di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 15.10.2009)
Si annuncia, anzi è in corso, una crisi istituzionale di vasta portata. A che cosa sia e a che cosa essa chiami coloro che occupano posti di responsabilità nel nostro Paese, sono dedicate le considerazioni seguenti, esposte in quattro punti concatenati tra loro, dall’astratto al concreto.
1. Che cosa sono e a che cosa servono le istituzioni. Il genere umano ha scoperto le istituzioni per mettere a freno l’aggressività e l’istinto di sopraffazione che allignano - in uno più, in altro meno - in ognuno di noi, per diffondere fiducia e cooperazione, garantire un po’ di stabilità e sicurezza nelle relazioni umane e proteggere quel tanto di libertà che è compatibile con la vita associata. In una parola: per allontanare sempre di nuovo, ancora di un giorno, le "prove di forza" che accompagnano, come fantasmi che possono materializzarsi, i contatti tra gli esseri umani. Le istituzioni servono innanzitutto a questo: a neutralizzare i nostri istinti distruttivi e a civilizzarci. Poiché nel fondo siamo animali selvatici, possiamo anche dire: servono ad addomesticarci, incanalando e indirizzando le nostre energie in strutture, procedure, garanzie e controlli, così trasformandole, da distruttive, in costruttive di opere durature.
Non sembri eccessivo che, per parlare delle opere e dei giorni del nostro Paese in questo momento, si proceda così da lontano e da fondo, cioè da questa piccola sintesi del celebre scritto di Sigmund Freud sul "disagio della civiltà" (1929). È una messa in guardia a proposito di ciò che accade quando le istituzioni s’indeboliscono o scompaiono, inghiottite dall’ego di coloro che le impersonano e le usano per i loro propri interessi. Oppure - ed è lo stesso - è un ammonimento circa i pericoli di quando si diffonde l’idea che esse siano impacci, o abbiano tradito la loro funzione e siano diventate semplicemente coperture della lotta politica.
In breve, si tratta dello scatenamento delle energie peggiori, che le istituzioni e il "senso delle istituzioni" non riescono a controllare. Questo è esattamente il nostro rischio, la china su cui siamo messi a causa di ciò che, con un’espressione abusata di cui non si coglie più la drammaticità, chiamiamo "delegittimazione". Senza istituzioni, tutto diventa possibile. La "prova di forza" pre-politica, cioè fuori delle regole che ci siamo dati per "istituzionalizzare" il fisiologico conflitto politico, è alle porte.
2. Conflitto pre-politico. Guardiamo quello che accade. Lasciamo da parte i troppi che, come sempre accade, aspettano senza scoprirsi di capire come vanno le cose per schierarsi dalla "parte giusta". Accanto ai molti indifferenti, presi dell’assillo d’altri problemi, coloro che si sentono parti in causa sono divisi da una frattura che non possono o non vogliono colmare. Da una parte, c’è chi giurerebbe sulla convinzione che è in corso una congiura contro il presidente del Consiglio e la sua maggioranza, condotta con metodi criminosi da oligarchie irresponsabili e magistrature corrotte politicamente, per un fine antidemocratico: contraddire il risultato di libere elezioni e mettere nel nulla la volontà di milioni di elettori. Sul fronte opposto, si giurerebbe sulla convinzione che, invece, il metodo criminoso è quello di un presidente del Consiglio che, per evitare di rispondere in giudizio di accuse penali assai gravi e infamanti, vuol porsi al di sopra della Costituzione e della legge, cambiandole a suo uso e consumo.
Così, due accuse si fronteggiano: di attentato alla democrazia, da una parte; di attentato allo stato di diritto, dall’altra. Questa spaccatura è pre-politica. Non riguarda il come agire dentro le regole della politica che sono date dalla Costituzione, ma addirittura se starci dentro, o uscirne fuori. Vola, infatti, nei due sensi, l’accusa di tentare una forzatura. Qualcuno parla di "golpe", senza rendersi conto di ciò che dice o forse rendendosene ben conto. Quando questo veleno entra in circolo, tutto - atti e parole che, nella normalità, sarebbero inimmaginabili o apparirebbero disgustose intimidazioni e prepotenze - diventa lecito, anche a fini preventivi.
Gli storici diranno di chi è la responsabilità della stasis, del punto morto al quale siamo arrivati. Ma noi ora vi siamo dentro e non possiamo consolarci pensando, ciascuno sulle proprie posizioni, che la storia ci darà ragione. Abbiamo il dovere di districarci nella difficoltà, per noi e i nostri figli, ai quali vorremmo consegnare un Paese pacifico e civile. Non serve a nulla, a questo punto, la ricerca della responsabilità originaria. Serve solo ad attizzare il conflitto. Non serve a nulla lo scambio di accuse tra due fronti che sembrano non ascoltarsi più. Anzi, serve a scavare ancora il fosso e a dare spazio all’avventura. Nessuno ha da rinunciare alle proprie idee, al giudizio su sé e su gli altri. Ma ora si tratta di prendere atto che la spaccatura esiste come "dato", come "cosa" che minaccia le istituzioni e, con esse, la convivenza ch’esse devono assicurare.
3. "Delegittimazione democratica" delle istituzioni. La minaccia alla convivenza va di pari passo con l’indebolimento delle istituzioni, con la loro "delegittimazione". È una storia che viene da lontano, che si ripete ogni volta, con l’affermarsi nella pratica e nel senso comune di un’idea di politica come immedesimazione di un capo nel suo popolo ("voglio essere uno come voi") e di un popolo nel suo capo ("vogliamo essere come te"). Quest’immedesimazione ha assunto nella storia molte forme e molti nomi: democrazia plebiscitaria, demagogia, cesarismo, bonapartismo, peronismo, ecc. Altre forme e altri nomi assume oggi e assumerà in futuro, in conseguenza dei mezzi tecnici di quell’immedesimazione. In ogni caso, però, chi governa immedesimandosi nel popolo sale sul popolo e da lì guarda tutto dall’alto in basso, non concependo che possano esistere limiti e controlli. In nome di che, del resto? Di qualche giudice o giurista parruccone che non rappresenta che se stesso? La politica come immedesimazione o "identitaria" non ha bisogno d’istituzioni; le sono d’impaccio, anzi nemiche. Esse non possono che raffreddare un rapporto che si vuole invece caldo, tra capo e corpo, leader e seguaci.
Nascono movimenti, simboli, inni, motti e frasi fatte, eventi e opere, ricorrenze, spettacoli, esempi, che celebrano e rafforzano quel rapporto e quella vicinanza, facendo appello indifferentemente, secondo che occorra, a nobili slanci altruistici o gretti sentimenti egoistici; ora adulando supposte virtù patriottiche, ora stuzzicando nascosti impulsi volgari. Si tratta di rappresentare il "paese reale" per impiantarvi una cosa che viene chiamata democrazia, anzi "vera democrazia", in contrapposizione a quella "falsa", "formale", "vuota", cioè quella mediata dalle istituzioni.
Noi assistiamo a questo processo. In nome della "vera democrazia" (posso fare quello che voglio perché ho il popolo dalla mia parte: vero a falso che sia), le istituzioni che non si adeguano sono indicate come nemiche. Non s’immagina neppure che possano fare onestamente il loro dovere che non è di tenere bordone a questo o quello ma, per esempio, di applicare la legge e di difendere la Costituzione oppure, per le istituzioni dell’informazione, semplicemente di pubblicare notizie. Devono essere necessariamente alleate del nemico. Se il potere è "di destra", le si accuserà d’essere "di sinistra". Se mai il potere fosse di sinistra, la stessa concezione della democrazia le farebbe accusare d’essere "di destra".
Ma le istituzioni della democrazia pur esistono e non è pensabile di eliminarle, a favore di una demagogia pura e semplice. Bisogna pur salvare le forme, anche per non essere banditi dal consorzio delle nazioni civili. Allora, via alle intimidazioni o - ed è lo stesso - alle seduzioni e, se non basta, via alle riforme per ridurre l’autonomia e l’indipendenza delle istituzioni non allineate. Così, si cambia regime dall’interno, lasciando l’involucro ma svuotato della sostanza. Così è per il governo, da rendere obbediente al "primus inter pares", per il Parlamento, da ridurre a esecutore passivo del governo; del presidente della Repubblica, per l’intanto da rendere inquilino remissivo, perché non eletto dal popolo (una coabitazione impari, in attesa del presidenzialismo); della Corte costituzionale e della magistratura, da riformare per toglierle dalla sfera del diritto e spostarle in quella della (subordinazione) politica.
4. Tra l’incudine e il martello. La costituzione, da luogo della pacificazione, è così diventata terreno di scontro, lo scontro, per definizione, più distruttivo che possa immaginarsi. Chi assiste con sgomento al volgere degli eventi e ai segni premonitori ch’essi contengono resta sorpreso nel non veder sorgere una forza che, mettendo momentaneamente da parte le legittime diversità di posizione sui tanti e pur urgenti problemi del Paese, non si ponga responsabilmente, come compito prioritario e condizionante tutto il resto, quello di uscire dalla morsa che si sta chiudendo. In quelli che potrebbero, sembra mancare la consapevolezza o abbondare l’indifferenza. Occorre ben altro che la rituale "solidarietà" alle persone che ricoprono funzioni messe sotto tiro. Non basta l’invito al rispetto del galateo. Scadenze importanti incombono. Nel 2011 dovrebbe celebrarsi l’unità nazionale, cioè le istituzioni dell’unità. Che cosa troveremo, di questo passo, quando ci arriveremo?
Quando due fazioni si affrontano con rischio generale, per coloro che avvertono la propria responsabilità autenticamente politica quello è il tempo di mettere provvisoriamente da parte ciò su cui ordinariamente sarebbero portati a dividersi, e di operare insieme nell’interesse superiore alla pace. La nostra è una repubblica parlamentare. Non è, almeno per ora, un regime d’investitura popolare d’un sol uomo. Per quanto si sostenga il contrario, scambiando il desiderio per un diritto acquisito, sono le forze politiche rappresentate in Parlamento a disporre legittimamente del potere di coalizione, per fare e disfare governi, secondo necessità. Un potere al quale, in un momento come questo, corrisponde una grande responsabilità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
ABUSO ISTITUZIONALE DEL NOME "ITALIA" DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: DIMISSIONI SUBITO.
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
FLS
’Rischio oligarchia’. ’Offende Italia’, duello Zagrebelsky-Renzi
Il premier: ’Riforma dà credibilità. Ho accettato di fare un passo indietro sull’Italicum. Vorrei cambiare sistema capilista’
Renzi: ’Come Pd prenderemo iniziativa di modifica Italicum’
"Io ho accettato di fare un passo indietro"
di Serenella Mattera (ANSA, 01 ottobre 2016, 10:49)
ROMA La "palude" da superare e la credibilità da difendere, per Matteo Renzi. Il "rischio per la democrazia" e lo spettro di una "oligarchia", per Gustavo Zagrebelsky. E’ una visione "culturale" di fondo inconciliabile, a separare profondamente il presidente del Consiglio e il professore. I due capifila del Sì e del No al referendum costituzionale si confrontano per la prima volta nello studio tv di La7. Ed è subito scontro, in un continuo botta e risposta, tra battute, punzecchiature e divergenze inconciliabili nel merito. Le oltre due ore di confronto si aprono con un insolito scambio di ruoli: Renzi difende i punti cardine di una riforma "voluta dal Parlamento e non solo da me", Zagrebelsky esordisce con una punzecchiatura.
"Sono contento che abbia ripensato ai discorsi su parrucconi, rosiconi, gufi, altrimenti non avrebbe perso tempo con uno di loro...", sorride il costituzionalista. E il premier si indigna: "Non mi sono mai permesso di chiamarla parruccone. Io ho studiato sui suoi libri: prof, venga al merito". Da qui in poi, inizia uno scambio che passa spesso (e all’inizio Renzi se ne lamenta) dal piano costituzionale a quello politico.
Anche perché, afferma Zagrebelsky: "Le istituzioni vanno calate nel contesto. La Costituzione di Bocassa, dittatore centroafricano, è molto simile a quella Usa". "Lei dice che la riforma costituzionale non tocca in nessun punto i poteri del presidente del Consiglio. Ma molti di noi sono preoccupati per rischi di derive autoritarie o di concentrazione al vertice delle istituzioni: rischiamo di passare da una democrazia a una oligarchia", attacca il costituzionalista. E Renzi ribatte: "L’appello di ’Libertà e Giustizia’ da lei firmato, che parla di svolta autoritaria, offende l’Italia. Tra l’altro, ricorda il premier, Zagrebelsky ha firmato anche l’appello dei 56 costituzionalisti che "dice esattamente il contrario". "Non è vero. E io comunque non mi sono preparato sulle sue contraddizioni...", è la replica.
Il rischio, sottolinea l’esponente del No, non è il governo Renzi ma "quelli che potranno venire. L’Italicum crea un terreno aperto per l’affermazione di poteri forti": mentre in Europa avanzano le estreme destre "dovremmo attrezzarci per avere un sistema di garanzie". Il leader Dem però sul punto dell’Italicum ha un asso nella manica: "L’Italicum non è un rischio e il referendum non è sulla legge elettorale ma come Pd prenderemo un’iniziativa per cambiarla e togliere ogni dubbio".
Il prof però non si fida: "Lei diceva che era la legge più bella del mondo, ora i sondaggi dicono che al Pd al ballottaggio perde e volete cambiare, ma non basta: serve un accordo sul come". Non solo l’Italicum, però. Lo scontro è anche sul nuovo meccanismo di elezione del presidente della Repubblica, sulle competenze e sui poteri del nuovo Senato. "Le garanzie aumentano - afferma Renzi - più poteri alla Corte costituzionale, quorum più alto per l’elezione del presidente della Repubblica e statuto delle opposizioni. Invece il presidente del Consiglio non ha poteri in più". "Se lo Statuto delle opposizioni lo scrive la maggioranza - replica Zagrebelsky - dov’è la democrazia? E la maggioranza potrà eleggersi da solo il presidente della Repubblica".
"Dico che c’è un pericolo per la democrazia pensando non al suo governo ma ai governi che potranno venire. L’Italicum crea un terreno aperto per l’affermazione di poteri forti. Dovremmo attrezzarci per avere un sistema di garanzie e bilanciato", rilancia Gustavo Zagrebelsky . "Lei ha sostenuto - prosegue - che l’Italicum era la legge più bella del mondo e sarebbe stata invidiata da tutti. Invece poiché cambiano le condizioni e non siamo più in un sistema bipolare ma tripolare e i sondaggi dicono che quando il Pd si presenta contro qualcun altro vince qualcun altro, il ballottaggio non è più nel cuore del Pd, forse è nel suo...". "E la rottura del Nazareno fa sì che venga imposta da un parte e il nostro è un Paese diviso in due, il suo partito è diviso in due". Ma il presidente del Consiglio ribatte colpo su colpo, citando anche il maestro di Zagrebelsky, Leopoldo Elia: "La riforma semplifica, a partire dai poteri delle Regioni. E dire che taglia i costi non è demagogia. I poteri del premier non aumentano: non posso neanche rimuovere un ministro. La sua parte culturale si è sempre preoccupata di andare contro Berlusconi ma adesso lei ora vota No come Berlusconi. Noi abbiamo smosso la palude, perché non volete parlare di futuro? Un No rischia di pregiudicare il nostro recupero di credibilità in Europa e nel mondo. Quest’occasione perduta non tornerà per i prossimi venti anni".
Festival del Diritto 2016 *
Festival del Diritto
Il tema della IX edizione: Dignità
Piacenza, 23-25 settembre 2016
Dignità significa rispetto. Ma non, come nel mondo antico, per un particolare status, che assicura un rango e una condizione di privilegio. Al contrario, la dignità nel mondo moderno implica il riconoscimento di ciò che ci accomuna in quanto essere umani, l’impossibilità di trattare gli altri come mezzi e non come fini.
Oggi si parla molto di dignità, ma essa di fatto è continuamente violata. Eppure si tratta di una delle parole d’ordine che hanno determinato la rivoluzione costituzionale dell’ultimo dopoguerra. Questa ha dato vita al paradigma dello Stato costituzionale democratico e sociale, che ha consentito - almeno nell’Europa occidentale - di includere larghe masse nella cittadinanza democratica di Stati pluriclasse, superando quella guerra civile europea che aveva trascinato il mondo in un rovinoso conflitto totale. Non a caso, la dignità si trova in cima alla Carta tedesca, che si apre proprio con le parole: «La dignità umana è inviolabile».
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si apre affermando lo stesso principio. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 integra la forma tradizionale «tutti gli uomini nascono liberi e uguali» aggiungendo «in dignità e diritti».
L’art. 3 della Costituzione italiana afferma che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale», arricchendo la nozione di dignità di una fondamentale connotazione sociale: essa non deve essere riconosciuta solo alla persona in quanto tale, ma anche nella relazione con gli altri. -Ciò significa che non si tratta solo di affermare un principio morale astratto, ma di concretizzare il riconoscimento dell’uguale valore delle persone - soprattutto quando sono più esposte e vulnerabili - nei contesti in cui si svolge la loro vita: nell’ambiente di lavoro, nei luoghi di cura, a scuola, in famiglia. La vulnerabilità dell’umano implica una presa in carico da parte del diritto, che avviene all’insegna dell’idea di dignità: ciò significa dare più forza a chi ne ha meno, impedire discriminazioni e prevaricazioni, in tutte le forme in cui possono manifestarsi.
Le conseguenze economiche e sociali di questa impostazione sono evidenti: nessun dogma tecnocratico né interesse geopolitico può giustificare un allentamento delle garanzie della dignità tale da minarne l’efficace protezione. Ciò significa che politiche pubbliche e prassi istituzionali le quali svuotino di fatto i diritti fondamentali, tanto civili quanto sociali e politici, sono prive di legittimità, perché incompatibili con il costituzionalismo più avanzato, affermatosi nella seconda metà del Novecento, quello appunto della dignità.
Nella società moderna, la dignità non indica un’essenza immutabile, magari da contrapporre polemicamente ad altre visioni della natura umana, ma le condizioni e le modalità di un esercizio della libertà in condizioni di effettiva parità. È il progetto di società della democrazia costituzionale, difficile, mai compiuto, destinato a scontrarsi costantemente con logiche di dominio - sia simbolico sia materiale - che opponendosi alla ridistribuzione di potere sociale ripropongono, anche nel mondo globale, un paradigma profondamente gerarchico.
La lotta per la dignità è la lotta per i diritti quali strumenti di liberazione sociale e personale: qui può essere la leva per impedire che il caos geopolitico ed economico nel quale siamo gettati abbia esiti esiziali per la democrazia. Soprattutto l’Europa deve risvegliarsi e ritrovare le proprie radici costituzionali, se non vuole condannarsi all’impotenza e alla disgregazione, e perciò ad essere fattore non di razionalità politica, ma di regresso civile.
Le questioni dei rifugiati e delle migrazioni, quelle relative al tipo di risposta (se emergenziale o politica) da dare al terrorismo fondamentalista, le preoccupazioni connesse alle guerre ai nostri confini (le cui conseguenze entrano sempre di più all’interno dell’Europa) si legano ai problemi della sicurezza sociale, agli effetti della disoccupazione (soprattutto giovanile) e della svalutazione del lavoro. Questo cortocircuito non solo continua ad alimentare la crisi, ma produce una radicale delegittimazione degli ordinamenti politici e costituzionali. La saldatura tra paure, rabbia sociale e sfiducia può condurre ad avventure.
A questo non si risponde rinserrandosi nell’oligarchia, ma raccogliendo le sfide per la dignità sociale che provengono dal basso. Se il diritto riannoda questo filo, potrà contribuire a superare il divorzio governati-governanti e a costruire un nuovo habitat per realizzare forme di liberazione (che saranno sempre parziali e provvisorie, ma non per questo meno irrinunciabili) dall’oppressione del potere arbitrario e dal bisogno: solo così è plausibile l’idea, altrimenti retorica e ingannevole, di una società nella quale, realmente, tutti possano essere liberi.
Il Festival del diritto 2016, attraverso la bussola della “dignità”, punterà a offrire un quadro critico delle grandi sfide che attendono il diritto nel tempo presente, che rendono necessarie innovazioni coraggiose, ma nelle consapevolezza profonda dei fondamenti, inscritti nella tradizione del razionalismo giuridico moderno, sui quali costruire. Quelle sfide investono ambiti molto concreti della vita delle persone, mutandone l’esperienza: dal mondo del lavoro agli effetti delle migrazioni, dalla rivoluzione delle donne e dei diritti di genere alle trasformazioni della famiglia, dalla tutela dell’ambiente a quella della salute, dal funzionamento della giustizia al potere dei media. Come ogni anno, il Festival sarà un lavoro comune e aperto, che vedrà il contributo plurale di associazioni di volontariato, scuole, autorevoli studiosi (giuristi e non) e testimoni della contemporaneità.
Stefano Rodotà, responsabile scientifico
*FONTE: EDITORI LATERZA
TWEET (18.09.2016). L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
Perché il bisogno di giustizia è più forte del relativismo etico
Da una raccolta di saggi d’autore dedicati a Gustavo Zagrebelsky una riflessione sulle radici della nostra “voce della coscienza”
di Vito Mancuso (la Repubblica, 22.03.2016)
La principale malattia spirituale del nostro tempo consiste nell’incapacità di fondare nella coscienza l’imperatività della giustizia, ovvero di rispondere al perché si debba sempre fare il bene e operare ciò che è giusto anche in assenza di interessi, o addirittura contro i propri interessi. Rimandando a Dio e ai suoi comandamenti, l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza. D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali (giusnaturalismo, consensus gentium, formalismo, utilitarismo) è sì capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza dell’obbedienza; anzi, applicando la tolleranza al proprio io nella pratica concreta, i soggetti trovano non di rado una comoda giustificazione alla loro incoerenza rispetto all’imperativo etico.
Il risultato è che oggi non si sa più rispondere al perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male. Tale assenza di fondazione è una grave minaccia che incombe sull’etica in quanto tale, perché in mancanza di fondazione o c’è imperatività senza discernimento, come nel caso del fanatismo, o non c’è imperatività e quindi non c’è etica, come nel caso dell’utilitarismo opportunistico.
Dato che l’etica si lega intrinsecamente al diritto, la crisi della sua fondazione si traduce immediatamente nella crisi del concetto di giustizia, ovvero dello stesso fondamento teoretico della filosofia del diritto. In questa prospettiva Gustavo Zagrebelsky scrive significativamente di «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia». Il diritto infatti o è in grado di rimandare a un fondamento etico in base a cui mostrare che ciò che prescrive è veramente diritto nel senso di retto, oppure non può che risultare fondato ultimamente sul potere che dapprima l’istituisce in quanto positum, e poi si cura di farlo rispettare mediante la forza. L’alternativa è quella classica: è la verità o è l’autorità a costituire la legge?
È noto il detto di Hobbes: Auctoritas, non veritas, facit legem. Ma se si deve ammettere che questo vale per la legge positiva, non ritengo che valga allo stesso modo per il diritto sostanziale che precede e fonda la legislazione. L’autorità è indispensabile per mediare il passaggio dalla sfera del diritto alla sfera della legge, e in questo senso è giusto dire che senza autorità non si avrebbe la legge (Auctoritas facit legem). Non per questo però è lecito concludere che l’autorità sia anche la fonte sorgiva del diritto, il quale al contrario precede l’autorità e la giudica, distinguendola in autorità legittima e giusta a cui obbedire, e autorità illegittima e ingiusta a cui ribellarsi (e quindi si potrebbe dire: Veritas facit ius).
Se il diritto precede l’autorità, esso riceve il suo fondamento nella coscienza, in particolare in quella forma della coscienza etica che intende comportarsi in modo retto e giusto, e che tradizionalmente si chiama etica. Torniamo quindi a quanto affermato sopra, ovvero al fatto che l’odierna crisi dell’etica trascina con sé anche la crisi della fondazione del diritto e la conseguente «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia».
Tuttavia esiste negli esseri umani un enorme bisogno di giustizia. La mancata realizzazione di questo bisogno genera in essi malessere e risentimento rispetto alla società, alla storia, alla condizione umana. La questione si pone in modo radicale: quando parliamo di «fame e sete di giustizia », quale dimensione dell’essere umano nominiamo? Io ritengo che il fondamento dell’etica e il fondamento del diritto si leghino intrinsecamente l’uno all’altro, e che la forza dell’uno sia la forza dell’altro, e la rovina dell’uno la rovina dell’altro.
Esistenzialmente la questione del fondamento dell’etica si traduce in una domanda molto concreta: perché dovrei fare il bene e non il mio interesse? La mia risposta è la seguente: si deve fare il bene per essere fedeli a se stessi, perché è nel bene oggettivo che risiede il più grande interesse soggettivo.
Che cos’è infatti il bene? Il bene nella sua essenza peculiare è forma, ordine, armonia, relazione armoniosa. E che cosa siamo noi? Siamo forma, ordine, armonia, un concerto di relazioni armoniose: è grazie a questa dinamica, chiamata in fisica informazione, che a partire dai livelli primordiali delle nostre particelle subatomiche si formano i nostri atomi, i quali a loro volta, grazie all’informazione che li guida, formano le nostre molecole, le quali a loro volta, grazie all’informazione che le guida, formano gli organelli alla base delle nostre cellule, le quali a loro volta... e via di questo passo secondo una progressiva organizzazione che giunge fino alla coscienza e alla personalità.
La logica che ci dà forma, che ci in-forma, è la relazione armoniosa, e quindi praticare l’etica, in quanto relazione armoniosa con gli altri e con il mondo, significa essere fedeli a se stessi, alla nostra più intima logica interiore. In questa prospettiva l’altruismo non risulta difforme da un retto egoismo in quanto intelligente cura di sé. La fondazione dell’etica quindi è fisica, basata su una filosofia che guarda alla natura con ottimismo e favore, senza ignorare le numerose manifestazioni di caos e di disordine che essa presenta ma riconducendole all’interno di un processo complessivamente orientato alla crescita della complessità e dell’organizzazione vitale, e che per questo sa che essere fedeli alla natura e alla sua logica relazionale equivale a fare il bene, e di conseguenza a stare bene, per la gioia che infallibilmente scaturisce in ogni essere umano quando cresce la qualità delle sue relazioni. Da questa logica armoniosa dell’essere procede anche il richiamo al rispetto della giustizia che tradizionalmente chiamiamo «voce della coscienza».
Chi grida al fascista
di FRANCESCO MERLO (la Repubblica, 17 marzo 2016)
TORNANO le parole fascista, comunista, stalinista... non solo come "vecchi soprannomi per anziani" ma anche come gli stilemi di un’usurata comicità italiana che non fa più ridere, di un sottosopra logico che è diventato triste. "I leghisti di Roma sono tutti ex fascisti" ha ieri denunziato l’indomabile comandante partigiano Silvio Berlusconi in difesa del fido Bertolaso che, come un eroe della Resistenza, dovrà ora affrontare la Decima Mas di Salvini, le legioni della Meloni, i manipoli della deputata ex missina Barbara Saltamartini, la quale, com’è ovvio, tiene il coltello tra i denti alla maniera del feroce Ettore Muti.
E, a fare pendant, intervistato sul Corriere da Aldo Cazzullo, Massimo D’Alema aveva dato dello stalinista a Matteo Renzi e di nuovo la parola aveva fatto cortocircuito con la sua storia. Perché anche "stalinista" non è un insulto qualsiasi, come per esempio populista o sleale o autoritario, ma è una grammatica politica, un codice etico, è la cassetta degli attrezzi che Massimo D’Alema ha giustamente relegato nella propria soffitta ideologica, la vecchia antropologia che modellò il suo carattere di duro e formò la sua selvatica personalità.
Ma veniamo a noi, che alla parola "fascisti" ancora ci armiamo di vigilanza democratica. Ieri mattina, ascoltando l’intervista che gli faceva Maurizio Belpietro, noi abbiamo cercato di capire chi sono i camerati, i cuori neri che fanno vibrare di indignazione liberale l’antifascista Berlusconi. Di sicuro non ce l’ha con Gasparri, Alemanno, Storace, Matteoli e con tutti quegli altri ex fascisti che lui ha fatto, nel corso degli anni, ministri, sindaci, presidenti di regioni, quelli che stavano nel Fuan e nel Fronte della Gioventù e lui ha messo a sedere al tavolo delle presidenze, nelle partecipate, nel sottogoverno, ha chiamato ad esercitare il potere, ha promosso classe dirigente del Paese, sino a nominare ministro della Difesa il futurista Ignazio La Russa, che sembrava l’incarnazione della caricatura del gerarca, con i suoi completi militari, le collezioni di soldatini, i voli dannunziani sopra Kabul... Insomma Berlusconi non può certo avercela con tutti gli ex giovani camerati che - Giovinezza Giovinezza - nel giorno in cui la destra berlusconiana fece eleggere Alemanno sindaco di Roma, lo salutarono sui gradini del Campidoglio con il saluto romano e il grido Eia eia alalà.
È vero che quando non lo soddisfacevano li chiamava ingrati, soprattutto Gianfranco Fini "il quale - disse nel 2009 all’agenzia Ansa - senza di me starebbe ancora dove stavano tutti loro sino al 1994" e voleva dire nelle fogne dello slogan ("fascisti carogne/ tornate nelle fogne"). Per la verità già un anno prima Berlusconi lo aveva tirato fuori dal sottosuolo della Storia. Non era ancora sceso in campo, quando Fini il fascista si candidò proprio a sindaco di Roma contro Rutelli. Ebbene, al cronista che gli domandava per chi avesse votato, l’imprenditore a sorpresa rispose: "Certamente Gianfranco Fini". Fu un lampo, un’epifania, probabilmente il suo scandalo più bello, un merito che la storia di sicuro gli riconoscerà: avere dato alla destra italiana lo ius soli nella democrazia. Fini fu battuto ma raggiunse il 47 per cento e mai sconfitta fu più vincente di quella. Berlusconi infatti lo aveva smacchiato. Con il paradosso però che, da quel momento, più Fini si allontanava dalla destra e più Berlusconi si spostava a destra. E più Fini si sfascistizzava e più, agli occhi di Berlusconi, ritornava fascista, come vuole il vecchio adagio secondo cui bisogna fare il giro del mondo per ritrovare la propria casa.
Ecco, appunto, Berlusconi in un’intercettazione con Lavitola lamentarsi che Fini gli bocciava uno dei suoi tanti lodi perché, secondo lui, subiva le lusinghe della sinistra: "non me l’approvano i fascisti, Fini non ci sta". E la cronaca racconta che non solo Berlusconi pagò 600 milioni per far nascere Fratelli d’Italia, ma che anche La Destra di Storace aveva avuto la sua concreta benedizione: "Ah, quando c’era la buonanima" disse mostrando a Storace il volume dell’editore Dino con il faccione del Duce sbalzato in oro. E Storace, che era a capo di una delegazione di fascisti sociali e dunque poveri: "Beato lei che ce l’ha, noi no, perché costa troppo".
Berlusconi fascista? Berlusconi antifascista? Nessuno meglio di noi, che lo abbiamo studiato per 20 anni, sa che Berlusconi non è stato niente, o se preferite è stato tutto e il contrario di tutto. Ci fu quello che difese Mussolini perché "non ha mai ammazzato nessuno e mandava la gente in vacanza al confino", e ci fu quell’altro che il 25 aprile del 2009 si annodò un fazzoletto rosso al collo e tenne un comizio ricordando la sua eroica mamma antinazista. Ci fu un Berlusconi che scelse la giornata della memoria per raccontare barzellette sugli ebrei e ce ne fu uno che, in tv, annunziò che sarebbe andato ad incontrare il papà dei fratelli Cervi senza neppure sentire Bertinotti che gli ripeteva: "guardi che papa Cervi è morto".
Nell’Italia del trasformismo, Berlusconi non è certo l’unico ad avere adattato le convinzioni alle convenienze, ma davvero oggi ha solo un suono acido la parola fascista usata dal vecchio sdoganatore dei fascisti. Allo stesso modo suona acida la parola stalinista usata dall’ultimo nipotino degli stalinisti. Sono solo parole morte che appartengono alla storia, un po’ come Orazi e Curiazi, turchi e mori, achei e troiani. Tanto più che Bertolaso, forse forse, in queste elezioni romane, è quello che della fascisteria parodiata - da affrontare con Ugo Tognazzi e non certo con Ferruccio Parri - esibisce di più i connotati: la virilità, gli attributi, la stessa spavalderia che mostrava sulle macerie dell’Aquila quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso. Cos’altro poteva dire alla Meloni incinta se non "vai a fare la mamma "? Spiace solo che, nelle polemiche, lo abbiano davvero trattato come se fosse l’uomo italiano medio, il rappresentante del maschio italiano, promuovendo lui e offendendo tutti gli altri.
Le parole impazziscono un attimo prima degli uomini. Ma non fanno tabula rasa. Remember è il titolo di un intelligente film tedesco che Berlusconi e D’Alema dovrebbero andare a vedere insieme, per ritrovare quel tanto che hanno in comune. Racconta di un vecchio che ha perso la memoria e va a caccia di nazisti. Senza ricordare che il nazista era lui.
“Non la Costituzione, l’hanno distrutta”
Ha detto Il giurista: non faccio lezione sul testo Renzi-Boschi
intervista di Jacopo Iacoboni (La Stampa, 15.03.2016)
«Tutto al mondo passa e quasi orma non lascia». Gustavo Zagrebelsky ci scherza su; una citazione leopardiana invita a non drammatizzare troppo la notizia che vogliamo commentare: a quasi 73 anni uno dei decani della cultura torinese - e un simbolo, nonostante lui neghi insistentemente - della Torino post-azionista lascia l’Università della città per accettare l’invito ad andare a insegnare a Milano, al San Raffaele. È un momento che segna oggettivamente la fine di una stagione, e forse di una fase del dibattito politico italiano.
Le fa effetto lasciare l’insegnamento a Torino? È esagerato dire che è la fine di tutto un mondo, di laicità e democrazia intransigente?
«Appunto: è un’esagerazione. Quel verso di Leopardi dice che tutto passa, ma aggiunge: “quasi”. Una certa Torino non c’è più dagli anni cinquanta, ma quel mondo non è sparito. Rivive in altre forme, magari non è più egemone, ma quando lo è stato? Torino insegna ancora una sorta di repulsione del mondo intellettuale verso il potere politico, la ripulsa dell’arruolamento. L’idea di entrare in una squadra ci sembra un tradimento. D’altra parte non mi sono mai sentito figlio legittimo della Torino azionista, non sono stato allievo di Bobbio, anche se, specialmente negli ultimi anni, ho avuto con lui una grande amicizia. Ma la mia Torino era anche Giuseppe Grosso, un cattolico, accanto appunto a Bobbio o a Galante Garrone. E Leopoldo Elia, colui con il quale ho iniziato gli studi costituzionalistici. Era questa sintonia tra laicità e il miglior pensiero cattolico liberale. La favola della Torino azionista “covo di moralisti, giacobini e intollerante” è una vulgata polemica creata ad arte da destra, a fini denigratori».
Vulgata poi arrivata, anche solo come ronzio, all’orecchio dei governanti di oggi, quelli che le danno del “professorone”.
«Mah! Lei crede che sappiano qualcosa dell’azionismo? Il nuovismo e il giovanilismo bastano a se stessi. Non hanno bisogno d’altro per compiacersi di sé».
Torniamo a Torino.
«Non è un addio, avrei comunque lasciato l’Università. Per una serie di ragioni. Per stanchezza, fisica ma anche mentale. Ho quasi 73 anni, preparare le lezioni di diritto costituzionale diventava più faticoso, anche se poi l’incontro con gli studenti è sempre stato molto bello. Qualche mese fa Massimo Cacciari, che era venuto a presentare un mio libro sul Grande inquisitore, mi ha chiesto se mi avrebbe fatto piacere tenere un corso al San Raffaele. Mi disse “vieni a insegnare filosofia del diritto”. La cosa mi ha stuzzicato e ho accettato; ma non parlerò di Tommaso o di Aristotele. Parlerò dei limiti, dei confini del diritto. Le idee migliori sul diritto, diceva Bobbio, vengono dai giuristi pratici, più che dai filosofi. Il diritto ha dei limiti? Può invadere tutte le sfere dell’esistenza o ce ne sono alcune davanti alle quali deve fermarsi? Non è rimasto allibito davanti all’idea che il legislatore, nel dibattito sulle unioni civili, possa legiferare su cose come la fedeltà? Siccome il diritto incontra dei limiti, e non ce la fa a vietare, per esempio il cosiddetto l’utero in affitto o la maternità surrogata, quello è il campo in cui deve operare non l’homo iuridicus, ma l’homo moralis. Poi, di fronte all’impotenza, i politici rimettono le decisioni ai giudici e, ipocritamente, si lamentano delle loro “invadenze”».
Lei che posizione ha sulla maternità surrogata?
«Gli aspetti commerciali mi turbano, sono un uomo dell’altro secolo. Che tutto sia o possa essere business mi spaventa. Comunque, non si può derogare a due principi: la non discriminazione del bambino nato con gestazione diversa, e l’interesse del minore. A Milano parlerò di cose come queste».
Che bilancio fa oggi di 50 anni in cattedra?
«Parafrasando San Paolo, che disse “ho combattuto la buona battaglia, e ho mantenuto la fede”, io direi invece che ho perduto la fede».
Perché?
«Non voglio più insegnare il diritto costituzionale. La Costituzione non è una materia come le altre, è qualcosa che implica l’adesione a certi valori. Se passerà il referendum sulla riforma Boschi non saprei neanche più che cosa insegnare. È un testo scritto malissimo, in certe parti contraddittorio e incomprensibile. La Costituzione del ’48 fu rivista da personaggi come Concetto Marchesi. La chiarezza, per una Costituzione, è anche un fatto di democrazia» (Zagrebelsky ha davanti l’articolo 70 sulla funzione legislativa. Ne legge le sgrammaticature, e fa impressione).
Chi ha scritto materialmente questa roba?
«Persone che hanno trovato su questo tema l’occasione, la volta buona, per emergere nel dibattito tra i costituzionalisti».
Renzi e Boschi non sono molto toccati dalle sue critiche.
«Me ne sono fatta una ragione. Siamo in mano a persone per le quali tutto diventa negoziabile. L’opportunismo governa. Per questo, mi va bene la filosofia del diritto; la consolatio philosophiae come, se mi è lecito, per Severino Boezio».
