[...] "Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica". Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: "Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l’unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti" [...]
PRESIDENTE NAPOLITANO, IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI. Un appello.
L’ex presidente: "Io non uso aderire ad appelli, ma condivido quello di Saviano"
Preoccupato per la salute della nostra democrazia: "Manipolazione delle regole"
Ciampi: "Basta leggi ad personam
Berlusconi delegittima le istituzioni"
di MASSIMO GIANNINI *
«Viviamo un tempo triste. Negli anni finali della mia vita, non immaginavo davvero di dover assistere ad un simile imbarbarimento dell’azione politica, ad una aggressione così brutale e sistematica delle istituzioni e dei valori nei quali ho creduto...». La prima cosa che colpisce, nelle parole di Carlo Azeglio Ciampi, è l’amarezza. Un’amarezza profonda, sul destino dell’Italia e sulle condizioni della nostra democrazia.
E mai come in questa occasione l’ex capo dello Stato, da vero "padre nobile" della Repubblica, lancia il suo atto d’accusa contro chi è responsabile di questo "imbarbarimento" e di questa "aggressione": Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a "colpi di piccone" i principi sui quali si regge la Costituzione, cioè "la nostra Bibbia civile".
"Vede - ragiona Ciampi - la mia amarezza deriva dalla constatazione ormai quotidiana di quanto sta accadendo sulla giustizia, ma non solo sulla giustizia. È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile". Vale per tutto: non solo i rapporti tra politica e magistratura. Le relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e presidenza della Repubblica, tra premier e organi di garanzia, a partire dalla Corte costituzionale. L’intero sistema istituzionale, secondo Ciampi, è esposto ad un’opera di progressiva "destrutturazione". "Qui non è più una questione di battaglia politica, che può essere anche aspra, come è naturale in ogni democrazia. Qui si destabilizzano i riferimenti più solidi dell’edificio democratico, cioè le istituzioni, e si umiliano i valori che le istituzioni rappresentano. Questa è la mia amara riflessione...".
Ciampi, forse per la prima volta, parla senza mezzi termini del Cavaliere, e di ciò che ha rappresentato e rappresenta in questo "paesaggio in decomposizione". "Mi ricordo un bel libro di Marc Lazar, uscito un paio d’anni fa, nel quale io e Berlusconi venivamo raccontati come gli estremi di un pendolo: da una parte Ciampi, l’uomo che difende le istituzioni, e dall’altra parte Berlusconi, l’uomo che delegittima le istituzioni. Mai come oggi mi sento di dire che questa immagine riassume alla perfezione quello che penso. Io ho vissuto tutta la mia vita nelle istituzioni e per le istituzioni, che sono il cuore della democrazia. E non dimentico la lezioni di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana del 1797: alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini, le istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma poi, a rendere vitali le istituzioni, occorrono gli uomini, le loro passioni civili, i loro ideali di democrazia. Ed io, oggi, è proprio questo che vedo mancare in chi ci governa...".
L’ultimo capitolo di questa nefasta "riscrittura" della nostra Costituzione formale e materiale riguarda ovviamente la giustizia, il Lodo Alfano e ora anche il disegno di legge sul processo breve con il quale il premier, per azzerare i due processi che lo riguardano, fa terra bruciata dell’intera amministrazione giudiziaria corrente. Anche su questo la condanna di Ciampi è senza appello: "Le riforme si fanno per i cittadini, non per i singoli. L’ho sempre pensato, ed oggi ne sono più che mai convinto: basta con le leggi ad personam, che non risolvono i problemi della gente e non aiutano il Paese a migliorare".
Fa di più, l’ex presidente della Repubblica. E si spinge a riflettere su ciò che potrà accadere, se e quando questa nuova legge-vergogna sarà approvata: "Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica". Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: "Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l’unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti".
