infine la presunzione di rappresentare il “vero” popolo: «I am your voice», proclamava Trump durante la sua campagna elettorale. Un popolo omogeneo, indistinto, compatto nell’avversione all’altro da sé, dunque in primo luogo nell’avversione agli altri popoli.
Tutto l’opposto della concezione pluralistica della società, che è il presupposto delle democrazie. Però in questo, almeno qui in Italia, c’è un deposito culturale, c’è un’idea organicistica della società che a suo tempo allevò il fascismo. A differenza del mondo anglosassone: loro dicono «people», al plurale, per designarsi come comunità di singoli individui; noi diciamo «popolo», al singolare, e in tale sostantivo i singoli annegano in una totalità indifferenziata, in un organismo omogeneo dove conta assai poco l’apporto di ciascuno.
Probabilmente nessuno di questi elementi è sufficiente, di per sé, a catalogare come populista un determinato messaggio politico: devono ricorrere tutti insieme, è la loro somma che contraddistingue il populismo. E il nuovo populismo presenta almeno due caratteri innovativi rispetto alle esperienze precedenti. Anzitutto si è affermato anche un populismo di sinistra (che reclama protezionismo e servizi pubblici) accanto ai populismi di destra (che s’oppongono al multiculturalismo). In secondo luogo vi si coglie un elemento passatista, l’idea che le lancette dell’orologio possano girare al contrario, per sfuggire ai formidabili problemi della modernità. Sono però nuove le cause che spiegano il successo attuale delle parole d’ordine populiste. Possiamo indicarne almeno un paio.
Primo: la globalizzazione, con le sue diseguaglianze. Nel 1820, in base al reddito pro capite, fra il Nord e il Sud del mondo c’era uno scarto di 3 a 1; invece nel 2011 lo Stato più ricco del pianeta, il Qatar, vantava un reddito pro capite 428 volte maggiore rispetto allo Stato più povero, lo Zimbabwe. Questa faglia sotterranea si riproduce tale e quale in ogni Stato, in ogni regione, in ogni città. E l’Italia non fa certo eccezione - anzi, esprime la società più diseguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. Da qui la rabbia verso tutte le strutture sociali, dall’economia alle istituzioni.
Secondo: l’accelerazione tecnologica, che spinge folle di lavoratori fuori dal mercato del lavoro, perché sostituiti dalle macchine o perché scavalcati da nuove abilità. Sicché reagiscono con un senso d’angoscia, che reclama scorciatoie, soluzioni semplici a problemi complessi. Ma la democrazia è una creatura complicata, e a sua volta la semplificazione può ben risolversi in una trappola autoritaria.
Sta di fatto che la comunicazione politica viene dominata da messaggi rozzi, semplificati, e in conclusione demagogici; una categoria (la persuasione demagogica) messa a fuoco fin dai tempi di Aristotele. Anche se, più che Aristotele viene in mente Umberto Eco, con la sua Fenomenologia di Mike Bongiorno. Che «convince il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo». Sarà per questo che i nostri leader sono diventati populisti, senza sforzi, forse senza neppure averne l’intenzione. È un’inclinazione naturale, mettiamola così.
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ... *
Giorello: il sapere ha un’anima ribelle
Nel libro intervista con Pino Donghi il filosofo elogia le rotture traumatiche che smuovono il mondo. E la lezione di Jünger: la libertà più importante è quella interiore
di ANTONIO CARIOTI *
Se deve indicare parole capaci di esprimere al meglio L’etica del ribelle, titolo del suo libro intervista a cura di Pino Donghi, edito da Laterza, Giulio Giorello non cita Ernesto Che Guevara, ma neppure i suoi amati filosofi Giordano Bruno e Baruch Spinoza. Le scelte scontate non gli appartengono. Ricorre invece a un autore spiritualista e aristocratico, eroe di guerra tedesco caro alla destra: Ernst Jünger. Dal suo Trattato del ribelle ricava il concetto che la resistenza al dispotismo nasce dalla libertà interiore di chi assegna «più valore al modo di essere» che «alla pura sopravvivenza». Certo, è una visione elitaria, perché «una grande maggioranza non vuole la libertà, anzi ne ha paura». Proprio per questo è necessario creare un contesto istituzionale nel quale andare contro i detentori del potere, politico, economico e culturale, non comporti rischi troppo gravi: solo così si promuove l’innovazione che fa avanzare la conoscenza.
Non stupisce quindi che Giorello indichi nel mondo anglosassone e protestante (apprezza anche Martin Lutero) l’ambiente culturale con cui si sente in maggiore sintonia. E proponga considerazioni piuttosto controcorrente in questi tempi di rinnovato furore antiborghese. Ricorda per esempio che «soltanto col sorgere del capitalismo e con lo sviluppo delle istituzioni scientifiche» l’autonomia della ricerca è riuscita a imporsi e agli studiosi, dopo l’epoca in cui personalità geniali come Galileo Galilei finivano sotto processo, è stata concessa «la libertà di esplorare le ipotesi più bizzarre, persino implausibili dal punto di vista del senso comune e delle loro applicazioni immediate».
In effetti traspare a più riprese nel discorso di Giorello un’evidente analogia tra il progredire del sapere, che introduce rotture traumatiche «nella costellazione delle credenze stabilite» costringendoci a «buttarle a mare», come scriveva Carlo Emilio Gadda, e la «distruzione creatrice», per usare un’espressione pregnante dell’economista austriaco Joseph Schumpeter, generata dal mercato nel campo della produzione di beni e servizi. In entrambi i campi vince chi innova: «Le eccezioni non confermano la regola, diventano una nuova regola». Andrebbe forse riconosciuto che la vera rivoluzione permanente (tutt’altro che morbida e indolore, anzi spesso spietata nel mutare la faccia del mondo) è quella derivante dall’intreccio tra ricerca scientifica, applicazioni tecnologiche e libera intrapresa economica, una vera «macchina da guerra» di fronte alla quale gli strumenti della politica e le teorie filosofiche solitamente arrancano.
Giorello di tutto questo si mostra ben consapevole, ammaestrato dalla consuetudine con il pensiero di autori come Karl Popper, Thomas Kuhn, Paul Feyerabend, ma anche dagli insegnamenti di un marxista decisamente eretico come il suo maestro Ludovico Geymonat. Sa che anche le rivoluzioni tecnologiche e produttive «sono violente, almeno in senso sofisticato», perché cancellano certezze, abitudini, posti di lavoro. Ma ribadisce la sua profonda estraneità all’impostazione dogmatica storicamente maggioritaria nella sinistra italiana (e ancora nient’affatto estinta), che pretendeva di pianificare lo sviluppo scientifico in base a non meglio identificate «istanze più progressive», destinate inevitabilmente a divenire, in un auspicato sistema collettivista, le priorità fissate dal potere della burocrazia. E resta insensibile anche alle sirene del cattolicesimo sociale, divenute più seducenti, per il pensiero di stampo progressista, con l’ascesa di Papa Francesco al soglio pontificio.
Quando Giovanni Paolo II parlava di «verità dell’essere», detenuta dalla Chiesa, e affermava la superiorità della «legge di natura» su quella umana non faceva altro che ribadire una vocazione autoritaria non troppo dissimile da quella che si manifesta in altre forme (per ragioni storiche oggi di gran lunga più violente e deleterie) d’integralismo religioso. E Giorello lo sottolinea con forza, pur non escludendo in linea di principio che Papa Bergoglio sappia «assumere non solo toni diversi, ma atteggiamenti sostanzialmente differenti a livello di prassi».
Del resto tra coloro con cui il filosofo della scienza milanese va più d’accordo c’è un suo collega cattolico come Dario Antiseri, che si è sempre adoperato per coniugare la fede nel Vangelo con la difesa dei diritti individuali. E tra i ribelli che Giorello sente idealmente più vicini troviamo, accanto a «figure indimenticabili come Pancho Villa ed Emiliano Zapata», protagonisti della rivoluzione messicana, i repubblicani irlandesi in lotta contro il dominio della corona britannica. Insorti a più riprese in nome della libertà politica, non certo di un credo religioso, ma nella quasi totalità (sia pure con importanti eccezioni) ferventi cattolici. Non importa tanto quale Dio si prega, ma per quale causa ci si batte: un altro principio ben presente in tutto il dipanarsi del libro di Giorello.
* Corriere della Sera, 27 luglio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
CINEMA E STORIA. LO "STATO" SONNAMBOLICO DELL’ITALIA E LA CULTURA CHE SERVE PER UN CAMBIO DI SCENA.... E DI REGIA!!!
La corazzata Potëmkin, la rivolta e i «necrotweet» su Fantozzi
A cura di Wu Ming 1 *
Sera del 26/06/17, Piazza Maggiore, Bologna. Migliaia di persone - non meno di quattromila - applaudono in piedi La corazzata Potëmkin di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, film breve e dritto al punto, avvincente, popolare, bellissimo. Film girato novantadue anni fa.
La moltitudine ha appena seguito col cuore in gola la storia di un celebre ammutinamento avvenuto durante la rivoluzione russa del 1905, della solidarietà di un’intera città (Odessa) agli ammutinati, e della violentissima repressione che la popolazione subisce per mano dell’esercito zarista.
L’orchestra filarmonica del Teatro comunale di Bologna ha appena eseguito la partitura composta per il film da Edmund Meisel nel 1927 - una forza che staccava da terra sedie e culi - e ora si gode la lunga ovazione.
È stata la serata più intensa di quest’edizione, la trentunesima, del festival Il cinema ritrovato. Io ho portato qui mia figlia preadolescente, che si è emozionata, si è commossa, si è stretta a me durante le scene più violente, si è entusiasmata nel finale.
«FRATELLI!»
«Fratelli» è la parola chiave del film, appare all’inizio, scatena l’ammutinamento e annuncia il grande atto di solidarietà di classe nel finale.
La corazzata Potëmkin fu censurato in molti paesi per timore che scatenasse rivolte popolari e spingesse i soldati all’insubordinazione. Anche in URSS, al principio, non fu proiettato nei cinematografi ma soltanto nei circoli operai. Il poeta Majakóvskij minacciò fisicamente alcuni burocrati perché avesse una regolare distribuzione.
E il film si rivelò presto un grande successo.
Oggi è considerato una delle più grandi opere cinematografiche del Novecento, viene riproiettato di continuo in tutto il mondo, nel 2004-2005 lo hanno sonorizzato i Pet Shop Boys.
E in Italia?
Qui da noi, come ha scritto qualcuno, il film è stato «segnato da un destino davvero imprevedibile, che lo ha trasformato in qualcosa di diverso da quel che è.» Ma procediamo con ordine.
La corazzata Potëmkin è stato una grande sorpresa per la maggior parte dei presenti in piazza. Sui lati c’era chi all’inizio ridacchiava, qualcuno che mormorava la frase «cagata pazzesca» (sentito con le mie orecchie e più volte) e pensava di fermarsi pochi minuti, farsi un sogghigno e andare via, e invece è rimasto lì in piedi per oltre un’ora, magnetizzato, e magari ha pianto, di certo era tra chi ha partecipato alla lunghissima standing ovation, e magari era tra i volti fotografati da Lorenzo Burlando durante la proiezione.
Molti altri erano aficionados del festival o comunque si sono fidati della Cineteca, unica istituzione pubblica di Bologna non disprezzata dai più, anzi, oltremodo rispettata.
La Cineteca, appunto. Nei giorni precedenti, ha voluto fare una piccola e divertente campagna di “debunking”, con video e altri mezzi. Una troupe ha intervistato gente per le vie del centro, e molti erano convinti che il film durasse tre o quattro ore, se non di più. In realtà dura 70 minuti.
Bisogna sfondare il muro del pregiudizio. Non è vero che questo e altri film d’antan sono film per pochi, non è vero che «la gente non capisce». Se gli dài l’occasione di vederli, capisce eccome.
La differenza rispetto ad altri film d’antan è che La corazzata Potëmkin molti credono di sapere com’è anche senza averlo visto. Lo associano a qualcosa che credono di conoscere - cioè l’intento di Luciano Salce e Paolo Villaggio nella celeberrima scena de Il secondo tragico Fantozzi (1976) - e quell’associazione ha tenuto a distanza il film. La corazzata Potëmkin è divenuta, a torto marcio, emblema di lunghezza e pesantezza.
[Intermezzo. Alcuni «necrotweet» seguiti alla morte di Villaggio:
«Ci lascia l’unico che ha detto la verità sulla Corazzata Potemkin»;
«La corazzata Potëmkin è veramente una cagata pazzesca. Aveva ragione anche in quel caso»;
e fallo sapere anche lassù che la corazzata potemkin è una cagata pazzesca»;
«Oggi più che mai la corazzata potemkin è una cagata pazzesca!!!»
E altre centinaia di commenti così.]
Dice: - Villaggio è riuscito in quello che Dalí e Warhol avevano fallito con la Gioconda: non riuscire più a guardarla senza pensare al loro sberleffo.
Rispondo: - Non proprio. Qui è come se si sbeffeggiasse preventivamente la Gioconda senza averla mai vista.
Mi piace pensare che almeno quattromila persone, la sera del 26 giugno, vedendo il film, abbiano capito il vero significato della scena della rivolta al cineforum.
Sì, perché solo vedendo La corazzata Potëmkin si capisce che il bersaglio di Salce e Villaggio non erano banalmente le cose «pesanti» e «difficili», non erano gli «intellettuali», ma il potere - rappresentato dalla Megaditta che tutto controlla - che ingloba e svuota la cultura, anche la cultura della rivolta.
Qui è necessaria un’avvertenza: qualunque cosa abbia dichiarato nei decenni successivi (e ha detto ogni cosa e il suo contrario, anche su La corazzata Potemkin), ricordiamo sempre che all’epoca dei primi due Fantozzi Villaggio era all’estrema sinistra. Ancora undici anni dopo si candidò alle elezioni politiche con Democrazia Proletaria.
A forza di dire che la famosa scena prende in giro la cultura dei cineforum di sinistra, i tic degli «intellettuali di sinistra» eccetera, ci si è dimenticati che quello rappresentato nel film non è un cineforum di sinistra: è il cineforum della Megaditta, rivolto non a compagni ma a colletti bianchi “apolitici”. Guidobaldo Maria Riccardelli non è un compagno né un intellettuale di sinistra: è un uomo dell’azienda, del capitale.
L’unico marxista che appare nel mondo di Fantozzi è Folagra, che guardacaso non partecipa al cineforum aziendale ed è relegato in un sottoscala.
Folagra.
[Chissà quanti, oggi, capiscono che Folagra è l’unico personaggio positivo della saga. Proprio nelle intenzioni, non «ex post». È l’unico che dice a Fantozzi qualcosa di vero sulla sua condizione.
Tuco: - Oggi (quasi) tutti considerano un personaggio positivo Calboni, e vorrebbero essere come lui.
WM: - In fondo berlusconismo e renzismo sono minime varianti ideologiche di questo «voler essere Calboni».
IAmOst: - È il collega d’ufficio che nessuno vorrebbe avere, ma che tutti vorrebbero essere. Forse il più “italiano” di tutti.]
La corazzata Potëmkin - nel film di Salce parodiato in «Kotjomkin» - narra una rivolta, ma la rivolta è addomesticata, disinnescata, la cornice del cineforum aziendale e la modalità di fruizione la sviliscono, e la visione stessa è sminuzzata, non c’è più l’insieme, solo dettagli: «L’occhio della madre... La carrozzella...» E così sono gli impiegati a rivoltarsi, e poiché Salce e Villaggio sanno il fatto loro, la rivolta contro il film ripete quella nel film.
L’episodio del cineforum è un sottile remake del film di Ėjzenštejn, un’allegoria “a chiave” che ne ripercorre tutti e cinque gli atti:
il cineforum è la corazzata;
Fantozzi è il marinario Vakulenčuk che per primo grida la verità su quel che sta accadendo;
gli spettatori sono i marinai insorti;
l’odioso Riccardelli è gli ufficiali spodestati;
la sala occupata è Odessa;
la polizia che «s’incazza davvero» ha il ruolo dei cosacchi che reprimono.
Il finale, però, è molto diverso: gli insorti non hanno scampo e sono condannati a mettere in scena e subire ad nauseam la repressione zarista/aziendale.
Il fatto che in quest’allegoria il ruolo della carne marcia imposta ai marinai ce l’abbia - in una vertiginosa mise en abyme! - il film dove si narra la rivolta che gli impiegati ripetono rende l’intero episodio complessissimo.
Siamo di fronte a una parodia colta e, al fondo, per nulla anti-intellettuale.
Chi non ha mai visto il film di Ėjzenštejn non può rendersene conto.
Molti spettatori del 1976 lo avevano visto.
L’episodio, per il pubblico di allora, aveva una carica critica ad alto voltaggio, che però col tempo si è esaurita. Non poteva che esaurirsi: il contesto che rendeva l’episodio comprensibile in tutti i suoi aspetti e livelli - l’Italia degli anni Settanta, dei movimenti radicali, delle grandi lotte operaie -, quel contesto non c’è più.
E cosa rimane di quella critica, oggi, nell’interpretazione corrente di quella scena?
Pressoché nulla.
La scena, tolta dal suo contesto, rivista e ri-rivista da sola come frammento, citata e stracitata come semplice gag, col tempo ha cambiato significato: oggi è evocata per rigettare la cultura stessa e tutto ciò che è «difficile», in nome del parla-come-magni (detto quasi sempre da gente che mangia malissimo) e del solito «E fattela ‘na risata!»
Come abbiamo scritto in tempi non sospetti:
L’eterna ripetizione della gag ha diffuso l’idea che La corazzata Potëmkin duri molte ore e altri miti che il film manda in frantumi, se solo si supera il pregiudizio e lo si guarda. Ma il pregiudizio c’è, inutile negarlo. Un danno culturale c’è stato. Sì, danno culturale. L’arma della critica è stata girata e puntata contro la critica stessa, allo stesso modo in cui Riccardelli, gerarchetto della Megaditta, aveva girato e puntato il cinema di Ėjzenštejn contro i suoi sottoposti.
Qualcuno ci ha attaccati per aver fatto queste riflessioni sul film, la sua parodia e le diverse ricezioni di quest’ultima il giorno stesso della morte di Villaggio - VERGOGNA!!1!! - come se si trattasse tout court di un attacco al caro estinto.
Quel caro estinto, da molto tempo non lo stimavamo più. Eppure questa riflessione è l’omaggio più serio che potessimo dedicargli. Nondimeno...
«...VERGOGNA!!1!!»
Non è solo pavlovismo da «necrotweet day». C’è qualcosa di più profondo, che verrà capito meglio in futuro, da antropologi e storici delle mentalità che con ogni probabilità non sono ancora nati.
Oggi l’obbligo contro cui ribellarsi non è quello di guardare La corazzata Kotjomkin. Semmai, al contrario, è quello di non prendere mai nulla sul serio. Il «farsi una risata» come risposta a tutto, l’essere sempre ironici per non mostrarsi mai troppo coinvolti in nulla, perché coinvolti equivale a vulnerabili, e dunque ironia sempre, cinismo e disincanto, non devi dare mai l’impressione di credere fino in fondo a quel che dici. Soprattutto, fai vedere che ti stanno sul cazzo gli «intellettuali». Risulta molto più facile se adotti l’espediente di chiamare «intellettuali» tutti quelli che ti fanno sentire vulnerabile. Chiama «pippone» qualunque cosa scrivano o dicano.
In un simile clima culturale - che ci auguriamo venga spazzato via al più presto da un’immane tormenta - un film come quello di Ėjzenštejn, che mostra la fratellanza nella rivolta e a volte fa sarcasmo sul potere ma mai ironia sulla rivolta stessa, deve per forza essere considerato una «cagata pazzesca». Vige l’obbligo di conformarsi alla lettura più decontestualizzata e banale dell’episodio fantozziano.
È contro quest’obbligo che dobbiamo ribellarci, proprio come Fantozzi si ribellò al cineforum aziendale.
E gli applausi di Piazza Maggiore non saranno durati 92 minuti, ma bastano a convincerci che siamo nel giusto. «Братья!»
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* Questo post è la sintesi di una lunga discussione avvenuta su Twitter il 4 luglio 2017, e incorpora riflessioni di diverse persone. Grazie a tutte e tutti, anche a chi, senza pensarci un momento, è partito subito con gli insulti. La stolidità altrui ci spinge a fare meglio, a sforzarci di essere più chiari.
Fonte: http://www.wumingfoundation.com/giap/2017/07/potemkin/#more-29691 (ripresa parziale).
STORIA, CINEMA, E LETTERATURA ...
Fantozzi e Kafka. Vittime
di Sergio Benvenuto (DoppioZero, 15.07.2017)
Franz Kakfa era lo scrittore preferito da Paolo Villaggio. Questo non mi sorprende affatto, perché il Fantozzi che Villaggio ha fatto entrare nell’Enciclopedia dei Caratteri - assieme all’ipocrita, al misantropo, al millantatore, al soldato sbruffone, all’avaro, all’ipocondriaco, ecc. della commedia classica - è la versione burlesca, popolaresca, dei maggiori personaggi di Kafka, tutti un po’ fantozziani, anche se in chiave tragicissima. In fondo, anche Kafka spesso muove al riso, solo che la risata ci si congela in bocca, si storce in un ghigno di angoscia. La Repubblica ha riproposto Villaggio con lo slogan “Ci ha fatto piangere dal ridere”, Kafka invece ci fa ridere pur piangendo.
I protagonisti di Kafka sono quasi tutti, in effetti, delle vittime assolute. La più assoluta è forse Gregor Samsa, l’impiegato - guarda caso! - che un bel mattino si ritrova trasformato in scarafaggio, nel racconto La metamorfosi. Non solo Gregor è mutato nell’essere più abietto, ma la famiglia lo colpevolizza per questo, e suo padre finirà per punirlo con la morte. Impiegato vittima è anche Herr K. protagonista di Il processo. Si suol dire che K. subisce un processo e alla fine è condannato a morte per una accusa che non gli viene mai rivelata; ma Kafka non è così lineare. La verità è che a noi lettori l’accusa non è mai palesata, e il testo ci lascia liberi di pensare che invece K. la conosca, oppure no. Impiegato come agrimensore è il protagonista, chiamato K. anche lui, de Il Castello: qui l’eroe non riuscirà mai a entrare in contatto con i funzionari del misterioso Castello che pure lo ha chiamato; egli finirà col restare sempre nel villaggio dominato dal castello, cercando invano di essere accolto dall’invisibile datore di non-lavoro.
Kafka chiama K. molti suoi protagonisti perché era lui stesso un fantozzi. Prima di essere pensionato per la sua tubercolosi, per anni ha lavorato come impiegato all’Agenzia Assicurativa per gli Incidenti sul Lavoro del regno di Boemia. “Lavoro alimentare” da lui disprezzato, ma che pervade il mondo dei suoi eroi.
Come gli impiegati-vittime di Kafka, anche Fantozzi non è cattivo, non farebbe male a una mosca. È servile, pavido, imbranato, ma non cattivo. Ogni tanto ha dei moti alquanto velleitari di rivolta contro i suoi capi, tutti, anche se in modi diversi, sadici. Così il suo famoso urlo “La Corazzata Potëmkin è una boiata pazzesca!” quando un capoufficio cinefilo impone di vedere il film di Ėjzenštejn proprio in coincidenza con la finale del Campionato del mondo di calcio. Ma sono rivolte senza domani, puri scatti “non-costruttivi” che vengono puntualmente puniti.
Si è detto che la saga fantozziana avrebbe tacitamente contestato il primato che per la sinistra hanno avuto sempre la classe operaia e i contadini. Villaggio, focalizzando sulla miseria esistenziale degli impiegati, avrebbe reso comprensibile la famosa marcia dei 40.000 (impiegati) della FIAT a Torino che nel 1980 pose fine, in Italia, a una certa egemonia politica operaia. In realtà il povero impiegato era stato scoperto come eroe letterario già dal Romanticismo. Gli impiegati bacherozzi o condannati alla pena capitale di Kafka sono il culmine di una tradizione letteraria, e poi cinematografica, che ha prodotto grandi capolavori negli ultimi due secoli. È il filone che chiamerei La Tragedia della Mediocrità - il versante opposto della Banalità del Male di Hanna Arendt.
Tra i più eminenti di questo filone è certamente Bartleby lo scrivano, entrato ormai nel Canone occidentale. Fu pubblicato da Hermann Melville nel 1853, si noti, in forma anonima, come se l’autore avesse avuto vergogna di firmarlo. Il giovane Bartleby è assunto a Wall Street da un avvocato, un brav’uomo peraltro, e dapprima si comporta da impiegato modello, da solerte macchina umana. Poi, d’un tratto, quando il capo gli ordina qualcosa, risponderà sempre “I would prefer not to”, “avrei preferenza di no”, come tradotto da Gianni Celati. Questo sciopero cortese è però solo il primo passo verso un processo di catatonia, che porterà Bartleby a non muoversi più dall’ufficio, senza più parlare né mangiare, fino al suo ricovero nel manicomio di New York, e alla sua morte per anoressia.
All’epoca il racconto di Melville fu un flop. Fu solo nel XX secolo, ben dopo la morte di Melville, che questo è diventato uno dei testi fondamentali della letteratura. Ogni anno si pubblicano paper e libri su Bartleby, e tutte le chiavi interpretative che hanno riscosso qualche credito nell’ultimo secolo sono state usate per decriptare questa storia inquietante: marxiste, strutturaliste, anti-strutturaliste, mistico-religiose, psicoanalitiche, storiciste, decostruzioniste... Il racconto di Melville è certamente una coupure perché i personaggi tragici, prima, non erano mai grigi impiegati di concetto, ma figure sempre interessanti, affascinanti: re, regine, avventurieri, puttane, spadaccini, banditi, nobili decaduti o impazziti come Don Chisciotte...
Certo Bartleby fa il contrario di Fantozzi, non si piega, ma ha in comune con il suo discendente questo: entrambi non agiscono, sono come immobilizzati dalla loro condizione subalterna.
Fino agli anni ‘60 per indicare l’impiegato ideal-tipico non si diceva “un fantozzi” ma “un travet”. Da Ignazio Travet, protagonista della commedia piemontese "Le miserie d’Monsù Travet" del 1863, di Vittorio Bersezio, testo che idealmente inaugura l’Italia unita. Travet è un misero impiegato perseguitato dal capoufficio, disprezzato da moglie e figlia, insomma l’antesignano risorgimentale di Fantozzi.
Un’altra vetta è Death of a Salesman, “Morte di un commesso viaggiatore”, di Arthur Miller, del 1949. Il protagonista, un anziano venditore alla fine della carriera, si chiama Willy Loman, ovvero porta lo stigma del proprio essere nel nome stesso - Low-man, uomo basso, uomo mediocre. Anche qui si tratta di una storia tragica. Willy è uno che non vuole accettare l’evidenza di essere stato sempre un poveraccio, peraltro disprezzato dai due figli, che non sono riusciti in nulla. Egli si vanta di essere popolare, di conoscere un sacco di gente, insomma di essere simpatico. Anticipa la massa di persone fiere di avere migliaia di friends su Facebook e di avere centinaia di Like per internet. Anche se un suo amico gli dice più o meno: “A che pro aver cercato sempre di essere uno simpatico? Dovevi fare soldi. Quando hai soldi, diventi subito simpatico.” Loman si uccide contando sul successo di pubblico ai suoi funerali, ai quali invece saranno presenti solo pochi familiari.
Sia il tragico Morte di un commesso viaggiatore che il tragicomico serial di Fantozzi sono apprezzati anche da impiegati e venditori. Mi chiedo: come possono ridere di un loro collega? Certo Villaggio ha l’accortezza di rendere il suo eroe così ridicolo e irrealistico che tutti si diranno “Per fortuna non sarò mai come Fantozzi!”. Nessuno di noi sarà mai come Fantozzi, egli è sempre l’Altro di cui ridiamo. Eppure, il trick di Villaggio è molto sottile. C’è una parte di noi, anche se siamo intellettuali e professori, che sa di essere come Fantozzi. In fondo, tutti noi da qualche parte abbiamo un capo, a qualcosa o a qualcuno ci sottomettiamo. Fantozzi è la caricatura di una mediocrità di cui ciascuno può sospettare che sia la propria, se ci confrontiamo ai grandi in ogni campo. Mostrando in modo tragico o buffo la nostra mediocrità, l’arte ce la riscatta. Mettendola a distanza da noi in un capro espiatorio con la pancia e il berretto, ne diminuisce il peso.
Si potrebbe credere che quando Fantozzi getta l’anatema contro Ėjzenštejn, Villaggio presti al suo personaggio la propria stessa voce, ma non è vero. Villaggio era un intellettuale raffinato, un uomo politicamente a sinistra, insomma, suppongo che apprezzasse La corazzata Potëmkin. Credo che in realtà Villaggio abbia descritto l’embrione psichico di quello che diventerà poi il tipico elettore populista, in particolare di Grillo, ma anche di Bossi e Salvini. La rabbia erratica e impotente di Fantozzi contro “chi comanda” è stata poi intercettata politicamente, e l’apolitico Fantozzi ha trovato finalmente i suoi portavoce politici.
Costoro sono quelli che Peter Sloterdijk (in Ira e tempo) ha chiamato “banche dell’ira”. Il Fantozzi che è in molti di noi è un grumo di ira, che i demagoghi ben sanno gestire. Il populismo in effetti si riduce a questo: “chi sta sotto” è contro “chi sta sopra”. Non i poveri contro i ricchi, ma i Fantozzi contro i dirigenti. L’impiegato “tragico” non è assillato dalla povertà - anche se la sua condizione economica è modesta - ma dalla subalternità, e in effetti il cosiddetto populismo non se la prende con i ricchi. Se la prende con “chi sta sopra”, ovvero con i politici, e in fondo con gli intellettuali, quelli che godono nel vedere film muti. Perché l’impiegato non incontra quasi mai il ricco, non si confronta con lui: ogni giorno si confronta con chi per varie ragioni gli è superiore.
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MEDIOCRITA’, BANALITA’, E TRAGEDIA. LO "STATO" SONNAMBOLICO DELL’ITALIA...
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
ADOLF EICHMANN CHIARISCE COME E’ DIVENUTO “ADOLF EICHMANN”, MA HANNAH ARENDT TESTIMONIA CONTRO SE STESSA E BANALIZZA: “IO PENSO VERAMENTE CHE EICHMANN FOSSE UN PAGLIACCIO”!!!
BERLUSCONI E LA "MEZZA" DIAGNOSI DEL PROF. CANCRINI. Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" - "L’Italia è il mio Partito": "Forza Italia"!!!
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Federico La Sala
Addio a Predrag Matvejevic, è morto a Zagabria l’autore di "Breviario Mediterraneo"
Aveva 84 anni. E’ stato uno dei più importanti e più tradotti scrittori e opinionisti dei Balcani e d’Europa. Lo scorso anno era tra i sessanta intellettuali proposti per il Nobel per la letteratura
di ALESSANDRA LONGO (la Repubblica, 02 febbraio 2017)
Predrag Matvejevic è morto senza il riconoscimento che gli spettava, quel premio Nobel che solo un anno fa un comitato di giornalisti e scrittori, tra cui Claudio Magris, reclamava con urgenza, omaggio ad un grande, già malato, già prossimo alla fine. Si è spento ieri a Zagabria. Aveva 84 anni, e da tempo si era allontanato dal dibattito pubblico, tradito da una salute malferma.
Avrebbe meritato il Nobel solo per "Breviario Mediterraneo" , la sua opera più famosa, splendido saggio ’geopoetico’, ’diario di bordo’, ’romanzo sui luoghi’, tradotto in 20 lingue e considerato da Magris "un libro geniale, fulminante, inatteso".
Predrag, persona dolcissima e colta, un guerriero delle battaglie in difesa dei diritti dell’uomo, sempre a fianco dei dissidenti del blocco dell’Est, perseguitati dal potere, da Sacharov ad Havel, da Kundera a Sinjavskij. Lui stesso perseguitato e inviso alle autorità croate, condannato a cinque mesi di prigione nel novembre del 2005 da un tribunale di Zagabria. Aveva osato rompere l’ipocrisia di regime scrivendo, nel 2001, un saggio in cui accusava alcuni scrittori di essere stati "guerrafondai" durante le guerre jugoslave. Li chiamò "I nostri Talebani" e l’establishment gli si rivoltò contro. Processato per calunnia e diffamazione accettò la condanna come una medaglia, rinunciando all’appello: "Non voglio riconoscere l’autorità di chi ha emesso questa sentenza".
Predrag innamorato e critico della sua terra. Era nato a Mostar, allora Jugoslavia, oggi Bosnia ed Erzegovina, il padre russo di Odessa, la madre croata. Una miscela di razze e culture. Radici multiculturali, un’apertura verso il mondo che lo distingueva da altri intellettuali omologati al sistema. Matvejevic insegna slavistica alla di Roma, dal 1994 al 2007. Prima è docente a Zagabria e alla Sorbona. La Francia gli concede la Legion d’Onore, l’Italia la cittadinanza che lui esibisce con orgoglio, così come si sente lusingato quando la Commissione europea di Prodi lo inserisce nel Gruppo dei saggi per il Mediterraneo. Nel 1987 "Breviario" gli ha dato fama internazionale ma lui, corteggiato da editori e giornali, rimane sempre lo stesso, ironico fino alla dissacrazione, legatissimo ai suoi studenti, amante della buona cucina, della vita, sempre in fuga, sempre in bilico, "tra asilo ed esilio".
Un europeista convinto e lucidamente pessimista: "Ci sono troppe fratture nel Mediterraneo. Tanto a Nord quanto a Sud l’insieme del bacino si lega con difficoltà al continente e ciò genera frustrazioni e fantasmi". Frustrazioni, fantasmi, guerre, sangue e ’democrature’. Democrature è un neologismo che porta la sua firma. Democrature sono "quei regimi, formalmente democratici, in realtà oligarchici". Matvejevic conia l’espressione in riferimento ai Paesi del socialismo reale. Ma, in anni più recenti, lo scrittore, con amarezza, individua tracce di ’democratura’ anche nell’Europa liberale e socialdemocratica.
Una lunga carriera, una lunga vita, gli ultimi anni di silenzio. Lo ricoverano in un reparto psichiatrico a Zagabria, poi in una casa di riposo, chiuso in una stanza piccola. Parte la catena dei suoi molti estimatori che chiedono per lui quel Nobel che non arriverà. Nei momenti migliori già pensa ad un nuovo libro "sui popoli sommersi". Ne aveva scritto uno, bellissimo, sul pane, "Pane Nostro" (2010). "Gli uomini e le donne - osservava Matvejevic - si sono sempre messi in viaggio, e lo fanno tuttora, verso quelle terre in cui il pane si sforna in gran quantità. E dove, per eccedenza, viene buttato ogni giorno al calar della sera. Ancora oggi, come disse una volta Pjotr Kropotkin, ’la questione del pane è più importante di tutte le altre’". Grande Predrag.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO...
Bertolt Brecht, l’intellettuale nell’epoca del mercato
di Francesco Fiorentino (alfapiù, 13 gennaio 2017)
«Abbiamo appena salvato la cultura», scrive Brecht a George Grosz dopo aver preso parte al Congrès international des écrivains pour la défense de la culture, che si tenne a Parigi nel giugno del 1935. «Ci abbiamo messo 4 (quattro) giorni, e abbiamo deciso di sacrificare tutto piuttosto che far morire la cultura. In caso di necessità di sacrificare anche 10-20 milioni di persone».
È l’ideologia della cultura che chiude gli occhi davanti ai crimini, che è essa stessa criminale perché collusiva con le condizioni economiche e sociali che rendevano possibile il nazismo. Portatore e beneficiario - ma anche vittima - di questa ideologia è il tui, come Brecht chiama ironicamente «l’intellettuale dell’epoca delle merci e dei mercati, il noleggiatore dell’intelletto». Su questa figura progetta di scrivere un Romanzo dei tui, cui lavora tra il 1930 e il 1942 senza concluderlo. Ora L’orma lo propone per la prima volta in italiano, insieme ad altri scritti - racconti, trattati, appunti, schizzi - che ne hanno accompagnato la stesura.
È un libro che contiene molti libri; che usa e mischia satira, parabola filosofica, aneddoto, barzelletta, aforisma, racconto. C’è una provocatoria riabilitazione satirica di un serial killer che macella le sue vittime per mangiarne o venderne la carne; c’è un gustosissimo trattato sull’arte del leccapiedi o uno sull’arte del coito, poi il frammento di un Epos dei tui, ma ci sono anche una serie di Storie dei tui, piccoli gioielli di scrittura popolare ad alta tensione dialettica; poi diverse pagine di appunti, lacerti di quel magma già depurato da cui nasce la scrittura tersa di Brecht.
Ma soprattutto c’è il frammento del Romanzo dei tui: un tentativo di scrivere la storia della Repubblica di Weimar in forma di una grande satira sugli intellettuali ambientata in una Cima che serve a trasportare i fatti storici nella terra di uno straniamento parabolico.
La Repubblica di Weimar è rappresentata come «la grande era dei tui», che poi è l’epoca del loro grande tradimento della «rivoluzione degli operai e dei contadini». La satira di Brecht è dolorosa; è come alimentata da una rabbia divertita, da una rabbia che non si lascia piegare dal pessimismo. Ma in certi punti rivela un’origine traumatica, come quando dipinge con tratti quasi comici l’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, che è il grande choc per la sinistra tedesca, il fallimento della speranza di una rivoluzione comunista in Europa.
Un altro trauma dissimulato satiricamente è l’elezione democratica di Hitler: «Che la prima applicazione della democrazia provochi la sua abrograzione; che il popolo liberato imponga la propria sottomissione, questo è il paradosso comico del libro». Paradosso comico e lancinante.
L’origine del nazismo sta nella democrazia di Weimar, in un ordine economico e sociale fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La grande colpa dei tui è di non averlo riconosciuto e contestato; di aver preso partito per la cultura senza opporsi ai rapporti di proprietà ingiusti su cui essa si fonda. Solo un’illusione è la libertà della cultura: lo spirito può credersi libero finché le sue critiche sono innocue o magari si prestano a essere sfruttate per far profitti, per esempio dai giornali sui quali vengono formulate.
Il mercato è capace di assorbire e sfruttare anche chi lo contesta. Perché quelle contestazioni poggiano su basi sbagliate. Idealistiche. Brecht non si stanca di mettere alla berlina la collusività tra idealismo e mercificazione. Il tui è oggetto e soggetto di mercificazione: crede di esercitare la libertà di pensiero, ma in realtà vende il proprio intelletto facendosi complice di un sistema governato dalla produzione di mancanza.
Ne ha per tutti, Brecht. Anche per quelli che trattano il socialismo come merce e traggono profitto dalle loro opinioni «sulla pericolosità sociale del fatto che tutto ormai sia una merce». Sulla Scuola di Francoforte è fulminante: «Un vecchio riccone muore, soffrendo per la miseria del mondo nel testamento lascia una grossa somma per la fondazione di un istituto che studi la causa di questa miseria. La causa è ovviamente il vecchio riccone stesso».
Un altro choc è l’esilio americano: l’esperienza di una florida industria culturale in cui davvero l’intelletto è sottomesso apertamente al ritmo e all’ordine della merce: «questo paese mi manda in fumo il mio Romanzo dei tui», appunta il 18 aprile 1942 nel suo Diario di lavoro. «Qui la vendita delle opinioni non la si può svelare. Perché se ne va in giro nuda». La realtà supera la satira e la rende superflua.
Non siamo lontani dall’attuale condizione neoliberale in cui l’intellettuale è costretto sempre più a farsi imprenditore di se stesso, impegnato soprattutto a autopubblicizzarsi, a trasformarsi in marchio riconoscibile capace di garantire per i prodotti del suo lavoro, i quali però sono sempre meno richiesti. Quale satira può essere all’altezza dei tanti lamenti sulla condizione del lavoro intellettuale in quest’epoca post-salariale? In quest’epoca in cui l’intellettuale è impegnato in un marketing del sé che va fino ai limiti dell’autosfruttamento, alla disponibilità al lavoro gratuito in cambio di una promessa di visibilità da spendere su un mercato sempre più ristretto? Ogni critica è metabolizzata a priori, utilizzata anzi come alimento di un sistema in cui il controllo ideologico è ormai interiorizzato, automatizzato; e che perciò non ha più bisogno di intellettuali che forniscano giustificazioni dell’ingiustizia sociale o ammantino la violenza con una retorica della libertà.
Il romanzo dei tui suscita continuamente domande sulla possibilità di pensare la figura e la funzione dell’intellettuale al di fuori della logica della merce e dell’ideologia dell’inelluttabilità del mercato.
La risposta che sembra prospettare Brecht, insieme a Benjamin, è l’utopia di un’espansione del «sapere sociale generale» (Marx) che facesse evaporare la distinzione fra lavoro intellettuale o manuale. Svanirebbe allora la figura dell’intellettuale di professione, cioè di un individuo che mette a frutto il proprio intelletto nella competizione economica; svanirebbe per lasciar posto a un’intellettualità diffusa, anonima, non più legata a nomi, titoli, riconoscimenti. Quindi svincolata dalla doppia morsa della mercificazione e del narcisismo che sottrae all’intelletto la sua potenza critica. È un’utopia che la rivoluzione digitale sembra rendere una possibilità concreta: l’unica, forse, sulla quale potremmo e dovremmo puntare.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO...
“Il romanzo dei tui” uscito solo ora in Italia è una satira (attualissima) su chi vende idee e talento al miglior offerente
“Gli intellettuali da tre soldi smascherati da Brecht”
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 05/01/2017)
«Su larga scala la stupidità diventa invisibile», suggerisce Bertolt Brecht, e le sue parole risuonano più che mai concrete e pertinenti mentre galleggiamo negli oceani delle scemenze populiste. Quanto alla prassi del leccapiedi, che è sempre in auge, il sommo drammaturgo del Novecento tedesco la dipinge con cura irresistibile. Perché se è vero che di adulazioni è affollato
il mondo, l’arte del leccapiedismo esige allenamento e disciplina.
«Solo con l’esercizio ci si può elevare dalle bassezze della leccata corriva, e soltanto quando la perseveranza lascia il posto alla fantasia si diventa maestri», scrive. Aggiungendo che bisogna distinguere la più ovvia adulazione dal lecchinaggio artistico: il primo «è merce dozzinale e cicaleggio meccanico»; il secondo «produce espressioni originali e profondamente sentite: crea una forma».
Stiamo pescando citazioni da un libro di Brecht che piacerebbe da matti a Dario Fo: stessa satira sferzante e stessa rabbia giullaresca lanciata a sinistra del marxismo. S’intitola Il romanzo dei tui e lo ha appena pubblicato in Italia L’Orma editore. A questa raccolta di considerazioni e siparietti futuristici sull’opportunismo dei cosiddetti pensatori, Brecht lavorò dal 1931 al 1942, ben piantato nel proprio odio per tutti gli ideologi occidentali: da Hegel a Freud, da Marx a Lenin, dagli artisti partecipi dell’impresa mitica del Bauhaus fino agli accademici, ai ministri, ai rivoluzionari e ai poeti.
È una strage che non salva nessuno, proprio come le vignette schiacciasassi di Charlie Hebdo, irrispettose per principio con chiunque al di là di tendenze e colori. Collezionando ritratti, cronache mascherate e testi corrosivi in un florilegio di nomi storpiati, Brecht offre una messe di materiali acidi e inopportuni, curati nella versione italiana da Marco Federici Solari, abile nell’arricchire il “Roman” con appendici relative alla progettazione dell’opera e con un attento vocabolarietto dei termini e dei loro equivalenti.
Il bersaglio di Brecht sono le creature che non esitano, in ogni tempo e luogo, a prostituire l’ingegno, e sappiamo che il pianeta annovera una tale moltitudine di membri di questa categoria che il lettore, tuffandosi nella costellazione “tuistica”, si sente di continuo emergere sulla punta della lingua una miriade di esempi ritagliati dalla politica e dalla intellighenzia di ieri e oggi.
Nato dalla parola “intellettuale” (Brecht isola le inziali di “Tellekt-uell-in”), il “tui” è il noleggiatore dell’intelletto che ingrassa vendendo analisi e opinioni al miglior offerente. Muovendosi tra la storiografia comica e la parabola filosofica, l’epopea dei “tui” narra le sorti del Reich dal suo primo germinare fino agli apici del nazismo. La storia che dalla disfatta tedesca della prima guerra mondiale arriva all’ascesa di Hitler e all’esilio degli intellettuali passando attraverso la Repubblica di Weimar viene trasposta in “Cima” o in Cina, luogo focale corrispondente alla Germania. Grande territorio in cui tra l’altro dilaga biecamente la razza dei funzionari, dato che la burocrazia dell’impero ha inventato quel genere di “basso” intellettuale pronto ad affannarsi su astrazioni e scartoffie «sostituendo in corso d’opera il mezzo con il fine ».
Così, mentre da esule si aggira furente in una dozzina di paesi, l’autore di Mahagonny e de L’opera da tre soldi si sfoga identificando con il tema del «cattivo uso dell’intelletto » il fulcro della propria rivolta. Nemico della malafede dei cerebralisti di ogni risma, giunge a mettere alla berlina anche eventi tragici come l’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ed è talmente perfido da descrivere, con sprezzo da comunista snob, «i cappellini inguardabili » della Luxemburg.
Paradossale è il tono roboante e impavido che vibra in ogni pagina dello pseudo- romanzo, dove il Führer diventa Gogher Gogh, il ministro della propaganda Goebbels si riconosce in un certo ridicolo Gobbelo e i riflettori della prosa, teatralmente, illuminano le gesta degli agiografi, dei pretestologi e dei reggicoda. Avventurandosi nell’etica “tuista” fin dalle radici, Brecht rievoca Kant, «il grande filosofo tuistico Ka-an», ricordato per la sua definizione del matrimonio come «unione di un uomo e una donna finalizzata alla cessione reciproca degli organi genitali». Il Papa è un grottesco capopopolo catalogato come “Tashi-Lama” che attraversa la Cima marciando a braccia aperte verso l’imperatore, e “Len”, che sarebbe Lenin, è un danneggiatore tarchiato e munito di barba caprina. Nei comportamenti pubblici e privati non esistono alternative al male dei pochi che si approfittano dell’idiozia dei molti. Ogni speranza di giustizia cade nell’irraggiungibilità di auspici buoni e onesti.
Il diario non è mai un apologo sul valore e l’efficacia del raziocinio, anzi: dal Romanzo dei tui è completamente assente il Brecht articolato e finissimo di Vita di Galileo, dove la forza cieca dell’ideologia viene attaccata in nome della ragione. Piuttosto qui s’alza la voce di un individuo folle di sdegno e soffocato dalle proprie risate, o dai propri singhiozzi espressionisti, di fronte allo spettacolo mostruoso del nazismo.
Sotto apparenze ludiche, leggiamo insomma una dichiarazione di assoluto e disperato isolamento. Solo in tal senso Brecht potrebbe somigliare al personaggio di Galileo, che davanti alla sconfitta impostagli dall’Inquisizione si ritira a riflettere in solitudine, abbandonato da tutti. Specialmente dai propri ideali.
Appello degli intellettuali per salvare l’Europa: "È tempo di mobilitarsi per fermare i populisti" *
Politici, uomini d’arte e cultura creano una piattaforma per far sentire la voce dei cittadini nella Ue e prevenire le derive nazionaliste
Come la Brexit, la vittoria di Donald Trump ancora una volta ci ha colto di sorpresa. Eravamo per lo più convinti che un approccio ragionevole al dibattito politico avrebbe prevalso su un discorso populista. Le radici della Brexit e della vittoria di Trump sono in gran parte le stesse: aumento delle disuguaglianze, ascensore sociale bloccato, paura della perdita di identità moltiplicata per la paura dell’immigrazione di massa, abbandono della questione sociale, sistema educativo e culturale carente, diffidenza verso élite ossessionate per i propri interessi personali e verso istituzioni pubbliche percepite come costose e inefficaci. In entrambi i casi, le conseguenze per gli europei e per il mondo sono rilevanti.
Al rischio di disgregazione dell’Unione Europea, causato dalla Brexit, si aggiunge quello di un allontanamento progressivo tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea e della fine del mondo costruito nel dopoguerra, basato sul multilateralismo e sulla leadership benevola degli Stati Uniti. Il presidente americano eletto è stato chiaro: gli europei devono occuparsi di più della propria sicurezza, politicamente e finanziariamente. Le sue parole non fanno che accelerare una dinamica in atto sin dalla caduta del Muro di Berlino, 27 anni fa.
Questi eventi non possono che galvanizzare i populisti del Vecchio continente, in vista degli appuntamenti elettorali o degli importanti referendum che si terranno nei prossimi mesi in Austria, Italia, Paesi Bassi, Francia e Germania. Ovunque, i partiti moderati sono minacciati.
È dunque urgente agire.
Se noi europei non impariamo rapidamente la lezione che viene da questi eventi, il crollo dell’Unione e la marginalizzazione dei nostri interessi e dei nostri valori in un mondo in cui presto non rappresenteremo più del 5% della popolazione (e dove nessuno Stato europeo farà più parte del G7) diventeranno sempre più probabili.
Non avremo più i mezzi per essere ascoltati, né per garantire la sicurezza, mentre si moltiplicano le minacce alle nostre frontiere. Sarà sempre più difficile difendere i nostri interessi economici e commerciali - quelli della prima potenza esportatrice mondiale - quando la tentazione protezionista troverà sempre più consenso. La nostra idea di sviluppo sostenibile del pianeta rimarrà lettera morta. Non sarà più possibile finanziare i nostri modelli sociali fondati sulla redistribuzione, né i nostri importanti servizi pubblici.