Riforme, Zagrebelsky: “Siamo quasi al punto zero della democrazia”
Il costituzionalista è intervenuto nel dibattito "Meno democrazia?" organizzato dalle associazioni "Libertà e giustizia" e "I popolari" a Torino: "Bisogna interrogarsi sulle cause e su chi ha determinato le condizioni in cui ciò si è verificato"
di F. Q. *
“Un degrado, quasi il punto zero della democrazia”. Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha commentato così la discussione delle riforme in Parlamento e le polemiche sulla decisione del presidente del Consiglio di andare avanti nonostante le polemiche dell’opposizione. “Bisogna interrogarsi”, ha detto il presidente emerito della Corte Costituzionale, “sulle cause e su chi ha determinato le condizioni in cui ciò si è verificato”. Dubbi simili a quelli espressi dal costituzionalista Alessandro Pace che, in un’intervista al Fatto Quotidiano, ha detto che “le Camere si trovano sotto ricatto”.
Zagrebelsky è intervenuto nel corso del dibattito organizzato dalle associazioni “Libertà e Giustizia” e “I Popolari” sul tema “Meno democrazia? e ha rivelato le sue perplessità sulla situazione politica e sul dibattito in Parlamento. “Sono 40 anni”, ha detto, “che si parla di riforme costituzionali, chiediamoci in che direzione vanno quelle che sono in cantiere: in quella di aprire spazi alla politica e alla democrazia o piuttosto di valorizzare il momento esecutivo, che non è compatibile con l’ampliamento della democrazia?”.
Secondo Zagrebelsky, che nel suo intervento ha ammonito la politica a lavorare in un “clima costituente“, bisognerebbe porsi la domanda se siano più importanti “le regole costituzionali o la qualità di chi le fa funzionare perché una cattiva Costituzione nella mani di una buona politica produce comunque risultati accettabili, mentre la migliore Costituzione nelle mani della cattiva politica produce risultati cattivi”. Riferendosi, infine, all’eventualità del referendum confermativo, il giurista ha invitato a fare attenzione perché, ha detto, “qui ci si gioca moltissimo. Se è richiesto dal Governo sarà un plebiscito e sarà un voto di schiacciamento da una parte o dall’altra. Si sta giocando una partita che può essere terribile”.
Nei mesi scorsi Matteo Renzi aveva liquidato i commenti dei costituzionalisti dicendo di “aver giurato sulla Costituzione e non sui professoroni“. E lo stesso Zagrebelsky, in occasione della festa del Fatto Quotidiano “Partecipa” ha rivelato di aver ricevuto una telefonata del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi che cercava di scusarsi per l’equivoco: “Abbiamo a che fare con la stampa, per cui le parole che usiamo più sono pesanti, più passano”, gli ha detto al telefono per giustificare le espressioni usate dal presidente del Consiglio. Ma secondo il costituzionalista sarebbe stato solo un modo per dimostrare che il governo stava cercando di sentire più esperti possibili sulle riforme.
*
Nespresso fa causa per uno spot di una concorrente con il sosia di Clooney
Chiesti 50mila dollari di risarcimento e rimozione spot
di Redazione ANSA ROMA 22 gennaio 2016
Clooney e Nespresso, binomio inconfondibile. Non per la compagnia di caffè israeliana, la Israeli Espresso Club, che ha cercato invece di confondere le idee a suo vantaggio ricorrendo ad un sosia della star hollywodiana per un suo spot. Mossa che che gli è subito costata una citazione in giudizio da parte della Nespresso che rivendica l’unicità del suo volto-immagine.
Durante la pubblicità della compagnia israeliana compare una scritta sullo schermo che avverte che l’attore, dai capelli argento e con in mano quello che sembra essere un sacchetto di Nespresso, "non è George Clooney. La Nespresso chiede 50,000 dollari di danni e la rimozione dell’annuncio pubblicitario.
Lo spot della società concorrente con il sosia di Clooney (da Youtube)
Zagrebelsky: riformatori questi? No, esecutori di progetti altrui
di Andrea Fabozzi (il manifesto, 14.10.2015)
Avevamo chiesto al professor Gustavo Zagrebelsky di sottoscrivere l’articolo che abbiamo pubblicato ieri con le firme di sei tra i più autorevoli costituzionalisti italiani, e che ripubblichiamo oggi.
Zagrebelsky ha preferito non firmare, ma ha aggiunto delle motivazioni che riteniamo valga la pena far conoscere - con il suo consenso - ai nostri lettori.
«Dopo averci pensato, ho deciso di non firmare, non perché non sia d’accordo sugli argomenti, proposti all’attenzione dei responsabili della riforma.
La ragione - sostiene l’ex presidente della Corte costituzionale - è un’altra: la totale irrilevanza dell’invito alla riflessione presso chi si appella semplicemente all’argomento della forza.
Una delle espressioni più ricorrenti, in questo tempo di autoritarismo non solo strisciante ma addirittura conclamato come virtù, è «abbiamo i voti», «abbiamo i numeri». Una concezione della democrazia da scuola elementare! Dunque, che cosa serve discutere? Un bel nulla.
Oltretutto, ho l’impressione che i nostri riformatori, tronfi dei loro numeri raccogliticci in un consesso che ha raggiunto il grado più basso di credibilità, non agiscano in libertà, ma come esecutori di progetti che li sovrastano, di cui hanno accettato di farsi passivi e arroganti esecutori in nome di interessi o poco chiari, o indicibili ch’essi riassumono nel ridicolo nome di «governabilità»: parola di cui non conoscono nemmeno il significato.
Non dissento nel merito, ma sono certo della totale inefficacia dell’invito al confronto. Mi astengo, dunque, dal firmare - conclude Zagrebelsky -, i tempi dell’impegno verranno quando saranno chiamati i cittadini a esprimersi, saranno duri e imminenti. Allora sarà un’altra storia».
Lo spirito incostituente
di Norma Rangeri (il manifesto, 14.10.2015)
Il vicepresidente della Lombardia, arrestato ieri per corruzione, è stato davvero sfortunato. La magistratura è intervenuta, purtroppo per lui, prima che il nuovo Senato dei consiglieri regionali diventasse realtà. Perché tra i tanti obbrobri che il governo del “fare” vorrebbe regalarci con il Senato delle regioni c’è appunto quello di un ramo del Parlamento formato dalla classe politica più squalificata del nostro paese. Ma protetta, domani, dall’immunità.
La nuova Costituzione di Renzi e Verdini ha tagliato un importante traguardo. Con la benedizione di Napolitano. L’ex Presidente della Repubblica, «il vero padre di questa riforma», secondo la ministra Boschi, è intervenuto per benedire la sua creatura. In fondo riconoscendovi quella “grande riforma” disegnata da Craxi ai vecchi tempi della Prima Repubblica. Con il voto finale alla prima lettura del progetto controriformatore si mette agli atti lo “spirito incostituente” che ha segnato questi lunghi mesi di forsennato attacco alla nostra Carta costituzionale. A partire dall’anomalia, sconsiderata, di essere una revisione della legge fondamentale originata non da un’iniziativa parlamentare, ma da una proposta di governo. Anzi, e più precisamente, dalla volontà di un presidente del consiglio e “capo” di un partito i cui elettori non sono mai stati chiamati a pronunciarsi su questo progetto di manomissione della Costituzione.
Al consenso parlamentare e elettorale sono stati preferiti i patti del Nazareno e i successivi accordi con quei galantuomini di Verdini&Co. Con le continue, ripetute forzature dei regolamenti parlamentari dettati e piegati ai tempi imposti dall’esecutivo. Uno stravolgimento delle regole della discussione perfettamente coerente con i contenuti della riforma.
Principalmente finalizzata alla creazione di un premierato senza contrappesi, come in nessun paese europeo. Disegnato sulla silhouette di quello che nel suo intervento in dissenso dal gruppo del Pd, Walter Tocci ha definito «il demagogo che potrà fare quello che vuole».
Del resto, di essere il dominus anche del futuro potere legislativo questo presidente del consiglio se ne fa vanto («le riforme si fanno, l’Italia cambia, avanti tutta più decisi che mai»). Con motivazioni di bassa lega (meno senatori, meno costi della politica) e disprezzo per le minoranze, a cominciare da quelle del suo partito. Bersani e i fedeli della “ditta” hanno masochisticamente scelto di farsi umiliare fino a votare la trasformazione del Parlamento in cassa di risonanza dei piccoli Cesare. Di oggi e di domani.
Il documento spiega perché e come, questa riforma, nell’abbinamento con la nuova legge elettorale, costituisce una torsione autoritaria delle istituzioni, in definitiva della democrazia parlamentare: «Uno stravolgimento dell’impianto della Costituzione del ’48, sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto». Tuttavia ancora non è stata scritta la parola definitiva.
Se si verificheranno le condizioni per poterci esprimere in un referendum, saremo chiamati, come già nel 2006, a una grande battaglia che potrà farci svegliare dall’incubo cancellando questo frutto avvelenato del renzismo.
Va comunque preso atto che il presidente del consiglio sta segnando punti a suo favore: grazie alla forza dei numeri e agli squallidi trasformismi, vince. Però non convince. Per lui contano le bandierine della conquista, come quelle che accompagnarono la marcia trionfale di Berlusconi. Ma Renzi sta facendo anche terra bruciata nel suo partito, perché ne sta distruggendo quel poco che resta della sua storia.
Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni"
di GOFFREDO DE MARCHIS (la Repubblica, 14 ottobre 2015)
ROMA. "Ce l’avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l’uscita dall’aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l’anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall’ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n’è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell’esodo", scherza Napolitano.
È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell’intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata.
Sempre sul filo dell’ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici".
Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l’ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell’ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia".
Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l’ho nominata sapevo bene che aveva un’estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l’ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.
Italicum e Senato
Zagrebelsky: “Riforme, democrazia in pericolo”
di Andrea Giambartolomei (il Fatto, 22.02.2015)
Torino Il potere accentrato nelle mani di una persona, con un parlamento indebolito e i cittadini senza rappresentanza. Sette giorni dopo la nottata di discussione sul Ddl sulle riforme costituzionali, Libertà e giustizia e Anpi lanciano un nuovo allarme per salvare i diritti degli elettori. Lo hanno fatto ieri pomeriggio a Torino in un incontro intitolato, “Legge elettorale e riforma del Senato: era (ed è) una questione democratica”, con Sandra Bonsanti (presidente di Libertà e Giustizia), Antonio Caputo (difensore civico della Regione Piemonte), Carlo Smuraglia (a capo dell’Anpi) e Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale.
Le associazioni sono pronte a lanciare una campagna: “Noi vigileremo il secondo passaggio della riforma costituzionale”, ha affermato la Bonsanti, mentre per il professore torinese “c’è bisogno che la società civile si riprenda il suo ruolo, società civile che non è quella dei salotti romani frequentati dai politici, ma quella degli imprenditori disposti a dare denaro e tempo per imprese sociali, individui, associazioni e gruppi politici”.
Tutti i partecipanti sono rimasti impressionati dall’immagine dell’aula di Montecitorio quasi vuota durante la discussione della riforma: “Le responsabilità stanno certamente in quelli che hanno deciso di uscire dall’aula - sostiene il costituzionalista -, ma soprattutto la responsabilità è della maggioranza che deve garantire un contesto deliberativo in cui ci sia posto per tutti”.
C’È UN ALTRO ASPETTO paradossale che ha marcato il professore: “Si sta discutendo la riforma della Carta in un parlamento che la Corte costituzionale ha giudicato incostituzionale”. Queste modifiche vengono fatte senza valutare le voci critiche: “Le considerazioni che vengono da parti come le nostre vengono completamente ignorate o demonizzate”. Nessuno disturbi il manovratore. “La democrazia deliberativa è fatta di discussioni ed è un processo in cui si mettono insieme idee, contributi e proposte. È un’idea diversa da quella per cui chi vince deve agire indisturbato”.
Concorda con questa lettura di Zagrebelsky il difensore civico Caputo. Secondo lui cambiare il Senato, facendolo eleggere dai consiglieri regionali e dandogli meno poteri, “aumenta la sfiducia i cittadini nei confronti delle istituzioni”. Sfidare il governo sul tema delle riforme costituzionali però non sarà facile. Il presidente dell’Anpi Smuraglia lo sa: “Abbiamo pensato di entrare sul tema a gamba tesa. Sarà difficile perché per molti cittadini sono cose lontane”.
EPPURE LE GRAVITÀ segnalate da Smuraglia sono tante, non solo su Italicum e riforma del Senato. “Sono arrivati alla Camera e al Senato due riforme su cui il governo ha messo la fiducia, sebbene si vanti di avere un’ampia maggioranza. In questo modo cadono gli emendamenti e la discussione”. In un anno di vita dell’esecutivo si è arrivati a 34 voti di fiducia. “C’è un ricatto”, afferma, e questo ricatto si ripropone ogni volta che viene paventato lo spauracchio dello scioglimento anticipato del parlamento.
Un altro elemento sottolineato da Smuraglia riguarda il Jobs Act: “Questa è una legge delega quasi in bianco, fatta in modo che - in mancanza di criteri precisi - il governo possa fare quello che vuole”. Il governo non ha neanche preso in considerazione due pareri conformi di Camera e Senato contro i licenziamenti collettivi, pareri ai quali dovrebbe attenersi: “Il governo non ne ha tenuto conto. Anche questo è un modo per far diventare il parlamento inutile”. Così come diventano inutili i pareri di partiti svuotati e sindacati disprezzati dall’esecutivo. Secondo la Bonsanti c’è un percorso tracciato: “Quanto abbiamo detto qui porta a pensare che ci sia un movimento che porta verso una persona sola - riepiloga prima di fare una domanda a Zagrebelsky -. È possibile che il governo stia preparando una riforma delle istituzionali che possano cadere nelle mani di una persona con obiettivi meno democratici?”. “Il rischio c’è”, risponde lui.
Riforme, Zagrebelsky: “Siamo quasi al punto zero della democrazia”
Il costituzionalista è intervenuto nel dibattito "Meno democrazia?" organizzato dalle associazioni "Libertà e giustizia" e "I popolari" a Torino: "Bisogna interrogarsi sulle cause e su chi ha determinato le condizioni in cui ciò si è verificato"
di Redazione F. Q. | 14 febbraio 2015
“Un degrado, quasi il punto zero della democrazia”. Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha commentato così la discussione delle riforme in Parlamento e le polemiche sulla decisione del presidente del Consiglio di andare avanti nonostante le polemiche dell’opposizione. “Bisogna interrogarsi”, ha detto il presidente emerito della Corte Costituzionale, “sulle cause e su chi ha determinato le condizioni in cui ciò si è verificato”. Dubbi simili a quelli espressi dal costituzionalista Alessandro Pace che, in un’intervista al Fatto Quotidiano, ha detto che “le Camere si trovano sotto ricatto”.
Zagrebelsky è intervenuto nel corso del dibattito organizzato dalle associazioni “Libertà e Giustizia” e “I Popolari” sul tema “Meno democrazia? e ha rivelato le sue perplessità sulla situazione politica e sul dibattito in Parlamento. “Sono 40 anni”, ha detto, “che si parla di riforme costituzionali, chiediamoci in che direzione vanno quelle che sono in cantiere: in quella di aprire spazi alla politica e alla democrazia o piuttosto di valorizzare il momento esecutivo, che non è compatibile con l’ampliamento della democrazia?”. Pubblicità
Secondo Zagrebelsky, che nel suo intervento ha ammonito la politica a lavorare in un “clima costituente“, bisognerebbe porsi la domanda se siano più importanti “le regole costituzionali o la qualità di chi le fa funzionare perché una cattiva Costituzione nella mani di una buona politica produce comunque risultati accettabili, mentre la migliore Costituzione nelle mani della cattiva politica produce risultati cattivi”. Riferendosi, infine, all’eventualità del referendum confermativo, il giurista ha invitato a fare attenzione perché, ha detto, “qui ci si gioca moltissimo. Se è richiesto dal Governo sarà un plebiscito e sarà un voto di schiacciamento da una parte o dall’altra. Si sta giocando una partita che può essere terribile”.
Nei mesi scorsi Matteo Renzi aveva liquidato i commenti dei costituzionalisti dicendo di “aver giurato sulla Costituzione e non sui professoroni“. E lo stesso Zagrebelsky, in occasione della festa del Fatto Quotidiano “Partecipa” ha rivelato di aver ricevuto una telefonata del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi che cercava di scusarsi per l’equivoco: “Abbiamo a che fare con la stampa, per cui le parole che usiamo più sono pesanti, più passano”, gli ha detto al telefono per giustificare le espressioni usate dal presidente del Consiglio. Ma secondo il costituzionalista sarebbe stato solo un modo per dimostrare che il governo stava cercando di sentire più esperti possibili sulle riforme.
Da Abu Ghraib ai reporter sgozzati. Cosa resta di un principio che infonde leggi e costituzioni
Il valore della dignità quella fragile barriera contro la barbarie
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 12.09.2014)
LO spirito del nostro tempo è orientato alla dignità, come un tempo lo fu alla libertà, all’uguaglianza davanti alla legge, alla giustizia sociale. Tutti s’ispirano, o dicono d’ispirarsi, alla dignità degli esseri umani, soprattutto dopo lo scempio che ne hanno fatto i regimi totalitari del secolo scorso. Tutto bene, allora? Finalmente un concetto e una concezione dell’essere umano - un’antropologia - in cui si esprime un valore sul quale tutti non possiamo che concordare? Un pilastro sul quale un mondo nuovo può essere costruito? Cerchiamo di darci una risposta, lasciando da parte le buone intenzioni, le illusioni.
La legge fondamentale tedesca inizia proclamando la dignità umana «intoccabile». La nostra Costituzione la nomina a diversi propositi. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del dicembre 1948 si apre con la “considerazione” che «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».
Sulla scia di questa convinzione, non c’è Costituzione successiva che non renda omaggio anch’essa alla dignità umana. E non c’è trattazione di temi etici e giuridici in cui la dignità non assuma il significato onnicomprensivo della “dimensione dell’umano”, della sua ricchezza, della sua libertà morale e fisica, dell’inviolabilità del corpo e della mente, dell’autodeterminazione, dell’uguaglianza, della socialità, della “relazionalità”, fino al vertice kantiano dell’essere umano sempre come fine e mai (soltanto) come mezzo. L’appello alla dignità sembra, dunque, l’argomento finale, decisivo, in tutte le questioni controverse in cui è in questione l’immagine che l’essere umano ha di se stesso, cioè la sua autocomprensione.
Ma il fatto che d’un concetto si possa fare un uso tanto largo e, soprattutto, incontestato è un segno di forza o di debolezza del concetto stesso? Purtroppo, di debolezza: tanto più il concetto è generale e astratto, tanto meno è determinato in particolare e in concreto. A seconda dei punti di vista culturali, ideologici, morali gli si possono assegnare contenuti diversi. Questo vale per la libertà: libertà di e da che cosa? Per l’uguaglianza: rispetto a che e in che cosa? Per la giustizia: con riguardo ai bisogni o ai meriti? Per la dignità è lo stesso: degno di che cosa? Di questo genere di principi, tanto più se ne celebra la generale validità, tanto più li si svuota. I criteri assoluti (di libertà, di uguaglianza, di giustizia) sono tutti privi di contenuto. Si prenda la libertà (ma lo stesso esercizio si potrebbe fare per la giustizia o l’uguaglianza).
Già Montesquieu, realista e nemico dei voli pindarici, aveva osservato ( Lo spirito delle leggi , libro XI, cap. II): «Non c’è parola che abbia ricevuto tanti significati e che abbia colpito l’immaginazione in modi tanto diversi, quanto la libertà. Gli uni l’hanno presa come facilità di liberarsi di coloro ai quali avessero attribuito poteri tirannici; altri, come facoltà di eleggere coloro ai quali dovessero obbedire; altri, come diritto di portare le armi e di esercitare la violenza; alcuni, come privilegio di non essere governati che da uomini della propria nazione o dalle proprie leggi; una certa popolazione come l’abitudine di portare lunghe barbe» (allusione ironica ai Moscoviti, che non perdonarono la decisione di Pietro il Grande, presa nel 1698, di farli rasare).
Se avessimo voglia di leggere il Mein Kampf di Hitler, troveremmo che per lui la libertà, anzi la “sete di libertà” aveva a che fare con l’intolleranza fanatica, il militarismo, la purezza della razza, il giovanilismo, la liberazione dal peso della cultura, la fedeltà, l’abnegazione, la fede apodittica, il disprezzo del pacifismo e dello spirito ugualitario, l’espansionismo, la sopraffazione del più debole da parte del più forte. In una parola: l’uomo libero come “super- uomo”, “belva bionda”, “signore della terra”. Che cosa ha a che vedere questo modo d’intendere la libertà con, ad esempio, il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti », o con «la verità vi farà liberi » (Gv 8,32)? Nulla.
Non serve a superare le ambiguità e i dilemmi e a contenere i dissidi insistere quindi sull’elevatezza della dignità come principio della convivenza, innalzarlo a “trascendentale umano”, a “concezione antropologica”. Sottolineo questo punto, perché troppo facilmente ci facciamo accecare dalle belle parole, le quali spesso, tanto più sono belle, tanto più facilmente contengono concetti molto “disponibili”. Quello che ci deve mettere in allarme è la reversibilità dei valori, nel loro uso pratico.
A questo proposito, lo sguardo sulle pratiche del nostro mondo nuovo ci lascia interdetti, anzi inorriditi. Così accade davanti alle sconvolgenti immagini dei due reporter di guerra, James Foley e Steven Sotloff legati, inginocchiati, tenuti diritti dal boia ricoperto dalla tunica nera da cui appaiono solo occhi senza volto e mano armata del coltello, pronta allo sgozzamento. Sul terreno propriamente militare, l’assassinio di questi due uomini non ha evidentemente alcun significato. Ne ha uno grande e tremendo sul terreno psicologico. La guerra psicologica, un tempo, si faceva con altri mezzi: volantini, trasmissioni radio, disfattismo... Oggi si fa col coltello che taglia le gole messo in rete.
La guerra psicologica si avvale della violazione della dignità come arma, e tanto più cresce nelle nostre coscienze il valore dell’essere umano, tanto più la crudeltà si presenta nuda, priva di giustificazioni rispetto a presunte colpe della vittima e tanto più la vittima è scelta a caso, ignara e inerme, quanto più l’orrore è grande ed efficace. Ora siamo ai reporter, di cui si ha un bel dire ch’erano lì per ragioni non di collaborazione col nemico e che erano, in questo senso, “innocenti”. L’innocenza non interessa affatto ai carnefici. La vittima è un anonimo esemplare; non è una persona cui si accolli qualche sua colpa. Lo sgozzamento non è l’esecuzione d’una sentenza di condanna. Anzi, si potrebbe aggiungere che tanto più grande è l’innocenza, quanto maggiore è l’efficacia. Arriveremo a donne e, chissà, a bambini mostrati col coltello al collo?
Queste vittime sono tutte «sotto un dominio pieno e incontrollato », per usare le pa- role di Aldo Moro dal carcere delle Br, il 29 marzo 1978. Ma Moro apparteneva al fronte nemico. Qui ciò che conta è l’orrore come tale, l’orrore che, come lo sguardo di Medusa, paralizza i destinatari del messaggio. L’assassino si presenta come super-eroe, capace dell’ultra-umano, cioè di farsi beffe dell’ultima frontiera dell’umano, di un suo anche minimo contenuto di valore. Nell’umiliazione della vittima resa impotente, l’aguzzino trova l’esaltazione del suo ego: tra le montagne dell’Iraq, come nel carcere di Abu Ghraib e in tante altre situazioni d’illimitata sopraffazione. Solo che qui c’è l’esibizione dell’inumanità avente, come fine, la ripugnanza, lo sconvolgimento, la paralisi morale. Adriana Cavarero, qualche anno fa, ha analizzato con profondità questa mutazione genetica del terrorismo in “orrorismo” (Orrorismo, ovvero della violenza, Feltrinelli, 2007). Le considerazioni di questo libro sono, per una parte, constatazioni, per un’altra, spaventose profezie.
Nelle immagini che abbiamo davanti agli occhi è espresso quello che potremmo chiamare il paradosso della dignità: più alto è il valore violato, più alta è la capacità aggressiva della violazione. Paradossalmente, se la vita non valesse nulla, non ci sarebbe ragione di violarla. Non ci si scandalizzerebbe delle immagini che abbiamo negli occhi se la dignità non rappresentasse per noi uno dei sommi va- lori ai quali non siamo disposti a rinunciare. Forse, gli assassini non penserebbero che la scena che quelle immagini trasmettono possa avere un qualche significato nella guerra psicologica ch’essi intraprendono. La dignità dà forza al suo opposto. Il delitto vi trova il suo alimento. E il nutrimento è dato proprio dal valore che attribuiamo alla vittima.
Siamo di fronte alla fragilità del bene, alla fragilità della dignità come bene sommo dell’essere umano. Un libro famoso che tratta della virtù porta, per l’appunto, come titolo La fragilità del bene (il Mulino, 1996). L’autrice, Martha Nussbaum, discute di fortuna, di vulnerabilità, d’incertezza dell’esistenza. La virtù, come il fragile germoglio della vite, è esposta a ogni genere d’intemperie e d’imprevisti. Ma, qui siamo di fronte a qualcosa in più, alla ricattabilità: il bene è ricattabile proprio perché è bene e c’è chi gli si sente obbligato. Se non te ne importasse nulla, potresti passare davanti all’ignominia senza muovere un ciglio. I virtuosi sono più fragili dei cattivi, perché il bene è ricattabile dai suoi nemici, mentre il male non lo è.
L’orrore, se non cadiamo nell’indifferenza dell’assuefazione, induce a ripagare con la stessa moneta, cioè con altro orrore. Ciò dimostra quale fragile barriera sia il valore della dignità che ci protegge dalla barbarie. C’è una via che non sia né l’indiffer enza, né la rit orsio ne? C’è la possib ilità che non ci si abbandoni, a propria volta, alla violenza indiscriminata e dimostrativa che accomuna nella stessa sorte innocenti e colpevoli, cioè alla guerra che travolge gli uni con gli altri? Sì, c’è, ed è la responsabilità che si fa valere nelle sedi della giustizia. Dignità, responsabilità e giustizia si tendono la mano.
La democrazia autoritaria
di Marco Travaglio (il Fatto, 06.07.2014)
Ecco cosa accadrà se le “riforme” di Renzi, Berlusconi & C. entreranno in vigore: un regime da “uomo solo al comando” senza opposizioni né controlli né garanzie.
1. CAMERA. Con l’Italicum e le sue liste bloccate, sarà ancora composta da 630 deputati nominati dai segretari dei partiti più grandi. Quelli medio-piccoli saranno esclusi da soglie di accesso altissime. Il primo classificato (anche col 20%) avrà il 55% e potrà governare da solo, confiscando il potere legislativo, che di fatto coinciderà con l’esecutivo a colpi di decreti e fiducie.
2. SENATO. Con la riforma costituzionale, sarà formato da 100 senatori non eletti: 95 scelti dai consigli regionali (74 tra i consiglieri e 21 tra i sindaci) e 5 dal Quirinale. Sarà dominato dal primo partito e comunque non potrà più controllare il governo: niente fiducia né voto sulle leggi (solo pareri non vincolanti, salvo per le norme costituzionali).
3. OPPOSIZIONE. I partiti di opposizione saranno decimati dall’Italicum. I dissenzienti dei partiti governativi potranno essere espulsi e sostituiti in commissione (vedi Mauro e Mineo). La “ghigliottina” entra in Costituzione: corsia preferenziale per le leggi del governo da approvare in 2 mesi, con divieto di ostruzionismo e emendamenti strozzati.
4. CAPO DELLO STATO. Se lo sceglierà il capo del governo e del primo partito dopo il terzo scrutinio, quando la maggioranza dei 2/3 scende al 51%. Col 55% dei deputati, gli basteranno 33 senatori. Dopo il precedente presidenzialista di Napolitano, il Colle potrà arrogarsi enormi poteri d’interferenza in tutti i campi, giustizia in primis.
5. CORTE COSTITUZIONALE. Il governo controllerà 10 dei 15 “giudici delle leggi”: i 5 nominati dal Parlamento e i 5 scelti dal capo dello Stato (gli altri 5 li designano le supreme magistrature). Difficile che la Consulta possa ancora bocciare leggi incostituzionali o dar torto al potere politico nei conflitti con gli altri poteri dello Stato.
6. CSM E MAGISTRATI. Anticipando la pensione delle toghe da 75 a 70 anni, il governo decapita gli uffici giudiziari. I nuovi capi li nominerà il nuovo Csm, con 1/3 di laici vicini al governo e un presidente e un vice fedelissimi al governo, previo ok del Guardasigilli. Progetto di dirottare i giudizi disciplinari dal Csm a un’Alta Corte per 2/3 politica, cioè governativa.
7. PROCURATORI E PM. Dopo la lettera di Napolitano e il voto del Csm sul caso Bruti-Robledo, il procuratore capo diventa padre-padrone dei pm, privati dell’autonomia e dell’indipendenza “interne”. Per assoggettare Procure e Tribunali, basterà controllare un pugno di capi, senza più il bilanciamento del “potere diffuso” dei singoli pm.
8. IMMUNITÀ. Superata dai tempi e screditata dagli abusi, l’immunità parlamentare da arresti e intercettazioni rimane financo per i senatori non più eletti. Il voto a maggioranza semplice consente al governo di mettere in salvo i suoi uomini alla Camera e di nominare senatori “scudati” i sindaci e i consiglieri regionali nei guai con la giustizia.
9. INFORMAZIONE. Senza abolire la Gasparri né toccare i conflitti d’interessi, la tv rimane proprietà dei partiti: il governo domina la Rai (rapinata di 150 milioni e indebolita dall’evasione del canone) e B. controlla Mediaset. I giornali restano in mano a editori impuri: aziende perlopiù ricattabili dal governo e bisognose di aiuti pubblici per stati di crisi e prepensionamenti.
10. CITTADINI. Espropriati del diritto di scegliere i deputati e di eleggere i senatori, oltreché della sovranità nazionale (delegata a misteriose autorità europee), non avranno altre armi che i referendum abrogativi (sempre più spesso bocciati dalla Consulta) e le leggi d’iniziativa popolare: ma per queste la riforma costituzionale alza la soglia da 50 a 250 mila firme.
[...] A chi appartiene la Laguna di Venezia, all’ex sindaco Orsoni, all’ex ministro Galan e ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il frutto di un’opera secolare di conservazione, realizzata con ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val di Susa - già collegata alla Francia con un ferrovia internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori - che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km?
A chi appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a Berlusconi, al ministro Alfano, che l ‘ha messo sotto assedio con una operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni che da secoli l’hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza nazionale, che l’hanno curata e mantenuta per noi e per le generazioni che verranno? E dov’è il superiore fine nazionale che dovrebbe far tacere i diritti locali?
E il sottosuolo di Firenze, dov’è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una stazione sotterranea destinata alla TAV? Appartiene all’ex sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio dell’umanità.
Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi lavori?
* Piero Bevilacqua, L’etica civile delle grandi opere (Eddyburg, 19.06.2014)
Maglia nera nei 27
Europa, undici bocciature in un giorno
L’Italia campione di indisciplina
Dalla scuola (soprattutto) ai medicinali, una lunga serie di infrazioni: siamo i peggiori
E intanto si aprono altre sei procedure, come quella della gestione dei rifiuti radioattivi
di Marco Zatterin (La Stampa, 21.11.2013)
Un record di cui non si può andare fieri. L’Italia, in appena 24 ore, è stata destinataria di ben 11 infrazioni da parte della Commissione Ue: le procedure riguardano scuola, sanità e ambiente. Tra i rilievi di Bruxelles c’è anche un ricorso alla Corte di Giustizia per il mancato recupero di aiuti di Stato illegali concessi negli Anni 90.
Ne abbiamo mancate 11, questa volta, noi della Repubblica Italiana. Per esempio, non trattiamo i precari della scuola pubblica come gli assunti a tempo pieno, ma siamo anche in ritardo nell’adeguarci alle norme contro la tratta degli esseri umani. I nostri medicinali sono privi della tutela dal rischio falsificazione e i passeggeri che viaggiano in treno non possono contare su un’autorità che tuteli i loro diritti, cosa che invece l’Italia ha promesso a Bruxelles. Per questo la Commissione ci richiama, ci minaccia e in un caso ci manda alla Corte di Giustizia. È successo 11 volte, ieri, in un giorno solo. Roba da primato anche nella storia infinita di un Paese da sempre maglia nera nel recepire il diritto Ue.
I numeri sono contro di noi. L’ultimo rapporto sull’applicazione del diritto comunitarie pone l’Italia in testa alla classifica delle infrazioni, erano 99 alla fine del 2012, comprese 17 procedure da ritardato recepimento. Per fare il confronto, la Francia ha 63 contenziosi aperti, la Germania 61, l’Olanda 41. La differenza è palese, come pure si evince dalle denunce dei cittadini, altra graduatoria su cui il sistema italico svetta: ne abbiamo incassate 438; la Spagna, seconda, è quota 309.
Sono statistiche pessime, eppure stiamo facendo meglio di un tempo. In febbraio il quadro di valutazione del mercato interno segnalava come «degna di particolare nota» la prestazione dell’Italia, capace di ridurre il deficit di recepimento delle normative europee dal 2,4 allo 0,8% in sei mesi. Un passo avanti che impone ulteriori sforzi. «È una priorità accelerare, perché non è sopportabile avere record negativi di infrazioni», ha ribadito a più riprese il premier Enrico Letta. L’impegno è di arrivare al semestre di presidenza italiano di Ue, nel giugno prossimo, con un recupero, netto e consolante.
Sinora ha avuto la meglio la lentezza delle Camere e una qualche disattenzione ad ogni livello per le questioni comunitarie. Il meccanismo della legge omnibus comunitaria ha dimostrato parecchie carenze e solo di recente si è cominciato ad accelerare. Ciò non toglie che il mostro mostri la sua faccia peggiore ogni mese, quando la Commissione apre il dossier infrazioni. Ora ci ritroviamo gli undici «pareri motivati», seconda fase della procedura europea, che guarda caso non vengono da soli. Ieri ne sono state aperte altre sei, con lettere di messa in mora, in teoria confidenziali. Fra queste, secondo quanto risulta a La Stampa, ce n’è anche una per l’inadeguata gestione delle scorie radioattive sul territorio nazionale. Il fantasma di Caorso, per intenderci.
Il resto è una bestiario normativo. Rischia di costarci salato il rinvio alla Corte di giustizia Ue per la mancata esecuzione di una precedente sentenza con cui la Corte confermava che certi sgravi degli oneri sociali concessi alle imprese dei territori di Venezia e Chioggia costituivano un aiuto di Stato illegale e, pertanto, dovevano essere recuperati presso i beneficiari.
È una questione che risale agli Anni Novanta, soldi sociali erogati a chi non ne aveva diritto. Bruxelles propone una mora giornaliera di 24.578 euro per ogni giorno trascorso dalla sentenza della Corte e la piena conformità da parte dello Stato o la seconda sentenza della Corte. Nonché il pagamento d’una penalità decrescente di 187.264 euro per ogni giorno trascorso dalla sentenza fino all’attuazione.
C’è poi che entro gennaio dovevamo recepire le norme per proteggere i farmaci. Che entro marzo erano da attuare quelle in materia di stoccaggio del mercurio metallico considerato rifiuto. Che abbiamo due mesi per rendere uguale part-time e assunti a tempo indeterminato nella Pubblica istruzione. Che è aperta anche la norma sulla prevenzione delle ferite da taglio o da punta nel settore ospedaliero e sanitario.
E via dicendo, così non è forse un caso se stamane il Consiglio dei ministri deve esaminare otto norme di attuazione comunitaria. La tratta degli umani è compresa. Sarebbe una di meno. Un passo avanti, importante non solo in nome dell’Europa.
Quanto costa non essere credibili
di Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 21.11.2013)
Ciò che colpisce, accanto al numero degli inadempimenti dell’Italia agli obblighi assunti nei confronti dell’Unione europea, è la grande varietà dei campi in cui essi si verificano. Ciò significa che il problema che affligge il nostro Paese è generalizzato e non riguarda questo o quello specifico settore in sofferenza, questo o quel ministero competente.
È quindi lecito domandarsi se non vi sia un problema di fondo nel rapporto tra l’Italia e l’Unione, una certa noncuranza, una certa svogliatezza come atteggiamento generale. Se la lettura delle informazioni fornite ieri dalla Commissione Europea giustificasse una simile conclusione, il commento dovrebbe essere molto amaro. E in effetti l’impressione che se ne ricava è sconsolante. Sconsolante ma non sorprendente.
Anche in altri campi risulta una certa facilità dell’Italia nel sottoscrivere impegni internazionali, salvo poi penare ad adempiere. C’è da chiedersi se, come fanno altri governi, quello italiano segua adeguatamente e preventivamente i lavori preparatori delle varie norme europee. E’ nota la difficoltà in cui, per la mancanza di preventive direttive politiche, si trovano spesso i funzionari italiani che si recano a Bruxelles o a Strasburgo per seguire la preparazione di ciò che diverrà una normativa dell’Unione o una convenzione. In quell’attività, a me è capitato con una certa frequenza, in anni andati, di sentire il collega rappresentante francese o britannico chiedere un rinvio, nel corso della discussione, per l’indiscutibile ragione di «non avere direttive sul punto» e di attendersi di riceverle. Ma una volta ottenuta la direttiva politica ed espresso il voto conseguente, il governo di quel funzionario avrebbe senza discussione o tentennamenti data esecuzione a quanto convenuto, poiché l’accordoerastatoraggiuntodopoapprofonditavalutazionedell’interesse nazionale e della pratica possibilità di adempiere gli obblighi assunti.
Vi sono poi esempi negativi dell’atteggiamento dell’Italia anche fuori dell’ambito dell’Unione Europea. Fin dal 1988 l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura impegnandosi a introdurre tale gravissimo reato nel suo sistema penale. Ma ancora, dopo venticinque anni, non l’ha fatto. Il Comitato europeo contro la tortura l’ha ancora richiamata nel suo rapporto di pochi giorni orsono. Intanto gli atti di tortura che anche in Italia si commettono (in occasione del G8 di Genova, ad esempio) vanno in prescrizione, perché manca una legge che punisca la tortura come tale, con le pene adeguate alla sua gravità. E l’Italia si espone a una ripetuta e grave stigmatizzazione da parte della comunità internazionale.