Lui stesso, nel suo settennato sul Colle, ha resistito più volte alle spallate del Cavaliere. Dalla legge Gasparri per le tv alla riforma dell’ordinamento giudiziario di Castelli: "È vero, ma ho fatto solo il mio dovere. C’è solo una cosa, della quale mi rammarico ancora oggi: il mio unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo del sistema radiotelevisivo e dell’informazione. Allora era un tema cruciale, per la qualità della nostra democrazia. Il Parlamento non lo raccolse, e da allora non si è fatto niente. Oggi, e basta guardare la televisione per rendersene conto, quel tema è ancora più grave. Una vera e propria emergenza".
Ma in tanto buio, secondo Ciampi c’è anche qualche spiraglio di luce. Per esempio l’appello lanciato su "Repubblica" da Roberto Saviano, che chiede al premier di ritirare la legge sull’abbreviazione dei processi, la "norma del privilegio".
"Io - commenta il presidente emerito della Repubblica - per il ruolo che ho ricoperto non uso firmare appelli. Ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. Risponde a uno dei principi che mi hanno guidato per tutta la vita. E il fatto che abbia ottenuto così tante adesioni rappresenta una speranza, soprattutto per i giovani. È il vecchio motto dei fratelli Rosselli: non mollare. Loro pagarono con la vita la fedeltà a questo principio. Qui ed ora, in Italia, non c’è in gioco la vita delle persone. Ma ci sono i valori per i quali abbiamo combattuto e nei quali abbiamo creduto. In ballo c’è la buona democrazia: credetemi, è abbastanza per non mollare".
* © la Repubblica, 23 novembre 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PRESIDENTE NAPOLITANO, IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI. Un appello.
La sovranità ad personam
di Carlo Galli (la Repubblica, 24 novembre 2009)
L’accorato appello di Carlo Azeglio Ciampi ci porta - con la sua altissima risonanza emotiva - a una stagione morale della politica che sembra ormai remota: la stagione della democrazia costituzionale e della repubblica parlamentare. Ci riporta al suo pathos per la libertà e al suo ethos di rispetto delle istituzioni, presidi della vita collettiva e del suo ordinato svolgimento secondo l’uguaglianza e il diritto (per non parlare della decenza). Una stagione che si pretende trascorsa e ormai finita, sostituita da un’altra, nuova e ormai alle porte, di cui si celebra l’avvento; una stagione che andrebbe riconosciuta nella sua ineluttabilità, e che meriterebbe il sacrificio della costituzione formale, ormai obsoleta, che dovrebbe essere adeguata alla splendida aurora della nuova costituzione materiale. Il cui contenuto fondamentale sarebbe un innovativo esercizio - libero, diretto e costituente - della sovranità popolare, che potrebbe oggi finalmente esprimersi senza la mediazione soffocante delle istituzioni, senza il vincolo della Legge, senza l’ossessione per l’ordine costituito.
E l’occasione per questo spontaneo manifestarsi del popolo e della sua volontà sovrana sarebbe data dalla persona empirica e singolare di Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio che appellandosi a essa intende sottrarsi - con tutti i mezzi che la fantasia dei suoi avvocati e dei suoi ministri può escogitare - alla legge ordinaria, alla comune uguaglianza giuridica che lega tutti i cittadini di una nazione democratica. Una eccezionalità, una straordinarietà, che gli sarebbero dovute in virtù del suo essere primus super pares fra i ministri (qualunque cosa ciò significhi), nonché direttamente votato dal popolo non come deputato - che rappresenta tutta la Nazione, come ogni altro parlamentare eletto - ma direttamente come capo del governo. Un cortocircuito fra potere esecutivo e popolo, dunque, che taglia fuori il potere legislativo, il Parlamento, spodestandolo, nella gerarchia dei poteri dello Stato, dal primo posto che gli compete nelle costituzioni moderne. Un cortocircuito, soprattutto, che dovrebbe sollevare il primus, l’Eletto, oltre l’ordinamento giuridico normale, garantendogli un’esenzione speciale dalla Legge; non importa se con norma ordinaria o costituzionale, se agendo sulla durata dei processi o sulla prescrizione: l’importante è che il cittadino Berlusconi, l’imprenditore privato di enorme successo e di immensa ricchezza, non venga toccato da processi.