Nessuno dei nostri Stati ha gli strumenti per trovare, da solo, soluzioni a queste sfide. Ora più che mai, l’unità europea è indispensabile. L’urgenza è quella di trovare il modo di riconciliare i cittadini con il progetto europeo e di inventare l’Europa del futuro, capace di offrire speranza per tutti. L’Europa del futuro deve avere il cittadino nel cuore, e dimostrare che serve in modo efficace gli interessi di tutti i cittadini europei, e non solo delle proprie élite.
È questa convinzione che ci porta al Movimento del 9 maggio, lanciato da cittadini e personalità da ogni provenienza, da ogni settore e da ogni sensibilità del continente, per far sì che l’Europa adotti senza indugio una tabella di marcia ambiziosa, concreta e pragmatica. La sfida è ridurre concretamente le disuguaglianze, stimolare la crescita, dare una risposta forte alla questione delle migrazioni, rafforzare la sicurezza dei cittadini, ambire a un’ulteriore democratizzazione dell’Unione e rimettere istruzione e cultura, fondamento della nostra identità democratica, al centro della Ue. Tra le nostre proposte ce ne sono alcune fortemente simboliche: la creazione di un Erasmus degli studenti medi; una politica di ricerca e sviluppo (R&S)comune nel campo della difesa; un raddoppio immediato del piano Juncker per gli investimenti; la creazione di liste transnazionali per le prossime elezioni europee.
In parte siamo stati ascoltati dalle istituzioni europee, che hanno ripreso alcune delle nostre linee guida e adottato l’idea di una tabella di marcia.
Ma oggi è necessaria più ambizione, è giunto il momento di lanciare una vera politica estera e di difesa europea. È tempo che l’Unione diventi una grande potenza politica, democratica, culturale, sociale, economica e ambientale. Il vertice europeo che si terrà a Roma il 25 marzo prossimo, in occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, dovrà rappresentare l’opportunità di un forte rilancio dell’Ue. Dovrà anche essere l’occasione per rafforzare la democrazia in Europa, sviluppando di metodi di democrazia deliberativa che possano permettere in modo efficace ai cittadini di contribuire alla definizione di priorità per il progetto europeo, e inventare i nuovi diritti e le nuove libertà del XXI secolo.
Senza questo nuovo slancio politico rivolto ai nostri cittadini i demoni populisti che ora ci stanno indebolendo, ci porteranno alla sconfitta. La Storia varia nelle sue forme, ma il risultato sarebbe comunque disastroso. E la possibilità che l’Ue non festeggi neppure il suo 70° anniversario è concreta.
Questa riscossa sarà possibile solo se le decine di milioni di cittadini che condividono la nostra ambizione si mobiliteranno per dare un futuro al nostro continente. È per questo che nel prossimo mese di gennaio creeremo una Piattaforma Civica Federale, ed è per questo che abbiamo lanciato in tutta Europa degli accordi civici per diffondere collettivamente la nostra voce. Dopo Parigi, lo scorso 15 ottobre, le prossime tappe saranno a Bratislava, Berlino, Roma e Bruxelles. Invitiamo tutti coloro che vogliono trasformare l’Europa a unirsi a noi.
All’appello aderiscono anche: László Andor; Lionel Baier ; Mercedes Bresso; Elmar Brok; Philippe de Buck; Georges Dassis; Paul Dujardin; Cynthia Fleury; Markus Gabriel; Danuta Huebner; Cristiano Leone; Jo Leinen; Sofi Oksanen; Maria Joao Rodrigues; Petre Roman; Nicolas Schmit; Gesine Schwan; Kirsten van den Hul; René Van Der Linden; Philippe van Parijs; Luca Visentini; Vaira Vike- Freiberga; Cédric Villani; Sasha Waltz; Mars di Bartolomeo
* la Repubblica, 18 novembre 2016
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Caro Cacciari, perché su Renzi sbagli tutto
Riforme. Il neo-centralismo della riforma costituzionale e il dispositivo autoritario contenuto nell’Italicum non sono una cattiveria di Renzi. È un passaggio obbligato, nel contesto del capitalismo globale, di una strategia ineludibile per il ceto politico. Se non hai il consenso hai bisogno del potere
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 31.05.2016)
L’intervista che Massimo Cacciari ha rilasciato a Ezio Mauro (Repubblica, 27.5.2016) per motivare il suo SI al referendum confermativo della riforma del Senato, offre al lettore, io credo, un buon campionario di motivi per indurlo al comportamento contrario a quello perorato dal filosofo: cioé a votare decisamente NO.
Nel merito Cacciari arriva a definire l’oggetto del referendum «una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino». Poco prima, incalzato da Mauro, aveva ricordato che da decenni era nelle sue aspirazioni e nella parte più illuminata della sinistra, la creazione di «un autentico Senato delle Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d’Italia, come oggi». Come dissentire?
Poco prima, incalzato da Mauro, aveva ricordato che da decenni era nelle sue aspirazioni e nella parte più illuminata della sinistra, la creazione di «un autentico Senato delle Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d’Italia, come oggi». E tuttavia egli dichiara che la riforma è da approvare comunque, perché finalmente si arriverebbe a decidere un cambiamento. Quel che importa è che si faccia qualcosa.
Un ragionamento - mi perdonerà l’amico Cacciari - che non si discosta molto da quello del padre della fanciulla che ha visto sfumare tante occasioni di matrimonio e alla fine si acconcia a farla sposare allo sciancato del paese. Perché almeno non resti zitella. Ma non son queste le pecche peggiori del suo argomentare.
Egli fa una ricostruzione storica troppo sommaria e indistinta della sinistra in lotta per le riforme istituzionali. Finisce con lo stabilire un nesso di continuità, diciamo tra la fondazione del Centro per la riforma dello Stato, voluta dal Pci nel 1972, con l’efficace direzione di Ingrao per tutti gli anni ’80, e il «brutto topolino» dei nostri giorni. Finisce col dare ragione a tanti giovanotti e fanciulle del Pd, che negli ultimi tempi sono andati in forze in Tv («la riforma che l’Italia aspettava da 30 anni»). Come dimenticare, infatti le grandi manifestazioni popolari, nelle piazze di tutto il Paese, per invocare l’abolizione del Senato? Ma questo è il folklore... La sostanza storica è che Cacciari mette insieme cose diverse.
Intanto ricordiamo che l’esigenza di una riforma dello Stato, nata dentro alcuni settori del Pci, non era ispirata solo da ragioni di efficienza della macchina decisionale, ma soprattutto dalla volontà di un allargamento della democrazia. Per la verità, ricordando le battaglie federaliste degli ultimi decenni, Cacciari non dimentica le ragioni di una maggiore vicinanza delle istituzioni ai cittadini, ma proprio questo rende ancora più paradossale e insostenibile la sua posizione. A essere tradito oggi è esattamente l’ordito federalista da lui auspicato, a favore di un neocentralismo che sta sottraendo materie importanti alle regioni, soprattutto per quanto riguarda il governo dei propri territori.
Il nuovo Senato toglierà ancor più potere alle aree periferiche del Paese - com’è stato persuasivamente argomentato da tanti costituzionalisti di rango - non solo perché non tutti i territori saranno parimenti rappresentati. Ma anche per una ragione più grave e per certi versi drammatica. Ma si ha idea delle lotte che esploderanno all’interno dei consigli regionali per accaparrarsi il posto di consigliere-senatore? Quanti mesi sottrarranno al lavoro dei nostri governi regionali?
C’è nel ragionamento di Cacciari, ma soprattutto di tanti altri commentatori, una impropria sopravvalutazione del fattore efficienza della macchina amministrativa. Fattore certo importante, ma spesso secondario. Attribuire al bicameralismo perfetto l’inefficienza dei nostri governi è una lettura semplicemente superficiale della storia politica italiana.
Negli anni ’70 vigeva il bicameralismo eppure in quel decennio sono state realizzate le riforme più importanti per la modernizzazione dell’Italia. E il ragionamento vale anche in periferia. Davvero si crede che le nostre regioni, soprattutto quelle meridionali, non siano capaci di utilizzare a pieno i fondi strutturali europei per pura inefficienza? In realtà sono lentissime nel decidere a causa delle lotte intestine tra i vari gruppi che si contendono le risorse e sono in perenne litigio sulle forme, i modi, i luoghi del loro utilizzo. Il guasto è nel corpo del ceto politico e lo si cerca nelle istituzioni.
Ancora più paradossale è però il “Si” di Cacciaci al referendum accompagnato da un giudizio severo sulla riforma elettorale dell’Italicum. Ma dov’è, innanzi tutto, il senso tattico di questa posizione? Già Renzi ha fatto sapere, con la consueta mitezza di modi, che «l’Italicum non si tocca». Figuriamoci quanto sarà disponibile a modificarlo nel caso dovesse vincere il referendum d’autunno. Ma questa distinzione tra legge elettorale e riforma del Senato, che è di tanti attori politici e commentatori, tradisce una grave incomprensione storica di quel che è avvenuto nei paesi capitalistici.
E a Cacciari, a tal proposito, dovrei ricordare, allorché usa il termine sinistra, che negli ultimi 15 anni, un arcipelago di intellettuali si è messo a studiare il capitalismo attuale e riesce a leggere in profondità e con capacità di anticipazione i fenomeni sociali e politici del nostro tempo. Quella capacità che la sinistra storica sembra avere ormai definitivamente perduto.
Il dispositivo autoritario contenuto nell’Italicum non è una cattiveria di Renzi. E’ un passaggio obbligato, nel contesto del capitalismo globalizzato, di una strategia che oggi appare ineludibile per il ceto politico. Non lo ripeterò mai abbastanza: ceto politico vuol dire una classe professionale, con sempre meno legami con le masse popolari, che vive di politica, cioè di mediazione tra i poteri industrial-finanziari e la società. Tale ceto politico, sia per la sempre minore autonomia d’azione dello Stato-nazione, sia perché necessitato a ridurre sempre di più diritti e welfare non riesce a governare con il consenso dei cittadini. C’è bisogno di prove?
Osservate le statistiche della diserzione delle urne, in Italia come altrove. Se manca il consenso, per governare occorre il potere. L’Italicum è il completamento di un disegno già in atto. Il governo Renzi ha abolito l’articolo 18, combatte apertamente il sindacato, ha elevato a simbolo della sua nuova narrazione un capitalista internazionale come Marchionne, ha insediato la figura del preside-capo nelle scuole, controlla e presidia quotidianamente le Tv pubbliche. Forse che non ha dato sufficienti prove di spregiudicatezza e irresponsabilità nel manomettere la Costituzione e spaccare ora il Paese? Che cosa devono desiderare di più e di meglio i gruppi capitalistici nazionali e transnazionali? Giusto un governo dominato da un capo che comanda un Parlamento di nominati. Eccolo in arrivo...
L’Italia ha già conosciuto su scala ridotta lo squallido servilismo, il conformismo asfissiante generato in tutti gli ambiti della società dal potere assunto, a metà anni ’80, da Bettino Craxi e dal suo Psi. Oggi incombe su di noi un ben più grave pericolo, perché allora, benché mal messi, esistevano ancora i partiti di massa. Oggi non più. Allarmante è che un intellettuale della statura di Cacciari non l’abbia ancora capito.
Politica e impegno
Perché su Matteo Renzi gli intellettuali italiani stanno zitti?
In prima linea contro il berlusconismo, oggi gli intellettuali tacciono imbarazzati di fronte al giovane premier. E lasciano il monopolio della critica alla generazione dei “vecchi”
di Marco Damilano (l’Espresso, 29 dicembre 2015)
Parlo all’Italia riformista. Perché stiamo perdonando a Matteo Renzi quello che non perdonavamo a Silvio Berlusconi? Che cosa ci sta portando a fermarci?». La voce di Roberto Saviano su repubblica.it risuonava su smartphone e tablet nel pomeriggio di venerdì 11 dicembre a Firenze nella grande ex stazione Leopolda che si preparava ad accogliere il popolo renziano per il raduno annuale.
Lo scrittore attaccava «una struttura politica che ha compiuto l’ennesimo atto autoritario», il «conflitto di interessi» del ministro Maria Elena Boschi, figlia dell’ex vice-presidente della Banca Etruria oggetto di un decreto del governo.
Un crescendo che, il giorno dopo, arrivava a definire la Leopolda «un’accolita che difende i malversatori». Ma esaurita l’indignazione di giornata del cerchio magico del premier contro le parole dello scrittore, bisogna riprendere il j’accuse di Saviano che va ben al di là della singola questione, chiama in causa il diritto di critica, «che non può essere considerato un impiccio», e il rapporto degli intellettuali con il nuovo principe venuto da Rignano.
Nell’Italia di Matteo Renzi il ruolo di teste pensanti della sinistra sembra passato dai topi di biblioteca ad attori e teatranti Scrittori, registi, sceneggiatori, opinionisti solitamente impegnati. In prima fila nella firma di appelli e manifesti. Pronti a ingaggiare il corpo a corpo delle idee. Sul palco, in piazza, sui giornali. Con parole e opere: romanzi, film, canzoni, articoli. E ora, invece, stretti tra due accuse. Quella di Renzi e dei suoi laudatori, secondo cui le voci di dissenso sarebbero in blocco «professoroni, gufi, professionisti della rassegnazione». «Un giorno si parlerà finalmente delle responsabilità delle élite culturali nella crisi italiana: professori, editorialisti, opinionisti non sono senza colpe», disse il premier a “Repubblica” dopo pochi mesi di governo, il 4 agosto 2014. «Siamo gli unici che vogliono bene all’Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche», ha replicato, senza nominarlo, a Saviano dal palco della Leopolda.
E c’è, sul versante opposto, la seconda accusa, non meno bruciante, quella avanzata dall’autore di “Gomorra”. La timidezza verso il nuovo potere renziano nell’ambiente culturale «riformista». Gli intellettuali di sinistra che furono in prima fila negli anni del berlusconismo. E che ora appaiono svogliati. Ritrosi a schierarsi. Ritirati nei propri quartieri. Taciturni. In silenzio. Forse imbarazzati, di certo confusi. Per loro stessa ammissione.
«Renzi è di sinistra? Diciamo che, come Margherita dice in “Mia madre”, anch’io sono confuso in questa fase e preferisco tacere, piuttosto che dire cose generiche o banali... Sono contento se il governo è di centrosinistra, facendo però davvero riforme di centrosinistra. Ma ripeto: in questo periodo sono confuso e preferisco non dire cose a caso». Nanni Moretti ha interrotto di recente con un’intervista a “Oggi” e poi a “Le Monde” la sua distanza dalla politica. Per testimoniare, però, che in questa fase è meglio restare zitti piuttosto che parlare per non dire nulla.
Eppure per decenni Moretti ha portato sul grande schermo la crisi del Pci e della sinistra, da “Palombella Rossa” a “Aprile”, gli psicodrammi di militanti, dirigenti, semplici elettori, con le lettere mai spedite ai leader di partito. L’interpretazione del ministro socialista Botero in “Il portaborse” di Daniele Luchetti all’inizio degli anni ’90 anticipò Tangentopoli. E poi “Il Caimano” (2006) su Berlusconi e il conformismo di stampa e televisioni. E soprattutto la stagione dei girotondi, tra il 2002 e il 2003, quando il regista accettò di guidare un movimento e finì per assumere la leadership dell’anti-berlusconismo in un momento di debolezza politica dei partiti di centro-sinistra.
Ora è un altro momento. Di confusione. E perfino, per i cinquantenni-sessantenni coetanei di Moretti, di un sottile senso di colpa. «A me Renzi sta antipatico, non mi sento contiguo alla Leopolda, ma mi sono supremamente rotto le scatole di quello che ha fatto la mia generazione in politica», ha detto la settimana scorsa Michele Serra in tv a “Otto e mezzo”. In continuità con quanto l’ex direttore di “Cuore” aveva scritto su “l’Espresso” (11 maggio 2015): «Non esisterebbe Renzi se non fosse esistita, prima, una lunga stagione di impotenza. Matteo Renzi è il figlio più rappresentativo della crisi della democrazia italiana e più ancora della paralisi della società italiana. Chi lo critica ha quasi sempre ragione, ma alle spalle di quasi ogni critica c’è il sospetto inevitabile della conservazione. E se Renzi è quello che è, la colpa non è tutta sua».
De te fabula narratur: non è colpa di Matteo, e forse neppure del tutto merito suo, se con facilità impressionante ha conquistato il potere, scalato la sinistra, polverizzato i riferimenti culturali del passato, sgretolato il pantheon dei miti fondativi. Colpa di chi l’ha preceduto, dei dirigenti antichi e inamovibili, dei padri nobili che in ogni cambiamento hanno avvertito, sospettosi, l’ombra della fuoriuscita dal patto costituzionale su cui si è costruita la Repubblica e sono cresciute le culture politiche dei partiti, più forti e resistenti delle ideologie.
Il grande silenzio, come si intitolava il libro-intervista sugli intellettuali di Alberto Asor Rosa con Simonetta Fiori (Laterza, 2010), sembra essere la reazione di una certa generazione e di una certa cultura: quella che ha combattuto da sinistra negli anni Ottanta la modernizzazione di Bettino Craxi, il rampantismo socialista e poi, naturalmente, il berlusconismo trionfante. E che ora, dopo tante battaglie e molte sconfitte, non se la sente più di intrecciare un conflitto anche con il premier rottamatore. Anche perché, come dice Serra, «Renzi non è come Berlusconi».
C’è chi questo passaggio l’ha fatto con agilità e senza farsi troppi problemi: ad esempio Francesco Piccolo, sceneggiatore di Moretti, con “Il desiderio di essere come tutti” (Einaudi, 2013), vincitore del premio Strega, uscito nei mesi in cui Renzi dava l’assalto al vertice del Pd e poi a Palazzo Chigi, aveva già ben rappresentato la felicità di un intellettuale di sinistra pronto a tuffarsi nella nuova epoca.
Sul versante opposto, quello della critica, si schierano intellettuali di altre generazioni e di altri filoni culturali, più azionisti che ex Pci. Sono loro i «famigerati professoroni». Giuristi come Stefano Rodotà o come Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, che denuncia nel suo ultimo libro “Moscacieca” (Laterza, 2015) «l’allergia per il pensiero non allineato» e si spinge a comporre l’elogio del pessimismo contro la «leggera, fatua, insulsa allegrezza che fluttua qua e là senza alcun costante e maturo impegno per un’opera degna della parola politica».
Professori come Asor Rosa che attacca «la mutazione genetica» del Pd. E storici come Marco Revelli: erano in tanti il 3 dicembre a discutere nella sede romana della casa editrice Laterza il suo ultimo libro “Dentro e contro”, una delle più compiute requisitorie contro il sistema renziano. Seminario ad alta tensione, con uno scontro senza ipocrisie tra l’autore e il giurista Sabino Cassese, ex giudice della Corte costituzionale, difensore delle riforme del governo Renzi.
Perché in questi mondi l’atteggiamento da tenere nei confronti del premier spacca, divide. Renzi, nelle pagine di Revelli, è descritto come Callicle, piccolo filosofo ateniese del V secolo a.C., «archetipo di quel disprezzo per la conoscenza e per i sapienti che ritornerà infinite volte nelle zone grigie della storia». Un modello di potere post-democratico nell’Europa attraversata dai populisti: «L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridare di accelerare».
Tutti chi? Inutile cercare pensatori vecchio stile tra gli intervenuti all’ultima edizione della Leopolda. Nelle precedenti kermesse aveva colpito e affascinato la platea lo scrittore Alessandro Baricco, con la sua narrazione popolata di spazi bianchi da riempire, pezzi sulla scacchiera da muovere per primi, navi da bruciare alle spalle.
Ma questa volta non si è fatto vedere, né lui né altri artigiani dell’immaginario. E non si trovano citazione di contemporanei nel discorso finale di Renzi, con l’eccezione di Paolo Sorrentino, fresco vincitore degli Efa di Berlino, l’Oscar europeo, il regista prediletto dal premier. Forse perché almeno gli ultimi due titoli, “La Grande Bellezza” e “Youth - La giovinezza”, sono involontariamente, inconsciamente renziani. O forse perché, semplicemente, Sorrentino è un outsider che vince, come sempre si rappresenta l’ex ragazzo di Rignano.
Nell’ultima edizione è stato lanciato il think tank che avrà il compito di formare la classe dirigente di domani. A dirigere “Volta” sarà Giuliano Da Empoli, presidente del Gabinetto Viesseux, già assessore alla Cultura con Renzi sindaco, ritornato nell’orbita di Matteo dopo qualche dissidio. Il suo “La prova del potere” (Mondadori, 2015) è il manifesto dei nati tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso, «vaso di coccio tra due generazioni di ferro, i nativi dell’ideologia e i nativi della tecnologia», i quarantenni che traggono da questa debolezza la loro forza: i Sorrentino, i Renzi e i Saviano, e già, c’è anche lui, l’irregolare scrittore diventato il nemico del popolo nel raduno dell’ex stazione fiorentina.
La generazione Renzi raccolta da Christian Rocca, direttore di “IL”, il mensile del “Sole 24-Ore” in “Non si può tornare indietro” (Marsilio, 2015), in cui si ritrovano toni forse perfino più renziani dell’originale che ha in odio qualsiasi ideologia, compresa eventualmente la sua.
C’è anche questo, la difficoltà per gli intellettuali di professione di interloquire con un leader pragmatico, compiutamente post, impossibile da incasellare in una definizione. Che per di più si agita su un terreno di gioco, il confine della politica nazionale, con sempre minore significato. In Francia gli intellettuali litigano e si dividono tra mondialisti e identitari. In Italia il balcone è vuoto, come nell’ultima scena di “Habemus papam”. Forse per questo Moretti è confuso. E anche gli altri non stanno tanto bene.
Radio Kapital : Jean-Luc Nancy
Saper ascoltare il silenzio degli intellettuali di Jean-Luc Nancy
(trad.effeffe)
Ci rammarichiamo della scomparsa degli intellettuali organici della Repubblica, in grado di dire il giusto, il buono e il vero - anche se a volte criticando la stessa Repubblica. Deploriamo che al loro posto riecheggino bagliori sospetti, derive mal identificate e battage a tutto spiano, dispensatore di prediche ad ogni grado. Genera dibattito, foto, fa rumore. Ma non bisogna farsi indurre in errore. Bisogna ascoltare il silenzio e guardare quanto non si mostri.
Ci sono tanti intellettuali - per meglio dire: persone che pensano - alle prese con cose più serie dei proclami ripetuti delle certezze acquisite. Ce ne sono molti più di quanto non si pensi, alcuni noti, altri meno o per nulla: tutti quelli per cui le vere questioni contano più della firma ( il benedetto nome!) in calce agli articoli o petizioni. Non v’è dubbio che a volte bisogna riaffermare delle cose evidenti che paiono offuscate per alcuni, mentre per altri sembrano ripetitive: bisogna ( per quel che significhi “bisogna”) dare asilo ai rifugiati, che la loro fuga è causata dalle convulsioni di un mondo che non protegge più nulla dai propri appetiti più feroci, e di conseguenza dalle proprie devastazioni, e che dare rifugio significherebbe anche accogliere le questioni che vengono con il disastro ambulante.
Però bisogna innanzitutto valutare bene la posta in gioco. Non si tratta di un po’ più o un po’ meno di sovranità, d’Europa, di umanismo e di fratellanza. Si tratta di questo, del fatto che ognuna di queste parole, una per una, e di molte altre dopo di esse, non abbiano più alcun significato intelligibile. Oppure che non abbiamo più l’intelligenza del loro senso. Noi, tutti noi, tutti coloro che pensano (che se ne compiacciano o meno, che lo sappiano o meno) e per primi quelli la cui qualità d’”intellettuale” deve mettersi al servizio del senso e delle condizioni in cui un senso è possibile o meno.
Anche il pensiero conosce migrazioni, esilii, mutamenti, tracolli, fughe e asili. La postura sicura di sé della soluzione è quella di colui che decide, non del pensatore. Ci devono essere certo delle persone che decidono- ci deve essere anche chi sia in grado di criticarli. Ma non bisogna far passare come decisioni possibili vecchi significati che non sappiamo più argomentare - tanto “umanismo” che ” sovranità” o “popolo” o perfino “politica”.
Alcuni lo hanno detto e lo hanno scritto ormai sono molti anni: siamo entrati in un mutamento di civiltà. Vale a dire di questa civiltà occidentale diventata l’armatura globale di un’espansione tecnica e ideologica a cui si oppongono, nient’altro che i furori generati dallo sconvolgimento globale. È con questo che dobbiamo fare i conti: con un mondo che sei secoli di progresso hanno fatto crescere al punto che ogni crescita raggiunge: il punto di apoplessia o obsolescenza.
Altre civiltà ci sono passate. Maya, Ittiti, Micenei, Romani, Mongoli, molti altri hanno vissuto gli orrori della decomposizione e dello smarrimento. Le loro forze profonde hanno subito una metamorfosi. Questi mutamenti sono così ampi e lunghi che non si potranno cogliere che a posteriori. Ma è possibile, è necessario pensare a partire da questo orizzonte o prospettiva.
Il che non impedisce di pensare al presente. Al contrario. Questo offre per esempio ottime ragioni per vedere nei rifugiati dei messaggeri non solo di crisi e di guerra, ma anche e soprattutto di storia, della nostra storia, di quel che accade a noi e spinge noi stessi in una migrazione silenziosa, attiva e vigilante.
Norberto Bobbio
“Altro che cultura per me il fascismo fu solo retorica”
Nel carteggio del ’76 con Luisa Mangoni lo studioso difende le sue tesi: “Un’era di cortigiani e adulatori”
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 23.01.2015)
NEL 1976 Norberto Bobbio è già uno studioso influente, 67 anni, preside della Facoltà di Scienze Politiche a Torino. Da diversi decenni i suoi volumi sul rapporto tra cultura e politica orientano la scena intellettuale italiana. Tre anni prima era uscito il saggio Cultura e fascismo, destinato ad accendere un grande dibattito. Bobbio è persuaso che non sia mai esistita una “cultura fascista”. Il regime aveva prodotto molta retorica ma non opere importanti, titoli spartiacque, in una parola una tradizione intellettuale: chi poteva dire il contrario? Ecco farsi avanti una giovane studiosa, Luisa Mangoni, Marisa per gli amici.
Ha 35 anni, quasi la metà del suo autorevole interlocutore. Rigorosa e schietta, meticolosa e dolcissima. Gli dà dell’«arretrato». Dice proprio così: «l’impostazione del professor Bobbio appare arretrata». Lo fa durante una conferenza a Bologna. E il pubblico l’ascolta con attenzione: nel 1974 era uscito da Laterza il suo libro L’interventismo della cultura, destinato a cambiare lo sguardo sul rapporto tra ceto intellettuale e regime. In quelle pagine moriva l’equazione tra fascismo e “non cultura”.
Da quello scambio a distanza tra l’appassionata studiosa e l’illustre professore ebbe origine il carteggio inedito che ora pubblichiamo grazie allo storico Innocenzo Cervelli, marito della Mangoni mancata un anno fa. Un pacchetto di lettere, dal 21 marzo del 1976 al 16 marzo del 1977, che lumeggiano da una parte il singolare profilo intellettuale di Bobbio, maestro generoso che non parla mai ex cathedra, disponibile nello sperimentare i suoi stessi limiti, umile e insieme pedagogico. Dall’altra, la sicurezza intellettuale di una giovane donna che non arretra, però se occorre è pronta al ripensamento, mette a fuoco e rilancia. Un metodo di lavoro che avrebbe mantenuto nel corso della sua vita di ricercatrice, forse non pienamente riconosciuta dall’università e alla quale oggi rende omaggio un convegno dell’Istituto Gramsci.
Da Adriano Prosperi ad Albertina Vittoria, da Francesco Barbagallo a Giuseppe Ricuperati, saranno in tanti ad evocare i suoi studi sulla storia degli intellettuali nel loro rapporto con il potere e la politica, le sue poco convenzionali ricerche sulle case editrici Einaudi e Laterza (quest’ultima interrotta dalla scomparsa), il ruolo pionieristico «nell’analisi della cultura intesa nei suoi aspetti organizzativi e nella sua volontà di avere voce in capitolo nella sfera della società e dello Stato», come spiega Giuseppe Vacca, ideatore del seminario.
Ed è questo l’aspetto più innovativo che emerge anche dal confronto con Bobbio. Per lo studioso la cultura è «il patrimonio intellettuale e morale di una nazione », «opere destinate a durare nel tempo, a dare vita a una tradizione ». Mangoni liquida questa definizione come “riduttiva”. «A me pare che da un lato Lei privilegi un’idea di alta letteratura di impronta marcatamente aristocratica », gli scrive il 29 marzo del 1976. «E dall’altro evada il significato della cultura in rapporto allo Stato e alla società civile, che è un’altra cosa rispetto alla organizzazione, alla propaganda, alla stressa manipolazione del consenso».
Secondo Mangoni la cultura e gli intellettuali «non si spiegano tautologicamente con se stessi, ma solo in relazione allo Stato e alla società». Per questo contesta a Bobbio anche il giudizio sul “nicodemismo”, ossia quel fenomeno di infingimento che Eugenio Garin aveva condannato tra gli intellettuali italiani sotto Mussolini: antifascisti nell’intimo ma pronti a ricevere onori e prebende dal regime.
«Non vedo come la dissimulazione produca cultura», le aveva scritto Bobbio nella lettera del 21 marzo. «Produce quella letteratura tra cortigianesca e adulatoria di cui gli intellettuali italiani sono stati prodighi in tutte le epoche ». Mangoni rilancia: anche il nicodemismo è una zona di opacità che deve essere indagata. «Come interpretare altrimenti la recensione di Delio Cantimori a Ugo Spirito nel 1937?».
La discussione sarebbe andata avanti per alcuni mesi. Era una stagione di grande fermento, alla metà dei Settanta. Uscivano libri che ampliavano lo sguardo sul fascismo e sul Novecento. Beppe Vacca ricorda che nel 1974, insieme all’Interventismo della cultura, furono pubblicati Gli intellettuali del XX secolo di Eugenio Garin e Gli anni del consenso, il terzo volume della biografia mussoliniana di Renzo De Felice.
Cambiavano i parametri e la polemica culturale era quasi quotidiana, come questa tra Bobbio e Mangoni. Lui sembra anche divertito da questa inattesa «esecuzione sommaria condotta sui sacri testi» (che poi sarebbero Gramsci e Togliatti), ma non si lascia convincere. «Quando mi chiedo se ci sia stata una cultura reazionaria vado a cercarla nei grandi scrittori come Nietzsche o Pareto, cioè proprio in opere destinate a durare nel tempo. E sulle quali tutte le epoche tornano per reinterpretarle e discuterle». In fondo dell’azione culturale svolta da Giuseppe Bottai - personaggio simbolo scelto da Mangoni per il suo ragionamento - non è rimasto niente. «Si è sciolta come nebbia al sole», dice Bobbio. Sopravvive invece l’insopportabile retorica dei tanti giovani costretti all’ossequio. Ma la retorica è cultura?, la provoca in una lettera del 27 aprile.
«Bisogna risalire alle radici più profonde », replica la studiosa nel giugno del 1976. Lei si accingeva all’opera proprio in quei mesi, persuasa che alcune componenti ideologiche e strutturali del fascismo fossero sopravvissute nella giovane democrazia, «dal capitalismo monopolistico di Stato alla concezione corporativa della società». Tutti temi su cui avrebbe continuato a studiare, con puntiglio ed umiltà. Scavando nelle zone d’ombra dell’intellettualità italiana, senza mai lasciarsene avvolgere.
Cara, quel regime creò tanto rumore per nulla
di Norberto Bobbio (la Repubblica, 23.01.2015)
TORINO, 21 marzo 1976 Gentile dottoressa, ho letto con vivo interesse il suo articolo sulla cultura e il fascismo, e le osservazioni critiche ivi contenute nei riguardi della mia (malfamata) tesi sull’inesistenza della cultura fascista. Alcuni mesi fa scrissi un nuovo articolo sul tema, che le mando (...). Come vede, sono recidivo. Sono recidivo perché mi pare che sino ad ora gli avversari ai miei argomenti rispondano o spostando la discussione sul cedimento degli intellettuali (che io non ho mai contestato ma che è un problema completamente diverso) oppure parlando d’altro, per esempio dell’organizzazione della cultura promossa con tanto strepito (se pure con scarsi risultati) dal regime. (...) Non posso dire che questo suo articolo, pur interessante (e non poteva essere altrimenti provenendo dall’autore di un libro importante come L’interventismo della cultura) e ricco di spunti (su cui intendo riflettere), m’induca a cambiare idea. Ma non insisto. Mi domando soltanto perché lei consideri arretrato (arretrato rispetto a cosa?) il mio modo di porre il problema (...). Perché è arretrato chiedere che si finisca di fare discorsi generici pro o contro il fascismo, e si faccia un esame serio di quel che è rimasto della cultura durante il fascismo? Non è la stessa cosa che chiede lei? A un certo punto lei per dimostrare la mia arretratezza parla del nicodemismo e dice che la tesi di Garin sul nicodemismo rappresenta «un notevole passo avanti rispetto alla tesi di Bobbio ecc.». A parte il fatto che del nicodemismo avevo parlato anche io indipendentemente da Garin (vedi Fascismo e cultura , ...), e in maniera molto esplicita, e credo precisa, mi pare che il nicodemismo sia uno degli argomenti più forti a favore della mia tesi. Non vedo come la “dissimulazione” produca cultura. Produce questa letteratura cortigianesca e adulatoria, di cui gli intellettuali italiani sono stati prodighi in tutte le epoche. Coi più cordiali saluti Norberto Bobbio
TORINO , 16 marzo 1977 Gentile signora, la ringrazio dell’estratto del suo articolo su cesarismo ecc. Un bel tema, che mi piacerebbe però vedere sviluppato meglio anche concettualmente. Lei per esempio accenna a un certo punto alla distinzione tra cesarismo e bonapartismo, poi se non sbaglio non la riprende più. Così il problema del rapporto tra cesarismo, democrazia di massa e capo carismatico, da cui parte, andrebbe meglio approfondito anche riguardo a Gramsci, che cita Michels a proposito del capo carismatico in un famoso passo sulla demagogia in senso negativo e sulla demagogia in senso positivo. Il tema del capo carismatico è un tema che entra con forza nelle discussioni di quegli anni tra coloro che si rendono conto che è cominciata l’era della democrazia di massa (della “ribellione delle masse” per dirla con una espressione nota e negativa). Dal momento che lei ha dedicato l’ultima parte del suo articolo a Gramsci, perché non analizzare il suo pensiero anche su questo punto? Chi è “il demagogo superiore”? È anche lui un capo carismatico? Come mai tutta la teoria politica marxistica anche dopo Michels e dopo Weber non ha mai parlato volentieri del capo carismatico? (...) Cordiali saluti Norberto Bobbio
Vent’anni di menzogne
di Roberto Mancini (Altraeconomia.it, 04 settembre 2014)
Gli anni della menzogna. I vent’anni da Berlusconi a Renzi. In tale periodo l’Italia è stata avvolta in un’oscura nube tossica che ha tolto lucidità ad ampi strati della società. In questa situazione può essere utile un promemoria sulle riforme vere che sarebbero urgenti. Ricordando, intanto, che le cosiddette “riforme” del governo Renzi si inseriscono nel quadro del doppio errore mortale dell’Unione europea, risalente alla fine degli anni 70. L’errore sta nell’aver risposto alla globalizzazione in modo nevrotico e stolto: da una parte rilanciando i nazionalismi dei Paesi più forti e dall’altra identificandosi con la volontà dei Mercati. Il contrario esatto di quello che serviva. L’intreccio di nazionalismi e neoliberismo è stato ed è micidiale. In tale scenario i governi e i partiti italiani non potevano che fare del loro peggio.
Le perle di Renzi sono, nell’ordine: una riforma costituzionale che stravolge in senso oligarchico la funzione del Senato e quella delle Province con il pretesto di un finto risparmio e soprattutto di una maggiore “governabilità”; una legge elettorale che riduce ulteriormente la possibilità che la volontà dei cittadini abbia rappresentanza reale; una riforma del mercato del lavoro che coltiva la precarizzazione sopprimendo tutele e diritti; una riforma della pubblica amministrazione tutta incentrata sulla mobilità dei dipendenti e sul maggiore ricorso alle procedure on line; una riforma della scuola che si risolverà nell’aumento delle ore di lavoro per gli insegnanti; una riforma fiscale che si traduce nell’invio del modello 730 precompilato a casa. Le riforme autentiche sono ben diverse.
Qui mi limito a elencare le dieci principali:
1) un piano globale per l’economia nazionale che garantisca i diritti ai lavoratori, riapra il credito alle imprese e promuova la rilocalizzazione favorendo le attività tipiche dei nostri territori (dalla cultura al turismo, dal tessile all’alimentare e così via). Il governo dovrebbe sostenere le imprese disposte a praticare un’economia sana attraverso le leve della defiscalizzazione, del credito agevolato, degli appalti pubblici e della collaborazione delle università nel campo della ricerca scientifica necessaria a un’economia avanzata. A ciò si aggiungerà la riforma fiscale in senso proporzionale e patrimoniale. La direzione di fondo della riforma dell’economia nazionale dovrà delinearsi nel passaggio dalla logica della crescita alla logica dell’armonizzazione, dall’economia dello sviluppo all’economia della cura;
2) una riforma della politica sociale e dei diritti che porti a misure strutturali tanto per sostenere i singoli e le famiglie colpiti dalla diffusione dolosa della povertà a causa della conduzione liberista dell’economia, quanto per dare una risposta di dignità alla condizione dei migranti, dei profughi, dei detenuti e di quanti sono marginalizzati o respinti;
3) una riforma che tuteli l’indipendenza della magistratura e dia impulso sistematico alla lotta contro le mafie;
4) una riforma che affronti il conflitto di interessi e ridisegni la normativa che regola la proprietà dei media;
5) una riforma che tuteli radicalmente i diritti delle donne e assicuri i diritti civili di chiunque, senza discriminazioni dovute alle preferenze sessuali;
6) una riforma della sanità pubblica che risponda alle esigenze dei territori e ne elevi la qualità da Nord a Sud;
7) una riforma della scuola e dell’università che dia impulso alle dinamiche interculturali e interdisciplinari e che consideri gli studenti protagonisti, assicurando nel contempo ai docenti le migliori condizioni per unire didattica e ricerca (provvedendo al tempo stesso alla manutenzione sistematica degli edifici);
8) una riforma che porti alla gestione sapiente dell’assetto idrogeologico del Paese e che tuteli l’ambiente;
9) un nuovo orientamento della politica estera che -in modo diretto e in modo indiretto, cioè a livello dell’Unione europea- costruisca un quadro di relazioni solidali, di cooperazione e di disarmo dal Mediterraneo a ogni area del mondo;
10) una riforma che fissi le regole vincolanti per la democrazia interna nei partiti o nei movimenti politici e cancelli privilegi e immunità per chi ha cariche pubbliche, introducendo sia limiti temporali di esercizio che percorsi di formazione.
Prima di trovare un governo pronto a fare queste riforme si dovranno trovare molti, nelle istituzioni e nella società, che siano disposti non a “metterci la faccia”, ma a metterci la testa. A metterla fuori dalla nube tossica che spegne l’intelligenza politica.
La mostruosa normalità di un sistema corruttivo
di Paolo Favilli (il manifesto, 25 aprile 2014)
L’uso senza limiti del linguaggio iperbolico in un dibattito politico quasi sempre privo di spessore analitico ci sta privando della possibilità di orientarci. Se la politica finanziaria connessa all’attuale gestione dell’euro diventa "Auschwitz". Se ogni approvazione di leggi da parte della maggioranza (spesso davvero ingiuste e intrise di conflitti d’interessi) diventa "colpo di stato". Se la reale tendenza al progressivo concentrarsi del potere in ristrette oligarchie diventa "ritorno al fascismo", ebbene la specificità e il peso di ogni fenomeno scompaiono ed orientarsi in «"una notte in cui tutte la vacche sono nere" è impresa assai difficile.
In un articolo apparso su questo giornale qualche giorno fa (15 aprile,Berlusconi-Napolitano «gli esiti criminali della politica separata») ho usato anch’io tinte molto forti. Si tratta, però, e credo che questa affermazione possa reggere l’onere della prova, di un linguaggio con alto grado di mimesi nei confronti della realtà. Il problema è che il fenomeno al centro di quello scritto, se analizzato davvero, è in grado di produrre disvelamenti, tanto sull’oggi che su un itinerario storico ventennale, che i facitori di opinione sembrano impossibilitati a sopportare. Meglio la rimozione.
Luigi Pintor diceva che dopo mezzogiorno con il quotidiano si potevano incartare le patate. Visto con quanta facilità si dimentica, mi si scuserà se faccio riferimento all’articolo citato. I dati di fatto non sono controvertibili. Dall’insieme delle sentenze relative a Berlusconi, Previti, Dell’Utri (su quest’ultimo si attende ancora quella definitiva della Cassazione che, come ricordiamo, non è giudice di merito) emerge un quadro criminale impressionante.
Il centro del quadro è rappresentato da un enorme e ramificato sistema corruttivo espanso in tutte le possibili varianti. Il sistema corruttivo è necessità funzionale come uscita di sicurezza per una molteplicità di comportamenti delinquenziali. La politica è una delle varianti più importanti tanto come uscita di sicurezza che come luogo privilegiato del circuito potere-denaro.
La triade suddetta è stata il fulcro, il soggetto agente della costruzione di un soggetto politico che per lunghi anni ha esercitato il potere ad ogni livello della vita pubblica. Ancora oggi il soggetto creato vent’anni fa è tutt’altro che marginale e le sue prospettive non sono necessariamente perdenti.
Naturalmente sarebbe una sciocchezza pensare che il successo di quella forza politica sia derivato da una logica criminale, ma quella logica, tenuto conto del ruolo centrale della triade, ha informato di sé aspetti importantissimi delle pratiche di governo. Inoltre è stato punto di riferimento legittimante di analoghe pratiche locali: il paradigma Cosentino si comprende meglio nell’ambito di tale insieme strutturale.
Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana i gangli fondamentali della vita politica si trovano ad essere intrinsecamente legati a una operazione criminale. Di fronte a tutto ciò ci troviamo a vivere in una situazione di "normalità mostruosa", come potremmo definirla con un ossimoro. Mostruosa: sia come fenomeno straordinario, che suscita stupore, sia come fenomeno orribile. Normalità: in quanto lo svolgimento della vita politica non è assolutamente toccato dalla mostruosità.
Si pensi solo alla leggerezza con cui autorevoli editorialisti di autorevoli quotidiani hanno trattato questo enorme peso che grava su tutta la nostra vita etico-civile. Commentando la sentenza che ha fissato la pena (si fa per dire) rieducativa per il delinquente, ci viene data l’immagine di un uomo "dolorante dietro l’eterno sorriso (...) un uomo che merita rispetto", un uomo i cui errori sono quelli di non aver fatto le riforme promesse, un uomo che però ha definitivamente superato una "guerra giudiziaria" finita da tempo (Massimo Franco, Corriere della sera, 16 aprile).
E anche dal fronte pervicacemente antiberlusconiano (la Repubblica), dopo aver messo giustamente in rilievo lo "status particolare" che spiega l’agibilità politica concessa al delinquente, non si fa una piega di fronte alla "necessità" di farne un padre della patria, visto che Renzi avrebbe avuto una via "quasi obbligata" (Massimo Giannini, 16 aprile).
L’espressione "non ci sono alternative", non casualmente una delle preferite da Margaret Thatcher per giustificare la durissima repressione sociale, è, in genere, causa delle maggiori nefandezze. Nel nostro caso non si tratta di "necessità» bensì di una conclamata «sintonia» per una prospettiva di bipartitismo forzoso su cui Renzi e Berlusconi giocano il futuro delle loro fortune politiche.
Ma la questione centrale su cui gli autorevoli opinionisti svolazzano entrambi, l’uno auspicando il superamento definitivo di «una guerra finita da tempo», l’altro facendo appello allo stato di necessità, è la compatibilità del quadro che esce dalle sentenze Berlusconi, Dell’Utri, Previti, con qualsiasi ruolo di rilevanza politica, figuriamoci con quello di «padre della patria». In realtà, su questo, la guerra non c’è mai stata.
Il dilemma, in fondo, è piuttosto semplice: le sentenze dicono il vero o sono il frutto della falsificazione di una magistratura politicizzata? La seconda ipotesi è sostenuta, con forza, non solo dai condannati, ma da aree politiche e d’opinione relativamente ampie. Gli autorevoli devono dirci se la condividono o meno. Penso di sì, perché è l’unica ipotesi in perfetta coerenza con i loro svolazzamenti. Diranno che Berlusconi ha i voti e il loro è semplicemente realismo politico. Non di realismo si tratta, invece, ma dell’accettazione, della condivisione di quello stato di necrosi che caratterizza il tessuto connettivo civile in Italia.
Ovviamente è del tutto inutile chiedere ai molti «autorevoli» di uscire dal recinto in cui stanno comodi e protetti, ma forse non è inutile chiedere a chi sta fuori il recinto, in vari e articolati modi, di assumere il quadro che emerge dalle sentenze come uno dei problemi essenziali delle iniziative politiche in corso.
Il berlusconismo non è il fascismo, certo, ma il solo modo di uscirne davvero è quello della cesura netta, sia pure in forme diverse, con la quale l’Italia è uscita dal fascismo. Sappiamo bene che nemmeno le cesure sono in grado di tagliare davvero la vischiosità profonda dei processi storici, pur tuttavia sono i soli momenti che possono segnare una, seppur parziale, discontinuità radicale.
I compagni, i professoroni, i professori qualsiasi (come chi scrive), devono prendere coscienza che anche questa via d’uscita dal berlusconismo, e da tutti gli affinismi col berlusconismo, è una «via maestra». La battaglia difficile per l’affermazione della lista L’altra Europa con Tsipras non può ignorare il problema. L’Italia deve presentarsi in Europa anche con una forza che rappresenti davvero l’antitesi a un volto del paese sfigurato dal morbo criminal-politico. Frutto di quella «passata di peste» che Paolo Volponi, profeticamente, aveva visto sopraggiungere più di vent’anni fa.
Nelle nebbie della seconda Repubblica: Diario di un naufrago
Nel testo di Crainz il ritratto di un ventennio tra i fallimenti della sinistra e l’avanzata del populismo
di Oreste Pivetta (l’Unità, 18.12.2013)
LA CRONACA DEGLI ULTIMI DIECI ANNI POTREBBE APRIRSI SULLA SCENA DI PIAZZA NAVONA, nel febbraio del 2002, quando con un colpo di teatro Nanni Moretti scosse una manifestazione dell’Ulivo al grido: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». Il Pd, sopravvissuto a quell’esperienza, sopravvissuto a sconfitte elettorali, vivendo i suoi momenti di gloria e le sue crisi identitarie, socialdemocratico, neoliberista, chissà che, ha dismesso quei dirigenti e ne sta, in questi giorni, cercando altri. Nuovi? Reduci della passata politica? Innovatori autentici?
Viene in mente il titolo di un film del ’68 di Lina Wertmüller: Riusciranno i nostri eroi... Altra epoca e le epoche contano. Altra epoca di contraddizioni feroci, ma anche di slanci libertari, democratici (di una democrazia che cercava nella sua imperfezione una propria via alla partecipazione contro i legacci e i limiti istituzionali), riformatori (dal divorzio al diritto di famiglia, dallo statuto dei lavoratori alla 180), altra epoca che si smarrì nei gioiosi anni 80 e nel ventennio berlusconiano. Resta l’interrogativo: riusciranno i nostri eroi?
Le ultime righe della cronaca che Guido Crainz, storico (si leggano i tre volumi che compongono il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, pubblicati da Donzelli), ricostruisce nel suo ultimo Diario di un naufragio (pagine 256, euro 19,50, Donzelli) mi sembrano attestino la difficoltà fino alla disperazione dell’impresa: eredità e detriti della stagione berlusconiana che gravano «come un macigno sulla nostra capacità politica di ricostruire il paese e di progettare». Ammettendo appunto che è impossibile ancora considerare per conclusa la «stagione berlusconiana»: conclusa, come si spera, magari sul terreno politico-elettorale, improbabile che lo sia sul piano della cultura profonda, del costume di un paese.
LA CRITICA AL PD
Il «diario», il «giorno per giorno» di uno storico, cronista, commentatore, riguarda le forze politiche in campo, i loro comportamenti (in tutti i sensi, anche in quello che testimonia la progressione della corruttela, da Tangentopoli al Batman di Anagni, dalle tangenti di Craxi alle condanne di Berlusconi, mentre si vede crescere «la forbice fra i durissimi sacrifici imposti al paese e i perduranti privilegi e sperperi di un sistema politico travolto dagli scandali»), i loro fallimenti. Nella rappresentazione dei fallimenti, senza tregua è la critica al Pd, una insistenza polemica che si comprende da parte di chi sta a sinistra e di chi coltiva attese di cambiamento e di chi pensa o spera che ancora nel Pd vi siano le forze, l’intelligenza, la moralità su cui far leva per interrompere la discesa all’inferno (come sarebbe stato possibile scriveva Crainz proprio nei giorni delle ultime elezioni se il Pd avesse avuto anche il coraggio di una proposta radicale, di «una radicalità senza precedenti» nei contenuti programmatici e nell’alto e nuovo profilo del governo).