Naturalmente le carenze e violazioni rispetto agli obblighi internazionali e, più particolarmente, europei non riguardano solo l’Italia. Ma dal comunicato della Commissione Europea risulta che l’Italia, tra tutti i ventotto Stati membri dell’Unione, è quello contro il quale è stato aperto il maggior numero di procedure.
E poiché i numeri e le statistiche contano, ed anche le classifiche, essere anche questa volta in testa (o in coda) aggiunge a tutto il resto argomenti di tristezza. In Italia, se non l’opinione pubblica, di questi tempi, almeno il governo non lesina dichiarazioni di fede europea. Ma gli sforzi fatti per adeguarsi ai grandi e severi parametri economici imposti dall’Unione non bastano ad assicurare all’Italia la credibilità generale, come Paese. E la credibilità vale come diversi punti di Pil.
Politica e nichilismo. Quel mostro antico e nuovo che uccide la democrazia
di GUSTAVO ZAGREBELSKY (la Repubblica, 26 Settembre 2013)
-***Si inaugura oggi a Piacenza la sesta edizione del Festival del diritto in programma fino a domenica 29. L’intervento di Zagrebelsky sarà svolto oggi, 26 settembre, alle 18 alla Sala dei Teatini con Stefano Rodotà. Tra gli ospiti, Enzo Bianchi, Remo Bodei, Laura Boldrini, Ilvo Diamanti, Carlo Galli, Gad Lerner, Antonio Spadaro, Nadia Urbinati
Un’immagine che può, forse, costituire una sintesi efficace e può fornire qualche suggestione è quella dell’uroboro, immagine mitologica del serpente che mangia la sua coda e ciò ch’essa contiene, nutrendosi di se stesso (dal greco ouròboros,dove ourà staper “coda” e boròs sta per “mordace”, aggettivo riferito al serpente). Quest’immagine, ricca di significati analogici e metaforici, sfruttata dalla filosofia dell’eterno ritorno e dalle visioni esoteriche dell’uno immutabile e autosufficiente, una volta che sia spogliata di questo sovraccarico, può bene definire il rapporto tra denaro e politica, nei termini di uno scambio di ritorno e di reciproco sostentamento. Il potere sostiene e rivitalizza il (procacciamento di) denaro e il denaro sostiene e rivitalizza (l’acquisizione e il mantenimento de) il potere.
C’è poi un aspetto proprio del circolo denaro-potere, che deriva dalla circostanza che, nell’economia finanziarizzata, il denaro non è statico, ma aspira all’accrescimento di se stesso: denaro che si produce dal denaro. C’è qui un carattere non del denaro come tale, ma dell’antropologia, per così dire, dell’uomo di denari:«crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crevit»(Giovenale,Satire,V, II, 140-1, che aggiunge:«Et minus hanc optat qui non habet»). Il libero mercato dei capitali è l’humus astratto ideale di quest’aspirazione crescente. Per questo, mentre l’uroboro-serpente è sempre uguale a se stesso, l’uroboro- sistema politico finanziario tende di per sé ad assumere proporzioni sempre maggiori e incombenti sull’ambiente in cui si sviluppa, traendone risorse incrementali.
Per rimanere nell’immagine, la tendenza alla crescita significa innanzitutto ch’esso stringe sempre più strettamente le sue spire sulla società, impoverendola delle sue risorse per finalizzarli ai propri scopi di crescita; in secondo luogo, ch’esso modella la società e le sue divisioni alla stregua delle sue esigenze riproduttive, secondo una tripartizione o, meglio, secondo tre cerchi concentrici.
Coloro che stanno nel serpente sono i privilegiati del potere e del denaro, i quali, con funzioni diverse (politiche, ideologiche, tecnico-esecutive, avvocatesche), stanno e lucrano all’interno dello scambio denaro- potere. Attorno a loro, stanno coloro che operano per fornire loro l’humus materiale necessario, in ciò che resta della “economia reale”. In una sorta di servitù volontaria, costoro collaborano a mantenere in piedi un sistema di potere, subendo restrizioni nel loro tenore di vita, nelle condizioni di lavoro, nella disponibilità di servizi, nella sicurezza e nella previdenza sociale: sistema di potere che, pur sfruttandoli a un ritmo crescente, li vede quali vittime colluse perché, e fino a quando, li protegge dal rischio d’essere cacciati nel terzo cerchio.
Nel terzo cerchio stanno gli inutili, i reietti, i disoccupati, abbandonati a se stessi come zavorra che non ha diritto di appesantire le altre parti della società, di frenare o impedire la “crescita”: parola-chiave dell’uroboro.
Il ciclo denaro-potere-denaro è, o mira a diventare, totalmente e assurdamente autoreferenziale. Ciò significa ch’esso trova pienamente in se stesso la ragione del suo essere in azione. È mezzo e fine al tempo stesso. Se noi volessimo cercare una definizione potente e adeguata di nichilismo, diremmo proprio così: non semplicemente la mancanza di scopi, che di per sé significa semplicemente insensatezza,irrazionalità, gusto del bel gesto, cinismo, ma la coincidenza dei mezzi e dello scopo. Così avremmo una definizione dotata di terribile razionalità: la pianificata e consapevole direzione verso l’illimitata dilatazione di sé, nell’ignoranza e nell’indifferenza rispetto a ciò che sta attorno. O, meglio, nell’ignoranza e nell’indifferenza fino al momento in cui ciò che sta attorno, nel suo ribollire, incomincia a rappresentare un pericolo per la propria autoriproduzione.
Abbiamo udito, e forse qualcunosi ricorda, l’affermazioned’un uomo di governo “tecnico”: in autunno, ci aspettano pericolose agitazioni sociali; ergo occorre intervenire con qualche misura di equità. Un governo non nichilistico avrebbe detto: la società è inquieta, tensioni sociali la percorrono; dobbiamo comprenderne le ragioni e dalle ragioni procedere per promuovere la giustizia. Se lo scopo è evitare le perturbazioni, non si esce affatto dall’autoreferenzialità; anzi, la si conferma e se ne rafforzano le cinte. Nella stessa logica, le perturbazioni possono essere attenuate o sconfitte non solo con qualche misura d’equità adottata in stato d’emergenza, ma anche, se del caso, nella stessa logica emergenziale, con la repressione. In ciò si mostra la vena autoritaria d’ogni sistema di governo nichilistico, alias autoreferenziale.
Nel nichilismo e nell’autoreferenzialità, nel cerchio chiuso di potere e denaro, non c’è posto per la politica. C’è posto solo per il cieco dominio che rifiuta d’interrogarsi sul senso del suo esistere. È puro non-senso. C’è da stupirsi, allora, se quella che ancora insistiamo a chiamare politica,sempre meno attragga la maggioranza dei cittadini, coloro che sono fuori del cerchio? Come suonano vuote, retoriche e ipocrite le invocazioni di un nuovo patto tra cittadini e politici, senza che si mettano minimamente in discussione le ragioni di quel divorzio!La democrazia è forma della politica e la politica è la sostanza della democrazia. Ma, se viene a mancare la sostanza, la forma si riduce a vuoto involucro, a simulacro ingannatore. Nel mondo antico, la sostanza della politica era la pòlis, un concetto pieno di contenuto spirituale. Per tutti, la pòlis era la “giusta città”, di cui gli uomini liberi erano fieri, nella quale volevano vivere e per la quale erano pronti a grandi sacrifici. Pericle ne fa l’elogio celeberrimo, nell’epitaffio per i morti del primo anno della guerra peloponnesiaca (Tucidide,La guerra del Peloponneso,II, 35-46). Al di là dell’enfasi, dell’autocelebrazione, dell’interessata edulcorazione o, addirittura,dello stravolgimento della realtà, in quel discorso c’è un dato profondo, una verità perenne: se il potere non si dà un fine che lo trascende, se le sue leggi non s’identificano con la vita buona dei cittadini in generale, quale ch’essa sia, non c’è politica e tantomeno ci può essere democrazia. Lo ribadisce, in un passo altrettanto celebre di Le supplici di Euripide, Teseo, rivolgendosi all’araldo, figura rappresentativa di tutti i dispotismi vuoti di senso, che pretendono dai sudditi l’ubbidienza per l’ubbidienza, indipendentemente dalle buone ragioni che possano invocarsi per esigerla.
Nel tempo nostro, non c’è una pòlis, giusta città per natura e necessità, che a noi tocchi di riconoscere, difendere e accrescere. Tutto è stato distrutto, tutto è rimesso alle nostre mani e alle loro cure; tutto deve essere ricostruito. Quando la vita politica non è più un dato della natura, come l’aria, il suolo e il clima, ma deve essere costruita e rico-struita, il progetto della giusta città è quella cosa che decidiamo insieme che debba essere e che chiamiamo “costituzione”.Si dirà: allora siamo salvi! Una Costituzione, l’abbiamo e, per di più, tutti, o quasi tutti, le prestano ossequio. Si discute - è vero - dell’opportunità di modificare le forme della politica ma, almeno sulla sostanza, cioè sui principi e sui fini del nostro stare insieme - quelli indicati nella prima parte della Costituzione - tutti si dicono concordi. Nessuno (o quasi nessuno) propone modifiche.
Non c’è verità in queste parole. I principi e i fini della Costituzione possono essere lasciati stare, tali e quali sono scritti, per la semplice ragione che li si può ignorare, come se non esistessero. Che ne è del lavoro come diritto; dei doveri di solidarietà sociale; dell’uguale dignità di tutti i cittadini; dell’ambiente come patrimonio comune; della funzione sociale della proprietà; degli obblighi tributari che devono ispirarsi alla progressività; dei diritti sociali come l’istruzione, la salute, la protezione dei più deboli? Sono solo esempi. Le norme che parlano di queste cose tracciano le linee di una “buona città”, quale abbiamo voluto stabilendo una Costituzione. Ma possono essere lasciate tranquille, perché si può far finta che non esistano. Esse, per diventare realtà operante, richiedono politiche adeguate e le politiche si fanno secondo le forme. Le forme sono previste nella seconda parte della Costituzione, e, queste sì, molti vorrebbero cambiarle profondamente.
Chi sono questi “molti”? Se sono coloro che, al più o al meno, stanno nel cerchio più profondo della società, quello del connubio potere-denaro, possiamo pensare che agiscano per darsi gli strumenti per spezzarlo e dare spazio alla politica, oppure è più facile sospettare che l’operazione ch’essi hanno in corso serva a stringerlo ancora di più? Rafforzare il governo e deprimere il parlamento, confidare nella “decisione” e diffidare della “partecipazione”, a che cosa può servire, nel momento del disfacimento e del pericolo che, insieme alla democrazia, minaccia le immobili oligarchie del potere e del denaro, incapaci di uscire dalla loro crisi senza un colpo alla Costituzione?
«Vogliamo cambiare il Paese ripartendo dalla Costituzione»
Rodotà, Zagrebelsky, Landini, Don Ciotti e Carlassare contro la riforma dell’articolo 138
Il 12 ottobre la protesta in piazza a Roma
di Andrea Carugati (l’Unità, 09.09.2013)
Per il momento si sa che si troveranno in una grande piazza di Roma il 12 ottobre. E che l’obiettivo è riempirla di centinaia di migliaia di persone, un po’ come quella piazza San Giovanni dei girotondi nel 2002. Per stoppare il processo di revisione della Costituzione, innanzitutto. Per dire no alla guerra in Siria e soprattutto per rianimare una sinistra dispersa, che non si riconosce nel Pd e neppure nel M5S, ma che è pure stufa dei fallimenti come l’Arcobaleno e la Rivoluzione di Ingroia.
Alla guida di questo nuovo movimento, che non vuole farsi partito, ma diventare una «massa critica», sono in cinque: Stefano Rodotà, Maurizio Landini e la professoressa Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky e don Luigi Ciotti (gli ultimi due assenti ieri). «Nessuno di noi ha ambizioni politiche», mette subito in chiaro Carlassare, seguita a ruota dal leader Fiom che, quanto a candidature, punta solo a quella per succedere a se stesso alla guida dei metalmeccanici. La folla radunata al centro congressi Frentani di Roma, è quella dei grandi occasioni: sala strapiena, maxischermi, gente in piedi. I reduci non mancano, da Ingroia a Ferrero e Cesare Salvi, Casarini e Agnoletto. Vendola fa un salto, con Fratoianni e Migliore, ma più per un gesto di cortesia: Sel non è in prima fila in questa operazione. «Ma siamo attenti a quello che succede», dice il governatore pugliese. Corradino Mineo e Vincenzo Vita sono i due dem che tentano di fare da pontieri: ma basta che Vita citi il Pd che partono i fischi. E non è un caso che l’applauso più fragoroso arrivi quando Paolo Flores D’Arcais spiega che «come Blair è stato la vera vittoria della Thatcher, così se Renzi sarà l’unica alternativa Berlusconi avrà vinto ancora». Rodotà tra le righe benedice i grillini sul tetto di Montecitorio, e se la prende con chi «li accusa di eversione e intanto cerca di sabotare lo Stato di diritto per salvare Berlusconi». Il riferimento è al Pdl, ma nel mirino ci sono le larghe intese, il governo e anche il Quirinale quando, come dice Guido Viale, «c’è uno scambio tra la manomissione della Costituzione e il tentativo di garantire stabilità a questo governo».
Rodotà non usa giri di parole: «Questa maggioranza non ha legittimità per cambiare la Costituzione. E il governo stesso è figlio di un grave azzardo politico. Il fatto che si stia proponendo una sospensione temporanea del 138 non è un’attenuante. Di sospensione in sospensione non si sa dove si arriva. Chi poi invoca il cronoprogramma sulle riforme istituzionali mi fa sorridere. Qui non si sa neppure se il governo arriva a domani...». «No, non si può più girare la testa dall’altra parte», spiega il Professore, fotografato come una star, «ci vuole coraggio e dobbiamo prenderci qualche rischio: dobbiamo rimettere in moto la politica, che può voler dire anche preparare il terreno per un nuovo soggetto, senza ripetere gli errori della Sinistra Arcobaleno e di Ingroia, come la lottizzazione dei posti».
Per il momento, l’obiettivo minimo è «indurre a un ripensamento» il Pd che vuole cambiare la Costituzione. «La Carta va cambiata, non deve prevalere lo spirito conservatore», manda a dire il premier Letta da Cernobbio. E Rodotà replica tra gli appalusi: «Qui da noi non troverà conservatori, semmai nella sua maggioranza. E se l’obiettivo è cambiare il bicameralismo non c’è bisogno di stravolgere il 138». Insiste Rodotà: «Non saremo una zattera per naufraghi, ma una casa per una sinistra vincente su temi come i referendum sui beni comuni».
«Un soggetto politico? La nostra ambizione è molto maggiore», dice Landini. «È cambiare questo Paese ripartendo dalla Costituzione. Ci sono milioni di persone che non votano più e si sentono sole. Vogliamo costruire un movimento di pressione». Il leader Fiom va ben oltre lo stop alle modifiche alla Carta. «Non siamo più disponibili a firmare accordi che chiudano le fabbriche», dice dal palco tra gli applausi. «Metteremo in campo gesti di difesa totale delle fabbriche e dei posti di lavoro. Se necessario, anche con l’occupazione delle fabbriche». «Il lavoro deve avere una nuova rappresentanza politica», incalza il giuslavorista Piergiovanni Alleva.
Dal palco Carlassare parla di un «risveglio delle coscienze» e dice che «a qualcuno fa comodo guidare un gregge ignorante». Flores parla di un «golpe bianco strisciante» in corso e avverte: «Nelle prossime settimane ci giochiamo la chiusura del ventennio berlusconiano. E se la piazza sarà inferiore a quella del 2002 saremo sconfitti». Si parla anche dell’ipotesi di grazia per il Cavaliere, «un insulto alla democrazia», secondo Landini. Ingroia è in prima fila: «Sono con i partigiani della Costituzione».
Rodotà e Landini, il “partito” della Carta
Insieme a don Ciotti, Carlassare e Zagrebelsky danno appuntamento al 12 ottobre: Tutti in piazza a Roma
di Sandra Amurri (il Fatto, 09.09.2013)
Il primo intervento in una sala gremita è di Stefano Rodotà, promotore assieme a Maurizio Landini, don Luigi Ciotti, Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky dell’assemblea in difesa della Costituzione “La via maestra” svoltasi ieri a Roma, presieduta da Sandra Bonsanti. “Questa giornata non è una zattera per profughi, e non è la conclusione ma l’inizio di un lungo cammino che avrà come tappa la manifestazione del 12 ottobre a Roma. Le quasi 500 mila firme raccolte da Il Fatto raccontano un forte bisogno di partecipazione. Dobbiamo essere tutti meno autoreferenziali contro il vuoto di una politica appesa ad una dichiarazione che da un momento all’altro può far cadere il Governo”. Per Carla Carlassare l’emergenza è la crisi di valori: “Oggi assistiamo ad un disastro morale, deve tornare in primo piano l’art. 54 della Costituzione: coloro a cui sono affidate pubbliche funzioni debbono esercitarle con disciplina ed onore. Deve emergere la presenza di un’altra Italia che non sta in queste miserie indecenti. Costituzionalismo vuol dire porre limiti e regole al potere e noi siamo qui per imporgliele”. Raniero La Valle cita il digiuno contro la guerra in Siria promosso da Papa Francesco: “Quelle 1000 persone ieri a Piazza San Pietro, in silenzio nella società del rumore, difendevano la Costituzione oltraggiata da governanti infedeli come ricorda l’art. 11 scritto su un capitello: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli....”. Antonio Ingroia ricorda che il piano di Licio Gelli “viene attuato paradossalmente con una maggioranza di governo e il garante della manomissione della Costituzione è il Presidente della Repubblica”. Dice no all’autoreferenzialità, invoca la costruzione di un movimento dal basso, aperto. “Le tante presenze qui oggi, le quasi 500 mila firme de Il Fatto chiedono che venga restituito l’onore alla nostra Carta”. La partita cruciale si giocherà a breve ricorda Paolo Flores d’Arcais “l’establishment ha creato una situazione manichea: due prospettive, affossare la Costituzione come vuole il Governo o realizzarla. La manifestazione di piazza deve essere così grande da determinare un nuovo protagonismo per dare voce ad una politica di realizzazione della Carta”.
NICHI VENDOLA resta fuori dalla sala, rilascia interviste, stringe mani come quella che gli porge con un sorriso una signora arrivata da Taranto: “Ci ha traditi, abbandonati, l’Ilva ci ucciderà tutti”. Vendola spiazzato: “Ci penso sempre” La signora: “Sì ci pensi, mi raccomando” e se ne va. Ad Enrico Letta che da lontano definisce i difensori della Carta “i nuovi conservatori”, senza citarlo risponde Maurizio Landini: “Il 12 ottobre la manifestazione ci sarà a prescindere da ciò che accadrà nel frattempo”. E se c’è chi dice che per uscire dalla crisi bisogna cambiare la Costituzione “noi diciamo che per uscire dalla crisi bisogna applicare la Costituzione. Non vogliamo sostituirci alla politica ma riportare le persone alla politica affinchè i principi costituzionali tornino ad essere la guida del-l’agire. Crediamo che il Paese si possa cambiare rimettendo al centro la partecipazione. Questo è il momento della responsabilità soggettiva, ognuno deve fare ciò che dice”.
CRISI COSTITUZIONALE (1994-2013). GLI APPRENDISTI STREGONI E L’EFFETTO "ITALIA". LA CLASSE DIRIGENTE (INCLUSI I GRANDI INTELLETTUALI) CEDE (1994) IL "NOME" DEL PAESE AL PARTITO DI UN PRIVATO. Che male c’è?!
BEPPE GRILLO E IL SUO PROGRAMMA: "RIPRENDIAMOCI QUELLE PAROLE"! 2004-2013: otto, nove anni di lavoro culturale e un grande successo politico. Un suo intervento su "la Repubblica" (2004)
Non è grottesco che proprio chi per vent’anni ha corrotto la forza, l’intelligenza e la reputazione di questo Paese prenda ancora in giro gli italiani al grido di "Forza Italia"?
PER UN’ALTRA EUROPA E PER UN’ALTRA ITALIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni ...
L’ITALIA AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova"
Si può amare la nostra Costituzione?
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22 dicembre 2012)
IL DISCORSO di Roberto Benigni sulla Costituzione è stato per molti una rivelazione: rivelazione, innanzitutto, di principi fino a lunedì scorso, probabilmente, ignoti ai più; ma, soprattutto, rivelazione di ciò che sta nel nucleo dell’idea stessa di Costituzione. In un colpo solo, è come se fosse crollata una crosta fatta di tante banalità, interessate sciocchezze, luoghi comuni, che impedivano di vedere l’essenziale.
Non si è mancato di leggere, anche a commento di quel discorso, affermazioni che brillano per la loro vuotaggine: che la Costituzione è un ferrovecchio della storia, superata dai tempi, figlia della guerra fredda e delle forze politiche di allora. Benigni, non so da chi, è stato definito "un comico", "un guitto".
Il suo discorso è stato la riflessione d’un uomo di cultura profonda e di meticolosa preparazione, il quale padroneggia in misura somma una gamma di strumenti espressivi che spaziano dall’ironia leggera, alla tenerezza, all’emozione, all’indignazione, alla passione civile. La Costituzione, collocata in questo crogiuolo d’idee e sentimenti, ha incominciato o ricominciato a risuonare vivente, nelle coscienze di molti.
È stato come svelare un patrimonio di risorse morali ignoto, ma esistente. Innanzitutto, è risultata la natura della Costituzione come progetto di vita sociale. La Costituzione non è un "regolamento" che dica: questo si può e questo non si può, e che tratti i cittadini come individui passivi, meri "osservanti".
La Costituzione non è un codice di condotta, del tipo d’un codice penale, che mira a reprimere comportamenti difformi dalla norma. È invece la proposta d’un tipo di convivenza, secondo i principi ispiratori che essa proclama. Il rispetto della Costituzione non si riduce quindi alla semplice non-violazione, ma richiede attuazione delle sue norme, da assumersi come programmi d’azione politica conforme.
L’Italia, o la Repubblica, "riconosce", "garantisce", "rimuove", "promuove", "favorisce", "tutela": tutte formule che indicano obiettivi per l’avvenire, per raggiungere i quali occorre mobilitazione di forze. La Costituzione guarda avanti e richiede partecipazione attiva alla costruzione del tipo di società ch’essa propone. Vuole suscitare energie, non spegnerle. Vuole coscienze vive, non morte. Queste energie si riassumono in una parola: politica, cioè costruzione della pòlis.
A differenza d’ogni altra legge, la cui efficacia è garantita da giudici e apparati repressivi, la Costituzione è, per così dire, inerme: la sua efficacia non dipende da sanzioni, ma dal sostegno diffuso da cui è circondata. La Costituzione è una proposta, non un’imposizione. Anche gli organi cosiddetti "di garanzia costituzionale" - il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale - nulla potrebbero se la Costituzione non fosse già di per sé efficace. La loro è una garanzia secondaria che non potrebbe, da sola, supplire all’assenza della garanzia primaria, che sta presso i cittadini che la sostengono col loro consenso. Così si comprende quanto sia importante la diffusione di una cultura costituzionale. L’efficacia del codice civile o del codice penale non presuppone affatto che si sia tutti "civilisti" o "penalisti".
L’efficacia della Costituzione, invece, comporta che in molti, in qualche misura, si sia "costituzionalisti". Non è un’affermazione paradossale. Significa solo che, senza conoscenza non ci può essere adesione, e che, senza adesione, la Costituzione si trasforma in un pezzo di carta senza valore che chiunque può piegare o stracciare a suo piacimento.
Così, comprendiamo che la prima insidia da cui la Costituzione deve guardarsi è l’ignoranza. Una costituzione ignorata equivale a una Costituzione abrogata. La lezione di Benigni ha rappresentato una sorpresa, un magnifico squarcio su una realtà ignota ai più. È lecito il sospetto che sia ignota non solo a gran parte dei cittadini, ma anche a molti di coloro che, ricoprendo cariche pubbliche, spensieratamente le giurano fedeltà, probabilmente senza avere la minima idea di quello che fanno.
La Costituzione, è stato detto, è in Italia "la grande sconosciuta". Ma c’è una differenza tra l’ignoranza dei governanti e quella dei governati: i primi, ignoranti, credono di poter fare quello che vogliono ai secondi; i secondi, ignoranti, si lasciano fare dai primi quello che questi vogliono. Così, l’ignoranza in questo campo può diventare instrumentum regni nelle mani dei potenti contro gli impotenti.
A questo punto, già si sente l’obiezione: la Costituzione come ideologia, paternalismo, imbonimento, lavaggio del cervello. La Costituzione come "catechismo": laico, ma pur sempre catechismo. La Costituzione presuppone adesione, ma come conciliare la necessaria adesione con l’altrettanto importante libertà? Questione antica.
Non si abbia paura delle parole: ideologia significa soltanto discorso sulle idee. Qualunque costituzione, in questo senso, è ideologica, è un discorso sulle idee costruttive della società. Anche la costituzione che, per assurdo, si limitasse a sancire la "decostituzionalizzazione" della vita sociale, cioè la totale libertà degli individui e quindi la supremazia dei loro interessi individuali su qualunque idea di bene comune, sarebbe espressione d’una precisa ideologia politica.
L’idea d’una costituzione non ideologica è solo un’illusione, anzi un inganno. Chi s’oppone alla diffusione della cultura della costituzione in nome d’una vita costituzionale non ideologica, dice semplicemente che non gli piace questa costituzione e che ne vorrebbe una diversa. Se, invece, assumiamo "ideologia" come sinonimo di coartazione delle coscienze, è chiaro che la Costituzione non deve diventare ideologia.
La Costituzione della libertà e della democrazia deve rivolgersi alla libertà e alla democrazia. Deve essere una pro-posta che non può essere im-posta. Essa deve entrare nel grande agone delle libere idee che formano la cultura d’un popolo. La Costituzione deve diventare cultura costituzionale.
La grande eco che il discorso di Benigni ha avuto nell’opinione pubblica è stata quasi un test. Essa dimostra l’esistenza latente, nel nostro Paese, di quella che in Germania si chiama WillezurVerfassung, volontà di costituzione: anzi, di questa Costituzione. È bastato accennare ai principi informatori della nostra Carta costituzionale perché s’accendesse immediatamente l’immagine d’una società molto diversa da quella in cui viviamo; perché si comprendesse la necessità che la politica riprenda il suo posto per realizzarla; perché si mostrasse che i problemi che abbiamo di fronte, se non trovano nella Costituzione la soluzione, almeno trovano la direzione per affrontarli nel senso d’una società giusta, nella quale vorremmo vivere e per la quale anche sacrifici e rinunce valgono la pena. In due parole: fiducia e speranza. Ma senza illusioni che ciò possa avvenire senza conflitti, senza intaccare interessi e posizioni privilegiate: la "volontà di costituzione" si traduce necessariamente in "lotta per la Costituzione" per la semplice ragione che non si tratta di fotografare la realtà dei rapporti sociali, ma di modificarli.
La Costituzione vive dunque non sospesa tra le nuvole delle buone intenzioni, ma immersa nei conflitti sociali. La sua vitalità non coincide con la quiete, ma con l’azione. Il pericolo non sono le controversie in suo nome, ma l’assenza di controversie. Una Costituzione come è la nostra, per non morire, deve suscitare passioni e, con le passioni, anche i contrasti. Deve mobilitare. Tra i cittadini c’è desiderio di mobilitazione, cui mancano però i punti di riferimento. I quali dovrebbero essere offerti dalle strutture organizzate della partecipazione politica, innanzitutto i partiti che dicono di riconoscersi nella Costituzione. Ma tra questi spira piuttosto un’aria di smobilitazione, come quando ambiguamente si promettono (o minacciano, piuttosto) "stagioni", "legislature" costituenti, senza che si chiarisca che cosa si vorrebbe costituzionalizzare, al posto della Costituzione che abbiamo. Possibile che non si veda a quale riserva d’energia così si rinuncia, in cambio di flosce e vaghe prospettive?
PREMESSA SUL TEMA:
Per una stagione costituzionale
12 novembre 2012 di Gustavo Zagrebelsky *
PER UNA STAGIONE COSTITUZIONALE NON PAROLE VUOTE MA ATTI DI CONTRIZIONE
Libertà e Giustizia non è un partito politico, ma un’associazione di cultura politica, ispirata ai due principi indicati nella sua stessa denominazione. Il suo metodo è la ragione applicata ai fatti. Allontaniamoci, allora, un poco dai particolari della cronaca politica quotidiana e cerchiamo di intravedere l’insieme dei fatti per ricavarne linee di pensiero e d’azione. Sempre che non sia un esercizio inutile.
IDEE-FATTI
Nella vita politica, le idee, le percezioni, le illusioni e le indignazioni che contano non sono necessariamente quelle veritiere. Sono quelle che permeano le coscienze, fanno senso comune e muovono i comportamenti dei grandi numeri, vere o false che siano. In ogni caso, sono semplificazioni e, proprio per questo, sono efficaci. Poiché sono efficaci, esse sono, per l’appunto, “fatti”, non effimere impressioni che passano da sé.
a. La prima idea-fatto - inutile dirlo - si esprime con la parola “casta”: giri intrecciati di potere politico, burocratico, economico e finanziario che si auto-alimentano per nepotismo e cooptazione, in base a patti di protezione e fedeltà; potere per il potere, inamovibile, spesso occulto e illegale; disuguaglianze crescenti tra chi sta dentro e chi fuori, chi sopra e chi sotto; privilegi e stili di vita incomparabili; ricchezza crescente per pochi e povertà dilagante tra i molti. Una grande divisione sociale, per la quale, un tempo, fu coniata l’espressione “razza padrona”. La lotta di classe pare diventare, o già essere diventata lotta di casta, e a parti invertite: non degli sfruttati contro gli sfruttatori, ma degli sfruttatori contro gli sfruttati. Forse, ancora non si percepisce la dimensione globale di questa immensa ingiustizia, rispetto alla quale gli abusi, le corruttele, i furti di casa nostra, per quanto insopportabili, sono quisquilie. Quando si percepirà, cioè si farà strada l’idea, la reazione sarà la restaurazione delle piccole patrie, delle piccole comunità, come rifugi al tempo stesso protettivi e aggressivi: una vecchia storia.
b. La seconda idea-fatto è l’identificazione del potere che s’è detto con le Istituzioni. La politica moderna si basa sulla distinzione tra le istituzioni e coloro che le impersonano e le servono. L’idea odierna è il rovesciamento: coloro che stanno nelle istituzioni se ne servono. In tal modo, ogni degenerazione dei primi viene percepita come vizio delle seconde. Una volta, la corruzione di uno, era vista come corruzione di quello, poi del suo partito, poi dei partiti tutti quanti, poi della politica come tale, infine delle istituzioni tutte quante. I corrotti, gli insipienti, i dilettanti, gli arroganti, ecc. che operano nelle istituzioni non sono solo cattivi soggetti per se stessi, ma lo sono anche di più per le istituzioni democratiche. Nessuna azione antidemocratica è più efficace della corruzione e della propaganda che si basa su di essa. Anche questa è una vecchia storia.
c. La terza idea-fatto è che tutto s’equivale e che “sono tutti uguali”. Di conseguenza, non c’è nulla di possibile e nessuno di cui ci si possa fidare. Tanto vale, allora, starsene a guardare, sperando nella palingenesi, cioè nel crollo della politica e delle sue istituzioni e nell’apparizione di qualcuno che faccia piazza pulita. Che questa prospettiva esista e possa diventare persino maggioritaria è il crimine maggiore che dobbiamo imputare alla generazione che è la nostra. Di nuovo, ci appaiono i fantasmi d’una vecchia storia che si deve sapere dove porta.
LE RISPOSTE VUOTE
Queste generalizzazioni sono sbagliate. Sono anzi trappole pericolose. Ma sono fatti. Come le vediamo contrastare? Con vuote banalità e con azioni controproducenti. La prima banalità è l’accusa di antipolitica, che evita di fare i conti con le ragioni che allontanano dalla politica e si presta, contro chi la pronuncia, a essere ritorta con la stessa, se non con maggiore forza. Chi è, infatti, il vero antipolitico? La domanda è a risposta aperta. Non serve a nulla l’anatema. Serve solo la buona politica. Non bastano le parole, quelle parole che si possono pronunciare a basso costo; parole banali anch’esse, che non vogliono dire nulla perché non si potrebbe che essere d’accordo. Nella politica, che è il luogo delle scelte e delle responsabilità, dovrebbe valere la regola: tutte le parole che dicono ciò che non può che essere così, sono vietate. Non vogliono dire nulla riforme, moralità, rinnovamento, innovazione, merito, coesione, condivisione, giovani, generazioni future, ecc.: vuota retorica del nostro tempo che tanto più si gonfia di “valori”, tanto più è povera di contenuti. Chi mai direbbe d’essere contro queste belle cose?
COME USCIRNE
1) ATTI DI CONTRIZIONE E SEGNI DI DISCONTINUITA’
Alle vuote parole che non costano niente, corrispondono azioni e omissioni nefaste, anzi suicide. Si scoprono ora (!) ruberie, inimmaginabili nel mondo normale, e s’invoca subito una legge sui partiti e sul controllo dei flussi di denaro che arrivano loro: una legge che non si farà. Si scopre ora (!) che la corruzione dilaga e si fa una legge-manifesto che, anche a dire di quelli che, all’inizio, l’hanno appoggiata, servirà poco o nulla. Ci si accorge ora (!) che gli organi elettivi sono pieni di gente impresentabile e si prepara una legge sulle candidature. Leggi, sempre leggi, destinate a non farsi o, se fatte, a essere svuotate. Ma nessuno obbliga a rubare, a corrompere e farsi corrompere, promuovere candidati senza qualità o con ben note “qualità”. I cattivi costumi si combattono con buoni costumi. Le leggi servono a colpire le devianze, ma nulla possono quando la devianza s’è fatta normalità. Prima di cambiare le leggi, occorre cambiare se stessi e, per cambiare se stessi, non occorre alcuna legge. Per chiedere rinnovata fiducia, occorrono ATTI DI CONTRIZIONE, segni concreti di discontinuità, non “segnali”, come si dice per dissimulare l’inganno.
Non è un segno, ma un segnale, per di più autolesionistico, la legge elettorale che è in gestazione. Mai più al voto con la legge attuale, s’era detto. Impedito il referendum da un’improvvida sentenza della Corte costituzionale, il problema della riforma è passato al Parlamento, cioè a chi ha da sperare vantaggi o temere svantaggi. Ci voleva poco a capire che, in prossimità delle elezioni, sondaggi alla mano, tutto sarebbe dipeso da calcoli interessati e poco o nulla da buone ragioni di giustizia elettorale. Non c’è bisogno di apprenderlo dal “Codice di buona condotta in materia elettorale” (§§ 65 e 66), che contiene il “minimo etico” segnalato agli Stati dal Consiglio d’Europa nel 2002. Lo comprendiamo da soli. Comprendiamo che la nuova legge elettorale, se ci sarà, dipenderà dagli interessi dei partiti, non degli elettori che vi troveranno ulteriori ragioni di distacco o di rabbia. La riforma, che avrebbe dovuto servire a riavvicinare eletti ed elettori, allargherà la distanza. Si persevera, invece, tentando di ritagliarsi comunque un posto o un posticino che conti qualcosa, in una barca che rischia di andare a fondo con quelli che ci sono dentro. Si pensa che non ce ne si accorga? e che ciò non porti altra acqua a chi vuol affondarla? Che insipienza!
2) UNA STAGIONE COSTITUZIONALE PER VIVERE IN LIBERTA’ E GIUSTIZIA
Dove appoggiarsi per uscire dal pantano, per suscitare coraggio, energie, entusiasmo, in un momento di depressione politica come quello che viviamo? Dove trovare l’ideale d’una società giusta, che meriti che si mettano da parte gli egoismi e i privilegi particolari, che ci renda possibile intravedere una società in cui noi, i nostri figli e i figli dei nostri figli, si possa vivere in libertà e in giustizia? È sorprendente che non si pensi che questo ideale, questo punto d’appoggio c’è, ed è la COSTITUZIONE. Ed è sorprendente che si sia chiuso in una parentesi quel referendum del giugno 2006 in cui quasi sedici milioni di cittadini si sono espressi a sostegno dei suoi principi. Altrettanto sorprendente è che non si dia significato - forse perché non se ne ha nemmeno sentore - all’entusiasmo che accoglie, tra i giovani soprattutto, ogni discorso sulla Costituzione, sul suo significato storico e sul valore politico e civile attuale. Non c’è qui una grande forza che attende d’essere interpellata per cambiare la società?
Non è paradossale che ci si volga indietro per guardare avanti. Le difficoltà in cui ci troviamo non derivano dalla Costituzione, ma dall’ignoranza, dal maltrattamento, dall’abuso, talora dalla violazione che di essa si sono fatti. Eppure lì si trova almeno la traccia della risposta ai nostri maggiori problemi. Il LAVORO come diritto a fondamento della vita sociale, e non la rendita finanziaria e speculativa; i DIRITTI CIVILI e non le ipoteche confessionali e ideologiche sulle scelte ultime della vita; l’UGUAGLIANZA di fronte alla legge e non i privilegi per proteggere i deboli e combattere le mafie d’ogni natura; l’impegno a promuovere politiche di EQUITA’ SOCIALE E FISCALE e non l’autorizzazione a gravare sui più deboli per risolvere i problemi dei più forti; la garanzia dei SERVIZI SOCIALI e non la volontà di ridurli o sopprimerli; la SALUTE come diritto e non come privilegio; l’ISTRUZIONE attraverso la scuola pubblica aperta a tutti e non i favoritismi alla scuola privata; la CULTURA, i BENI CULTURALI, la NATURA come patrimonio a disposizione di tutti, sottratti agli interessi politici e alla speculazione privata; la libera INFORMAZIONE, come diritto dei cittadini e diritto-dovere dei giornalisti; ancora: la POLITICA come autonomo discorso sui fini e non come affare separato di professionisti o tecnici esecutivi; la partecipazione all’EUROPA come via che porti alla pace e alla giustizia tra le nazioni, a più libertà e più democrazia, non più burocrazia e meno libertà. In generale, nella Costituzione troviamo la politica, il bene pubblico che più, oggi, scarseggia.