Insomma, il potere del popolo - terribile e irresistibile fondamento di ogni legittimità politica - si condensa in un’unica epifania, in una manifestazione gloriosa strettamente individuale; il potere costituente, che rade al suolo gli ordinamenti costituiti e ne crea di nuovi, deve incaricarsi di ridisegnare l’equilibrio dei poteri dello Stato per il vantaggio di una sola persona; il caso d’eccezione deve diventare permanente, quotidiano e al contempo perenne, e garantire lo sfondamento dell’ordinamento a beneficio di uno solo. C’è, evidentemente, una sproporzione grottesca tra la causa e l’effetto, fra i principi e la realtà. Da una parte si evocano le categorie più forti della filosofia politica e della scienza giuridico-costituzionale moderna - appunto, la sovranità popolare, il potere costituente, il caso d’eccezione; chissà, la stessa rivoluzione - ; dall’altra l’obiettivo è tutto sommato modesto: una vicenda personale che il rilassarsi della democrazia e lo spregiudicato populismo di Berlusconi stanno trasformando in una tragedia repubblicana.
È questo squilibrio a mostrare, da solo, l’inconsistenza delle tesi che intendono nobilitare con motivazioni storico-politiche i frenetici tentativi di parte della maggioranza di salvare Berlusconi dai suoi processi (che non sono più di cento, ma meno di venti) che da anni subisce come imprenditore e che da anni contrasta con innumerevoli leggi a proprio vantaggio (come questo giornale ha documentato inoppugnabilmente). Tutti i superamenti dell’ordinamento formale e del potere liberale di cui si parla, tutte le potenze concrete, i momenti materiali della politica, hanno senso se hanno a che fare con obiettivi pubblici, universali: se anche la destra vuole diventare rousseauiana e mostrare un improvviso amore - forse sospetto e certamente pericoloso - per la sovranità popolare nella sua forma assoluta, non sarebbe male si ricordasse che la Volontà generale è tale perché vuole solo ciò che è generale, non perché vuole gli interessi particolari; che il caso d’eccezione è una violazione della Legge per un Valore pubblico supremo (la salvezza dello Stato, la salus populi, o qualche altra motivazione d’emergenza di carattere generale) e non per una vicenda di corruzione in atti giudiziari; che le rivoluzioni sono l’evento più pubblico e politico che ci sia, e che non si fanno per vicende personali.
E infatti nessuno ha inteso rivoluzionare alcunché col votare Berlusconi, ma soltanto eleggere un deputato che in seguito è stato incaricato dal Capo dello Stato di formare un governo, che ha avuto bisogno del voto di fiducia del Parlamento. Si deve contrastare la pretesa che l’on. Berlusconi sia stato eletto dal popolo capo del governo, e che goda perciò di uno status privilegiato: ciò non è vero.
La mitizzazione dei momenti forti in cui si fondano gli ordinamenti è un’evocazione equivoca e
fuori posto: la sovranità popolare - valore supremo della democrazia, che nessuno intende discutere
non è a favore di un singolo ma di tutti i cittadini in regime di uguaglianza; non è una coperta da
tirare da una parte, ma il presidio della libertà di tutti; non è un fantasma da evocare a piacimento
ma un bene da difendere e da garantire attraverso le libere istituzioni della democrazia
repubblicana. E la salvezza dello Stato e del popolo non sta nell’infrangere le norme, e nell’inventare
modi per sottrarsi ai processi, ma, al contrario, nella determinazione costante di restituire il Paese
all’ordine della legalità, che coincide, anziché esservi contrapposto, con l’ordine della legittimità, e
di ritornare alla sana distinzione fra privato e pubblico, fra diritto penale e diritto costituzionale, che
distingue uno Stato libero da uno Stato patrimoniale, e una nazione di cittadini da una di sudditi.