Ma nel Diario di un naufragio colpiscono altre note: non tanto quelle che ci restituiscono alcuni diversi frammenti di una storia dell’antipolitica che va, nel dopoguerra, dal qualunquismo di Giannini al «nullismo» di Grillo, quanto quelle che riferiscono di una partecipazione al voto che tocca nel dopoguerra tetti inusuali, anche in Europa, scavalcando l’asticella del 90 per cento e che declina a partire dalle regionali del 1980 fino a precipitare senza sosta sotto la soglia del 50 per cento. Di fronte all’Italia che vota c’è un’altra Italia, ugualmente consistente, tanto varia da diventare inafferrabile: delusa, scoraggiata, indifferente o estranea alla politica, perché semplicemente pensa ad altro, un’altra Italia dentro la quale si è inabissata quella società civile, che ai tempi del «grido» di Nanni Moretti aveva illuso di rappresentare la chiave di volta di una resurrezione-rigenerazione del paese.
Sistema politico e società civile capita che si dividano con pari dedizione le spoglie di pochi valori sopravvissuti e il peso o il vantaggio di tanti peccati (cominciando da una diffusa disponibilità alla corruzione e all’obnubilamento mediatico, al torpore di fronte alle più gravi accuse, minori e prostituzione e persino alle condanne). Quando, in un miracoloso travaso, grazie ad esempio al tragico Grillo, la società civile non si è riversata nel sistema politico, dimostrando adattabilità e nessuna difficoltà ad apprendere. Come se la «mutazione», si fosse del tutto compiuta, senza scampo.
LA MALATTIA DEL BELPAESE
Il Diario di Crainz mi pare dimentichi alcune «voci» nel repertorio dei protagonisti del naufragio, intanto gli intellettuali (un tramonto e basta) e poi la stampa italiana, pesantemente, malinconicamente in deficit di fronte a una missione che le spetterebbe per definizione: informare sullo stato del paese, sulle varie forme, politiche e sociali, in cui la malattia si manifesta, tralasciare le scritture consolatorie quando i buoi scappano, ignorare gli amori di Dudù per la barboncina bianca di Palazzo Grazioli quando in «terra dei fuochi» i bambini muoiono di cancro. Restituire davvero al Belpaese Benpensante l’immagine della tragedia che incombe, naufragio, terremoto, frana, allagamento o veleno, per mare e terra, politica e morale, immagine da fine del mondo. Non ci rimarrebbe una speranza in più se almeno un foglio, dalle tirature potenti, avesse rivendicato autonomia di fronte ai suoi padroni, avesse alzato qualche velo, sostenuto qualche battaglia (magari per difendere il semplice principio che la legge è uguale per tutti)?
Facciamoci del male
La sinistra, B. e la sindrome del “che sarà mai?”
di Furio Colombo (il Fatto, 17.11.2013)
A quanto pare è accaduto qualcosa di strano, pericoloso, forse di mostruoso a sinistra. Sentite:
“Una metamorfosi psicologica prima ancora che ideologica ha condotto la sinistra ad albergare in sé un sentimento di purezza morale, capace di erigere un muro fra sé e l’avversario. E ci fa vedere come questa pretesa di superiorità, che confonde l’etica e la politica come in un gioco delle tre carte, non può che avere trasformato la sinistra in una grande forza conservatrice, custode di valori nobili ma immutabili nel tempo, indiscutibili, impermeabili al cambiamento. Questa catastrofe intellettuale della superiorità ha trovato impulso finale con l’avvento di Berlusconi.
Noto con piacere che entra nella lunga lista dei sintomi di questa specie di malattia mentale collettiva anche il verbo ‘resistere’ svuotato di ogni credibilità da un uso davvero dissennato. (...)
La più profonda verità morale che si possa cavare dagli ultimi vent’anni è che Berlusconi è sostenibilissimo. Di certo, perlomeno, non fa parte di quella melassa di opinioni, buoni sentimenti e inani risentimenti prodotta da un ambiente intellettuale talmente separato dal mondo da essersi persuaso di vivere sotto il tallone di una dittatura”.
HO CITATO Emanuele Trevi, che recensisce Francesco Piccolo (il Corriere della Sera, 28 ottobre 2013) che ha scritto un libro, molto citato e molto lodato che si intitola Il desiderio di essere come tutti (Einaudi). “Tutti”, ci spiega il saggio-romanzo di Piccolo, sono coloro che non si fasciano la testa per Berlusconi.
Voglio essere preciso. La recensione è cattiva (non una cattiva recensione; cattivo, aggressivo, sprezzante è il sentimento). Il libro è lieve, elogia la spensieratezza, è molto ben scritto, ma con un curioso intreccio tra “lasciatemi in pace” e “purezza”, dove la “purezza” è la pretesa di superiorità della sinistra.
Superiorità su che cosa? Le origini della ricchezza di Berlusconi? Gli amici di Berlusconi? I reati di Berlusconi? Le vanterie private di Berlusconi? Qui mancano dettagli che sarebbero preziosi.
Comunque, letto da uno svedese, Berlusconi, in questo libro, è simpatico, apre e riempie di luce la Reggia di Caserta (così l’autore ricorda la prima apparizione del leader), induce una ragazza, davanti al televisore acceso della notte elettorale e in mezzo alla folla vociante di “menagrami e moralisti” (le parole sono di Trevi, nella recensione, ma il senso è nel libro di Piccolo) a dire, forte, allegra, sorseggiando il suo vino “va bene, che sarà mai, Berlusconi ha vinto le elezioni e governerà, cosa può succedere?”.
Seguendo la narrazione, avete l’impressione che in mezzo alle scenate isteriche e collettive di una sinistra “la cui principale occupazione è stata sempre quella di tracciare confini”, stesse formandosi un piccolo gruppo sereno di persone normali che, Berlusconi o non Berlusconi (che sarà mai), sceglie la vita, la felicità.
Il fatto è che quasi all’istante tutto ciò che restava della sinistra si è schierata con la ragazza “che sarà mai”. Posso testimoniarlo, avendo partecipato a tre legislature: Ero fra i contaminati dalla “purezza”, perché i reati di Berlusconi e il suo prevalere con truffa, evasione, rapporti oscuri (le contiguità e convivenze mai spiegate) compravendita di giudici e senatori, non mi piacevano.
E mi è subito stato detto - prima con bonarietà, e poi con severa esclusione da ogni discorso a nome del gruppo Pds, poi Ds, poi Pd - di smetterla con l’antiberlusconismo viscerale, ovvero ogni “attacco manicheo” ai nostri avversari che, dopo tutto avevano vinto.
La frase chiave del Pds, Ds, Pd (ovvero dei gruppi parlamentari di cui facevo parte) è stata subito “Che sarà mai?” nella nuova e più severa versione: “Non lo vedi che lui ha catturato lo spirito della modernità e voi (menagrami e moralisti) la menate ancora con questa storia della superiorità morale?”.
Quando dirigevo l’Unità (2001-2005) ricevevo una lettera al giorno di autorevoli personaggi che erano stati nella direzione politica prima del Pds, ed erano nella direzione politica dopo la nascita del Pd, con frasi pedagogicamente severe come questa: “Sentir parlare di regime mi fa venire l’orticaria”.
Tutto il resto sull’umore delle gerarchie Pd, irritate da ogni sintomo di opposizione e decise a convivere serenamente con il “regime”, lo trovate nel libro di Francesco Piccolo, da pag. 159 a pag. 261.
Gli argomenti, non la storia, che nel libro di Piccolo è gradevole. Ma gli argomenti me li sono sentiti ripetere quasi alla lettera per un intero periodo di direzione dell’Unità (che evidentemente appariva troppo aggressiva) e per tre legislature. Adesso capisco che il libro di Piccolo è il manifesto della maggioranza di ciò che al momento puoi chiamare, per convenzione (almeno in Parlamento), tutta la sinistra.
Due eventi guastano un po’ la festa Piccolo-Trevi, improvvisata per non dover sentire, neppure da lontano e senza microfono, le voci, ormai in disuso, di “menagrami e moralisti”.
Uno è l’insistenza con cui Stefano Meni-chini, direttore di Europa, vuole sapere chi e come ha organizzato da un momento all’altro l’aggregazione detta “grandi intese” al punto da mettere in scena, compatti, i 101 che abbattono Prodi (che sarà mai) e aprono la strada al governo Letta-Alfano, ovvero Pd-Berlusconi.
L’altra è il grido del presidente della Repubblica che, il giorno della visita del Papa, manda un messaggio, che rivela il peso di una grande tensione. Grida “Dialogo, dialogo, dialogo”, rifacendo, non so se con intenzione, in versione opposta, l’esortazione del procuratore Borrelli di Milano che concluse il suo discorso di commiato con le parole (tanto irrise da Trevi) “Resistere, resistere, resistere”.
Tutto ciò per dire che - tranne Francesco Piccolo e il suo recensore Trevi - “tutti” non sono felici, benché sollevati dalla “superiorità” e dalla “purezza” e, finalmente, alleati di Berlusconi. I leader Pd lottano tra loro (ma ai piani bassi), i militanti sfollano. E gli altri, che si credevano di sinistra, sono incerti, confusi, ribelli senza causa, senza lavoro e senza partito. Si sentono abbandonati in strada come i cani di Ferragosto.
I maestri dalla penna nera
Quando la stampa italiana si convertì al fascismo
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 29-02-2012)
Esce da Carocci un saggio che per la prima volta approfondisce il rapporto tra giornalisti italiani e regime fascista, e la loro transizione al postfascismo, rovesciando la memorialistica autoassolutoria di quei padri nobili. Un volume serio e documentato che senza accenti scandalistici ci mostra quanta parte ebbero le grandi firme nella "defascistizzazione del fascismo", ossia nella rappresentazione banalizzante e indulgente del ventennio nero finalizzata ad annacquare non solo il carattere della dittatura ma anche le responsabilità dei nuovi professionisti delle comunicazioni di massa.
L’autore di Giornalisti di regime (pagg. 278, euro 23) è un giovane allievo di Emilio Gentile, Pierluigi Allotti, che sulle tracce di Ruggero Zangrandi e soprattutto di Enzo Forcella ci fornisce una fotografia dei nostri avi che non è una campionatura luminosa di figure epiche ma il conturbante ritratto d’una categoria pronta a mettere il proprio talento al servizio di Mussolini, per distaccarsene solo davanti all’esito catastrofico della guerra. Prìncipi della penna fulminei nell’indossare la camicia nera, ma nel dopoguerra operosi e indenni sulle prime pagine della stampa indipendente. Per raccontarci come il fascismo fosse stato un regime da operetta.
Attori principali di questo saggio sono i giornalisti di due generazioni, quella dei nati intorno al 1890 e la classe del 1910, ossia la leva dei "padri" e dei "fratelli maggiori" che scelsero di continuare a primeggiare sui giornali - oppure di esordire nel mestiere - nel pieno del fascismo. Giornalisti, dunque, che avevano l’età e gli strumenti per comprendere la natura illiberale del regime in cui vollero - e seppero - diventare firme da prima pagina. Nel primo gruppo sfilano personalità come Mario Missiroli e Giovanni Ansaldo, Paolo Monelli e Augusto Guerriero.
Nel secondo ci imbattiamo nelle penne di Vittorio Gorresio e Indro Montanelli, Guido Piovene e Luigi Barzini junior, Vitaliano Brancati e Dino Buzzati. Mancano in questa ricognizione sulla carta stampata dell’epoca - e può sorprendere - i nomi di Mario Pannunzio ed Arrigo Benedetti, esclusi da Allotti perché artefici di settimanali e non "opinion makers" dei grandi quotidiani. Scelta un po’ arbitraria perché anche rotocalchi come Oggi contribuirono a fare opinione. E fu per anticonformismo che Mussolini ne decretò la morte nel gennaio del 1942.
L’inclusione di Oggi ed anche di altre testate avrebbe fatto fare miglior figura alla famiglia del giornalismo italiano. Una brigata di talentuosi che - salvo alcune eccezioni, da Mario Borsa a Luigi Albertini, da Alfredo Frassati ad Alberto Bergamini e Mario Vinciguerra - di fronte all’avanzata del fascismo «quasi si compiacque di perdere la propria indipendenza», come sintetizza Aldo Valori, all’epoca capo della redazione romana del Corriere della Sera. In qualche caso il cambio di bandiera fu clamoroso. Corrado Alvaro, firmatario del manifesto di Croce, avrebbe celebrato la bonifica dell’Agro Pontino «come un simbolo della rigenerazione nazionale promossa dal fascismo». E il critico Emilio Cecchi, anche lui partito da posizioni antifasciste, durante la campagna razziale tra l’estate e l’autunno del 1938, scrisse sul Corriere una serie di articoli dagli Stati Uniti per dimostrare come "razzismo" e "antisemitismo" fossero giustificatamente presenti nella società americana.
Quella contro gli ebrei fu una delle pagine in cui il giornalismo italiano - e la quasi totalità dell’élite intellettuale - diede il peggio di sé. Giovanni Ansaldo, nell’autunno del 1938, produsse veementi articoli contro "l’ebreo Morghentau" (Segretario al Tesoro degli Stati Uniti), accusato di aver ereditato "la cupidigia esosa di generazioni di strozzini". E Mario Missiroli, il "grande mago del giornalismo italiano", accolse con grandi plausi sul Messaggero la bibbia dell’antisemitismo Contra Judaeos di Telesio Interlandi, spalleggiato dal concorrente Guido Piovene che sul Corriere della Sera tesse le lodi dell’orribile summa, riconoscendole il merito di essere "il miglior libro uscito sull’argomento". Anche un inviato leggendario quale Paolo Monelli - stimato dai colleghi per cultura e rigore - nella primavera del 1939 si distinse per una corrispondenza da Varsavia impregnata di giudizi antiebraici. Singolare cedimento per un giornalista che in precedenza aveva dato mostra di non condividere la campagna antisemita.
Ma il terreno in cui "i militi della carta stampata" - così li celebrava il duce - poterono agitare il turibolo con maggiore plasticità furono le imprese belliche del fascismo. Prima in Etiopia, poi in Spagna, più tardi nel Mediterraneo, nei Balcani e in Africa settentrionale, infine in Russia. I protagonisti di queste guerre furono i giornalisti arruolati nei vari reparti.
Nel 1935 partirono volontari due direttori, Aldo Borelli del Corriere della Sera e Francesco Malgeri del Messaggero. Gli inviati Barzini junior e Alfio Russo celebrarono in ampie corrispondenze le prime brillaPer creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote) nti vittorie degli italiani, ritratti come "virtuosi colonizzatori" di un popolo sostanzialmente troglodita. L’arte dell’epinicio fu affinata in Spagna, dove i giornalisti - in mancanza di pagine gloriose da raccontare - venivano sollecitati a esercitare la propria fantasia.
Se l’inviato del Corriere Achille Benedetti si limita a ignorare la sconfitta di Guadalajara, Barzini senjor sul Popolo d’Italia fa molto di più, incensando la drammatica avventura dell’eroico legionario che resiste al contrattacco nemico nascondendosi per tre giorni in una botte. L’inventiva di Barzini, nutrita di letture classiche, procura un attacco di allergia al direttore del Corriere, che mortifica il suo cronista facendogli recapitare sul fronte "il bellissimo scritto" della concorrenza. Ma nel descrivere i nemici repubblicani come "combattenti pavidi", "capaci delle peggiori brutalità", si distinsero altre due firme, quelle di Indro Montanelli e Guido Piovene, assai efficaci nell’esaltare le imprese dei legionari italiani contro autentici "criminali dalle facce bestiali". Seppure con qualche insofferenza, l’intonazione non muterà nel corso del secondo conflitto mondiale.
La parte più interessante del saggio riguarda ciò che accadde all’indomani del crollo del regime fascista, nell’estate ti indica del 1943. Con la medesima disinvoltura con cui era traslocata dall’antifascismo al fascismo, l’élite giornalistica italiana cominciò a fare il percorso inverso. All’esame di coscienza si preferisce la scorciatoia della colpa collettiva. Allotcome esemplare il caso di Monelli. Per le sue compromissioni con il regime, il nuovo direttore del Corriere della Sera Ettore Janni, subentrato dopo il 25 luglio, gli chiede con garbo una temporanea sospensione nella collaborazione. Monelli non la prende bene. «E i colleghi che hanno divinizzato uomini e fatti del regime? E i redattori ligi agli ordini di Roma che bocciavano o castravano o lardellavano di aggettivi le mie corrispondenze?». Le sue responsabilità, rispetto al servilismo diffuso, gli paiono poca cosa. Lo stesso genere di argomenti ricorre nell’autodifesa di tante firme illustri. Un’autoassoluzione granitica, che non ammette crepe.
Molti di loro avrebbero presto riconquistato le prime pagine della stampa libera, confluendo in larga parte in una zona politica di moderatismo prossima alla Democrazia Cristiana. E poi la memorialistica. Da Piovene a Montanelli, definito "il giornalista che più contribuì alla defascistizzazione del fascismo", fu tutt’un proliferare di testimonianze indulgenti che fecero calare il sipario sulle compromissioni di "padri" e "fratelli maggiori". La rimozione è destinata a segnare parte delle generazioni successive, quella viziata da "una concezione del potere politico" - lo rilevò Forcella - come qualcosa di "ineluttabile" e "pericoloso", verso il quale è consigliabile la remissività. Una distorsione che - se colpisce ma è interpretabile sotto una dittatura - in democrazia appare ancora meno tollerabile.
Servi, per libera scelta
Pubblichiamo la prefazione dell’edizione inglese de “La libertà dei servi” di Maurizio Viroli, che uscirà nei prossimi giorni con il titolo “The Liberty of Servants” per la Princeton University Press.
di Maurizio Viroli (il Fatto, 06.09.2011)
L’opinione pubblica di lingua inglese ha già un’immagine abbastanza precisa dell’Italia di Berlusconi. Studiosi e giornalisti hanno accuratamente descritto e spiegato che il sistema di potere berlusconiano non ha né precedenti né equivalenti nella storia dei paesi liberali e democratici Mai un uomo con tanto potere - fondato sul denaro, sulla proprietà dei mezzi di comunicazione di massa e sul controllo di un partito composto da persone a lui devote - è stato in grado di diventare per tre volte capo del governo e di conservare per quindici anni una posizione dominante nel sistema politico e nella vita sociale di un paese democratico.
A RAGIONE, l’opinione pubblica internazionale si preoccupa per questo esperimento politico italiano, anche se spesso lo considera come un ennesimo esempio di carnevalate e di corruzione politiche. I commentatori hanno infatti insistito sui più vergognosi aspetti del regime berlusconiano quali le leggi per proteggerlo dalla giustizia; la sua determinazione nel sostenere la corruzione politica (il suo vecchio sodale Cesare Previti è stato condannato per corruzione di giudici); le sue connivenze, sempre a loro giudizio, con la criminalità organizzata; il suo aperto disprezzo per la magistratura e per la Corte costituzionale che egli considera inaccettabili limitazioni del suo potere basato sul consenso popolare; i vari scandali sessuali che hanno fatto parlaredi“governodelleputtane” e “stato-bordello”; la sua amicizia con leaders impresentabili quali Putin e Gheddafi. In questo saggio cerco di capire in maniera più precisa questo nuovo, ambiguo, tipo di potere politico nato non contro, ma all’interno delle istituzioni politiche democratiche, e sostengo che si tratta di una degenerazione della democrazia nel potere di un demagogo che controlla una massa addomesticata dai suoi mezzi di comunicazione di massa. Come i demagoghi dell’antichità e dell’età moderna, Berlusconi ha dimostrato fin dagli inizi della sua carriera politica una notevole capacità di affascinare la ‘gente’ con tecniche teatrali che mirano ad esaltare la sua immagine e ha dato ripetutamente prova di saper ottenere il consenso dicendo ai cittadini quello che essi vogliono ascoltare. A differenza di quasi tutti i demagoghi, tuttavia, Berlusconi è ricchissimo e usa il suo denaro per comprare le persone, come abbiamo visto, a parere dei commentatori, nelle ultime settimane del 2010 e nelle prime del 2011 quando la sua maggioranza parlamentare ha rischiato di dissolversi. In circostanze più normali della vita politica egli usa il suo denaro, direttamente o indirettamente, per distribuire favori di varia natura e valore, dai posti lucrativi ai regali. In questo modo ottiene la lealtà di un gran numero di persone. Si potrebbe sostenere che Berlusconi ha istituito un’oligarchia all’interno del sistema democratico.
Ma è anche vero che il regime di Berlusconi presenta aspetti che i filosofi politici hanno bollato come tirannide, non nel senso di un potere imposto e conservato con la violenza, ma nel senso di una “tirannide velata”, simile a quella che i Medici costruirono a Firenze. In effetti, come ogni tiranno, anche Berlusconi mira in primo luogo a conservare ed accrescere il suo potere e a proteggere i suoi interessi. Inoltre, come già osservava Norberto Bobbio, Berlusconi ha la tipica mentalità del tiranno. Ritiene infatti che a lui tutto sia lecito, compreso avere tutte le donne per sé, e più giovani sono meglio è. Se lo esaminiamo con l’aiuto dei concetti classici del pensiero politico, il potere di Berlusconi può essere definito come una combinazione originale delle tre forme corrotte di governo: la demagogia, la tirannide e l’oligarchia. È un esempio davvero eloquente della creatività politica italiana, ma è soprattutto un’ulteriore prova di un altro carattere distintivo della storia italiana, vale a dire la nostra cronica incapacità di difendere efficacemente la libertà.
LE LIBERE REPUBBLICHE del tardo Medio Evo non seppero proteggersi dalla tirannide e dal dominio straniero; lo Stato liberale nato dal Risorgimento nel 1861 è stato distrutto cinquant’anni dopo dal fascismo; la repubblica democratica nata il 2 giugno 1946 sulle ceneri del fascismo è degenerata nel sistema berlusconiano. Il paese della libertà fragile, ecco quale potrebbe essere un’appropriata caratterizzazione politica dell’Italia. Come sostengo in questo libro, la semplice esistenza dell’enorme potere di Silvio Berlusconi rende gli italiani non liberi, o meglio liberi, ma nel senso della libertà dei servi, non della libertà dei cittadini. La mia tesi si basa sul concetto di libertà politica elaborato dai filosofi e dai giuristi classici e moderni che hanno spiegato assai bene che essere liberi non vuol dire poter fare più o meno quello che vogliamo, ma essere non essere sottoposti al potere enorme o arbitrario di un uomo o di alcuni uomini. La ragione la capisce anche un bambino: se un uomo ha un potere enorme, può facilmente usarlo per imporre la sua volontà e dunque ridurre i cittadini in condizione di servitù.
Egli può inoltre creare intorno a sè una corte formata da un numero più o meno grande di individui che dipendono da lui per favori, denaro, onori e fama. Anche se il regime di Berlusconi è certo una letale mistura di oligarchia, demagogia e tirannide, il nome che megliolocaratterizzaèsistemadicorte . Berlusconi è un nuovo signore. Come ho osservato all’inizio, è del tutto comprensibile che l’opinione pubblica di lingua inglese consideri Berlusconi un’altra stravaganza italiana. Eppure, per quanto possa apparire del tutto improbabile, i suoi potrebbero trovare imitatori in altri paesi democratici. Nessun sistema democratico è immune dal potere combinato del denaro, dei media e della demagogia. I leaders e i cittadini dei paesi liberi dovrebbero fare tesoro degli errori degli italiani e preparare per tempo le difese contro il formarsi e il consolidarsi di poteri enormi.
Zagrebelsky e C.
Non date la colpa al Papa
di Lucia Ceci (il Fatto/Saturno, 08.07.2011)
LA FINE DI UNA stagione si consuma sempre con una resa dei conti: chi è stato responsabile di cosa. Negli italici confini del secolo breve è capitato almeno tre volte: Caporetto, 8 settembre, tangentopoli. Il redde rationem investe le persone, i fatti, le cose. Ma gli intellettuali sono interessati anche ad altro: le cause. Accade dunque, nel crepuscolo del berlusconismo, che i professionisti dell’analisi di lungo periodo si adoperino per individuare il vizio d’origine di tanto sfa-celo. E poiché la scena, con le notti di Arcore, si consuma su un terreno etico in cui il privato si mesce col pubblico e ha il volto seducente e da tutti decifrabile di una prostituta minorenne, appare naturale chiamare in causa l’azionista di maggioranza dell’ethos pubblico italiano: la Chiesa cattolica.
In questi mesi di crisi torna a riaffacciarsi il teorema che evoca la presenza del papato nel territorio nazionale quale forza fiaccatrice degli anticorpi civili : dal fascismo a Scilipoti, passando per l’evasione fiscale, la corruzione, il bunga-bunga. Così, più che in altri momenti, ci troviamo a imparare da Ezio Mauro come, nello sfacelo delle istituzioni democratiche, la «riconquista» dei vescovi sia «quasi un Dio italiano che cammina, una sorta di via italiana al cattolicesimo».
E contemporaneamente ci imbattiamo nel dito di Gustavo Zagrebelsky, puntato contro «l’enorme concentrazione di potere mondano» di cui la Chiesa dispone. E nei suoi profetici richiami perché essa si purifichi dai beni della terra e dal potere sulla terra. Pena la salvezza della laicità e, dunque, della democrazia. Una Chiesa di santi. Una laicità senza se e senza ma.
Eppure non si può mettere sulle spalle di Pietro il peso dei guasti della democrazia in Italia. Ora è vero che la gerarchia cattolica ha rinunciato da troppo tempo a parlare di Dio. E sente piuttosto il dovere di intervenire su temi lontani dalle Sacre Scritture e dalle vite concrete delle donne e degli uomini. Che vuole raggiungere direttamente il legislatore nelle pieghe di un tessuto politico fragile e gregario. Ma non si può ignorare che l’essere cattolici si riduce all’esser stati battezzati, che i vescovi orientano sempre meno le menti, le scelte morali, le decisioni elettorali degli italiani. La longa manus della Chiesa (così la chiamano Mauro e Zagrebelsky) riesce solo a muovere un ceto politico impegnato nella spartizione di prebende, il cui cinismo resiste ai colpi di ogni indignazione.
Da parte mia mi sottrarrei volentieri al compito di individuare il germe che fornisce la cifra specifica del deficit di etica pubblica nell’Italia di oggi. Perché non sono capace di fare un ragionamento semplificato. Avrei bisogno di tirare in ballo crisi del sistema dei partiti, mutamenti di assetti internazionali, tradizioni civiche, culture politiche, guelfi e ghibellini. E il ragionamento sarebbe meno incalzante. Una cosa però la voglio dire.
Se proprio non posso sottrarmi alla semplificazione tirerei in ballo il tradimento delle élites democratiche e delle forze politiche che dal 1994 in avanti le hanno rappresentate. Perché in 17 anni di berlusconismo hanno guidato il Paese per 101 mesi, cioè 8 anni e mezzo, se mettiamo insieme i governi Dini, Prodi, D’Alema, Amato. Perché il loro narcisismo etico - per usare una categoria centrale nell’ultimo libro di Franco Cassano, L’umiltà del male - il loro atteggiamento di superiorità morale le ha rese incapaci di una mobilitazione in grado di innervare la politica.
Se il Grande Inquisitore è riuscito ad avvelenare i pozzi non è solo per la sua potenza, ma anche perché il campo gli è stato lasciato libero dalla presunzione di quelli che Dostojevski nella sua Leggenda chiama i dodicimila santi.
Gian Enrico Rusconi
Le critiche agli intellettuali italiani dello storico torinese che ormai vive in Germania
"Dagli anni Novanta la nostra cultura ha smesso di esercitare fascino e si è sbriciolata"
"Eravamo un laboratorio politico oggi abbiamo solo star e imitatori"
"Ad un certo punto la mia generazione sentì che era arrivata la sua occasione: ma abbiamo fallito, non capendo la socialdemocrazia"
"È mancata una riflessione seria sulla nazione, liquidata con critiche superficiali E siamo stati incapaci di guardare alla politica estera"
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 30.05.2011)
TORINO. «No, il mio non è un esilio», dice Gian Enrico Rusconi, 73 anni, studioso dal profilo inusuale che incrocia storiografia e scienza politica, autore di libri su Weimar, sulla grande guerra, più recentemente su Cavour e Bismarck, brianzolo di nascita e torinese di adozione, da cinque anni residente a Berlino con un incarico alla Freie Universität. «Mi sento parte del nostro Paese, e il mio trasloco in Germania non deve essere frainteso con una fuga. Semmai patisco la tristezza di essere italiano, una condizione condivisa da molti connazionali».
Perché è triste essere italiani?
«Il berlusconismo ci espone al sarcasmo, questo è risaputo. Ma la mia impressione è che, al di là delle star come Eco, Magris o Abbado, la cultura italiana abbia smesso di essere interessante. Come se non avessimo più niente da dare. La mia esperienza riguarda il rapporto con la Germania, ma temo che le nostre relazioni culturali siano cambiate anche altrove. Fino a qualche tempo fa i nostri seminari erano affollati dai Winckler e dai Nolte, insomma dai maggiori storici tedeschi. Ora non siamo più Gesprächspartner, dei veri interlocutori, compagni di pensiero e di confronto».
Quando abbiamo smesso di esserlo?
«Negli anni Novanta s’è come sbriciolato lentamente e irreversibilmente un mondo intellettuale e politico che aveva esercitato fascino in tutta Europa. Abbiamo cominciato a ripeterci. Siamo diventati epigoni. Il berlusconismo è la fenomenologia di questa decomposizione, non la causa. Ancora negli anni Ottanta da Berlino si guardava all’Italia come a un laboratorio politico e intellettuale. Tutta la cultura tedesca, non solo la sinistra, seguiva la nostra riflessione su Gramsci, sull’eurocomunismo, sulla socialdemocrazia. Oggi siamo i maggiori esportatori della postdemocrazia: la novità che offriamo de facto è il populismo mediatico, una novità che fa paura».
Qual è stata l’occasione mancata?
«Posso riferirle la mia esperienza personale, di provinciale torinese affascinato da Roma e dalle sue seduzioni intellettuali. Tra gli anni Settanta e Ottanta mi capitava di andarci con una certa frequenza: forse un po’ la sopravvalutavo, più tardi ne avrei visto tutti i limiti. Era la Roma dei Lucio Colletti e degli Enrico Filippini, grandi personaggi che non mi risparmiavano il loro sarcasmo».
Filippini scrisse di lei che pur avendo una formazione tedesca era uno «studioso calmo», lontano dalla concitata tenebra di quella tradizione.
«Mah, chissà cosa avrà voluto dire. Provenivo da studi filosofici, la mia tesi riguardava la Scuola di Francoforte. Nel 1959 m’ero imbattuto nel libro che mi avrebbe cambiato la vita, Minima Moralia. Al principio della nostra amicizia, Colletti che era un marxista ortodosso ironizzava sulla mia ossessione francofortese, più tardi mi avrebbe riconosciuto che avevo visto un sacco di cose».
Questo però non c’entra con l’occasione mancata della cultura italiana.
«È interessante per il clima di quegli anni. Per me è stata paradigmatica la vicenda di Laboratorio Politico, la rivista einaudiana fondata nell’81 da Asor Rosa e Tronti e alla quale parteciparono personalità di ispirazione diversissima come Amato, Rodotà, Cacciari, Accornero, Bodei e Tarantelli. Eravamo un gruppo eterogeneo, ma molto ben amalgamato, all’incrocio tra discipline diverse come la politologia, la teoria delle istituzioni, la sociologia. Avevamo come la sensazione che fossimo alla vigilia di una svolta che però poi non c’è stata».
Che cosa doveva accadere?
«Doveva nascere una sinistra più matura e consapevole, concretamente riformista, che tuttavia non è mai nata. In quel momento la mia generazione inconsciamente sentiva che era arrivata la sua chance: era solo una questione di tempo e congiuntura. Non ce l’abbiamo fatta. Laboratorio politico si sciolse spontaneamente, un atto onesto, come se riconoscessimo il nostro fallimento».
Secondo lei perché non ha funzionato?
«È mancata una riflessione seria sulla nazione, liquidata con critiche superficiali. Non siamo riusciti a sottrarre la nozione di socialdemocrazia dal tabù che l’avvolgeva (socialdemocratico è rimasto a lungo un termine offensivo). E non abbiamo fatto nei tempi giusti quel che si sarebbe chiamato il revisionismo, ossia mettere a fuoco una visione meno mitica e più autocritica della Resistenza. Operazione culturale che sarebbe stata fatta malamente nel decennio successivo, sotto la spinta della seconda Repubblica. Le tesi di Renzo De Felice sul consenso e sull’attendismo furono prese di punta. Alla discussione si preferì l’aggressione. Lo ricordo sorpreso e amareggiato: s’aspettava di essere riconosciuto, non attaccato».
Ma De Felice aveva un doppio profilo: lo storico si distingueva dal personaggio, che cominciò proprio alla metà degli anni Ottanta a rilasciare interviste politiche.
«Sì, ma la demonizzazione di De Felice è stato un errore colossale. Ne è nato un defelicismo deteriore che ha fatto danno. Ne parlai all’epoca anche con Bobbio, che reagiva con il suo stile elusivo. Però sono sicuro che condivideva i miei argomenti, anche se i suoi allievi cercavano di tirarlo dalla loro parte. Prova ne sia che Bobbio e De Felice, pur nella netta distinzione, non hanno mai giocato l’uno contro l’altro».
Lei invece discusse con Bobbio a proposito dell’azionismo, accusato di una sorta di «esilio interno».
«Rilevavo una dimensione aristocratica della tradizione azionista, ma ad avercene oggi... Preferirei non aprire quella pagina. Mi fece molto male e, a distanza di vent’anni, non l’ho ancora capita. Penso che si sia trattato di un equivoco, e non mi furono risparmiate cattiverie: non da Bobbio, ma dai bobbiani».
Questa sulla nazione è una sua riflessione ricorrente. Lei critica l’intera intellighenzia italiana di aver snobbato il tema nazionale, riservandogli critiche frettolose.
«Sì, per motivi diversi. La cultura italiana è stata sensibile ad altri paradigmi ideologici, preda di una sorta di ossessione del fascismo e incapace di distinguere nazionalismo e sentimento nazionale. Lo denunciai al principio degli anni Novanta, quando la coesione nazionale m’apparve sfilacciata. Credo di essere stato tra i primi a domandarsi se esistevamo ancora come nazione. La mia attenzione al fenomeno leghista fu liquidata come un’ossessione da provinciale brianzolo. Fui trattato da ingenuo».
Lei in quel saggio premonitore, Se cessiamo di essere una nazione, accusava la «cultura cosiddetta alta» di essere afflitta dal complesso del provinciale rispetto alle grandi culture europee.
«Sì, è vero, gli italiani soffrono d’un complesso d’inferiorità che però è ingiustificato. Siamo molto bravi. Solo che a differenza di inglesi e tedeschi parliamo un dialetto che non capisce più nessuno. È come se ci vergognassimo per non essere stati all’altezza delle altre vicende nazionali, orgogliose nell’esibire i trofei e nascondere i fallimenti. Invece noi siamo grandi nel restituire le nostre debolezze. Per i centocinquant’anni, l’ambasciatore italiano a Berlino ha avuto la splendida idea di proiettare il Gattopardo, che ci racconta nelle nostre contraddizioni e incompiutezze. "Che grande storia, che grande popolo", commentava lo storico tedesco Michael Stürmer seduto vicino a me».
Ma larga parte della storiografia italiana, come lei ha rilevato, nel dopoguerra ha preferito concentrarsi sui fallimenti piuttosto che narrare una storia "affermativa".
«Non c’è dubbio. Con un altro limite, la nostra incapacità di guardare alla politica estera: ci è sempre mancata la lucida consapevolezza della collocazione dell’Italia nel mondo. Non siamo stati in grado di riconoscerne la grandezza, quando c’è stata, preferendo liquidare come Italietta la classe dirigente liberale di fine Ottocento. Ma quale Italietta!». Oggi il problema, discusso anche all’interno, è la mancanza di una comunità di storici capace di elaborare una riflessione sulla storia nazionale, allargando lo sguardo ad altri Paesi. Anche all’Università prevale una tendenza al localismo. «Vero. Mi verrebbe da aggiungere che lo smarrimento è percepibile anche in Germania: la generazione attuale degli storici appare come schiacciata sotto il peso della generazione precedente, che ha fatto i conti con il nazismo. Ma altrove hanno risorse che noi non abbiamo. Hanno un’università che funziona. Hanno una burocrazia efficiente. Hanno un orizzonte internazionale che a noi manca. Il nostro è un Paese declassato. Ed è inevitabile che questo si riverberi anche sulla comunità intellettuale».
Il pensiero sbagliato del signor Berlusconi
Aveva detto che perdere a Milano sarebbe stato “impensabile”.
Il voto dimostra che il premier non conosce la democrazia. E non sa pensare
di Francesca Rigotti, Nadia Urbinati, Nicla Vassallo (l’Unità, 19.05.2011) *
Stabilire che cosa sia o non sia pensabile, o impensabile, è, conveniamolo, cosa da filosofi. O da filosofe, e quindi eccoci. Non è faccenda da venditori di fumo. Nemmeno da stregoni pubblicitari. Col pensiero la filosofia tratta dalla sua nascita e qualcosa da dire su ciò che è pensabile o meno ce l’ha. Limitiamoci a sostenere, con efficace minimalismo, che è pensabile ciò di cui si coglie il significato, che si può comprendere, che costituisce materia di conoscenza; ciò che può essere valutato, opinato, stimato, giudicato, deliberato. A meno di non sposare qualche forma di misticismo, l’impensabile corrisponde evidentemente al contrario del pensabile, ovvero a ciò che è assurdo in quanto incomprensibile e inconoscibile: vi è così un senso in cui l’impensabile non può nemmeno venir valutato, giudicato. «Una città (Milano) non governata da noi (del Popolo della Libertà) è impensabile», ha proclamato il Signor B. pochi giorni fa.
Il Signor B. pensa male, ragiona male. Lui, l’unto del Signore, si trova ora di fronte a un miracolo a Milano, che non è né il film di Vittorio De Sica (benché, filosoficamente, sogniamo col giovane protagonista un luogo dove «buongiorno voglia davvero dire buongiorno», luogo che negli ultimi tempi con Milano non riusciva a coincidere), né con quel non-miracolo che sarebbe dovuto risultare impensabile.
L’impensabile del Signor B. non si è ancora realizzato occorre attendere il ballottaggio; un sorta di miracolo, invece, sì e non ne è lui il fautore. Volendo ricorrere a John Locke, questo miracolo somiglia ad altri che, «quando sono ben testimoniati, non solo trovano credito per se stessi ma danno credito anche ad altre verità che hanno bisogno di tale conferma». Ad altre verità che riguardano da vicino la tenuta del governo, la sua plausibilità, nel nostro caso.
«Un miracolo è una violazione delle leggi di natura», obietta David Hume. Il miracolo a Milano ha però semplicemente violato le leggi dell’insulto, della menzogna, del narcisismo, della propaganda, delle promesse disattese. Un miracolo che attesta l’inizio della fine per il Signor B.? In realtà, è la rivincita della democrazia a attestarlo.
Il Signor B. non condivide nulla con Elisabetta I, mentre “la furberia e la pazzia” di quell’uomo non ha prodotto un evento straordinario: o, forse, sì, nel momento in cui l’impensabile-per-lui si avvicina. Ancora con le parole di Hume, «supponete che tutti gli storici che trattano dell’Inghilterra siano d’accordo nel dire che il 10 gennaio 1600 si ebbe la morte della regina Elisabetta e che tanto prima che dopo la morte essa fu vista dai medici e dall’intera corte, come è d’uso per le persone del suo rango; che il suo successore fu riconosciuto e proclamato dal parlamento; e che, dopo essere rimasta sepolta un mese, sia di nuovo riapparsa, abbia ripreso il trono e abbia governato l’Inghilterra per tre anni. Devo confessare che sarei sorpreso della concordanza di tante strane circostante, ma non avrei la minima inclinazione a credere ad un evento così miracoloso. Non dubiterei della sua pretesa morte e delle altre circostanze pubbliche che la seguirono; affermerei soltanto che la morte si era preteso che fosse tale e che né fu una morte reale, né sarebbe stato possibile che lo fosse. Invano mi obiettereste la difficoltà ed anzi l’impossibilità di trarre in inganno il mondo in un affare di tanta importanza, la saggezza e il solido buon senso di quella famosa regina, col minimo giovamento o col nessun giovamento che essa avrebbe potuto trarre da un così meschino artificio. Tutto ciò mi potrà stupire. Ma io risponderei ancora che la furberia e la pazzia degli uomini sono fenomeni tanto comuni che io preferirei credere che gli avvenimenti più straordinari derivino dal loro concorso».
Lo straordinario rimane lui, il Signor B., e vogliamo tanto che sia cosí: unicamente lui, o lui con pochi, a pensare che la democrazia consista solo nel vincere, e non anche nel perdere. Perché è davvero irragionevole considerare il contrario, e quindi rimane sperabile che gli illogici consistano in una minoranza: diversamente, la nostra sarebbe una società governata da folli, e i tiranni (capaci di concepire solo la vittoria, non la sconfitta) sono, appunto, dei folli.
Un governo che si basa sul consenso libero (ed espresso con voto segreto, ovvero protetto dalle tentazioni di raggiro e ricatto dei furbi) è per necessità un sistema aperto, oltre alla partecipazione, al suo esito. Alternanza democratica significa, appunto, accettare di perdere, sapendo che si tratta di una sconfitta temporanea. La bellezza della democrazia consiste nel fatto di garantire a tutti, al Signor B. incluso, l’opportunità di provare e riprovare. E allora, Signor B., è il caso che lei accetti la possibilità di perdere, poiché così potrà pensare di tornare a battagliare. Occorre pensare. Il pensabile. Ah! Che cosa splendida la democrazia, che non nega a nessuno un posto al sole della speranza!
*
Francesca Rigotti è Professore di Comunicazione Istituzionale all’Università di Lugano:
Nadia Urbinati è Professore di Teoria Politica alla Columbia University;
Nicla Vassallo è Professore di Filosofia Teoretica presso l’Università di Genova
La sparata di Asor Rosa
"Stato d’emergenza per salvare la democrazia"
Ferrara: è golpe. La replica: bisogna reagire
È eversivo invocare l’intervento di polizia e carabinieri? Lo sarei se invocassi la rivolta
Nessuna critica a Napolitano. Dobbiamo accettare o meno la fatalità di un bis del ’22
Berlusconi manda in frantumi le regole e l’assetto democratico e repubblicano
Certo, la mia è una forzatura. Serve a farsi capire meglio e a focalizzare l’attenzione
di Goffredo De Marchis (la Repubblica, 14.04.2011)
ROMA - Per evitare che la storia si ripeta, che l’Italia torni alle condizioni del 1922 (alba del fascismo) o precipiti nella deriva della Germania del ‘33 (avvento di Hitler) Alberto Asor Rosa propone una strada: dichiarare lo stato di emergenza, congelare le Camere, chiamare al governo Carabinieri, Polizia di stato e magistratura. Il professore, ex parlamentare del Pci, descrive il suo progetto in un editoriale sul manifesto di ieri. La democrazia è già collassata, scrive Asor Rosa citando i precedenti del Novecento. Per colpa «di Berlusconi e dei suoi più accaniti seguaci».
L’articolo scatena, com’era prevedibile, Giuliano Ferrara che a Qui Radio Londra attacca a testa bassa accostando impropriamente Eugenio Scalfari e la Repubblica ad Asor Rosa e alla sua tesi: «C’è chi propone il colpo di Stato contro il governo eletto dai cittadini. Asor Rosa spiega con chiarezza un progetto politico che è di Repubblica. Del resto il professore fa parte della cricca di Scalfari». Ribatte a muso duro Asor Rosa: «C’è un’unica cricca lobbistica ed è quella notoriamente guidata dal presidente del Consiglio, ed i pericoli che ha provocato per la democrazia italiana sono pesantissimi». Asor Rosa però conferma la sua assurda exit strategy al berlusconismo. Lui stesso la definisce paradossale: «Pensavo mi chiamasse uno psichiatra, non un giornalista», dice rispondendo al telefono.
Se anche lei sa che il paradosso ha aspetti eversivi perché lo ha scritto? Propone di reagire alle regole calpestate violando tutte le regole. E gli amici del Cavaliere, come Ferrara, ci sguazzano. Bel risultato.
«Da tempo immemorabile Ferrara non rappresenta più nulla. Ma l’alternativa quale sarebbe? Tacere? Il mio ragionamento è chiaro, soprattutto nelle premesse. C’è un’obiettiva frantumazione delle regole ed è opera del capo del governo. L’atteggiamento etico politico di Berlusconi mette in discussione l’assetto democratico e repubblicano. Se tutto questo è vero, e secondo me è vero, bisogna porsi il problema di come se ne esce».
Ma lei immagina una «prova di forza» che è l’opposto della democrazia.
«La mia proposta è una forzatura e le forzature servono a farsi capire meglio. A focalizzare l’attenzione sulle premesse».
Poteva fermarsi a quelle.
«No, anche perché non credo che lo stato d’eccezione sia contro la nostra Costituzione».
Congelare le Camere, affidare i poteri alle forze dell’ordine. Dove ha letto queste cose nella Carta?
«Non sono un costituzionalista ma invito tutti a valutare bene gli articoli 87 e 88 della Costituzione. E a vedere cosa se ne ricava in un momento di rischio della democrazia. Se qualcuno mi dimostra che la democrazia in Italia non è a rischio accetto la confutazione. Altrimenti dobbiamo fare tutto il possibile per evitare il peggio».
Quegli articoli riguardano i poteri del presidente della Repubblica. Napolitano non sta già facendo moltissimo per respingere leggi inaccettabili e comportamenti fuori controllo?
«Non ho nessuna critica da muovere a Napolitano. Ma tutti abbiamo di fronte una responsabilità storica: accettare o meno la fatalità di quello che accade come avvenne nel ‘22 e nel ‘33. La prospettiva politica si è enormemente aggravata. E chiede un impegno che va oltre il semplice accettare o respingere leggi».
Lei soffia sul fuoco, non è anche questo pericolo? Per fortuna sono parole isolate.
«È eversivo, è soffiare sul fuoco invocare l’intervento di Polizia e Carabinieri? Sono organi dello Stato. Sarei eversivo se invocassi la rivolta popolare. Ma non lo faccio. Chiedo solo che la democrazia e lo Stato si autodifendano».
Un uomo con la sua storia di sinistra che invoca i generali. Non è in imbarazzo?
«L’apprezzamento per la polizia e i carabinieri fa parte della maturazione quasi secolare di cui sono portatore».
Una commedia da tre soldi
di Franco Cordero (la Repubblica, 14.04.2011)
Ha dell’allucinatorio il voto con cui la Camera berlusconiana qualifica reato ministeriale l’oggetto della causa postribolare pendente a Milano e intima al Tribunale d’astenersene: vale uno zero giuridico, perché i trecentoventi o quanti siano non hanno il potere che s’illudono d’esercitare; è come se un questore emettesse condanne penali o, arrogandosi funzioni ultraterrene, l’Olonese presidente del Consiglio distribuisse indulgenze à valoir nell’ipotetico purgatorio.
Scene d’una sgrammaticata commedia da due soldi, i cui attori improvvisano. Se la res iudicanda sia reato comune o ministeriale, lo diranno i giudici: data una condanna, l’appellante ripropone la questione; qualora soccomba anche lì, gli resta il ricorso in Cassazione. I cervelloni credono d’avere sferrato un colpo da maestri: «dichiariamo improcedibile l’accusa» (il clou esoterico sta nel predicato), «così il Tribunale, spalle al muro, deve ammettersi incompetente o sollevare un conflitto d’attribuzioni e tutto rimane sospeso». Ogni sillaba manda il suono delle monete false. Gli onorevoli straparlano, ossequenti al regime egomaniaco. Ipse dixit: è ai ferri corti col «brigatismo giudiziario», tale essendo nel suo universo deforme l’idea che la legge vincoli anche l’impunito ricchissimo; castigherà le toghe proterve, bisognose «d’una lezione»; e i famigli rabberciano norme à la carte.
La «sovranità del Parlamento» (i berluscones la vantano almeno due o tre volte pro die) è formula italiota d’una monarchia assoluta prima che s’installino gli embrioni del futuro Stato costituzionale: le attuali Camere sono cassa armonica dell’esecutivo; vi siedono persone ignote agli elettori; le nominano agenti del beneplacito sovrano.
Chiaro quale sia il modello: platee stupefatte dalla droga mediatica forniscono voti; lassù, accessibile soltanto alle baiadere, siede Dominus Berlusco, ogni mattina più ricco (quanto sia disinteressato, attento solo al bene collettivo, fuori della mischia d’affari, lo dicono sordi ringhi con cui accoglie l’estromissione dalle Generali della devota lunga mano Cesare Geronzi). Niente vieta che vecchi organi rimangano, anzi conviene tenerli in piedi, finti vivi, palcoscenico d’una troupe innocua: Sua Maestà ne prende uno o una qualunque nel mucchio e li addobba; voilà, diventano ministri o figure analoghe; gerarchie adoranti esercitano poteri subordinati in conflitto permanente; griglie selettive escludono i diversi.
Tale struttura subpolitica connota un Paese solo geograficamente europeo, dal futuro miserabile perché lo sviluppo economico richiede tensione psichica, cultura, lavoro duro, regole ferme, mentre qui regnano privilegi parassitari, variegato malaffare, gusti fraudolenti, mente corta, animule spente. Confessa una vocazione ministeriale, né punta basso aspirando alla Farnesina, la svelta figliola che, secondo l’accusa, sovrintendeva alle ospiti della reggia: nei dialoghi intercettati coltiva un argot dal percussivo registro turpiloquo; e sotto accusa d’avere gestito prostitute, conferma la candidatura.