Invece, ancora una volta, come da trent’anni e più a questa parte, si ripete la stanca litania della prossima stagione come “stagione costituente”. Costituente di che cosa? Volete dire, di grazia, che cosa volete costituire? E credete con questa formula di ottenere consensi, tra cui i nostri consensi? Non viene in mente a nessuno che il nostro Paese avrebbe bisogno, piuttosto, di una “STAGIONE COSTITUZIONALE” e che chi facesse sua questa parola d’ordine compirebbe un atto che metterebbe in moto fatti, a loro volta produttivi d’idee, anzi d’ideali?
Firmare a sostegno dei pm anche per dire no al regime
di Gianni Vattimo *
Si parla tanto, discutendo dell’articolo (decisivo, inappuntabile) di Gustavo Zagrebelsky, di eterogenesi dei fini. Ma varrebbe la pena anche, e più, di parlare di eterogenesi delle cause. Spieghiamoci: davvero possiamo pensare che le tante migliaia di cittadini - compreso il sottoscritto - che hanno firmato l’appello del Fatto a difesa dei pm di Palermo sotto attacco da parte di quasi tutti i grandi media cosiddetti indipendenti, siano stati motivati dalla preoccupazione per la sorte di quei magistrati, per ora almeno non direttamente minacciati né di licenziamento né di carcere; o dalla irresistibile curiosità di sapere che cosa si dicevano Napolitano e Mancino nelle conversazioni illegalmente, criminalmente ascoltate e addirittura trascritte dalla magistratura palermitana? Ma che cosa davvero ci poteva essere di così decisivo in quei nastri, già per giunta dichiarati irrilevanti ai fini del processo? Confessiamo finalmente che del contenuto di quelle intercettazioni non ci potrebbe importare di meno. Figurarsi se il nostro saggissimo presidente (Giulia Bongiorno docet) si sarebbe mai lasciato andare, anche senza sospettare di essere ascoltato, a dire qualcosa di men che prevedibile, istituzionale, neutrale?
E allora? Perché in tanti avremmo dovuto sentirci così impellentemente spinti a firmare il documento pro pm? Le ragioni, le cause “eterogenee” di cui generalmente si tace nella discussione sullo scritto di Zagrebelsky, sono, appunto, altre. La diffusa e motivatissima insofferenza per il vero e proprio regime che è calato sul Paese per gli sforzi congiunti di Napolitano e Monti, è la ragione principale che spiega la popolarità dell’appello - anche se sia delle sorti dei magistrati palermitani, sia della trattativa Stato-mafia nessuno dei firmatari si era dimenticato. Ciò che si è voluto respingere con la valanga di firme è stato principalmente la progressiva instaurazione del regime, che del resto anche dalla vicenda delle intercettazioni palermitane ha ricevuto una intensificazione senza precedenti. Se qualcuno aveva ancora dei dubbi, dopo le esternazioni mediatiche degli ultimi giorni, anche e soprattutto da parte di padri della patria come Scalfari, questi dubbi non dovrebbero più esserci. Siamo di fronte non a una campagna di delegittimazione del Capo dello Stato, come vanno predicando ex esponenti della ex-ex-ex sinistra; ma a un generale sforzo di consolidamento del regime; temiamo, in vista di autunni e inverni caldi e caldissimi.
Le poche voci dissonanti, anzitutto quella di Antonio Di Pietro, accanto a quella di Grillo e all’altra - un po’ arrochita dal vecchio e nuovo berlusconismo, della Lega, sono ormai tacitate e demonizzate in tutti i modi, fino a dire esplicitamente che chi non sta con Napolitano o si permette di criticarlo non potrà appartenere al centrosinistra Bersanian-Casinista verso cui Quirinale e establishment ci stanno spingendo. Non solo c’è la luce in fondo al tunnel, ne siamo ormai fuori per merito di questo governo. Domandare conferma di tutto ciò agli esodati senza pensione, ai licenziati di tutte le fabbriche che hanno chiuso i battenti, ai tarantini presi in giro dalla compagnia di giro dei ministri inviati prontamente sul luogo da Monti. Quasi tutti i giorni la stampa “indipendente” ci informa che Monti ci è invidiato da tutti i paesi d’Europa e forse anche da Obama. Sarà anche vero che lo spread è un poco sceso, e che le borse hanno guadagnato qualche punto: già, le borse e le banche, pupilla degli occhi del premier. Ma per il resto, i costi della vita per le famiglie, ci sarà forse da aspettare un po’ di più, e così per avere un qualche recupero dell’occupazione.
Ma intanto noi vediamo la luce in fondo al tunnel con gli occhi dei media; che del resto, insieme a Napolitano sono i creatori delle fortune politico-tecniche di Monti. Nessuno si è accorto che qualcosa sia migliorato in Italia negli ultimi mesi, anzi il contrario è sotto gli occhi di tutti. È anche questo clima di untuosa accettazione della menzogna ufficiale, quirinalizia o no che sia, ciò che (correggetemi se sbaglio) i firmatari dell’appello pro pm di Palermo vogliono combattere. Forse sarebbe ora di smettere di giocare tutti ai costituzionalisti dibattendo sulle prerogative del Presidente. Ne usasse finalmente una, decisiva: sciogliere le inutili Camere e mandarci finalmente a votare e restaurando quel poco di democrazia che ancora ci resta.
* Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2012
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 17.08.2012)
Eterogenesi dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d’un tassello, anzi del perno, di tutt’intera un’operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la “trattativa” tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c’è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l’esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo di nasconderla.
Questa è una prima considerazione. Ma c’è dell’altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come “potere dello Stato”, possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch’egli ritenga insidiate da altri poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il diritto di grazia, d’una controversia sui caratteri d’un singolo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona. Non è questione, solo, di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d’una normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull’altra, l’autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco.
Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente l’esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per la sua parte, sono entrambi “custodi della Costituzione”. Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l’uno che l’altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d’una alleanza in vista d’una sentenza schiacciante. A perdere sarà anche la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d’irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d’essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell’interesse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell’interesse della tranquillità del diritto.
C’è ancora dell’altro. Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall’esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi, riguardando il campo non dell’opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento. “In ogni caso”, dice la norma, l’intercettazione deve essere disposta da un tale “Comitato parlamentare”. che interviene nel procedimento d’accusa con poteri simili a quelli d’un giudice istruttore. Nient’altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d’accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull’utilizzabilità, sull’inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti.
Niente di niente. A questo punto, si entra nel campo dell’altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un “consapevole silenzio” dei Costituenti, dal quale risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i cittadini.
Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, appellandosi al principio posto nell’art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell’esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione. La “irresponsabilità” comporterebbe “inconoscibilità”, “intoccabilità” assoluta da cui conseguirebbero, nella specie, obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale è chiamata ad avallare quest’interpretazione, che è una delle due: l’una e l’altra hanno dalla loro parte l’opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l’irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l’appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica, per il fatto d’essere presidente della Repubblica. Ma, in presenza di tanti punti interrogativi e di un’alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall’altra non sarebbe, propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?
Coinvolgimento in una “operazione”, inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n’è più che abbastanza per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei pubblici consensi. Una cosa è l’ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso “plusvalore” di chi dispone dell’autorità; un’altra cosa è l’informalità, dove più spesso si manifesta la sincerità.
Le perplessità, a quanto pare, superano di gran lunga le marmoree certezze. Il suo “decreto” del 16 luglio, facendo proprie le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino “precedenti” tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori. Nella Repubblica, l’integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l’acquiescenza di chi ricopre pro tempore la carica presidenziale. D’altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27 giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo per il processo.
Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte invocata “leale collaborazione”, di raggiungere lo stesso fine cui, in ultimo, il conflitto mira - la distruzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Repubblica - attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza previste per tutti? Che bisogno c’è d’un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s’è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d’applicare lealmente la legge?
Il Colle, le procure e lo spirito della Costituzione
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 23.08.2012)
EUGENIO Scalfari, col suo scritto di domenica scorsa, mi offre l’occasione di riprendere, sul nostro giornale, alcuni punti del mio articolo “incriminato”, incriminato per avere invitato il Presidente della Repubblica a riconsiderare l’opportunità del conflitto d’attribuzioni sollevato nei confronti di uffici giudiziari di Palermo. Non nego che quello scritto, tanto più per l’autorevolezza di colui da cui proviene, mi ha toccato nel profondo.
Poiché le ragioni sono sì personali, ma anche generali, tali quindi da poter interessare chi abbia seguito la vicenda, ritorno sull’argomento. Con una necessaria, e ovvia, premessa: siamo, come accennato, nel campo dell’opportunità. I giudizi di opportunità sono sempre discutibili, perché dipendono da molte ragioni e uno dà più peso ad alcune e altri ad altre. Se la ragione fosse una sola, saremmo nel campo della necessità che non si discute. Ma l’opportunità è sempre discutibile. Dunque, affrontiamo gli argomenti, in spirito discorsivo. Qui c’è la forza e la ricchezza del nostro giornale.
Dividerò le considerazioni che seguono in una parte generale e una speciale. La parte generale è quella che più mi mette in difficoltà. A proposito “di eterogenesi dei fini” - conseguenze non intenzionali di atti compiuti intenzionalmente - nel mio scritto, non vi sarebbe stata nessuna “eterogenesi”, perché le conseguenze - la strumentalizzazione in vista di un “attacco” al Capo dello Stato - sarebbero state non solo da me previste, ma addirittura volute. L’insinuazione è che io faccia parte d’una operazione orchestrata per “delegittimare” il Capo dello Stato.
Mi permetto di dire a Scalfari che ho avvertito come una ferita (e spiegherò perché), tanto più ch’egli aggiunge di sperare che il suo dubbio sia dissipato, temendo che questa speranza “si risolva in una delusione”. Le cose non stanno così. Ho condiviso e condivido molte delle cose dette e fatte dal Capo dello Stato, come egli sa per averne ricevuto testimonianza, con calde parole ch’egli certo ricorderà, in una pubblica occasione svoltasi qualche mese fa a Cuneo. Ma su altre cose ho delle riserve.
Che cosa c’è di strano? Una cosa approvi e un’altra disapprovi - sì, sì; no, no, il resto è opera del maligno - e lo dici in piena libertà, come si conviene in un Paese libero. Avrei dovuto tacere o dire il contrario? Sei un ingenuo, perché avresti dovuto sapere che le tue parole sarebbero state strumentalizzate; anzi, sei un falso ingenuo - in sostanza, un ipocrita - perché lo sapevi benissimo. Qui, vorrei essere il più chiaro possibile: la linea di condotta cui mi sono ispirato non è dei falsi, ma dei veri ingenui. Il compito di chi si dedica a una professione intellettuale è d’essere, per l’appunto, un vero, consapevole e intransigente ingenuo (con l’unica riserva che dirò). Non è sempre facile. Talora lo è di più tacere, tergiversare, adeguarsi. È una questione d’integrità professionale, almeno così come la vedo. Vogliamo forse che “per opportunità” si sostengano, con parole o con silenzio, cose diverse da quelle che si pensano vere, opportune, giuste? Dove andrebbe a finire la fiducia?
C’è per me un “libro di formazione”. Non sembri una citazione fuori luogo o fuori misura. Scritto nel 1923, in circostanze più drammatiche delle attuali, contiene una lezione indimenticabile. È Il tradimento dei chierici di Julien Benda (ripubblicato da Einaudi). Non è una citazione esornativa, “da professore”. È un invito. Tratta degli uomini di pensiero che in quel tempo - e in tutti i tempi - si astennero dal prendere posizione, tacendo o dicendo cose che andavano contro le loro stesse convinzioni, e questo fecero “per opportunità”. La loro colpa non fu di avere detto cose sbagliate, ma di non avere detto le cose ch’essi stessi ritenevano giuste. Facciamo le debite proporzioni, ma riflettiamo sul corto-circuito che si verifica quando nel campo del pensiero si insinua l’idea che ciò che pensiamo, per opportunità, o anche per “responsabilità”, si possa o debba tacere.
Forse che l’attività intellettuale non deve anch’essa essere responsabile? Certo che sì. Ma responsabile verso chi o che cosa? Verso la sua natura: una natura diversa da quella politica. Forse che l’attività intellettuale non ha anch’essa una propria valenza politica? Certo che sì, ed elevatissima, ma non nel senso di chi opera nella politica, intesa come la sfera dei partiti, della competizione per il potere, della conquista del consenso: da noi, c’è difficoltà ad ammettere che non tutto è politica in questo senso. Esiste invece una funzione diversa, “ingenua”, non legata al potere e al consenso - la cui esistenza è essenziale alla vita libera della pólis.
Sarebbe una deviazione, se l’attività intellettuale non tenesse fede a questa sua caratteristica, anzi non ne facesse il suo vanto. Solo così, c’è la sua utilità, la sua funzione civile. Chi ragiona diversamente, che idea ha del rapporto politica-cultura? Scrivendo queste cose, mi ritornano in mente gli anni ’50. Chi appartiene alla mia e alla precedente generazione, comprende facilmente
il riferimento. Se ci sarà l’occasione potremo ritornare su quella storia fatta di contrapposte accuse di “defezione”, che nessuno e, di certo meno che mai Eugenio Scalfari, rimpiange.
Sulla parte speciale credo di muovermi con più facilità. Nel mio scritto, ho sostenuto che questo conflitto, per i suoi caratteri, non ha precedenti. Scalfari dice di no, ma poi spiega: vi sono politici e loro fiancheggiatori che, nel caso in cui la Corte dia ragione al Capo dello Stato, “palpitano” per poter accrescere i loro “attacchi eversivi” all’una e all’altro; nell’improbabile caso contrario, se al Capo dello Stato venisse dato torto, sempre gli stessi gli chiederebbero “immediate e infamanti dimissioni”.
Non è questa una situazione eccezionale, drammaticamente difficile? Riflettiamoci seriamente e freddamente. La Corte è un giudice e noi pretendiamo ch’essa giudichi secondo diritto, seguendo “l’etica della convinzione” che le è propria. Ma sappiamo bene che, messa di fronte a un “fiat iustitia, pereat mundus”, nessuna Corte costituzionale indietreggerebbe nell’applicare l’“etica delle conseguenze” che, indubbiamente, interferisce con le ragioni solo giuridiche. Nella specie, il “pereat mundus” è la crisi costituzionale che sia Scalfari sia io paventiamo. Qualunque Corte costituzionale la prenderebbe in considerazione come male supremo da evitare.
Per questo dicevo che l’esito del conflitto è scontato. Dire queste cose non è indebita interferenza sulla decisione della Corte, come crede Scalfari, ma è teoria della Costituzione. Leggendo che le Corti hanno il diritto d’essere protette da situazioni siffatte, per poter decidere nella “tranquillità del diritto”, non c’è da essere sconcertato “d’una scorrettezza”, come Scalfari dice d’essere, perché quella espressione viene da lontano, da un dibattito internazionale tra illustri costituzionalisti.
Scalfari, poi, mi fa dire che la Corte non avrebbe i poteri per risolvere il conflitto proposto, perché, dando ragione al Capo dello Stato, introdurrebbe un’innovazione della Costituzione. In verità, non ho detto questo ma che, per quanti danno alla parola “irresponsabilità” un significato più ristretto di “inconoscibilità” o “intoccabilità” - per quelli (e ce ne sono) che pensano così - l’accoglimento del ricorso sarebbe un’innovazione della Costituzione. L’interpretazione che facesse coincidere i significati, sia pure a proposito di una piccola, ma cruciale questione, avrebbe effetti di sistema difficilmente controllabili su tutto l’impianto dei poteri costituzionali, così come si è finora concepito. E, se è vero che, nel caso in questione, la Corte si trova in quel cul de sac di cui dice lo stesso Scalfari, la domanda è se non è sommamente inopportuno che ciò avvenga, e in queste circostanze.
Poi, è verissimo, che la Corte dispone di tutti gli strumenti tecnici necessari per decidere come vuole (le sentenze additive e interpretative, però, di per sé non c’entrano: riguardano i giudizi sulle leggi, non i conflitti): dai principi, nel nostro caso il principio d’irresponsabilità presidenziale, si possono trarre regole specifiche per decidere i singoli casi, superando anche (ma qui non è il caso di scendere nei dettagli giuridici) contraddizioni o lacune legislative. Ma la questione non è di strumenti tecnici, ma - ripeto - di prudenza e responsabilità nel chiedere di attivarli.
L’ultima cosa che non ho detto è che il Capo dello Stato avrebbe frapposto “un insormontabile ostacolo alla ricerca della verità”. Ho detto invece che il ricorso, per effetto delle circostanze che non si controllano, è venuto ad assumere il significato d’un tassello in un disegno critico della magistratura, che finisce per indebolirne l’opera. Il che, guardando ciò che succede, mi pare incontestabile.
Sullo sfondo di tutto ciò, c’è una questione che emerge con chiarezza nelle considerazioni “pertinenti anche se non inerenti” che chiudono l’articolo di Scalfari. Esiste nel nostro Paese uno scontro aperto e, apparentemente, senza mediazioni. Da un lato, coloro che sostengono con convinzione che la magistratura (se non tutta, molte sue parti) esorbiti dai suoi poteri perché persegue il fine di sottomettere la democrazia o la politica al processo penale. Dall’altro, quelli che pensano che non si tratti affatto di questo, ma semplicemente di ampi settori del mondo politico che, avendo costruito le proprie fortune sull’illegalità, temendo l’azione giudiziaria, vogliono limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. I primi parlano di “guerra” dei magistrati contro la politica, di “giustizialismo”, ora di “populismo giuridico”; i secondi, specularmente, di “guerra” dei politici contro la magistratura, di “assalto” alla giustizia.
Se davvero stato di guerra ci fosse (ecco la riserva cui accennavo all’inizio), allora anche le idee dovrebbero schierarsi, perché in guerra non solo tacciono le leggi, ma anche suonano le trombe che chiamano i cervelli all’adunata. Ai primi, però, bisognerebbe dire che i secondi non sono affatto tutti “antipolitici”, come vengono definiti con una parola violenta e disonesta, che non fa che creare ostilità contro “i politici” che la pronunciano; ai secondi, occorrerebbe dire che la critica distruttiva della politica non sappiamo dove ci potrebbe portare: ma non certo verso il regno della giustizia (e della democrazia).
Coloro che sognano rivalse contro i magistrati dovrebbero chiedersi da dove nasce il risentimento contro “la politica” ch’essi impersonano e dovrebbero vedere che molti loro propositi non sono che altrettanti boomerang che alimentano le fila di chi sta dall’altra parte. Credono davvero che i diversi “riequilibri”, in questo clima di scontro, siano saggi propositi e non conati controproducenti? Il ricorso del Capo dello Stato ha aperto un “conflitto” giuridico ma, inevitabilmente, ha finito per essere inglobato, come suo episodio, in questo “conflitto” politico (astuzia perversa delle parole!). L’invito a ricercare una limpida soluzione della questione nella sede processuale ordinaria e a riconsiderare quindi l’opportunità di quel conflitto, nasce da qui.
I guardiani della democrazia
di Guglielmo Ragozzino (il manifesto, 22.07.2012)
Con nomi diversi, con caratteristiche proprie di ciascuna specifica civiltà giuridica, la Corte suprema svolge spesso il compito di tenere a freno gli impulsi più classisti del potere politico ed economico di riferimento. Lo ha fatto la Corte negli Stati uniti in difesa della riforma sanitaria di Barack Obama, in Germania la Corte di Karlsruhe ha tenuto duro sul reddito di cittadinanza e in questi ultimi giorni resiste, estremo baluardo europeo, contro il Fiscal compact e contro l’Ems - Meccanismo europeo di stabilità. E in questo è stimolata da Die Linke: segno che perfino in Germania, prima di cedere, la sinistra non rinunciataria le tenta tutte.
In Italia - ieri - un nuovo segnale dalla Corte Costituzionale. La nostra «Consulta» ha addirittura messo in salvo il patto tra cittadini rappresentato dai referendum di un anno fa, i famosi referendum sull’acqua pubblica. Nel sistema italiano un referendum è un secondo modo, diretto, per fare una legge, a fianco dell’altro, più tradizionale, svolto dalle rappresentanze parlamentari. Serve una legge esistente (da abolire), la raccolta di mezzo milione di firme e il voto della maggioranza degli elettori. I poteri forti, nel loro alternarsi, sono rimasti compatti almeno su un punto. Ai referendum non hanno mai creduto, l’hanno sempre scambiati per un giorno di vacanza, un grasso martedì di carnevale, per poi non farne niente, tornare alla politica vera, all’economia delle spartizioni decisive.
Anche in questo caso: i governi, nell’anno successivo ai referendum sull’acqua, hanno scelto la linea di minimizzarne l’esito, tranquillizzare le imprese, nazionali e multinazionali: «Niente cambia, tutto come prima», assicurando i loro decisivi interessi idrici nella futura irrimediabile siccità. L’acqua come grande business promesso per i cent’anni avvenire, con lauti profitti sicuri; l’acqua dolce, privata, da catturare e mettere in circolo, a disposizione dei popoli, delle città, delle famiglie, purché in grado di pagare le salate bollette. Certo i governi di Roma hanno giocato sulle parole e sulle frasi dei referendum in attesa che non fossero del tutto dimenticate, ma nella sostanza hanno spiegato ai futuri padroni dell’acqua che non c’era spazio per ogni e qualsiasi fantasia legata a stravaganti beni comuni, anzi alla "Tragedia dei beni comuni", secondo l’insegnamento di tanti anni fa e ancora per loro validissimo, di Garrett Hardin.
La decisione della Corte italiana, sulla base della richiesta di sei regioni, ha sconvolto i piani. Gli interventi dei quotidiani importanti, a parte la felicità espressa da Mattei e Lucarelli sul nostro manifesto, per conto di noi tutti, hanno mostrato fino in fondo il disorientamento dei grandi poteri.
Dopo tutto i beni comuni esistono, o almeno alla Corte costituzionale ci credono, è stata la prima riflessione, seguita dalla seconda: «e adesso che si fa»? L’idea di dover fare i conti con qualcuno (milioni di schede, la maggioranza dei cittadini) e con qualcosa (una scelta opposta alla loro, generosa, solidale) li manda in tilt. Chi glielo dirà ai banchieri dell’acqua, ai boss delle spiagge, del cemento, dei rifiuti, dei tunnel, dei rigassificatori, del petrolio e a chi compra e vende pezzi di natura, che le cose stanno cambiando?
Quella virtù di dire no che ha salvato il Paese dalle forzature autoritarie
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 30 gennaio 2012)
Poche parole, a poche ore dalla morte del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: un uomo politico e un servitore della Costituzione rigoroso, roccioso e intransigente e, proprio per questo, molto amato e anche molto osteggiato.
"Non c’è da temere mai di fronte alle pressioni esterne. L’unico che può temerle è chi è ricattabile": sono parole sue, rivolte ai giudici ma valide con riguardo a qualunque magistratura e tanto più valide in quanto riferite alle più alte cariche della Repubblica. Di queste, la prima e fondamentale "prestazione" costituzionale che si ha necessità e diritto di pretendere, soprattutto nei tempi di incertezza o di crisi, è la rassicurazione che viene dalla serenità e dalla forza, cioè dalla certezza che non vi possono essere cedimenti e deviazioni.
Altri, col tempo e con la riflessione necessari, scriveranno di lui e della sua opera nella storia della Repubblica, una storia che la copre dall’inizio all’altro ieri. Allora si faranno bilanci. Nella commozione del momento, vorrei ricordarlo con parole nelle quali egli probabilmente si riconoscerebbe volentieri, quasi come in un suo motto: "Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 37).
Una delle cause del degrado e della corruzione della vita pubblica nel nostro Paese, egli l’imputava ai troppi sì che si dicono da parte di chi avrebbe il dovere di dire di no, in modo di stabilire il confine del lecito e dell’illecito e quindi il territorio entro il quale può legittimamente valere il gioco democratico. Quelle che seguono sono sue parole: «Il compito del Capo dello Stato non è quello di essere equidistante tra due parti politiche. Sarebbe fin troppo facile. Si dà ragione una volta all’uno e una volta all’altro e si sta a posto con la coscienza.
No, il compito del Capo dello Stato è quello di garantire il rispetto della Costituzione su cui ha giurato. Di difenderla a ogni costo, senza guardare in faccia nessuno. Tra il ladro e il carabiniere non si può essere equidistanti: se qualcuno dice di esserlo vuol dire che ha già deciso di stare con il ladro». L’imparzialità di cui la Costituzione ha bisogno non è dunque un’equidistanza senza carattere, ma presuppone che si stabilisca quali sono le parti le cui pretese sono legittime e che da queste siano tenute separate quelle che non lo sono.
Soprattutto nei momenti di turbolenza e di tentativi di forzatura, il Capo dello Stato non può esimersi dal compito - un compito che nell’ordinaria vita costituzionale gli è risparmiato - di stabilire i confini tra il lecito e l’illecito costituzionale. Tra questi due poli non può esservi imparzialità. In una Costituzione pluralista e inclusiva com’è la nostra, il terreno dell’inclusione costituzionale è assai ampio ma non è certo illimitato. Una Costituzione che "costituzionalizzasse" tutto e il contrario di tutto sarebbe non una costituzione ma il caos.
È perfino superfluo ricordare che gli anni del settennato presidenziale di Scalfaro furono un periodo di accesissime polemiche e non infondati timori per la "tenuta" delle istituzioni costituzionali. Al centro delle tensioni si trovò proprio la Presidenza della Repubblica e la sua interpretazione della Costituzione. Non furono solo polemiche verbali ma anche attacchi personali il cui obbiettivo era trasparente. Il drammatico discorso televisivo delle 9 della sera del 3 novembre 1993, il discorso del "non ci sto", fu al tempo stesso una denuncia e una risposta. La reazione dell’opinione pubblica non iniziata alle segrete cose fu, inizialmente, di sconcerto. Non si comprendeva che cosa stesse accadendo, anche se si avvertiva l’eccezionalità del momento e delle parole appena udite, che alludevano a manovre tanto più inquietanti quanto meno limpide.
Col senno di poi, comprendiamo che quelle tre parole dicevano a chi doveva intendere: "ho compreso" e un "sappiate che cedimenti non sono alle viste". Che cosa "ho compreso"? Si dice che fosse in atto un attacco, un ricatto al Capo dello Stato da parte di uomini della maggioranza d’allora, che non lo consideravano malleabile. La parte finale del discorso allude certamente a ciò. Ma la parte iniziale è quella che deve essere riascoltata oggi. Vi si parla non di un atto grande e conclamato, contro la Costituzione e le sue istituzioni. Si parla di degrado e corruzione attraverso piccoli cedimenti, di per sé pocoevidenti, ma tali da sommarsi l’uno all’altro e di fare massa, fino al momento in cui, quando ci se ne fosse accorti e si fosse voluto reagire, sarebbe stato troppo tardi.
Qui, nel "bel paese là dove il sì suona" troppo frequentemente, i "no" scalfariani sono stati una scossa salutare. Egli stesso ne era orgoglioso. Nelle sue numerose e generose interviste, conferenze, lezioni degli ultimi anni, usava ricordare agli uditori, che avevano evidentemente bisogno di parole di rigore e le salutavano con entusiasmo, i tre rotondi "no" (senza "il di più" satanico) che seguirono alla richiesta di elezioni anticipate dopo la rottura dell’alleanza Lega-Forza Italia nel 1994.
Quei "no" hanno salvato la Costituzione da quella che sarebbe stata una prima interpretazione anti-parlamentare destinata a fare scuola, secondo la quale il presidente del Consiglio può pretendere nuove elezioni per essere "plebiscitato" contro un Parlamento che non sta alle sue volontà. Scalfaro è stato la prima pietra d’inciampo nella marcia verso qualcosa d’inquietante, una sorta di "democrazia d’investitura" personalistica che non sappiamo dove ci avrebbe portato. Se, oggi, il presidente della Repubblica ha potuto resistere alle pressioni per elezioni anticipate, a seguito delle dimissioni del governo Berlusconi, lo dobbiamo anche alla fermezza mostrata allora dal presidente Scalfaro.
Ma altri, importantissimi "no" sono stati pronunciati. Non possiamo dimenticare con quale alto senso della laicità delle istituzioni repubblicane, egli - cattolicissimo - rivendicò davanti al Papa il suo essere presidente di tutti gli italiani, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, quando è tanto facile acquisire meriti e farsi belli agli occhi della gerarchia ecclesiastica, appellandosi alla tradizione cattolica, maggioritaria in Italia. Così, le questioni di fede o non fede, con lui, non erano mai motivi di divisione. Ciò che mi pare contasse davvero era l’evangelica rettitudine del sentire e dell’agire. Questo spiega l’ottimo rapporto personale - ch’egli soleva ricordare - con tanti galantuomini d’altri partiti, talora lontani politicamente dal suo e, al contrario, il pessimo rapporto con chi galantuomo non era, ancorché del suo stesso partito.
Infine, il suo impegno per la difesa della Costituzione, nel quale fino all’ultimo non risparmiò le sue energie. Presiedette il comitato Salviamo la Costituzione, al quale si deve un contributo decisivo alla vittoria nel referendum del 2006, che impedì una trasformazione profonda e ambigua delle nostre istituzioni. Ecco un altro no. Alla Costituzione andavano costantemente i suoi pensieri, consapevole ch’essa rappresenta uno dei frutti più elevati della cultura e della politica del nostro Paese. E insieme alla Costituzione, la Resistenza che ne è la radice storica e morale.
Nel discorso alle Camere riunite, in occasione del giuramento, il 28 maggio 1992, rese omaggio agli uomini e alle donne che parteciparono alla lotta di Liberazione. La Costituzione "io non l’ho pagata nella Resistenza [...] Altri non la votarono ma la pagarono con la vita. Non dimentichiamolo mai". Retorica, diranno coloro ai quali questa Costituzione non aggrada. Parole profonde, diranno invece coloro che hanno consapevolezza del valore storico di quel periodo della nostra storia e del suo frutto più importante. E questi ti saranno per sempre in debito di affetto e di riconoscenza, presidente Scalfaro.
Zagrebelsky: politica sotto tutela tecnocratica
di Dino Martirano (Corriere della Sera, 26 novembre 2011)
«Gustavo, non essere così pessimista. Non perdiamoci d’animo...». Con queste parole di caldo incoraggiamento, Giuliano Amato conclude il suo intervento dopo aver ascoltato il presidente emerito della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, che ha parlato di società votate all’autodistruzione, di politica egoista con le prossime generazioni, di miopia davanti alle catastrofi tecnologiche, ambientali e finanziarie. Dunque, argomenta il professore Zagrebelsky, quasi per dare una base giuridica a ciò che sta accadendo in Italia e in Europa, «la prospettiva che si apre è quella di una tutela tecnocratica del potere e della politica». Un passo necessario, questo, anche se la svolta tecnocratica dovrà per forza essere una parentesi: altrimenti, avverte l’ex presidente della Consulta, c’è il rischio che la sospensione della democrazia costituzionalmente intesa «possa alimentare ideologie illiberali».
Davanti al capo dello Stato - che ha partecipato, assieme al presidente del Senato Renato Schifani e alla vicepresidente della Camera Rosy Bindi, al seminario annuale della Consulta dedicato al tema «Dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana» - Zagrebelsky rompe gli schemi. E con una relazione che scava nel profondo dell’anima del pensiero occidentale gela l’uditorio: «Pensate alla storia dell’isola di Pasqua, situata a 3.700 chilometri dalle coste del Cile che nei secoli fu sempre rigogliosa, con ananas che pendevano a volontà dagli alberi e animali in grande quantità. Insomma, un posto magnifico dove bastava alzare la mano per cogliere un frutto. Un luogo ricco. Che però, agli inizi del ’700, quando fu scoperta dagli europei, si rivelò desertificato perché ogni generazione lì si comportò come fosse l’ultima. Nell’isola di Pasqua l’uomo ha agito libero da ogni debito nei confronti della generazione successiva. E alla fine ha autodistrutto la sua stessa società».
Ecco qual è il punto di questo mondo globalizzato, insiste Zagrebelsky, pensando forse a uno Stato che si dovrebbe comportare come il buon padre di famiglia che riceve in eredità beni per custodirli temporaneamente e mantenerli in buone condizioni per trasmetterli ai suoi figli: «La vita dei viventi oggi non può essere onesta se non guarda alle generazioni future, se non si comporta come la madre fa con il figlio... E ora il costituzionalismo, che forse è impreparato a questa prova, deve riscoprire i doveri oltre i diritti che possono essere pure ridotti nel tempo presente per poi poterli estendere nei tempi futuri». Questa, conclude il professore, «è l’ultima sfida cui è chiamato il costituzionalismo» che deve affrontare il tema «anche se tecnocrazia e doveri fanno paura».
Concorda il presidente della Corte, Alfonso Quaranta: «Forse dovremmo iniziare a pensare a una carta dei doveri». E in qualche modo Giuliano Amato - che prima dell’inizio dei lavori ha avuto un fitto colloquio con Gianni Letta - prova a risollevare l’umore nei presenti citando Sabino Cassese che lo ascolta in terza fila: «Lo Stato è particolarmente debole perché troppi si sentono forti. Bisogna ridare forza allo Stato debole... Ma oltre alla tecnocrazia ci vuole una dimensione etica: ci vuole il rispetto degli altri, presenti e futuri». Che poi si traduce, per chiunque governi, nell’applicare il principio di precauzione quando si assumono le decisioni.
Federico La Sala
Perché gli ideali non sono assoluti ma figli di un’epoca
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22 novembre 2011)
Si può dissentire radicalmente sulle premesse e consentire pienamente sulle conclusioni? È la domanda che ci si pone al termine della lettura dell’ultimo, profondo, appassionato, angosciato ma non rassegnato libro di Roberta De Monticelli, La questione civile - Sul buon uso dell’indignazione (Raffaello Cortina Editore).
Il tema è la giustizia, massima virtù sociale; lo scopo è il risveglio alla giustizia attraverso "esercizi di disgusto". L’impianto è filosofico. Il discorso si svolge da Platone e Aristotele, indugia su quello che sembra il preferito, Immanuel Kant, per arrivare a Simone Weil e a Bobbio. Ma, la riflessione spazia: antropologia, psicologia, teologia, giurisprudenza, letteratura. Tutto può essere messo a frutto e fatto reagire, al di sopra delle divisioni disciplinari. Trattandosi di filosofia pratica, cioè orientata all’azione sul suo oggetto - la giustizia -, inevitabile è incontrare di continuo le brutture, le oscenità, le meschinità, gli arrivismi, l’ipocrisia, l’illegalità, la corruzione, le prepotenze, le viltà e il servilismo, cioè la catastrofe etica della nostra società.
Il libro, con una certa sorpresa del lettore, non inizia dalla giustizia. Vi arriva attraverso la bellezza. Bellezza e giustizia: che rapporto c’è? Dicendo bellezza, non si deve pensare a estetismo, snobismo, collezionismo d’arte e cose di questo genere. Se bellezza è armonia e proporzione dei rapporti - di elementi figurativi, architettonici, poetici e musicali, e anche sociali - allora possiamo dire che la bellezza è forma visibile della giustizia. Il rapporto è stretto, inscindibile. Vale l’eterna massima della filosofia scolastica: iustum, bonum, verum et pulchrum convertuntur. Queste qualità dell ’esistenza vivono l’una nell’altra. Non occorre intuizione metafisica per capirne i nessi. Risultano ancora più chiari rovesciando il positivo in negativo: l’ingiustizia è cattiva; il cattivo è falso; il falso è brutto. Si può arrivare alla giustizia a partire dalla bellezza, ma si sarebbe potuto anche dal bonum o dal verum. A partire da uno, si arriva agli altri.
Fin qui, tutto bene. Il passo successivo è da discutere. Giustizia, bontà, verità e bellezza sono "valori", "cose che valgono", non in termini economici, (non c’è un mercato dei valori secondo la legge della domanda e dell’offerta), ma in termini morali. Sono il lato positivo, prezioso, della vita. A meno di pervertimento in bruta animalità, dove vige il fatto compiuto, cioè la "giustizia del più forte", non ne possiamo fare a meno. Potremmo perfino dire che li chiamiamo valori, ma sono necessità, secondo il motto di Kant: se non c’è posto per la giustizia sulla terra, non ha senso la vita degli uomini.
De Monticelli dà grande importanza alla questione del fondamento. È convinta che i valori siano "dati", non perché li si possa constatare e ammirare in sé e per sé. Nel teatro greco, per esempio, "La Pace" si presentava come una fanciulla, avvolta in un peplo trasparente, e tutti esclamavano: "come è bella!". Di lei si poteva dire: "Come è bella!" perché la bellezza le era incorporata e gli spettatori ne facevano esperienza. Dunque, "i fatti stessi si qualificano come beni e come mali" (belli o brutti, giusti o ingiusti, ecc.) e a noi non resta che prendere atto del loro valore, come constatazione. Ne è convinta De Monticelli e chi, come Platone, crede che esista "la bellezza" che si riflette in "le cose belle". Se fosse così, sarebbe possibile fondare la morale in termini oggettivi: le cose belle sono belle perché portano in sé la bellezza, non perché l’attribuiamo loro, secondo la nostra concezione. Insomma: è bello ciò che è bello, non ciò che piace: piace perché è bello, non viceversa (lo stesso, per gli altri valori).
Come possiamo non insorgere - leggiamo nel libro - di fronte alle casette a schiera che deturpano le colline senesi dipinte da Simone Martini? Non è questo, oggettivamente, un insulto al bello, e dirlo non è forse una constatazione di fatto? "Nerone era crudele", non è la stessa cosa? Andiamo oltre: Adolf Hitler era un essere degenerato. Chi non sarebbe d’accordo? Dunque il brutto è incorporato nelle casette a schiera del Senese; la crudeltà, in Nerone; la degenerazione, in Hitler. Ripeto: chi non sarebbe d’accordo? Ma perché siamo d’accordo? Sono "le cose" (le villette, Nerone, Hitler) che parlano a noi, o siamo noi che parliamo a e di loro?
Siamo al problema del fondamento. Al "monismo" essenzialista - fatti e valori sono tutt’uno - sioppone la separazione "dualista": ciò che è non è detto che debba o non debba essere. Un muro separa i fatti dai valori: gli uni non "convertuntur" affatto negli altri. Riconsideriamo l’esempio estremo di Hitler. Ora (e, purtroppo, nemmeno da tutti) si ritiene sia stato uno dei massimi flagelli dell’umanità, ma non allora. C’era chi lo riteneva un nuovo messia, perfino tra gli uomini di chiesa. Per milioni di persone, in Germania e altrove, era il salvatore della civiltà europea contro la barbarie asiatica, impersonata dal comunismo sovietico. In nome del "valore" superiore della civiltà occidentale, si è stati perfino disposti a chiudere gli occhi davanti alla shoah: evidentemente, la difesa della vita degli ebrei si riteneva un non-valore, o un valore minore, di fronte ad altri valori, come il capitalismo o la religione cristiana.
C’era un valore assoluto, obiettivo, e, se sì, qual era? No, non c’era. C’era invece una lotta mortale tra valori soggettivi e relativi, con le rispettive armate schierate su fronti opposti. Noi sappiamo, ora, come sarebbe stato giusto, buono, vero, e bello schierarsi. Ma, come osservatori, dobbiamo ammettere che entrambe le parti, allora, ritenevano di combattere la buona battaglia e che ciascuna delle due vedeva incorporate nelle armi dell’altra il male, e nelle proprie il bene.
Dunque, è più probabile che la condizione esistenziale degli esseri umani non sia quella assunta da De Monticelli. Per lei, il valore delle cose, positivo o negativo, si manifesta nella loro esistenza. Dunque la precede. Per chi non pensa metafisicamente, invece, è l’esistenza che precede i valori. Il che è come dire ch’essi non sono dati ma sono i viventi a doverli dare; vengono dalla nostra libertà e responsabilità e non li troveremo fuori, ma in noi.
Sappiamo che entrambe le posizioni, monismo e dualismo, sono aperte a grandi rischi. Non sono quindi i rischi, gli argomenti per propendere per l’uno o per l’altro. La metafisica dei valori espone al dogmatismo, quando la loro gestione finisca, come è possibile, nelle mani di autorità etiche: stato, partito-chiesa, chiesa. L’anti-metafisica espone all’indifferenza o al soggettivismo estremo e distruttivo, quando prevale l’idea che le questioni di valore non abbiano senso o siano affari da gestire ciascuno per sé.
Piuttosto, riprendendo l’interrogativo iniziale, che è quello davvero importante per il vivere comune, possiamo dire che, quali che siano le opinioni circa il fondamento, sui contenuti si può perfettamente convenire. Gli uni riterranno di andar scoprendo valori; gli altri, di andar creandoli. Da punti di partenza diversi si può giungere alla medesima meta e, cosa consolante, si può, anzi si deve, operare insieme. A condizione di isolare le ali estreme: i dogmatici e i nichilisti. Per riprendere il titolo del libro di De Monticelli: a queste condizioni, far buon uso della comune indignazione è possibile.
La Costituzione, unica bussola
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21.11.2011)
Avevano un suono diverso le parole pronunciate dal presidente del Consiglio e dai ministri del nuovo governo nel momento in cui giuravano di osservare "lealmente" Costituzione e leggi e di esercitare le loro funzioni nell’interesse "esclusivo" della Nazione. La formula apparentemente burocratica del giuramento rivelava un’assenza: la mancanza negli ultimi anni d’ogni lealtà governativa verso una Costituzione continuamente dileggiata e aggredita, l’abbandono dall’interesse esclusivo della Nazione a vantaggio di una folla di interessi privati e persino inconfessabili. Quelle parole scomparse e tradite sono ritornate nel momento in cui davanti al nuovo governo non è soltanto il compito assai difficile di affrontare i temi dell’economia riprendendo pure il cammino dell’equità e dell’eguaglianza, senza le quali la coesione sociale è perduta. L’insistita sottolineatura del nuovo stile di Mario Monti all’insegna di "sobrietà" e "serietà" non riguarda, infatti, segni esteriori. Ricorda un altro compito, forse persino più difficile e certamente bisognoso di molto impegno e di molto tempo, quello di far uscire il nostro Paese dalla regressione culturale e civile nella quale è sprofondato.
È questione che non si affida tanto a provvedimenti formali. Accontentiamoci, per il momento, d’una prima, non indifferente certezza. Il sapere che non vi saranno ministri della Repubblica che, di fronte alla domanda di un giornalista o di un cittadino, leveranno in alto il dito medio o risponderanno con una pernacchia (non il nobile e difficile "pernacchio" di Eduardo). Rispetto e lealtà non sono dovuti soltanto a Costituzione e leggi, ma a tutti coloro che nel mondo reale incarnano valori e principi che lì sono iscritti. In questi anni abbiamo assistito proprio al rifiuto dell’"altro", l’avversario politico o l’immigrato, lo zingaro o la persona omosessuale. L’indegna gazzarra scatenata alla Camera dai deputati della Lega contro la civilissima richiesta di avviare il riconoscimento degli immigrati come cittadini, e non come merce usa e getta, è stata la conferma evidente della difficoltà di invertire una tendenza che, mai contrastata efficacemente per convenienza politica e debolezza culturale, ha terribilmente inquinato l’ambiente civile.
Sarà la minuta sequenza degli atti concreti a dare sostanza all’abbandono di un perverso costume. Al governo spettano nomine importanti, sottosegretari e Rai per cominciare. Il rispetto della Costituzione, inoltre, muove dal rispetto degli istituti che la innervano, a cominciare dal referendum che ha ridato ai cittadini la possibilità di far sentire la loro voce, spenta da una legge elettorale indegna e venata da incostituzionalità. Proprio dal voto sui referendum di giugno vengono tre indicazioni che il governo non può in alcun modo eludere: il no al nucleare (lo ricordi qualche ministro che non deve avere bene appreso la lezione di sobrietà e umiltà invocata dal presidente del Consiglio); il rifiuto di ogni legislazione attributiva di privilegi; il nuovo ruolo attribuito ai beni comuni, all’acqua direttamente (non si segua il cattivo esempio delle furbizie nelle quali il governo precedente si stava esercitando). Se il governo vuole conservare la fiducia manifestata da una larga parte dell’opinione pubblica, e cercar di recuperare critici e scettici, deve essere consapevole che proprio questi sono i casi in cui massima dev’essere la sua lealtà verso la Costituzione. È bene aggiungere che, considerando i vari movimenti e indignati che occupano le piazze del mondo, in Italia il risveglio civile non solo si era manifestato prima che in altri Paesi, ma aveva trovato un fiducioso incontro con le istituzioni tramite i referendum. Sarebbe un grave errore politico mettere questa vicenda tra parentesi, poiché proprio da lì è cominciato quel rinnovamento che ha trovato nel governo Monti un suo approdo, sia pure controverso.
Come tutto questo incrocerà i sentieri parlamentari è questione tra le più aperte. A proposito della quale, tuttavia, è bene insistere su una banale verità, del tutto travisata da chi, gridando alla fine della democrazia, ha lamentato un ruolo marginale del Parlamento in una crisi tutta gestita tra presidente della Repubblica e presidente del Consiglio incaricato. Ma abbiamo già dimenticato o cancellato il fatto istituzionale più clamoroso di questi ultimi anni, appunto la scomparsa del Parlamento, dileggiato da Silvio Berlusconi come luogo di inutili e incomprensibili lungaggini, espropriato d’ogni potere dai voti di fiducia e dai maxiemendamenti blindati, ridotto a mercato quando v’erano da reclutare truppe mercenarie, rattrappito nei suoi lavori in un paio di giorni a settimana, addirittura chiuso per mancanza di questioni rilevanti da mettere all’ordine del giorno? Uno degli esiti, o paradossi, di questa crisi sta proprio nell’aver rimesso al centro dell’attenzione pubblica e della politica proprio il Parlamento, ricordando così, come molte volte aveva già fatto il presidente della Repubblica, che la nostra rimane una Repubblica parlamentare ed è lì che i governi ricevono investitura e legittimità.
Sul rapporto tra governo e Parlamento si è insistito molto in questi giorni, discutendo soprattutto della possibilità che qualcuno voglia prima o poi "staccare la spina", di possibili maggioranze variabili nell’approvare singoli provvedimenti. Ma vi è un altro aspetto del problema, particolarmente rilevante nella prospettiva ricordata all’inizio della "bonifica" politica e civile del nostro sistema istituzionale e della nostra società. Qualcuno, nel dibattito parlamentare, ha avuto l’impudenza di invocare la ripresa del cammino parlamentare del disegno di legge sulle intercettazioni. Qualcun altro ha adombrato i temi della difesa della vita, con un trasparente richiamo al disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico) attualmente in discussione al Senato, e dopo che s’era verificato il grave episodio di un governo che, in articulo mortis, aveva diffuso le nuove linee guida in materia di procreazione assistita. L’insistenza su questi temi rivela un intento strumentale, volto anche a creare frizioni parlamentari che possono insidiare la tenuta del governo. Ma, se appare davvero improbabile un rinnovato assalto a favore di una legge bavaglio, più serie preoccupazioni destano i temi legati alla bioetica e al biodiritto.
Per proteggere il governo, non si tratta di invocare una "tregua etica" o rivendicare l’autonomia del Parlamento in materie non comprese nel programma governativo, magari facendosi forti di qualche improvvida dichiarazione che ha associato la costituzione di questo governo con il "ritorno" dei cattolici in politica. Se alla lealtà verso la Costituzione dobbiamo continuare a rifarci, è appunto il percorso costituzionale che deve essere rigorosamente seguito tanto dal governo che dal Parlamento. E questo significa mettere da parte il testo sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, grondante di incostituzionalità, sgrammaticature e difficoltà applicative in ogni suo articolo. Significa riprendere il cammino verso una seria disciplina delle unioni di fatto, comprese quelle tra persone omosessuali, alle quali la Corte costituzionale ha riconosciuto un "diritto fondamentale" al riconoscimento giuridico della loro condizione, indicazione finora del tutto disattesa dal Parlamento. Significa riportare a ragione e Costituzione la materia della procreazione assistita.
Per non rimanere prigionieri dell’emergenza che ha segnato la nascita di questo governo, e per sfuggire alle perversioni che questa può produrre, bisogna imboccare senza esitazioni la via di una politica che sia tutta politica "costituzionale".
È ora di ricucire l’Italia
di Gustavo Zagrebelsky (il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2011)
L’anno dell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia rischia di concludersi così. Così, come? Con una frattura profonda. Sempre più e rapidamente, una parte crescente del popolo italiano si allontana da coloro che, in questo momento, sono chiamati a rappresentarlo e governarlo. I segni del distacco sono inequivocabili, per ora e per fortuna tutti entro i limiti della legalità: elezioni amministrative che premiano candidati subìti dai giri consolidati della politica; referendum vinti, stravinti e da vincere nell’ostilità, nell’indifferenza o nell’ambiguità dei maggiori partiti; movimenti, associazioni, mobilitazioni spontanee espressione di passioni politiche e di esigenze di rinnovamento che chiedono rappresentanza contro l’immobilismo della politica.
IL DILEMMA è se alla frattura debbano subentrare la frustrazione, l’indifferenza, lo sterile dileggio, o l’insofferenza e la reazione violenta, com’è facile che avvenga in assenza di sbocchi; oppure, com’è più difficile ma necessario, se il bisogno di partecipazione e rappresentanza politica riesca a farsi largo nelle strutture sclerotizzate della politica del nostro Paese, bloccato da poteri autoreferenziali la cui ragion d’essere è il potere per il potere, spesso conquistato, mantenuto e accresciuto al limite o oltre il limite della legalità.
Si dice: il Governo ha pur tuttavia la fiducia del Parlamento e questo, intanto, basta ad assicurare la legalità democratica. Ma oggi avvertiamo che c’è una fiducia più profonda che deve essere ripristinata, la fiducia dei cittadini in un Parlamento in cui possano riconoscersi. Un Parlamento che, di fronte a fatti sotto ogni punto di vista ingiustificabili, alla manifesta incapacità di condurre il Paese in spirito di concordia fuori della presente crisi economica e sociale, al discredito dell’Italia presso le altre nazioni, non revoca la fiducia a questo governo, mentre il Paese è in subbuglio e in sofferenza nelle sue parti più deboli, non è forse esso stesso la prova che il rapporto di rappresentanza si è spezzato? Chi ci governa e chi lo sostiene, così sostenendo anche se stesso, vive ormai in un mondo lontano, anzi in un mondo alla rovescia rispetto a quello che dovrebbe rappresentare.
NOI PROVIAMO scandalo per ciò che traspare dalle stanze del governo. Ma non è questo, forse, il peggio. Ci pare anche più gravemente offensivo del comune sentimento del pudore politico un Parlamento che, in maggioranza, continua a sostenerlo, al di là d’ogni dignità personale dei suoi membri che, per “non mollare” - come dicono -, sono disposti ad accecarsi di fronte alla lampante verità dei fatti e, con il voto, a trasformare il vero in falso e il falso in vero, e così non esitano a compromettere nel discredito, oltre a se stessi, anche le istituzioni parlamentari e, con esse, la stessa democrazia. Sono, queste, parole che non avremmo voluto né pensare né dire. Ma non dobbiamo tacerle, consapevoli della gravità di ciò che diciamo. Il nodo da sciogliere per ricomporre la frattura tra il Paese e le sue istituzioni politiche non riguarda solo il Governo e il Presidente del Consiglio, ma anche il Parlamento, che deve essere ciò per cui esiste, il luogo prezioso e insostituibile della rappresentanza. Dov’è la prudenza? In chi assiste passivamente, aspettando chissà quale deus ex machina e assistendo al degrado come se fossimo nella normalità democratica, oppure in chi, a tutti i livelli, nell’esercizio delle proprie funzioni e nell’adempimento delle proprie responsabilità, dentro e fuori le istituzioni, dentro e fuori i partiti, opera nell’unico modo che la democrazia prevede per sciogliere il nodo che la stringe: ridare al più presto la parola ai cittadini, affinché si esprimano in una leale competizione politica.
NON PER realizzare rivincite, ma per guardare più lontano, cioè a un Parlamento della Nazione, capace di discutere e dividersi ma anche di concordare e unirsi al di sopra d’interessi di persone, fazioni, giri di potere. Dunque, prima di tutto, ci si dia un onesto sistema elettorale, diverso da quello attuale, fatto apposta per ingannare gli elettori, facendoli credere sovrani, mentre sonosudditi. Le celebrazioni dei 150 anni di unità hanno visto una straordinaria partecipazione popolare, che certamente ha assunto il significato dell’orgogliosa rivendicazione d’appartenenza a una società che vuole preservare la sua unità e la sua democrazia, secondo la Costituzione.
Interrogandoci sui due cardini della vita costituzionale, la libertà e l’uguaglianza, nella nostra scuola di Poppi in Casentino, nel luogo dantesco da cui si è levata 700 anni fa la maledizione contro le corti e i cortigiani che tenevano l’Italia in scacco, nel servaggio, nella viltà e nell’opportunismo, Libertà e Giustizia è stata condotta dalla pesantezza delle cose che avvolgono e paralizzano oggi il nostro Paese a proporsi per il prossimo avvenire una nuova mobilitazione delle proprie forze insieme a quelle di tutti coloro - singole persone, associazioni, movimenti, sindacati, esponenti di partiti - che avvertono la necessità di ri-nobilitare la politica e ristabilire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e in coloro che le impersonano. Che vogliono cambiare pagina per ricucire il nostro Paese.
Zagrebelsky e C.
Non date la colpa al Papa
di Lucia Ceci (il Fatto/Saturno, 8.7.11)
LA FINE DI UNA stagione si consuma sempre con una resa dei conti: chi è stato responsabile di cosa. Negli italici confini del secolo breve è capitato almeno tre volte: Caporetto, 8 settembre, tangentopoli. Il redde rationem investe le persone, i fatti, le cose. Ma gli intellettuali sono interessati anche ad altro: le cause. Accade dunque, nel crepuscolo del berlusconismo, che i professionisti dell’analisi di lungo periodo si adoperino per individuare il vizio d’origine di tanto sfa-celo. E poiché la scena, con le notti di Arcore, si consuma su un terreno etico in cui il privato si mesce col pubblico e ha il volto seducente e da tutti decifrabile di una prostituta minorenne, appare naturale chiamare in causa l’azionista di maggioranza dell’ethos pubblico italiano: la Chiesa cattolica.
In questi mesi di crisi torna a riaffacciarsi il teorema che evoca la presenza del papato nel territorio nazionale quale forza fiaccatrice degli anticorpi civili : dal fascismo a Scilipoti, passando per l’evasione fiscale, la corruzione, il bunga-bunga. Così, più che in altri momenti, ci troviamo a imparare da Ezio Mauro come, nello sfacelo delle istituzioni democratiche, la «riconquista» dei vescovi sia «quasi un Dio italiano che cammina, una sorta di via italiana al cattolicesimo».
E contemporaneamente ci imbattiamo nel dito di Gustavo Zagrebelsky, puntato contro «l’enorme concentrazione di potere mondano» di cui la Chiesa dispone. E nei suoi profetici richiami perché essa si purifichi dai beni della terra e dal potere sulla terra. Pena la salvezza della laicità e, dunque, della democrazia. Una Chiesa di santi. Una laicità senza se e senza ma.
Eppure non si può mettere sulle spalle di Pietro il peso dei guasti della democrazia in Italia. Ora è vero che la gerarchia cattolica ha rinunciato da troppo tempo a parlare di Dio. E sente piuttosto il dovere di intervenire su temi lontani dalle Sacre Scritture e dalle vite concrete delle donne e degli uomini. Che vuole raggiungere direttamente il legislatore nelle pieghe di un tessuto politico fragile e gregario. Ma non si può ignorare che l’essere cattolici si riduce all’esser stati battezzati, che i vescovi orientano sempre meno le menti, le scelte morali, le decisioni elettorali degli italiani. La longa manus della Chiesa (così la chiamano Mauro e Zagrebelsky) riesce solo a muovere un ceto politico impegnato nella spartizione di prebende, il cui cinismo resiste ai colpi di ogni indignazione.
Da parte mia mi sottrarrei volentieri al compito di individuare il germe che fornisce la cifra specifica del deficit di etica pubblica nell’Italia di oggi. Perché non sono capace di fare un ragionamento semplificato. Avrei bisogno di tirare in ballo crisi del sistema dei partiti, mutamenti di assetti internazionali, tradizioni civiche, culture politiche, guelfi e ghibellini. E il ragionamento sarebbe meno incalzante. Una cosa però la voglio dire.
Se proprio non posso sottrarmi alla semplificazione tirerei in ballo il tradimento delle élites democratiche e delle forze politiche che dal 1994 in avanti le hanno rappresentate. Perché in 17 anni di berlusconismo hanno guidato il Paese per 101 mesi, cioè 8 anni e mezzo, se mettiamo insieme i governi Dini, Prodi, D’Alema, Amato. Perché il loro narcisismo etico - per usare una categoria centrale nell’ultimo libro di Franco Cassano, L’umiltà del male - il loro atteggiamento di superiorità morale le ha rese incapaci di una mobilitazione in grado di innervare la politica.
Se il Grande Inquisitore è riuscito ad avvelenare i pozzi non è solo per la sua potenza, ma anche perché il campo gli è stato lasciato libero dalla presunzione di quelli che Dostojevski nella sua Leggenda chiama i dodicimila santi.
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
L’anticipazione/ Un brano dell’intervento di Zagrebelsky alla Biennale Democrazia sul potere "diabolico" di alcuni segni
Un blocco di potere economico e politico senza valori caratterizza la nostra epoca
Il senso delle istituzioni è ormai diventato un ferrovecchio di cui fare a meno
I padroni dei simboli
Così parole e immagini diventano propaganda
Anticipiamo una parte dell’intervento che terrà giovedì alla Biennale Democrazia
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 12.04.2011)
Secondo una classica visione della struttura delle nostre società, esse sono costruite su tre funzioni, riguardanti rispettivamente la politica, l’economia e la simbologia. Queste funzioni conformano rispettivamente le volontà, le necessità e le mentalità. Quale di queste tre funzioni sia più importante, sarebbe difficile dire. Forse nessuna, il che è quanto dire che tutte e tre sono ugualmente necessarie.
Non abbiamo nozione di alcun gruppo di individui costituiti in società senza un potere politico, senza un’attività rivolta alla provvista dei beni materiali, senza una funzione destinata al nutrimento delle menti. Se tutte e tre le funzioni sono necessarie, quella simbolica è però l’unica che dia un senso, un significato d’insieme alle altre due, che ci dica perché stiamo e vogliamo stare insieme.
La teoria dice che nelle società bene organizzate, cioè equilibrate, le tre funzioni sono reciprocamente indipendenti; una sorta di tripartizione dei poteri sociali. La storia ci dice invece che, essendo in questione il potere, ciascuna delle tre tende a imporsi sulle altre due e ad asservirle. Si potrebbe tratteggiare la storia delle nostre società come un continuo spostamento del baricentro da uno all’altro, all’altro ancora e così distinguerle a seconda del predominio del "politico", dell’"economico" o del "simbolico". Il potere simbolico, tuttavia, di tutti è il più sottile e pervasivo, ma fra tutti il più debole. Non ha dalla sua né la forza fisica, né quella dei bisogni materiali ed è perciò sempre stato il terreno più esposto alla capitolazione. Di una relativa, anche se sempre contestata, autonomia ha goduto nel periodo medievale, quando era monopolizzato dalla Chiesa e dai suoi ministri, forti d’una certificazione divina. La Chiesa è stata effettivamente, allora, una formidabile fucina di simboli politici, avendo di fronte a sé un potere civile fragile e bisognoso di sostegno e l’economia curtense non rappresentando un centro di potere competitivo. Ma questo monopolio è venuto meno da quando la cosiddetta secolarizzazione delle società ne ha rotto la compattezza, aprendo a visioni del mondo d’altra matrice, orientate al regno di quaggiù dove vige non il dogma unico ma la pluralità delle opinioni. Nel regno di quaggiù, poi, la funzione simbolica si è trovata a fare i conti, con sproporzione di mezzi, con la politica, che dispone dello Stato e dei suoi poteri coercitivi, e con l’economia basata sulla concentrazione di capitali immensi, capaci di tutto condizionare, se non comperare.
Chi sono dunque i padroni del mondo simbolico nel quale oggi viviamo? Se ci chiediamo chi muove le parole, le immagini, le cose che esprimono simbolicamente i valori, le aspirazioni, in genere le idee che plasmano le nostre società, andremmo probabilmente a cercarli in quel blocco di potere economico e politico chiamato lobbicrazia, che caratterizza in senso ormai sempre più chiaramente nichilistico la nostra epoca. Un’epoca definita come quella del "finanzcapitalismo" e del "grande saccheggio", del valore estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi. È in quella compenetrazione d’interessi che nasce la commissione di schemi di pensiero, valori e modelli di comportamento, alla quale rispondono centri di ricerca, accademie, think-tanks, "opinionisti" ai quali la visibilità e il successo sono assicurati dalla misura della loro consonanza. L’influenza sul pubblico è poi assicurata dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e omologanti.
La funzione simbolica diventa così una funzione passiva e servente. I simboli, strumentalizzati, imbrogliano circa il loro senso. Promettono il bene di chi li consuma e invece promuovono il bene di chi li produce. Si traducono in propaganda e in pubblicità. Il loro ideale è la società come superficie tutta liscia su cui scorrere liberamente. Se increspature all’omologazione vi sono, riguardano il folklore o l’arte d’avanguardia; l’uno a benefizio dei molto semplici, l’altra a beneficio dei molto raffinati. Ma non sono loro, quelli decisivi per i padroni dei simboli: è la massa quella che conta.
Il simbolo è un terzo tra due persone; in ogni caso è un segno riconosciuto dalle parti in causa che, essendo comune, non è proprio di nessuna di essa. Ciò che è di tutti, in certo senso, non è di nessuno in particolare. Il simbolo non si appiattisce e nessuno vi si può confondere. Solo così può svolgere i suoi compiti di unificazione, diffusione di fiducia, promozione di lealtà e di sentimento d’appartenenza. Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura. Allora, può diventare strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate, può diventare il diapason del potere totalitario.
Lo strumento del demagogo opera la più ardita delle identificazioni politiche: il popolo nel suo capo e il capo nel suo popolo. Il capo è organo del popolo e il popolo è organo del capo. Sono la stessa cosa. In questa identificazione, viene a mancare lo spazio per simboli "terzi" perché il capo stesso è il simbolo: il segno di tutti valori, le aspettative, le speranze convergenti del suo popolo.
Napoleone, Franco, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Castro, i nord-coreani Kim Jong-il e Kim il-Sung e, esemplarmente, l’orwelliano Grande Fratello rappresentano le figure moderne di questo genere d’identificazione. Essi stessi, nella loro corporeità, vera o fittizia, si sono proposti immediatamente come simboli politici, cioè come fattori unificanti, e così hanno fagocitato le istituzioni e le leggi, cioè quegli strumenti della convivenza che gli uomini si sono dati, costruendole su simboli "terzi". Sono soverchiate dagli uomini del potere che esibiscono il loro volto, la loro voce, le loro fattezze, mille volte riprodotti, ritrasmessi, amplificati. Si sono cioè trasformati essi stessi, direttamente, in istituzione e legge.
Il simbolo si confonde col corpo e viceversa. Così, tutte le distinzioni che vengono da una lunga storia del diritto pubblico tra persona privata e carica pubblica svaniscono. Le regole sono "impicci", le costituzioni "gabbie", la legalità angheria Il "senso delle istituzioni", che distingue l’etica pubblica dalla morale privata, diventa un ferrovecchio su cui si può ironizzare. Le dimore personali sono equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi sono interscambiabili. La fortune private sono intoccabili come se fossero pubbliche e quelle pubbliche sono disponibili come se fossero private. Queste e altre confusioni si giustificano non come privilegio del capo, ma come diritto del popolo, tanto più in quanto il primo sia stato eletto dal secondo e l’elezione sia concepita come investitura salvifica. Tutto deriva infatti dall’identificazione simbolica del capo con il popolo e del popolo con il capo. L’arbitrio del capo, simbolicamente, non è più tale, ma diventa l’onnipotenza del popolo, che può esibirsi come la forma più pura di democrazia.
Questa versione del simbolo, però, è la sua estrema corruzione diabolica. Potremmo dire è il Lucifero dei diaboli. Infatti, si traduce nell’esaltazione del potere personificato, che è l’esatto contrario di ciò che ci attendiamo dai simboli politici: essere fattore d’unificazione "terzo", cioè impersonale, cioè nemico d’ogni demagogia Si traduce, infine, in un rischio mortale per la società stessa. La scomparsa della persona fisica, coincide con la fine del simbolo, cioè di ciò senza cui essa non sta insieme. La dissoluzione del corpo fisico del capo finisce così per coincidere con la dissoluzione del corpo sociale, cioè con instabilità, disordini, lotte fratricide. Ecco il prezzo che pagano i popoli quando si mettono nelle mani di qualcuno dicendogli: vai, noi ci riconosciamo in te, perché tu ti riconosci in noi.
Il potere sottosopra
Nei 150 anni dell’unità d’Italia, Torino si conferma centro del pensiero politico: dal 13 al 17 aprile, affronterà con "Tutti. Molti. Pochi", il problema delle oligarchie. Ovvero, quando il normale sistema democratico si capovolge a favore di un’élite
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 05.04.2011)
Biennale Democrazia è un luogo di discussione civile per la formazione di un’opinione pubblica consapevole. È un laboratorio pubblico permanente, articolato in una serie di momenti preparatori e di tappe intermedie (laboratori per le scuole, iniziative destinate ai giovani, seminari di discussione) che culminano, ogni due anni, in cinque giorni di appuntamenti pubblici: lezioni, dibattiti, letture, forum internazionali e momenti diversi di coinvolgimento attivo della cittadinanza.
In questa seconda edizione di Biennale Democrazia, intitolata Tutti. Molti. Pochi, l’attenzione si ferma in modo particolare sulle derive oligarchiche che minacciano le democrazie contemporanee, nella sfera economica, in quella culturale e in quella politica. La presenza di élite o classi dirigenti capaci di assumere su di sé responsabilità pubbliche e onori corrispondenti è, entro certi limiti, un fenomeno fisiologico delle democrazie. Patologica è invece la concentrazione oligarchica del potere in circoli sempre più ristretti, sempre più potenti, sempre più impermeabili alle domande e al controllo dei cittadini.
Una discussione pubblica su questi temi ha un significato particolare in una fase storica nella quale l’interruzione dei canali di dialogo tra i cittadini e i decisori pubblici determina nel nord Africa la reazione delle popolazioni e si accompagna, anche nel ricco Occidente, a povertà e diseguaglianze crescenti, a insicurezza sociale, a una generalizzata incapacità di dare forma al futuro.
In cinque giorni di lezioni e dibattiti con la partecipazione attiva dei cittadini, Biennale Democrazia sottopone ad analisi i grandi fenomeni contemporanei che danno corpo al "potere dei pochi" a danno dei molti: l’economia finanziarizzata, che sembra aver scaricato sulla società il peso della propria incapacità di regolarsi autonomamente, la contrazione delle garanzie nel mondo del lavoro, il rapporto strumentale dell’uomo con l’ambiente, l’autoreferenzialità crescente nel ceto politico.
Nelle lezioni e nei numerosi momenti di discussione con i cittadini non si guarda però a questi fenomeni come a problemi insolubili, ma come a sfide aperte per le democrazie contemporanee che, qui e ora, chiedono nuove risposte, e a volte le trovano. Nell’impegno sociale per uno sviluppo sostenibile, per un diverso rapporto tra i sessi e tra le generazioni o, ancora, nei movimenti di reazione all’ingiustizia sociale diffusi sulla Rete e, più in generale, in quell’assunzione di responsabilità da parte dei giovani e dei cittadini che Biennale Democrazia si è data il compito di promuovere.
La verità mediatica
di Carlo Galli (la Repubblica, 27 gennaio 2011)
La politica non è lo spazio né della Verità né della Menzogna. Non deve ospitare un Assoluto da custodire a ogni costo, né un Vuoto radicale di senso, in cui tutto è possibile; né un Bene né un Male. Perché spesso l’uno si rovescia nell’altro.
Un’illustre tradizione che, in età moderna, nasce in parte da Machiavelli e dalla Ragion di Stato, collega la politica al Male e teorizza anche la liceità, per il potente, di mentire; il potere politico è segreto, le sue vie e le sue ragioni sono nascoste al popolo, a cui la vera finalità dell’agire politico - la potenza - non va rivelata; anzi, la si deve schermare, dissimulare, rappresentare falsamente come fosse orientata al Bene. Il potere è opaco, e tale deve rimanere; non può essere indagato né criticato, perché trascende la comprensione della gente comune, dei cittadini.
La modernità politica si è affermata attraverso la lotta illuministica contro gli arcana imperii, contro il combinarsi di segreto, dissimulazione, menzogna, a cui ha opposto la luce della ragione pubblica, capace di indagare e rischiarare quelle tenebre. E ciò è avvenuto in nome della Libertà; che è anche la libertà dei cittadini di non essere ingannati dal potere, e di vivere in uno spazio politico trasparente, pubblico e condiviso.
Ciò non significa che la menzogna non abiti la politica moderna. E non solo perché spesso i politici mentono; ma per il motivo più radicale che anche la politica moderna si è creduta portatrice di Verità - di una Verità di liberazione contro l’antica oppressione - , e che in nome delle sue certezze assolute si è sentita legittimata a ogni comportamento - la menzogna, ma anche ben di più - per difenderle e affermarle: la spietatezza dei totalitarismi novecenteschi ne è testimonianza. Ma anche senza entrare negli inferni totalitari - in cui Verità e Menzogna si rovesciano continuamente l’una nell’altra - la menzogna ha contagiato perfino le democrazie: la politica moderna ha un nucleo di segreto - la difesa dello Stato, la sua potenza - a cui, nonostante sia in contraddizione con la democrazia, non sa rinunciare, anche a costo della menzogna di Stato, della falsa rappresentazione del reale. Lo si è visto nel contesto imperiale degli Usa - che dal Vietnam all’Iraq hanno mentito per giustificare le loro guerre - e anche nel più modesto spazio italiano, in cui la politica degli omissis rispondeva alla medesima logica di salvaguardia, attraverso la menzogna, del presunto Bene superiore dello Stato. La tragedia della politica sta proprio qui: nella dialettica fra segreto del potere e libertà dei cittadini.
L’età contemporanea ci mostra che la Menzogna si sposa alla politica anche nel fabbricare mediaticamente un mondo di favola e nell’elargirlo a platee di cittadini ridotti a spettatori, che non possono esercitare il diritto di critica, di fare domande, di avere risposte; è Menzogna anche l’illusionismo che trasforma il discorso pubblico in una fiction.
Ma oggi la cronaca ci rivela un nuovo rapporto fra politica e menzogna; quello delle bugie private, a proposito di reprensibili comportamenti personali, che assumono rilevanza politica proprio perché la politica è stata identificata con un uomo, un corpo, una vicenda personale. Questa privatizzazione della Menzogna, con effetti pubblici, unisce al tragico il farsesco; ma viola ugualmente l’unica Verità a cui la politica democratica possa aspirare: quella che nasce in una comunità politica dal libero confronto di cittadini liberi dall’inganno e dalla manipolazione.
di Carlo Galli (la Repubblica, 24.01.2011)
Perché "vergogna" è la prima reazione al nuovo scandalo Berlusconi? Vergogna di chi, di che cosa? Provare a rispondere a queste domande - tentativo doveroso, perché interpellano radicalmente la nostra coscienza civile e morale - ci porta alla radice dell’apparato categoriale della moderna politica democratica. In questo caso vergogna è il sentimento di umiliazione che nasce nei cittadini per alcuni comportamenti - non necessariamente per i reati, che devono ancora esser provati - del capo del governo.
I cittadini (alcuni, forse non tutti: ma questo è un diverso lato della questione) si sentono umiliati per fatti che non li riguardano direttamente e che nondimeno li toccano da vicino, intimamente. Quei comportamenti hanno a che fare con l’umiliazione di donne giovani e avvenenti (anche in questo caso, lasciamo impregiudicata la questione del reato specifico che si configurerebbe se fra di esse fosse stata coinvolta una minorenne), sistematicamente utilizzate, col loro consenso, come figuranti lascive in quadretti erotici, in tableaux vivants da Antico regime o da belle époque per quanto riguarda i riferimenti storici, ma soprattutto a favolosi e remoti (almeno si supponeva) sultanati orientali. E hanno a che fare anche con l’umiliazione di chi le umilia, di chi utilizzandole come giocattoli animati ne nega la qualità di persone, di chi abbassandole si abbassa.
Nell’umiliazione di quelle donne, e simultaneamente del loro padrone, vediamo in realtà umiliati i due beni più preziosi che la modernità politica - quella che ancora ci parla attraverso la Costituzione - ci ha consegnato: l’uguale dignità delle persone, di tutte; e la configurazione e la destinazione umanistica del potere, di ogni potere. Come il potere giudiziario non può comminare punizioni crudeli e inusuali, come il potere economico non può ridurre in schiavitù i più deboli, così il potere politico non può utilizzare le persone, divertirsi a consumarne corpi e anime.
Si dirà - è stato detto - che la prostituzione è sempre esistita, e che un po’ d’allegria non guasta; che, soprattutto atti sessuali fra adulti consenzienti, consumati nel privato - a prescindere da eventuali reati -, non devono interessare nessuno. E che il potere politico non c’entra nulla.
E invece - una volta resi pubblici perché la magistratura ha legittimamente indagato a partire da notizie di reato - quegli atti interessano e umiliano, non tanto per umana empatia, né per fame di gossip, ma perché sono intrinsecamente politici. Perché coinvolgono tutti e ciascuno; perché ferendo alcuni feriscono la dignità uguale e comune dei cittadini; perché trascinano tutti nella stessa vergogna; perché quello spettacolo ha noi tutti come destinatari, parla a noi e parla di noi - e anche perché si riflette, come un gioco di specchi, in mille stanze del potere, in mille alcove, al centro e alla periferia del Paese - . Ciò è tanto più vero nel caso di Berlusconi - che ha fatto di sé, del proprio corpo e della propria ricchezza personale, l’icona e il simbolo della politica, facendo coincidere il Tutto, l’Italia, con se stesso e con la propria privata dismisura -; ma sarebbe vero in generale per ogni primo ministro, presidente di partito e parlamentare (che rappresenta tutta la nazione) che si comportasse allo stesso modo.
È l’immagine universale dell’uomo (e della donna) a essere in gioco; e, insieme, l’immagine del potere politico, della forza che regola il nostro vivere civile. Se il portatore di quella forza è capace di umiliare, di non vedere l’umanità delle persone, di non relazionarsi agli altri con il doveroso rispetto - non importa se nel pubblico o nel privato, orizzonti e dimensioni che in determinate posizioni di potere sfumano l’uno nell’altro -, siamo umiliati tutti. Siamo in pericolo tutti.
La coscienza letteraria potrebbe vedere nell’intera vicenda la topica del Drago e delle fanciulle; la coscienza religiosa potrebbe scorgervi il volto benevolo e il potere corruttore dell’Anticristo; la coscienza di classe potrebbe individuarvi la potenza onnivora - veramente biopolitica - del capitale su corpi e menti reificate; la coscienza femminile potrebbe riconoscervi la quintessenza del potere maschile diffuso in tutta la società, che si concentra in una sola persona e nelle sue pratiche di dominio; la coscienza cinica potrebbe leggervi l’eterna storia del sesso e del potere, e chiedersi chi sottomette chi, se l’uomo le donne o le donne l’uomo - e concludere che non vi è nulla di straordinario o di allarmante nell’intera vicenda -. La coscienza civile, la coscienza moderna, si avvede - dopo lo sbalordimento iniziale - che una soglia è stata superata, e paventa in quella servitù volontaria, e in chi la incoraggia e la sollecita (e in chi, servizievole, la organizza), la negazione stessa, in radice, della democrazia. E spera che l’Italia si interroghi presto su se stessa e sulla propria sorte.