Qui s’indigna uno che scrive in décor grammaticale, storpiando impetuosamente i concetti: non marchiamole con quel nome (nei Tre moschettieri Milady porta una P impressa a fuoco sulla spalla); sono damigelle intente allo scramble mondano; è risorsa anche il corpo. Lo stesso maestro pensatore sventola liberalismo sui generis e culto berlusconiano, classico ossimoro del genere «sole nero» o «ghiaccio bollente». Gli aneddoti dicono a che punto siamo nella corsa al Brave New World.
La malattia italiana non risponde più alla solita farmacopea. L’Unico squaglia gravi accuse in falsa ilarità turpiloqua, spaventando persino gli obbligati a ridere. Rebus sic stantibus, è imputato in quattro sedi. Da tre pendenze rognose lo liberano due leggi che le Camere votano sul tamburo, tagliando ancora la prescrizione e seppellendo d’un colpo l’intero processo, appena scadano dei termini. La terza toglie al giudice il vaglio del materiale probatorio offerto dalle parti: se la difesa indica mille testimoni, saranno escussi tutti, in mesi e anni, finché suoni la campana; l’aula chiude i battenti; non se ne parla più.
I giudizi diventano materia volatile: dibattimenti fluviali, processi brevi, larghe sacche d’oblio; fantasie carnevalesche da Nave dei matti? No, leggi italiane. L’ordinaria prassi politica risulta impotente contro l’abuso sistematico, tanto l’ha pervertita Re Lanterna. Temendo la sfiducia, compra degli oppositori (gesto automatico, gli viene naturale: cambiano uniforme, esigono i prezzi, li incassano; il transito non è finito, sappiamo dal coordinatore. La secessione nel Pdl inalberava insegne virtuose ma i bei giochi durano poco. Le anime transumano salmodiando motivi edificanti.
Di questo passo, la legislatura compie l’intero ciclo: tra due anni divus Berlusco s’insedia al Quirinale, portandovi i divertimenti che sappiamo (accadeva sotto Rodrigo Borgia, Sua Santità Alessandro VI; vedi monsignor Iohannes Burckardus, cerimoniere impeccabile e cronista meticoloso nel Liber notarum: domenica sera 31 ottobre 1501 danno spettacolo orgiastico «quinquaginta meretrices honestae»); presiede il consiglio l’attuale guardasigilli, viso spirituale; nella ratio studiorum dei licei appare una nuova materia, Arte dell’osceno. Tale essendo il presumibile futuro, è questione capitale come scongiurarlo: discutiamone perché i tempi stringono; tra poco il fuoco lambirà le polveri (scriveva Walter Benjamin, cultore d’allegorie e metafore).
di Alberto Asor Rosa, (il manifesto, 13.04.2011)
Capisco sempre meno quel che accade nel nostro paese. La domanda è: a che punto è la dissoluzione del sistema democratico in Italia? La risposta è decisiva anche per lo svolgimento successivo del discorso. Riformulo più circostanziatamente la domanda: quel che sta accadendo è frutto di una lotta politica «normale», nel rispetto sostanziale delle regole, anche se con qualche effetto perverso, e tale dunque da poter dare luogo, nel momento a ciò delegato, ad un mutamento della maggioranza parlamentare e dunque del governo?
Oppure si tratta di una crisi strutturale del sistema, uno snaturamento radicale delle regole in nome della cosiddetta «sovranità popolare», la fine della separazione dei poteri, la mortificazione di ogni forma di «pubblico» (scuola, giustizia, forze armate, forze dell’ordine, apparati dello stato, ecc.), e in ultima analisi la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire?
Io propendo per la seconda ipotesi (sarei davvero lieto, anche a tutela della mia turbata tranquillità interiore, se qualcuno dei molti autorevoli commentatori abituati da anni a pietiner sur place, mi persuadesse, - ma con seri argomenti - del contrario). Trovo perciò sempre più insensato, e per molti versi disdicevole, che ci si indigni e ci si adiri per i semplici «vaff...» lanciati da un Ministro al Presidente della Camera, quando è evidente che si tratta soltanto delle ovvie e necessarie increspature superficiali, al massimo i segnali premonitori, del mare d’immondizia sottostante, che, invece d’essere aggredito ed eliminato, continua come a Napoli a dilagare.
Se le cose invece stanno come dico io, ne scaturisce di conseguenza una seconda domanda: quand’è che un sistema democratico, preoccupato della propria sopravvivenza, reagisce per mettere fine al gioco che lo distrugge, - o autodistrugge? Di esempi eloquenti in questo senso la storia, purtroppo, ce ne ha accumulati parecchi.
Chi avrebbe avuto qualcosa da dire sul piano storico e politico se Vittorio Emanuele III, nell’autunno del 1922, avesse schierato l’Armata a impedire la marcia su Roma delle milizie fasciste; o se Hinderburg nel gennaio 1933 avesse continuato ostinatamente a negare, come aveva fatto in precedenza, il cancellierato a Adolf Hitler, chiedendo alla Reichswehr di far rispettare la sua decisione?
C’è sempre un momento nella storia delle democrazie in cui esse collassano più per propria debolezza che per la forza altrui, anche se, ovviamente, la forza altrui serve soprattutto a svelare le debolezze della democrazia e a renderle irrimediabili (la collusione di Vittorio Emanuele, la stanchezza premortuaria di Hinderburg).
Le democrazie, se collassano, non collassano sempre per le stesse ragioni e con i medesimi modi. Il tempo, poi, ne inventa sempre di nuove, e l’Italia, come si sa e come si torna oggi a vedere, è fervida incubatrice di tali mortifere esperienze. Oggi in Italia accade di nuovo perché un gruppo affaristico-delinquenziale ha preso il potere (si pensi a cosa ha significato non affrontare il «conflitto di interessi» quando si poteva!) e può contare oggi su di una maggioranza parlamentare corrotta al punto che sarebbe disposta a votare che gli asini volano se il Capo glielo chiedesse. I mezzi del Capo sono in ogni caso di tali dimensioni da allargare ogni giorno l’area della corruzione, al centro come in periferia: l’anormalità della situazione è tale che rebus sic stantibus, i margini del consenso alla lobby affaristico-delinquenziale all’interno delle istituzioni parlamentari, invece di diminuire, come sarebbe lecito aspettarsi, aumentano.
E’ stata fatta la prova di arrestare il degrado democratico per la via parlamentare, e si è visto che è fallita (aumentando anche con questa esperienza vertiginosamente i rischi del degrado).
La situazione, dunque, è più complessa e difficile, anche se apparentemente meno tragica: si potrebbe dire che oggi la democrazia in Italia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori.
Se le cose stanno così, la domanda è: cosa si fa in un caso del genere, in cui la democrazia si annulla da sè invece che per una brutale spinta esterna? Di sicuro l’alternativa che si presenta è: o si lascia che le cose vadano per il loro verso onde garantire il rispetto formale delle regole democratiche (per es., l’esistenza di una maggioranza parlamentare tetragona a ogni dubbio e disponibile ad ogni vergogna e ogni malaffare); oppure si preferisce incidere il bubbone, nel rispetto dei valori democratici superiori (ripeto: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, la difesa e la tutela del «pubblico» in tutte le sue forme, la prospettiva, che deve restare sempre presente, dell’alternanza di governo), chiudendo di forza questa fase esattamente allo scopo di aprirne subito dopo un’altra tutta diversa.
Io non avrei dubbi: è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non si arresta il processo e si torna indietro, non resta che correre senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio. Come?
Dico subito che mi sembrerebbe incongrua una prova di forza dal basso, per la quale non esistono le condizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero a esiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana del paese è una fattore indispensabile del processo, ma, come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostrato, non sufficiente.
Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l’autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall’alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d’emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d’autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d’interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l’Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.
Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. Se non saranno colte, la storia si ripeterà. E se si ripeterà, non ci resterà che dolercene. Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, solo quando ormai è diventato inutile farlo. Dio non voglia che, quando fra due o tre anni lo sapremo con definitiva certezza (insomma: l’Italia del ’24, la Germania del febbraio ’33), non ci resti che dolercene.
Il barone e l’invertito
di Marco D’Eramo (il manifesto, 12 aprile 2011)
Invertiti, avvertiti, convertiti, divertiti, pervertiti, riveriti, sovvertiti di tutta Italia, unitevi! Anzi uniamoci contro l’esimio barone Roberto De Mattei che sulle onde di Radio Maria attribuisce la caduta dell’impero romano all’«effeminatezza degli invertiti» e teme per l’Italia «l’invasione dell’Islam» («religione indubbiamente basata sulla violenza e sulla sopraffazione»). Uniamoci noi per liberarci di quest’inquietante macchietta, che non è un radioimbonitore qualunque, ma è il vicepresidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).
Cioè dell’organo statale preposto alla ricerca scientifica. Facciamolo, visto che migliaia e migliaia di intrepidi scienziati italiani se ne guardano bene. E, per ragioni di bottega, lo temono e si tacciono. Questo paladino del razionalismo critico era noto finora per le tesi creazioniste, per avere organizzato nel 1999 un convegno antidarwiniano e per aver scritto nel 2009 Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi, pamphlet finanziato con 9.000 euro di denaro pubblico.
Ma da ultimo si è superato, prima con la fantasiosa spiegazione del perché declinò la civiltà classica (un declino davvero lungo: Socrate e Platone «invertiti» erano - per usare l’elegante termine di De Mattei - nove secoli prima che l’impero romano fosse dissolto). E poi per aver spiegato, sempre su Radio Maria, che il terremoto e lo tsunami che hanno colpito il Giappone «sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio», tesi ribadita ieri in un’intervista ad Antonio Gnoli di Repubblica: «Anche i popoli possono peccare e per questo essere puniti».
Non sappiamo se De Mattei sarà ricordato come l’uomo che schiantò Darwin. Ma certo già oggi è colui che ha disintegrato la reputazione prima di Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, e poi dell’intero corpo scientifico italiano. Infatti quel che rende insopportabili le panzane del già professore associato all’università di Cassino è quel che il pensiero femminista chiama «il luogo di enunciazione».
Molti telepredicatori statunitensi propagano castronerie ancora più surreali, ma almeno loro non sono stati messi alla testa dell’apparato pubblico di ricerca scientifica. Invece le ministre Moratti e Gelmini lo nominarono nel consiglio d’amministrazione del Cnr per ingraziarsi un po’ il Vaticano e un po’ la corrente di Gianfranco Fini, visto che De Mattei è considerato in quota ai finiani: e quest’affiliazione non è estranea all’indulgenza, soprattutto recente, mostrata nei suoi confronti dai professori di centrosinistra. Certo che De Mattei al Cnr è come un iconoclasta alla Galleria degli Uffizi. Con un altro governo sarebbe stato inimmaginabile mettere un creazionista bigotto nella sala di controllo della ricerca.
Ma chi da questa storia esce peggio è la comunità scientifica e accademica italiana. Più delle corbellerie omofobe di De Mattei, a colpire è il silenzio pavido degli scienziati. È la loro viltà. Abbiamo tanto sparlato degli accademici sovietici che subirono le assurde dottrine biologiche di Lyssenko senza fiatare, per paura di perdere il posto, per compromesso, per quieto vivere, perché magari nel frattempo Stalin lasciava lavorare veri scienziati come Pyotr Kapitza e Lev Landau.
Ma allora cosa dovremmo dire dei nostri accademici, dei ricercatori che tacciono o tutt’al più mugugnano sottovoce? (Il mugugno era diritto garantito alle ciurme in cambio del divieto -pena la morte - di ammutinamento). Anzi bofonchiano. A volte persino lo difendono perché il prode De Mattei sarebbe l’unico baluardo che ripara il presidente del Cnr Luciano Maiani dalle Gelmini, dai Berlusconi, o dai tagli di Tremonti.
Il fisico Maiani è un valentuomo, ma il peso della Chiesa l’ha sentito tutto sulle sue spalle: quando nel 2007 firmò una lettera pubblicata dal manifesto in cui alcuni docenti (tra cui Marcello Cini e Giorgio Parisi) definivano «incongrua» la visita di papa Ratzinger all’università La Sapienza di Roma, come per incanto la sua nomina al Cnr fu bloccata per mesi in Commissione. È così che discepoli di Galileo, scienziati evoluzionisti e baciapile oscurantisti vivono tutti insieme felici e contenti.
ANTONIO GRAMSCI (1924). "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo":
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L’ITALIA FERITA E SCONCERTATA. DOPO CHE IL SUO PAPA HA BENEDETTO E GUIDATO L’ATTACCO, BRUNO FORTE SI CHIEDE "COME CURARE L’ALBERO MALATO DELLA POLITICA". Una nota di premessa sull’inizio dell’offensiva e le sue "riflessioni sui nostri tempi", oggi
Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani?
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 6 marzo 2011)
«Don Milani, che mascalzone!» proclamava su Repubblica del 30 giugno 1992 Sebastiano Vassalli. L’ottimo scrittore (51 anni allora) ricordava d’esser stato insegnante da giovane ma soprattutto fondava la propria sentenza sul giudizio che un professore e preside e ispettore ministeriale in pensione, Roberto Berardi, aveva espresso nel libriccino «Lettera a una professoressa: un mito degli anni Sessanta», edito da Shakespeare and Company.
Mascalzone il Milani, spiegava Vassalli, perché «maestro improvvisato e sbagliato manesco e autoritario». E autore con quella "Lettera" di «un libro bandiera più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia». Un libro, gli garantiva Berardi, inteso «con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a creare disordine anche nelle scuole superiori» mirando a obiettivi «ben più ideologici (in senso contestativo) che scolastici».
Passano 19 anni ed ecco Cesare Segre proclamare il 24 febbraio sul Corriere della Sera che lo sfascio della cultura e della scuola italiane «è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni Rodari», responsabile di una «didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare».
L’illustre accademico fonda la propria sentenza nell’ultimo libro di Paola Mastrocola, appena pubblicato da Guanda: «Saggio sulla libertà di non studiare». E tanto gli piace che recensendolo vi si identifica fino a condividerne, addirittura radicalizzandola, la diagnosi sul come e perché in Italia lo studio sia «compromesso e svuotato»: «Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo svalutando il concetto di nozione come conoscenza» sino a frenare l’aspirazione dei propri allievi alla liberazione dai «lavori contadini» per tenerli vincolati al territorio e bloccare in loro «qualunque aspirazione al miglioramento mentale ma anche economico».
Quanto a Gianni Rodari, Mastrocola scopre e Segre conferma, «promuoveva la trasformazione dell’insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla storia. L’aula scolastica si trasformava in palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività». È così che entrambi spingono i nostri poveri ragazzi «ad aderire all’internazionale dell’ignoranza».
E qui chi abbia anche soltanto un minimo di conoscenza diretta e onesta di quel che Milani e Rodari hanno fatto detto e scritto nelle loro vite non sa se più indignarsi o dolersi. Ma è davvero possibile che persone acculturate, investite di così alta responsabilità sociale quale l’insegnamento, non possano leggere senza pregiudizi e paraocchi? Non riescano a vedere le diverse, anche contradditorie realtà dell’esistenza fuori dall’aula in cui lavorano?
Verrebbe voglia di domandare che cosa sanno davvero e che cosa pensano delle ricerche e delle sperimentazioni del Movimento di cooperazione educativa e del lavoro di insegnanti tipo Mario Lodi, Bruno Ciari, Margherita Zoebeli in cui s’incarnano quelle «tendenze già in atto» che Segre denuncia oggi come rovina del nostro sistema educativo e che nel ’92 Berardi chiamava «forze disgregatrici».
Mi contento di trascrivere, a nostro personale conforto, due frasi brevi: «La scuola - spiega Milani nella "Lettera ai giudici" - siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il loro senso politico».
E Rodari, recensendo "Lettera a una professoressa" quasi con le stesse parole di Pasolini in una famosa intervista: «Un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da quel libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici».
Mi torna alla mente, a questo punto, l’immagine suggeritami 19 anni fa dell’accoppiata Berardi-Vassallo: quella dei ciechi del famoso quadro di Bruegel che tenendosi permano finiscono insieme nel precipizio. A loro si attaccano ora Mastrocola e Segre: il trenino s’allunga in un bunga-bunga pedagogico!
L’ITALIA CON "DUE PRESIDENTI" DELLA REPUBBLICA: "CORTO CIRCUITO"!!! LA LUNGA OFFESA E LA DEVASTANTE OFFENSIVA DEL CAVALIERE DI "FORZA ITALIA" CONTRO L’ITALIA (1994-2011)!!!
L’ITALIA, IL "BIPOLARISMO PRESIDENZIALE", E I COSTITUZIONALISTI IN COMA PROFONDO (1994-2011). Sul nodo dello scioglimento delle camere, una intervista di Nino Luca al giurista Piero Alberto Capotosti
DALLA FIABA, UNA LEZIONE DI PENSIERO COSTITUZIONALE A FILOSOFI E A GIURISTI. A VLADIMIR J. PROPP E A GIANNI RODARI, A ETERNA MEMORIA...
"APRITE, APRITE": SONO IL VOSTRO "PAPI"!!! LA PAROLA "ITALIA", LA "PASSWORD", CONSEGNATA A UN PARTITO (1994-2011), L’ASTUZIA DEL LUPO, E I SETTE CAPRETTI. Un omaggio a Giorgio Napolitano, al Presidente della Repubblica italiana
CRISI COSTITUZIONALE (1994-2011). "DUE PRESIDENTI" DELLA REPUBBLICA GRIDANO: FORZA ITALIA!!! LA DOMANDA E’: CHI E’ "PULCINELLA"? CHI E’ "IL LUPO"?!
I DOCUMENTI
WikiLeaks, l’Italia vista dagli Usa
"Con Berlusconi paese ormai in declino"
Le valutazioni della diplomazia statunitense contenute nei nuovi documenti segreti.
"La reputazione in Europa è lesa". "Il premier danneggia l’Italia ma ci è utile e non dobbiamo abbandonarlo, alla fine ne trarremo vantaggi"
di FABIO BOGO *
ROMA - Quattromila cables riservati filtrati dall’ambasciata Usa a Roma, oltre 30 mila pagine di documenti finora segreti che raccontano l’Italia e i suoi protagonisti dal punto di vista critico e sferzante del suo più importante alleato. E molti di questi con un denominatore comune: il declino del ruolo internazionale dell’Italia è strettamente legato all’immagine di Silvio Berlusconi, l’uomo che la guida e la condiziona dal 1994, l’anno della sua discesa in campo. Dal 2002 al 2010 parlano ambasciatori, segretari di Stato, diplomatici di alto livello, politici di primo piano. Tutte comunicazioni rigorosamente classificate. Tutte rigorosamente destinate a restare riservate. Tutte, adesso, contenute nei cables che WikiLeaks ha ottenuto e che l’Espresso, in collaborazione con Repubblica, comincia da oggi a pubblicare.
UN PREMIER CHE OFFENDE TUTTI
"Il premier Silvio Berlusconi con le sue frequenti gaffes e la scelta sbagliata delle parole" ha offeso nel corso del suo mandato "quasi ogni categoria di cittadino italiano e ogni leader politico europeo", mentre "la sua volontà di mettere gli interessi personali al di sopra di quelli dello Stato ha leso la reputazione del Paese in Europa ed ha dato sfortunatamente un tono comico al prestigio dell’Italia in molte branche del governo degli Stati Uniti".
E’ il febbraio del 2009 quando Ronald Spogli, ambasciatore americano in Italia nominato dal Presidente George W. Bush, si congeda dal suo mandato e scrive al nuovo segretario di Stato Hillary Clinton un memoriale intitolato "What can we ask from a a strong allied" (Cosa possiamo chiedere ad un forte alleato), classificato come Confidential e che ha un sapore profetico. Non è ancora esploso lo scandalo di Noemi Letizia, non è apparsa all’orizzonte la escort Patrizia D’Addario, non c’è ancora traccia dei festini di Arcore, né delle accuse di sfruttamento della prostituzione minorile con la marocchina Ruby, né delle pressioni sulla questura di Milano per procurarsi il silenzio della vittima. Le leggi ad personam proposte per tutelare il primo ministro dalle conseguenze dei processi in corso non sono state ancora respinte e non ha raggiunto l’apice il violento conflitto con la magistratura.
Ma ad inizio 2009 il premier, visto dagli Usa, è già un uomo debole, prigioniero dei suoi conflitti di interesse e dell’evidenza internazionale dei suoi abusi di potere. Quindi bisognoso dell’aiuto americano per legittimarsi sul piano interno e estero e come tale disponibile, quando richiesto, a comportarsi come "il migliore alleato". Berlusconi insomma non è nelle condizioni di dire alcun "no" a chi lo sostiene. Una sorta di ostaggio, che accetta volentieri tutte le richieste in termini di impegno militare e politico negli scacchieri strategici che vanno dall’Afghanistan alla ricollocazione dei prigionieri di Guantanamo, dalle basi sul territorio italiano alle sanzioni all’Iran. Un prezzo che finora non si sapeva di aver pagato.
L’IMMAGINE DI UN PAESE IN DECLINO
"Il lento ma costante declino economico dell’Italia - scrive l’ambasciatore Spogli - compromette la sua capacità di svolgere un ruolo nell’arena internazionale. La sua leadership spesso manca di una visione strategica. Le sue istituzioni non sono ancora sviluppate come dovrebbero essere in un moderno paese europeo. La riluttanza o l’incapacità dei leader italiani a contrastare molti dei problemi che affliggono la società, come un sistema economico non competitivo, l’obsolescenza delle infrastrutture, il debito pubblico crescente, la corruzione endemica, hanno dato tra i partner l’impressione di una governance inefficiente e irresponsabile. Il primo ministro Silvio Berlusconi è il simbolo di questa immagine". Spiega Spogli: gaffes e preminenza per gli interessi personali, assieme "al frequente uso delle istituzioni pubbliche per conquistare vantaggi elettorali sui suoi avversari politici, la sua preferenza per soluzioni a breve termine hanno danneggiato la reputazione dell’Italia in Europa". Un’immagine che Berlusconi tenta di rivitalizzare con iniziative che lasciano perplessi gli Usa.
L’Italia - annota Spogli - "fa molti sforzi, alcuni seri altri meno, per mantenere una posizione di rilevanza e influenza". Come quando "si propone nel ruolo di grande mediatore delle crisi mondiali, un ruolo autoconferitosi che alcuni politici, specialmente il premier Silvio Berlusconi, pensano possa conferire grande visibilità senza praticamente spendere alcunché". O come quando, senza alcun coordinamento, ritiene di avere i titoli per "mediare tra la Russia e l’Occidente, impegnarsi con Hamas e Hezbollah, stabilire nuovi canali di negoziato con l’Iran, espandere l’agenda del G8 con mandati al di là di ogni riconoscimento".
Insomma, una politica assolutamente velleitaria. Con costernazione Spogli prende atto che in una puntata di "Porta Porta" Berlusconi annuncia il ritiro dall’Iraq: svegliati in piena notte i generali Usa a Baghdad e mandata la trascrizione della puntata tv al Pentagono. Esterrefatto l’ambasciatore registra che mentre Israele bombarda Gaza il Cavaliere rilancia l’idea del tutto estemporanea di costruirvi alberghi e resort, annunciando che potrebbe "trovare investitori". Allibito informa Washington che il premier ha una sua strategia per la Siria, visto che l’allora moglie Veronica "ha conosciuto la consorte di Assad a Damasco", e dice: "Dovremmo coinvolgerla..."
Ma a Washington sono pragmatici. Si deve abbandonare un alleato pasticcione, in declino economico e inviso alle cancellerie europee per idiosincrasia politica?. "No - scrive Spogli alla Clinton - non dobbiamo. Dobbiamo anzi riconoscere che un impegno di lungo termine con l’Italia e i suoi leader politici ci darà importanti dividendi strategici adesso e in futuro"
IL DIVIDENDO DI WASHINGTON
Cosa può incassare l’America da questo governo? Spogli è esplicito. "L’Italia ci permetterà di consolidare i progressi fatti faticosamente nei Balcani negli ultimi vent’anni, le loro forze armate continueranno a giocare un ruolo importante nelle operazioni di peacekeeping in Libano e in Afghanistan, e, infine, il territorio italiano sarà strategico per l’Africom (United States African Command)", l’organismo costituito nel 2008 dalla Difesa Usa per coordinare gli interventi militari in Africa: comando a Stoccarda, ma bombardieri di stanza a Vicenza, nella base Dal Molin, e portaerei della VI flotta a Napoli. " Se useremo una forte pressione - sostiene inoltre Spogli - l’Italia eserciterà la sua influenza economica in Iran per mandare a Teheran un chiaro segnale che potrebbe influire sulla loro politica di sviluppo nucleare". E anche sul fronte del terrorismo Washington sa che Roma spalancherà le sue porte. Già nel febbraio 2009 Spogli avverte infatti che l’Italia si sta diligentemente preparando ad esaudire "quelle che ritengono saranno tra le nostre prime richieste, il farsi carico della custodia di alcuni detenuti nella prigione di Guantanamo (il ministro Frattini ufficializzerà la decisione 4 mesi dopo, ndr.) e un maggiore sforzo militare in Afghanistan (l’Italia sorprenderà gli Usa aggiungendo altri 1200 soldati ad Herat, portando il contingente schierato ad un totale di 4200 uomini).
L’unica vera preoccupazione è il rapporto tra Roma e Mosca, tra Berlusconi e Putin. Gli Usa vogliono controbilanciare la crescente influenza russa sul fronte dell’energia, e notano con disappunto che "l’Italia, sfortunatamente, invece la favorisce". Sui rapporti tra Berlusconi e Putin il punto di vista americano è noto. L’ambasciata Usa anche dopo la sostituzione di Spogli con David Thorne è in allarme e agisce su più fronti. Stimola il ritorno al nucleare, interviene sul governo per spezzare l’asse con Mosca e suggerisce: "dobbiamo far capire a Berlusconi che ha una relazione personale con noi e dobbiamo assecondare la sua convinzione di essere uno statista esperto". Ma l’operazione non è facile, il legame del cavaliere con "il suo amico Vladimir" è solida e ha radici misteriose. tanto misteriose da indurre Hillary Clinton nel gennaio 2010 a chiedere alle rappresentanze diplomatiche interessate di indagare sulle "possibili relazioni e investimenti personali che legano Putin e Berlusconi e che possono influenzare la politica energetica dei due paesi", e di svelare " i rapporti tra l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni, i top manager dell’Eni e i membri del governo italiano, specialmente il premier e il ministro degli esteri Frattini". Gli americani si troveranno davanti ad un muro: in un cable un diplomatico italiano spiega che "tutto avviene direttamente tra Berlusconi e Putin".
UN PREZZO IRRISORIO DA PAGARE
Pasticciona e in difficoltà, l’Italia chiede aiuto agli Usa quando si accorge che l’organizzazione del G8 a L’Aquila comincia a fare acqua. Gli americani se ne sono già accorti, e una serie di cables descrivono la tensione nell’ambasciata di Roma: il flop può tramutarsi in una debacle per Berlusconi, già colpito dalle prime rivelazioni sugli scandali sessuali. Scatta il soccorso all’utile alleato: "Berlusconi - annotano - ha bisogno di mostrarsi un leader credibile a livello internazionale per ripulire la sua immagine, e ci sarà tremenda attenzione" al trattamento che riceverà dagli altri capi di stato e di governo. Obama acconsente e in Abruzzo il presidente "abbronzato" è gentile e comprensivo. Il vertice è un successo, il Cavaliere è salvo, l’opposizione politica è sconfitta
CONDANNATI ALL’INSTABILITA’
Gli americani capiscono dunque che con Berlusconi dovranno conviverci. A lungo. E sfruttarne le debolezze, che utilitaristicamente diventeranno per Washington preziose cambiali in bianco, da riscuotere all’occorrenza. Ne sono consci già prima delle elezioni del 2008, che - dopo la caduta della litigiosa coalizione guidata da Romano Prodi - riporteranno a Palazzo Chigi il Cavaliere, vittorioso su Walter Veltroni. "Se vince Veltroni la situazione sarà eccellente - scrivono da Roma a Washington - se ritorna Berlusconi sarà molto eccellente". Ne sono ancora più convinti dopo il G8 de L’Aquila. Non apprezzano la magistratura, definita "una casta inefficiente e autoreferenziale", priva di controllo e che condiziona la vita politica; non credono nei dissidenti della maggioranza; giudicano il Pd disorganizzato. E anche quando la Corte Costituzionale boccia il lodo Alfano non si preoccupano: Berlusconi resisterà. Temono invece gli effetti sul Paese dello scontro con il presidente Napolitano. Il Presidente è visto come una figura assolutamente cruciale per la stabilità del Paese, è stimato e seguito. Il Quirinale non si tocca, è un assoluto punto di riferimento. "Gli attacchi a una figura molto rispettata potrebbero essere presi male da molti italiani e determinare più ampie divisioni tra le due istituzioni". È uno scenario preoccupante, ma che porta anche dei vantaggi. Il premier infatti "per difendersi dai processi si dovrà distrarre dal lavorare per il popolo italiano". Ma ci sono altri referenti pronti a lavorare per gli Usa. I ministri Frattini e La Russa, ad esempio, vengono definiti particolarmente ansiosi di collaborare. Mentre ad Arcore continuano i festini, il business può proseguire.
La prima intervista di mister B.
Alla vigilia della decisione della Consulta sul Legittimo impedimento, Ecco una chicca d’autore: l’incontro tra Camilla Cederna e il Cavaliere nel 1977. Dove c’è già tutto: dalle bugie alla corruzione, da don Verzé alla politica (l’Espresso, 11 gennaio 2011) *
Nel centenario della nascita di Camilla Cederna (21 gennaio 1911 - 5 novembre 1997) è in uscita per Rizzoli "Il mio Novecento", una raccolta della grande giornalista e scrittrice che per molti anni fu una prestigiosa firma de "L’espresso".
Tra gli articoli che compongono il volume ce n’è uno uscito sul nostro settimanale nell’aprile del 1977: un’intervista ritratto del giovane ed emergente imprenditore edile milanese Silvio Berlusconi. Come nota la stessa Cederna nel suo pezzo, è la prima intervista rilasciata da Berlusconi, che fino ad allora aveva deciso di tenere un profilo molto basso nei suoi rapporti con la stampa.
Il sito de "L’espresso" ripubblica qui di seguito l’articolo in questione, alla vigilia della decisione della Corte Costituzionale sul Legittimo impedimento. Come vedrete, nell’intervista-ritratto della Cederna c’era già quasi tutto di quello che sarebbe diventato, anni dopo, il fenomeno politico-mediatico Silvio Berlusconi.
Serve una città? Chiama il Berlusconi .
Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera. E la cartina falsa verrà distribuita ai piloti: così gli aerei cambiano rotte e non disturbano i residenti del complesso
di Camilla Cederna *
In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a Carlo Emilio Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi.
Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del Cinquecento, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano.
Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti» spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è contento di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia Legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione.
A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice «congesto», macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, «natura non facit saltus». Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e «chiamiamo il Berlusconi» dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completo com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso l’Utopia di Tommaso Moro (infatti, lo ’scrisse’.. leggi l’articolo seguente-solleviamoci), sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui.
Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base Dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuol dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori.
La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa diecimila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia.
Nel ’71 il Consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadrato nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e Dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio comunale di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il cinque-dieci per cento dei profitti (diciottodiciannove miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici Dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella.)
«Il silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio» era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio non c’è. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni novanta secondi decolla un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. (In quattro anni la Civilavia aveva già ordinato sei cambiamenti delle rotte degli apparecchi di Linate.) Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così la Civilavia cambia rotte, ancora una volta.
Quanto a don Verzé, ottiene in cinque giorni, con decreto firmato dal ministro della Sanità Gui, la sostituzione del suo istituto privato e ancora in disarmo in istituto di ricerca a carattere scientifico (un titolo onorifico che viene dato solo in casi eccezionali), con annessa possibilità di avere finanziamenti. Lo Stato manda subito seicento milioni, mentre un miliardo e mezzo sarebbe stato versato dalla Regione. Di qui una polemica con Rivolta finché, due settimane fa, l’ex prete è stato condannato a un anno e quattro mesi per tentativo di corruzione ai danni dell’assessore Rivolta; l’istituto è ora frequentato da studenti e medici dell’università che lamentano la mancanza di strutture e strumenti validi.
Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo «flessibile», cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il quindici per cento del «Giornale» di Montanelli).
«Troppi sono oggi i fattori ansiogeni,» dice «la mia sarà una tv ottimista.» Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e telecomunicazioni. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo.
Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo.
aprile 1977
fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-prima-intervista-di-mister-b/2142005
E ora su la testa
di Rossana Rossanda (il manifesto, del 22 gennaio 2011)
Non è piacevole essere oggi un’italiana all’estero. Tanto meno se si è stata una sia pur minuscola tessera di ceto politico, due volte consigliere comunale e una volta deputata, una cui l’antipolitica fa venire il nervoso. E per di più comunista libertaria, specie rarissima, orgogliosa di sé e di un paese che, fino agli anni Sessanta e con diverse code nei Settanta, pareva il laboratorio politico più interessante d’Europa.
Oggi gli amici che incontro non dicono più: ma che disgrazia quel vostro Berlusconi! Mi chiedono: Com’è che l’avete votato tre volte? Che è successo all’Italia? Una come me si trova a balbettare. Perché hanno ragione, non si può più fare del premier il caso personale di uno che ha fatto troppi soldi, che ha tre televisioni, che prende il paese per un’azienda di sua proprietà, che sa che molti sono acquistabili e li acquista, e adesso, gallo attempato, si vanta dei suoi exploits su un numero illimitato di pollastrine: «Vorreste tutti essere come me, eh??».
E’ vero che l’Italia lo ha votato e rivotato. E’ vero che non c’è traccia di una destra formalmente civile che di lui ne ha abbastanza, né di un sedicente centro deciso a liberarsene. E neanche di una sinistra capace di rischiare un «buttiamolo fuori con le elezioni». La destra tutta perché gli è ancora complice, il centro perché lo è stato, la sinistra perché il sistema elettorale bipolare le faceva comodo contro le sue ali meno docili. Metà dell’Italia è berlusconiana, l’altra metà è azzittita, e non c’è imputazione - ignoranza, prevaricazione, corruzione, soldi, attentato ai minori - mossa al personaggio che sia in grado di scuoterla. Anzi. C’è qualche verità nelle vanterie di costui, se più se ne sente più tutti si accucciano per calcoli loro. Perfino i media, che sarebbero di opposizione, sono diventati un buco della serratura per voyeurs intenti a sfogliare pagine su pagine o ad ascoltare minuti su minuti di dialoghi sul prezzo per un appalto o per togliersi le mutande.
Che ci è successo? Da quando? Perché? Sarebbe una discussione interessante. Si potrebbe sprofondare in una storia secolare di servaggi, Francia o Spagna pur che se magna. O di una unità nazionale sotto una monarchia codina, tardiva e ben epurata di ogni fermento rivoluzionario - i giacobini napoletani decapitati o appesi nel giubilo dei lazzari e sanfedisti, la repubblica romana repressa, e soltanto le tracce dell’ammodernamento giuridico di Napoleone al nord. Non sarà del tutto casuale che siamo stati noi a inventare il primo fascismo europeo. Ci deve essere qualcosa di guasto nella coscienza della penisola. Alcuni di noi pensano che soltanto la presenza di un partito comunista che non mollava sui diritti sociali ha costretto il paese alla democrazia, come un tessuto fragile ma fortemente intelaiato, che non si è lacerato finché i comunisti non si sono uccisi da soli.
Tutto da vedere, se se ne avesse voglia. Ma chi ne ha? Lo slogan nazionale è: fatti gli affari tuoi. Vota chi si fa i suoi. Non è una storia soltanto italiana, tutta l’Europa va a destra. Ma da noi si esagera. In Francia un vecchio ed elegante signore, Stephan Hessel, che non alza la voce ma non ha mai taciuto, ha scritto un opuscolo: Indignatevi! Ne sono sparite subito quasi un milione di copie. Una settimana fa voleva parlare della Palestina, glielo hanno impedito. E lui e i suoi lettori si sono trovati fuori, in migliaia, di notte, con un freddo polare, nella piazza del Pantheon, a gridare: Basta! Perché noi no? Si sta meglio con la testa alta, invece che fra le spalle e gli occhi a terra. Non so se lo farà Vendola. Non credo che lo farà Bersani. Ma chiudiamo con il cinismo del chi se ne frega. Indigniamoci !
Cari amici di Mondadori preferisco la giustizia
di Vito Mancuso (la Repubblica, 03.09.2010)
Giornali, radio, siti, tv, non vi è stato mezzo di comunicazione che non abbia ripreso e alimentato il dibattito sviluppatosi in seguito al mio articolo del 21 agosto «Io autore Mondadori e lo scandalo ad aziendam». Naturalmente ognuno ha detto la sua, sia in merito alla questione in sé sia a me che l’avevo sollevata, facendomi provare l’ebbrezza di un viaggio sulle montagne russe della psiche col passare da coscienza profetica a povero ingenuo, da eroe coraggioso a ipocrita opportunista.
Su quest’ultimo aspetto non ho nulla da replicare, registro solo lo spettacolo di individui così incapaci di prescindere dall’ego e concentrarsi sulle cose in sé da risultare impossibilitati a concepire che qualcuno faccia qualcosa senza volerci guadagnare. Molto più interessante è la dimensione oggettiva della questione, che ritengo di poter riassumere come segue.
1. Esistenza del problema: il problema da me sollevato esiste, non è per nulla nuovo perché risale al 1993 cioè a quando il proprietario della Mondadori entrò in politica, e spesso riaffiora come i sintomi di una malattia non curata. Persino i giornali e le tv (Tg1) che ne hanno sostenuto l’inesistenza in realtà col loro zelo hanno confermato che esiste, perché non si dedicano pagine e minuti preziosi a un falso problema. Si fa così solo con un problema vero di cui si vuole sostenere capziosamente la falsità.
2. Essenza del problema: nella sua specificità il problema consiste in quell’immenso agglomerato di potere che (caso unico in occidente) fa capo all’attuale premier e che genera il nodo da tutti conosciuto come «conflitto di interessi». Se il Gruppo Mondadori non fosse «sua» proprietà, la discutibile legge ad aziendam voluta dal «suo» governo rientrerebbe al massimo nelle normali pressioni che le singole lobby esercitano in ogni democrazia di libero mercato. Purtroppo però la proprietà del Gruppo Mondadori e la guida del governo coincidono, il che conduce chi riflette in modo disinteressato a non poter evitare di associare la legge di cui ha beneficiato il «suo» gruppo editoriale (pagando solo 8,6 milioni invece di 350) alle altre leggi ad personam finora volute dal «suo» governo, compresa la legge-bavaglio contro la libertà di stampa e il progetto di legge sul processo breve.
3. Prospettive di soluzione del problema: Eugenio Scalfari (le cui parole affettuose ricambio con
gratitudine) affermava in risposta al mio articolo che il problema «si combatte politicamente». È
vero, ma mi permetto di replicare che la politica, come l’essere secondo Aristotele, «si dice in molti
modi», non tutti riservati ai politici di professione. Uno di questi modi è la pubblicazione che, come
dice la stessa parola, è un gesto pubblico, spesso non privo di risvolti politici e mai privo di risvolti
economici, soprattutto per autori da primi posti della classifica vendite.
In questa prospettiva io chiedo due cose:
A) l’autore ha il dovere di verificare la correttezza etica (e
non solo giuridica) del proprio editore?
B) l’autore ha il dovere di chiedersi quali investimenti
sostiene con il profitto da lui generato?
A entrambe le domande si può rispondere di no, che un tale dovere dell’autore non c’è, sostenendo da un lato che l’autore si deve preoccupare solo della libertà di esprimere le proprie idee, del prestigio del catalogo, della professionalità dei funzionari editoriali e basta, e dall’altro lato che ciò che conta per lui è unicamente la capacità di promozione, distribuzione e vendita dell’editrice alla quale affida il suo testo.
Molti degli autori del Gruppo Mondadori intervenuti a seguito del mio articolo hanno sostenuto in parte o per intero queste prospettive, compresi Eugenio Scalfari, Corrado Augias e Adriano Prosperi. Mentre nessuno si è posto la domanda B, nella risposta alla domanda A Scalfari ha distinto gli attuali dirigenti che guidano l’Einaudi dalla proprietà da cui i medesimi dirigenti dipendono, Augias ha dichiarato che il suo rapporto con la Mondadori «non è con una marca ma con uomini», Prosperi è stato il più duro giungendo a negare la stessa pertinenza del problema: «Mettersi ad aprire una discussione in termini moral-editoriali lascia il tempo che trova».
Io non sono d’accordo. Io penso che discutere pubblicamente delle pubblicazioni sia qualcosa di molto utile se non un dovere, e penso che alle due domande poste sopra si debba rispondere con un netto sì: l’autore ha il dovere di vagliare la correttezza etica della sua editrice (e del Gruppo al quale essa fa capo) e si deve chiedere a quali investimenti contribuisce con il profitto generato dalle vendite delle sue opere. Naturalmente mi posso sbagliare, posso essere ingenuo e mancare di realismo, ma questo è il mio pensiero. Il quale ritengo valga soprattutto per quegli autori che scrivono di etica, di politica, di filosofia e che sono giunti grazie al valore del proprio lavoro a vedersi riconosciuto il ruolo pubblico di «intellettuali», svolgendo così un compito abbastanza delicato verso la società.
Penso sarebbe auspicabile che tutti gli autori fossero attivi nel cercare di arginare l’immenso conflitto di interessi del quale da quasi un ventennio tutti noi italiani (di destra, di centro, di sinistra non importa) siamo prigionieri, ma so bene che non tutti possono sempre permettersi questa battaglia, perché esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un privilegio abbastanza raro.
Primum vivere deinde philosophari, questa antica massima di saggezza vale per tutti, nessuno è chiamato a fare l’eroe. Per quanto mi riguarda poter esprimere liberamente il mio pensiero coincide con la possibilità di «combattere la buona battaglia», per riprendere la celebre espressione di san Paolo.
Naturalmente non condanno nessuno né chiamo nessuno a crociate, mi permetto solo di dire che provo ammirazione per tutti quegli intellettuali che, potendo permetterselo, evitano di contribuire con i proventi delle loro opere a finanziare quel conflitto di interessi che è «la madre di tutti i problemi». Sono consapevole altresì che ognuno si sceglie le battaglie ideali come meglio crede e io non intendo insegnare nulla a nessuno, tanto meno alle insigni personalità che in questo articolo ho chiamato in causa, cerco solo di dare il mio contributo perché l’Italia possa un giorno non essere più il paese dei furbi.
Quando avrò concluso il volume per il quale ho un contratto in essere con la Mondadori tirerò le logiche conseguenze di tutto questo ragionamento, come lo stesso farò per un piccolo saggio che avrei dovuto consegnare entro dicembre all’Einaudi per un volume a più autori a cura di Gustavo Zagrebelsky. Ai cari amici che ho in Mondadori ai quali mi legano stima e affetti incancellabili ho scritto ieri: «... magis amica iustitia».
LA POLEMICA
Gli scrittori, i libri e il conflitto d’interesse
di EUGENIO SCALFARI *
A leggere dichiarazioni, articoli, interviste degli autori interessati e dello stesso Vito Mancuso che ha sollevato il caso su Repubblica, sembrerebbe che tocchi a me chiudere (o riaprire) il discorso sulla compatibilità di avere come editore dei propri libri il gruppo Mondadori oppure andarsene cercando altre case editoriali eticamente e politicamente più pulite.
Non mi aspettavo questo privilegio. Forse dipende dalla cosiddetta età veneranda o dall’essere stato a suo tempo anch’io editore (ma di giornali e non di libri che è cosa diversa). Comunque mi si chiede un giudizio e forse una decisione. Da tre anni sono un autore dell’Einaudi, società che dal 1994 è controllata dalla Mondadori. Resto o me ne vado?
Da quanto ho capito, questa risposta sta particolarmente a cuore a Mancuso il quale è sull’orlo di una decisione ma, ch’io sappia, ancora non l’ha presa. E da me che cosa ti aspetti, caro Vito? Che io t’incoraggi a cercare nuovi lidi editoriali dove magari seguirti o ti convinca a restare dove sei e dove dici di trovarti bene, se non fosse per un rovello etico che ti rode dentro da quando hai letto sul nostro giornale, cui tu collabori, lo scandalo della legge "ad aziendam" imposta dal premier-editore per consentire alla sua Mondadori di saldare un debito fiscale presuntivamente accertato in 350 milioni di euro pagandone in tutto 8,6?
Tu sei un mio amico ed ho molta stima per la tua cultura religiosa. Diciamo "martiniana" e tu sai con quanto affetto e rispetto io guardi al cardinal Martini sebbene non condivida la fede che lo anima. Perciò rispondo alle tue sollecitazioni e per maggior chiarezza lo farò esaminando i vari aspetti della questione.
1. Il governo, dopo averci provato varie volte senza riuscirvi, ha inserito surrettiziamente in un recente decreto convertito in legge una norma che autorizza le aziende che abbiano una vertenza tributaria in corso ed abbiano vinto nei due primi gradi di giurisdizione, a chiudere la vertenza pagando una sanzione irrisoria. La Mondadori - vedi caso - si trova esattamente in questa condizione ed ha utilizzato uno "scivolo" estremamente favorevole.
2. Non ci sarebbe molto da obiettare se non fosse che il presidente del Consiglio è proprietario di riferimento della stessa Mondadori. Il problema nasce dunque dal gigantesco conflitto di interessi incorporato nella figura di Silvio Berlusconi.
3. Il suddetto conflitto di interessi è un morbo che avvelena la vita politica italiana fin dal 1993 e la condizionò anche prima. Quando Berlusconi faceva ancora l’impresario televisivo i suoi politici di riferimento erano Bettino Craxi e in minor misura Forlani. Poi entrò in politica portandosi appresso quel conflitto che permane tuttora senza che la classe politica vi abbia posto alcun rimedio. Ricordo queste cose per dire che il problema non nasce oggi ma almeno 17 anni fa se non prima.
4. La mia esperienza di autore è stata abbastanza lunga e varia. Ho avuto come editori Laterza, Feltrinelli, Mondadori (dove pubblicai "La sera andavamo in Via Veneto" quando quella società era controllata dalla Cir e dal gruppo dell’Espresso), Rizzoli. Alla Rizzoli ero affezionato al direttore editoriale Rosaria Carpinelli che seguiva gli scrittori con rara competenza professionale. Quando la Carpinelli lasciò la Rizzoli me ne andai anch’io e scelsi Einaudi pur sapendo che la proprietà di quella casa editrice era della Mondadori. Fu dunque nel mio caso una scelta perfettamente consapevole.
5. Scelsi Einaudi perché il gruppo dirigente che ha al suo vertice editoriale Ernesto Franco è ancora quello formatosi con Giulio Einaudi. La Einaudi fu per tanti anni una delle case editrici che contribuì fortemente alla formazione culturale del nostro paese e che tuttora - non a caso - vanta un catalogo di scrittori di prima grandezza nella narrativa, nella saggistica, nella storia, con particolari presenze di scrittori civilmente e politicamente impegnati, da Ingrao alla Rossanda, da Asor Rosa a Zagrebelsky.
6. Se il gruppo editoriale che guida la Einaudi cambiasse o se i suoi dirigenti si piegassero a richieste politicamente scorrette e per me incompatibili, non esiterei un istante ad andarmene. Finché questo non avverrà, alla Einaudi mi trovo benissimo e ci resto.
7. Ho avuto anche un’altra esperienza che forse è utile raccontare perché riguarda pur sempre il settore della comunicazione. Due anni fa la casa cinematografica Medusa di proprietà della Fininvest mi informò che era interessata a fare un film utilizzando come soggetto un mio romanzo intitolato "La ruga sulla fronte". In quello stesso giro di mesi la Medusa stava realizzando il film "Baarìa" con Giuseppe Tornatore. Accettai la proposta e si arrivò fino alla stesura del copione ma a quel punto accadde un fatto: il presidente della Medusa, Carlo Rossella, intervenendo alla trasmissione televisiva "Ballarò" e pochi giorni dopo a quella di "Porta a porta", fece affermazioni molto gravi e a mio avviso faziose in favore di Berlusconi e si lasciò andare a veri e propri insulti contro i partiti di opposizione. Scrissi dunque alla Medusa rescindendo il rapporto che avevo con lei. In campo cinematografico questa società è il solo produttore e distributore esistente sul mercato italiano, a differenza del mercato dei libri. Perciò chi rifiuta di lavorare con Medusa rinuncia a veder realizzato il film che lo interessa.
8. Il conflitto di interessi di Berlusconi è un’anomalia che - in queste proporzioni - esiste soltanto in Italia. Si combatte eliminando l’anomalia, cioè si combatte politicamente. Lo sciopero degli autori, degli operatori televisivi e, perché no, quello dei lettori o dei telespettatori non sono armi facilmente realizzabili. Si possono determinare casi personali come quello di Roberto Saviano, insultato da Berlusconi e da sua figlia Marina con giudizi offensivi sul suo libro "Gomorra" ancorché pubblicato dalla Mondadori. Ma si tratta di casi personali che l’interessato risolve come ritiene più opportuno.
L’importante è che le idee possano circolare liberamente senza condizionamenti o ricatti. Questa è la ragione della nostra battaglia contro la legge-bavaglio. Chi ci impone un bavaglio avrà da parte nostra pane per i suoi denti come si è visto nei mesi scorsi e come ancora si vedrà se quella legge dovesse essere nuovamente riproposta.
* la Repubblica, 25 agosto 2010
Cattivi maestri al San Raffaele
di Maurizio Viroli (*) ( il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2010)
Se qualcuno ancora non crede che il potere enorme di Berlusconi stia diffondendo servilismo e corruzione nella vita politica e sociale, non ha che da considerare quanto è avvenuto martedì 20 luglio in una prestigiosa istituzione accademica qual è l’Università Vita-Salute San Raffaele, in occasione della discussione della tesi in Filosofia di Barbara Berlusconi, figlia del presidente del Consiglio. In quella sede, il rettore dell’Università don Luigi Verzé, ha rivolto a Barbara Berlusconi questo invito: “Collabori alla fondazione di una facoltà di economia e ne diventi docente!”.
A queste parole, la professoressa Roberta De Monticelli, chiamata al San Raffaele per chiara fama nel 2003 a insegnare Filosofia della Persona, ha reagito inviando una lettera ai giornali dove ha espresso la sua ferma riprovazione di quella che definisce “una violazione non solo del principio della pari dignità formale degli studenti, non solo della forma e della sostanza di un atto pubblico quale una proclamazione di laurea, non solo della dignità di un corpo docente che il rettore dovrebbe rappresentare, ma anche dei requisiti etici di una istituzione universitaria d’eccellenza quale l’Università San Raffaele giustamente aspira a essere”. “Tengo a dissociarmi nettamente e pubblicamente - ha sottolineato Roberta De Monticelli - da queste parole e dalla logica che le sottende, logica che da una vita combatto, come combatto da sempre il corporativismo e i sistemi clientelari dell’Università italiana, e il progressivo affossamento di tutti i criteri di eccellenza e di merito, oltre che dell’Università stessa come scuola di libertà”.
Docenza ad personam
LA RISPOSTA dell’Università non si è fatta attendere: "Non si deve gridare allo scandalo: qualcuno si meraviglia se alla Cattolica i docenti si sono praticamente tutti formati nelle file di quell’Università? Chi frequenta don Luigi sa che egli considera i nostri discenti i nostri primi docenti e sa anche quanto a lui stia a cuore che il futuro di tutto il San Raffaele sia affidato preferibilmente a chi lo conosce meglio degli altri. Quello di restare, di continuare a studiare, di approfondire gli studi con la ricerca è l’invito che lui fa, da sempre, a ognuno".
E invece lo scandalo c’è e la difesa dell’Università lo mette ancora più in evidenza. Prima di tutto c’è una bella differenza fra rivolgere a tutti i neolaureati l’invito a proseguire gli studi, a dedicarsi seriamente alla ricerca e a distinguersi nella comunità intellettuale internazionale, e rivolgersi ad una particolare neolaureata, figlia di padre multimiliardario e presidente del Consiglio, per invitarla a dare il suo contributo (intellettuale?) alla fondazione di una facoltà di economia e diventarne docente.
Nel primo caso si tratta di una degna e nobile esortazione ai giovani, nel secondo di un invito ad personam (dev’esserci un’epidemia in Italia di iniziative di questo tipo) prefigurando una particolare attenzione volta soprattutto a compiacere il potente padre presente alla cerimonia. Le parole del Rettore sono un esempio mirabile di abilità nel mettere in pratica la regola aurea dell’adulazione che prescrive di lodare le persone che il signore ha care per ottenere benefici. Proprio perché la candidata è figlia di Berlusconi, il Rettore avrebbe dovuto astenersi da qualsiasi commento che mettesse in risalto il suo status particolare rispetto agli altri.
Ma ancora più notevole del gesto servile è stato l’elogio della corruzione che leggiamo nel comunicato dell’Università, dove si afferma che nessuno deve gridare allo scandalo di fronte alla consolidata pratica di chiamare preferibilmente i propri ex studenti a diventare docenti.
Malcostume e baronie
LO SCANDALO invece c’è, ed è serio, e consiste proprio nel costume di non selezionare i candidati ai dottorati di ricerca, ai posti di ricercatore e di professore - quale che sia la loro provenienza - in base ai titoli scientifici, ma in base al famigerato criterio di aver svolto tutto il corso di studi all’interno dell’istituzione. Questo costume ha fatto sì che nel corso degli anni centinaia di candidati scadenti siano stati preferiti ad altri con titoli molto migliori, per il solo fatto di essere‘portati’,così si dice in gergo, dal professore interno. E così le facoltà universitarie si sono riempite di studiosi mediocri (ma abilissimi adulatori) e i migliori sono stati costretti o ad abbandonare la ricerca,o a cercare la propria strada all’estero, in quelle università che non privilegiano “i propri discenti” cari al rettore Verzé e a tanti altri accademici, ma solo ed esclusivamente i titoli.
Suscita indignazione che la difesa della pratica di privilegiare i propri studenti appaia in un comunicato ufficiale volto a sostenere che le parole del Rettore non lasciavano intravvedere trattamenti di favore. Se l’intenzione del rettore voleva essere soltanto un’innocente esortazione a perseguire gli studi, perché citare a difesa la pratica di privilegiare i propri allievi? Ha ragione la professoressa De Monticelli, il cui comportamento è esempio di coraggio e di vera lealtà verso la sua università.
Quanto è avvenuto al San Raffaele documenta, ancora una volta, il malcostume accademico italiano noto sotto il nome di clientelismo: prima i nostri, poi, se ne avanza, gli altri. E se i nostri hanno anche il padre ricco e potente, meglio ancora. Sia chiaro: al favore non si risponde con la discriminazione, ma con la giustizia. Barbara Berlusconi ha il diritto di laurearsi e di percorrere, se questa è la sua vocazione, tutta la carriera accademica. Ma si chieda anche a lei di distinguersi per meriti propri, e lei dovrebbe essere la prima a pretendere di non aver alcun trattamento privilegiato, in modo che, se avrà riconoscimenti, potrà esserne in cuor suo, fiera e presentarsi davanti alla comunità scientifica e alle persone libere, sempre a testa alta. Il favore, non dimentichiamolo, esalta (si fa per dire) chi lo concede, ma umilia chi lo riceve.
(*) Docente di Teoria politica alla Princeton University
IL CASO HEIDEGGER E IL CASO FREUD NELL’ORA DE PERICOLO.
A fine gennaio del 1933, Adolf Hitler giunge al potere. Nello stesso anno, Martin Heidegger diventa rettore dell’Università di Friburgo ed esprime pieno ed inequivocabile appoggio al regime nazista, con il suo famoso discorso su “L’autoaffermazione dell’università tedesca”. Per Heidegger non c’è alcun dubbio che Hitler sia il Messia del popolo tedesco, come ripeterà in uno scritto sul giornale degli studenti dell’Università, il 3 novembre del 1933: “Il Fuhrer stesso e lui soltanto è la realtà tedesca e la sua legge, oggi e da oggi in poi. Rendetevene conto sempre di più: da ora ogni cosa richiede decisione, e ogni azione responsabilità”. La notte scende sulla Germania, e su tutta l’Europa: in un’intervista del 1966, Heidegger, pur mai pentendosi dei suoi trascorsi nazionalsocialisti, dichiarerà che “Solo un Dio ci può salvare”. (per proseguire la lettura, clicca ->)
L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...
(...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino (...)
Rossana Rossanda: "La sinistra non ha linguaggio e programma"
di Bruno Gravagnuolo *
«Subalternità della sinistra all’impresa privata», mancanza di un «suo» linguaggio e persino rinuncia «a difendere fino in fondo l’impianto della Costituzione repubblicana». Disamina tagliente e venata di forte pessimismo quella che Rossana Rossanda ci consegna dalla sua casa di Parigi. In una conversazione fatta di risposte stringate e nette («Non amo le interviste telefoniche...»). Ma almeno il succo è chiaro. Dice per esempio Rossanda: «Non capisco le zuffe tra Bersani, Franceschini e Veltroni. Pure questioni personali o in ballo c’è dell’altro: che società e che economia vogliono?». Oppure: «La verità è che si è smarrito il fondamento delle idee di sinistra. Ci si accapiglia su sostituzioni e sovrastrutture, regole, valori, “narrazioni”, ma non si parla dell’essenziale: i soggetti in conflitto, gli interessi, la natura sociale del potere...». E ancora: «Almeno il Pci certe cose ce le aveva chiare in testa e ben per questo dall’opposizione aveva costruito un tessuto forte nella società che ancora resiste al centro italia, come ho potuto constatare di recente nel Pisano. Strano che debba dirlo io, che nel 1969 venni radiata...». Insomma Rossanda, «vuole andare al cuore delle cose», che per lei «ragazza del secolo scorso» coincide con le domande sull’identità: che cosa significa essere ancora comunisti? Una serie di domande (e risposte) che Rossanda ha rivolto a se stessa di recente a Pisa, in una lezione universitaria. E che qui ritorna in parte. Sentiamo.
Rossanda, malgrado la sua crisi e la quasi scissione di Fini, il berlusconismo resiste. Al contempo la sinistra appare un po’ afasica e incapace di incidere nel blocco avversario. Come mai?
«Il berlusconismo resiste appunto perché la sinistra è afasica. E lo è da quando si è persuasa che la sola figura sociale legittimata a una egemonia sulla società moderna è quella dell’imprenditore della piccola e media e grande impresa, o aspirante tale. E che ogni progetto di egemonia dei lavoratori, materiali e immateriali, per un ordine sociale diverso, è stato un’ illusione, quando non un crimine, dei socialisti e dei comunisti del Novecento. Il discorso di Berlusconi, imprenditore per eccellenza, appare quindi giusto ed è attaccato soltanto per gli eccessi di volgarità, di personalismo e le infrazioni al codice civile. Il Pd non sostiene alcuna alternativa di sistema, non diversamente dalla Idv».
Un paese stanco e depresso, si dice. In piena decadenza morale. Con una destra senza alternativa al momento. È accaduto qualcosa di irreversibile nell’antropologia degli italiani, ormai fortemente cristallizata a destra?
«Un’Italia repubblicana e democratica esiste soltanto dal 1946, e la sua Costituzione, socialmente avanzata, soltanto dal 1948. Inoltre dall’’89 in poi questa Costituzione, mai del tutto realizzata, oltre a essere esplicitamente attaccata da destra, viene considerata discutibile anche alla sinistra, che quando era al governo la ha perfino modificata. Perché la gente dovrebbe considerarla un valore inalienabile, dal quale non arretrare?».
Dall’accettazione del mercato alla subalternità agli imperativi sistemici di mercato e impresa, come lei dice. Dunque sta qui tutta la crisi della sinistra?
«Il mercato è per sua natura “sistemico”. Esso non ha né compiti ne doveri sociali, scambia merci e tende a ridurre tutto a merce. Una sinistra che non tenti di abolirlo, come il comunismo nel 1917, o vigorosamente limitarlo, come Roosevelt o Keynes dopo la crisi del 1929 e i fascismi, cede ad esso ogni sua priorità e di fatto si dimette. In quanto a “ferrivecchi” il liberismo è venerando, è stato limitato soltanto dalle lotte operaie, e Von Hayek e von Mises vengono prima del “neoliberismo” di Reagan e Thatcher».
Eppure nonostante l’incapacità del capitalismo globale di autoregolarsi e la riscoperta della statualità, negli Usa e in Europa, il capitalismo continua ad essere reputato eterno e al più arginabile. È un ferro vecchio novecentesco anche la sola critica del capitalismo?
«La regola del capitalismo è fare profitto e riprodursi, anche affondando questo o quel capitalista, questa quella tecnica. Non puo avere altre regole, e perche dovrebbe? Lo abbiamo visto nel G20,a Copenhagen e nelle fatiche e i compromessi di Obama. Per il resto - rinuncia della sinistra criticare il capitalismo etc,- mi pare di aver già risposto».
Ritieni che il Pd sia riformabile «da sinistra», oppure come sostiene Pietro Ingrao, esso è irrimediabilmente un partito di centro anche dal suo punto di vista?
«Il centro non è una categoria sociale ma di pura geografia parlamentare. Il Pd si propone un capitalismo un poco corretto, e delegittima ogni conflittualità. Il Pci ne aveva assunto alcune pratiche da un pezzo, in parte obbligato dalla collocazione internazionale, in parte per vocazione moderata di molti del suo gruppo dirigente».
La riscossa dei socialisti francesi smentisce le campane a morto sul socialismo europeo, così come la crescita di consensi della Linke tedesca. Può ripartire in Europa una spinta di sinistra, o la sinistra abita ormai solo in America Latina?
«I socialisti francesi sono appena rosei, hanno radice essenzialmente nelle assemblee estive locali, si tengono a mezza strada fra un prudente riformismo e il “centro” di Bayrou, che da noi piace a Casini e Rutelli. Del resto il prossimo candidato all’Eliseo rischia di essere Strauss-Kahn. La Linke è piu a sinistra, ma sostanzialmente sindacalista all’ovest, nostalgica all’est. In America Latina non definirei socialisti né Chavez né Morales né Lula: sono progressisti, che è altra cosa, e antimperialisti».
C’è un rischio reale di regime plebiscitario in Italia, oppure la quasi scissione di Fini ha fugato il pericolo?
«Non credo a un ritorno al fascismo puro e duro, senza libertà di associazione (e quindi senza elezioni, partiti e sindacati) né di parola (quindi senza stampa) nazionalista e antisemita. Il limite accettabile per l’Europa a moneta unica è quello della maggioranza attuale - un liberismo socialmente crudele e nazionalmente velleitario. Fini ne fa parte, il trattato europeo gli va benissimo e viceversa, mentre Bossi e Berlusconi fingono di attaccarlo e stanno diventando imbarazzanti. Fini ha davvero la forza di andarsene? Non lo credo. Comunque, dinanzi a una crisi del centrodestra temo che sarebbe terribile, una coalizione tipo Cln con dentro Montezemolo, Casini, Fini e Bersani. Dinanzi a questa eventualità la sinistra dovrebbe riscoprire un alternativa programmatica di modello, fondata almeno su un rilancio keynesiano dell’economia. Magari in chiave non troppo lontana da quel che sta cercando di fare Obama negli Usa».
Susanna Tamaro sul «Corsera» ha accusato il femminismo di aver reso le donne più sole e omologate alla società dominante. Predica reazionaria o c’è qualcosa di vero nella predica?
«Il femminismo, nelle sue diverse anime, resta il solo tentativo di rivoluzionamento del costume tentato e durato dagli anni ’60 agli 80. Per questo la ex sinistra, dopo un breve flirt, lo ha mollato, gli altri partiti lo abominano e la stampa alquanto vigliaccamente lo deride. Non ho letto Tamaro, ma posso immaginare dove la porta il cuore».
* l’Unità, 28 aprile 2010
La vergogna perduta
un sentimento diventato tabù
di Marco Belpoliti (la Repubblica, 22 aprile 2010)
Il brano che anticipiamo è tratto da Senza vergogna, il nuovo libro di Marco Belpoliti , che esce in questi giorni (Guanda, pagg. 246, euro 16). Il saggio incrocia riflessioni politiche e culturali su uno dei fenomeni più visibili nella società di oggi, che rimbalza dalla società al mondo della comunicazione e che l’autore sintetizza in un quesito: perché nessuno si vergogna più? -L’episodio da cui prende le mosse Belpoliti è la festa per i 18 anni di Noemi Letizia a Casoria, aprile 2009, alla quale partecipò anche Silvio Berlusconi.
La vergogna non c’è più. Quel sentimento che ci suggerisce di provare un turbamento, oppure un senso d’indegnità di fronte alle conseguenze di una nostra frase o azione, che c’induce a chinare il capo, abbassare gli occhi, evitare lo sguardo dell’altro, a farci piccoli e timorosi, sembra scomparso.
Oggi la vergogna, ma anche il pudore, suo fratello gemello, non costituisce più un freno al trionfo dell’esibizionismo, al voyeurismo, sia tra la gente comune come tra le classi dirigenti. La perdita di valore della vergogna è contestuale a un altro singolare fenomeno: l’idealizzazione del banale e dell’insignificante. Lo sguardo ammirato di molti non si rivolge più a persone di notevole rilievo morale o intellettuale, bensì a uomini e donne modesti, anonimi, assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto. Si tratta di un fenomeno prodotto dalla televisione, da alcuni programmi di grande ascolto come il Grande Fratello.
Günther Anders, il filosofo tedesco emigrato in America durante il nazismo, ha scritto che noi «veniamo defraudati dell’esperienza e della capacità di prendere posizione». Come può accadere? Per effetto dell’immagine televisiva abbiamo davanti un orizzonte molto vasto, «in diretta visione sensibile, ma solo attraverso le sue immagini». Incontriamo la realtà «sotto forma di apparenza e fantasma», non il «mondo» bensì «un oggetto di consumo che ci viene fornito a domicilio». Anders spiega: «Chi ha consumato nella propria stanza ben riscaldata un’esplosione atomica sotto forma di un’immagine fornita a domicilio, cioè di una cartolina illustrata in movimento, costui oramai assocerà tutto ciò che può capitargli di sentire su una situazione atomica a questo avvenimento domestico di dimensioni minuscole e con questo verrà defraudato della capacità di concepire la cosa stessa e di prendere nei suoi confronti una posizione adeguata».
In questo brano in cui, per altro, compare per la prima volta l’idea che viviamo «in uno stato liquido», divenuta celebre attraverso il sociologo Zygmunt Bauman, Anders mette a fuoco un problema che ci tocca da vicino, e che influenza anche il modo attraverso cui si formano e si manifestano le nostre emozioni, tra cui appunto la vergogna.
L’esperienza che facciamo è quella dell’assenso che sostituisce il consenso, ovvero del sì incondizionato e slegato da qualsiasi contenuto. È in corso un inarrestabile processo di omologazione fondato sulla democrazia dei consumi, di cui l’audience è il sistema di valutazione, ma anche il fine ultimo: spettacolo è tutto ciò che applaudiamo, scrive Davide Tarizzo, per quanto è ancora vero che non tutto è spettacolo nel mondo odierno, contrariamente a quello che sosteneva Guy Debord, creatore della formula «società dello spettacolo».
In questo contesto la vergogna tende a scomparire, un sentimento proprio di altre epoche dell’umanità, in cui il bisogno di esserci, o meglio, di essere visti, e di vedere tutto, sempre e comunque, non era così significativo e rilevante, come accade oggi. La visibilità come obiettivo ultimo dell’esistenza dei singoli individui.
La vergogna è diventata un tabù. O meglio, si è trasformata in vergogna di non aver successo, di non essere notati: la terribile vergogna d’essere nessuno. Ha scritto uno psicologo che la nostra vergogna contemporanea consiste nel sentimento del fallimento della propria esibizione. Ci si vergogna di vergognarsi, poiché questo richiama l’attenzione di tutti sull’unica cosa che si vuole nascondere: l’insuccesso.
Jean Baudrillard ci ha avvertiti parlando del «delitto perfetto», perpetuato dal trionfo della televisione: se tutto è esposto alla vista, significa che non c’è più nulla da vedere. La realtà stessa sembra scomparire nella totale trasparenza. Secondo Anna Maria Pandolfi, una psicoanalista che ha studiato la scomparsa della vergogna, è probabile che l’esibizionismo e il voyeurismo, che dominano incontrastati, siano in realtà la spia di una diffusa carenza d’identità, ovvero di un narcisismo fragile e povero, «per cui l’essere visti e conosciuti o anche solo guardati, quale che sia il prezzo che per ciò si paga, sembra essere l’unico rimedio a un pericolo vissuto di non valore o addirittura appunto di non esistenza».
Per quanto riguarda la vergogna, non è più vero, come nel passato, che questa emozione costituisca comunque un valore; era ciò che distingueva l’essere umano dagli animali. La vergogna della società contemporanea è, come si è detto, una «vergogna sulla pelle» (Á. Heller) o, come dicono gli psicologi, una «vergogna amorale». Non una vera vergogna, bensì una vergogna di superficie, legata appunto all’etica del successo, al conformismo di fondo che, nonostante le tante parole e immagini spese per innalzare l’individuo, per affermarlo, in realtà lo sta omologando sempre più: diversi, ma sempre più uguali.
La vergogna sulla pelle funziona perfettamente nella società svergognata in cui viviamo, quella in cui la barriera del pudore si è molto abbassata, e non solo quella del pudore sessuale, ma anche del pudore legato allo scambio delle merci. Con una formula assai efficace gli studiosi del contemporaneo parlano di «commercializzazione del sesso e di sessualizzazione del commercio». La pubblicità è il grande veicolo di questa trasformazione dei nostri sentimenti ed emozioni, divenuti essi stessi merci. L’oscenità che domina sugli schermi televisivi riguarda qualcosa di più intimo ancora del corpo stesso, come ha scritto Battacchi. Nei talk-show i partecipanti non esitano a esibire le loro emozioni e i sentimenti, i lati deboli della loro personalità, le mancanze di gusto, i difetti espliciti. Al pubblico piace, e spesso ci si fabbrica un cinismo e una cattiveria adatti allo scopo: colpire chi guarda, farsi ammirare, diventare dei «divi». Così la vergogna morale scompare. Come ci spiegano gli psicologi, la «vergogna morale» comporta la stretta fusione di senso di colpa e di vergogna.
Essere scoperti nel ruolo di traditori, di vigliacchi, nella condizione imbarazzante di colpevolezza, provoca sempre la vergogna morale, mentre la vergogna amorale non è più legata ad alcuna norma, ma solo a modelli di consumo, a etichette sociali, al potere personale o all’esito della competizione sessuale per la conquista di una donna o di un uomo. Questo tipo di vergogna non lascia segni profondi, ma solo uno stato transitorio d’imbarazzo.
Peggio del McCarthy di sessanta anni fa
di EUGENIO SCALFARI *
Tralascio per ora le consuete e querule lamentazioni del nostro pseudo san Sebastiano nazionale trafitto dalle frecce dei magistrati comunisti. Mi sembra più interessante cominciare questo articolo con un’osservazione sul comune sentire dei centristi. I centristi, quelli che non amano prender posizione neppure nei momenti in cui schierarsi sarebbe inevitabile, si rifugiano nella tecnica di mandare la palla in tribuna anziché tenerla in campo. Gli argomenti usati e ormai consueti sono: descrivere le manifestazioni di popolo come stanchi riti vissuti con annoiata indifferenza perfino da chi vi partecipa; sottolineare che "i veri problemi" non sono quelli di schieramento ma i programmi delle Regioni nelle quali si voterà il 28 marzo; infine sottolineare l’importanza di un’astensione di massa dal voto come segnale idoneo a ricondurre la casta politica sulla retta via dell’amministrazione.
Questa saggezza centrista non mi pare che colga la realtà per quanto riguarda i fatti e mi sembra alquanto sconsiderata nelle sue proposte. La piazza del Popolo di ieri pomeriggio era gremita e ribollente di passione, di senso di responsabilità e insieme di rabbiosa indignazione: niente a che vedere con l’indifferenza di un rito stanco. La proposta dell’astensione rivolta al centrosinistra mostra la corda: l’astensione sarebbe soltanto un favore alla maggioranza che ci sgoverna e non metterebbe affatto il governo sulla retta via della buona amministrazione.
Il governo sarebbe ben felice di un’astensione a sinistra che compensasse la vasta astensione che si delinea a destra. Se è vero - e gli stessi centristi lo dicono ormai a chiare note - che il governo non riesce ad esprimere una politica ma mette in opera tutti i mezzi leciti e illeciti per puntellare il suo potere annullando controlli e garanzie, lo strumento elettivo è il solo capace di punirlo affinché cambi registro o se ne vada. Gli elettori di destra in buona fede si astengano invece di turarsi il naso di fronte al pessimo odore che anch’essi ormai percepiscono; quelli di sinistra votino senza esitazioni perché è il solo modo per far rinsavire un Paese frastornato e licenziare la cricca che fa man bassa delle istituzioni.
I problemi concreti, la disoccupazione, la caduta del reddito, l’immigrazione, la sanità, il Mezzogiorno, sono tanti e gravi, ma il problema dei problemi è appunto la cricca e il boss della cricca. Se non si risolve preliminarmente quello, tutti gli altri continueranno a marcire. Ne abbiamo l’ennesima conferma dalle ultime notizie che arrivano dalla Procura di Trani e che sono su tutti i giornali di ieri. Il presidente del Consiglio ha preteso che l’Autorità garante del pluralismo nei "media" azzerasse la trasmissione Annozero, ha dato più volte indicazioni a Minzolini di come condurre il Tg1, ha imposto al direttore generale della Rai di bloccare le trasmissioni sgradite. È possibile che questi comportamenti non configurino reati gravi, ma certo raccontano una politica di sopraffazione indecente contro il pluralismo e la libertà di stampa. Per un leader di partito e soprattutto per il presidente del Consiglio e capo del potere esecutivo, questi reiterati interventi dovrebbero portarlo alle dimissioni immediate e irrevocabili. E i primi a reclamarle dovrebbero essere i suoi collaboratori, ivi compreso il cofondatore del Pdl, Gianfranco Fini.
* * *
Il progetto costituzionale di Silvio Berlusconi è molto chiaro: vuole riscrivere la Costituzione. Non modificarne alcuni punti ma riscriverla stravolgendone lo spirito, mettendo al vertice una sorta di "conducator" eletto direttamente dal popolo insieme alla maggioranza parlamentare da lui stesso indicata e subordinando alla sua volontà non solo il potere esecutivo e quello legislativo ma anche i magistrati del pubblico ministero, la Corte costituzionale e le autorità di controllo e di garanzia. Questo progetto non è nato oggi ma è nella sua mente fin dal 2001, quando ebbe inizio la legislatura che durò fino al 2006 e si svolse durante il settennato al Quirinale di Carlo Azeglio Ciampi. Le divergenze tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio furono numerose e ebbero come oggetto soprattutto quel tema; non potendo cambiare la Costituzione nel modo da lui desiderato Berlusconi tentò di modificarla nei fatti contestando sistematicamente le attribuzioni del capo dello Stato e i poteri che gli derivano. Il capo dello Stato rappresenta il coronamento istituzionale della democrazia parlamentare così come la configura la nostra Costituzione ed è, proprio per questo il maggior ostacolo ai progetti di Berlusconi. Non è dunque un caso che i suoi bersagli costanti siano stati Scalfaro, Ciampi, Napolitano: tre uomini estremamente diversi tra loro, con diversi caratteri e diverse origini culturali, ma con identica dedizione ai loro doveri costituzionali. E proprio per questo sono stati tutti e tre nel mirino di Berlusconi fin da quando salì per la prima volta alla presidenza del Consiglio avendo in animo di governare da solo, senza ostacoli di sorta che controllassero la legalità delle sue azioni e ne limitassero la discrezionalità che egli vuole piena e assoluta.
Gli attriti con Ciampi furono, come ho ricordato, numerosi. Due di essi in particolare avvennero in circostanze di estrema tensione. Il primo in occasione della nomina di tre giudici della Corte costituzionale, il secondo nel momento della promulgazione della legge Gasparri sul sistema televisivo nazionale. Ho avuto la ventura di esser legato a Ciampi da un’amicizia che dura ormai da quarant’anni, sicché ebbi da lui un lungo racconto di quei due episodi poco tempo dopo il loro svolgimento. Non ho mai rivelato quel racconto, del quale ho conservato gli appunti nel mio diario quotidiano. Spero che il presidente Ciampi mi perdonerà se oggi ne faccio cenno, poiché la riservatezza che finora ho rispettato non ha più ragion d’essere al punto in cui è arrivata la situazione politica italiana.
L’episodio concernente la nomina dei tre giudici della Consulta nella quota che la Costituzione riserva al Presidente della Repubblica, avvenne nella sala della Vetrata del Quirinale. Erano presenti il segretario generale del Quirinale, Gifuni e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta. I temi da discutere erano due: i rapporti con la Commissione europea di Bruxelles dove il premier doveva recarsi per risolvere alcuni importanti problemi e la nomina dei tre giudici. Esaurito il primo argomento Ciampi estrasse da una cartella i tre provvedimenti di nomina e comunicò a Berlusconi i nomi da lui prescelti. Berlusconi obiettò che voleva pensarci e chiese tempo per riflettere e formulare una rosa di nomi alternativa. Ciampi gli rispose che la scelta, a termini di Costituzione, era di sua esclusiva spettanza e che la firma del presidente del Consiglio era un atto dovuto che serviva semplicemente a certificare in forma notarile che la firma del Capo dello Stato era autentica e avvenuta in sua presenza. Ciò detto e senza ulteriori indugi Ciampi prese la penna e firmò passando i tre documenti a Berlusconi per la controfirma. A quel punto il premier si alzò e con tono infuriato disse che non avrebbe mai firmato non perché avesse antipatia per i nomi dei giudici ma perché nessuno poteva obbligarlo a sottoporsi ad una scelta che non derivava da lui, fonte unica di sovranità perché derivante dal popolo sovrano. La risposta di Ciampi fu gelida: "I documenti ti verranno trasmessi tra un’ora a Palazzo Chigi. Li ho firmati in tua presenza e in presenza di due testimoni qualificati. Se non li riavrò immediatamente indietro da te controfirmati sarò costretto a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. "Ti saluto" rispose altrettanto gelidamente Berlusconi e uscì dalla Vetrata seguito da Letta. In serata i tre atti di nomina tornarono a Ciampi debitamente controfirmati.
Il secondo episodio avvenne nel corso di una colazione al Quirinale, sempre alla presenza di Gifuni e di Letta. Il Parlamento aveva votato la legge Gasparri e l’aveva trasmessa a Ciampi per la firma di promulgazione. Presentava, agli occhi del Capo dello Stato, svariati e seri motivi di incostituzionalità e mortificava quel pluralismo dell’informazione che è un requisito essenziale in una democrazia e sul quale, appena qualche mese prima, Ciampi aveva inviato al Parlamento un suo messaggio. La colazione era da poco iniziata quando Ciampi informò il suo ospite del suo proposito di rinviare la legge alle Camere, come la Costituzione lo autorizza a fare motivando le ragioni del rinvio e i punti della legge da modificare. Berlusconi non si aspettava quel rinvio. Si alzò con impeto e alzò la voce dicendo che quella era una vera e propria pugnalata alla schiena. Ciampi (così il suo racconto) restò seduto continuando a mangiare ma ripeté che avrebbe rinviato la legge al Parlamento. L’altro gli gridò che la legge sarebbe stata comunque approvata tal quale e rinviata al Quirinale e aggiunse: "Ti rendi conto che tu stai danneggiando Mediaset e che Mediaset è una cosa mia? Tu stai danneggiando una cosa mia". A quel punto si alzò anche Ciampi e gli disse: "Questo che hai appena detto è molto grave. Stai confessando che Mediaset è cosa tua, cioè stai sottolineando a me un conflitto di interessi plateale. Se avessi avuto un dubbio a rinviare la legge, adesso ne ho addirittura l’obbligo". "Allora tra noi sarà guerra e sei tu che l’hai voluta. Non metterò più piede in questo palazzo".
Uscì con il fido Letta. Ciampi rinviò la legge. Il premier per sei mesi non mise più piedi al Quirinale. Venerdì scorso ho rivisto su Sky un bellissimo film prodotto da George Clooney. Si intitola "Good Night and Good Luck", Buona notte e buona fortuna, e racconta di una società televisiva che guidò la protesta dei democratici americani contro la campagna di intimidazione con la quale il senatore McCarthy, presidente d’una commissione di inchiesta del Senato, aveva intimidito e colpito giornalisti, docenti universitari, produttori ed attori, uomini d’affari, sindacalisti, scienziati e tutta la classe dirigente con l’accusa di essere comunisti o loro fiancheggiatori. Quella società televisiva, guidata da un giornalista coraggioso, mise McCarthy sotto accusa, ne documentò la faziosità e suscitò un tale movimento di opinione pubblica che il Senato aprì un’indagine e destituì McCarthy da tutti i suoi incarichi. Sky l’ha rimesso in onda l’altro ieri ed ha fatto a mio avviso un’ottima scelta: la sua attualità è stupefacente. Citerò le parole con le quali il protagonista conclude: "La televisione è uno strumento che può e deve contribuire a rendere le persone più consapevoli, più responsabili e più libere. Se mancano questi presupposti e questi obiettivi la televisione è soltanto una scatola piena di fili elettrici e di valvole". Aggiungo io: una scatola, ma a volte molto pericolosa se qualcuno se ne impadronisce e la controlla a proprio uso e consumo. Good Night, and Good Luck.
© la Repubblica, 14 marzo 2010
L’identità culturale italiana e la difesa delle sue radici laiche
di Guido Rossi (Corriere della Sera, 9 febbraio 2010)
Il dibattito sulle radici dell’Europa, che ha preceduto l’approvazione del nuovo Trattato Costituzionale, ha indotto forse a trascurare la questione dell’identità culturale italiana. Riprenderla oggi significa però mettere in rilievo il fitto intreccio che la collega alle altre, ma allo stesso tempo spiegare come essa condizioni il nostro presente. Le radici nazionali sono antiche, varie, profonde, e tra loro sovente conflittuali.
Sono radici, diciamo così, cresciute «storte». Per spiegarne la ragione è bene considerare che ogni cultura è un accumulo globale di conoscenze e costumi trasmessi, attraverso generazioni, al proprio gruppo sociale. Quella italiana, in particolare, ha maturato un carattere unitario nel pluralismo. Un risultato originalissimo, frutto di bilanciamento e composizione dei conflitti che ha trovato espressione nelle tre storiche rivoluzioni illustrate da Carlo Cipolla: quella comunal-cittadina dei secoli XI-XIII, centrata sul mercato e sulla produzione di manufatti; quella scientifica del secolo XVII, caratterizzata dall’incontro proficuo fra conoscenza teorica e tecnica artigianale; e quella industriale dei secoli XVIII e XIX, capace di impiegare i progressi della ricerca a fini produttivi.
Un filo «ineluttabile» - come lo ha definito Cipolla - ha legato fra loro queste tre rivoluzioni, contribuendo a definire la cornice della nostra identità storica. All’interno di essa, un ruolo essenziale lo ha svolto la lingua. È giusto ricordarne alcune tappe fondamentali: la grande letteratura e in particolare la lirica siciliana di Giacomo da Lentini, inventore del sonetto; il ruolo della corte palermitana di Federico II; i toscani e i loro tre grandi trecentisti; l’unità politica e letteraria teorizzata dal lombardo Manzoni. In parallelo, i progressi della stampa con il primo libro italiano nella benedettina Subiaco; a Venezia i grandi editori, quali Aldo Manuzio e Ottaviano Petrucci, che introdusse la stampa musicale a caratteri mobili.
È facile qui rilevare la varietà di provenienza geografica delle eccellenze, e il carattere non conflittuale dei rispettivi dialetti, espressioni della lingua popolare. Dopo di essa, l’arte, ove è marcata l’influenza storica della Chiesa. La svolta viene da Giotto che introduce nella pittura i soggetti borghesi; poi sarà il Rinascimento a inventare l’unità nella prospettiva; e in seguito la cultura italiana si imporrà ancora all’attenzione del mondo concependo l’estetica del barocco (e assai più tardi quella del futurismo) e riempiendo di opere i grandi musei del mondo.
Un rilievo particolare lo merita poi la musica, anche per un suo aspetto esemplare e poco noto. Vincenzo Galilei, padre del celebre scienziato, fu liutista, compositore, teorico e ideatore della monodia come nuovo stile di canto. La famiglia Galilei simboleggia dunque un collegamento diretto fra arte e scienza nello studio delle note e dei numeri (del resto i pitagorici affascinavano Giordano Bruno).
Una simile contaminazione si può ritrovare anche nella teoria politica (la filosofia mazziniana della musica, con il relativo rapporto fra Dio e popolo) e persino nella pratica diretta (la celebre identificazione patriottica nell’acronimo sabaudoverdiano, W VERDI). Del resto, nella storia della musica si può riscontrare la stessa cifra di unità pluralistica: l’Orfeo di Monteverdi, prima opera italiana, vede la luce a Mantova nel 1607, mentre brillano di luce propria Napoli e Venezia.
Ne segue un’osservazione generale. È erroneo individuare una dicotomia tra umanesimo e scienza, come pure tra quest’ultima e la tecnica: vale per tutte l’immagine di Galileo impegnato a confrontarsi con gli artigiani nell’Arsenale. È invece nella sofferta conquista della laicità, intesa come unione di scienza e libertà, aperta anche al riconoscimento della funzione civile della religione, che si ritrovano le cause di quella «stortura» cui accennavo all’inizio.
È nello scontro con la Chiesa di Roma che i nostri grandi intellettuali sperimentano la durezza della repressione: Giordano Bruno è bruciato nel 1600 al Campo dei Fiori; Campanella subisce 27 anni di galera; Galileo è costretto all’abiura per salvare la pelle. La strada della laicità e della sapienza civile, dall’Alberti a Machiavelli, da Vico a Sarpi, è segnata fin dall’inizio dal conflitto, dalla durezza dello scontro con il potere religioso.
Ancora nel 1764 sarà questa esigenza di laicità ad accendere i lumi di Beccaria, e a spingere anche il Manzoni, nella «Storia della colonna infame», a rifiutare la pena di morte. È toccato alla grande politica il compito di comporre il conflitto: dal concetto cavouriano di «libera Chiesa in libero Stato» all’introduzione dei Patti Lateranensi nella Costituzione, con l’articolo 7. La laicità coincide dunque storicamente con la ricerca di unità nella democrazia costituzionale.
Ma due grandi questioni ancora ci condizionano: il rapporto con la Chiesa di Roma e le persistenti diversità fra Nord e Meridione. Il primo, emerso con chiarezza durante il lungo dibattito sulle radici dell’Europa, deve fare i conti oggi con la pericolosa identificazione, da parte di Joseph Ratzinger, della identità europea con la cristianità. Adottando il concetto di jus publicum europaeum di Carl Schmitt, che sfocia in una contrapposizione totale fra Europa cristiana e ciò che le sta intorno, Benedetto XVI con l’enciclica «Caritas in Veritate» si è allontanato dal sogno laico di Kant, inteso come jus publicum cosmopoliticum. Dal discorso di Ratisbona del 2006, grecità e illuminismo vengono arruolati dal Papa sotto la bandiera della ragione cristiana e cattolica.
Ribadire invece le radici laiche dell’identità culturale italiana, significa oggi non solo fare opera di verità storica, ma anche porre le premesse per una ricomposizione unitaria nella democrazia costituzionale. Quanto al problema delle diversità culturali degli italiani, esso presenta una doppia faccia. Quella laica, modellata sul federalismo del Cattaneo, attenta alle prerogative locali, composte nell’autorità di un parlamento federale. E quella secessionista, nella storica variante meridionale e oggi, soprattutto, in quella aggressivamente nordista, con sullo sfondo l’incognita del federalismo fiscale. Una risposta della politica, al tempo della Costituente, è stata l’istituzione delle Regioni a statuto speciale.
Andare oltre, oggi, dovrebbe significare riscoprire il Salvemini del 1949, che assimilando gli attuali «padani» ai «terroni» come un busto è attaccato alle gambe, concludeva: «I nordici devono occuparsi dei sudici, se non vogliono ritrovarsi a mali passi». A volte si è tentati di credere che davvero, da noi, tutto cambi restando uguale.
Rileggere oggi il «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani», scritto nel 1834 da Giacomo Leopardi, significa ritrovare, come fotografate ieri, le debolezze della cultura nazionale, e in particolare quel diffusissimo cinismo pratico, unito alla mancanza di una vera società civile in cui comporre i conflitti, che induce i più a «mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi».
Ma non è il caso di rassegnarsi a simili costanti. La storia della cultura italiana, nella sua incomprimibile varietà, ci ricorda che, proprio nei momenti difficili, più gravi essi sono, più gli italiani reagiscono.
Ma la nostra lingua non è un "padre-padrone"
la sua bellezza è nella continua evoluzione
Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non
dall’adesione a un’identità, la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne
di STEFANO BARTEZZAGHI *
C’è qualcosa di persino commovente nell’ansia con cui una quota di parlanti, minoritaria ma cospicua, cerca risposte certe in merito alla nostra lingua nazionale. Esiste il verbo "perplimere"? "Qual è" vuole l’apostrofo, non lo vuole mai, lo vuole soltanto quando è seguito da un sostantivo femminile ("qual è il motivo", "qual’è la ragione")? "Piuttosto che" è sinonimo di "oppure", o no? È, quasi sempre, possibile dare una risposta certa: "perplimere" no, non esiste, almeno finora; "qual è" non vuole l’apostrofo in nessun caso; "piuttosto che" esprime una preferenza ("preferisco un dessert piuttosto che un liquore") e non un’alternativa ("mi va bene tutto: mi porti un dessert piuttosto che un liquore piuttosto che un piatto di formaggi piuttosto che della frutta... Scelga lei").
Ma tali risposte sono anche, quasi sempre, meno interessanti delle richieste che soddisfano: riportano a uno stato cristallizzato della lingua, mentre le domande ne testimoniano la continua erosione. Un linguista che sia un vero linguista, e non un burocrate della norma (sempre di per sé provvisoria, almeno in questa materia), sa che perplimere può diventare prima o poi un rispettabile lemma in un futuro dizionario; che l’infame apostrofo tra "qual" ed "è" può ricevere una sua legittimazione; che le grammatiche possono rassegnarsi all’uso ormai dominante del "piuttosto che". Un linguista non può minimamente legiferare, neppure in fatto di lingua, ma è al servizio di fenomeni spontanei che possono solo essere registrati e studiati. A legiferare è il parlante: quando è un singolo come il frate Antonino da Scasazza di Nino Frassica ("concorso Cuore T’Oro"), non può altro che far ridere platee televisive; quando è un’intera categoria, può spostare intere montagne.
Il fatto commovente è che, in assenza di autorità riconosciute in materia, quella larga minoranza prova nostalgia di un’istanza paterna nelle vicenda di una lingua che è appena riuscita, e a volte a stento, a essere madre. Chi ha sensibilità per la lingua spesso smarrisce il senso della di lei duttilità e mutevolezza: la desidererebbe strumento rigido, per sé e soprattutto per gli altri. Lo sportello dell’Accademia della Crusca è il luogo in cui si tenta di ragionare ed di far ragionare sulla differenza fra oggettive infrazioni alla lingua e violazioni della sensibilità stilistica soggettiva. Nelle risposte è spesso percepibile il sospiro con cui l’esperto dà torto a un richiedente di cui condivide quell’indignazione a cui però, in onesta coscienza professionale, non può dare supporto scientifico.
La lingua italiana è certo bistrattata: ma le cause di tale maltrattamento non sono direttamente linguistiche bensì culturali. Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non dall’adesione a un’identità (se la lingua madre fosse scambiata, cioè, per un padre padrone) la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne.
© la Repubblica, 18 gennaio 2010
Salvaguardare l’arbitro sarebbe interesse di tutti
di MARCELLO SORGI (La Stampa, 31.12.2009)
È senz’altro una scommessa, la decisione di Napolitano di porre anche su Internet, su «You tube», il suo tradizionale messaggio di Capodanno, che come tutti gli anni viene trasmesso stasera in tv. Mentre infatti in televisione il Presidente viene mandato in onda a reti unificate, nella larghissima platea di una particolare prima serata, in cui tutti o quasi tengono il televisore acceso anche come indicatore del tempo che manca al brindisi di mezzanotte, il Capo dello Stato, on line, si sottoporrà ad un particolare indice di gradimento: sarà interessante vedere quanti saranno i cliccatori e a che ritmo cresceranno.
Non è un mistero che, nel tempo, il messaggio abbia visto cambiare la sua funzione. Quando i Presidenti «regnavano» in una condizione di quasi assoluto riserbo, l’apparizione dell’inquilino del Quirinale, nel suo studio, alla sua scrivania, intento a cercare un dialogo con i cittadini e con le famiglie, riunite in un momento di serenità, aveva la forza di un evento eccezionale. Di qui l’attenta esegesi e le accurate interpretazioni che se ne facevano sui media, e le reazioni generalmente di consenso che lo accompagnavano.
Da quando invece il Paese è impantanato nella sua transizione infinita, quello del Presidente è diventato un mestiere infernale. Anche se i suoi poteri formali sono molto limitati, il Capo dello Stato è chiamato quasi tutti i giorni ad arbitrare e a cercare di moderare il livello di scontri politici ormai divenuti intollerabili e che spesso degenerano in veri e propri duelli istituzionali, tra governo e Parlamento, tra governo e magistratura o tra giudici e politici a prescindere dalla loro collocazione partitica.
Napolitano cerca di farlo con misura, tentando di indirizzare, nel contempo, le forze politiche a un confronto in positivo, che non si riduca solo a uno scambio continuo di veti o di insulti. Ma va detto che è un’opera assai ardua. Negli ultimi tempi è anche venuto meno quella sorta di rispetto istituzionale che tendeva a tenere fuori il Presidente dai giudizi contingenti dei partiti. Napolitano, in questi suoi tre anni e mezzo di presidenza, è stato attaccato da destra e da sinistra, senza remore. Dovrebbe essere interesse di tutti salvaguardare l’arbitro, specie in un periodo in cui lo scontro si fa sempre più duro. Se invece non lo si fa, vuol dire che la situazione è davvero oltre il livello di guardia.
Il governo e l’intellettuale
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 26.11.2009)
In risposta all’appello di Roberto Saviano al presidente del Consiglio affinché ritiri il provvedimento sul processo breve e all’intervista rilasciata da Carlo Azeglio Ciampi su Repubblica per criticare il provvedimento, intellettuali e politici della maggioranza hanno invocato «concordia» e imparzialità (lo stare "sopra le parti"). Sandro Bondi ha scritto in una lettera aperta a Saviano che la vera cultura democratica è «priva di coloriture politiche», quelle che invece Saviano sembra essersi dato da quando ha vestito i panni «dell’intellettuale militante che nella storia del nostro Paese ha tradito la missione della cultura e che spesso è diventato ideologicamente intollerante verso gli stessi intellettuali non irreggimentati». Infine, a commento dell’appello di Ciampi («basta con le leggi ad personam»), Fabrizio Cicchitto ha tuonato che «Ciampi non è mai stato al di sopra delle parti, ma orientato contro di noi». Sembra di capire che il ragionamento imparziale si identifichi nel primo caso con il ragionamento incolore o il non schierarsi, nel secondo con lo schierarsi (se Ciampi non fosse stato "contro" la parte di Cicchitto sarebbe stato "sopra le parti"). Il secondo caso è meno interessante da discutere perché o illogico o fazioso. Il primo merita invece qualche osservazione perché solleva questioni importanti.
Sembra di capire che giudizio imparziale si dia quando non ci si schiera o non si sta né di qua né di là; che, in altre parole, la "verità" equivalga a una sospensione del giudizio proprio per non formulare giudizi. C’è un grano di vero in questa concezione incolore della verità perché è innegabile - i filosofi, basti ricordare Immanuel Kant, lo hanno spiegato molto bene - che il giudizio produce o un sì o un no. Se questo non può darsi (o per insufficienza di dati o per mancanza di chiarezza nelle idee di chi deve giudicare) allora lo si sospende in attesa di poterlo formulare. Un giudizio sospeso non è però un giudizio. Nel giudizio giuridico, l’imparzialità è l’esito dello sforzo che il giudice fa per formulare un giudizio che sia del colore dei criteri assunti come fondamenti del giudicare: per esempio, i diritti, le regole procedurali e costituzionali. Si sa quanto sia difficile la formulazione di un giudizio che sia in grado di mettere a tacere tutte le possibili contro-argomentazioni per giungere all’unanimità, che è la meta ideale del giudizio imparziale. Se l’imparzialità è difficile nella dimensione giuridica, figuriamoci in quella politica. Se è vero che la politica è l’arena dove interessi e idee si incontrano e scontrano, si organizzano ed cambiano, pare evidente che non sia né possibile né desiderabile la sospensione del giudizio, l’imparzialità angelica, incolore.
E veniamo all’altro argomento invocato, quello della concordia. Bondi l’ha opposta, opportunamente, alla «guerra civile». La concordia è una cosa maledettamente seria. I trenta tiranni che rovesciarono la democrazia ateniese la invocarono per giustificare il colpo di stato con la scusa di mettere rimedio alla discordia che divideva il corpo politico a causa della perversa identificazione della libertà con l’eguaglianza. Un fatto che cancellando la preminenza di rango provocava, dicevano i tiranni, anarchia e disordine. E poi, negli anni in cui la repubblica romana era come un corpo lacerato da eserciti contrapposti (una guerra civile non di parole ma di sangue), Cicerone invocò e predicò la concordia degli animi, quell’unità di intenti che gli amici come i cittadini di una buona repubblica dovrebbero avere. Pare evidente che quella di Cicerone sia un’idea di concordia più attraente di quella dei tiranni ateniesi. Essa era invocata nel nome non di una parte (quella di Antonio o di quella di Cesare, poco importa), ma dei fondamenti della aequa libertas, dell’eguale libertà sancita nei codici e contenuta come valore nella tradizione comune. Concordia, come si intuisce, non equivale né a sospendere il giudizio per evitare dissenso, né, soprattutto, a raggiungere unanimità su una opinione che, se accolta, finirebbe per favorire una parte dei cittadini, e quindi vanificare proprio quella legge fondamentale nel nome della quale l’appello alla concordia è legittimo e giusto.
Dissentire sull’interpretazione di questi fondamenti è legittimo e non un segno di "guerra civile". È frutto di una normale dialettica politica in una democrazia robusta e sana. Perché tanto timore del dissenso politico? E non è per nulla chiaro perché coloro che si sforzano di pensare con la loro testa e di conseguenza formulano giudizi coerenti con le ragioni della nostra comune vita democratica siano "intellettuali militanti" e "irregimentati", mentre coloro che formulano giudizi in coerenza ad uno schieramento politico (per giunta maggioritario) siano invece "senza coloritura", ovvero neutrali e imparziali. Gli intellettuali militanti erano, come si sa, coloro che negli anni della guerra fredda militavano manicheamente pro o contro, in nome di fedi e dogmi più che di ragioni; non per difendere la carta fondamentale ma per realizzare un’idea, e quindi per portare avanti un progetto di cambiamento della costituzione, quello che meglio si adattava alla loro idea. Chi sono oggi gli equivalenti degli "intellettuali militanti" di ieri? Se è l’amore per la verità che ci accomuna, come Bondi dice a Saviano, allora in nome della verità egli non può non vedere che a seminare "l’odio" non sono coloro che si appellano alla Costituzione, ma coloro che vogliono piegarla alle esigenze della loro parte. Ecco perché proprio in nome della concordia e della verità si deve cessare di essere intellettuali militanti per essere "intellettuali critici", intellettuali liberali pronti a formulare giudizi sulle questioni che la vita sociale e politica solleva, in nome e alla luce di quei fondamenti sui quali conveniamo tutti e grazie ai quali possiamo dialogare e dissentire senza per questo essere in guerra.
Antonio Tabucchi denunciato da Schifani Anno Zero 5 febbraio 2009
appello di esponenti della cultura internazionale
Sosteniamo Antonio Tabucchi
in “Le Monde” del 19 novembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)
Le democrazie vive hanno bisogno di individui liberi. Di individui coraggiosi, indisciplinati, creativi. Che osano, che provocano, che disturbano. Così è degli scrittori la cui libertà di espressione è indissociabile dall’idea stessa di democrazia.
Da Voltaire e Hugo a Camus e Sartre passando per Zola e Mauriac, la Francia e le sue libertà sanno ciò che devono al libero esercizio del loro diritto a guardare e a mettere in allerta di fronte all’opacità, alle menzogne e alle imposture dei poteri. E l’Europa democratica, da quando si costruisce, non ha smesso di sostenere questa libertà degli scrittori contro tutti gli abusi di potere e le ragioni di Stato.
Ma ecco che in Italia questa libertà è messa in pericolo dall’attacco esagerato di cui è oggetto Antonio Tabucchi.
Il presidente del Senato italiano, Renato Schifani, gli chiede in giustizia la somma esorbitante di 1,3 milioni di euro per un articolo pubblicato su l’Unità, giornale che tuttavia non è perseguito.
Il crimine di Antonio Tabucchi è di aver interpellato Schifani, personaggio centrale del potere berlusconiano, sul suo passato, sulle sue relazioni d’affari e le sue dubbie frequentazioni - tutte domande a cui l’interpellato evita di rispondere. Informarsi sul percorso, la carriera e la biografia di un alto responsabile pubblico fa tuttavia parte del necessario interrogarsi e delle legittime curiosità della vita democratica.
Attraverso la scelta particolare del bersaglio - uno scrittore che non ha rinunciato ad esercitare la sua libertà - e la somma reclamata - un ammontare astronomico per un affare di stampa -, l’obiettivo perseguito è quello di intimidire una coscienza critica e, attraverso essa, di far tacere tutti gli altri.
Dai recenti attacchi contro la stampa di opposizione a questo processo ad uno scrittore europeo, noi non possiamo restare indifferenti e passivi davanti all’offensiva del potere italiano contro la libertà di giudizio, di critica e di interrogazione.
Per questo motivo noi ci dichiariamo solidali con Antonio Tabucchi e vi invitiamo ad unirvi a noi, firmando in massa questo appello.
Laure Adler, giornalista e scrittrice;
Théo Angelopoulos cineasta;
Homero Aridjis scrittore, ambasciatore del Messico presso l’Unesco;
Michel Braudeau, scrittore ed editore;
Andrea Camilleri, scrittore;
Patrick Chamoiseau, scrittore;
Alain Corneau, cineasta;
Constantin Costa-Gavras, cineasta;
Antoine Gallimard, PDG delle Editions Gallimard ;
Edouard Glissant, scrittore;
Tony Judt,storico e scrittore;
Jean-Marie Laclavetine, éditore e scrittore;
Claude Lanzmann, cineasta e scrittore;
Antonio Lobo Antunes, scrittore;
Claudio Magris, scrittore;
Antonio Munoz Molina, scrittore;
Marie Ndiaye, scrittore, Premio Goncourt 2009;
Orhan Pamuk, scrittore, Premio Nobel di letteratura;
Daniel Pennac, scrittore;
Philip Roth, scrittore;
Boualem Sansal, scrittore;
Fernando Savater, scrittore e filosofo;
Jorge Semprun, scrittore;
Mario Soares, uomo politico;
Philippe Sollers, scrittore;
Serge Toubiana, direttore della Cinémathèque française;
Nadine Trintignant, attrice;
François Vitrani, direttore della Maison de l’Amérique latine.
Su Lemonde.fr La liste completa dei firmatari
«20 anni dopo il muro vi spiego il mio dissenso»
di Rossana Rossanda *
Non è un incidente se il manifesto, che si definisce ancora «quotidiano comunista», ha elegantemente glissato sul ventesimo anniversario del 1989; non per distrazione, ci strillano da vent’anni che la distruzione del muro di Berlino segnava la fine del comunismo, «utopia criminale». Noi su quella «utopia» ambiziosa eravamo nati, ed eravamo stati i primi a denunciare nella sinistra che con essa avevano chiuso da un pezzo i «socialismi reali». Li denunciavamo nell’avversione del partito comunista e nella scarsa attenzione delle cancellerie e della stampa democratiche. Il movimento del ’68 ne aveva avuto un’intuizione, ma non il tempo né la preparazione per andare oltre.
Avevamo aggiunto che almeno dalla crisi del 1974 l’egemonia dell’occidente non mirava più alla messa a morte del comunismo, ma a quella del compromesso socialdemocratico nella sua veste keynesiana. Questo ammetteva che il conflitto tra capitale e lavoro era intrinseco al sistema e per evitare involuzioni fasciste occorreva garantire il lavoro dipendente e una parte consistente di beni pubblici. Se no anche la società europea sarebbe andata, nell’ipotesi migliore, a quella che non Lenin ma Hannah Arendt aveva definito un’americanizzazione fondata sulla libertà politica e la schiavitù sociale. Non è fin risibile, tutt’al più dipietresco, battersi contro le derive autoritarie e presidenzialiste di Berlusconi, e non solo, quando dalla metà degli anni settanta sono tornate a risuonare come novità le trombe di Von Hajek, la correzione rooseveltiana è stata definita, anche dalla nuova sinistra, statalista dunque fascistizzante, e sul «meno stato più mercato» nonché «la crisi fiscale dello stato sociale» si divagava anche sulle nostre pagine, mentre l’Unione europea si avviava con una liberalizzazione dopo l’altra?
E come si poteva non chiedersi, alla luce di questo esito, perché il gigantesco tentativo del 1917 era finito così? L’errore era cominciato quando, perché, dove? Stava in Stalin, in Lenin, in Marx? Cioè nella ipotesi stessa che fosse possibile una società libera non sovradeterminata dalla proprietà e dal mercato? Eppure, dopo la prima rivista del manifesto, i primi anni del giornale e i convegni del 1978 e del 1981, non ce lo chiedemmo più.
Possiamo darci tutte le giustificazioni, per prima la difficoltà a sopravvivere come testata, ma era una resa non confessata all’egemonia della destra, del neoliberismo, dunque dei neocon negli Usa, e della Commissione in Europa. Malamente nascosta dall’esorcismo: sono problemi del novecento, oggi sono superati dalle nuove realtà e dalle soggettività delle nuove generazioni. Come se le une e le altre ne avessero risolta almeno una. Come se oggi il presidente degli Usa, Barack Obama, non vedesse dimezzata dalle lobbies e dai poteri sistemici che pesano sul suo stesso partito, la sua riforma sanitaria, non fosse inchiodato in Medioriente e riuscisse a eliminare una sola delle pratiche che hanno dato origine alla crisi finanziaria del 2008.
La sinistra è a pezzi e noi non stiamo meglio. Né come finanze, né come peso nell’opinione, né fra di noi. «Isoletta socialista», senza padroni, non ci troviamo di fronte a qualcosa che avevamo già intravisto nei socialismi reali: produttività scarsa, demotivazione, fine di un progetto comune, ciascuno per sé, insofferenza verso gli altri?
Quando ho lasciato la redazione nel 1993, battuta dall’assemblea la proposta di applicare una piccola dose di Marx anche a noi stessi, ho sperato che le cose ci avrebbero fatto crescere, che occorreva calma e pazienza. Il 10 novembre mi sono finite tutte e due. Datevi una mossa.
Rossanda, sul comunismo avete sbagliato anche voi
di Piero Sansonetti *
Come molte altre persone di sinistra della mia generazione - cioè di quella che ha iniziato a fare politica nel 1968 - ho per Rossana Rossanda una stima che sconfina nella venerazione. Quindi mi è molto difficile polemizzare con lei, sono intimidito e affetto da complesso di inferiorità. Però questo articolo che Rossanda ha scritto per il Manifesto subito dopo l’anniversario della caduta del muro di Berlino (articolo molto polemico con il suo giornale e con tutta la sinistra; articolo intitolato: "il mio dissenso") mi ha messo di fronte al"mio" dissenso da Rossana Rossanda e questa volta voglio esprimerlo. Anche perché non è solo un dissenso, e un disagio, verso il pensiero politico di Rossanda; ma è una cosa più ampia, che riguarda quasi tutti i padri nobili della sinistra italiana, cioè i miei maestri - da Ingrao, a Tronti e tanti altri - e una certa loro "pigrizia" - se posso usare questa parola un po’ aspra - che da tanto tempo vorrei rimproveragli ma no oso. Stavolta oso.
Riassumo tre dei concetti espressi da Rossanda nell’articolo che pubblichiamo qui sopra. Il primo è una affermazione presa a prestito da Hannah Arendt: finiremo con il ritrovarci in una società americanizzata, cioè in una condizione di libertà politica e schiavitù sociale. Il secondo è una domanda: dove è cominciato l’errore - si chiede Rossanda - con Stalin, con Lenin, con Marx? Il terzo è l’analisi dell’errore. Che in sostanza - schematizzo - consiste nel non aver saputo difendere lo Stato dal mercato, il lavoro dal capitale, e perciò essere rimasti senza un pensiero e una pratica anti-capitalistici.
Perché dissento? Provo a dirlo molto schematicamente. Io semplicemente credo che l’errore che ha fatto fallire la rivoluzione d’ottobre, e ha cancellato il comunismo, è un errore che sta nella rivoluzione d’ottobre e nel comunismo. E sta nel terzo concetto espresso da Rossanda: non penso che il problema della sinistra sia stata la sua incapacità di costruire una fortezza di idee anticapitaliste, credo che sia stato l’opposto: pensare che l’anticapitalismo fosse tutto - fosse esauriente - e che il sapersi battere eroicamente sulla trincea dove si scontrano capitale e lavoro salariato fosse risolutivo. Penso che nessuna delle due cose sia vera oggi, e penso - soprattutto - che non fosse vera nemmeno all’inizio del cammino. Il capitalismo è un aspetto, una fase, un versante della storia della sopraffazione: non è possibile separarlo da tutto il resto, consideralo l’unica fonte della sopraffazione e contentarsi di questo.
Se per caso ho ragione, vuol dire che l’errore non era marginale: era proprio uno sbaglio nelle fondamenta, nel presupposto. Così grande da andare anche molto oltre la nostra area. Perché penso che sia sbagliata anche la convinzione di Hannah Arendt. Non è vero che l’americanizzazione vuol dire schiavitù sociale e libertà politica. La libertà politica, da molto anni, è in fase di continuo ridimensionamento. In tutto l’occidente e in particolare negli Stati Uniti. La libertà politica oggi è poca cosa rispetto a quella degli anni sessanta, e così la libertà individuale, di pensiero, la libertà sessuale, la libertà sociale.
Come non era vero che si poteva costruire un mondo giusto sul piano sociale ma illiberale - l’illusione del comunismo - non era vero neppure il contrario: non si poteva realizzare una grande libertà fondandola sulla schiavitù economica. È un errore di giudizio che non ci riguarda? Ci riguarda eccome, è fondamentale. Io credo che aver pensato che i due campi - destra e sinistra, capitalismo e comunismo - si potessero dividere sui due Gradi Valori (uno per la libertà l’altro per l’uguaglianza) sia stato uno sbaglio. Non credo che sia possibile nemmeno pensare una lotta per l’uguaglianza che non parta dai grandi temi della libertà, e dunque della liberazione da sopraffazioni che - nella maggior parte dei casi - non dipendono solo dal sistema economico e dallo sfruttamento capitalistico.
E allora? Niente, non so andare avanti. Dico solo a Rossanda, a Ingrao, a Tronti, e tantissimi altri, che se continuano a restare prigionieri dell’idea che il problema della sinistra sia solo quello di rafforzare il suo radicamento nella classe operaia, è un guaio. Non perché il mondo sia cambiato (non solo perché il mondo è cambiato) ma perché neppure 50 o 90 anni fa le cose stavano così. Il leninismo è stata una rovina per la sinistra. E non credo che ce ne siamo liberati.
E allora, l’unica cosa che posso dire è che bisogna porsi di fronte a nuovi "pezzi" di pensiero politico - per esempio il femminismo, per esempio l’ambientalismo, per esempio il pensiero della nonviolenza - non come qualcosa da accogliere e sottomettere al proprio pensiero e alle proprie abitudini, ma come qualcosa che cambia noi stessi, come qualcosa non da annettere ma a cui sottomettersi.
Non mi pare, Rossanda, che nessuno di voi sia disposto a questo. Mi sbaglio? E credo che da quella data che tu indichi nel tuo articolo (1978-1981) voi - che avevate guidato grandi rotture culturali nella sinistra, fino a quel momento - non siate più riusciti a produrre molto di nuovo, in termini di pensiero.
E siccome tutta la generazione più giovane di intellettuali è subalterna al vostro pensiero e al vostro carisma, è l’intera sinistra ad essere rimasta senza capacità di pensare. Forse per questo è moribonda, o forse è morta.
Il pensiero liberale e il potere berlusconiano
di Massimo L. Salvadori (la Repubblica, 11.11.2009)
Fin dagli albori del pensiero politico occidentale la riflessione sulla natura del potere ha ruotato intorno alle distinzioni relative a che questo sia detenuto da uno o da pochi o dai molti, abbia un carattere immoderato o moderato, sia concentrato al punto da divenire al limite dispotico oppure articolato e soggetto a controlli e contrappesi. E tutte le forme di governo si sono divise in assolutistiche e in variamente antiassolutistiche. Orbene, la specificità delle prime, nelle loro versioni tanto antiche quanto moderne, è di rendere impossibile ogni balance of power all’interno della macchina di governo e di tendere a impedire qualsiasi opposizione.
La nascita del liberalismo è legata insieme agli eventi che nell’Inghilterra del Seicento posero fine alla monarchia assoluta e al pensiero dei due massimi maestri delle teorie antiassolutistiche, Locke e Montesquieu: l’uno affermò che i regimi liberi poggiano sulle istituzioni rappresentative, sulla piena espressione delle libertà politiche e civili e sul primato del potere legislativo su quello esecutivo; l’altro che la difesa della libertà poggia sulla divisione e sull’equilibrio dei poteri ponendo ad architrave il principio secondo cui «perché non si possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere».
Toccò ad una nuova generazione di pensatori liberali, ai Constant, Tocqueville, John Stuart Mill, levare l’allarme sul fatto che l’attacco all’equilibrio dei poteri poteva venire non soltanto dal vecchio assolutismo, ma anche vuoi da democrazie in cui la maggioranza invoca il diritto di restringere o annullare con un approccio illiberale i diritti delle minoranze, vuoi da leader che, avvoltisi nella bandiera della popolarità, usano degli strumenti offerti dalla democrazia per realizzare una sempre maggiore concentrazione di poteri fino ad esiti autoritari. La prima degenerazione dava luogo alla «tirannide della maggioranza», la seconda al neocesarismo.
Tocqueville e Mill e in seguito Max Weber indagarono poi su un’altra componente del moderno assolutismo: quella derivante dal sommarsi del potere economico, politico e ideologico. Fu Weber a parlare in proposito del costituirsi in un simile caso di una «gabbia d’acciaio» da cui le libertà degli individui e dei gruppi sarebbero risultate sempre più soffocate. Egli, al pari di Tocqueville e Mill, aveva legato il sorgere della gabbia d’acciaio anzitutto all’avvento al potere di una dittatura socialistica collettivistica e statolatrica, ma al tempo stesso sottolineato con forza che essa poteva ben venire anche dal versante opposto, ovvero dalla plutocrazia.
Siffatta premessa non vuole essere un astratto excursus dottrinario, ma un richiamo alle categorie di giudizio che consentono di concretamente ragionare sul processo in atto da noi. È di non molto tempo fa l’articolo di un noto giornalista in cui si sosteneva che in Italia non si dà un «regime», perché vi sono pur sempre il Parlamento, il pluralismo politico, dell’informazione, ecc.
Due osservazioni al riguardo. La prima concerne un uso improprio del linguaggio, che è andato diffondendosi, per cui il termine regime viene reso sinonimo di sistema autoritario o addirittura di dittatura, laddove esso è di per sé neutro e non altro significa se non forma di governo, ordinamento politico, il quale per qualificarsi richiede aggettivi come autoritario, liberale, democratico, dittatoriale, e via dicendo. La seconda riguarda la sostanza di ciò che implica il concludere che, se in Italia non vi è un "regime" (inteso secondo la prima deformante accezione), allora la democrazia resta viva e vegeta.
Si tratta in questo caso di un aut aut concettuale rigido, che preclude la comprensione di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, dove si fanno ogni giorno più evidenti le molteplici pericolose restrizioni che la strategia del presidente del Consiglio ha già imposto e intende ulteriormente imporre al nostro sistema politico e istituzionale; il quale, se non ha i tratti di un regime organicamente autoritario, presenta però quelli di una democrazia minacciata proprio nei suoi fondamenti liberali da chi in maniera assordante pure pretende di essere il corifeo e il difensore dei valori e dei principi liberali.
Ebbene, usiamo le categorie fornite dai classici del pensiero liberale per ragionare sulla natura del potere berlusconiano. Esse ci dicono che le istituzioni liberali entrano in zona rossa quando si determina una concentrazione del potere politico ed economico; quando la formazione di un’opinione pubblica consapevole e autonoma viene limitata e pesantemente condizionata da un dilagante controllo dei mezzi di informazione; quando un potere dello Stato entra in conflitto permanente con un altro potere; quando la maggioranza parlamentare mira a costituirsi in rappresentanza monopolistica della volontà popolare. E, usando queste categorie, possiamo comprendere ciò a cui siamo di fronte.
Berlusconi come singolo assomma un’imponente quota del potere economico, politico e dell’informazione; una simile abnorme attribuzione di poteri, in costante crescendo e che non ha riscontri in nessun altro paese occidentale, poggia su una maggioranza parlamentare che guarda ai problemi del paese costantemente preoccupata di tutelare gli interessi personali di varia natura del capo del governo; questi si serve delle proprie televisioni private, dei quotidiani e periodici che a lui rispondono, della parte delle reti televisive pubbliche su cui è in grado di imprimere il proprio marchio per via politica, al fine di condurre campagne scandalistiche contro politici, magistrati, esponenti delle istituzioni, giornali e giornalisti «nemici»: si pensi solo ai più recenti casi dell’ex direttore dell’Avvenire, del giudice Misiano e di Corrado Augias.
Abbiamo a che fare non con un sistema in cui potere frena potere, ma con un accumulo di poteri di stampo illiberale il quale altera gli equilibri; con una deriva di tipo plebiscitario che punta in maniera ormai sistematica alla delegittimazione del potere giudiziario, della Corte costituzionale, del ruolo di garanzia rappresentato dal Presidente della Repubblica; con la teoria che l’unico potere ad essere legittimato è quello del capo del potere esecutivo in quanto il solo espressione diretta della vox populi: un potere che ora mira apertamente a cambiare la Costituzione così da acquisire il completo primato. Locke, Montesquieu, Mill, Weber: tutti messi in soffitta.
Il paese si trova in un momento storico decisivo. La maggioranza parlamentare è chiamata a fare la conta di quanti non siano disposti a seguire Berlusconi nell’avventura finale in cui egli la trascina, l’opposizione a dar prova di quale pasta sia fatta, l’intero popolo a mostrare ai confratelli popoli d’Europa se intende continuare a soggiacere a uno stato di cose che, se ancora non lo ha chiuso nella weberiana gabbia d’acciaio, certo lo fa già vivere in una condizione che evidenzia una vera e propria immaturità politica e civile.
INTELLETTUALI E SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE (1994- 2009). Quando il potere non tollera il dissenso (di Michela Marzano) e fa dell’"antinomia del potere" l’arma del suo dominio.
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
Quando il potere non tollera il dissenso
di Michela Marzano (la Repubblica, 13.09.2009)
La democrazia comincia a funzionare quando la gente ha la possibilità di scegliere e selezionare la propria classe dirigente. Ma funziona realmente quando la classe dirigente scelta è in grado di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie azioni, di sottomettersi alle critiche e di accettare il dissenso. Ora, come ha sottolineato Nadia Urbinati sulle pagine di Repubblica, uno dei problemi principali di fronte al quale ci si trova oggi in Italia è l’intolleranza da parte del potere in carica di fronte al dissenso: "L’obiettivo è terrorizzare e ridurre al silenzio chi pensa liberamente per infine circondarsi di yes-men e yes-women".
Ma non è tutto. Perché, in fondo, quest’intolleranza di fronte al dissenso ha radici profonde: si fonda sulla volontà (più o meno rivendicata) di non assumersi la responsabilità dei propri gesti e le conseguenze delle proprie azioni. Il nostro Presidente della Repubblica ha allora perfettamente ragione quando invita i responsabili politici alla "moderazione", all’"equilibrio" e alla "responsabilità". Ma che fare quando è il senso stesso di queste parole che sembra ormai desueto? Si può ancora parlare di "senso di responsabilità" quando, deliberatamente, alcuni dei nostri dirigenti si comportano come se la realtà non esistesse?
L’attacco frontale contro la Repubblica, quello più ipocrita contro l’Avvenire e la critica feroce ad una buona parte della stampa italiana e estera da parte di Silvio Berlusconi si iscrivono direttamente in questo clima di "diniego della realtà", un diniego che porta il nostro premier a pretendere che il sistema informativo non faccia altro che indurre il lettore "a recepire come circostanze vere realtà di fatto inesistenti". Alcuni fatti sono stati dimostrati, prove alle mani. Ma Berlusconi continua ad affermare che si tratta solo di "menzogne" e "bugie": "Povera Italia, sulla stampa tutto il contrario della realtà". Cosa resta allora della realtà quando la sola realtà degna di questo nome sembra essere quella enunciata dal potere? Perché sforzarsi ancora di ricostruire gli avvenimenti, cercare di capire quello che accade, e chiedere che i responsabili politici assumano la responsabilità dei propri gesti?
A partire dal momento in cui la realtà non esiste, tutto può essere dichiarato e smentito, senza più bisogno di assumersi alcuna responsabilità. Da questo punto di vista, il caso italiano è sintomatico di una certa ideologia contemporanea, quella stessa ideologia che, promuovendo il volontarismo individualistico, porta a credere che la chiave del successo personale risieda nella capacità che alcuni hanno di manipolare la realtà. È il trionfo dei nuovi eroi carismatici, di cui Berlusconi è un esempio emblematico. A differenza dell’eroe classico, come l’Ettore dell’Iliade, che, consapevole della propria vulnerabilità, è sempre pronto al sacrificio quando le circostanze lo richiedano, l’eroe contemporaneo pensa di essere invulnerabile ma, nel momento in cui gli si chiede di assumersi la responsabilità dei propri gesti, si tira indietro: la realtà è differente da quello che sembra; i responsabili, se proprio si vuol parlare di responsabili, sono altrove. "Ho appreso ad essere forte, sempre a combattere in mezzo ai primi troiani, al padre procurando grande gloria e a me stesso", dice Ettore a Andromaca prima di partecipare alla battaglia. Il suo eroismo consiste nell’assumere fino in fondo i rischi del proprio ruolo: sa perfettamente che lo aspetta la morte, ma non si sottrae alla realtà.
"Presidente - dichiara Berlusconi il 4 settembre a Giorgio Napolitano - sappi che in tutta questa storia di Boffo io non c’entro assolutamente nulla, i giornali hanno diffuso solo falsità. Feltri lo conosci anche tu. Semmai la prima vittima sono io". Leggendo queste parole, sembra quanto meno legittimo interrogarsi su ciò che caratterizza oggi molti nuovi leader. Sottrarsi alla realtà, imbrogliare le carte, chiedere ad altri di sacrificarsi al proprio posto? Tanto più che Berlusconi non è un caso isolato. Non è proprio quello che altre personalità politiche europee, come Nicolas Sarkozy o Angela Merkel, rimproverano a una parte del mondo della finanza e ad alcuni traders, i cui comportamenti irresponsabili (e raramente assunti) sono all’origine della crisi economica attuale?
Per non perdere il proprio posto di leader e evitare che un crepa possa rovinare il proprio ritratto - il ritratto di uomini dotati di onnipotenza e capaci di realizzare tutto ciò che i loro avversari non hanno mai osato o saputo intraprendere - i nostri eroi contemporanei devono potersi sottrarre alla realtà, negarla, ricostruirla a proprio piacimento. È proprio all’interno di questo meccanismo di diniego e di ricostruzione che il nuovo eroe può d’altronde muoversi a proprio agio e prosperare, incarnando alla lettera (ciò che forse spiega il suo successo) i valori dell’individualismo e del volontarismo promossi dalla contemporaneità: sottratto al ruolo che altri possono avergli assegnato, è ormai pronto a tutto; svincolato dai vecchi obblighi morali, che dettavano i precetti dell’agire, pensa di poter sempre determinare ciò che desidera. Peccato che, all’interno di questo nuovo mondo eroico, non ci sia più nessun posto per la "moderazione", l’"equilibrio" e il "senso di responsabilità" cui ci richiama il capo dello Stato! Che senso, infatti, può ancora avere parlare di "responsabilità" - termine che si riferisce direttamente ai doveri e agli obblighi legati al ruolo che si riveste e alle funzioni che si occupano - quando non solo si negano le conseguenze dei propri atti, ma si pretende anche che la realtà sia differente da quello che è? A quale "moderazione" ci può ancora riferire quando più nessun limite sembra esistere, dal momento che la realtà - che è proprio ciò che limita l’azione della volontà onnipotente - non esiste più?
Ciò cui si sta assistendo oggi in Italia mostra tutti i paradossi di una certa modernità: nel momento in cui l’autonomia e la libertà sembrano potersi finalmente affermare - permettendo alle persone di sottrarsi all’universo dell’eteronomia (in cui le norme morali vengono imposte da un’autorità esterna) e di accedere a un mondo in cui ognuno ha la possibilità di scegliere liberamente ciò che vuole fare della propria vita, assumendone però sempre le conseguenze - le derive incarnate dai nuovi leader svuotano dall’interno libertà e autonomia. La loro condotta irresponsabile sembra suggerire che basta "volere per potere" e che, una volta che si è agito, poco importano le conseguenze perché la realtà può essere manipolata e ricostruita. Come denunciava Orwell in 1984: "La realtà non è qualcosa di esterno, la realtà esiste solo nella mente [...]. Non è possibile discernere la realtà se non attraverso gli occhi del partito". Peccato che, nel momento stesso in cui la realtà esterna non ha più valore, anche la libertà e la responsabilità non abbiano più senso.
Conversando con Goffredo Fofi critico cinematografico e letterario
«Gli intellettuali?
Servi del potere di turno
Una brillante corporazione»
La sinistra si è suicidata e «sinistra» è rimasta una parola senza senso
di Oreste Pivetta (l’Unità, 22.09.2009)
Farabutto, coglione, va’ a morì ammazzato. Da tempo ormai. Ha ragione Brunetta quando dice che tutto sommato sono soltanto modi di dire popolari. Ma una volta a scuola si sussurravano appena e per sentirli sonanti bisognava incappare in una lite di mercato o di condominio. Adesso siamo alle platee politiche e alle (massime) responsabilità politiche, dopo un breve viatico televisivo, con la scusa del dialetto, nell’esercizio del dialetto come piacerebbe a Bossi (dal celeberrimo gesticolare), ma dalla parte del potere. Democrazia tra Chavez e Putin, diceva ieri Daniel Cohn Bendit, il politico francese, all’Unità. Storie diverse.
Con un filo d’arroganza nazionale si potrebbe alludere a tradizioni democraticamente diverse, almeno dalla metà del secolo scorso.
«Ma nell’ultimo ventennio - dice Goffredo Fofi, tra i pochi intellettuali critici di questo paese - ci siamo messi a correre: stupisce la rapidità del declino...».
Le tradizioni, a quanto pare, sono andate a farsi benedire, divelte, sconquassate, annichilite nel confortante silenzio delle maggioranze. Perché alle fondamenta del regime berlusconiano ci staranno i soldi, ci staranno le televisioni, ma ci stanno anche le maggioranze... Come definirle queste maggioranze? Menefreghiste, qualunquiste, indifferenti, sfiduciate? Perché ci siamo così presto abituati alle bravate, parole e atti, dei nostri governanti? Insomma che paese siamo?
«Rispondo che ha ragione Cohn Bendit: tra Putin e Chavez, in mezzo a qualsiasi dittatorello che non ha più bisogno delle armi e dei bastoni per imporsi. Ma è una storia antica: il populismo è l’arte di manipolare l’opinione pubblica e gli esempi risalgono ai millenni passati. Nerone insegna. Adesso semplicemente si usano i mezzi di comunicazione di massa, ma non è che allora non non ne disponessero con la loro buona parte di originalità».
Magari offrendo i cristiani in pasto alle belve.
«Il problema sarebbe reagire. Ma chi reagisce? La destra non ha nulla da dire e non ha neppure interesse a dire qualcosa o a cercarsi altre strade o altre collocazioni e la sinistra si è suicidata e “sinistra” è rimasta una parola senza senso, che evoca soltanto assembramenti e divisioni, clan, famiglie, gruppi e litigi, con un modello di sviluppo in testa che non è diverso da quello che agita chi governa e con l’idea fissa soltanto di entrare nelle stanze del potere. Per che cosa, per quale futuro? Quali prospettive ci vuole indicare?». Ci è capitato di leggere quella bellissima invettiva di Don Tonino Bello contro gli intellettuali: «Siete latitanti dall’agorà.... State disertando la strada... Vi siete staccati dal popolo».
D’accordo: chi avrebbe il compito di criticare e di pensare per l’avvenire non è più un riferimento per il presente, è diventato un imbonitore a libro paga...
«Sono stato di recente a un convegno sul teatro. E naturalmente parlando di teatro e di teatranti, la prima questione che salta fuori sono i finanziamenti. Ogni assessore ritiene che i soldi della collettività siano suoi e ne deduce di poterne fare quello che vuole: premiare l’amico, il parente, premiare chi gli lecca il culo...». Siamo arrivati al cattivo esempio della parolaccia... «Per dire però che l’abbandono di criteri morali e culturali è ormai una questione antropologica...».
Di una mutazione antropologica. Siamo di nuovo alla fine delle lucciole.
Non è il malaffare o l’ignoranza del singolo...
«No, si fa così perché s’è rinunciato a ragionare, a immaginare il domani, a discutere e a decidere che cosa sia sbagliato e che cosa sia giusto e scegliere il giusto, anche quando il popolo sbraita chiedendo caramelle invece di un lavoro serio o di una scuola seria...». Siamo al top del disastro. E, permetti, non è questione di precari...«No, il caos generale dimostra come la scuola abbia esaurito la sua funzione. Gli utenti, clienti, consumatori, la gente insomma, pensa che così debba essere e che così si debba continuare a governare, in una società guidata dal ciclo delle merci e dalla pubblicità. Si è abituata. Ecco la mutazione».
E gli intellettuali? Non dovrebbero aprirci gli occhi? «Gli intellettuali prosperano, autentici guru, predicatori inesauribili, megalomani e narcisisti, che non contano niente o contano soltanto in funzione di un potere che li usa come mediatori, un potere molecorale rappresentato e conteso tra mafie, camorre, massonerie di ogni genere... Clan opportunistici di cui l’Italia è strapiena. Poi arriva Brunetta e annuncia: basta con l’assistenzialismo, basta con il clientelismo. Salvo poi rifare assistenzialismo e clientelismo per quelli e con quelli che gli stanno più simpatici. Vedi, la Costituzione dice che bisogna dare ai poveri e ai meritevoli: ma chi giudica? Dove stanno in Italia i probiviri? Frequenti le giurie dei premi letterari: sempre gli stessi, critici e autori, che parlano di se stessi e dei loro libri, premiati e premiatori insieme, una volta a te, una volta a me. Una brillante corporazione. Chi sente più la responsabilità nei confronti della società? Nessuno».
Nessuno che insegni. È un paradosso, forse.
«Ma certo. L’Italia è paese ancora vivo grazie a tante brave persone. Se non fosse così sarebbe alla catastrofe».
Mancano i punti di riferimento...
«Alla lettera. Non esistono persone di riferimento. Morte. Non esiste chi pensa, chi guarda avanti, chi immagina il futuro, chi rifà opera di formazione nei confronti delle giovani generazioni in rapporto a ciò che dovrà essere. Solo o con gli altri. E qui s’aggiunge la terribile colpa della sinistra, di una sinistra piegata a rincorrere chi ha vinto, cioè i modelli del consumismo, delle merci, del libero mercato...».
La vorresti alternativa?
«La vorrei solidale, capace di ascoltare, capace di inventare, critica. Ennio Flaiano diceva che la sinistra è bravissima a fare l’autocritica degli altri».
C’e una bella espressione di Cohn Bendit, che ho letto sulla tua rivista, «Lo straniero»: «...continueremo nello sforzo di spezzare la caratteristica proprietaria del sistema politico sia a livello nazionale che locale ed europeo. Più che mai noi promuoveremo il concetto di software libero applicato alla politica e alla società».
«Sì, per rompere gli schemi di una democrazia autoritaria e proprietaria. Il che significa in questo paese ricostruire una cultura diffusa dello stato e della collettività. Come mi è sempre parso si fosse riusciti nel ventennio dal ’43, dalla Resistenza, al ’63, al tramonto cioè del centro sinistra, alla sconfitta dei suoi disegni più innovatori...».
Basterebbe pensare alla casa, all’urbanistica, al ruolo allora di tanti intellettuali.
«Quelli che adesso mancano. Perché non esistono più i critici, non esistono i teorici. Sopravvivono gli informatori e gli accademici, come Asor Rosa, che ancora predica l’autonomia della politica. Tutti affetti da narcisismo. Mi è appena arrivato un libro di Lucio Magri, con la sua bella faccia in copertina. Ma capisci! Neanche fosse Clooney. Si specchierà nella sua copertina. Invece credo che il primo dovere degli intellettuali, compreso il sottoscritto, sia certo guardarsi allo specchio, ma per sputarsi in faccia, per riconoscere il proprio fallimento».
Una volta si diceva: ci salverà la Chiesa...
«Tutti crediamo che la Chiesa si debba occupare della gente, cioè della collettività dimenticata dalla politica. Ma il primo scrupolo della Chiesa è la salvaguardia della istituzione».
Come saremo?
«Quello che colpisce è la velocità appunto del declino italiano. In altri paesi d’Europa il senso dello Stato e il senso della comunità resistono. Da noi dominano egoismo e cinismo orripilanti. A Venezia, all’uscita dal cinema, dopo la propriezione del film di Patrick Chereau, la gente quasi vomitava: se qualcuno ti mette di fronte alla realtà, le reazioni sono il vomito e la fuga». ❖
Gli intellettuali tacciono? Non hanno niente da dire
di Marcello Veneziani ( il giornale. 08/10/2009
Ma non vi sfiora il sospetto che «il grande silenzio» degli intellettuali sia dovuto al fatto che non hanno più niente da dire? Si celebra in quest’autunno il trentennale della loro decadenza e il ventennale della loro caduta, insieme al Muro di Berlino. Da quel tempo si narra del silenzio degli intellettuali e del loro isolamento. Il pensiero muore con la fine della modernità, celebrata da Lyotard e poi da Vattimo trent’anni fa. La storia svanisce con il Muro di Berlino, vale a dire un ventennio fa, come scrisse allora Fukuyama. Lungo il secolo è stato tutto un susseguirsi di cannibalismi: il libro sopraffatto dal giornale, il giornale dalla radio, la radio dalla tv, la tv da internet e via dicendo. E così il teatro sopraffatto dal cinema e il cinema dal video e dalla musica rock. Via via la cultura si è ritirata a vita privata e gli intellettuali si sono fatti marginali.
A celebrare la loro scomparsa è venuto un brontosauro degli intellettuali organici «destinato all’estinzione», come egli stesso dice: Alberto Asor Rosa in un libro intervista con Simonetta Fiori (Il grande silenzio, appunto, uscito da Laterza, pagg. 181, euro 12). Barone rosso, ideologo del Pci e del ’68, accusato poi di essere il grande vecchio delle Br, autorevole critico letterario. A suo merito opere come Scrittori e popolo nel 1964, ed altri scorci autobiografici più recenti, compresa una confessione di nichilismo & apocalissi. A suo demerito il ruolo di cattivo maestro dell’operaismo che non disdegna la violenza purché «progressiva» (lo ribadisce anche in questa intervista); che non si smuove da un comunismo utopistico e settario che potremmo definire aristocomunismo (un altro autorevole compagno è Luciano Canfora, un altro è Leone de Castris, aristocratico anche dal profilo genealogico), nutrito di uno sprezzante manicheismo. Noi ne parliamo lo stesso, perché a differenza di Asor Rosa e degli intellettuali come lui, crediamo alla civiltà del dialogo e preferiamo leggerlo e criticarlo, anziché ucciderlo col silenziatore (a proposito di grande silenzio... ). Invece Asor Rosa preferisce cancellare o demonizzare il nemico.
Cosa emerge in questa intervista-congedo? La tesi vetero-operaista e vistosamente infondata che l’intellettuale nasce con il capitalismo; il rimpianto aristocratico delle vecchie élite del passato e della saldatura tra oligarchie e intellettuali; l’assurdo alibi che i comunisti restarono stalinisti a causa delle censure fasciste (i comunisti furono devoti a Stalin fino alla sua morte e oltre, diversi anni dopo la caduta del fascismo); l’asservimento totale della cultura al Pci, con storie di incredibile obbedienza al Partito: «Se Togliatti indicava una strada bisognava seguirla. Senza discussioni». E ancora: dopo alcune sue timide obiezioni un alto dirigente comunista tuonò: «Ci vogliono i campi di concentramento!». E obbligandolo a candidarsi, fu detto al Barone Prof. Asor Rosa: «In questo partito un iscritto non discute i deliberati della direzione. Ubbidisci e basta!». E l’illustre professore ubbidisce e «scatta sull’attenti come una recluta». Il bello è che Asor Rosa rimpiange quell’epoca: «Almeno un certo ordine c’era». L’ho sentito dire anche a vecchi fascisti.
Ma che credibilità potevano avere questi intellettuali così arroganti all’università e con chi non la pensa come loro e così servili e acriticamente ubbidienti con il Partito? A proposito del fascismo, Asor Rosa accetta di passare, come egli stesso dice, per «il più agguerrito neo-revisionista» arrivando a riabilitare il fascismo rispetto a Berlusconi. «Da tutti i punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo»; il fascismo, dice, era almeno dentro una tradizione nazionale, aveva un rapporto stretto con il risorgimento. Il berlusconismo no, svuota le idee dell’avversario e nega tutto, Resistenza inclusa, facendola propria. E vi risparmio la solita analisi sulla dittatura populistica o la democrazia totalitaria, che corrompe dentro e distrugge fuori. Torna antifascista quando dice che dietro il fascista più onesto c’era l’olocausto (che però quel fascista ignorava); ma dimentica di dire che dietro il partigiano comunista più onesto c’erano i gulag e un sistema totalitario che il fascismo solo si sognava... Obiezione elementare, ma vera.
Infine Asor Rosa si attacca ai prof, alla scuola, ai libri di testo ritenendoli - credo con ragione - l’ultima Stalingrado del comunismo e dintorni (lui dice «l’ultimo baluardo»). Ma non senza ammettere che il progetto comunista e sessantottino è fallito: «La quantità ha soffocato la qualità», fu cancellato il merito. Parole sagge dopo un magistero dissennato. Chiudendo il libro, torno al titolo e dico: ma gli intellettuali non sono stati ridotti al silenzio. Sì, siamo in una società di massa, volgare e mercantile, dove le idee e la cultura non contano, le merci prevalgono sui pensieri, gli intellettuali sbiadiscono. Però, quella poderosa corazzata che ha esercitato l’egemonia, dal ’68 in poi, quali opere memorabili ha prodotto negli ultimi trent’anni? Poco o nulla. Eppure aveva in mano il potere editoriale e culturale.
Ma non ricordo nessuna opera essenziale, nessun nuovo pensiero, nessuna grande fioritura. Tra le ultime opere notevoli, la dichiarazione di decesso del comunismo firmata da Lucio Colletti, comunista pentito, sul tramonto dell’ideologia. Poi il nulla. In filosofia, in letteratura, in cultura politica, in storia. Se qualcosa è emerso, oltre i ripescaggi del grande pensiero novecentesco, quasi tutto conservatore, reazionario e protofascista, è stato fuori e contro quell’egemonia della sinistra.
Da qui il sospetto che il grande silenzio degli intellettuali sia dovuto principalmente al fatto che non avevano più nulla da dire e quel poco che potevano dire, non hanno avuto il coraggio di dirlo. Ma gli intellettuali veri si misurano dalle opere, non dal potere che hanno. E obbediscono alla passione di verità, qualunque essa sia, non agli ordini del Partito. Perché poi, quando finisce il Partito, non sanno più cosa pensare e si limitano a inveire contro il primo Berlusconi che passa.
GLI INTELLETTUALI NELLA CIVILTÀ MONTANTE
PUNTO E A CAPO
di Ida Dominijanni (il manifesto, 08.10.2009)
Che ne è dell’intellettuale novecentesco nell’era dei massmedia e nell’evo di Berlusconi, quando si rompe il rapporto fra politica e cultura e il capitalismo postfordista cancella operai e borghesia. «Il grande silenzio», intervista ad Alberto Asor Rosa curata per Laterza da Simonetta Fiori
«Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia. Più del fascismo? Inclino a pensarlo». Così Alberto Asor Rosa il 4 giugno 2008 su questo giornale, non senza scandalo. Quel giudizio e le sue ragioni ricompaiono ora ne Il grande silenzio, la sua lunga intervista sugli intellettuali che Simonetta Fiori ha raccolto per Laterza (giocando, va subito detto, un ruolo tutt’altro che secondario nell’andamento del discorso). Ai tre criteri di misura che in quell’articolo motivavano quel giudizio - senso dell’unità nazionale, rapporto fra cittadini e istituzioni e fra presente e tradizione - se ne aggiunge dunque un altro, lo stato in cui versa la questione degli intellettuali nell’«evo berlusconiano», stato che a sua volta riporta all’analisi della «civiltà montante» massmediatica e globalizzata in cui viviamo. La diagnosi del presente è l’approdo e non l’inizio dell’intervista, che per tre quarti procede lungo un asse di ricostruzione storica della questione nella vita della Repubblica; ma è lecito partire da qui, credo, e poi andare a ritroso, perché Asor Rosa è l’incarnazione della funzione intellettuale incardinata sul rapporto fra politica e cultura che nel libro mette a fuoco, e dunque è il problema tutto politico del «che fare oggi» che lo muove e lo tormenta, pur mentre di quella funzione dell’intellettuale politico decreta l’estinzione. Che fare dunque oggi, e com’è fatta la «civiltà montante»? A fronte della nitidezza della panoramica sul passato, qui lo sguardo si fa più esitante, e perciò più stimolante. Non per quello che riguarda il giudizio politico su Berlusconi, che è nettissimo: «il prodotto finale di una lunga decadenza del sistema liberaldemocratico», che persegue, facendo tabula rasa della storia nazionale dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituzione, «un assetto politico-istituzionale di tipo monocratico», forte della «devastante anomalia» che unisce in lui «il padrone dell’immaginario collettivo e il dominus della cosa pubblica». L’esitazione riguarda piuttosto l’epoca che al berlusconismo fa da cornice, la «civiltà montante», appunto, dei massmedia. Della quale, dice Asor, «mi rendo conto di essere portato a cogliere più gli aspetti negativi che quelli positivi», e tuttavia «il grande dilemma è se il nuovo Moloch porti con sé valenze positive che il vecchio sguardo non è in grado di cogliere».
Totalitarismo democratico Proviamo dunque ad addentrarci nel dilemma a partire dagli aspetti negativi: omologazione intellettuale, appiattimento dell’immaginario, prevalenza del criterio commerciale su quello culturale; metafisica dell’apparire contro l’essere; rappresentazione della realtà secondo il gradimento dell’audience; assolutizzazione della verità contro il giudizio critico, che invece «non si fonda su verità assolute ma sul senso del relativo»; epidemia dilagante di quella «peste del linguaggio» che Italo Calvino denunciava nelle sue indimenticabili Lezioni americane. Lucidamente Asor Rosa ne trae le conclusioni per i destini non solo dell’intellettuale - «la funzione intellettuale tradizionale, fondata su spirito critico, spiccata individualità, riconoscibilità pubblica, appare inesorabilmente destinata al tramonto» - ma della stessa democrazia: «E’ una fenomenologia non immune da inclinazioni totalitarie, nel senso che le sue conseguenze, seppure ottenute con mezzi radicalmente diversi, non sono dissimili dall’appiattimento voluto e praticato con strumenti coercitivi dal totalitarismo novecentesco: omogeneità di giudizio, conformismo di massa, uniformità dei consumi». La diagnosi è giustamente spietata, in linea con altri contributi (Tronti, Cacciari, Badiou, Rancière, Nancy) che sfidano il fondamentalismo della fede nella democrazia oggi imperante strappando all’homo democraticus la maschera di sovranità e autodeterminazione che ne copre dipendenze e manipolabilità. Ma Asor Rosa diffida delle sue tentazioni catastrofiste, e di fronte a queste derive del presente vorrebbe piuttosto ritrovare la capacità marxiana («sono forse l’unico al mondo che ha letto tutto Marx e tutto Dante, virgole comprese») di cogliere non solo la distruttività ma anche la carica innovatrice dell’ingranaggio capitalista, per capire come smontarlo e come sovvertirlo. Eccoci dunque al dilemma di poco fa: dove trovare nel Moloch della «civiltà montante» le valenze positive su cui fare leva per il «che fare»? Lasciamo sospesa la domanda e procediamo all’indietro, sulle tracce di quella figura dell’intellettuale novecentesco che oggi rischia l’estinzione come , scherza Asor, i dinosauri che pretendevano di restare uguali a se stessi in presenza di un mutamento ciclopico del clima e dell’ambiente. Con ogni evidenza, nel ritratto che Asor Rosa ne traccia, l’intellettuale novecentesco è figura del rapporto fra politica e cultura. Di un rapporto non organico - Asor conferma qui la sua distanza da Gramsci - bensì critico, ma comunque strettissimo e imprescindibile. Fuori da questa posizione schierata, partigiana e militante, quella figura svanisce o nell’isolamento individualista dell’uomo di cultura o nell’opportunismo degli «apoti», quelli che oggi come nell’Italia prefascista e fascista non si schierano né di qua né di là, avallando di fatto il potere costituito. Invece, «da Max Weber fino a Bobbio l’intellettuale è quello specialista che traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale, e lo usa come strumento per cambiare le istituzioni, la politica, la società, talvolta l’antropologia circostante». Presente sia a destra che a sinistra, a destra l’intellettuale viene cancellato dal totalitarismo fascista e nazista, mentre a sinistra sopravvive in forme eretiche al totalitarismo comunista. La sua storia è intimamente intrecciata quindi con la storia della sinistra. Di questo inteccio Asor Rosa fornisce un resoconto completo e convincente, ripercorrendone tutti gli snodi princiali: il trauma del ’56 e la crepa che aprì nell’ortodossia comunista, il riformisnmo del primo centrosinistra, il ciclone degli anni Sessanta («il deprezzamento del ’68-’69 fa parte integrante del clima degradato di questi nostri giorni»), la stagione del consenso intellettuale più vasto, ancorché tutt’altro che compatto, al Pci berlingueriano fra il ’72 e il ’78, il «dramma» del ’77 (organizzare la visita di Lama alla Sapienza fu «un clamoroso errore»), il terrorismo e l’assassinio di Moro, la «mutazione morfogenetica» del Psi craxiano in macchina di potere, infine la svolta del Pci nell’89. L’impronta spiccatamente autobiografica aggiunge verità al racconto, punta su alcuni momenti peculiari (l’esperienza delle riviste operaiste negli anni Sessanta, quella di Laboratorio politico negli Ottanta), ne chiarisce altri (la rottura fra Asor, allora direttore di Rinascita, e Occhetto, non tanto sul che cosa quanto sul come della svolta: «La verità è che mi sentii tradito. L’operazione di Occhetto, inattesa e fulminea, improvvisata ed estemporanea, era passata come un ciclone sul lavoro culturale condotto in quegli anni insieme»), invita a un confronto con vissuti e giudizi diversi su altri momenti ancora (il ’77, ad esempio). Ma più che insistere sulla storia dei decenni passati, è sul suo esito che il libro ci sospinge, e ci inchioda. Sull’esito - il «più del fascismo» da cui siamo partiti, e al suo cospetto «il grande silenzio» degli intellettuali italiani o di ciò che ne resta - gravano tre processi incrociati. In primo luogo l’impoverimento della politica, dagli anni Ottanta sempre più autoreferenziale e incapace di ascoltare l’apporto di specialismi e voci critiche. In secondo luogo il cambiamento della composizione di classe della società: se l’intellettuale novecentesco si definisce nel suo rapporto con la borghesia o, dove questo spostamento si è dato o è stato tentato, con la classe operaia, un rapporto dello stesso tipo non pare ad Asor ripetibile nel panorama sociale senza classi del postfordismo. In terzo luogo, la furia di cancellazione delle radici storiche e delle tradizioni politiche che imperversa - coltivata da ondate successive di revisionismo - su tutta la scena pubblica italiana: a destra, dove vige «l’ideologia onnivora del presente» di Berlusconi, ma anche a sinistra, dove dopo l’89 hanno trionfato o una autocritica liquidatoria della tradizione (tanto più zelante proprio negli intellettuali che le erano stati più organici) o una sua riaffermazione acritica.
Zone di resistenza Ma se è così, è dall’interno di questa stessa diagnosi che si possono trovare i punti di leva per il «che fare» che Asor Rosa lascia aperto. Lasciamo perdere l’appello a una qualche riforma o a un qualche risveglio della politica ufficiale, che il ceto politico attuale non sembra in grado di recepire, e guardiamo piuttosto alle «zone di resistenza» da cui lo stesso Asor invita a ripartire, indicandone una nella scuola pubblica e nell’università, a suo giudizio corrose ma non distrutte dalla decadenza degli ultimi decenni. In questa ricerca delle zone di resistenza può essere proprio il panorama sociale postfordista di cui Asor Rosa diffida a venirci in soccorso, se è vero com’è vero che uno dei suoi tratti distintivi è proprio la crescita esponenziale di una intellettualità diffusa, diversa per composizione sociale dall’intellettuale novecentesco, priva delle (e distante dalle) sue forme di mediazione politica nonché linguistica, e tuttavia non riducibile all’omologazione conformista prevalente nella «civiltà montante». Non per caso, del resto, il neo-operaismo di oggi vede nel lavoro intellettuale postfordista potenzialità analoghe a quelle che l’operaismo degli anni Sessanta vedeva nella classe operaia di fabbrica. E non per caso è nelle pieghe dell’ingranaggio multimediale, dentro e contro di esso, che si combatte ogni giorno e ogni minuto quella battaglia sul senso e l’interpretazione del presente un tempo affidata - ma anche delegata - alle grandi ideologie.
Vero è invece che anche questa battaglia minuta, diffusa e quotidiana rischia di farsi fagocitare dall’«ideologia onnivora del presente» che non è solo un tratto del berlusconismo, ma è inerente alla forma stessa della razionalità massmediale della nostra epoca. E vero è dunque che anche questa battaglia si gioverebbe assai di quel recupero del senso della storia a cui Asor Rosa ci richiama. In questa direzione, il dialogo fra lui e Simonetta Fiori ha un valore esemplare. In fondo, quello che Asor si propone con la sua diagnosi dell’estinzione dell’intellettuale novecentesco è l’elaborazione di un lutto: l’ennesima a sinistra, potremmo chiosare malinconicamente, se non fosse che per una volta qui non è la tonalità malinconica né quella nostalgica a prevalere, e l’intenzione non è di crogiolarsi nella perdita ma di mettere un punto a capo per ripartire. Sapendo però che alle spalle non c’è un usato da liquidare ai saldi, ma un grande patrimonio di cui farsi eredi. E infatti, malgrado la sua denuncia sulla pochezza dei tempi in corso, Il grande silenzio riesce a farci sentire a fine lettura non più deprivati, ma più ricchi di chi ci ha preceduti.
La fine di un ciclo
di Rossana Rossanda (il manifesto, 04.09.2009)
Lo scenario politico degli ultimi anni sta arrivando a consunzione. Non sarà facile metterne alla luce uno più decente tanta è la bassezza, istituzionale e culturale, in cui siamo per responsabilità di molti, forse di tutti, nell’inseguire una transizione verso una seconda repubblica che, in assenza di un progetto di qualche spessore, si è risolta soltanto nel tentativo di minare lettera e spirito della Costituzione del 1948 - largo a un mercato da Far West, concessioni illimitate a una proprietà senza coraggio, abbattimento, e possibilmente fine, di ogni diritto sociale. Risultato, un decisionismo cialtrone sommato alla tradizione nazionale di evadere il più possibile la legge e il fisco.
In questo quadro, l’ascesa folgorante di una figura come quella di Silvio Berlusconi ha la sua logica. Non è solo per le sue imprese sessuali - ciliegina sulla torta della legge sulla sicurezza più indecente d’Europa - che si ride di noi, perduto quel rispetto che nel dopoguerra eravamo con fatica riusciti a conquistarci. Tale è l’imbarazzo che circonda l’Italia che siamo usciti perfino dalle abituali statistiche, non siamo neanche un’anomalia, siamo da non prendere sul serio.
Gli scricchiolii si avvertono a destra e a sinistra. Sulla sinistra è perfino superfluo tornare, è detta estrema solo perché ha una certa attenzione alle sofferenze del lavoro e una certa sensibilità allo scombussolamento delle coscienze, ma non è in grado di uscire dalla ripetitività di formule da una parte, Ferrero e Diliberto, e dall’altra dal troppo silenzio di un Vendola diventato oggetto di tiro regionale al bersaglio.
Né è possibile attendersi dal Partito democratico almeno un aggiornamento del keynesismo a livello 2009 - la crisi è tornata tutta nelle mani di chi l’ha provocata e a pagarne le spese sono i ceti più deboli e i lavoratori di ogni tipo, per il calo continuo dell’occupazione. Questo non è solo un problema nostro, anche Obama è in pericolo, incastrato com’è fra il corporativismo della società americana e l’eredità sempre più avvelenata del Medio Oriente.
Insomma "sinistra", parola che credevamo impraticabile per mollezza, è diventata addirittura simbolo di estremismo, neanche il Pd la pronuncia senza scusarsi, cosa che non succede neppure alla Spd, per non dire della Linke. Di Bersani non ricorderemo certo i voli di pensiero, noioso com’è a forza di buon senso emiliano, e di Franceschini ci rimarrà in mente lo sforzo d’un democristiano perbene per tenere assieme ai ds un settore cattolico lusingato da sirene da tutte le parti.
Questa inaffondabilità dei cattolici è il solo processo che emerga con qualche chiarezza assieme alla crisi del ciclo berlusconiano. Come succede con i personaggi del suo tipo, sarà una fine agitata, a colpi di coda, ma il suo blocco si è rotto.
La scelta del cavaliere per la Lega - unica vera tendenza di fascismo localista e in abiti nuovi - ha posto Fini in posizione di challenger, in nome di una destra meno turpe che non gli sarà facilissimo rappresentare; certo ce la mette tutta. Se l’ex Forza Italia non sa bene dove guardare, An è divisa fra lui e un Gasparri che lo sfida. Lega e Pdl sono entrati in conflitto con la Chiesa (s’erano tanto amati!) per le intemperanze del cavaliere e di Feltri: così pieni di sé che la prudenza è andata a farsi benedire.
Così sotto traccia riappare la voglia di un partito cattolico, sia in chi sta scomodo nel Pd sia in chi sta scomodo nel Pdl, via Casini. L’Italia continua a replicare la partizione tricolore, con un rosso sempre più sbiadito, un bianco sempre più sporco e un verde da giocare non con la Lega, ma con il Vaticano.
Verrebbe da dire "tanto rumore per nulla", se il suicidio del Pci e del Psi non avesse spostato a destra l’asse del centro. È curioso che il paese dove più lunghe sono state le code del sessantotto sia destinato a diventare di nessuna, o scarsa, importanza per l’Europa.
Se non può comprare
di Concita De Gregorio (l’Unità, 02.09.2009)
Così siamo al dunque. Quel che non si può comprare né corrompere deve tacere. Eccola qui la strategia d’autunno: zittire con ogni mezzo il dissenso, che ormai questo è diventato il semplice dovere di cronaca e diritto di critica. Il presidente del Consiglio, lo avete letto, è in guerra in queste settimane con i commissari europei, con le gerarchie ecclesiastiche, con i giornali che nel nostro paese e nel mondo documentano le sue gesta. Non ci sono in Italia molti organi d’informazione che non dipendano direttamente o indirettamente dal suo favore, dal suo smisurato potere economico e dal suo potere di influenza e di minaccia. Premere, corrompere o comprare. Dove non si può pagare, allora uccidere.
Lo squadrismo mediatico di governo, forte di nuove reclute, è difatti al lavoro per distruggere le reputazioni dei giornalisti non a busta paga. Mezzi leciti e illeciti, menzogne, false prove, non importa. L’aggressione al direttore di Avvenire, che ieri persino Fini ha definito killeraggio. L’aggressione personale all’editore e al direttore di Repubblica, insieme la richiesta di risarcimento al giornale per aver posto dieci domande. L’Unità, unico quotidiano in Italia, le ha per due volte ripubblicate: è possibile giudicare diffamanti delle domande, non sarebbe doveroso rispondere? Il gruppo Prisa, editore del Paìs, è sotto offerta economica da parte di emissari spagnoli del premier.
Ecco adesso l’attacco all’Unità. Due richieste di danni per una somma complessiva di 3 milioni di euro riferite non a un articolo o a un commento ma a due numeri del giornale nella loro interezza. Due numeri in cui ad alcune delle dieci domande si offriva risposta. I temi: lo stato della trattativa tra governo e Vaticano (indulgenza sulla condotta del premier contro leggi gradite oltretevere), il divieto di usare le intercettazioni telefoniche come strumento di indagine, lo stato della guerra privata del premier contro Sky e i danni che agli italiani ne derivano. Servizi di cronaca e libere opinioni, del resto da molti giornali anche stranieri condivisi.
La novità, oggi, è che non si contesta un articolo ma un giornale intero. Una scrittrice, una editorialista, due giornaliste sono accusate insieme al direttore di aver concorso alla diffamazione che si dedurrebbe dal complesso generale dei loro scritti. È l’insieme che non gli piace. È il giornale: la sua linea, il suo tono.
Chiedere un milione per ogni numero suona come un avvertimento: potrebbe farlo ogni giorno. Non vuole giustizia in sede penale, non gli interessa stabilire se quegli articoli riferiscano il vero. Vuole soldi. Minaccia di chiederne così tanti da ridurci al silenzio. Non accadrà, se accadesse sarà per sua mano. Come durante il fascismo, come quando la censura imponeva i sigilli.
È venuto il momento non solo di una grande mobilitazione, necessaria ma non sufficiente. È il momento di opporre allo strapotere dei soldi la politica, che sia quella l’argine al declino della democrazia. È anche venuto il momento, cari cittadini, di sostenere con forza rinnovata chi si sottrae alla logica del plutocrate. Di dare più forza alle voci del dissenso, ogni giorno. Non tanto e non solo per noi, che dal 1924 abbiamo conosciuto stagioni peggiori. Per tutti, per l’Italia che verrà.
Tradotto per la prima volta in italiano un commento
sulla rivoluzione americana: il volto inedito del poeta
Elogio libertario di Ezra Pound
Scambiò Mussolini per Jefferson. Ma il suo era un Canto contro i tiranni
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 18.02.2009)
«Boston era allora grande come Rapallo » (la cittadina ligure prediletta da poeti come Pound e Yeats), quando i coloni del Massachusetts passarono all’azione contro il governo di sua maestà. Eppure, «la rivoluzione ebbe luogo nella mente del popolo», tra il 1760 e il 1764, prima che a Lexington (19 aprile 1775) «parlassero i fucili».
I Cantos di Ezra Pound narrano, fra tante vicende storiche, anche l’epica del «virginiano» Thomas Jefferson e del «puritano» John Adams, due degli estensori della Dichiarazione d’indipendenza (4 luglio 1776). Non fu solo guerra di separazione di tredici colonie dalla madrepatria, bensì creazione di una realtà nuova, capace di legare, nel bene e nel male, le sorti dei discendenti dei primi «migranti » dalla vecchia Europa con quelle dei nativi americani e degli stessi africani gettati oltre Atlantico dalla tratta degli schiavi. Una «rivoluzione», appunto, che Jefferson e Adams volevano «permanente », contro ogni tentazione dispotica che venisse dall’interno o dall’esterno del Paese.
Riassumendo in poche pagine per la North American Review (inverno 1937-38) lo scambio epistolare tra i due, Pound chiedeva polemicamente: «Dovremmo perdere la nostra rivoluzione prostituendoci a esotismi moscoviti o europei?». Rispondeva risolutamente di no, non nascondendo la critica al modello comunista e la diffidenza per quello nazista (come mostra il suo uso dell’aggettivo «teutonico»). Il testo compare ora in lingua italiana, corredato da un’introduzione di Luca Gallesi: Il carteggio Jefferson-Adams come tempio e monumento (Edizioni Ares). Ma «tempio» e «monumento » sono termini che potrebbero far pensare a qualcosa di immobile nel flusso della storia; mentre quella corrispondenza è «una dinamo ancora funzionante », che dovrebbe restituire il piacere per la libertà e l’odio per i tiranni.
Per l’autore dei Cantos l’eclisse dello spirito rivoluzionario nella sua patria era conseguenza della lacerazione della cultura «in frammenti inutilizzabili o incompetenti »: letterati che si disinteressano della propria storia, storici che ignorano l’economia, scienziati che si nascondono dietro il loro specialismo. Come nota Gallesi, il ripensamento del ruolo della moneta nel capitalismo avanzato era diventato il chiodo fisso di Pound. Prendendosela con Freud e i suoi seguaci, dichiara il poeta che «per ogni persona con uno stato d’ansia causato dal sesso, ve ne sono nove con uno stato d’ansia causato dalla mancanza del potere d’acquisto» del proprio denaro!
Forse, le nostre preoccupazioni non sono troppo diverse da quelle diffuse dopo la crisi del 1929. Ma io non penso tanto che dobbiamo cercare risposta ai guai di oggi nelle dottrine economiche care a Pound, quanto che possiamo sfruttare come un tesoro nascosto l’insofferenza per ogni dispotismo fatta rivivere dalla parola poundiana: mai sacrificare libertà e responsabilità dei singoli individui al sogno della centralizzazione burocratica o della sorveglianza totale, fosse pure in nome dell’efficienza, della sicurezza, o magari della sacralità della vita. Troppo incline, all’inizio, a cedere alle richieste dei «federalisti» (il nome negli Usa indica i fautori del centralismo) e «caparbio» nel contenere le esuberanze di Jefferson, John Adams, successore di Washington alla presidenza (1797-1801), finì col «giocarsi i successivi quattro anni» a vantaggio dell’amico-rivale.
Jefferson, divenuto il terzo presidente Usa (1801-1809), doveva presentarsi come il garante della democrazia contro ogni velleità di imitare, magari sotto altre forme, il potere britannico, con il suo monarca, la sua Camera dei Lord, la sua Chiesa di Stato e il suo imperialismo. Ma lasciò prosperare quella Banca centrale che anni prima aveva condannato come un «meccanismo » usurpatore dei diritti dei vari Stati dell’Unione. «Tu e io non dobbiamo morire prima di aver spiegato noi stessi l’uno all’altro», scriveva Adams a Jefferson nel 1813.
Per un caso della sorte, John e Thomas chiusero le loro esistenze lo stesso giorno, il 4 luglio 1826, nel cinquantesimo anniversario della Dichiarazione d’indipendenza. «Per più di mezzo secolo - commenta Pound - in America sono vissute, e per molti versi hanno regnato, due persone civili ». Civiltà è qui sinonimo non solo di buon governo, ma (come scrive nei Cantos) di «sincerità, onestà, dirittura»: vi acconsentirebbe anche il più tenace repubblicano!
I Cantos, definiti dal loro autore un esperimento di laboratorio, dovevano segnare il transito dal Purgatorio al Paradiso dell’umana avventura con l’elogio delle virtù di John Adams. Ma come doveva imparare a sue spese il poeta, «insegna la nuova luna che non dura la fortuna»: alla fine degli anni Trenta scoppiò «la guerra di merda » che non doveva risparmiare nemmeno l’artista.
Innamorato dell’Italia e curiosamente convinto che Mussolini fosse una sorta di rispecchiamento europeo dell’americano Jefferson, Pound venne ufficialmente accusato dalle autorità del suo Paese di tradimento, nel luglio 1943, per i suoi discorsi pacifisti alla radio fascista. Sorpreso a Roma l’8 settembre, aveva poi raggiunto la Val Pusteria, in Tirolo (a piedi!), per ritornare al suo appartamento sul lungomare di Rapallo. Dalle vicine colline di S. Ambrogio, dove era infine «sfollato», assistette al crollo del regime di Salò. Ai primi di maggio del 1945 due partigiani lo conducono al comando alleato di Lavagna. Il 24 è trasferito al Disciplinary Trading Center presso Pisa, cioè nelle mani della polizia militare Usa. Il 18 novembre è a Washington: dichiarato infermo di mente, rimarrà rinchiuso dodici anni al Saint Elizabeths Hospital. Il processo al «traditore» non è stato mai celebrato.
Che razza di democrazia è quella che sequestra i suoi pretesi nemici senza sottoporli al giudizio di un’equa giuria? La libertà, aveva scritto Pound nel suo saggio su Jefferson e Adams, «è ancora il diritto di fare qualsiasi cosa non danneggi il prossimo». Si può essere nel più ampio disaccordo con le idee politiche di Pound; ma mi pare bene riconoscere quanto sia preziosa l’invocazione che ricorre nei Canti pisani, scritti al tempo della prigionia «in una gabbia per belve»: democrazia ascolta, «libertà di parola senza libertà di parola via radio vale zero »! Il 18 aprile 1958 la Corte suprema Usa faceva ritirare l’accusa di tradimento: Pound poteva così ritornare in Italia.
Il lettore troverà nelle pagine ora tradotte l’idea che «se si vuole una classe politica responsabile» non bisogna «restare nella penombra», ma «fare come gli scienziati», risalendo da fatti isolati alla connessione dei fenomeni. Il poeta si spense a Venezia il 1˚novembre del 1972. All’irlandese Yeats, che aveva cantato «la terribile bellezza» dell’insurrezione di Dublino (Pasqua 1916), amava ripetere che «il bello è difficile ». Lo è anche restare un democratico. In entrambi i casi ne vale la pena.
Dopo l’intervento di Giulio Giorello sul pensiero politico del grande poeta americano
Fa scandalo il «Pound libertario»
Accame: profeta del crollo economico. Sampietro: utopista autoritario
di Dino Messina (Corriere della Sera, 20.02.2009)
«Beautiful is difficult», scriveva Ezra Pound: la bellezza è difficile. E senz’altro è difficile capire come uno dei geni poetici del Novecento volesse conciliare Benito Mussolini e Thomas Jefferson, la libertà e la scelta per la Repubblica sociale. A sciogliere queste contraddizioni in un «elogio libertario di Ezra Pound» ci ha provato l’altro ieri sul Corriere della Sera il filosofo Giulio Giorello in un articolo dedicato a un saggio di Pound tradotto da Andrea Colombo per la prima volta in italiano, Il carteggio Jefferson- Adams come tempio e monumento (Edizioni Ares, introduzione di Luca Gallesi).
L’intervento di Giorello non è passato inosservato. Non ci riferiamo tanto al commento entusiastico di Luciano Lanna sulla prima pagina del Secolo d’Italia, «Pound (come Jünger) era un libertario », quanto all’attenzione che ad esso ha dedicato Giano Accame, ex direttore del Secolo d’Italia, ma soprattutto uno dei maggiori esperti italiani del pensiero politico di Pound. «Negli anni Novanta avevo pubblicato per Settimo Sigillo il saggio Pound economista. Contro l’usura ci dice Accame -. Un lavoro cui mi dedicai quando Pound, soprattutto per i lavori poetici, era stato ampiamente rivalutato dalla critica di sinistra, a cominciare dai fondamentali saggi del professor Massimo Bacigalupo, che collaborava al manifesto e, detto per inciso, era figlio del medico italiano dell’autore dei Cantos. Mi sembra che l’intervento di Giorello possa rappresentare l’inizio della rivalutazione non soltanto poetica, ma del pensiero complessivo di Pound, anche alla luce della crisi finanziaria internazionale ».
Che cosa c’entra, si potrebbe obiettare, il crollo dei mercati finanziari, evocato peraltro anche da Giorello, con il poeta americano che aveva scelto di vivere in Italia? «Pound - spiega Accame - si reputava un patriota, legato ai valori della Costituzione, che affidava al Congresso di Washington la custodia della moneta. Egli considerava un’abiura della sovranità popolare l’aver delegato la gestione della moneta e della finanza alla Banca centrale, un ente i cui responsabili non rispondono delle proprie azioni al popolo. Da questa concezione derivava la proposta ingenua di una moneta deperibile... Al di là degli aspetti utopistici e sconclusionati del suo pensiero economico, restano oggi, in questa situazione, i moniti profetici. Pound considerava i poeti come le antenne di un popolo».
Pensiero economico a parte, definire «libertario» uno scrittore che si schierò pubblicamente per la Repubblica sociale italiana può essere visto da alcuni intellettuali di sinistra come un’impostura. «Non è affatto un’impostura - risponde Accame - perché il sogno finale di tutti i grandi intellettuali fascisti, da Giovanni Gentile all’eretico Berto Ricci e all’artista Mario Sironi, era realizzare la grandezza italiana nella libertà. Il fatto poi che Pound fosse vicino al fascismo in declino rispondeva un po’ alla natura dei pionieri americani, gente costretta a fuggire perché negletta nella propria terra».
Internato in un campo di concentramento vicino a Pisa, dove scrisse i Canti pisani, da alcuni considerato il meglio della sua produzione, Pound passò poi dodici anni in un manicomio criminale a Washington, ma l’America non ebbe mai il coraggio di condannare per tradimento uno dei suoi geni. Nessuno può negare la tensione libertaria di testi composti in un campo di prigionia.
Tuttavia, osserva Luigi Sampietro, docente di letteratura angloamericana all’Università Statale di Milano e frequentatore tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta di casa Pound a Brunnenburg, vicino a Merano, «non si deve confondere tensione democratica, certamente presente in Pound, e liberalismo, che è l’espressione culturale del mercato. In fondo Adams e Jefferson condussero una guerra economica, per la liberalizzazione del mercato, diedero l’indipendenza alla propria terra perché non volevano pagare tasse. Ezra Pound, invece, con la sua ossessione contro l’usura, da cui derivava il suo antiebraismo, e l’invenzione di una moneta deperibile basata sul valore accumulato con il lavoro, contrapposto al denaro neutro valido per tutti, si ispirava in fondo a principi antiliberali. Chi potrebbe realizzare, se non una dittatura con un’economia dirigista, la carta-lavoro ipotizzata dall’autore dei Cantos? ».
D’accordo con «l’elogio libertario» scritto da Giulio Giorello è lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, autore di Cabaret Voltaire (Bompiani). Tuttavia, dice Buttafuoco, il contesto politico-culturale del nostro Paese ci costringe sempre «alla scoperta dell’acqua calda. Sì, ha capito bene: scoperta dell’acqua calda. Perché fin quando non ci libereremo dell’incubo antifascista, non ci potremo accostare con serenità al grande patrimonio culturale del Novecento. E non solo, perché ricordo che in Italia la cultura marxista più retriva ha messo in dubbio persino i filosofi presocratici, considerandoli antesignani del pensiero negativo. Come per Pound, oggi assistiamo alla rivalutazione del Futurismo, dopo che per anni ci hanno annoiato con le scoperte della transavanguardia. Ci rendiamo conto soltanto adesso che il Futurismo è stato il maggiore movimento culturale italiano assieme al Rinascimento? Certo, ebbe anche una valenza politica».
’’Nuova alleanza con Prc sarebbe un suicidio’’
Cacciari: ’’Lascio la scena ai demagoghi Veltroni e Berlusconi’’
Il sindaco di Venezia: ’’Della manifestazione non me ne frega niente, mi preoccupa piuttosto che il governo ombra non abbia prodotto nulla’’. Sulla scuola: ’’Debacle di tutto il sistema politico italiano’’
Roma, 25 ott. (Adnkronos) - "Cerco di portare a termine il mio mandato e lasciare la scena ai demagoghi a coloro che hanno la vocazione a guidare il popolo: ai Veltroni e ai Berlusconi, a destra e sinistra’’. Lo ha detto il sindaco di Venezia Massimo Cacciari (nella foto), ospite della trasmissione ’Omnibus’ su La7, a proposito della sua mancata partecipazione alla manifestazione di oggi a Roma del Pd.
"Della manifestazione non me ne frega niente - ha aggiunto l’esponente del Pd - . Non mi preoccupa la manifestazione, ma che il governo ombra non abbia prodotto assolutamente nulla; mi augurerei che il Pd mi dicesse come si intende organizzare e cosa dice su scuola, crisi finanziaria e Alitalia. Mi sembra un’invenzione strana organizzare una manifestazione di protesta con 5 mesi di anticipo: avrei preferito che il Pd avesse elaborato delle proposte concrete sul federalismo fiscale, non lasciando lo spazio allo spot di Lega Nord e Berlusconi, e su questo disastro della scuola’’.
Parlando di alleanze, Cacciari osserva: "Il Pd si suiciderebbe se riallacciasse un’alleanza con Rifondazione come quella del governo Prodi; contraddirebbe totalmente le ragioni storiche della sua nascita’’. Quanto a Di Pietro e all’Idv, sottolinea: "E’ una riserva che proviene da Tangentopoli, dalla crisi degli anni 90; è una rendita di posizione pura e semplice’’.
Infine a proposito delle manifestazioni contro il decreto Gelmini, Cacciari afferma: "Sono decenni che non si fa una riforma di sistema della scuola; è una debacle di tutto il ceto politico italiano’’. "Ci si può stupire soltanto - conclude l’esponente del Partito democratico - che questa esplosione di proteste dei giovani sulla scuola sia tardata tanto’’.
editoriale
IL VENTENNIO DI BERLUSCONI
di Alberto Asor Rosa (il manifesto, 01.10.2008)
Nel corso dell’estate, sottovalutando il rischio che il solleone avesse ulteriormente infrollito il già scarso acume dei commentatori politici e giornalistici italiani, ho pubblicato sul questo giornale (6 agosto) un articolo («Più del fascismo»), in cui mi sforzavo di collocare Berlusconi e il berlusconismo nel solco della storia italiana contemporanea. Apriti cielo: quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo.
Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio . Di questo inviterei a discutere, non delle fittizie (e talvolta tendenziose letture) che di quel testo sono state date. Per favorire tale (peraltro improbabile) obiettivo aggiungerei qualche argomento al già detto. Richiamo l’attenzione (se c’è ancora qualcuno disposto a prestarmene) sull’«incipit» di quell’articolo: «Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia dall’Unità in poi».
Di questa frase è soggetto implicito l’ Italia : certo, soggetto in sé astratto, difficile da definire, come tutti quelli che se ne sono occupati sanno, connotato tuttavia, nonostante tutto, da una storia e da alcuni dati identitari comuni di lunga durata; ancora più astratto, forse, ma ancor più ancorato a una storia e ad alcuni dati identitari comuni, se consideriamo l’Italia sotto specie di Nazione («dall’Unità in poi...», appunto), ossia di quel conglomerato di fattori politico-ideal-istituzionali, di cui ci apprestiamo a celebrare (2011) il 150˚ anniversario, proprio nel momento in cui - questo è ciò che sostengo - quel conglomerato sembra in fase di dissoluzione.
Ebbene, per valutare a che punto è arrivato tale processo, e anche per operarne alcuni confronti sul piano storico (storico, ripeto, non etico-politico), bisognerà individuare alcuni indicatori, che ci facciano capir meglio di cosa stiamo parlando. Parliamo una volta tanto, se siamo d’accordo su questo punto di partenza, dell’Italia, più esattamente dell’Italia come nazione (altri punti di vista ovviamente sono legittimi e possibili; quello di «classe» ovviamente non ci è estraneo, ma noi questa volta, per l’eccezionalità della situazione in cui ci troviamo, riteniamo preferibile questo).
Poiché si parla dell’Italia, e dell’Italia come nazione, pare a me che gli indicatori fondamentali non possano che essere questi tre: l’ unità (e il senso dell’unità), il rapporto del cittadino con l e istituzioni (e cioè, anche, il senso della distinzione tra pubblico e privato) e il rapporto del presente con la tradizione italiana (e cioè il senso dell’identità e dell’appartenenza nazionali). Da tutti e tre questi punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo, o per lo meno si sforza tenacemente di esserlo. Dal punto di vista dell’ unità la fondatezza di tale affermazione è lampante.
Nel governo Berlusconi siede come ministro delle riforme (!) un signore il quale si batte fieramente (ed esplicitamente) per la disarticolazione e frammentazione dell’unità politicoeconomico-istituzionale e identitaria del paese. Si tratta di un processo, evidentemente: ma che diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell’essere «italiano» . Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani.
Secondo indicatore: il rapporto del cittadino con le istituzioni non è mai - ripeto, mai - stato così mortificato dal punto di vista della prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici. Ovviamente una dittatura tutela comunque i suoi esponenti dalle eventuali contestazioni pubbliche. Ma nessuna dittatura europea del Novecento (e dunque neanche il fascismo) ha fatto dell’interesse privato del leader (e dei suoi accoliti) il fulcro intorno a cui far ruotare l’elaborazione e la promulgazione delle leggi e persino l’esercizio della giustizia. Lo «Stato etico» rappresenta senza ombra di dubbio una torsione intollerabile nella lunga e tormentata storia dello «Stato di diritto» moderno.
Ma il livello di corruzione (inteso il termine anche questa volta in senso puramente fatturale: come un aspetto, una forma, una modalità della macchina del potere) raggiunto dal berlusconismo non trova eguali nell’esercizio fascista delle istituzioni e del potere, almeno formalmente rimasto al rispetto o addirittura all’esaltazione della legge, per quanto dispotica (naturalmente sarebbe troppo ingeneroso arrivare a contrapporre ad Alfano e Ghedini le figure di Rocco e Gentile...).
Nel terzo indicatore precipitano e si moltiplicano tutte le nefaste conseguenze degli altri due. Il fascismo ebbe con la tradizione italiana un rapporto distorto ma vistoso: volle ristabilire a modo suo (un modo esecrabile, non ci sarebbe bisogno di dirlo da parte mia) la continuità con il Risorgimento, vanificata e interrotta secondo lui dalla tarda, sconnessa e impotente esperienza liberale. Il berlusconismo non ha nessun rapporto, né buono né cattivo, con la tradizione italiana: il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici, in sostanza niente di più di un abile affarista, che usa il pubblico per incrementare e proteggere il suo privato e il privato per possedere senza limitazioni il pubblico.
Tutto ciò che ha a che fare con etica e politica dello Stato di diritto moderno gli è estraneo. Ha tratto anche lui la sua forza dall’impotente declino e dalla irreversibile crisi di questo regime liberal-democratico: nasce cioè e vive da una corruzione, non da una reazione, come invece presunse di fare il fascismo (da intendersi anche in questo caso ambedue i termini in senso politico-istituzionale, non etico-politico). Ora, nella storia italiana post-unitaria, di cui si diceva, è innegabile che a fondare il nocciolo più duraturo della nazione siano stati il Risorgimento prima e la Resistenza poi: da considerare quest’ultima - come fu da molti protagonisti di diverse parti politiche e ideali considerata - una realizzazione più avanzata ma consequenziale del primo.
Ma se al Cavaliere nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole (Carta Costituzionale, separazione dei poteri, rapporto elettori-istituzioni, ecc.), cosa dovrebbe importargli non dico della Resistenza, ma dello stesso Risorgimento, che bene o male ha fondato unità e identità italiane nazionali e dato inizio al processo di costruzione di una società (sia pure limitatamente) democratica nel rispetto delle regole? La «rottura storica», alla quale egli, senza sforzo e senza neanche pensarci, si sottrae, non è quella del 1945, è quella del 1861-1870: Cavour è più lontano da lui di Palrmiro Togliatti.
Rispondiamo ora, per andare verso la conclusione, all’ultima, più insidiosa e forse più legittima obiezione al nostro ragionamento precedente: si può comparare una democrazia (quale che sia) a una dittatura, arrivando alla conclusione che la democrazia è peggiore della dittatura? Mah, non lo so. Non vedo però che cosa ci sia di male a tentare un confronto, se non altro per capire meglio cosa ci sta accadendo oggi (non è così che si formano i parametri di giudizio storici?). Il fascismo è stato «il male assoluto»? Proviamo a pensare cosa sia per essere e per produrre il «male relativo» nel quale noi attualmente viviamo: «male relativo», ma endemico, profondo, penetrato in tutte le fibre.
Quel che mi sembra di vedere dal mio angolo visuale è la crescita di una sorta di dittatura (De Mauro: «governo autoritario, in cui il potere è concentrato nelle mani di uno solo»), ma di tipo nuovo, democratico-populista, fondata non sulla violenza e sulla coercizione esplicite ma sul consenso (come faceva, a modo suo, anche il fascismo...) ed esercitata con un astuto, davvero inedito in Europa mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche. Il «modello» - che, come tutti i modelli forti, è politico, culturale e persino antropologico - sta penetrando in profondità e sta facendo fuori la continuità storica su cui si sono fondati finora l’identità e i valori «italiani» al cospetto del mondo.
Alla fine del processo non ci sarà una nazione (pur nei limiti ben noti in cui tale processo si è sviluppato nei centocinquant’anni che ci stanno alle spalle) ma solo un mero aggregato di stati-vassalli (di varia natura: economici, corporativi, regionali, ecc.), che troveranno la loro unità unicamente nel fare riferimento al solo Capo.
Per questo, - non per motivi più tecnici e circoscritti, come qualcuno cede alla tentazione di argomentare, lasciandosi cullare dal sogno delle «riforme condivise» - vanno fatte fuori le articolazioni finora più autonome e indipendenti dello stato, in primissimo luogo la magistratura e la scuola: esse, infatti, in questo momento, per il solo fatto di conservare la loro indipendenza, costituiscono l’ostacolo maggiore alla compiuta realizzazione di tale disegno (naturalmente, mi rendo conto che, se le cose stanno come dico, la parte più interessante del discorso consisterebbe nel chiedersi come mai tale disegno distruttivo proceda attraverso il consenso: ma cosa sia diventato il popolo italiano in questi ultimi vent’anni, a cosa aspiri, in cosa creda, merita un discorso a parte, che prende ancora più di petto la politica, e che forse un giorno faremo).
La conclusione, cui pervenivo nel mio precedente articolo, va oggi ribadita: per quanto non esista in Italia forza politica, uomo politico, in grado attualmente d’intenderla e di praticarla. Per combattere un simile flagello ci vorrebbe un partito, un movimento, un’opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (molto a rischio: alla catastrofe nazionale s’accompagnerà, non c’è ombra di dubbio, la catastrofe economico-sociale). Ma dov’è? E, visto che non c’è, quanto ci metterà per nascere, o rinascere?
P.S. Il modo migliore di manifestare solidarietà a un giornale è di scriverci sopra. Aggiungerò che i rischi che corre attualmente una testata come il manifesto rappresentano la manifestazione esemplare di quanto avviene in Italia e che ho cercato di descrivere nelle righe precedenti. Il lettore tiri le somme e saprà cosa fare.
l’Unità 12.07.2008
La fine dello stupore e la fine dell’Università
di Michele Ciliberto
Se un filosofo dovesse dire quale è uno dei segni più tipici della crisi che sta attraversando il nostro paese potrebbe dire, a mio giudizio, che è la fine dello stupore, della capacità di sorprendersi, che come è noto è la prima sorgente della filosofia. In Italia, oggi tutto è ricondotto nei parametri dell’ordinario, del quotidiano, del feriale: anche le cose più inconcepibili, fino a poco tempo fa, sono digerite, assorbite, metabolizzate senza alcuna difficoltà. Si è persa l’abitudine a dire di no, ad alzarsi in piedi: e di questo è una paradossale conferma il fatto che quando si protesta si usano toni esagitati, addirittura volgari, proprio perché protestare - dire no - è diventata un’eccezione, non più la norma di un comune vivere civile. Questo accade anche quando si tratta delle regole che devono strutturare la vita istituzionale politica e sociale del paese.
È un altro segno della crisi profonda che attraversa l’Italia: le regole appaiono una sorta di optional che il potere può trasformare come meglio gli conviene, a seconda della situazione e perfino dei propri interessi privati. Si tratta di un tratto tipico del dispotismo, quale è già delineato in pagine straordinarie di Tocqueville nella Democrazia in America: il dispotismo si esprime attraverso una prevaricazione dell’esecutivo sugli altri poteri e con un ruolo sempre più ampio assunto dall’amministrazione, che diventa il principale motore dell’intera vita di un popolo. Le strutture dispotiche, infatti sono incontrollabili: una volta messe in movimento invadono progressivamente tutte le sfere della vita sociale ed intellettuale, compresa ovviamente l’alta cultura e le istituzioni attraverso cui essa si organizza.
È precisamente quello che è accaduto in queste ultime settimane con il decreto del 25 giugno del 2008: «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria». In esso è compresa una serie di disposizioni che muta profondamente l’assetto della Università pubblica italiana accelerandone la crisi e la definitiva decadenza. Si tratta, dunque, di disposizioni che avrebbero dovuto sollevare, se non uno scandalo, una discussione assai vivace; mentre invece, a conferma di quanto sopra dicevo, con poche eccezioni, il mondo dell’Università è rimasto silenzioso e seduto.
Solo in questi ultimi giorni stanno cominciando ad affiorare prese di posizione più nette come quella del rettore dell’Università di Ferrara o del Preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Pisa, il quale ha rotto il muro del silenzio scrivendo una lettera aperta dal titolo: «L’università non è in svendita». Qualche protesta, in verità c’era stata già prima, ma aveva riguardato il fatto che il decreto interviene sugli scatti di carriera di tutti i docenti trasformandoli da biennali in triennali. Il problema è però ben più vasto e riguarda direttamente la costituzione interiore della Università italiana ponendo anche delicati problemi di ordine costituzionale. Mi limito a segnalare quelli che a mio giudizio sono i punti più importanti.
Le Università possono costituirsi, su base volontaria, come fondazioni di diritto privato, si dice nel Decreto, venendo incontro sul piano legislativo a un’istanza proveniente già da molto tempo soprattutto da settori industriali. Su Il Sole 24 Ore il provvedimento è stato infatti presentato da Giovanni Toniolo come «un’ottima notizia, la migliore che abbia sentito in quarant’anni di vita accademica». Personalmente, non ho dubbi che sul tema delle fondazioni si debba discutere ed aprire un forte dibattito, ma sapendo che - se non ben governata - questa è la via dell’integrale privatizzazione dell’Università italiana, con il rischio effettivo sia di ledere il principio della libertà dell’insegnamento sia di ritrovarsi in una situazione come quella americana nella quale accanto alle top ten esistono migliaia di università di livello inferiore ai nostri licei.
Ma che l’Università pubblica sia al centro di un vero e proprio attacco in queste disposizioni è dimostrato anche da altri elementi. È bloccato il turn over: si prevedono infatti assunzioni nei limiti del 20% per il triennio 2009-2011 e del 50% a partire dal 2012. Né è difficile anche in questo caso immaginare gli effetti di questa disposizione sull’Università in generale, specie su quelle medio - piccole e anche su quelle scuole di eccellenza che si giovano di un corpo di docenti limitato. Privatizzazione, da un lato; ricostituzione di una forte dimensione centralistica ,dall’altro: all’Università infatti resterà in cassa soltanto il 20% delle «quote» dei docenti andati in pensione, tutto il resto andrà all’amministrazione centrale la quale ha già tagliato il finanziamento di Euro 500.000.000 in tre anni.
Privatizzazione, centralizzazione (nonostante tutta la retorica sul federalismo) e, infine, colpi durissimi al personale docente per il quale si prevede una sorta di vera e propria rottamazione. La questione dello stato giuridico dei professori universitari è annosa; il Ministro Mussi era intervenuto su questa delicata questione riducendo, e di fatto avviando alla fine, il fuori ruolo, - decisione che si può anche comprendere se si tiene conto che si tratta di una vecchia disposizione, risalente a tutt’altra situazione, la quale consentiva ai professori di continuare a godere del proprio stipendio, pure essendo fuori dai ruoli dell’insegnamento.
Ma queste disposizioni si muovono su ben altro piano colpendo sia la possibilità che i professori universitari, come ogni altro dipendente dello Stato, hanno di poter continuare a lavorare- cioè insegnare - due anni dopo l’età pensionabile (a insegnare, sottolineo); sia la stessa possibilità che possano continuare a restare nei ruoli qualora abbiano compiuto quaranta anni di insegnamento, qualunque sia la loro età (compresi dunque quelli che sono andati presto in cattedra). Ad essere sintetici: prima il biennio era una scelta del docente; ora diventa una concessione dell’amministrazione da cui dipende. Allo stesso modo è l’amministrazione che decide se rottamare un professore, oppure tenerlo in servizio fino al raggiungimento dell’età della pensione stabilita della legge, che il decreto tende invece ,surrettiziamente,ad anticipare anche di parecchi anni con una chiara lesione dei diritti costituzionali dei docenti. In entrambi i casi c’è una totale prevaricazione sulla figura dei professori da parte dell’amministrazione locale e soprattutto di quella centrale che diventa il vero arbitro della situazione. Infatti, se anche l’amministrazione universitaria locale fosse orientata a concedere il biennio o a rinviare la rottamazione, l’amministrazione centrale potrebbe costringerla a procedere in questa direzione con ulteriori, drastiche riduzioni del fondo di finanziamento ordinario.
Non si tratta di questioni sindacali, o di interesse puramente corporativo: in ballo c’è ben altro. Se queste disposizioni vanno avanti ne discenderà un controllo dispotico, e col tempo totale, dell’amministrazione centrale sulle carriere dei professori universitari e di conseguenza sull’Università italiana. Quella che dovrebbe essere il centro della libertà intellettuale e di ricerca del paese, costituzionalmente garantita, corre dunque il rischio di essere controllata e irreggimentata a tutto vantaggio delle università private che potranno darsi gli statuti più adeguati al loro sviluppo, attraendo tutti i professori che non vogliono essere sottoposti a forme di controllo centralistico destinate ad assumere - non è difficile prevederlo - connotati ideologici e politici assai precisi. Mentre nelle Università pubbliche diventerà fortissima, temo, una spinta in direzione del conformismo, della passività, dell’autocensura dei professori universitari con un colpo assai grave per quella autonomia e libertà dell’insegnamento che è esplicitamente prevista dall’art. 33 della Costituzione.
In ultima istanza,questo - la libertà di insegnamento e le forme in cui essa può e deve esplicarsi - è dunque il vero problema che il Decreto del 25 giugno 2008 pone all’Università italiana: che di fronte a tutto questo -e alla stessa forma del decreto,così impropria per decisioni di tale rilievo-non si sia ancora accesa una discussione critica e che siano pochissimi quelli che hanno deciso di alzarsi in piedi può certamente sorprendere; ma sorprende meno se si tiene conto di quello che dicevo all’inizio: il nostro paese è pronto a tutto, anche ad inghiottire in silenzio la fine dell’Università pubblica e della libertà di insegnamento.
l’Unità 12.o7.2008
Veronesi: massacro di scuola e ricerca
L’accusa: «In queste condizioni il paese non può ripartire»
Ricerca e Scuola sono state «massacrate» da questa manovra finanziaria, «ma senza l’una e senza l’altra il Paese non può ripartire». Lo ha detto Umberto Veronesi rispondendo alle domande dei giornalisti a margine della presentazione del programma del convegno internazionale “Il futuro della scienza”, che si svolgerà a Venezia dal 24 al 27 settembre. «La ricerca scientifica - ha detto l’oncologo, oggi senatore della Repubblica - ha bisogno di essere rilanciata se vogliamo rilanciare il Paese. Senza ricerca e senza scienza il Paese non cresce. Ma anche la scuola deve essere sostenuta». Per Veronesi, la scuola «deve essere prima di tutto riformata» per affrancarla dal nozionismo di oggi, per avere «una scuola che si preoccupi di formare la personalità di un ragazzo che cresce e che lo motivi alla vita e alla creatività in modo da renderlo più resistente alle devianze». Ma per far questo «occorre un grande impegno, anche economico».
«Il ragazzo - ha continuato Veronesi - deve andare a scuola con piacere, deve essere affascinato dalla scuola. Deve sentire il bisogno di andarci, perchè a scuola deve imparare, conoscere, ma deve anche divertirsi, vedere film, le opere teatrali, deve fare lui l’attore, deve scrivere articoli, commentare gli articoli del giorno, deve leggere i giornali... Insomma deve diventare un uomo consapevole del suo ruolo nella società. Se no, alimentiamo questa tendenza al rifiuto della società di oggi, che poi si manifesta nelle devianze, nella depressione o, peggio, nel suicidio». Per l’oncologo, quindi, «la scuola va rifatta. La ricerca è fondamentale. La cultura e la musica sono fondamentali per un Paese che deve crescere. Bene, tutte queste aree - ha concluso - sono state massacrate da questa manovra finanziaria».
Mezza opposizione
di Gabriele Polo (il manifesto, 08.07.2008)
Comunque vada non saranno i guai giudiziari a far cadere Berlusconi dal piedistallo. Come accade da quattordici anni a questa parte. Ora, nella «doppietta» decreto bloccaprocessi-lodo Alfano, il premier può optare persino per la seconda ipotesi, facendo contenti i suoi alleati e fornendo al Pd l’apparenza di un punto da incassare. A dover scegliere il male minore, l’impunità temporanea per «le alte cariche dello stato» è sicuramente l’opzione preferibile. Ma sempre «male minore» è.
La vicenda conferma come la via giudiziaria al cambiamento politico sia un’illusione, ma - soprattutto - quanto sia sbagliato concepire la lotta al berlusconismo come battaglia che si risolve in una persona sola e nelle sue malefatte. Per quanto sia potente la persona e grave il malaffare. Un riduzionismo che, prima, ha costruito un’alleanza elettorale dal respiro corto come quella dell’ultimo governo Prodi e ora ha ridotto l’opporsi parlamentare al puro contrasto delle leggi ad personam predisposte dalla maggioranza del presidente del consiglio.
Così la prima manifestazione di massa contro un governo ignobile è costretta a muoversi sulle sabbie mobili di uno scambio tra le due modalità diverse messe in campo per garantire l’impunità berlusconiana, mentre il Pd si accontenta (per simularsi in vita) di un’innocua raccolta di firme in attesa di una piazza che verrà. Tra tre mesi, forse.
Nel frattempo Maroni prende impronte, Tremonti propaganda la sua carità ai poveri, il duo Brunetta-Sacconi smantella in via definitiva i diritti del lavoro, la Russa fa la guerra, Scajola predispone affari nucleari. In pochi vedono in queste politiche concrete l’essenza del berlusconismo; in pochissimi (e sparpagliati) provano a opporvisi. I più inseguono le vicende pecorecce dell’imperatore e dei suoi cortigiani o pensano di poterle esibire come prova d’indegnità a un’opinione pubblica ormai rotta a tutto o quasi.
Scendere in piazza è un atto lodevole e c’è da sperare che la manifestazione di oggi vada bene, che sia un augurio per il futuro. Ma è pericoloso ridurre la portata dell’iniziativa guardando solo la punta dell’iceberg: il problema dell’iniziativa contro «il ritorno del Caimano» non è in ciò che dice, ma in quel che non dice. Nel lasciare ai margini, ad esempio, i temi economici e sociali. Nell’ignorare che l’uso privato e affaristico della cosa pubblica è la forma che riveste la sostanza della trasformazione delle persone in merci, dei cittadini in sudditi. Una mezza opposizione.
«Berlusconi discusso e odiato». Gaffe della Casa Bianca al G8
Incidente democratico tra Stati Uniti d’America e Berlusconi. Tutta colpa di una biografia graffiante sul presidente del Consiglio italiano finita - ora si dice «per errore» - nel kit per la stampa con tanto di cartellina ufficiale dell’Amministrazione di Washington, una descrizione tratteggiata certo poco lusinghiera, più da affarista che da statista. Una istantanea di Silvio Berlusconi che lo descrive come «un uomo d’affari con massicce proprietà e grande influenza nei media internazionali» ma che dice anche che «è stato uno dei più controversi leader nella storia di un paese conosciuto per corruzione governativa e vizio».
«Berlusconi - si continua a leggere nel profilo - era considerato da molti un dilettante in politica che ha conquistato la sua importante carica solo grazie alla sua notevole influenza sui media nazionali finché non ha perso il posto nel 2006». E si fa notare che il Cavaliere è un uomo politico e un imprenditore «odiato da molti ma rispettato da tutti almeno per la sua bella figura (in italiano nel testo) e la pura forza della sua volontà». Poi un’altra stoccata forse più dura per la coscienza civile americana, perchè ricorda il conflitto di interesse, specialmente se messa di fila con gli altri giudizi: «Berlusconi ha trasformato il suo senso degli affari e la sua influenza in un impero personale che ha prodotto il governo italiano di più lunga durata assoluta e la sua posizione di persona più ricca del paese».
Il portavoce della Casa Bianca Tony Fratto ha inviato una lettera nella quale si scusa a nome della Casa Bianca per quello che appare come un incidente diplomatico senza precedenti: «Scrivo -si legge nella lettera - in relazione a certi documenti di background che sono stati distribuiti ai giornalisti in viaggio su Air Force One per il vertice del G8 che si tiene in Giappone.Una biografia non ufficiale del primo ministro italiano Berlusconi, inclusa nel materiale stampa, utilizza un linguaggio insultante sia nei confronti del primo ministro Berlusconi che del popolo italiano. I sentimenti espressi nella biografia non rappresentano le vedute del presidente Bush, del governo americano e degli americani». La lettera si proffonde quindi in scuse diplomatiche: « Ci scusiamo con l’Italia e con il primo ministro per questo errore davvero sfortunato. Come tutti coloro che hanno seguito il presidente Bush, il presidente ha per premier Berlusconi e per tutti gli italiani la più alta stima e riguardo». Ma la sensazione resta di due verità, una radiografia impietosa del presidente del Consiglio italiano destinata, evidentemente, dello staff operativo e un ritratto ufficiale idilliaco, tutto rose e viole, di presidenti «amichetti». Amici serpenti.
* l’Unità, Pubblicato il: 07.07.08, Modificato il: 07.07.08 alle ore 22.02
L’adesione alla manifestazione
contro le "Leggi canaglia"
È urgente che esista la pietra dello scandalo.
È urgente che un risveglio avvenga, anche se di pochi, perché la narcosi delle menti, del linguaggio, della visione, delle memorie è vasta e progredisce.
Non è importante il nome che si dà al regime in cui viviamo. Conta la sua sostanza: la maggioranza che ignora e vilipendia la minoranza, la separazione dei poteri messa in questione, il trionfo degli interessi particolari e privati di chi è a capo del governo, l’impunità garantita a un impressionante numero di crimini, l’esclusione e criminalizzazione di una parte della popolazione, giudicata diversa e sospettabile fin dall’infanzia perché appartenente a altre etnie o razze.
Scegliete il nome che volete, purché il nome abbia rapporto con la sostanza.
Quel censimento etnico di settanta anni fa
di Gad Lerner (la Repubblica, 5 luglio 2008)
Cominciò con un inaspettato censimento etnico, nel mezzo dell’estate di settant’anni fa, la vergognosa storia delle leggi razziali italiane. Alle prefetture fu diramata una circolare, in data 11 agosto 1938, disponendo una «esatta rilevazione degli ebrei residenti nelle provincie del regno», da compiersi «con celerità, precisione e massimo riserbo». La schedatura fu completata in una decina di giorni.
Furono 47.825 gli ebrei censiti sul territorio del regno, di cui 8.713 stranieri (nei confronti dei quali fu immediatamente decretata l’espulsione). Per la verità si trattava di cifre già note al Viminale. «Il censimento quindi fu destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», scrive la storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci ne L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (il Mulino). Naturalmente, di fronte alle proteste dei malcapitati cittadini fatti oggetto di quella schedature etnica fu risposto che essa non aveva carattere persecutorio, anzi, sarebbe servita a proteggerli.
Nelle diversissime condizioni storiche, politiche e sociali di oggi, torna questo argomento beffardo e peloso: la rilevazione delle impronte ai bambini rom? Ma è una misura disposta nel loro interesse, contro la piaga dello sfruttamento minorile!
Si tratta di un artifizio retorico adoperato più volte nella storia da parte dei fautori di misure discriminatorie: «Lo facciamo per il loro bene». A sostenere la raccolta delle impronte sono gli stessi che inneggiano allo sgombero delle baracche anche là dove si lasciano in mezzo alla strada donne incinte e bambini. Ma che importa, se il popolo è con noi? Lo so che proporre un’analogia fra l’Italia 1938 e l’Italia 2008 non solo è arduo, ma stride con la sensibilità dei più. L’esperienza sollecita a distinguere fra l’innocenza degli ebrei e la colpevolezza dei rom. La percentuale di devianza riscontrabile fra gli zingari non è paragonabile allo stile di vita dei cittadini israeliti, settant’anni fa.
Eppure dovrebbero suonare familiari alle nostre orecchie contemporanee certi argomenti escogitati allora dalla propaganda razzista, circa le "tendenze del carattere ebraico". Li elenco così come riportati nel libro già citato: nomadismo e «repulsione congenita dell’idea di Stato»; assenza di scrupoli e avidità; intellettualismo esasperato; grande capacità ad adattarsi per mimetismo; sensualismo e immoralità; concezione tragica della vita e quindi aspirazioni rivoluzionarie, diffidenza, vittimismo, spirito polemico e così via.
Guarda caso, per primo veniva sempre il nomadismo. Seguito da quella che Gianfranco Fini, in un impeto lombrosiano, ha stigmatizzato come «non integrabilità» di «certe etnie»; propense - per natura? per cultura? per commercio? - al ratto dei bambini. Il che ci impone di ricordare per l’ennesima volta che negli ultimi vent’anni non è stato mai dimostrato il sequestro di un bambino ad opera degli zingari.
Un’opinione pubblica aizzata a temere i rom più della camorra, si trova così desensibilizzata di fronte al sopruso e all’ingiustizia quando essi si abbattono su una minoranza in cui si registrano percentuali di devianza superiori alla media. Tale è l’abitudine a considerare gli zingari nel loro insieme come popolo criminale, da giustificare ben più che la nomina di "Commissari per l’emergenza nomadi", incaricati del nuovo censimento etnico. Un giornalista come Magdi Allam è giunto a mostrare stupore per la facilità con cui si è concesso il passaporto italiano a settantamila rom. Ignorando forse che si tratta di comunità residenti nella penisola da oltre cinquecento anni: troppo pochi per concedere loro la cittadinanza? Eppure sono cristiani come lui...
Il censimento etnico del 1938, «destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», come ci ricorda Marie-Anne Matard-Bonucci, in ciò non è molto dissimile dal censimento dei non meglio precisati "campi nomadi" del 2008. In conversazioni private lo confidano gli stessi funzionari prefettizi incaricati di eseguirlo: quasi dappertutto le schedature necessarie erano già state effettuate da tempo.
L’iniziativa in corso riveste dunque un carattere dimostrativo. E i responsabili delle forze dell’ordine procedono senza fretta, disobbedendo il più possibile alla richiesta di prendere le impronte digitali anche ai minori non punibili, nella speranza di dilazionare così le misure che in teoria dovrebbero immediatamente conseguirne: evacuazione totale dei campi abusivi e di quelli autorizzati ma fuori norma; espulsione immediata dei nomadi extracomunitari e, dopo un soggiorno di tre mesi, anche dei nomadi comunitari. Si tratta di promesse elettorali che per essere rispettate implicherebbero un salto di qualità organizzativo e politico difficilmente sostenibile. Dove mandare gli abitanti delle baraccopoli italiane - pochissime delle quali "in regola" - se venissero davvero smantellate tutte in pochi mesi? Chi lo predica può anche ipocritamente menare scandalo per il fatto che tanta povera gente, non tutti rom, non tutti stranieri, vivano fra i topi e l’immondizia. Ma sa benissimo di alludere a una "eliminazione del problema" che in altri tempi storici è sfociata nella deportazione e nello sterminio.
Un’insinuazione offensiva, la mia? Lo riconosco. Nessun leader politico italiano si dice favorevole alla "soluzione finale". Ma la deroga governativa al principio universalistico dei diritti di cittadinanza, sostenuta da giornali che esibiscono un linguaggio degno de "La Difesa della razza", aprono un varco all’inciviltà futura.
Negli anni scorsi fu purtroppo facile preconizzare la deriva razzista in atto. Per questo sarebbe miope illudersi di posticipare la denuncia, magari nell’attesa che si plachi l’allarmismo e venga ridimensionata la piaga della microcriminalità. Gli operatori sociali ci spiegano che sarebbe sbagliato manifestare indulgenza nei confronti dell’illegalità e dei comportamenti brutali contro le donne e i bambini, diffusi nelle comunità rom. Ma altrettanto pericoloso sarebbe manifestare indulgenza riguardo alla codificazione di norme palesemente discriminatorie, che incoraggiano l’odio e la guerra fra poveri.
Non si può sommare abuso ad abuso di fronte ai maltrattamenti subiti dai bambini rom. Quando i figli degli italiani poveri venivano venduti per fare i mendicanti nelle strade di Londra, l’esule Giuseppe Mazzini si dedicò alla loro istruzione, non a raccogliere le loro impronte digitali. L’ipocrisia di schedarli "per il loro bene" serve solo a rivendicare come prassi sistematica, e non eccezionale, la revoca della patria potestà. Dopo le impronte, è la prossima tappa simbolica della "linea dura". Siccome i rom non sono come noi, l’unico modo di salvare i loro figli è portarglieli via: così si ragiona nel paese che liquida l’"integrazione" come utopia buonista.
A proposito del sempre più diffuso impiego dispregiativo della parola "buonismo", vale infine la pena di evocare un’altra reminescenza dell’estate 1938. Chi ebbe il coraggio di criticare le leggi razziali fu allora tacciato di "pietismo". Con questa accusa furono espulsi circa mille tesserati dal Partito nazionale fascista. E allora viva il buonismo, viva il pietismo.
LE IMPRONTE AI ROM
Il valzer della paura
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/7/2008
Anche se il silenzio è vasto, sulle misure di sicurezza adottate in fretta da Berlusconi, c’è stato chi ha provato sgomento grande, apprendendo che il ministro dell’Interno Maroni aveva messo all’ordine del giorno, come provvedimento risolutivo, le impronte digitali imposte ai bambini Rom: hanno protestato insegnanti impegnati in difficili tentativi di inserzione, e pensatori, storici, politici d’opposizione. Ma le parole più nette, più indipendenti, meno nebbiose son venute dall’interno della Chiesa. Aveva cominciato l’arcivescovo di Milano Tettamanzi, denunciando gli sgomberi dei campi Rom in aprile («Si è scesi sotto il rispetto dei diritti umani»). Poi hanno parlato sacerdoti, vescovi, la Fondazione Migrantes. Infine è giunto l’editoriale di Famiglia Cristiana: un periodico che vende più copie di tutti i giornali (3 milioni di lettori) ed è presente in ogni chiesa.
L’editoriale del direttore, Antonio Sciortino, non usa eufemismi. Parla di «misure indecenti», di un governo per cui «la dignità dell’uomo vale zero». Enumera verità giuridiche elementari: l’accattonaggio non è reato, la patria potestà tolta quando i genitori Rom sono poveri o in condizioni difficili viola la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, firmata dall’Italia. Ma soprattutto, ricorda il male scuro dell’Italia, tra i più scuri in Europa. L’Italia porta nel proprio bagaglio il fascismo con le leggi razziali e tuttavia questa «tragica responsabilità» finge di non averla: «Non ce ne siamo vergognati abbastanza». Anche questo crea sgomento: questo passato che non solo non passa, ma sembra dissolto in un acido, come se le revisioni di Fini a Fiuggi non si fossero limitate ad affrancare Alleanza nazionale ma fossero andate oltre, consegnando al nulla tutto un brano di storia nazionale. Il periodico obbedisce al motto del fondatore, Giacomo Alberione: «Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana, ma di tutto cristianamente».
Tuttavia l’ossessione dello straniero sospetto sin dalla nascita non è solo italiana. In questi giorni si discute di schedatura dell’infanzia in Francia («progetto Edvige»), anche se l’elaborazione di identikit - il profiling - non riguarda le etnie. Ma anche qui si pensa agli stranieri, e il significato è lo stesso: si predispongono liste di sospetti, in nome di uno stato d’emergenza infinita. Il modello d’integrazione del dopoguerra, chiamato in Francia protezionista, viene sostituito da un modello repressivo, dal populismo penale, da un inarrestabile proliferare di reati, dal profiling del diverso. Muta il mondo che abitiamo sempre meno generosamente, meno umanamente: una sorta di catastrofismo antropologico s’insedia negli spiriti e nei governi, che giudica l’uomo malvagio, incendiario. Che abolisce la fiducia: quest’apertura all’altro che scommette sul mutare della persona e non sugli immoti dati del suo corpo e della sua genetica.
Questa politica della sfiducia è iniziata prima dell’11 settembre, ma dopo il 2001 ha impastato sicurezza interna e antiterrorismo, importando dalla guerra le parole, le pratiche, le norme d’eccezione. Un libro uscito quest’anno in Francia, a cura di Laurent Mucchielli, descrive la frenesia della sicurezza impadronitasi dei governanti come dei giornali e spiega bene, in un saggio di Mathieu Rigouste, la militarizzazione delle menti. Anche qui riaffiorano automatismi, si son disperse vergogne o memorie. Rigouste, in un libro d’imminente uscita (L’ennemi intérieur, La Découverte) ricorda che linguaggio e azioni sono radicati nelle repressioni coloniali. Si parla di «contro-insurrezione», di «zone grigie dove s’annidano minacce di guerriglia», di «guerre di bassa intensità permanente» nelle banlieue. Ci sono consiglieri governativi (il colonnello de Richoufftz, il generale Henry Paris) che si fanno forti delle esperienze in Bosnia, Kosovo, perfino in Algeria.
A forza d’impastare il civile e il militare sono tanti i confini che sbiadiscono: tra ordine e emergenza, pace e guerra, e anche tra l’età maggiorenne (in cui diveniamo imputabili, incarcerabili) e quella minorenne, da tutelare e correggere con l’integrazione. Il bambino e l’adolescente diventano incubo, primo anello di catene devianti. Il XX secolo fu marchiato dalla foto del bambino con le braccia alzate, nel ghetto di Varsavia sopraffatto. Quell’immagine rivive: a Guantanamo, in Palestina, in Europa stessa. Chi ha contemplato il tremendo nel prodigioso film di Ari Folman (Waltz With Bachir), ricorderà la scena in cui l’autore, ebreo israeliano, racconta i palestinesi massacrati a Sabra e Chatila e vacilla perché quel che ha visto e quel di cui s’è reso complice gli fa venire in mente il bambino di Varsavia.
Chi difende le leggi Berlusconi difende cause apparentemente buone, e accusa i cristiani dissidenti di cecità: «Voi non andate nelle terre di desolazione e ignorate l’angoscia di tanti italiani», lamentano. Dicono che la legge è fatta per dare ai bambini un’identità che non hanno, per verificare se vanno a scuola, hanno case decenti, son sfruttati. Ma i bambini sfruttati e non scolarizzati in Italia sono ben più numerosi dei Rom, e questo conferma la discriminazione negativa di un’etnia (sono selettivi anche alcuni termini: commissario per la questione Rom, emergenza-Rom). Conferma una visione del male che non insorge perché società e istituzioni barcollano, o l’integrazione fallisce. Il male comincia nel genetico, nel corpo del bambino. Tanto più se diverso: Rom, musulmano, povero.
Sono anni che la delinquenza minorenne ossessiona, e un primo bilancio può esser fatto delle risposte date fin qui in Europa. I più repressivi sono stati i governi inglesi, poi il francese e l’italiano; mentre a Nord è sopravvissuto il modello integrativo. I risultati non confortano i fautori di ghetti. Con le repressioni inglesi, la delinquenza minorile è spettacolarmente aumentata: la sua parte nel crimine globale raggiunge percentuali senza eguali in Europa (20 per cento). Mentre in Norvegia, dove son preservate istituzioni solidali, i minorenni sono meno del 5 per cento della criminalità globale. Molte misure tecnologiche presentate come miracoli sono inefficaci. E in nome delle vittime o delle paure singole, è l’idea di una società coesa che si sfalda, è la sfiducia nelle istituzioni collettive che si attizza. Le impronte digitali, infine, accendono risentimento. Pierre Piazza, autore in Francia di una storia della carta d’identità, evoca afghani in cerca d’asilo che si son bruciati le dita, per protestare contro la schedatura.
I tempi d’azione affrettati e concitati, il rifiuto dei vecchi modi - più lenti - di curare le radici del male anziché estirparle: tutto questo mostra che insicurezza e paura sono spesso considerate una soluzione, più che un problema. Son usate e alimentate come uno strumento utile al potere. Sono la fuga nella politica delle emozioni, dell’annuncio declamatorio, del culto totemico di cifre continuamente contraffatte. A partire dal momento in cui, se un bambino ruba una bici, conta più la bici che la storia del bambino, il salto qualitativo è fatto: il salto nei nuovi reati (di accattonaggio o clandestinità); il salto nel sequestro del corpo, tramite biometria. L’habeas corpus, che è la facoltà di disporre del proprio corpo senza che esso sia manomesso o derubato, si perde.
I cittadini alle prese con lo spavento sono comprensibili. Ma la civiltà ha sue ragioni, che l’individuo impaurito non conosce o sottovaluta. Sono ragioni che riguardano anche lui. Il pastore Martin Niemoeller lo rammenta, in una poesia scritta a Sachsenhausen e Dachau, oggi esposta in un manifesto nelle vie di Roma. All’inizio deportano gli zingari, e tu taci. Poi gli ebrei, i sindacalisti, e sempre taci. Alla fine vengono per prender te. Non c’è più nessuno per protestare.
Settembre ’38: Vittorio Emanuele III, in vacanza proprio nella tenuta toscana, diede avvio alle leggi razziali
E tra un bagno e una passeggiata il re firmò la condanna degli ebrei
di Gaia Rau (la Repubblica/Firenze, 08.07.2008)
San Rossore, settembre 1938. La persecuzione fascista degli ebrei comincia da qui, dalla tenuta reale immersa nel parco di Migliarino dove, dai primi anni del Novecento, i Savoia avevano l’abitudine di trascorrere le vacanze estive. Tra un bagno in mare, una battuta di caccia e una passeggiata all’ombra dei pini marittimi furono decisi i primi provvedimenti che, passo dopo passo, delinearono il calvario al quale, negli anni immediatamente successivi, furono sottoposti oltre 6mila ebrei italiani di tutte le età. A cominciare dai più piccoli.
Primo bersaglio ad essere colpito dalle cosiddette «leggi razziali» fu infatti la scuola. Il 5 settembre Vittorio Emanuele III, raggiunto a San Rossore da Benito Mussolini e dai ministri dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai e delle Finanze Paolo Thaon di Revel, mise la sua firma sul Regio Decreto n. 1390, intitolato Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista. Un testo in sette punti nel quale si sosteneva «la necessità assoluta e urgente di dettare disposizioni per la difesa della razza nella scuola italiana», e si provvedeva a «liberare» la scuola ariana vietando, a partire dal nuovo anno scolastico, l’accesso alle scuole di ogni ordine e grado e alle università ad alunni e insegnanti di «razza ebraica». Una definizione specificata nel decreto stesso, ai sensi del quale veniva «considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica», e ricalcata da quella contenuta dal Manifesto degli scienziati razzisti italiani, pubblicato nel luglio dello stesso anno dal Giornale d’Italia e sottoscritto da 10 sedicenti «scienziati» del regime.
Ancora San Rossore, due giorni dopo. Un nuovo incontro tra il re e gli esponenti del governo fascista, seguito dalla firma di un altro testo legislativo, il Regio Decreto n. 1381 del 7 settembre 1938, che dava il via ai Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri. Il decreto vietava agli ebrei stranieri di stabilire la propria dimora nel Regno, in Libia e nei possedimenti coloniali nell’Egeo, e stabiliva la revoca della cittadinanza italiana per coloro che l’avessero ottenuta a partire dal 1919. Tutti gli ebrei stranieri residenti in Italia se ne sarebbero dovuti andare entro sei mesi: se non l’avessero fatto «volontariamente», sarebbero stati espulsi. Incaricato di discutere con Vittorio Emanuele III il nuovo provvedimento fu l’ex sindaco di Pisa Guido Buffarini Guidi, nelle sue vesti di sottosegretario agli Interni, il quale ricevette da Mussolini il compito di rassicurare il re, preoccupato che anche gli ebrei «benemeriti» della patria subissero la stessa sorte degli stranieri. Lo stesso Buffarini Guidi, che era stato uno dei firmatari del Manifesto, si batté successivamente contro le leggi razziali, cercando di mitigarne gli effetti.
Sempre a San Rossore, il 23 settembre, fu firmato un terzo provvedimento, il Regio Decreto n. 1630, che tornava ad affrontare il «problema» degli ebrei nella scuola. Con esso si istituivano, a spese dello Stato, «speciali sezioni di scuola elementare per i fanciulli di razza ebraica». Si dava inoltre alle «comunità israelitiche» la possibilità di aprire, con l’autorizzazione del Ministro per l’Educazione Nazionale, scuole elementari e medie per i bambini ebrei.
La ghettizzazione all’interno della scuola rappresentò l’inizio della discriminazione a tutti i livelli della società. Ai tre provvedimenti varati a San Rossore seguirono, il 6 ottobre, una «Dichiarazione sulla razza» votata dal Gran Consiglio del Fascismo; il 15 novembre un Testo Unico delle norme già emanate a proposito della tutela della razza nella scuola e, il 17 novembre, un Regio Decreto «sulla razza italiana» che raccoglieva tutti i provvedimenti precedenti. Infine, il 29 giugno 1939, fu la volta del «Regio Decreto sulla disciplina dell’esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica», che sanciva il divieto, per gli ebrei, di esercitare professioni fra cui quella di giornalista, medico, avvocato, ragioniere, architetto. In poco tempo, gli ebrei furono completamente esclusi dalla società italiana.
Il 25 luglio 1943, Vittorio Emanuele III e il governo Badoglio lasceranno in vigore le leggi razziali, che saranno abrogate soltanto sei mesi dopo, nel gennaio del 1944, con un decreto la cui attuazione fu tuttavia rinviata alla fine della guerra.
Il ministro Bondi: "Sconvolto da Eco
E’ un uomo carico d’odio"
di Sabrina Cottone (Il Giornale, mercoledì 09 luglio 2008, 09:33)
Roma - «Quando ero giovane e militavo nel Pci, a Carrara mi fischiavano gridando: “Iscriviti al Psi”. Non mi spavento certo per una contestazione o perché Eco non vuole stringermi la mano». Sandro Bondi parla il giorno dopo essere stato accolto da un drappello di «buh» al teatro Dal Verme di Milano, dove Umberto Eco teneva una conferenza dal titolo «La fiamma è bella», excursus dal carro di Elia a Eraclito fino alla bomba atomica e al protocollo di Kyoto. Era una delle serate della Milanesiana, rassegna di letteratura musica e poesia diretta da Elisabetta Sgarbi. Il ministro della Cultura ha raggiunto la prima fila, si è avvicinato a Eco e ha subito capito di non essere esattamente il benvenuto: «Il professor Eco non si è neppure alzato e, restando seduto, ha faticato a darmi la mano, ritraendola immediatamente, forse per paura che lo infettassi. Un gesto senza senso della misura». Quando Elisabetta Sgarbi ha annunciato dal palco la presenza in sala del ministro, tra gli applausi sono partiti anche i fischi. «Ero andato per rendere omaggio a una manifestazione culturale, mi sono trovato tra scalmanati, gente che non ha nulla a che fare con la cultura».
Accusa Umberto Eco e il suo pubblico di maleducazione?
«Forse sono ancora troppo ingenuo e ho una sensibilità che non è fatta per la politica, ma rimango choccato da questi gesti e da un certo modo di vedere il mondo. Da parte di alcuni cosiddetti intellettuali di sinistra c’è un odio quasi antropologico. Sandro Bondi non è Sandro Bondi ma il simbolo del male sulla terra. Hanno l’idea di rappresentare i migliori e non mostrano alcun rispetto per l’uomo, per la persona».
Non vorrà impedire al pubblico di fischiare? O pensa che fosse una claque organizzata?
«Non voglio impedire nulla e per fortuna non era tutto il pubblico, c’è anche chi mi ha applaudito. Ma sono episodi che amareggiano perché danno la misura del vuoto culturale di una certa sinistra. Sono i fan di Umberto Eco, gli stessi presenti ai girotondi. A me non salterebbe mai in mente di fischiare chi non la pensa come me. È gente che presume di essere di cultura, ma i primi segni della cultura sono l’apertura al dialogo, la curiosità, il cercare di comprendere ciò che è diverso».
Molti intellettuali hanno disertato i girotondi. Anche lo stesso Eco, nonostante avesse firmato l’appello per la manifestazione, parlando di «emergenza democratica».
«Lo fanno solo perché non vogliono identificarsi in manifestazioni esagitate, cercano di mantenere una distinzione dai comici per proporsi come coloro che indicano la linea al partito. Ma viene alimentato un clima come quello che ho trovato scendendo dal treno a Roma. Sono stato assaltato da un tizio che ha cominciato a urlarmi contro: “Lei è Bondi? Non si vergogna delle leggi ad personam?” E gridava: “Vergogna, vergogna!”».
Secondo lei, i toni aspri non possono far parte dello scontro culturale e politico?
«Da cattolico che è stato iscritto al Pci, ricordo le lettere di Enrico Berlinguer a monsignor Bettazzi. Il vescovo di Ivrea riteneva l’ideologia marxista inconciliabile con la fede cristiana, eppure le divergenze non bastavano a eliminare il dialogo. Allora c’erano gesti di civiltà e rispetto personale e politico. Oggi il mondo non è più diviso in blocchi contrapposti eppure accadono episodi del genere. Pensano di essere colti ma è più colto un contadino toscano o un muratore rispetto a quelle persone lì, nutrite di faziosità e intolleranza».
Bondi, Eco e quella gelida manina
di Toni Jop (l’Unità 10.07.2008)
Eravamo avvertiti: il ragazzo è tenero, ma non avremmo mai immaginato che una persona bene educata come Eco sarebbe riuscita suo malgrado a ferirlo. Invece, il ministro Bondi si sfoga - e per fortuna non si tiene dentro il dispiacere sennò sai che orticarie - per come il noto intellettuale italiano lo avrebbe maltrattato nel corso di una delle recenti iniziative della Milanesiana dove i due si sono sfiorati. Bondi vuota il sacco al Giornale, cioè in casa, ma è così che si fa tutti quando ci pestano per strada.
Allora, rileggiamo con attenzione che: 1) «Il professor Eco non si è neppure alzato», 2) «e restando seduto, ha faticato a darmi la mano», 3) «ritraendola immediatamente, forse per paura che lo infettassi», 4) «un gesto fuori misura», commenta, 5)«da parte di alcuni cosiddetti intellettuali di sinistra c’è un odio quasi antropologico».
Facciamo così: stiamo sempre dalla parte della sofferenza, quindi stavolta siamo con quel panda di Bondi e torniamo ai fatti. Eco doveva scattare in piedi non appena intravvisto il ministro. Come fa un gentiluomo quando nota che una signora gli si sta avvicinando; su da bravo, sorriso e mano tesa: «Madame...». Certo che Bondi non è una signora, si vede bene che è un maschietto ma è tanto sensibile: Eco è un fine intellettuale, lo avrà capito anche lui che il ministro ha solo bisogno di coccole, invece niente. La vecchia brutalità di una sinistra che non sa che farsene neanche della mamma e per questo si trova male nella vita. E va bene, vuoi restare seduto? Almeno fai partire la mano come si deve, vitale, positivo, che ti costa?
Macché, Eco ritrae subito la mano dando al nostro protetto la sensazione più che sgradevole di essere in fuga dal contatto con la pelle, peraltro delicata, del ministro. Anche qui: e lascia quella mano dove sta, dimenticala per un po’; l’altra è sudaticcia? La pelle è molle? Stai facendo i conti con l’irresistibile percezione di avere tra le dita un geco gigante però moribondo? Niente che non sia alla portata di un omaccione grande e grosso come Eco che avrà fatto il militare (a Cuneo?), che avrà pure avuto una nonna che gli catturava la mano e intanto gli aggiustava il ciuffo. È chiaro che Bondi non è una nonna ma chi glielo ha detto alla sinistra che un ministro non può meritare la cedevole delicatezza che si riserva a una «nonnetta» (thanks, Albertone)?
Cosa dovrebbero dire e fare allora tutti quei bimbi rom ai quali verranno catturate le manine per poi sporcarne i polpastrelli di inchiostro tanto per essere sicuri che crescendo qualcuno di loro non si inventi di dire che non è di razza rom? Eppure stanno buoni, non piangono, non fanno scene isteriche, hanno capito che è per il loro bene; che lezione, caro il nostro Eco. E non lamentiamoci, poi, se passiamo per essere la fabbrica dell’odio. Bondi, io ti voglio bene/ avanti e avanti/ con te o senza di te/ io ti voglio bene/ avanti e avanti/ con te o senza di te. (Testo e musica di Paolo Pietrangeli).
Quello che Nanni non sa
di Paolo Flores d’Arcais *
Ho evitato ogni polemica, nei giorni precedenti la manifestazione di Piazza Navona - benché non mancassero le falsità, le manipolazioni, le insinuazioni (e perfino gli insulti) cui replicare -, per non offrire pretesti a chi questa manifestazione voleva ostacolare. Eviterò ogni polemica ora, dopo che una partecipazione di cittadini andata al di là delle più temerarie speranze ha dato vita a una giornata di straordinaria risposta democratica e di resistenza civile al gorgo di «putinizzazione» nel quale Berlusconi, a forza di leggi-vergogna, sta trascinando l’Italia.
Una partecipazione di cittadini clamorosa per numero, almeno centomila, con la piazza stipata modello «sardine» e le vie circostanti piazza Navona colme di persone che non riuscivano a entrare. Ed emozionante per generosità, passione politica, indomita volontà di non assuefarsi alle sirene confortevoli del conformismo e della passività. Alla grande tentazione che sempre minaccia le democrazia, quella della «servitù volontaria». Molti cittadini sono venuti da città lontane, perfino dalle isole, sacrificando un giorno di ferie, spendendo tempo e denaro, pur di non rimandare a quando potrebbe essere troppo tardi, il loro grido di libertà e di dignità. Poiché mi sono imposto di evitare polemiche, per rispetto dei centomila cittadini che hanno manifestato a piazza Navona, registro e accantono acriticamente le affermazioni di Nanni. Ma visto che, contro la putinizza-zione dell’Italia, sarebbe necessario scendere in piazza ogni giorno, sono certo che la prossima grande manifestazione democratica sarà Nanni - generosamente - a organizzarla.
Nessuna polemica, dunque. Qualche riflessione tuttavia si impone, «sine ira et studio». Quanti sono i mass-media che hanno riferito in modo onesto della manifestazione? Ce ne sono stati certamente, e non parlo solo dell’Unità, ma quanti? E stando alla Tv-Unica sembra invece che in quella piazza siano risuonate solo alcune frasi di due o tre interventi. E tutto il resto? E le altre tre ore e oltre? E le straordinarie poesie incivili di Camilleri? E le vere lezioni di democrazia «poetica» di Moni Ovadia e Ascanio Celestini? E il collegamento di commovente lucidità di Rita Borsellino? Tutti gli interventi, uno per uno, andrebbero citati, per la ricchezza di spunti che hanno offerto. E non doveva forse essere il silenzio dei media su tutto questo il principale motivo di indignazione? Non voglio però evitare di affrontare i temi che sono stati presi a pretesto per un linciaggio della manifestazione spesso precostituito in anticipo. Dunque, Beppe Grillo avrebbe offeso il capo dello Stato. Non ripeterò le argomentazioni sulla differenza tra offesa e critica, già svolte ieri analiticamente da Marco Travaglio. Voglio solo ricordare una circostanza di fatto. Una settimana fa il quotidiano Il Manifesto è uscito con una prima pagina dove campeggiava una foto enorme di Giorgio Napolitano e, a mo’ di unico titolo, una grande e inequivoca scritta: «L’ammorbidente». È più pesante il Napolitano-Morfeo evocato da Grillo o il perfido strale satirico delManifesto? Eppure nessuno dei media, per fortuna, si è stracciato le vesti per quella prima pagina assolutamente eloquente. A cosa è dovuto questo ennesimo «due pesi e due misure»?
Detto questo, a me lo stile e la logica politica di Beppe Grillo non piacciono. Non ho partecipato ai suo «V-day». Non considero il «vaffa» una conquista nella storia dell’eloquenza democratica. Ma abbiamo accettato, tutti noi promotori, che portasse in diretta il suo saluto alla manifestazione. Che Grillo porti un saluto alla Grillo mi sembra una tautologia, era del tutto immaginabile. Rispetto al suo standard di «vaffa» si è anzi contenuto, basta visitare il suo blog quotidiano per rendersene conto. Fargli portare il saluto è stato un erro-re, una concessione allo show-business, come scrive Curzio Maltese su Repubblica? È possibile, come tutte le cose controverse. Se non lo volevamo, però, dovevamo deciderlo prima e non invitarlo.
Quanto alla satira di Sabina Guzzanti, il suo stile attuale appartiene ad un genere «cattivissimo» che negli Usa (e non solo) ha pieno riconoscimento di legittimità, grandissimo spazio e milioni di spettatori, e nessuna «unanime indignazione». Durante la recente visita di Ratzinger negli Stati Uniti, oltretutto, si sono dette e scritte - in quella democrazia da tutti ipocritamente proclamata a modello - contro il Romano Pontefice cose infinitamente più pesanti della «condanna all’inferno» pronunciata da Sabina. Ma di quegli attacchi, il regime di Tg-Unico nulla ha mai fatto sapere ai telespettatori italiani. Del resto, chi dissente in genere fischia, lo hanno fatto perfino i commercianti con Berlusconi. A piazza Navona fischi non ce ne sono stati. Resta però, cosa di cui si preferisce non parlare ma di cui è doveroso parlare - col nostro linguaggio e il nostro stile - il problema della firma del Presidente della Repubblica al lodo-Alfano. Io voglio attenermi allo stile inderogabile della logica. E allora: cento costituzionalisti, a partire da numerosi presidenti emeriti della suprema corte, hanno alcuni giorni fa stilato un appello che dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio come il lodo-Alfano sia anticostituzionale. Di più: nello stesso appello hanno dimostrato analoga anticostituzionalità della norma cosiddetta blocca-processi. Tale appello è stato controfirmato sul sito web di Repubblica, al momento in cui scrivo, da oltre 136 mila cittadini. Saranno molti di più quando leggerete questo articolo.
Ora, delle due l’una. Posto che il Capo dello Stato è, secondo una definizione da tutti ripetuta, il «custode della Costituzione», o hanno ragione i cento costituzionalisti (la stragrande maggioranza della comunità degli studiosi della disciplina) e allora il presidente Napolitano non deve firmare le due leggi anticostituzionali in questione. Oppure non è censurabile che le firmi, anzi il suo è un atto dovuto, e allora hanno torto marcio quasi tutti i costituzionalisti italiani, e poiché tra loro ci sono numerosi ex-presidenti della Consulta, vorrebbe dire che la più alta corte della Repubblica è stata per anni in mano ad incompetenti. La logica non lascia scampo. Si scelga il corno dell’alternativa che si preferisce, ma non possono essere entrambi veri. Personalmente, gli argomenti dei cento costituzionalisti mi hanno convinto al centouno per cento.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.07.08, Modificato il: 12.07.08 alle ore 14.12
Intellettuali antisemiti
di Nello Ajello (la repubblica, 14.07.2008)
A emettere il primo acuto è Il Giornale d’Italia. Lì, il 14 luglio 1938 (sotto la data del 15 trattandosi di un quotidiano della sera) appare un manifesto intitolato «Il fascismo e i problemi della razza», attribuito a «un gruppo di studiosi fascisti», di cui non si fanno i nomi. Il testo, diviso in dieci punti, culmina in una rivendicazione della purezza razziale degli italiani e denuncia il rischio che il loro sangue venga contaminato dall’incrocio con ceppi extra-europei, portatori di varietà biologiche diverse da quella ariana. Il punto 9 del manifesto porta un titolo rivelatore: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana».
Solo il 26 luglio, il Partito nazionale fascista rivela le generalità degli autori del manifesto. Tra i quali i più celebri sono il patologo Nicola Pende, il biologo Sabato Visco e lo psichiatra Arturo Donaggio. Si informa che gli estensori del documento, redatto sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare, sono stati ricevuti dal segretario del Partito, Achille Starace. Poco più tardi Pende e Visco protestano, sostenendo che il testo originario è stato "rimaneggiato". Ma ben presto tacciono.
Chi non tacque affatto, fin da principio, furono gli intellettuali "militanti" - letterati, storici, giornalisti - quasi che l’avvio ufficiale della campagna antisemita rientrasse nei loro più fervidi voti. L’acuto risuonato sulle colonne del Giornale d’Italia diventò così un coro. Non soltanto gli organi di stampa del razzismo ufficiale, come La vita italiana di Giovanni Preziosi, Il Quadrivio o Il Tevere di Telesio Interlandi, Il Regime fascista di Farinacci, ma anche i quotidiani meno etichettati aderirono alla nuova missione. E per un certo numero di scrittori l’antisemitismo rappresentò una palestra per esercitare virtù retoriche e talenti pedagogici.
Fu proprio Interlandi a proclamare sulla Difesa della razza, fin dai primi giorni dell’agosto 1938, che la campagna antisemita mirava alla «liberazione dell’Italia dai caratteri remissivi» che le erano «stati imposti dalle precedenti classi politiche». Quale occasione migliore, dunque, per mostrarsi aggiornati e «rivoluzionari»? In un saggio pubblicato in quattro puntate nella rivista Il Ponte fra il 1952 e il 1953, Antonio Spinosa avrebbe poi offerto una nutrita antologia di scritti di chiara obbedienza razzistica. Altrettanto ricca in questo senso è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice. Si tratta di una documentazione inquietante.
Per questo genere di letteratura, il 1938 è un anno privilegiato. Esce un trattato di Gabriele De Rosa, intitolato La rivincita di Ario. Vi si sostiene «l’identità ebraismo=comunismo», binomio al quale si oppone con i fatti «l’asse Roma-Berlino»: l’Italia, specifica l’autore, sta combattendo «in terra di Spagna non l’iberico nemico, ma la terza internazionale ebraica, quella creata dall’ingegno giudaico-massonico del Komintern». Gli fanno eco, tra gli altri, giornalisti come Felice Chilanti e Ugo D’Andrea.
Critici delle più varie discipline denunziano, intanto, i danni che l’ebraismo infligge alla creazione artistica. In agosto un noto musicologo, Francesco Santoliquido, definisce la musica moderna «un vero e proprio monopolio della razza ebraica». Il critico letterario Francesco Biondolillo cerca di dimostrare che «il pericolo maggiore è nella narrativa». Qui, «da Svevo, ebreo di tre cotte, a Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della società figure ripugnanti».
Moravia non era nuovo a simili attacchi. Già nel 1931, in visita a Giovanni Papini, era stato da lui accolto con le parole: «Lei collabora alla rivista Solaria. I solariani sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte e tre le cose». Era una frase almeno in parte inesatta, avrebbe poi commentato il romanziere. Essa rientrava comunque nello stile dello scrittore fiorentino il cui romanzo Gog, edito proprio nel ‘31, si ispirava al più schietto antisemitismo.
Ora, nei tardi anni Trenta, quei precedenti si amalgamavano al seguito di una parola d’ordine unitaria. Gli intellettuali razzisti di sentimenti razzisti si moltiplicavano. Fra quelli destinati a diventare proverbiali figura Guido Piovene. È lui a firmare, sul Corriere della sera del 15 dicembre 1939, una recensione entusiastica al libello di Interlandi Contra judaeos. Gli attribuisce il merito di «aver ridotto all’osso la questione ebraica». Salvarsi dagli influssi semitici, suggerisce, non è difficile: «si deve sentire d’istinto, e quasi per l’odore, quello che v’è di giudaico nella cultura». Nella Coda di paglia (1962), lo scrittore formulerà una drammatica abiura, confessando di aver «obbedito da schiavo», senza sentirsene mai «partecipe», alle direttive del regime.
In altri casi, come quello di Amintore Fanfani - il quale sostenne nel ‘39 che «per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri» - un’abiura altrettanto recisa non ci sarà. E neppure qualcosa di simile verrà espressa dallo storico Gioacchino Volpe (1876-1971), al quale la politica della razza pura parve una tappa verso la costruzione di un’Europa «veramente unita e solidale».
Ma torniamo a letterati e giornalisti. Con lo scoppio della guerra l’antisemitismo assurge a epidemia. Dal ghetto di Varsavia, nel ‘39, Paolo Monelli scrive per il Corriere della sera: «Nulla ci pare di avere in comune con questa schiatta ebraica, con la sua strana lingua, le sue insegne illeggibili, gli esotici costumi, i gesti paurosi, l’andare sbilenchi il più rasente al muro possibile». Dalla Cecoslovacchia Curzio Malaparte denunzia sullo stesso giornale «il pericolo sociale che rappresenta», per le città boeme, «l’enorme massa del proletariato giudaico»; mentre Giovanni Ansaldo scopre sulla Gazzetta del Popolo che sono stati gli ebrei ad aggravare il conflitto mondiale: «i "rabbi" di Nuova York, spingendo l’America alla guerra, hanno seguito l’istinto e la tradizione della razza».
Ci sono poi gli ossessi, come Mario Appelius e Marco Ramperti. Il primo definisce «Israele traditore del mondo». Per il secondo «più che dalla stella gialla gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo». Fra questi mostri, egli ne privilegia uno: «il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico è Charlot».
Furono tutti così, gli "osservatori" italiani degli anni Trenta? Perfino nelle file fasciste si riscontrano casi di adesione al razzismo solo parziale, o perfino di ripudio. Pur ufficialmente antisemita, Giuseppe Bottai, a detta di un suo biografo, Alexander J. De Grand, «fu in grado di limitare l’applicazione alla cultura» delle teorie discriminatorie. Martinetti espresse la sua disapprovazione fin dal novembre 1938. A contrasti significativi si assiste anche nel dibattito sul tema «arte e razza». Ugo Ojetti si riconosce nel "pollice verso". Di parere opposto è Carlo Carrà: «Chiamare ebraizzante l’arte moderna», dichiara, «è tutto sommato molto puerile». Non per motivi di estetica, ma di fede, si oppone al razzismo Giorgio La Pira.
In campo cattolico le posizioni in materia sono variegate. Papa Pio XI, Achille Ratti, non smetterà di deprecare le «ideologie totalitarie», di cui sono frutto il «nazionalismo estremo» e il «razzismo esagerato», mentre meno reciso risulta l’atteggiamento di buona parte della gerarchia. Un simile quadro, già noto, s’arricchisce in questi giorni di nuovi particolari. Nel prossimo numero della Civiltà cattolica padre Giovanni Sale, storico della Compagnia di Gesù, ripercorre la vicenda, pubblicando una lettera inedita di Bonifacio Pignatti, ambasciatore d’Italia in Vaticano. In questa lettera, datata 20 luglio 1938 (cinque giorni dopo la pubblicazione del manifesto antisemita), il conte Pignatti scrive che «il Papa medita le contromisure da adottare dinnanzi alla campagna anti-israelitica progettata dall’Italia, e che verrà condotta in base ai principi di purezza di razza, redatti dai professori universitari italiani».
L’articolista ricorda che una settimana più tardi lo stesso Pio XI - in un discorso agli studenti di Propaganda Fide attaccò con forza l’indirizzo filo-tedesco adottato dal regime in campo razziale. La stessa severità il pontefice avrebbe mostrato il 6 settembre del ‘38 - quasi in extremis: sarebbe morto il 10 febbraio successivo - sostenendo di fronte a un gruppo di pellegrini belgi «che l’antisemitismo è inammissibile e che spiritualmente siamo tutti semiti perché discendenti da Abramo, nostro padre nella fede». Era, osserva padre Sale, «la prima volta che un pontefice in modo chiaro ed esplicito condannava l’antisemitismo». Ci si può chiedere se ci sarebbero state altre volte.
La volontà di dominio
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 15.07.2008)
Le idee di rifondazione della Repubblica, nelle parole di Berlusconi, affiorano sempre in modo graduale, ma assolutamente esplicite e manifeste. Arrestano il governatore della Regione Abruzzo, e molti dei suoi, per corruzione. Il processo ci dirà se con fonti di prova solide o dubbie. Il mago di Arcore non si cura di attenderne l’esito. Non ha alcuna prudenza. Sa di che cosa si tratta, nella sua chiaroveggenza. Due sole parole - corruzione (il reato contestato), politici (gli indagati) - gli sono sufficienti per sentenziare che si tratta di un «teorema». Che poi in matematica vuol dire «proposizione dimostrabile», ma nelle parole del mago di Arcore il significato si capovolge nel suo opposto e «teorema» diventa una costruzione artificiosa, infondata, priva di fatti e prove. E’ ai «teoremi» della magistratura che bisogna tagliare definitivamente la strada modificando radicalmente la magistratura ab imis fundamentis, dice, dalle più profonde fondamenta. Chi governa, di qualsiasi area politica sia (la giunta regionale abruzzese è di centro-sinistra), non deve più temere l’intervento della magistratura. Bisogna allora separare le carriere?, gli chiedono. «Di più, molto di più» risponde.
Forse per la prima volta, Berlusconi dichiara senza trucchi quel che intende fare. Separare la funzione requirente e giudicante non gli basta più. Il «di più» che invoca non è soltanto la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Il «molto di più» che annuncia è il pubblico ministero diretto dall’esecutivo. Il pubblico ministero, infatti, o è indipendente, come il giudice, o è alle dipendenze del ministro. Non ci sono alternative. Solo con un pubblico ministero scelto, arruolato, orientato e gestito dal governo, il potere politico sarà protetto da quel «controllo di legalità» che comprime e umilia - per Berlusconi - la legittimità di chi governa. Il presidente del Consiglio non si è lasciato allora sfuggire l’occasione per riproporre il conflitto legittimità/legalità nel giorno in cui un’inchiesta giudiziaria non colpisce lui o uomini del suo partito, ma gli avversari in una regione governata dal centro-sinistra. Come a dire: cari signori, vedete, la magistratura non è una mia ossessione, ma l’ostacolo che tutti dovremmo avere interesse a rimuovere se vogliamo davvero governare.
In questa "chiamata alle armi" della politica non appare in gioco soltanto il terzo dei macro-poteri dello Stato (art. 104 della Costituzione: «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»). Non si tratta della pur consueta polemica tra Berlusconi e le toghe, tra la politica e la magistratura. Questo è soltanto il terreno dello scontro, non il senso del conflitto. Berlusconi ha cominciato a mettere a riparo se stesso con la «legge Alfano» ma cova un processo riformatore e l’avventura appare soltanto all’inizio. Se ne possono rintracciare gli indizi e la «filosofia» nelle decisioni dei primi cento giorni; nei provvedimenti con immediata forza di legge approvati dal governo; come anche nel voto di fiducia che ha spento ogni confronto parlamentare su un «decreto sicurezza» che inaugura un diritto della diseguaglianza e, con il reato di immigrazione clandestina, trasforma una semplice condizione personale in reato.
Questa piena volontà di comando e dominio, che Berlusconi pretende libera da ogni discussione parlamentare, controllo di legge, verifica di costituzionalità, mortifica la legalità. E’ una modificazione dell’architettura istituzionale che il mago di Arcore sta preparando con cura, passo dopo passo, iniziativa dopo iniziativa. Annuncia una forma di «Stato governativo» che dovrebbe - nei prossimi anni - ridurre al silenzio lo «Stato legislativo parlamentare», lo Stato di diritto disegnato dalla Costituzione. Si comprende perché Berlusconi senta lo Stato parlamentare come un vestito stretto, soffocante.
Nello Stato legislativo parlamentare governano le leggi, non gli uomini né le autorità né le magistrature. E’ un sistema che attribuisce al legislatore il compito e il potere, nell’interesse generale, di varare norme «impersonali, generali, prestabilite e perciò pensate per durare». E’ un sistema che separa. Chi decide della legge, non la applica. Chi legifera, non dà esecuzione alla norma. Chi esercita il potere e il dominio agisce «in base alla legge», «in nome della legge». Il principio costruttivo di fondo dello Stato legislativo, in cui «non sono gli uomini a governare ma le norme ad avere vigore», è il principio di legalità. Berlusconi non accetta di essere l’anonimo esecutore di leggi e norme. Vuole disfarsi del «principio di legalità» e con esso dello Stato legislativo. Ciò che nello Stato legislativo è separato, egli vuole unirlo nella sua persona. Un passo in avanti già può vantarlo. Un parlamento di nominati e non eletti, quindi Camere obbedienti e genuflesse. Il secondo passo "naturale", quasi obbligato, è quel che annuncia da Parigi: il pubblico ministero alle dipendenze del governo. Non c’è più nulla, quindi, che abbia a che fare con il braccio di ferro tra politica e magistratura del decennio scorso. Siamo di fronte a una strategia riformatrice e come tale va osservata. Berlusconi non vuole governare in nome della legge, ma in nome della «necessità concreta», in nome della «cogenza della situazione». Non vuole che il suo governo sia orientato dalle norme, ma pretende che si muova dietro lo stato delle cose, le «situazioni» che egli ritiene che siano prioritarie (altra cosa è che lo siano davvero). Lo «Stato governativo» si definisce appunto per la qualità particolare che riconosce al comando concreto, «eseguibile e applicabile immediatamente». Lo Stato governativo, scrive Carl Schmitt, «riconosce un valore giuridico positivo al decisionismo della disposizione prontamente eseguibile. Qui vale il detto: "Il meglio al mondo è un comando"».
Berlusconi chiede che il suo governo, sia suo davvero, chiuso nella sua volontà personale, affidato al suo comando di capo che governa, che dispone di tutti i requisiti della legittimità, della piena rappresentanza. E’ un sistema che ha la necessità di liberarsi della "dittatura" della norma, del controllo della magistratura, delle discussioni parlamentari. Se tutto questo è vero, vale la pena capire se - quando si parla di «dialogo» - si ha chiaro che Berlusconi accetterà di discutere soltanto se le cose muoveranno nella direzione in cui è già in movimento.