Le parole che ingannano
Nel libro di Zagrebelsky il tema della lingua di oggi le sue compiacenze e la sua bruttezza rivelatrice
Vi domina il lessico di Berlusconi e dei suoi media
di Goffredo Fofi (l’Unità, 05.12.2010)
Da un vecchio film di Moretti, una domanda venne molto citata anche da chi non si distingueva molto da colei cui l’attore la rivolgeva, una giornalista clonata e imbecille (specie non rara, e rigorosamente bisex): “ma come parli?” In Roma di Fellini, una paciosa bellona in trattoria citava una frase portatrice di una saggezza molto più antica: “come che magni, cachi”. Potremmo allargare e dire che c’è un rapporto diretto tra ciò che si mangia e come si parla. Ma il mangiare è anche una metafora: se ci nutriamo, per esempio, di linguaggio televisivo, non possiamo che riproporlo, giorno per giorno, nella nostra quotidianità, e poi “espellerlo”, però non “liberandocene” e invece inquinando l’ambiente - i bambini, per esempio, in quel gioco ignobile di corruzione dei nuovi nati di cui gli adulti di oggi criminalmente si compiacciono.
Vorrei segnalare un aureo librino, piuttosto un articolo lungo presentato come libro (otto euro sono troppe per il numero di battute ma non per la qualità del testo, e del prezzo è responsabile l’editore e non l’autore), Sulla lingua del tempo presente (Einaudi). Lo ha scritto Gustavo Zagrebelsky, che fa il giudice e non il linguista, ed è forse è da questo che il saggio deriva la sua pregnanza. Vi si discute la lingua di oggi e proprio di oggi, le sue compiacenze, le sue reiterazioni, la sua bruttezza rivelatrice. Dice infatti l’autore che “nella lingua del nostro tempo si nota la presenza sovrabbondante del lessico di Berlusconi, dei suoi uomini, e dei loro mezzi di comunicazione di massa, che parlano come lui”.
Un’interpretazione di questa presenza, in verità ossessiva e che si è inserita senza nessuno sforzo anche nel lessico della sinistra e in generale della stragrande maggioranza degli italiani, dice che “l’uniformità della lingua, l’assenza di parole nuove, l’ossessiva concentrazione su parole vecchie e la continua ripetizione, sintomi di demenza senile, sono tali certo da produrre noia, distacco, ironia e pena ma - cosa molto più grave - sono il segno di malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e bene accolto”. Insomma, Berlusconi e la sua lingua hanno infettato la politica italiana (una constatazione: alla Camera e al Senato non sono mai state così rari “i rappresentanti del popolo” di cui fidarci) e la società tutta. Gli anticorpi sono debolissimi, e compito delle persone perbene sarebbe quello di rafforzarli, anche dando alle parole il loro giusto peso e valore. Sono molti i nuovi luoghi comuni berlusconiani passati nella lingua di tutti che Zagrebelsky analizza: “scendere” in politica, “contratto”,”amore”, “doni”, “mantenuti”, “italiani” (con un uso che rivela come non tutti godano dello stesso livello di cittadinanza...), “Prima Repubblica”, “assolutamente”, “fare-lavorare-decidere”, “le tasche degli Italiani”... La sua scelta non è casuale, e risulta soprattutto politica.
Con molto pudore, Zagrebelsky ci indica quel che le parole nascondono e i pericoli non retorici che vi si annidano. Di essi noto quello che mi pare centrale, il pericolo della lingua unica, che si diparte dai “portavoce” del potere e si comunica, senza trovare resistenza alla quasi totalità dei professionisti dei media - giornali, tv, radio, senza dimenticare i più astuti ed efferati di tutti, i pubblicitari. A suo tempo Orwell analizzò tutto questo magistralmente in 1984 (la “neo-lingua”), e da allora le cose, da questo punto di vista, non sono migliorate, anche se non si parla più di subdole manovre e imposizioni dittatoriali ma di imposizioni “democratiche” non meno subdole.
Zagrebelsky non insiste, per carità di patria, nella constatazione di come la lingua del potere pervada anche la sinistra (perché interna allo stesso sistema di potere?). L’ultima voce del saggio è “politicamente corretto”: sono “politicamente corretti” “l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità... la semplificazione e banalizzazione dei problemi comuni... la rassicurazione a ogni costo, l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù...” “I cittadini sono trattati non come persone consapevoli ma come plebe...” ed è dal linguaggio plebeo diventato “politicamente corretto” che dobbiamo tutti liberarci, “ritrovando l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti”. Teniamone conto. Tenetene conto, politici e giornalisti del poco di sinistra che resta, se credete davvero alla sua diversità dalla destra e se volete che cresca.
LA LINGUA D’AMORE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI E LA COSTITUZIONE.
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Se il potere si apre alla società civile
La buona politica e la società civile
Troppo scarsa l’attenzione alle forme di associazione spontanea e volontaria che si occupano della collettività. Cambiare la legge elettorale costituisce un’autentica emergenza Nella lezione tenuta alla Festa del Pd i rischi che sono di fronte alle democrazie di oggi. I pericoli maggiori vengono dalle derive populistiche e dalle chiusure di casta
di Gustavo Zagrebelsky
Pubblichiamo ampi stralci della "Lezione sulla democrazia" che Gustavo Zagrebelsky ha tenuto sabato alla Festa del Partito Democratico a Torino *
"Politica" è una parola bastarda. Ha molti padri e madri. Non è sempre la stessa cosa. Dipende da chi la genera e per che cosa. Per chiarire, mi avvalgo d’una citazione di George Orwell. Nel 1948, scriveva (in Writers and Leviathan): «Questa è un’epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». Se non si parlava di campi di sterminio e di genocidio, era per la diffusa ignoranza di ciò che era effettivamente accaduto nel cuore dell’Europa. Auschwitz sarebbe in seguito assurto a simbolo di una certa concezione della politica. Il che è certo molto imbarazzante per la politica stessa.
Questa visione della politica è terrificante. Ha come madre la potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all’interno dei popoli. L’uso di categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il campo dell’agone politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.
La concezione opposta della politica è espressa in una frase di Aristotele. Se là la politica è violenza e prepotenza, qui «compito della politica pare essere soprattutto il creare amicizia» tra cittadini, cioè legame sociale (Etica Eudemia, 1234 b).
Con le parole di Hannah Arendt (Was ist Politik? - inediti del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it. Che cosa è la politica? Torino, Comunità 2001, pp. 5 ss.), ciò che è proprio di questa concezione della politica è l’essere collocata infra, in mezzo, tra le persone. La virtù politica è propria di coloro che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o, peggio, "altrove"; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d’individui, una società.
Chi disdegna stare con le persone comuni, credendosi diverso, e il suo cuore batte piuttosto per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi, potrà certo essere un’ottima persona. Ma non è adatto alla politica in questo senso. Ciò è così vero che, proprio gli uomini politici più distanti dalla vita della gente comune, che disprezzano, fanno a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d’essere uguali agli altri, "uno di loro"; in realtà offendendoli e insultandoli, nel momento in cui le trattano non come cittadini ma come plebe.
Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la democrazia è l’unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé.
Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società premoderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica oggi, di norma, "si entra", o, come si dice autorevolmente, "si scende" (una volta si sarebbe detto "si sale" o si "ascende"), ma, una volta entrati non se ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n’è sempre un altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un giro di potere. A che "giro" appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che "gira", per l’appunto, da un posto all’altro. Quando entri in un giro, non ne esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo.
Questa è la separazione: tra chi, in un giro del potere, c’è e chi non c’è. E volete che chi non c’è non si senta mille miglia lontano da chi vi è dentro? Che non si consideri appartenere a un altro mondo? E, all’opposto, possiamo credere che chi è dentro non consideri chi è fuori un potenziale pericolo, un’insidia per la propria posizione acquisita, e non faccia di tutto per restarci aggrappato, impedendo accessi non graditi al proprio giro chiuso o, almeno, per gestirli secondo propri criteri, in modo che gli equilibri acquisiti non siano scossi? Ma questa è la sclerosi della politica.
Quando si sente dire che occorre promuovere il rinnovamento della classe dirigente e, per questo, bisogna "allevare" nuove leve politiche, il linguaggio - l’allevamento - tradisce perfettamente l’orizzonte culturale in cui si pensa debba avvenire il cosiddetto "ricambio", quel ricambio che tutti a parole dicono necessario ma che, secondo l’idea dell’allevamento, è perpetuazione dello status quo che produce cloni.
Di quest’atteggiamento di separatezza e, in definitiva, di inimicizia, testimonianza eloquente è l’atteggiamento del mondo politico nei confronti della cosiddetta "società civile", un’espressione e un concetto che non ha mai goduto di buona fama, soprattutto a sinistra. Questa è una lunga storia che sarebbe da ricostruire interamente, a partire da quando, dopo la Liberazione, effettivamente la pretesa dei partiti di rappresentare tutto ciò che di "politico" vi era da rappresentare, era giustificata. Ma oggi? Oggi, una società civile è difficile negare che esista. Dobbiamo capirci. Assai spesso - per squalificarne il concetto stesso - la si intende come "i salotti" dove s’incontrano persone disparate che presumono d’essere élite del Paese e si auto-investono di chissà quale compito salvifico, o come lobby più o meno segrete o gruppi d’interesse settoriale che curano i propri affari, legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione. Da tutto ciò, che ha niente a che fare con la democrazia, la politica dovrebbe guardarsi. Da questa "società civile", piuttosto "incivile", chi si occupa di politica dovrebbe cercare di stare lontano, il più possibile. Ora, chi vuole difendere il circolo chiuso della politica e i suoi sistemi di cooptazione demonizza la società civile identificandola con questi ambienti. Ma è un’operazione che sa di diversivo, cioè di tentativo di spostare l’attenzione su un falso obiettivo, effettivamente indifendibile.
La società civile esiste, ma è un’altra cosa: è l’insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l’utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l’appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di sua crisi, perché l’attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi "servitori civili", quelli che più di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra società. C’è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri, dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c’è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?
La risposta alla domanda formulata sopra è semplice: la scarsa attenzione, se non l’ostilità, dipende dalla difesa di rendite di posizione politica che sarebbero insidiate dall’apertura. Non c’è da fare tanti giri di parole: è la sempiterna tendenza oligarchica del potere costituito. Viene in mente la frase dell’abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello "Che cos’è il terzo stato", un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora - la Francia pre-rivoluzionaria - chiedeva riforme: "Che cos’è il terzo stato? Tutto. Che cos’è stato finora nell’ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa". Noi potremmo tradurre: "Che cos’è la società civile? Molto. Che cosa è nell’ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa".
Sotto questo punto di vista, c’è oggi in Italia una specifica situazione d’emergenza politica e democratica, rappresentata dalla legge elettorale vigente, con la quale rischiamo di essere chiamati alle urne, nel momento in cui - col favore dei sondaggi- piacerà a chi di dovere.
Questa legge sembra, anzi è, fatta apposta per garantire l’impermeabilità del ceto politico, la sua auto-referenzialità, per munire la sua separatezza. È una legge, nella sua essenza, dello stesso tipo di quelle vigenti nelle dittature di partito. Il fatto che non vi sia "il" partito, ma vi siano "i" partiti, non cambia il giudizio. La sua ratio, come direbbero i giuristi, può esprimersi così: dall’alto discende il potere e dal basso sale, o si fa salire, il consenso. Ma questa non è democrazia. E’, se si vuole," democratura", secondo la felice e, al tempo stesso orrenda, espressione dell’esule bosniaco Predrag Matvejevic. Col sistema elettorale attuale, i vertici dei partiti - tutti quanti - dispongono dell’intero potere di definire chi formerà la rispettiva corte in Parlamento. Non è poca cosa per loro e questo spiega il fatto che, a suo tempo, quando fu approvato, non ci sia stata una reazione adeguata. Il potere si è capovolto e cominciamo ad accorgercene. E ci accorgiamo di quanto ciò finisca per alimentare sentimenti, risentimenti e atteggiamenti anti-politici, da cui tutti, meno i demagoghi, hanno molto da perdere.
La ragione per non andare più a votare con questa legge elettorale non si riduce alla pur rilevantissima stortura ch’essa comporta: il fatto cioè che deputati e senatori siano nominati dall’alto, senza alcuna possibilità d’influenza degli elettori, altro che nel distribuire il numero di "posti" che spettano all’uno e all’altro partito, assegnati poi a questo o quello per beneplacito altrui. La posta è assai più grande: per i partiti è il dilemma tra l’apertura alla società o la chiusura; per i cittadini tra la politica e l’antipolitica, tra la partecipazione e l’esclusione politica, tra la fiducia nella democrazia e il risentimento contro la democrazia. Quando parliamo di democrazia, però, non pensiamo solo a partiti, elezioni, parlamenti, governi, e cose di questo genere. In una parola, non pensiamo solo a forme e istituzioni politiche, cioè a tecniche di governo. Pensiamo anche a una sostanza della società.
Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una società non democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può senz’altro governarsi in forme democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del potere corrisponde una sostanza non democratica della società.
Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un’altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: "questa è casa mia" e tu sei un intruso ch’io posso escludere e respingere a mio piacimento; dove, se non ti "integri", cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell’impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un "sistema" e non un problema per tutti; dove l’istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d’affrontare le spese che la sua cura comporta. Noi avvertiamo queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà, l’insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell’Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale.
E noi vorremmo che tutto ciò non ingeneri inimicizia sociale? Sarebbe ingenuo sperarlo. E vorremmo che chi sta dall’altra parte della società, quella che dal basso guarda a quella che sta in alto, non nutra diffidenza, per non dire di più, verso una democrazia che accetta questa loro condizione? Una condizione che non giustifica certo, ma spiega il carattere violento dei rapporti anche quotidiani tra le persone, di chi si sente più forte sul più debole e del debole come reazione al forte, nelle infinte situazioni in cui quel divario può essere fatto valere, nelle famiglie, nella strada, nelle scuole, nelle fabbriche, nei rapporti tra uomo e donna, tra "normale" e "diverso", eccetera. È all’opera l’incultura della sopraffazione che è l’esatto opposto dell’ethos necessario alla democrazia.
Qui, nella denuncia della mentalità dilagante, nella difesa e promozione di una cultura della convivenza e nell’azione per contrastare l’incultura della violenza, c’è un compito che ci riguarda tutti, in quanto questa società non ci piaccia affatto. Ci riguarda come cittadini cui la democrazia sta a cuore come un bene cui non vogliamo rinunciare. Ma riguarda anche i cittadini che militano in partiti politici che hanno la parola democrazia nelle proprie ragioni fondative o addirittura nel proprio simbolo. Ecco un’altra buona ragione per abbandonare l’idea che la politica si faccia principalmente nelle stanze dei palazzi del potere o negli uffici delle burocrazie di partito, che il buon politico sia quello esperto di "scenari", alchimie, tattiche e strategie. Tutto questo è importante, ma non basta. Siccome non basta, abbiamo il dovere di chiederci: dove siamo quando nel nostro Paese si avvelenano i rapporti tra le persone, nelle tragedie dell’immigrazione come in quelle delle famiglie di senza-lavoro e nei drammi del lavoro senza sicurezza; nelle proteste per una scuola che affonda come nella tragedia di chi è colpito dalla forza scatenata della natura: nei nostri uffici o tra chi ha bisogno di solidarietà? Ecco perché è necessario stringere i rapporti tra partiti e società, abbandonare l’idea e le pratiche che fanno pensare che gli uni possano fare a meno dell’altra, e viceversa.
* la Repubblica, 13.09.2010
intervista a Gustavo Zagrebelsky
"Il presidente difende la Costituzione gli interessi politici sono altra cosa" , a cura di Liana Milella (la Repubblica, 17 agosto 2010)
«La Costituzione è ancora in vigore. E non esiste una costituzione materiale alternativa». Come vorrebbero invece quelli del Pdl. L’ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky mette in sequenza i fatti e sul Quirinale dice: «È pienamente nel solco della Costituzione». Come giurista prende le distanze dalle ultime mosse dei berlusconiani, ma come cittadino «è angosciato». E sull’ultima stagione dei dossier dice: «L’evocazione della piazza e il linciaggio giornalistico, quanto a violenza, sono paragonabili alla brutalità e alla volgarità dell’attacco al Quirinale». Mentre Napolitano chiede il rispetto della Costituzione, c’è chi, ministri e parlamentari del Pdl, avanzano dubbi, anzi accuse esplicite, d’intenzioni incostituzionali proprio da parte sua.
Ha detto Bianconi: «La Costituzione la puoi tradire non rispettandola, o fingendo di rispettarla». La sua impressione?
«Innanzitutto, si deve distinguere politica e interessi politici da Costituzione e sua applicazione. La confusione è molto pericolosa, anzi irresponsabile. Il partito del presidente del Consiglio e quello di Bossi chiedono le elezioni anticipate immediate, in caso di crisi di governo. Questa è una richiesta politica e, come tale, perfettamente legittima, così come altrettanto legittimo è che altri pensino a soluzioni diverse. Il capo dello Stato, come garante di tutte le legittime posizioni in campo, dovrà valutare le diverse possibilità alla luce della Costituzione che è in vigore, di cui è garante, non alla luce di una costituzione che qualcuno si è costruito nella sua testa, a proprio uso e vantaggio».
Perché? La richiesta di scioglimento delle Camere e del voto anticipato sono contro la Costituzione?
«È contro la Costituzione se la si presenta non come opzione possibile e auspicata, ma come soluzione obbligatoria della crisi di governo. Quest’ultima è la posizione dei critici del presidente Napolitano. Ma è una posizione insostenibile, anche se sostenuta da giuristi come i ministri Alfano e Maroni (del deputato Bianconi non saprei cosa dire)».
Può spiegare perché sarebbe «insostenibile»?
«Si dice: il popolo italiano ha votato e ha scelto un presidente del Consiglio e un programma. La legge elettorale prevede che i partiti che si candidano alle elezioni depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome da loro indicato come capo della forza politica. Da qui, deriverebbe che non si può cambiare programma e capo del governo senza che il corpo elettorale abbia votato di nuovo. Spetterebbe agli elettori confermare o modificare programma e presidente del Consiglio. Questo è il ragionamento».
Sembrerebbe non fare una piega.
«Invece la fa. Anzi, è un ragionamento giuridicamente del tutto infondato. La legge elettorale non dice che si indica il futuro capo del governo, ma i capi dei diversi partiti che si presentano alle elezioni. Se fosse come dicono Alfano e Maroni, saremmo in una repubblica presidenziale introdotta dalla legge elettorale. Ma non è così. Il legislatore che ha fatto quella legge sapeva benissimo che questo sarebbe stato impossibile, platealmente incostituzionale. Infatti, la stessa legge, subito dopo il passo che ho citato, aggiunge che "restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92 della Costituzione"».
E questa aggiunta è determinante ai fini del nostro caso?
«Sarebbe stata perfino superflua, l’aggiunta. Ma si è voluto evitare ogni equivoco. L’articolo 92 dice che è il presidente della Repubblica, non il corpo elettorale con investitura diretta e plebiscitaria, a scegliere il capo del Governo, tenendo conto della situazione parlamentare e della necessità che il governo ottenga la fiducia delle Camere. Siamo pur sempre una Repubblica parlamentare. Il presidenzialismo è solo un desiderio di alcuni e il timore di altri, dunque una questione controversa».
Il ministro Alfano ha perfino denunciato la violazione dell’articolo 1 della Costituzione, ove il presidente non ridesse subito la parola al popolo. Una denuncia pesante. L’articolo 1 è quello che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo.
«L’accusa è pesante, ma consiglierei a chi dice queste cose di leggere un poco oltre. La sovranità appartiene al popolo il quale "la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione". Quello che si è voluto evitare è, per l’appunto, la deriva populista in atto. La democrazia è una cosa seria e delicata, fatta di procedure, garanzie, pluralismo, rispetto delle minoranze, spirito di cooperazione. Tutte cose che la Costituzione richiede. L’appello al popolo in una sorta di giudizio di Dio non è propriamente l’idea di democrazia costituzionale».
E aver evocata la «costituzione materiale»?
«La costituzione materiale è il consenso di fondo che sorregge la Costituzione scritta. Si fa un uso politico strumentale di una nozione che ha una sua dignità scientifica. In poche parole: non c’è costituzione materiale se non c’è consenso generalizzato e sulla democrazia plebiscitaria, al contrario, c’è conflitto. Questa presunta "costituzione materiale" è solo un auspicio, un progetto politico di parte, ma certo non una "costituzione"».
Fin qui lei ha fatto considerazioni da giurista. Ma come cittadino è preoccupato?
«Sì, e molto. Anzi, angosciato. Vedo in corso un processo fatto non di discussioni serie, ma di argomenti pretestuosi che nascondono intenti che ogni tanto lasciano trasparire un fondo di violenza. La violenza di chi, avendo il potere, non è disposto a lasciarlo. L’evocazione della piazza e il linciaggio giornalistico, quanto a violenza, sono paragonabili alla brutalità e alla volgarità dell’attacco al Quirinale. Mi pare il momento in cui tutti coloro che hanno a cuore il confronto politico pacifico, come necessità primordiale della democrazia, devono far sentire la propria voce, per opporsi a questa deriva in fondo alla quale appare uno scenario catastrofico».
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 11.06.2010)
È adeguato alla serietà delle questioni sollevate dal disegno di legge del Governo sulle intercettazioni telefoniche e sulle limitazioni alla libertà di stampa il dibattito, anzi la rivolta, che ne è seguita. Siamo alle fasi finali della procedura parlamentare ma la procedura parlamentare non chiuderà la partita, anche se l’impostazione della legge è ormai definita. I poteri d’indagine penale risulteranno ridotti e, parallelamente, l’impunità della criminalità sarà allargata; i vincoli procedurali, organizzativi e disciplinari saranno moltiplicati a tal punto che i magistrati inquirenti ai quali venisse ancora in mente, pur nei casi ammessi, di ricorrere a intercettazioni saranno scoraggiati: a non fare non sbaglieranno; a fare correranno rischi a ogni piè sospinto. La libertà degli organi d’informazione d’attingere ai contenuti delle intercettazioni disposte nelle indagini penali sarà ridotta fortemente e la violazione dei divieti sarà sanzionata pesantemente.
Tutto in proposito è stato ormai detto. Nulla potrebbe ancora aggiungersi e nulla potrebbe togliersi.
Al di là delle valutazioni circa le singole disposizioni, è stato anche colto il significato che una legge di questo genere non può non assumere presso l’opinione pubblica avvertita, nel momento attuale della vita pubblica del nostro Paese, mai come ora intaccata dalla corruzione: l’auto-immunizzazione con forza di legge di "giri di potere" oligarchico che intendono governare i propri interessi al riparo dai controlli, siano quelli della legge o siano quelli dell’opinione pubblica.
Tutto è stato detto per ora, ma la partita non si chiuderà di certo in Parlamento, nella dialettica tra la maggioranza e l’opposizione. La prima potrà sconfiggere la seconda con gli strumenti parlamentari di cui può far uso e abuso (la questione di fiducia in materia di diritti fondamentali) e così mettere per iscritto la volontà di chi comanda e fare la legge. Ma al di là della legge c’è pur sempre il diritto, e col diritto la legge deve fare i conti. Forse mai come in questo caso legge e diritto, lex e ius, queste due componenti dell’esperienza giuridica, sono apparsi così nettamente distinti, anzi, contrapposti. Quando ciò accade, la forza della legge è debole perché è avvertita come arbitrio e, prima o poi, anche se con costi e sofferenze, l’equilibrio sarà ristabilito.
Che cosa sia la legge, basta guardarne il testo. Che cosa sia il diritto, è cosa meno semplice ma più profonda. Innanzitutto, la legge dovrà passare alla promulgazione del Presidente della Repubblica, il cui potere di rinvio alle Camere è un’espressione non del capriccio personale ma del diritto. Poi la legge sarà sottoposta all’interpretazione, entro le coordinate dei principi del diritto; poi sarà sottoposta al controllo della Corte costituzionale, nel nome del diritto più profondo, su cui ogni legge deve appoggiarsi; poi sarà forse sottoposta a una valutazione popolare, in nome di quel diritto legale di resistenza che è il referendum abrogativo. Questo, nell’insieme, è il diritto con il quale questa legge dovrà fare i conti e questi sono i suoi strumenti. A ciò oggi si aggiunge il diritto dell’Europa, da cui la validità della legislazione degli Stati che ne fanno parte è condizionata.
* * *
Alla luce di questo quadro complesso, la legge che il Parlamento s’accinge a varare non supera il vaglio del diritto, soprattutto per quanto riguarda quello che a me pare il vizio macroscopico, che macroscopicamente tradisce una mentalità illiberale, o meglio autoritaria, di chi l’ha impostata, presumibilmente senza nemmeno rendersene conto (poiché altrimenti, pronunciando ogni giorno parole di libertà, certamente avrebbe evitato...).
In ogni regime libero, l’informazione è un delicatissimo sistema di diritti e di doveri, in cui l’interesse dei cittadini a essere informati e il connesso diritto-dovere dei giornalisti di fare cronaca, onesta e completa, dei fatti di rilevanza pubblica incontra i soli limiti che derivano dal rispetto dell’onore e della riservatezza delle persone. Sono le persone offese che, ricorrendo al giudice, in un rapporto per così dire, paritario con il giornalista o il giornale, possono chiedere la riparazione del loro diritto violato. Il potere politico, governo o parlamento, non c’entrano per niente. Non possono prendere provvedimenti o stabilire per legge quel che i giornali, gli organi d’informazione in genere, possono o non possono pubblicare. Possono certo stabilire casi di segretezza o di riservatezza, per proteggere l’interesse al buon andamento di funzioni pubbliche (ad esempio, trattative diplomatiche, operazioni dei servizi di sicurezza, svolgimento di indagini giudiziarie, ecc.) e, a questo fine, possono prevedere sanzioni a carico dei funzionari infedeli che violano il segreto e la riservatezza. Ma non possono estendere il divieto e la sanzione agli organi dell’informazione i quali, quale che sia stato il modo, siano venuti in possesso di informazioni rilevanti e le abbiano portate alla conoscenza della pubblica opinione.
In breve: il potere politico può proteggersi, ma non può farlo imbavagliando un potere - il potere dell’informazione - che ha la sua ragion d’essere nel controllo del potere. Potrà sembrare un’anomalia che la lecita auto-tutela della politica non si estenda fino alle estreme conseguenze, non investa la stampa. Ma in ogni regime libero un’anomalia non è, perché l’informazione appartiene a un’altra sfera e non può diventare un’appendice, una funzione servente, un organo della politica e del governo (come avviene nei momenti eccezionali della guerra o del pericolo per la sicurezza nazionale). È la separazione dei poteri (e l’informazione è un potere) a richiederlo e a determinare la possibilità della contraddizione. Sono i regimi autoritari, quelli in cui non vi sono contraddizioni. Ma allora, lì, la stampa vive delle informazioni che il potere politico, caso per caso o per legge non fa differenza, l’autorizza a rendere pubbliche; vive degli ossi che il padrone le butta.
Da dove traiamo questo principio d’autonomia e libertà della stampa? Innanzitutto dalla cultura e dalla civiltà costituzionale, cioè dal quadro di sfondo che dà un senso alla democrazia. Poi dall’art. 21 della Costituzione, che proclama il diritto alla libertà d’informazione senza limiti diversi dal buon costume, vietando per sovrapprezzo, e come rafforzamento, le autorizzazioni e le censure, cioè gli strumenti di asservimento della stampa conosciuti sotto il fascismo.
Oggi poi è la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, da quando, nel 2001, è assurta a livello costituzionale e al medesimo livello si collocano le interpretazioni che ne dà la Corte di Strasburgo, altra base sicura del diritto alla libertà della stampa. L’art. 10 § 2 della Convenzione ammette bensì "formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", ma solo quando siano "misure necessarie in una società democratica" per tutelare certe esigenze di sicurezza, ordine pubblico, ecc., che nel caso della legge italiana certamente non ricorrono in generale.
La Corte europea ha precisato che le limitazioni possono derivare solo da "bisogni sociali imperativi" (non esigenze di funzionamento di pubblici poteri), che le misure prese "non devono essere di natura tale da dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione di problemi di legittimo interesse generale" e, nel celebre caso Dupuis contro Francia (7 giugno 2007), riguardante la pubblicazione di notizie coperte dal segreto processuale, che quando c’è di mezzo il diritto all’informazione, "il potere di apprezzamento degli Stati si arresta di fronte all’interesse delle società democratiche ad assicurare e mantenere la libertà di stampa". Si trattava, per l’appunto, di giornalisti che si erano documentati attraverso fughe di notizie o documenti e conversazioni confidenziali: tutte cose che le società libere non demonizzano affatto (pur cercando di impedirle da parte dei funzionari pubblici), quando vengono nelle mani di giornalisti.
* * *
Il disegno di legge che sta per essere trasformato in legge non tiene conto di tutto questo, anzi lo contraddice. A carico dei giornalisti e degli editori sono stabiliti divieti tassativi di pubblicazione. Sanzioni penali, disciplinari e amministrative li collocano in una ragnatela di condizionamenti, esterni e interni alle imprese giornalistiche, certamente incompatibile con la libertà della stampa di fare il proprio dovere "in una società democratica". Questi condizionamenti, altrettanto certamente, sono tali (si pensi a che cosa rappresenta per le piccole imprese giornalistiche la sanzione in denaro che può raggiungere diverse centinaia di migliaia di euro) da "dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione dei problemi di interesse generale" come, tanto per fare un esempio di fantasia, la pubblica corruzione. Ci sono tutte, e sono evidenti, le ragioni per le quali questa legge finirà col cozzare contro quel diritto.
La sovranità privata
di Carlo Galli (la Repubblica, 10.06.2010)
«Fare leggi rispettando questa Costituzione è un inferno». Certamente, alle molte e anche contrastanti definizioni di "Costituzione" mancava ancora questa: ma c’è da sperare che d’ora in poi i manuali di diritto costituzionale tengano conto anche della Costituzione come inferno, ultima delle esternazioni di Berlusconi in questi giorni.
D’accordo. Si tratta del solito espediente grazie al quale una sostanziale vittoria (il provvedimento sulle intercettazioni) viene fatta passare, in perfetto stile democristiano, per un compromesso di cui non si è soddisfatti: a ciò Berlusconi è spinto anche dal timore di esser poi travolto nella sconfitta nel caso che dal Quirinale venga uno stop alla legge. La prova di forza della "blindatura" - e a maggior ragione il pugno sul tavolo del voto di fiducia - è venata da debolezza, come ha scritto ieri Ezio Mauro. Al tempo stesso si tratta di una mossa diversiva, per aprire una polemica che distolga l’opinione pubblica sia dalla legge-bavaglio sia dalla manovra economica, due provvedimenti fortemente impopolari. E per incolpare qualcuno o qualcosa - la Costituzione, chi l’ha voluta in passato, chi la difende ora - come responsabile delle debolezze e delle contraddizioni dell’azione di governo, che vanno imputate invece alle divisioni nella maggioranza e all’uso distorto delle istituzioni, che non sono state pensate per essere utilizzate come ora avviene.
Il discorso pubblico che proviene da Berlusconi - esplicitamente post-costituzionale, e ormai anti-costituzionale - è infatti consapevolmente centrato sul trasferimento nel campo politico delle logiche imprenditoriali del "comando efficace", libero da ogni contropotere costituito, anche da quello delle norme e delle procedure. La funzione pubblica è quindi concepita come qualcosa di discrezionale, che dipende dalla volontà del Capo: non a caso egli afferma che la Protezione Civile dovrebbe astenersi dal suo dovere, in Abruzzo; e che la Rai non dovrebbe vedersi rinnovare il contratto di concessione, se non si piega ai suoi voleri.
Questo prevalere del Privato sul Pubblico viene definito da Berlusconi "sovranità": quel Privato ha infatti vinto le elezioni, e ha quindi ricevuto un presunto mandato dal popolo sovrano a governare senza limiti né controlli. A questa aberrante conclusione egli giunge poiché concepisce la sovranità come la titolarità e l’esercizio di una volontà monolitica e irresistibile (in un certo senso, come facevano i giacobini, che concentravano nelle loro mani la sovranità del popolo). È questo modo di pensare che gli fa dire che i pm e la Corte Costituzionale, esercitando le loro funzioni giurisdizionali, attentano alla sovranità; che cioè lo colloca al di fuori della dimensione costituzionalistica che la nostra democrazia si è consapevolmente data nel secondo dopoguerra. Infatti, la nostra Costituzione (non senza suscitare a suo tempo qualche perplessità, anche a sinistra) ha impiantato sul corpo della sovranità popolare l’elemento - che proviene dalla civiltà politica e giuridica del costituzionalismo inglese e americano - del controllo di legalità, da parte della magistratura, sulle azioni dei membri del ceto politico in generale, e del controllo di legittimità, a opera della Corte Costituzionale, sugli atti del Legislativo (e sui decreti dell’Esecutivo). Nessuno, nemmeno la sovranità popolare, è onnipotente: la politica si manifesta attraverso il diritto che limita, con la legge, ogni potere; e garantisce così i diritti di tutti. Se Berlusconi afferma che agire secondo la Costituzione è un inferno, evidentemente pensa che il paradiso sia il potere senza limiti: il potere privato di un padrone (in greco, despòtes), reso onnipotente dall’investitura popolare. Insomma, la sua idea di sovranità è privata e al tempo stesso assoluta: è, tecnicamente, un’autocrazia plebiscitaria. La quale oggi si manifesta con chiarezza programmatica, ma forse anche epigrammatica: come annuncio di linee d’azione "riformistiche" per l’avvenire (secondo le parole di commento di Bossi, e secondo le proposte recentissime di Tremonti sull’articolo 41), ma anche come commento conclusivo di un ciclo politico, reso "infernale" proprio dalla sopravvivenza ostinata della Costituzione.
In ogni caso, questo "discorso" - che, certamente, cela la concreta finalità di coprire specifiche persone rispetto a specifiche responsabilità in specifiche inchieste giudiziarie: una finalità parziale alla quale si sacrificano beni collettivi come l’efficacia delle indagini e la libertà dei cittadini - fa passare come ovvia la tesi che la politica consista in un comando senza controlli, purché efficace. Ed è questa tesi a distaccare gli italiani dalle radici del loro passato democratico e costituzionale (recente, ma anche ormai remoto: o almeno così pare), e a generare, proprio col suo apparente tono iperpolitico, uno specifico atteggiamento antipolitico, cioè quell’analfabetismo civile che afferma qualunquisticamente che solo i fatti contano, e che le regole sono soltanto pastoie che frenano l’agire dei governanti. Una tesi, quella espressa da Berlusconi, che ha almeno il merito della chiarezza; e che individua un fronte di conflitto politico dal quale sarà difficile sottrarsi, anche per chi lo volesse: il fronte che vede da una parte chi lotta apertamente contro la forma e la sostanza della Costituzione, e dall’altra chi la difende, consapevole che in questa difesa - si spera non rassegnata, né di maniera - consiste ormai la sostanza della nostra democrazia.
Zagrebelsky: potere, stato e chiesa
L’ultimo libro del giurista affronta il rapporto fra politica e fede nel governo dell’uomo
La ricostruzione storica mostra quando si spezza l’alleanza tra trono e altare
Il saggio rivela l’esigenza di una riscoperta delle caratteristiche della laicità
Nelle democrazie moderne le due entità non possono venire sovrapposte e serve un pluralismo
di Carlo Galli (la Repubblica, 18.03.2010)
Merito del libro di Gustavo Zagrebelsky (Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, edito da Laterza, pagg. 160, euro 16) è di afferrare il bandolo di quella complicata matassa che è il ritorno politico della religione - in cui si intrecciano la crisi dello Stato democratico, l’emergere di una diffusa indifferenza verso la religione, ma al tempo stesso anche la ricerca di un supplemento d’anima per una politica sempre più spezzettata, irrazionale, instabile - , e di ricostruire in una sintesi agile, informata, incisiva, la tormentata vicenda del dualismo occidentale fra potere e religione, misurando così le ragioni strutturali del problema.
Quel dualismo fra Stato e Chiesa nacque con l’affermazione - risalente a papa Gelasio, alla fine del V secolo - che la Chiesa, originariamente capace di politica (Cristo ha salvato l’umanità intera nel mondo, non i singoli uomini nel chiuso delle loro coscienze), è altra e superiore rispetto al potere politico mondano: nel disegno della Chiesa il dualismo serviva a creare una gerarchia, a proprio favore; il cristianesimo era la precondizione dell’esistenza politica - essere cristiano e essere cittadino erano la medesima cosa - , e quindi anche della legittimità dei poteri civili. La laicità, quindi, nasce nel mondo cristiano, ma indirettamente; non è una concessione della Chiesa né un esito immediato della religione, ma il risultato di una lotta di lungo periodo contro la pretesa di supremazia che la caratterizza da sempre.
Una pretesa che Zagrebelsky ripercorre nelle sue varie forme - la ierocrazia medievale, e la teoria moderna di Bellarmino della potestas indirecta, ossia l’offerta di sostegno ai re e la parallela affermazione che i cattolici possono essere chiamati dal papa a disobbedire ai loro governanti - . La modernità politica spezza proprio questa alleanza fra trono e altare, e la Chiesa entra in conflitto frontale con il mondo moderno e la sua politica: l’Ottocento è così segnato dal rifiuto del liberalismo e della libertà che questo offriva alla religione (libera Chiesa in libero Stato). Ma nonostante questo arroccamento politico e dottrinario la Chiesa si aprì verso la società, per mobilitare masse cattoliche tendenzialmente antistatali, e per non lasciarle al socialismo; alla fede ormai non più coincidente con la cittadinanza sostituì, con la Rerum Novarum di Leone XIII, la propria dottrina sociale quale centro di una strategia di riappropriazione della politica. La Chiesa inizia così a proporsi come indispensabile non solo per la salvezza ma anche per tenere unita la società che l’insipienza e l’ingiustizia dei laici compromette alle radici.
La conciliazione, brevissima, col Moderno è vista da Zagrebelsky nel Concilio Vaticano II, in cui la Chiesa si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà, e chiede di potere servire l’umanità, di difenderne la dignità e i diritti alla luce dell’insegnamento evangelico; il pluralismo delle opinioni politiche e sociali è accettato, e ci si apre anche all’idea della libertà religiosa. Ma, nota Zagrebelsky, il problema sta nel mai allentato rapporto della Chiesa con la Verità: un rapporto che la rende un ospite assai ingombrante nella democrazia, che può facilmente apparire alla Chiesa come nichilismo e instabilità, e destinata alla dissoluzione, se non interviene la Chiesa stessa, come una teologia civile o politica, a sostenerla.
Nell’ormai matura crisi dello Stato moderno, ecco quindi, da Giovanni Paolo II in poi, lo scambio di veste fra Chiesa e Stato - entrambi in gara per governare razionalmente gli uomini - , a cui allude il titolo del libro. Non più ostile in linea di principio alla politica della ragione, la Chiesa con Benedetto XVI (il discorso di Ratisbona) pretende di incarnare in sé la ragione umana al suo grado più alto, di essere l’erede della filosofia greca (intellettualmente preferita alla radice ebraica) e della riflessione filosofica non corrotta (cioè non protestante, non individualistica, non razionalistica): di essere insomma veramente razionale (non razionalistica), veramente laica (non laicista), veramente politica, oltre che veramente salvifica. Verità e ragione si unificano, nella teologia politica cattolica, contro la "dittatura del relativismo", a riaffermare un protettorato cattolico sulla società, della quale la Chiesa rivendica di essere l’origine e la sintesi, sempre operante e vigilante: ancora una volta, extra Ecclesiam nulla salus, fuori dalla Chiesa non c’è salvezza.
Questa struttura pedagogica agisce in nome della Verità (come anche l’ultima enciclica mostra già nel titolo), e quindi potenzialmente relega nell’errore chi non è d’accordo (costringendolo a vivere, appena tollerato, in un mondo dai cui principi è escluso, o nei quali è assimilato); il papa chiede che tutti si comportino come se Dio esistesse, e fosse il fondamento della società. Dopo la stagione conciliare di "credere senza appartenere", oggi i religiosi e anche parecchi laici (gli "atei devoti") vogliono che la politica si svolga all’insegna di un appartenere senza credere, che trasforma la cittadinanza democratica in una sorta di comunità a sfondo confessionale.
Zagrebelsky con forza non settaria pone in evidenza la difficoltà del dialogo fra laici e cattolici, su queste basi; la religione di cui la democrazia ha bisogno accetta infatti il relativismo, il pluralismo, mirando all’unica verità che la democrazia riconosce, l’umanistica affermazione della libertà, dell’uguaglianza, della responsabilità e dell’autonomia. Insomma, la democrazia chiede che gli uomini si comportino politicamente come se Dio non esistesse, e che trovino in se stessi - e non in fondamenti autoritari - la forza di essere liberi e giusti. La democrazia non ha paura di essere priva di fondazioni metafisiche; questo vuoto, infatti, è la condizione stessa della sua missione, che consiste nel far fiorire le contingenze particolari, i progetti di vita degli uomini e delle donne, in uguale dignità e libertà.
Dobbiamo quindi essere grati a Zagrebelsky per la chiarezza e la serenità con cui mostra la distanza - il non possumus laico, speculare ai diktat della Chiesa su tanti aspetti della vita sociale e politica - fra l’attuale posizione della Chiesa e la democrazia. Una distanza - il vero volto del dualismo occidentale - che, mentre indica l’esigenza di una radicale riscoperta delle caratteristiche imprescindibili della laicità, enfatizza la non sovrapponibilità fra politica e fede, fra sfera mondana e sacro, e mette in tensione libertà e obbedienza, rifiutando vecchi e nuovi fondamentalismi.
[CHE LE ISTITUZIONI DEL NOSTRO PAESE ABBIANO PERMESSO UN PARTITO CON IL NOME DI "FORZA ITALIA" PRIMA, E CON IL "POPOLO DELLA LIBERTA’" POI, SIGNIFICA CHE ’ITALIA E’ GIA MORTA!!!
Il costituzionalista Zagrebelsky: così si apre la strada a nuove intimidazioni
Il presidente Napolitano opera per evitare la violenza
"Una corruzione della legge
che viola uguaglianza e imparzialità"
di LIANA MILELLA ( la Repubblica, 07.03.2010)
ROMA - Non critica Napolitano, dissente da Di Pietro, benedice le proteste, boccia un decreto inconcepibile in uno Stato di diritto. Gustavo Zagrebelsky inizia citando un episodio che, "nel suo piccolo", indica lo stravolgimento dell’informazione. Al Tg1 di venerdì sera va in onda la foto di Hans Kelsen, uno dei massimi giuristi del secolo scorso. "Gli fanno dire che la sostanza deve prevalere sulla forma: a lui, che ha sempre sostenuto che, in democrazia, le forme sono sostanza. Una disonestà, tra tante. Gli uomini di cultura dovrebbero protestare per l’arroganza di chi crede di potersi permettere di tutto".
Professore, che succede?
"Apparentemente, un conflitto tra forma e sostanza".
Apparentemente?
"Se guardiamo più a fondo, è un abuso, una corruzione della forza della legge per violare insieme uguaglianza e imparzialità".
Perché? Non si trattava invece proprio di permettere a tutti di partecipare alle elezioni?
"Il diritto di tutti è perfettamente garantito dalla legge. Naturalmente, chi intende partecipare all’elezione deve sottostare ad alcuni ovvi adempimenti circa la presentazione delle candidature. Qualcuno non ha rispettato le regole. L’esclusione non è dovuta alla legge ma al suo mancato rispetto. È ovvio che la più ampia "offerta elettorale" è un bene per la democrazia. Ma se qualcuno, per colpa sua, non ne approfitta, con chi bisogna prendersela: con la legge o con chi ha sbagliato? Ora, il decreto del governo dice: dobbiamo prendercela con la legge e non con chi ha sbagliato".
E con ciò?
"Con ciò si violano l’uguaglianza e l’imparzialità, importanti sempre, importantissime in materia elettorale. L’uguaglianza. In passato, quante sono state le esclusioni dalle elezioni di candidati e liste, per gli stessi motivi di oggi? Chi ha protestato? Tantomeno: chi ha mai pensato che si dovessero rivedere le regole per ammetterle? La legge garantiva l’uguaglianza nella partecipazione. Si dice: ma qui è questione del "principale contendente". Il tarlo sta proprio in quel "principale". Nelle elezioni non ci sono "principali" a priori. Come devono sentirsi i "secondari"? L’argomento del principale contendente è preoccupante. Il fatto che sia stato preso per buono mostra il virus che è entrato nelle nostre coscienze: il numero, la forza del numero determina un plusvalore in tema di diritti".
E l’imparzialità?
"Il "principale contendente" è il beneficiario del decreto ch’esso stesso si è fatto. Le pare imparzialità? Forse, penseremmo diversamente se il beneficiario fosse una forza d’opposizione. Ma la politica non è il terreno dell’altruismo. Ci accontenteremmo allora dell’imparzialità".
Anche lei, come l’ex presidente Onida, considera il dl una legge ad personam?
"Questa vicenda è il degno risultato di un atteggiamento sbagliato che per anni è stato tollerato. Abbiamo perso il significato della legge. Vorrei dire: della Legge con la maiuscola. Le leggi sono state piegate a interessi partigiani perché chi dispone della forza dei numeri ritiene di poter piegare a fini propri, anche privati, il più pubblico di tutti gli atti: la legge, appunto. Si è troppo tollerato e la somma degli abusi ha quasi creato una mentalità: che la legge possa rendere lecito ciò che più ci piace".
Torniamo al decreto. Si poteva fare?
"La legge 400 dell’88 regola la decretazione d’urgenza. L’articolo 15, al comma 2, fa divieto di usare il decreto "in materia elettorale". C’è stata innanzitutto la violazione di questa norma, dettata non per capriccio, ma per ragioni sostanziali: la materia elettorale è delicatissima, è la più refrattaria agli interventi d’urgenza e, soprattutto, non è materia del governo in carica, cioè del primo potenziale interessato a modificarla a suo vantaggio. Mi pare ovvio".
Quindi, nel merito, il decreto viola la Costituzione?
"Se fosse stato adottato indipendentemente dalla tornata elettorale e non dal governo, le valutazioni sarebbero del tutto diverse. Dire che il termine utile è quello non della "presentazione" delle liste, ma quello della "presenza dei presentatori" nei locali a ciò adibiti, può essere addirittura ragionevole. Non è questo il punto. È che la modifica non è fatta nell’interesse di tutti, ma nell’interesse di alcuni, ben noti, e, per di più, a partita in corso. È un intervento fintamente generale, è una "norma fotografia"".
Siamo di fronte a una semplice norma interpretativa?
"Quando si sostituisce la presentazione delle liste con la presenza dei presentatori non possiamo parlare di interpretazione. È un’innovazione bella e buona".
E la soluzione trovata per Milano?
"Qui si trattava dell’autenticazione. Le formule usate per risolvere il problema milanese sono talmente generiche da permettere ai giudici, in caso di difetti nella certificazione, di fare quello che vogliono. Così, li si espone a tutte le possibili pressioni. Nell’attuale clima di tensione, questa pessima legislazione è un pericolo per tutti; è la via aperta alle intimidazioni".
Lei boccia del tutto il decreto?
"Primo: un decreto in questa materia non si poteva fare. Secondo: soggetti politici interessati modificano unilateralmente la legislazione elettorale a proprio favore. Terzo: si finge che sia un interpretazione, laddove è evidente l’innovazione. Quarto: l’innovazione avviene con formule del tutto generiche che espongono l’autorità giudiziaria, quale che sia la sua decisione, all’accusa di partigianeria".
Di Pietro e Napolitano. È giusta la critica dell’ex pm al Colle?
"Le reazioni di Di Pietro, quando accusa il Capo dello Stato di essere venuto meno ai suoi doveri, mi sembrano del tutto fuori luogo. Ciascuno di noi è libero di preferire un comportamento a un altro. Ma è facile, da fuori, pronunciare sentenze. La politica è l’arte di agire per i giusti principi nelle condizioni politiche date. Queste condizioni non sempre consentono ciò che ci aspetteremmo. Quali sono le condizioni cui alludo? Sono una sorta di violenza latente che talora viene anche minacciata. La violenza è la fine della democrazia. Il Capo dello Stato fa benissimo a operare affinché non abbia mai a scoppiare".
Ma Di Pietro, nella firma del Presidente, vede un attentato.
"La vita politica non si svolge nel vuoto delle tensioni, ma nel campo del possibile. Il presidente ha agito usando l’etica della responsabilità, mentre evocare iniziative come l’impeachment significa agire secondo l’etica dell’irresponsabilità".
Lei è preoccupato da tutto questo? "Sì, è anche molto. Perché vedo il tentativo di far prevalere le ragioni della forza sul quelle del diritto. Bisogna dire basta alla prepotenza dei numeri e chiamare tutte le persone responsabili a riflettere sulla violenza che la mera logica dei numeri porta in sé".
L’opposizione è in rivolta. Le prossime manifestazioni e le centinaia di messaggi sul web non rischiano di produrre una spirale inarrestabile?
"Ogni forma di mobilitazione contro gli abusi del potere è da approvare. L’unica cautela è far sì che l’obiettivo sia difendere la Costituzione e non alimentare solo la rissa. C’è chi cerca di provocare lo scontro. Per evitarlo non si può rinunciare a difendere i principi fondamentali. Speriamo che ci si riesca. La mobilitazione dell’opposizione responsabile e di quella che si chiama la società civile può servire proprio a far aprire gli occhi ai molti che finora non vedono".
La colpa di chi fa
le leggi per se stesso
di GUSTAVO ZAGREBELSKY *
"Un dio o un uomo, presso di voi, è ritenuto autore delle leggi?" chiede l’Ateniese ai suoi ospiti venuti da Creta e da Sparta. "Un dio, ospite, un Dio! - così come è perfettamente giusto". Queste parole aprono il grande trattato che Platone dedica alle Leggi, i Nòmoi. Il problema dei problemi - perché si dovrebbe obbedire alle leggi - è in tal modo risolto in partenza: per il timor degli Dei. Le leggi sono sacre.
Chi le viola è sacrilego. Tra la religione e la legge non c’è divisione. I giudici sono sacerdoti e i sacerdoti sono giudici, al medesimo titolo. Oggi non è più così. Per quanto si sia suggestionati dalla parola che viene dal profondo della sapienza antica, possiamo dire: non è più così, per nostra fortuna. Abbiamo conosciuto a sufficienza l’intolleranza e la violenza insite nella legge, quando il legislatore pretende di parlare in nome di Dio. Ma, da quella scissione, nasce la difficoltà. Se la legge ha perduto il suo fondamento mistico perché non viene (più) da un Dio, ma è fatta da uomini, perché dovremmo prestarle obbedienza? Perché uomini devono obbedire ad altri uomini? Domande semplici e risposte difficili.
Forse perché abbiamo paura di chi comanda con forza di legge? Paura delle pene, dei giudici, dei carabinieri, delle prigioni? Se così fosse, dovremmo concludere che gli esseri umani meritano solo di esseri guidati con la sferza e sono indegni della libertà. In parte, tuttavia, può essere così. In parte soltanto però, perché nessuno è mai abbastanza forte da essere in ogni circostanza padrone della volontà altrui, se non riesce a trasformare la propria volontà in diritto e l’ubbidienza in dovere. Ma dov’anche regnasse la pura forza, dove regna il terrore, dove il terrorismo è legge dello Stato, anche in questo caso ci dovrà pur essere qualcuno che, in ultima istanza, applica la legge senza essere costretto dalla minaccia della pena, perché è lui stesso l’amministratore delle pene. In breve, molti possono essere costretti a obbedire alla legge: molti, ma non tutti. Ci dovranno necessariamente essere dei costrittori che costringono senza essere costretti. Ci dovrà essere qualcuno, pochi o tanti a seconda del carattere più o meno chiuso della società, per il quale la legge vale per adesione e non per costrizione. In una società democratica, questo "qualcuno" dovrebbe essere il "maggior numero possibile".
Che cosa è, dove sta, da che cosa dipende quest’adesione? Qui, ciascuno di noi, in una società libera, è interpellato direttamente, uno per uno. Se non sappiamo dare una risposta, allora dobbiamo ammettere che seguiamo la legge solo per forza, come degli schiavi, solo perché la forza fa paura. Ma, appena esistono le condizioni per violare la legge impunemente o appena si sia riusciti a impadronirsi e a controllare le procedure legislative e si possa fare della legge quel che ci piace e così legalizzare quel che ci pare, come Semiramìs, che "a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta" (Inferno, V), allora della legge e di coloro che ancora l’invocano ci si farà beffe.
Possiamo dire, allora, che la forza della legge, se non si basa - sia permesso il banale gioco di parole - sulla legge della forza, si basa sull’interesse? Quale interesse? La moralità della legge come tale, indipendentemente da ciò che prescrive, dovrebbe stare nell’uguaglianza di tutti, nel fatto che ciascuno di noi può rispecchiarvisi come uguale all’altro. "La legge è uguale per tutti" non è soltanto un ovvio imperativo, per così dire, di "giustizia distributiva del diritto". È anche la condizione prima della nostra dignità d’esseri umani. Io rispetto la legge comune perché anche tu la rispetterai e così saremo entrambi sul medesimo piano di fronte alla legge e ciascuno di noi di fronte all’altro. Ci potremo guardare reciprocamente con lealtà, diritto negli occhi, perché non ci sarà il forte e il debole, il furbo e l’ingenuo, il serpente e la colomba, ma ci saranno leali concittadini nella repubblica delle leggi.
Questa risposta alla domanda circa la forza della legge è destinata, per lo più, ad apparire una pia illusione che solo le "anime belle", quelle che credono a cose come la dignità, possono coltivare. È pieno di anime che belle non sono, che si credono al di sopra della legge - basta guardarsi intorno, anche solo molto vicino a noi - e che proprio dall’esistenza di leggi che valgono per tutti (tutti gli altri), traggono motivo e strumenti supplementari per le proprie fortune, economiche e politiche. Sono questi gli approfittatori della legge, free riders, particolarmente odiosi perché approfittano (della debolezza o della virtù civica) degli altri: per loro, "le leggi sono simili alle ragnatele; se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e scappa via" (parole di Solone; in versione popolare: "La legge è come la ragnatela; trattiene la mosca, ma il moscone ci fa un bucone"). Anche per loro c’è interesse alla legalità, ma la legalità degli altri. Poiché gli altri pagano le tasse, io, che posso, le evado. Poiché gli altri rispettano le procedure per gli appalti, io che ho le giuste conoscenze, vinco la gara a dispetto di chi rispetta le regole; io, che ho agganci, approfitto del fatto che gli altri devono attendere il loro turno, per passare per primo alla visita medica che, forse, salva la mia vita, ma condanna quella d’un altro; io, che posso manovrare un concorso pubblico, faccio assumere mio figlio, al posto del figlio di nessuno che, poveretto, è però più bravo del mio; io, che ho il macchinone, per far gli affari miei sulla strada, approfitto dei divieti che chi ha la macchinina rispetta; io, che posso farmi le leggi su misura, preparo la mia impunità nei casi in cui, altrui, vale la responsabilità.
L’ultimo episodio della vita di Socrate, alle soglie dell’autoesecuzione (la cicuta) della sentenza dell’Areopago che l’aveva condannato a morte, è l’incontro con Le Leggi. Le Leggi gli parlano. Qual è il loro argomento? Sei nato e hai condotto la tua vita con noi, sotto la nostra protezione nella città. Noi ti abbiamo fatto nascere, ti abbiamo cresciuto, nutrito ed educato, noi ti abbiamo permesso d’avere moglie e figli che cresceranno come te con noi. Tutto questo con tua soddisfazione. Infatti, non te ne sei andato altrove, come ben avresti potuto. E ora, vorresti ucciderci, violandoci, quando non ti fa più comodo? Così romperesti il patto che ci ha unito e questo sarebbe l’inizio della rovina della città, le cui leggi sarebbero messe nel nulla proprio da coloro che ne sono stati beneficiati.
Le Leggi platoniche, parlando così, chiedono ubbidienza a Socrate in nome non della paura né dell’interesse, ma per un terzo motivo, la riconoscenza. Il loro discorso, però, ha un presupposto: noi siamo state leggi benigne con te. Ma se Le Leggi fossero state maligne? Se avessero permesso o promosso l’iniquità e non avessero impedito la sopraffazione, avrebbero potuto parlare così? Il caso non poteva porsi in quel tempo, quando le leggi - l’abbiamo visto all’inizio - erano opera degli Dei. Oggi, sono opera degli uomini. Dagli uomini esse dipendono e dagli uomini dipende quindi se possano o non possano chiedere ubbidienza in nome della riconoscenza.
Certo: abbiamo visto che l’esistenza delle leggi non esclude che vi sia chi le sfrutta e viola per il proprio interesse, a danno degli altri. Ma il compito della legge, per poter pretendere obbedienza, è di contrastare l’arroganza di chi le infrange impunemente e di chi, quando non gli riesce, se ne fa una per se stesso. Se la legge non contrasta quest’arroganza o, peggio, la favorisce, allora non può più pretendere né riconoscenza né ubbidienza. Il disprezzo delle leggi da parte dei potenti giustifica analogo disprezzo da parte di tutti gli altri. L’illegalità, anche se all’inizio circoscritta, è diffusiva di se stessa e distruttiva della vita della città. Tollerarla nell’interesse di qualcuno non significa metterla come in una parentesi sperando così che resti un’eccezione, ma significa farne l’inizio di un’infezione che si diffonde tra tutti.
Qui è la grande responsabilità, o meglio la grande colpa, che si assumono coloro che fanno leggi solo per se stessi o che, avendo violate quelle comuni, pretendono impunità. Contrastare costoro con ogni mezzo non è persecuzione o, come si dice oggi, "giustizialismo", ma è semplicemente legittima difesa di un ordine di vita tra tutti noi, di cui non ci si debba vergognare.
Questo testo sarà letto stasera da Gustavo Zagrebelsky
al Teatro della Corte di Genova, nel corso
del primo incontro del ciclo "Fare gli italiani - Grandi Parole alla ricerca
dell’identità nazionale"
* © la Repubblica, 01 marzo 2010
Alfano: presto il nuovo Lodo *
Il ministro della giustizia, Angelino Alfano, assicura che per la presentazione di un lodo costituzionale per lo ’scudo’ alle più alte cariche dello stato «non passerà molto tempo». «Lo strumento- aggiunge aAfano- lo decideremo in sede politica. Stiamo valutando e non passerà molto tempo per la decisione». Il ministro spiega che nel legittimo impedimento, approvato ieri dalla Camera e atteso al Senato, c’è una norma «che postula proprio l’esistenza di una iniziativa nell’arco dei 18 mesi» per un lodo costituzionale sull’immunità e che «la Camera ha inoltre approvato un ordine del giorno, con il parere favorevole del governo, che impegna a compiere questa scelta. Noi- aggiunge il ministro- ci muoveremo in questa direzione». Il nuovo lodo, a quanto si apprende, coprirà anche i ministri. E la sponda è offerta sia dai rilievi mossi dalla Consulta in occasione della bocciatura della prima edizione dello scudo penale, sia dalla legge sul legittimo impedimento, che riguarda appunto sia il premier che i ministri.
Il ragionamento che i tecnici del centrodestra hanno applicato nella scrittura di questa norma è semplice, ma porta a quella che al premier è stata prospettata come la ’soluzione finale’. In prima istanza, verrebbe introdotta una modifica costituzionale alle prerogative del presidente del Consiglio e quindi dei ministri e del presidente della Repubblica. In tutti gli articoli che riguardano i poteri e le prerogative di queste cariche verrebbe introdotta una frase in cui si stabilisce che, nei loro confronti, non si può «nè cominciare nè proseguire l’azione penale». Questo introdurrebbe le necessarie condizioni costituzionali per porre al riparo dai processi penali sia il presidente della Repubblica che quello del Consiglio, che però, essendo ’primus inter pares’, ha le stesse specifiche degli altri membri del governo, come anche tenuto in considerazione nella redazione del legittimo impedimento. Ecco quindi l’ingresso dei ministri ma la fuoriscita dei presidenti delle Camere tra le alte cariche dello Stato tutelate.
Una volta introdotto il principio costituzionale, il resto della manovra sarà portato avanti con legge ordinaria, perchè, come spiegano sempre dal centrodestra, «la Costituzione elenca i principi, poi ci vuole una legge per applicarli». È qui che verranno introdotti concetti come la eventuale rinunciabilità della tutela offerta dallo scudo o la reiterabilità in caso di nomina o elezione ad altra carica, il tipo di copertura offerta e la durata degli effetti. Il tutto, ovviamente, per via ordinaria. In quel testo, si sta ragionando, si potrebbe prevedere di introdurre lo scudo anche per i presidenti delle Camere.
L’introduzione del principio di impossibilità a «cominciare e/o a proseguire l’azione penale», poi, otterrebbe anche un altro risultato: di fatto, renderebbe inutile la norma transitoria del processo breve, scritta di fatto per stoppare i processi a carico del premier. Berlusconi sarebbe infatti coperto prima dal legittimo impedimento (la norma-ponte) e poi dal neo-principio costituzionale che renderebbe ’improseguibilì le azioni penali contro il presidente del Consiglio. Resta ancora da definire la strategia parlamentare per arrivare a questa soluzione. Al momento, l’ipotesi più accreditata è quella di iniziare a fine febbraio, ma forse anche dopo le regionali. Entro il 28 febbraio, infatti, va approvato il dl riempi-procure, che oggi la Camera ha licenziato all’unanimità. Prima però il Senato dovrà approvare il legittimo impedimento, varato ieri da Montecitorio. Ecco quindi la finestra temporale opportuna aprirsi soltanto dopo il 28 febbraio, ovvero in piena campagna elettorale per le regionali. A quel punto, è la spiegazione che danno nel centrodestra, «fra presentare un testo il 5 marzo o il 30 non cambia niente». Al momento, infine, non è stato ancora deciso se le nuove norme costituzionali saranno proposte dal Governo o da parlamentari.
* l’Unità, 04 febbraio 2010
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
ABUSO ISTITUZIONALE DEL NOME "ITALIA" DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: DIMISSIONI SUBITO.
di Franco Cordero (la Repubblica, 23.01.2010)
Nelle classifiche dei paesi evoluti l’Italia naviga male e detiene un primato poco invidiabile, lo stile criminofilo. "Stilus" significa anche procedura. In penale, quando ho dato l’esame sessant’anni fa, era materia risibile, imparata su libercoli: fino al 1938 addirittura assente dal programma accademico; stava relegata nell’ultimo, trascurabile capitolo del corso penalistico. Carnelutti la chiamava Cenerentola.
Tra i penalisti eminenti era quasi punto d’onore schivarla, mirando diritto alla discussione nel merito: se quel fatto sia avvenuto; chi l’abbia commesso; come qualificarlo e via seguitando. Adesso rende servizi loschi. Il codice nato ventun anni fa doveva chiudere l’epoca postinquisitoria ma i legislatori non sapevano cosa significhi "processo accusatorio": significa forme sobrie, garanzie serie, agonismo leale, rigorosa economia del contraddittorio; in mano loro diventa cavillo micromaniaco, invadente, esoso, comodo nelle furberie ostruzionistiche; e la XIII legislatura completa la perversione codificando teoremi filati dalla Bicamerale (sui quali Licio Gelli vanta un diritto d’autore); sotto insegna centrosinistra spirava aria berlusconoide. La prassi attua una metamorfosi. Chiamiamola arte del sur place: difese con poche chances nel merito giocano partite dilatorie; sparisce l’autentica questione, se l’asserito reato esista e chi l’abbia commesso; futili schermaglie sfruttano i torpori dell’apparato sovraccarico, finché il tempo inghiotta i reati. Fanno storia le campagne giudiziarie dell’Unto: dopo tanto rumore resta un delitto estinto; altrove tagliava corto abolendo la norma incriminante, vedi falso in bilancio.
Dopo sette anni e mezzo al vertice dell’esecutivo, avendo sconvolto l’ordinamento nel suo privatissimo interesse, corre ancora rischi penali: persa l’immunità fornitagli dai due lodi, invalidi come la legge con cui aveva sotterrato l’appello del pubblico ministero, gioca grosso macchinando un istituto senza eguali nel museo dei mostri giudiziari. I processi italiani sono patologicamente lunghi (abbiamo appena visto perché): in proposito l’Italia figura male; cresce l’esborso alle vittime d’una giustizia tardiva; e il dl n. 1880, su cui Palazzo Madama ha votato mercoledì 20 gennaio, quadra i circoli riprendendo l’idea d’una sinistra toccata dal virus bicamerale. Eccola: imporre dei termini, scaduti i quali ogni processo ancora pendente vada in fumo; colpevoli o innocenti, tutti fuori, sotto lo scudo del ne bis in idem; allegramente liquidati i carichi pendenti, la giostra riparte. Figure da commedia dell’arte, divertenti ma non attecchiranno, finché il diritto sia ancora cosa seria. Sarà il quarto capolavoro berlusconiano abortito davanti alla Consulta.
Vari i motivi. Consideriamone alcuni. Esiste l’articolo 112 della Costituzione: l’azione penale è obbligatoria; se non agisce, il pubblico ministero, deve chiedere un provvedimento che lo sciolga dall’obbligo, perché rebus sic stantibus l’accusa sarebbe insostenibile; e rimane aperta la via d’ulteriori apporti. Azione obbligatoria, quindi irretrattabile: ciascuno dei due caratteri implica l’altro; mosse dall’attore pubblico, le ruote girano da sole, mentre nei sistemi anglosassoni può desistere (allora drops the prosecution); quando cambia idea, chieda l’assoluzione; il giudice dirà se vi sia o no un colpevole. Questo sistema esclude processi evanescenti allo scadere dei termini: equivarrebbero all’accusa lasciata cadere; ogni procedimento bene aperto, dove non ricorrano fatti estintivi del reato, esige la decisione nel merito (salvo un singolo caso, il non liquet previsto dall’articolo 202, comma 3, qualora il segreto di Stato interdica la prova sine qua non). L’articolo 112 della Costituzione è tra i più aborriti nel bestiario nero del monarca; e sappiamo cosa covi quando elucubra revisioni costituzionali: procure agli ordini del ministro affinché i possibili affari penali passino nel filtro delle convenienze. Sedici anni fa chi voleva insediare in via Arenula? Cesare Previti, uomo sicuro.
Secondo profilo d’invalidità: l’occupante scatena un terremoto pro domo sua; il mostro deve valere nei giudizi pendenti; così stabilisce l’articolo 2, escludendo appello e Cassazione (irragionevolmente: articolo 3 della Costituzione). Anche in tali limiti la novità affossa procedimenti a migliaia: è amnistia sotto nome diverso, anzi l’effetto risulta più grave, perché l’amnistia estingue i reati, mentre qui, svanendo il processo, non consta niente, e magari esistono prove più chiare del sole; ma le amnistie richiedono leggi votate in ogni articolo da due terzi delle Camere (articolo 79 della Costituzione).
Terzo profilo (stiamo enumerando i macroscopicamente rilevabili). I processi lunghi non dipendono da operatori poltroni, hanno cause organiche: ipertrofia legislativa, apparato povero, gli pseudogarantismi sotto la cui ala l’augusta persona guadagnava tempo; né questa politica criminofila vuol rimuoverle. Supponiamo che un processo su sette sconfini dai termini estinguendosi. La giustizia penale diventa lotteria: essere o no quel fortunato dipende da imponderabili, fuori d’ogni criterio legale, nella sfera del caso (tanto peggio se fosse manovrato sotto banco); Bridoye, racconta Rabelais, emetteva sentenze tirando i dadi. Valutato secondo l’articolo 3 della Costituzione, l’intero meccanismo appare perverso. La ventesima legge ad personam salva l’ipotetico corruttore nel caso Mills, perché il procedimento pende davanti al Tribunale da oltre due anni, id est un quarto della pena massima. Supponiamo una notitia criminis precoce, indagini rapidissime, udienza preliminare trascinata ad defatigandum e altrettanto il dibattimento: scaduti due anni, scatta il praestigium; il processo era fuoco fatuo; Monsieur ridiventa innocente, anche se le prove lo inchiodano, quando l’ipotetico reato sarebbe prescritto solo in otto anni (articolo 157 codice penale), anzi dieci, contando gl’incrementi da fatti interruttivi. I numeri misurano l’assurdo dell’avere un padrone senza barlumi d’etica.
Il sospetto
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 20.01.2010)
C’è una gran voglia di voltare pagina e guardare avanti. Quello che è stato un Paese riconosciuto e rispettato per la sua politica, la sua cultura, la civiltà dei rapporti sociali, è ormai identificato con l’impasse in cui è caduto a causa di un conflitto di principio al quale, finora, non si è trovata soluzione. Sono quasi vent’anni che il nodo si stringe, dalla fine della cosiddetta prima repubblica a questa situazione, che rischia d’essere la fine della seconda. La terza che si preannuncia ha tratti tutt’altro che rassicuranti.
Siamo probabilmente al punto di una sorta di redde rationem, il cui momento culminante si avvicina. Sarà subito dopo le prossime elezioni regionali. A meno che si trovi una soluzione condivisa, che si addivenga cioè a un compromesso. È possibile? E quale ne sarebbe il prezzo? Se consideriamo i termini del conflitto - la politica contro la legalità; un uomo politico legittimato dal voto contro i giudici legittimati dal diritto - l’impresa è ardua, quasi come la quadratura del cerchio. Per progressivi cedimenti che ora hanno fatto massa anche nell’opinione pubblica, dividendo gli elettori in opposti schieramenti, i due fattori su cui si basa lo stato di diritto democratico, il voto e la legge, sono venuti a collisione.
Questa è la rappresentazione oggettiva della situazione, che deliberatamente trascura le ragioni e i torti. Trascura cioè le reciproche e opposte accuse, che ciascuna parte ritiene fondate: che la magistratura sia mossa da accanimento preconcetto, da un lato; che l’uomo politico si sia fatto strada con mezzi d’ogni genere, inclusi quelli illeciti, dall’altro. Se si guarda la situazione con distacco, questo è ciò che appare come dato di fatto e le discussioni sui torti e le ragioni, come ormai l’esperienza dovrebbe avere insegnato, sono senza costrutto.
I negoziatori che sono all’opera si riconosceranno, forse, nelle indicazioni che precedono. Ma, probabilmente, non altrettanto nelle controindicazioni che seguono. Per raggiungere un accordo, si è disposti a "diluire" il problema pressante in una riforma ad ampio raggio della Costituzione. Per ora, la disponibilità dell’opposizione al dialogo o, come si dice ora, al confronto, è tenuta nel vago (no a norme ad personam, ma sì a interventi "di sistema" per "riequilibrare" i rapporti tra politica e giustizia), è coperta dalla reticenza (partire da dove s’era arrivati nella passata legislatura, ma per arrivare dove?) o è nascosta col silenzio (la separazione tra potere politico, economico e mediatico, cioè il conflitto d’interessi, è o non è questione ancora da porsi?).
Vaghezza, reticenza e silenzio sono il peggior avvio d’un negoziato costituzionale onesto. La materia costituzionale ha questa proprietà: quando la si lascia tranquilla, alimenta fiducia; quando la si scuote, alimenta sospetti. Per questo, può diventare pericolosa se non la si maneggia con precauzione. Tocca convinzioni etiche e interessi materiali profondi. Non c’è bisogno di evocare gli antichi, che conoscevano il rischio di disfacimento, di discordia, di "stasi", insito già nella proposta di mutamento costituzionale. Per questo lo circondavano d’ogni precauzione. Chi si esponeva avventatamente correva il rischio della pena capitale.
Per quale motivo? Prevenire il sospetto di secondi fini, di tradimento delle promesse, di combutta con l’avversario. Quando si tratta di "regole del gioco", tutti i giocatori hanno motivo di diffidare degli altri. La riforma è come un momento di sospensione e d’incertezza tra il vecchio, destinato a non valere più, e il nuovo che ancora non c’è e non si sa come sarà. In questo momento, speranze e timori si mescolano in modo tale che le speranze degli uni sono i timori degli altri. È perciò che non si gioca a carte scoperte. Ma sul sospetto, sentimento tra tutti il più corrosivo, non si costruisce nulla, anzi tutto si distrugge.
Il veleno del sospetto non circola solo tra le forze politiche, ma anche tra i cittadini e i partiti che li rappresentano. Nell’opposizione, che subisce l’iniziativa della maggioranza, si fronteggiano, per ora sordamente, due atteggiamenti dalle radici profonde. L’uno è considerato troppo "politico", cioè troppo incline all’accordo, purchessia; l’altro, troppo poco, cioè pregiudizialmente contrario. Sullo sfondo c’è l’idea, per gli uni, che in materia costituzionale l’imperativo è di evitare l’isolamento, compromettendosi anche, quando è necessario; per gli altri, l’imperativo è, al contrario, difendere principi irrinunciabili senza compromessi, disposti anche a stare per conto proprio. La divisione, a dimostrazione della sua profondità, è stata spiegata ricorrendo alla storia della sinistra: da un lato la duttilità togliattiana (che permise il compromesso tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana sui Patti Lateranensi), dall’altro l’intransigenza azionista (che condusse il Partito d’azione all’isolamento).
Tali paragoni, indipendentemente dalla temerarietà, sono significativi. Corrispondono a due paradigmi politici, rispettivamente, la convenienza e la coerenza: una riedizione del perenne contrasto tra l’etica delle conseguenze e l’etica delle convinzioni. L’uomo politico degno della sua professione - colui che rifugge tanto dall’opportunismo quanto dal fanatismo e cerca di conciliare responsabilmente realtà e idealità - conosce questo conflitto e sa che esistono i momenti delle decisioni difficili. Sono i momenti della grande politica.
Ma da noi ora non è così. Ciò che è nobile nei concetti, è spregevole nella realtà. La buona convenienza appare cattiva connivenza. Il sospetto è che, dietro un gioco delle parti, sia in atto la coscientemente perseguita assimilazione in un "giro" di potere unico e autoreferenziale, una sorta di nuovo blocco o "arco costituzionale", desiderando appartenere al quale si guarda ai propri elettori, che non ci stanno, come pericolo da neutralizzare e non come risorsa da mobilitare. Vaghezza, silenzi, e reticenze sono gl’ingredienti di questo rapporto sbagliato, basato sulla sfiducia reciproca. È banale dirlo, ma spesso le cose ovvie sono quelle che sfuggono agli strateghi delle battaglie perdute: in democrazia, occorrono i voti e la fiducia li fa crescere; la sfiducia, svanire.
Il sospetto si dissipa in un solo modo: con la chiarezza delle posizioni e la risolutezza nel difenderle. La chiarezza si fa distinguendo, secondo un ordine logico e pratico, le cose su cui l’accordo c’è, quelle su cui potrebbe esserci a determinate condizioni e quelle su cui non c’è e non ci potrà essere. La risolutezza si dimostra nella convinzione con cui si difendono le proprie ragioni. Manca l’una e l’altra. Manca soprattutto l’idea generale che darebbe un senso al confronto costituzionale che si preannuncia. Così si procede nell’ordine sparso delle idee, preludio di sfaldamento e sconfitta. Per esempio, sulla difesa del sistema parlamentare contro i propositi presidenzialisti, la posizione è ferma? Sulle istituzioni di garanzia, magistratura e Corte costituzionale, fino a dove ci si vuol spingere? Sul ripristino dell’immunità parlamentare c’è una posizione, o ci sono ammiccamenti?
Quest’ultimo è il caso che si può assumere come esemplare della confusione. Nella strategia della maggioranza, è il tassello di un disegno che richiede stabilità della coalizione e immunità di chi la tiene insieme, per procedere alla riscrittura della Costituzione su punti essenziali: l’elezione diretta del capo del governo, la riduzione del presidente della Repubblica a un ruolo di rappresentanza, la soggezione della giustizia alla politica, eccetera, eccetera. L’opposizione? Incertezze e contraddizioni che non possono che significare implicite aperture, come quando si dice che "il problema c’è", anche se non si dice come lo si risolve.
Ci si accorge ora di quello che allora, nel 1993, fu un errore: invece del buon uso dell’immunità parlamentare, si preferì abolirla del tutto. Fu il cedimento d’una classe politica che non credeva più in se stessa. Ma il ripristino oggi suonerebbe non come la correzione dell’errore, ma come la presunzione d’una classe politica che non ama la legalità. Occorrerebbe spiegare le ragioni del rischio che si corre, nell’appoggiare questo ritorno; rischio doppio, perché una volta reintrodotta l’immunità con norma generale, la si dovrà poi concedere all’interessato, con provvedimento ad personam. Due forche caudine per l’opposizione. Ma allora, perché?
Perché, si dice, se non ci sono aperture, il confronto non inizia nemmeno e la maggioranza andrà avanti per conto proprio. Appunto: dove non c’è il consenso, avendo i voti, vada avanti e poi, senza l’apporto dell’opposizione, ci potrà essere il referendum, dove ognuno apertamente giocherà le sue carte. Ne riparleremo.
Salvaguardare l’arbitro sarebbe interesse di tutti
di MARCELLO SORGI (La Stampa, 31.12.2009)
È senz’altro una scommessa, la decisione di Napolitano di porre anche su Internet, su «You tube», il suo tradizionale messaggio di Capodanno, che come tutti gli anni viene trasmesso stasera in tv. Mentre infatti in televisione il Presidente viene mandato in onda a reti unificate, nella larghissima platea di una particolare prima serata, in cui tutti o quasi tengono il televisore acceso anche come indicatore del tempo che manca al brindisi di mezzanotte, il Capo dello Stato, on line, si sottoporrà ad un particolare indice di gradimento: sarà interessante vedere quanti saranno i cliccatori e a che ritmo cresceranno.
Non è un mistero che, nel tempo, il messaggio abbia visto cambiare la sua funzione. Quando i Presidenti «regnavano» in una condizione di quasi assoluto riserbo, l’apparizione dell’inquilino del Quirinale, nel suo studio, alla sua scrivania, intento a cercare un dialogo con i cittadini e con le famiglie, riunite in un momento di serenità, aveva la forza di un evento eccezionale. Di qui l’attenta esegesi e le accurate interpretazioni che se ne facevano sui media, e le reazioni generalmente di consenso che lo accompagnavano.
Da quando invece il Paese è impantanato nella sua transizione infinita, quello del Presidente è diventato un mestiere infernale. Anche se i suoi poteri formali sono molto limitati, il Capo dello Stato è chiamato quasi tutti i giorni ad arbitrare e a cercare di moderare il livello di scontri politici ormai divenuti intollerabili e che spesso degenerano in veri e propri duelli istituzionali, tra governo e Parlamento, tra governo e magistratura o tra giudici e politici a prescindere dalla loro collocazione partitica.
Napolitano cerca di farlo con misura, tentando di indirizzare, nel contempo, le forze politiche a un confronto in positivo, che non si riduca solo a uno scambio continuo di veti o di insulti. Ma va detto che è un’opera assai ardua. Negli ultimi tempi è anche venuto meno quella sorta di rispetto istituzionale che tendeva a tenere fuori il Presidente dai giudizi contingenti dei partiti. Napolitano, in questi suoi tre anni e mezzo di presidenza, è stato attaccato da destra e da sinistra, senza remore. Dovrebbe essere interesse di tutti salvaguardare l’arbitro, specie in un periodo in cui lo scontro si fa sempre più duro. Se invece non lo si fa, vuol dire che la situazione è davvero oltre il livello di guardia.
Chi vogliamo essere
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 22/11/2009)
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.
Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».
In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.
Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.
Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.
Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».
È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.
Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).
Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.
Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.
Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti nel regime, nei giornali interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.
Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).
Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».
Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo».
Norma e diritto, da Platone a Brecht
Il nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky ricerca le fonti della giustizia
Non deve esserci un’idea astratta che governa ma il rifiuto dell’ingiustizia
La Costituzione è la condizione basilare della democrazia che scaturisce dalla dialettica sociale
di Roberto Esposito (la Repubblica, 10.11.2009)
"Che cosa è la legge?" - chiede il giovane Alcibiade al saggio Pericle nei Memorabili di Senofonte, ricevendone una risposta tutt’altro che soddisfacente.
Se essa è "tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto", cosa la differenzia da una semplice imposizione? Qual è la sua fonte di legittimità e quali i suoi effetti sulla vita associata? In forza di cosa, in definitiva, essa è legge - di un comando divino o di una decisione umana, di una necessità naturale o di un principio di ragione?
E’ la stessa domanda che lega i saggi di Gustavo Zagrebelsky in un libro affascinante, appena edito da Einaudi, che coniuga la tensione della ricerca sul campo - sperimentata nella lunga attività di giudice costituzionale - alla misura, ormai classica, di una scrittura limpida e coinvolgente. Il suo titolo, Intorno alla legge (pagg.409, euro 22), non allude solo all’argomento trattato, ma, in senso più letterale, al periplo argomentativo, ricco di riferimenti filosofici, antropologici, letterari, con cui l’autore si approssima ad esso per cerchi concentrici, fino a penetrarne il nucleo incandescente.
Anziché definita in quanto tale, la legge è interrogata a partire dai suoi presupposti e dalla sua ulteriorità - lungo i margini sottili che la congiungono, ma insieme la distinguono da ciò che la precede e da ciò che la eccede, vale a dire da un lato dal diritto e dall’altro dalla giustizia.
Quanto al primo, la legge - intesa come la regola formale che determina i nostri comportamenti - è lungi dall’esaurire quel complesso di norme e consuetudini, di vincoli e pratiche che una lunga tradizione ha chiamato "diritto". Naturalmente il passaggio dall’antico diritto alla moderna legge - di cui l’Antigone di Sofocle rappresenta in modo insuperato la tragica problematicità - costituisce una svolta irreversibile nei confronti di una concezione non più in grado di organizzare razionalmente la relazione tra gli uomini. Ma non al punto di cancellare la memoria di un ordine non ancora chiuso nella rigidezza formale di comandi e divieti, ancora aderente al flusso magmatico della vita associata.
Anche quando, nei primi secoli della modernità, l’equilibrio tra i due mondi si spezza a favore della legge, ormai saldamente insediata al centro della civiltà giuridica, resta l’esigenza di non perdere del tutto i contatti con quell’origine da cui essa trae la propria linfa ed il proprio significato.
Lo stesso nesso problematico che la lega al diritto rapporta la legge, in maniera sempre difettiva, all’esigenza universale della giustizia. Qui il contrasto tra principio e realtà è ancora più stridente.
Se la giustizia assoluta è inattingibile dalla legge, se questa non obbliga perché giusta ma solo perché legge, da dove trae la propria legittimità sostanziale? Cosa la distingue da un comando arbitrario? D’altra parte tutte le volte che la legge ha sorpassato i propri limiti costitutivi, proclamandosi giusta per decreto divino o secondo natura, ha prodotto esiti negativi se non anche catastrofici. Volendo portare sulla terra il paradiso, l’ha consegnata all’inferno. L’unico rapporto possibile con la giustizia, da parte della legge, è individuato da Zagrebelsky non in un’idea astratta e artificiale della ragione, ma in un sentimento di rifiuto nei confronti dell’ingiustizia palese.
Qui l’autore torna a riproporre l’antitesi, già formulata in opere precedenti, tra logica dei valori e semantica dei principi. Pur ponendosi gli stessi obiettivi - dalla protezione della vita alla salvaguardia della natura, dalla difesa dei diritti alla diffusione della cultura - valori e principi divergono nella modalità con cui si presentano. Mentre i primi esprimono criteri morali assoluti e dunque sottratti al confronto, i secondi sono norme aperte, modelli di orientamento, destinati a favorire l’integrazione sociale. Perciò essi sono, o vanno posti, alla base delle moderne costituzioni.
Arriviamo così al cuore stesso del libro, in cui il discorso di Zagrebelsky si articola in un quadro fitto di riferimenti alla storia del diritto costituzionale ma anche di rimandi a Platone e a Sofocle, a Shakespeare e a Dostoevkij, a Canetti e a Brecht - ad ulteriore riprova che i veri problemi del diritto non giacciono inerti nei codici o nelle decisioni dei giudici, ma nella falda profonda che essi interpretano in forma sempre precaria e provvisoria.
La costituzione, oltre che come garanzia della legittimità e dei limiti dei poteri all’interno dello Stato, va intesa, in senso culturale, come luogo di confluenza, e di rielaborazione, di quell’insieme di valori, aspirazioni, sensibilità collettive che costituiscono l’orizzonte razionale ed emozionale della convivenza. In questo senso, nella sua capacità di tenere insieme punti di vista diversi, essa travalica di gran lunga i confini formali del diritto positivo, per diventare la condizione basilare della democrazia pluralista. Non solo, ma anche un punto d’incrocio decisivo tra le dimensioni del tempo e dello spazio.
Da questo punto di vista la dottrina costituzionale cui Zagrebelsky si richiama non costituisce soltanto una variante rispetto ai tanti modelli precedenti, bensì un vero e proprio cambio di paradigma. Assumere la costituzione non più come norma sovrana, ma come norma fondamentale scaturita dall’intera dialettica sociale, vuol dire situarla in rapporto da un lato con la storia e dall’altro con la nuova configurazione globale del mondo contemporaneo. Anziché modello fisso e immutabile, o anche atto creativo volto ad istituire un ordine completamente nuovo, la costituzione è quella linea di continuità capace di collegare in un nodo complesso passato e futuro. Di attivare una dinamica storica non racchiusa nei confini di un singolo Stato, ma aperta alle richieste che arrivano da un mondo sempre più unito dalle stesse angosce e dalle stesse speranze.
Democrazia in crisi, società civile anche
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 07.11.2009) *
Sulla crisi della democrazia, non mi pare che ci sia molto da dire, in più di quel che sappiamo. Se non bastasse la realtà di cui tutti facciamo esperienza nei piccoli e grandi rapporti di vita quotidiana - prima ancora che nella vita delle istituzioni - , ci sono studi ponderosi che parlano della democrazia odierna nella luce spettrale di un "totalitarismo capovolto".
Si elaborano griglie concettuali per "misurare" le democrazie esistenti, e ciò meno per rilevare progressi, e più per attestare regressi verso il punto-zero al di là del quale, di democratico, resta la forma ma non la sostanza. Ritornano antiche immagini biologiche delle società, paragonate ai corpi naturali viventi che, come nascono, sono destinati a morire. Nulla, nelle opere degli uomini è eterno e così, oggi, quest’idea del ciclo vitale si applica alla democrazia.
La caduta dei totalitarismi del secolo scorso sembrava avere aperto l’èra della vittoria della democrazia su ogni altra forma di governo degli uomini. Dalla seconda metà del secolo XX, si cominciò a mettere tutte le concezioni e le azioni politiche in rapporto con la democrazia, diventata quasi un concetto idolatrico comprensivo di tutte le cose buone e belle riguardanti gli Stati e le società, in tutte le loro articolazioni, dalla famiglia, al partito, al sindacato, alle Chiese, alla comunità internazionale.
Questa connotazione positiva era un rovesciamento di antiche convinzioni. Fino allora, la democrazia era stata associata all’idea della massa senza valore, egoista, arrogante, faziosa, instabile e perciò facile preda dei demagoghi. Il giudizio negativo di Platone fece scuola nei secoli: la democrazia come regime in cui il popolo ama adularsi, piuttosto che educarsi: «Un tal governo non si dà alcun pensiero di quegli studi a cui bisogna attendere per prepararsi alla vita politica, ma onora chiunque, per poco che si professi amico del popolo».
Oggi, nel senso comune, non c’è un ri-rovesciamento a favore di concezioni antidemocratiche. C’è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un "lasciatemi in pace" con riguardo ai discorsi democratici che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio della forza e, nelle parole dei deboli, spesso suonano come vuote illusioni. Non c’è bisogno di consultare la scienza politica per incontrare sempre più frequentemente una semplice domanda - «democrazia: perché?» - , una domanda che, solo a formularla, suona come espressione del disincantamento a-democratico del tempo presente e mostra tuttavia l’oblio di una durissima verità: che, salve le differenze esteriori, prima della democrazia c’è stata una dittatura e, dopo, ce ne sarà un’altra.
Che bisogno c’è oggi, in effetti, di democrazia? Con questa domanda, ci spostiamo dalla parte della "società civile". È lì la sua sede, il luogo della sua forza o della sua debolezza.
Nel senso in cui se ne parla correntemente oggi, la società civile è il luogo delle energie sociali che esprimono bisogni, attese, progetti, ideali collettivi, perfino "visioni del mondo", che chiedono di manifestarsi e trasformarsi in politica. Chiedono di prendere parte alla vita politica e di esprimersi nelle istituzioni: chiedono cioè democrazia. Se la società si spegne, cioè si ripiega su se stessa e sulle sue divisioni corporative, essa diviene incapace di idee generali, propriamente politiche, e il suo orizzonte si riduce allo status quo da preservare, o alle tante posizioni particolari ch’essa contiene - privilegi grandi e piccoli, interessi corporativi, rendite di posizione - da tutelare.
Basta allora l’amministrazione dell’esistente; cioè la tenuta dell’insieme e la tutela dell’ordine pubblico: in altre parole, la garanzia dei rapporti sociali de facto. Di fronte a una società politicamente inerte può ergersi soltanto lo Stato amministrativo che si preoccupa di sopravvivenza, non di vita; di semplice, ripetitiva e, alla lunga, insopportabile riproduzione sociale.
Ma, se questo - la sopravvivenza - è il mandato dei governati ai governanti, ciò che occorre è soltanto un potere esecutivo forte e un apparato pubblico almeno minimamente efficiente. Non c’è bisogno di politica e, con la politica, scompare anche la democrazia. Infatti, mentre ci può essere politica senza democrazia, non ci può essere democrazia senza politica. Non avendo nulla di nostro che vogliamo realizzare, tanto vale consegnarci nelle mani di un qualche manovratore e, per un po’, non pensarci più.
Con queste considerazioni, si spiega l’orientamento che a poco a poco prende piede, a favore di un ri-disegno dei rapporti tra i poteri costituzionali, con l’esecutivo predominante sugli altri. L’investitura popolare diretta del capo, depositario d’un potere tutelare illimitato, contrariamente all’apparenza di parole d’ordine come innovazione, trasformazione, riforme, decisione, ecc. è perfettamente funzionale alla sconfitta della politica democratica, cioè della politica che trae alimento dalla vitalità della società civile. Non solo: più facilmente, sarà funzionale alla sconfitta della politica tout court e alla vittoria della pura amministrazione dell’esistente, cioè alla cristallizzazione dei rapporti sociali esistenti. Di per sé, il pericolo non è l’autoritarismo, anche se può facilmente diventarlo, le volte in cui si tratta di cancellare o reprimere istanze politiche non integrabili nell’amministrazione dell’esistente. Il pericolo immediato è la garanzia della stasi, cioè la decomposizione ulteriore della nostra società in emarginazioni, egoismi, ingiustizie, illegalità, corruzione, irresponsabilità.
Se non si tratta necessariamente di autoritarismo, non è nemmeno un semplice ammodernamento della Costituzione. L’impianto su cui questa è stata consapevolmente costruita è quello di una società civile che esprime politica, a partire dai diritti individuali e collettivi, per concludersi nelle istituzioni rappresentative, con i partiti come strumenti di collegamento. Questa costruzione costituzionale, però, è soltanto un’ipotesi. I Costituenti, nel tempo loro, potevano considerarla realistica. I grandi principi di libertà, giustizia e solidarietà scritti nella prima parte della Costituzione, allora tutti da attuare, segnavano la via lungo la quale quell’ipotesi avrebbe trovato la sua verifica storica. La società italiana, o almeno quella parte della società che si identificava nei partiti, poteva darle corpo. Si può discutere se e in che misura questo corpo sia stato fin dall’inizio deformato dalla "partitocrazia" e se, quindi, le istituzioni costituzionali siano diventate uno strumento di affermazione più di partiti, che della società civile, tramite i partiti. Tutto questo è discusso e discutibile. C’erano comunque istanze politiche che chiedevano accesso alle istituzioni. La democrazia costituzionale si è costruita su questa ipotesi, che per un certo tempo ha corrisposto alla realtà.
Ora, siamo come a un bivio. La strada che si imboccherà dipende dall’attualità o dall’inattualità di quell’ipotesi. Noi non contrasteremo le deviazioni dall’idea costituzionale di democrazia soltanto denunciandone l’insidia e i pericoli, cioè parlandone male. In carenza di una sostanza - cioè di istanze politiche venienti da una società civile non disposta a soggiacere a un potere che cala dall’alto - perché mai si dovrebbero difendere istituzioni svuotate di significato? Le istituzioni politiche vitali sono quelle che corrispondono a bisogni sociali vivi. Se no, risultano un peso e sono destinate a essere messe a margine.
Qui si innesta il compito della società civile, nei numerosissimi campi d’azione che le sono propri, e delle sue tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre. La formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è per loro. La sua difesa è nell’interesse comune. Non c’è differenza, in questo, tra le associazioni che operano per la promozione della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi della vita sociale. C’è molto da fare per unire le forze. E c’è molto da chiedere a partiti politici che vogliano ridefinire i loro rapporti con la società civile: innanzitutto che ne riconoscano quell’esistenza che troppo spesso è stata negata con sufficienza, e poi si pongano, nei suoi confronti, in quella posizione di servizio politico che, secondo la Costituzione, è la loro.
*
Questo testo sarà letto domani dall’autore all’incontro annuale di "Libertà e Giustizia" che inizia oggi al Palazzo Ducale di Genova.
Ecco come le televisioni del premier, e i suoi servi sciocchi, fanno opera di vero e proprio killeraggio. Semplicemente scandaloso questo video:
http://tv.repubblica.it/copertina/canale-5-pedina-il-giudice-mesiano/38042?video
Il magistrato del verdetto Fininvest-Cir seguito da una telecamera Ironie sull’abbigliamento e la promozione ottenuta due giorni fa dal Csm
Il magistrato della sentenza Cir-Fininvest seguito dalle telecamere mentre passeggia
Ironie sui vestiti. Il sindacato delle toghe: "Vergogna". Fnsi: "E minacciano ritorsioni sul canone Rai"
Scoppia il caso Mesiano
Anm: "Esterrefatti e indignati"
ROMA - Scoppia il caso Mesiano. Dopo il servizio mandato in onda su Canale 5 sulla vita privata del giudice della sentenza Fininvest-Cir, il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana Roberto Natale accusa Mattino 5 di "pestaggio mediatico". Far seguire il magistrato dalle telecamere mentre si fa radere dal barbiere o fuma una sigaretta seduto su una panchina di un giardinio pubblico è, per il segretario dell’Associazione nazionale dei magistrati "una vergona, un’intollerabile intromissione nella privacy di una persona".
E’ bufera dopo la trasmissione di ieri. Giuseppe Cascini, segretario di Anm, grida allo scandalo: "Sono esterrefatto e indignato. E’ una vergogna. Dove arriveremo? Definire stranezze il fatto che una persona fuma o sottolineare il colore dei suoi calzini. Distruggere così l’identità di una persona è inqualificabile", continua il segretario di Anm. "Questa campagna mediatica deve finire. Tutte le persone di responsabilità abbiano un sussulto di dignità".
Il presidente della Fnsi è altrettanto duro nei confronti dei giornalisti di Canale 5, e si domanda, "visto che il Presidente del Consiglio continua a deprecare l’uso criminoso della tv, ancora una volta tirando in ballo a sproposito Annozero, come considera l’uso della tv che è stato fatto ieri mattina dalla più importante rete Mediaset?"
Roberto Natale spiega: "Mattino 5 ha mandato in onda un servizio su Raimondo Mesiano che rassomiglia molto ad un pestaggio mediatico. Ci sembra un tema ben più rilevante che non le minacce di ritorsione sul canone Rai al solito segnate dal suo clamoroso conflitto di interessi".
* la Repubblica, 16 ottobre 2009
A sorpresa. Insieme nei giardini di Villa Madama. L’ex leader ds scherza sul sottosegretario
Stretta di mano Berlusconi-D’Alema
Letta favorisce l’incontro. Il Cavaliere: ci vorrebbero più occasioni così
di Marco Galluzzo (Corriere della Sera, 15.10.2009)
ROMA - Gianni Letta prende per mano Massimo D’Alema. Per un attimo. Gianni conduce e Massimo lo segue. Fra le aiuole appena potate dei giardini di Villa Madama Berlusconi è circondato da una decina di persone. Spunta Letta e con lui il suo sorriso, il cordone si apre: il sottosegretario di Palazzo Chigi si fa da parte e l’ex leader dei Ds si trova davanti al capo del governo. Il Cavaliere ha un attimo d’esitazione, il corpo si sbilancia impercettibilmente, i tratti del volto tradiscono la sorpresa di un incontro inatteso.
Ieri mattina all’ora del pranzo. D’Alema e Berlusconi si stringono la mano. Agli occhi soddisfatti di Gianni Letta si aggiungono quelli dei presenti: fra gli altri il consigliere Rai Alessio Gorla, il presidente dell’Enac Vito Riggio, il presidente di Adr, Fabrizio Palenzona, la senatrice del Pdl Cinzia Bonfrisco. A rompere il ghiaccio è l’ex premier: «Sono qui perché si discute dell’interesse comune, sulle cose importanti per il Paese io ci sono...». Risponde il Cavaliere, i tratti del viso non più contratti: «Ci vorrebbero più occasioni di trovarsi insieme per cose simili, nell’interesse dell’Italia».
Fotografi e giornalisti sono lontani. Perdono i sorrisi reciproci, l’ironia della conversazione, la stretta di mano. È appena terminata la presentazione congiunta degli investimenti finanziari che Aeroporti di Roma e Sea, la società aeroportuale milanese, compiranno nei prossimi anni. Poco distante ci sono anche i sindaci delle due città, Gianni Alemanno e Letizia Moratti, il segretario generale della Farnesina, Giampiero Massolo, che ha fatto gli onori di casa. È Palenzona dal palco a introdurre l’argomento: «Ho un piccolo sogno nel cassetto - dice rivolto ai presenti, fra i quali i ministri Altero Matteoli (Infrastrutture) e Sandro Bondi (Beni culturali) - e cioè che con l’aiuto della minoranza, almeno quella responsabile, si possa fare un piano nazionale della mobilità per uomini e merci per sbloccare questo benedetto Paese » . Intorno all’interesse del Paese, a quella convergenza strategica che finora è mancata nella legislatura, per pochi attimi, a beneficio dei presenti, D’Alema e Berlusconi si trovano d’accordo. Nessun accenno alle polemiche degli ultimi giorni. «Dobbiamo fare altre cose di questo tipo - aggiunge il Cavaliere -, io sono il primo a essere felice quando in questo Paese si riesce a lavorare insieme, spero in altre occasioni». D’Alema: «Io sono sempre pronto... ». Poi, scherzando, rivolto a Palenzona, «e con te sono offeso, guarda che tutta l’opposizione, non solo una parte, è fatta di gente di buon senso». Pochi istanti dopo D’Alema si congeda citando ancora Palenzona: «Ora vado a bere un po’ d’acqua... di Letta». Il presidente di Adr poco prima ha paragonato proprio il sottosegretario all’aqua: «Come l’acqua ti accorgi quanto vale quando ti viene a mancare». D’Alema ricorda che il concetto è una parafrasi di Baudelaire, il poeta lo diceva a proposito dell’amore: «Anche se nel tuo caso - dice rivolto al sottosegretario - il paragone con l’amore mi sembra esagerato». Risate. Riggio: «Figuriamoci se non è esagerato parlare di amore oggi, visto che trattiamo di aeroporti». Chiude la riunione una battuta del premier: «Quando si parla di Letta ormai vivo una crisi di identità. È sempre più bravo di me... » .
D’Alema è già lontano, ancora poco e Berlusconi rientrerà a Palazzo Grazioli, dove l’attende il ministro della Giustizia e tutti quegli affari, correnti e straordinari, che fino a oggi non sono mai stati trattati da governo e minoranza, «nell’interesse del Paese», di comune accordo.
La neolingua del cavaliere
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 14 ottobre 2010)
Le considerazioni che seguono sono sotto il segno di un celebre motto di Friedrich Schiller: «La lingua poeta e pensa per te». Nella lingua del nostro tempo, si nota la presenza sovrabbondante di un lessico che non sarà certo quello di Schiller ma è forse piuttosto quello di Berlusconi, dei suoi e dei loro mezzi di comunicazione che si esprimono come lui. E noi abbiamo cominciato a parlare come loro. Ciò può essere interpretato come un’intrusione nel nostro modo d’essere e di comunicare, oppure come un’emersione, che non crea nulla, ma solo dà voce.
In questo secondo caso, la radice sarebbe più profonda, la malattia più pervasiva. In ogni caso, l’uniformità della lingua, l’assenza di parole nuove, l’ossessiva concentrazione su parole vecchie e la continua ripetizione, sintomi di decadenza senile, è tale certo da produrre noia, distacco, ironia e pena ma - molto più grave - è il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio kitsch, forse proprio per questo largamente diffuso e bene accolto.
«Scendere» (in politica) Qual è la via che conduce alla politica? O dal basso o dall’alto. Dal basso, vuol dire dall’interno di un’esperienza politica che, mano a mano si arricchisce e porta all’assunzione di sempre più vaste responsabilità e di più estesi poteri. Ciò equivale a una carriera politica e corrisponde all’idea della politica come professione, nel senso classico di Max Weber. La legittimità dell’aspirazione al potere politico è interna alla politica stessa, alle sue esperienze, alle sue procedure e ai suoi rituali. Oppure la via può essere la discesa, quando si fanno valere storie, competenze e virtù maturate in altre e più alte sfere. La politica non è, allora, una professione, ma una missione. La legittimità dell’aspirazione politica è esterna alla politica come professione, anzi sta proprio nel suo essere estranea, aliena. (....) Trasferita dalla salvezza delle anime alla salvezza delle società, è la sempiterna figura della missione redentrice che un «salvatore» assume su di sé, lasciando la vita beata in cui stava prima lassù, scendendo a sacrificarsi per gli infelici che stanno quaggiù. Teologia politica allo stato puro, cioè trasposizione di schemi mentali e suggestioni dalla teologia alla politica.
C’è poco da ridere o anche solo da sorridere. È cosa seria. È una forma mentale perenne e universale, ricorrente nella storia delle irruzioni in politica di tutti i salvatori che si accollano compiti provvidenziali. I «re nascosti», gli «unti del Signore» che gli uomini comuni devono riconoscere, fanno la loro apparizione nella storia dei popoli in ogni momento di difficoltà; gli «uomini della provvidenza», comunque li si denominino e quale che sia la forza provvidenziale che li manda e dalla quale sono «chiamati» (un Dio, la Storia, il Partito, la «Idea», la Libertà, il Sangue e la Terra, in generale il Bene dell’umanità) sono appena alle nostre spalle, anzi sono tra noi. La secolarizzazione del potere, premessa della democrazia, non li ha affatto scacciati. (....)
Quest’idea è pervasiva e va al di là degli schieramenti politici. L’invocazione di un «papa straniero», salvatore della Patria anch’esso, sia pure di segno provvidenziale opposto a quell’altro, è la dimostrazione che questa mentalità è penetrata profondamente ed estensivamente nel modo comune di considerare la politica e la salvezza politica. Certo, questa formula ha qualcosa d’ironico.
Ma c’è da scommettere che, se un tale personaggio, dal mondo della finanza, dell’industria o dell’accademia, farà la sua apparizione, questa sarà circondata dagli stessi caratteri: anche lui «scenderà» in politica e il suo non sarà un «ingresso» ma una «discesa». Si renda o non si renda conto del significato di questo linguaggio che, ormai entrato nell’uso, gli sembrerà del tutto naturale, ovvio.
La parola-chiave è dunque «scendere». Scendere da dove? Da una vita superiore. Scendere dove? In una vita inferiore. Per quale ragione? Per rispondere a un dovere, al quale sacrificarsi. Quale dovere? Salvare un popolo avviato alla perdizione. Con quali mezzi? Mezzi politici. Dunque: «scendere in politica». Non con i mezzi corrotti del passato però, ma con mezzi inediti e con compagni d’avventura nuovi di zecca. Tutto dev’essere reso «nuovo», generato a un’altra vita. Ciò che è vecchio sa di corruzione. Per questo, si deve scendere dall’alto, dove c’è virtù, purezza, capacità di buone opere, e non dare l’impressione di salire dal basso, da dove nascono solo creature che si alimentano e vegetano nella putredine.
«Contratto» Da dove si scende, è ben detto fin dall’inizio, in quel volumetto del 2001, intitolato Una storia italiana, dove la vita del protagonista, prima della «discesa», è rappresentata come un idillio familiare, intriso di buoni sentimenti, di felicità nel suo rapporto con la natura, come una sequela di successi professionali, come una dedizione, già allora, al bene di tutti coloro che hanno a che fare con lui. Ma ora, c’è un popolo intero che ha bisogno di soccorso. Non rispondere alla chiamata, sarebbe un atto d’egoismo. Noi miscredenti pensiamo che la politica sia il luogo del potere, necessario ma pericoloso. No: è il mezzo per portare soccorso, da agevolare dunque. Resistere alla chiamata o opporsi al chiamato significa volere il male del bisognoso (...).
Questi concetti, ripetuti poi infinite volte, dovrebbero essere analizzati uno per uno. Non sono detti a caso. Ci deve essere una mente: la condizione beata di partenza, il sacrificio personale consacrato al paese infelice e bisognoso d’aiuto, il soccorso, la chiamata, l’altruismo, le armi. C’è già in nuce tutto quanto seguirà. Compreso il rito elettorale, inteso non come laico confronto tra persone e programmi, ma come una sorta di giudizio di Dio affidato al popolo (vox populi, vox dei). Il programma elettorale diventa qualcosa di diverso da una proposta di governo. Diventa rivelazione della propria missione salvifica, «buona novella» che deve essere annunciata tramite «apostoli della libertà». L’investitura elettorale è la risposta all’annuncio. Il «contratto con gli Italiani» è cosa assai meno ingenua di quel che appare. È la sanzione dell’avvenuto riconoscimento del salvatore da parte dei salvati, da parte del suo popolo. La funzione mistica attribuita a questo «contratto», presentato come tavola fondativa d’un patto indistruttibile e sacro, è completamente al di fuori della logica della democrazia rappresentativa. Si spiega nella logica del disvelamento e del riconoscimento, della discesa dall’alto che incontra un bisogno e un’invocazione dal basso.
«Amore» Nel discorso con il quale fu dato l’annuncio (il Kérygma) della «discesa» in politica (26 gennaio 1994), un passaggio-chiave, una frasetta che sembra buttata lì, fu «L’Italia è il Paese che io amo». Così anche l’amore faceva la sua discesa nel linguaggio della politica, non senza conseguenze pervasive. Il neonato Partito Democratico, a sua volta, ritenne di non dovere essere da meno e rispose per le rime nel «Manifesto» fondativo del 2007, che inizia così: «Noi, i democratici, amiamo l’Italia». Questo è un esempio delle conseguenze perverse dell’imitazione nel campo della comunicazione politica. Le due dichiarazioni d’amore si equivalgono? No, non si equivalgono. La prima («L’Italia è il Paese che io amo») è una dichiarazione sovrana che proviene da uno che ha già detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto continuare una vita felice in sé e per sé, oppure avrebbe potuto prescegliere un altro luogo per vivere o per discendere sulla terra dei comuni mortali.
L’Italia, così, è la prediletta che, in virtù di questa predilezione, dovrà ricambiare l’amore che tanto gratuitamente le è stato donato. La seconda dichiarazione è tutt’altra cosa. Non è un atto sovrano. È un atto obbligato. Potrebbe un partito politico che, ovviamente, è dentro, non sopra il Paese al quale chiede consensi, dire: «Tu non mi piaci affatto». Questa dichiarazione, come dichiarazione d’amore, suona falsa perché è obbligata e l’amore obbligato che cosa è? Può essere un’adulazione interessata. Anche la prima, naturalmente, lo è, ma si presenta in tutt’altro modo, come un dono d’amore, una dedizione gratuita, un atto commovente. Chi potrebbe resistere a cotanto amante, a un simile seduttore? Chi potrebbe, a sua volta, non riamarlo?
E se non riama? Se l’amore non è corrisposto? Se non c’è corrispondenza a un amore così grande che è quasi un sacrificio, è perché qualcuno odia. Solo apparentemente, le parole d’amore, spostate dal campo che è loro proprio, cioè quello delle relazioni interpersonali concrete, e riversate nella campo della politica, cioè dei rapporti impersonali astratti, sono parole benevolenti. In realtà sono parole violente, destinate a provocare divisioni radicali, contrapposizioni e incomunicabilità, tra «noi che amiamo» e «voi che odiate».
Valga, tra le tante possibili, questa citazione: «Noi non abbiamo in mente un’Italia come la loro, che sa solo proibire ed odiare. Noi abbiamo in mente un’altra Italia, onesta, orgogliosa, tenace, giusta, serena, prospera, un’Italia che sa anche e soprattutto amare» (L’Italia che ho in mente, Milano, Mondadori, 2000, p. 280). Se guardiamo all’Italia di oggi, possiamo tristemente riconoscere che la spaccatura è avvenuta e non sappiamo come si potrà sanarla.
«Assolutamente» Un avverbio e un aggettivo apparentemente innocenti, da qualche tempo, condiscono i nostri discorsi e in modo così pervasivo che non ce ne accorgiamo «assolutamente» più: per l’appunto, assolutamente e assoluto. Tutto è assolutamente, tutto è assoluto.
Facciamoci caso. È perfino superfluo esemplificare: tutto ciò che si fa e si dice è sotto il segno dell’assoluto. Neppure più il «sì» e il «no» si sottraggono alla dittatura dell’assoluto: «assolutamente sì», «assolutamente no». (...) Il predecessore dell’assoluto è il «categorico» d’un tempo, quando non c’era posto per le sfumature ma solo per le convinzioni granitiche, per gli «imperativi categorici» presi dalla filosofia morale e gettati nell’agone politico. Ciò che l’assoluto esclude è «il relativo». Il relativo è ciò che costringe al confronto e induce a pensare. L’assoluto, invece, comanda e pretende obbedienza, assolutamente. Il relativo è proprio dei deboli, perché è insidiato dal dubbio; l’assoluto è forte perché, insieme ai dubbi, esclude la possibilità di venire incontro, di cercare accordi e stabilire compromessi con chi non condivide i nostri «assoluti». Tra assoluto e fanatico c’è parentela stretta in uno stesso mondo spirituale. (....)
«Fare-lavorare-decidere» La «discesa» dalla quale abbiamo iniziato a che cosa mira? La rigenerazione ch’essa promette in che cosa consiste? Non nella salvezza delle anime, né nell’elevazione civile della società e nemmeno nella potenza della Nazione o dello Stato, come fu per diverse «discese salvifiche» in altri tempi e luoghi. Lo dice ancora una volta il linguaggio del nostro tempo, così impregnato di aziendalismo e produttivismo. L’idea che la vita politica si basi su un legame sociale che - certamente - implica ma non si esaurisce in benessere materiale, consumi, sviluppo economico, è totalmente estranea al modo di pensare attuale e alla lingua che l’esprime. L’Italia è «l’azienda Italia» e tutti devono «fare sistema», «fare squadra» perché possa funzionare. Basterebbe pensare alla politica delle «tre I», slogan lanciato a suo tempo per sintetizzare il senso delle riforme nella scuola italiana: inglese, Internet, impresa. Dalla scuola si bandiva quella cosa così evanescente, ma così importante per tenere insieme una società senza violenza e competizione distruttiva, che è la cultura. La scuola, davvero, si orientava verso il «saper fare», cioè verso la produzione di «risorse umane» finalizzate allo «sviluppo» dell’azienda e da utilizzare intensivamente fino al limite oltre il quale ci sono gli «esuberi».
La politica, a sua volta, è venuta configurandosi come il logico prolungamento di questa concezione del bene sociale. Così, il governo diventa il «governo del fare» il cui titolo di merito «assoluto» è di avere posto fine al «teatrino della politica» e di andar facendo. «Fatto» diceva un non dimenticato spot pubblicitario governativo costruito su un timbro sonoramente impresso su qualche foglio di carta. Per «fare», però, occorre «lavorare» e, così, quello che lavora, non quello che chiacchiera, è il governo buono. Bisogna «lasciarlo lavorare». Chi si mette di traverso, cioè «rema contro» la squadra di canottieri che fa andare la barca non è un oppositore ma un potenziale sabotatore, uno che non ama l’Italia. (.....) Ora, l’ideologia aziendalista del fare e del lavorare mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo. Chi decide, in che modo decide e che cosa decide? Tutto questo è «assolutamente» fondamentale in democrazia perché rappresenta il momento formativo e partecipativo delle scelte politiche. La logica aziendalista, trasportata in politica, fa dell’efficienza l’esigenza principale: efficienza per l’efficienza.
Il fare per il fare: attivismo. Tante leggi, tante riforme: è la quantità a essere messa in mostra. Viene meno il rapporto tra il fare e il «che cosa fare», un rapporto che presuppone una divisione tra il realizzare e il determinare l’oggetto da realizzare. Viene meno il fine dell’agire. (....) Alla medesima logica appartiene il «decidere», per esempio nell’espressione «democrazia decidente», che ha preso piede anche nel lessico di parte di forze politiche d’opposizione (...) Anche qui ciò che viene passato sotto silenzio è ciò che dovrebbe garantire che non si operi male. Forza delle parole: il mezzo, cioè l’efficienza (fare, lavorare, decidere), da mezzo quale è, diventa il fine.
«Politicamente corretto» (....) Negli anni appena trascorsi è stata condotta vittoriosamente una battaglia semantica contro la dittatura del «politicamente corretto», accusato di conservatorismo, ipocrisia e perbenismo. I tabù linguistici sono caduti tutti. Perfino la bestemmia è stata «sdoganata» perché qualunque parola deve essere «contestualizzata». I contesti sono infiniti. Così ogni parola è infinitamente giustificabile. Il degrado è pervasivo, e ha contagiato anche chi non l’ha inaugurato e anzi, all’inizio, l’ha deplorato. Così, ci si è assuefatti. Ma il risultato non è stato una liberazione, ma un nuovo conformismo, alla rovescia. Oggi è politicamente corretto il dileggio, l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. Sono politicamente corretti la rassicurazione a ogni costo, l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù. Tutti atteggiamenti che sembrano d’amicizia, essendo invece insulti e offensioni. I cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe. Cosicché le posizioni sono ormai rovesciate. Proprio il linguaggio plebeo è diventato quel «politicamente corretto» dal quale dobbiamo liberarci, ritrovando l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente.