La Costituzione ai tempi della democrazia autoritaria
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22.07.2008)
La Costituzione fatica nel compito di creare concordia. Quando una Costituzione genera discordia, è segno di qualcosa di nuovo e profondo che ha creato uno scarto. È il momento in cui le strade della legittimità e della legalità (la prima, adeguatezza ad aspettative concrete; la seconda, conformità a norme astratte) si divaricano. Di legalità si vive, quando corrisponde alla legittimità. Ma, altrimenti, si può anche morire. Alla fine è pur sempre la legittimità a prevalere su una legalità ridotta a fantasma senz’anima.
La difesa della Costituzione non può perciò limitarsi alla pur necessaria denuncia delle violazioni e dei tentativi di modificarla stravolgendola. Una cosa è l’incostituzionalità, contrastabile richiamandosi alla legalità costituzionale. Ma, cosa diversa è l’anticostituzionalità, cioè il tentativo di passare da una Costituzione a un’altra. Contro l’anticostituzionalità, il richiamo alla legalità è uno strumento spuntato, perché proprio la legalità è messa in questione.
Che cos’è, dunque, la controversia sulla Costituzione: una questione di legalità o di legittimità? Dobbiamo poter rispondere, per metterci sul giusto terreno ed evitare vacue parole. Per farlo, occorre guardare alla psicologia sociale e alle sue aspettative costituzionali. Questa è un’epoca in cui, manifestamente, le relazioni tra le persone si fanno incerte e il primo moto è di diffidenza, difesa, chiusura. Questo è un dato. Alla politica, che pur si disprezza, si chiede attenzione ai propri interessi, alla propria identità, alla propria sicurezza, alla propria privata libertà. L’ossessione per "il proprio" ha, come corrispettivo, l’indifferenza e, dove occorre, l’ostilità per "l’altrui".
In termini morali, quest’atteggiamento implica una pretesa di plusvalenza. In termini politici, comporta la semplificazione dei problemi, che si guardano da un lato solo, il nostro. In termini costituzionali, si traduce in privilegi e discriminazioni.
Esempi? "A casa nostra" vogliamo comandare noi: espressione pregnante, che sottintende un titolo di proprietà tutt’altro che ovvio. Detto diversamente: ci sono persone che, pur vivendo accanto a noi, sono come "in casa altrui", nella diaspora, senza diritti ma solo con concessioni, revocabili secondo convenienza. Gli immigrati pongono problemi? Li risolviamo con quote d’ingresso determinate dalle nostre esigenze sociali ed economiche e, per quanto eccede, ne facciamo dei "clandestini", trattandoli da delinquenti. Non pensiamo che anche noi, gli "aventi diritto", portiamo una responsabilità delle persone che muoiono in mare o nascoste nelle stive, indotte da questa nostra legislazione ad agire, per l’appunto, da clandestini. La criminalità si annida nelle comunità che vivono ai margini della nostra società (oggi, i rom e i sinti; domani, chissà). Allora, spianiamo per intanto i campi dove vivono e pigiamone i pollici, grandi e piccoli, perché lascino un’impronta. Basta non guardare la loro sofferenza e la loro dignità. Certo, i mendicanti seduti o sdraiati sui marciapiedi ostacolano il passaggio. Noi, che non abbiamo bisogno di elemosinare, vietiamo loro di farsi vedere in giro. Basta non pensare alla vergogna che aggiungiamo al bisogno. L’indigenza si diffonde? Istituiamo l’elemosina di Stato. Si crea così una frattura sociale, tipo Ancien Régime? Basta non accorgersene. I diritti si rovesciano in strumenti di esclusione quando, per garantire i nostri, non guardiamo il lato che riguarda gli altri. In una società di uguali, il lato sarebbe uno solo: il mio è anche il tuo. Ma in una società di disuguali, l’unilateralità è la premessa dell’ingiustizia, della discriminazione, dell’altrui disumanizzazione. Quando si prende questa china, non si sa dove si finisce. Perfino a teorizzare la tortura, in nome della sicurezza.
Ma questa è anche un’epoca di restrizione delle cerchie della socievolezza. Il nostro benessere è insidiato dagli altri: dunque rifugiamoci tra di noi, amici nella condivisione dei medesimi interessi. Al riparo dalle insidie del mondo, pensiamo di trovare la nostra sicurezza. L’esistenza in grande appare insensata, anzi insidiosa: la parola umanità suona vuota, le unità politiche create dalla storia dei popoli si disgregano in piccole comunità sospettose l’una verso l’altra; l’Europa segna il passo. Le riduzioni di scala della socievolezza riguardano ogni ambito della vita di relazione e, a mano a mano che procedono, creano nuove inimicizie in una spirale che distrugge l’interesse generale e i suoi postulati di legalità, imparzialità, disinteresse personale. La legge uguale per tutti è sostituita dalla ricerca di immunità e impunità. Ciò che denominiamo "familismo" crea cricche politiche e partitiche, economiche e finanziarie, culturali e accademiche, spesso intrecciate tra loro, dove si organizzano e si chiudono relazioni sociali e di potere protette, per trasmetterle da padri a figli e nipoti, da boss a boss, da amico ad amico e ad amico dell’amico, secondo la legge dell’affiliazione. Sul piano morale, quest’atteggiamento valorizza come virtù l’appartenenza e l’affidabilità, a scapito della libertà. Sul piano politico, si traduce in distruzione dello spirito pubblico e nella sostituzione degli interessi generali con accordi opachi tra "famiglie". Sul piano costituzionale, si risolve nella distruzione della repubblica di cui parla l’art. 1 della Costituzione, da intendersi nel senso ciceroniano di una comunione basata sul legittimo consenso circa l’utilità comune.
Della diffidenza e della chiusura, conseguenza naturale è la perdita di futuro, come bene collettivo. Si procede alla cieca e, non sapendoci dare una meta che meriti sacrifici, cresciamo in particolarismi e aggressività. Le visioni del futuro, che una volta assumevano le vesti di ideologie, sono state distrutte e, con esse, sono andati perduti anche gli ideali che contenevano. Sono stati sostituiti da mere forze divenute fini a se stesse, come la tecnica alleata all’economia di mercato, mossa dai bilanci delle imprese: forze paragonate al carro di Dschagannath che, secondo una tradizione hindu, trasporta la figura del dio Krishna e, muovendosi da sé senza meta, travolge la gente che, in preda a terrore, cerca inutilmente di guidarlo, rallentarlo, arrestarlo. In termini morali, la perdita di futuro contiene un’autorizzazione in bianco alla consumazione nell’immediato di tutte le possibilità, senza accantonamenti per l’avvenire. In termini politici, comporta una concezione dell’azione pubblica come sequenza di misure emergenziali. In termini costituzionali, distrugge ciò che, propriamente, è politica e la sostituisce con una gestione d’affari a rendita immediata.
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Tutto ciò, invero, è un insieme di constatazioni piuttosto banali che, oltretutto, non rispecchiano l’intera realtà costituzionale, per nostra fortuna fatta anche d’altro. Ma, per quanto in queste constatazioni c’è di vero, non sarà altrettanto banale collegarlo con la Costituzione e le sue difficoltà. Quelle tre nevrosi da insicurezza - visione parziale delle cose; disgregazione degli ambiti di vita comune; assenza di futuro - hanno un unico significato: la corrosione del legame sociale. Non siamo solo noi a trovarci alle prese con questa difficoltà, ma noi specialmente. Una domanda classica nella sociologia politica è: che cosa tiene insieme la società? Oggi la domanda si è spostata, e ci si chiede addirittura se di società, cioè di relazioni primarie spontanee, non imposte forzosamente, si possa ancora parlare. In effetti, poiché convivere pur bisogna, vale una relazione inversa: a legame sociale calante, costrizione crescente.
Non è forse questa la nostra china costituzionale? Una china su cui troviamo, da un lato, per esempio, indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per l’indipendenza della funzione giudiziaria: indifferenza, in breve, per ciò qualifica come "liberale" una democrazia; sostegno, dall’altro, alle misure energiche, alla concentrazione e alla personalizzazione del potere, alla democrazia d’investitura, all’antiparlamentarismo, al fare per il fare, al decidere per il decidere: in breve, a ciò che qualifica invece come "autoritaria" la democrazia.
La sintesi potrebbe essere la frase pronunciata da un deputato socialista, all’epoca delle nazionalizzazioni decise dal governo Mitterand e osteggiate dall’opposizione di destra, che aveva promosso un ricorso al Conseil constitutionnel (più o meno, la nostra Corte costituzionale): «Voi avete giuridicamente torto, perché noi abbiamo politicamente ragione». In altri termini, il vostro richiamo alla Costituzione vale nulla, perché noi abbiamo i voti. Quella frase fece grande scandalo, chi l’aveva pronunciata dovette rimangiarsela. Ma si esprime lo stesso concetto dicendo: la gente ha votato, ben sapendo chi votava, e questo basta; la forza del consenso rende nulla la forza del diritto; chi obbietta in nome della Costituzione è un patetico azzeccagarbugli che con codici e codicilli crede di fermare la marcia della nuova legittimità costituzionale.
La Costituzione non ammette questo modo di ragionare. Non c’è consenso che possa giustificare la violazione delle "forme" e dei "limiti" ch’essa stabilisce (art. 1). Ma questa è legalità costituzionale. Pensare di sostenere una legalità traballante nella sua legittimità, invocando soltanto la legalità, è come volersi trarre dalle sabbie mobili aggrappandosi ai propri capelli. Chi vuol difendere la Costituzione deve accettare la sfida della legittimità e saper mostrare, anche attraverso i propri comportamenti, che la Costituzione non è un involucro ormai privo di valida sostanza, non è l’espressione o la copertura di un mondo senza futuro. Occorre far breccia in convinzioni collettive, là dove domina indifferenza, sfiducia, rassegnazione: i sentimenti qualunquistici, naturalmente orientati a esiti autoritari, di cui s’è detto. Se la crisi costituzionale è innanzitutto crisi di disfacimento sociale, è da qui che occorre ripartire. Si difende la Costituzione anche, e soprattutto, con politiche rivolte a promuovere solidarietà e sicurezza, legalità e trasparenza, istruzione e cultura, fiducia e progetto: in una parola, legame sociale. Se non andiamo alla radice, per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità illegale: tragico nel senso più proprio e classico della parola. Ci si dovrà ritornare.
SUL TEMA, NEL SITO (CLICCARE SULLE PAROLE ROSSE PER LEGGERE L’ART.), SI CFR.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
ACCADEMIA E BERLUSCONISMO. PREMIATO IL PRESIDENTE BERLUSCONI, PER IL RILANCIO DEL PLATONISMO ATEO E DEVOTO. "IO, PLATONE, SONO LA VERITA’": "FORZA ITALIA"!!! Nelle piazze e nei campi di calcio il popolo ateo-devoto è tutto in festa, in un mare di bandiere "nazionali"
Dibattito.
Tutti alla ricerca di veri maestri
In un’epoca di influencer e massificazione, due saggi di Gorini e Zagrebelsky delineano le prospettive per pensare a una scuola autorevole e capace di formare alla vita e alla libertà intellettuale
di Roberto Carnero (Avvenire, sabato 28 settembre 2019)
C’è una poesia di Vittorio Sereni, intitolata Il grande amico, che recita così: «Un grande amico che sorga alto su di me / e tutto porti me nella sua luce / che largo rida ove io sorrida appena / e forte ami ove io accenni a invaghirmi». Più che di “amico”, questa è la definizione di “maestro”. Non a caso Gustavo Zagrebelsky parte proprio da questi versi del poeta di Luino per svolgere un’approfondita riflessione sull’essenza, sul ruolo e sulla presenza dei “maestri” nella società di oggi. Lo fa in un saggio pubblicato dal Mulino, Mai più senza maestri (pagine 160, euro 14,00).
L’autore, già presidente della Corte costituzionale e docente di Diritto all’Università di Torino, parte dal significato letterale del vocabolo, per riflettere su come il concetto si sia sminuito nel tempo, e specialmente in questi nostri tempi travagliati: « Magister (con i derivati: maestro, mastro, master, maître) è generato da magnus e da magis, dalla radice magh, comune nelle lingue indeuropee. Indica qualcosa di grande in tutti i sensi della parola: magno, magnifico, mago, maggio (il mese di Maia, la dea dell’abbondanza)».
E se i contestatori del ’68 avevano come slogan “Mai più maestri!”, i giovani di oggi sembrano non farsi troppi problemi a seguire e a idolatrare i “nuovi maestri” della comunità digitale, vale a dire i cosiddetti influencer. Così dal “maestro di vita” si è passati al trend setter, a chi impone mode e tendenze, soprattutto sui social, con migliaia o milioni di follower. Dobbiamo rassegnarci a questa situazione? Zagrebelsky è convinto di no, ritiene anzi doveroso, per il futuro del mondo in cui viviamo, porre al centro del dibattito «l’attività intellettuale come alimento della vita sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e di scuotere la routine che ci avvolge». Ciò significa far capire ai ragazzi che la cultura è ancora una linfa spirituale insostituibile, è ciò che collega tra loro le generazioni, consentendo la sopravvivenza del pensiero oltre i limiti della vita biologica: come i tratti somatici si trasmettono geneticamente, così quelli spirituali si trasmettono culturalmente.
Si crede nella cultura quando si ha fiducia nel futuro; invece la cultura muore quando si dispera del futuro. L’educazione (che è il compito precipuo dei maestri) si basa su una delicata combinazione tra autorità (parola la cui etimologia va ricollegata al verbo latino augere, aumentare) e coinvolgimento emotivo.
Zagrebelsky presuppone al limite anche una componente di coercizione (sarebbe ingenuo pensare che questa dimensione possa essere del tutto assente, per esempio, nel contesto scolastico), certamente equilibrata e temperata da regole condivise e da buon senso, ma bisogna sempre ricordarsi che se gli studenti non sono emotivamente coinvolti ogni sforzo risulterà alla fine vano, perché così il sapere non “passa”.
Nella scuola odierna pare invece prevalere una visione sempre più “tecnica” del sapere, che finisce per trascurare la soggettività dei discenti. Aggiunge l’autore: «I tecnici fanno parte dell’establishment, i maestri no o, quantomeno, cercano di difendersene. Per questo, indubbiamente, i primi sono valorizzati, protetti, coccolati, mentre i secondi non sono ben visti e, per lo più, sono ignorati e resi innocui».
Forse a questa categoria dei maestri negletti e marginalizzati dall’attuale sistema di istruzione ascriverebbe se stesso Tiziano Gorini, docente livornese che ha composto per Armando Editore un volume intitolato Il professore riluttante (pagine 128, euro 12,00), a metà tra racconto autobiografico e riflessione saggistica. Gorini spiega come oggi la scuola italiana sembri pensata (dalle varie riforme e riformine che si sono susseguite a ritmo vorticoso negli ultimi anni) per combattere ogni “pensiero divergente”, e, invece, per appiattire e omologare il più possibile gli stili didattici dei singoli insegnanti e, dunque, i profili in uscita degli studenti.
Scrive l’autore: «Il pensiero divergente è un comportamento cognitivo affascinante per la creatività che esibisce, utile per la ricerca di soluzione di problemi e per l’innovazione che consente quando quelle soluzioni si dimostrino valide. Lo individuò lo psicologo Guildford negli anni Cinquanta del secolo scorso, indicandone le caratteristiche di fluidità (il numero delle idee prodotte), flessibilità (la capacità di pensare seguendo strategie inusuali) ed originalità (la formulazione di idee non conformiste); è un pensiero stravagante, che non si lascia incastrare nelle routines cognitive e nella banalità dei preconcetti, che naviga tra differenti prospettive intellettuali ed esplora lo spazio della possibilità». Gorini dà qui una definizione di che cosa significhi essere davvero maestri: non dogmatici, non settari, autorevoli ma non autoritari (con quella giusta dose di autorità di cui parlavamo prima, che si basi sull’autorevolezza e non sull’autoritarismo).
Ecco perché è giusto essere “riluttanti” rispetto a un modo di concepire la scuola (e di farla) che non aiuta né gli insegnanti né, a maggior ragione, i ragazzi. All’idea di un’istruzione non basata su un arido e sterile approccio tecnicistico, bensì fondata su solidi valori esistenziali (la cui trasmissione non può che giocarsi in uno spazio di libertà) fa riferimento il celebre filosofo, psicologo, sociologo e pedagogo tedesco Georg Simmel (1858-1918), del quale Mimesis Edizioni manda in libreria il saggio L’educazione come vita. Per una nuova pedagogia della scuola (a cura di Alessandra Peluso, pagine 210, euro 16,00). Il volume raccoglie le lezioni tenute da Simmel all’Università di Strasburgo nel semestre invernale 1915-1916, che, nonostante sia passato più di un secolo, contengono intuizioni ancora validissime, quando non addirittura profetiche per quei tempi, e persino per i nostri. Simmel identifica molto chiaramente la necessità di un giusto contemperarsi di libertà e orientamento che il maestro deve offrire ai suoi allievi: «Prima di potersi creare un sentiero, occore imparare a camminare. Ma, quando si è imparato, bisogna cercarsi anche la strada. D’altro canto, la scuola deve dare una norma e formare il pensiero dichiaratamente proprio, se non corrisponde alla vera personalità o se è oggettivamente fallace».
Scendendo sul piano più concreto delle specifiche strategie didattiche, queste pagine presentano alcune indicazioni che potrebbero essere utilmente meditate nella nostra scuola, dove, per esempio nell’insegnamento dell’Italiano (ma non solo), c’è la tendenza a sottoporre gli studenti a prove sempre più strutturate e in qualche modo “ingabbiate”. Andrebbero evitate - scriveva Simmel - «temi con tracce rigorosamente determinate » e «l’adozione di contenuti preformati ed estranei allo scolaro». Queste tendenze didattiche, oggi più forti che mai, sono la conseguenza (affermava ancora Simmel) «del principio per cui l’importante è la prestazione compiuta e non l’uomo da educare». Ma se il compito della scuola fosse il primo, e non il secondo, i maestri non servirebbero più: basterebbero dei buoni computer e, per il resto, ci si potrebbe accontentare degli influencer.
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
’Rischio oligarchia’. ’Offende Italia’, duello Zagrebelsky-Renzi
Il premier: ’Riforma dà credibilità. Ho accettato di fare un passo indietro sull’Italicum. Vorrei cambiare sistema capilista’
Renzi: ’Come Pd prenderemo iniziativa di modifica Italicum’
"Io ho accettato di fare un passo indietro"
di Serenella Mattera (ANSA, 01 ottobre 2016, 10:49)
ROMA La "palude" da superare e la credibilità da difendere, per Matteo Renzi. Il "rischio per la democrazia" e lo spettro di una "oligarchia", per Gustavo Zagrebelsky. E’ una visione "culturale" di fondo inconciliabile, a separare profondamente il presidente del Consiglio e il professore. I due capifila del Sì e del No al referendum costituzionale si confrontano per la prima volta nello studio tv di La7. Ed è subito scontro, in un continuo botta e risposta, tra battute, punzecchiature e divergenze inconciliabili nel merito. Le oltre due ore di confronto si aprono con un insolito scambio di ruoli: Renzi difende i punti cardine di una riforma "voluta dal Parlamento e non solo da me", Zagrebelsky esordisce con una punzecchiatura.
"Sono contento che abbia ripensato ai discorsi su parrucconi, rosiconi, gufi, altrimenti non avrebbe perso tempo con uno di loro...", sorride il costituzionalista. E il premier si indigna: "Non mi sono mai permesso di chiamarla parruccone. Io ho studiato sui suoi libri: prof, venga al merito". Da qui in poi, inizia uno scambio che passa spesso (e all’inizio Renzi se ne lamenta) dal piano costituzionale a quello politico.
Anche perché, afferma Zagrebelsky: "Le istituzioni vanno calate nel contesto. La Costituzione di Bocassa, dittatore centroafricano, è molto simile a quella Usa". "Lei dice che la riforma costituzionale non tocca in nessun punto i poteri del presidente del Consiglio. Ma molti di noi sono preoccupati per rischi di derive autoritarie o di concentrazione al vertice delle istituzioni: rischiamo di passare da una democrazia a una oligarchia", attacca il costituzionalista. E Renzi ribatte: "L’appello di ’Libertà e Giustizia’ da lei firmato, che parla di svolta autoritaria, offende l’Italia. Tra l’altro, ricorda il premier, Zagrebelsky ha firmato anche l’appello dei 56 costituzionalisti che "dice esattamente il contrario". "Non è vero. E io comunque non mi sono preparato sulle sue contraddizioni...", è la replica.
Il rischio, sottolinea l’esponente del No, non è il governo Renzi ma "quelli che potranno venire. L’Italicum crea un terreno aperto per l’affermazione di poteri forti": mentre in Europa avanzano le estreme destre "dovremmo attrezzarci per avere un sistema di garanzie". Il leader Dem però sul punto dell’Italicum ha un asso nella manica: "L’Italicum non è un rischio e il referendum non è sulla legge elettorale ma come Pd prenderemo un’iniziativa per cambiarla e togliere ogni dubbio".
Il prof però non si fida: "Lei diceva che era la legge più bella del mondo, ora i sondaggi dicono che al Pd al ballottaggio perde e volete cambiare, ma non basta: serve un accordo sul come". Non solo l’Italicum, però. Lo scontro è anche sul nuovo meccanismo di elezione del presidente della Repubblica, sulle competenze e sui poteri del nuovo Senato. "Le garanzie aumentano - afferma Renzi - più poteri alla Corte costituzionale, quorum più alto per l’elezione del presidente della Repubblica e statuto delle opposizioni. Invece il presidente del Consiglio non ha poteri in più". "Se lo Statuto delle opposizioni lo scrive la maggioranza - replica Zagrebelsky - dov’è la democrazia? E la maggioranza potrà eleggersi da solo il presidente della Repubblica".
"Dico che c’è un pericolo per la democrazia pensando non al suo governo ma ai governi che potranno venire. L’Italicum crea un terreno aperto per l’affermazione di poteri forti. Dovremmo attrezzarci per avere un sistema di garanzie e bilanciato", rilancia Gustavo Zagrebelsky . "Lei ha sostenuto - prosegue - che l’Italicum era la legge più bella del mondo e sarebbe stata invidiata da tutti. Invece poiché cambiano le condizioni e non siamo più in un sistema bipolare ma tripolare e i sondaggi dicono che quando il Pd si presenta contro qualcun altro vince qualcun altro, il ballottaggio non è più nel cuore del Pd, forse è nel suo...". "E la rottura del Nazareno fa sì che venga imposta da un parte e il nostro è un Paese diviso in due, il suo partito è diviso in due". Ma il presidente del Consiglio ribatte colpo su colpo, citando anche il maestro di Zagrebelsky, Leopoldo Elia: "La riforma semplifica, a partire dai poteri delle Regioni. E dire che taglia i costi non è demagogia. I poteri del premier non aumentano: non posso neanche rimuovere un ministro. La sua parte culturale si è sempre preoccupata di andare contro Berlusconi ma adesso lei ora vota No come Berlusconi. Noi abbiamo smosso la palude, perché non volete parlare di futuro? Un No rischia di pregiudicare il nostro recupero di credibilità in Europa e nel mondo. Quest’occasione perduta non tornerà per i prossimi venti anni".
di GUSTAVO ZAGREBELSKY (la Repubblica, 24/09/2016)
C’È UNA piccola frase, apparentemente alquanto banale, in La sera del dì di festa di Giacomo Leopardi che dice «tutto al mondo passa e quasi orma non lascia». Desidero richiamare l’attenzione su quel “quasi”. Certo, la vita e le nostre opere sono effimere, ma non del tutto. C’è un residuo, il “quasi”, che resta, che si accumula e che forma ciò che chiamiamo umanità, un termine che può tradursi in cultura: il deposito delle esperienze che vengono da lontano e preparano il futuro, un deposito al quale tutti noi, in misura più o meno grande, partecipiamo. O, meglio: dobbiamo poter partecipare. Altrimenti, siamo fuori della umanità. Per questo, troviamo qui il primo, il primordiale diritto, che condiziona tutti gli altri. La violazione di questo diritto equivale all’annientamento del valore della persona, alla sua riduzione a zero, a insignificanza.
Eppure, viviamo in un mondo nel quale non è nemmeno possibile stabilire con precisione quanti sono gli esseri umani che non conoscono questo elementare diritto che possiamo chiamare “diritto al segno” o, leopardianamente, “diritto all’orma”.Si misurano a milioni, cioè a numeri approssimativi, senza che - ovviamente - a questi numeri possano associarsi nomi. Milioni di anonimi, che giungono a noi come fantasmi, mentre le loro sono esistenze concrete, anche se durano spesso lo spazio d’un mattino o di pochi mattini, consumandosi in fretta in condizioni disumane, in luoghi dove la lotta per la mera sopravvivenza materiale sopravanza qualunque possibilità di relazioni, dove i neonati vengono al mondo sotto la maledizione di leggi statistiche che li condannano alla sparizione entro pochi giorni o settimane di vita.
Ciò che ci interpella inderogabilmente è che non possiamo dire, come forse si sarebbe potuto un tempo, nel mondo diviso per aree, storie, politiche separate e indipendenti le une dalle altre: sono fatti loro, loro è la responsabilità, il nostro mondo non è il loro, ognuno pensi per sé alle proprie tragedie. Non possiamo dirlo, perché il mondo, come ci ripetiamo tutti i momenti, è diventato uno solo, grande, globale. Noi, in un tale mondo, osiamo parlare kantianamente, senza arrossire, di “dignità” come universale diritto al rispetto. Il “diritto all’orma” detto sopra è legato a tutti gli altri diritti come loro premessa e condizione: è davvero quello che è stato definito da Hannah Arendt, con una formula che ha avuto successo (Rodotà), il “diritto di avere diritti”.
C’è un diritto che potremmo dire essere un altro modo d’indicare il diritto di avere diritti, ed è il diritto al nome: un diritto al quale i trattati di diritto costituzionale, se non l’ignorano, dedicano poche righe. La nostra Costituzione, all’art. 22, tra i diritti umani fondamentali stabilisce che nessuno può essere privato del suo nome perché i Costituenti sapevano il valore di quel che dicevano. “Nominando” si specifica, si riconosce, si creano le premesse per creare un rapporto.
Questo non accade, oggi, alle centinaia di migliaia e, in prospettiva, dei milioni di migranti che sono, per noi, milioni non solo di senza nome, ma anche di senza terra. «Quel che è senza precedenti - scriveva Arendt con riguardo alla tragedia del suo popolo negli anni ’30 e ’40 del Novecento - non è la perdita della patria, ma l’impossibilità di trovarne una nuova». Tale impossibilità, allora, era determinata dalle politiche razziali e colpiva comunità umane determinate. Oggi, deriva dalla condizione generale del mondo saturo globalizzato.
Questa situazione estrema è la sorte delle persone private dei diritti umani. I diritti umani sono una realtà per chi sta sopra, e il contrario per chi sta sotto. Lo stesso, per la dignità. Per chi sta sopra, le rivendicazioni di chi sta sotto e chiede di emergere all’onor del mondo sono attentati allo standard di vita “dignitoso” di chi sta sopra. Quando si chiede lo sgombero dei migranti che intasano le stazioni, dormono nei parchi pubblici e puzzano, non si dice forse che danno uno spettacolo non dignitoso? Ma, dignità secondo chi? Non secondo i migranti, che della dignità non sanno che farsene, ma secondo noi che da lontano li guardiamo.
Ci sono parole, dunque, che non valgono nello stesso modo per i divites e gli inanes. Si dovrebbe procedere da questa constatazione per un onesto discorso realistico e riconoscere che le parole che hanno valore politico non sono neutre. Servono, non significano; sono strumenti e il loro significato cambia a seconda del punto di vista di chi le usa; a seconda, cioè, che siano pronunciate da chi sta (o si mette) in basso o da chi sta (o si mette) in alto nella piramide sociale. Occorre, perciò, diffidare delle parole e dei concetti politici astratti. Assunti come assoluti e universali, producono coscienze false e ingenue, se non anche insincere e corrotte.
Potremmo esemplificare questa legge del discorso politico parlando di democrazia, governo, “governabilità”, libertà, uguaglianza, integrazione, ecc. e di diritti e dignità. Si prenda “democrazia”: per coloro che stanno sopra e hanno vinto una competizione elettorale, significa autorizzazione a fare quello che vogliono; per coloro che stanno sotto e sono stati vinti, significa pretesa di rispetto e di riconoscimento: fare e non fare; prepotenza e resistenza. Oppure “politica”: forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come quando la si usa in espressioni come “politica di espansione”, “politica coloniale”, “politica razziale”, “politica demografica”; oppure, esperienza di convivenza, coinvolgimento e inclusione sociale. Oppure ancora: la (ricerca della) “felicità”.
Oggi, sono i potenti che rivendicano la propria felicità come diritto, la praticano e la esibiscono come stile di vita, quasi sempre osceno e offensivo. Ma non sentiremo un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante senza dimora, un individuo oppresso dai debiti e strangolato dagli strozzini, uno sfrattato che non ha pietra su cui posare il ca- po, una madre che vede il suo bambino senza nome morire di fame: non li sentiremmo rivendicare un loro diritto alla “felicità”. Sarebbe grottesco. Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità ma giustizia.
Ma, anche la parola giustizia non sfugge alla legge dell’ambiguità. Giustizia rispetto a che cosa? Ai bisogni minimi vitali, come chiederebbero i senza nome e i senza terra; oppure ai meriti, come sostengono i vincenti nella partita della vita? La giustizia degli uni è ingiustizia per gli altri. Si comprende, allora, una verità tanto banale quanto ignorata, nei discorsi politici e dei politici: se si trascura il punto di vista dal quale si guardano i problemi di cui ci siamo occupati e si parla genericamente di libertà, diritti, dignità, uguaglianza, giustizia, ecc., si pronunciano parole vuote che producono false coscienze, finiscono per abbellire le pretese dei più forti e vanificano il significato che avrebbero sulla bocca dei più deboli.
Onde, la conclusione potrebbe essere questa: queste belle parole non si prestano a diventare stendardi che mobilitano le coscienze in un moto e in una lotta comuni contro i mali del mondo, per la semplice ragione che ciò che è male per gli uni è bene per gli altri. La vera questione è la divisione tra potenti e impotenti. Tanto più le distanze diminuissero, tanto più l’ambiguità delle parole che usiamo diminuirebbe. Ma, è chiaro, qui il discorso deve finire, perché si deve uscire all’aperto, dove non bastano le parole ma occorrono le azioni.
Gli ultimi, i profughi e il diritto di avere la dignità di un nome
di Patrizia Maciocchi (Il Sole-24 Ore, 24.09.2016
Il diritto di avere diritti, il diritto all’orma. Gustavo Zagrebelsky, intervenuto alla prima giornata del Festival di Piacenza, ricorda il verso di Leopardi «tutto al mondo passa e quasi orma non lascia». Il giurista attira l’attenzione sul «quasi». Le nostre opere sono effimere ma non del tutto perché c’è un deposito delle esperienze. Ma non possono lasciare nessuna impronta i 69 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni destinati a morire entro il 2030 secondo il rapporto dell’Unicef, spesso prima ancora di avere un nome. Nessuna impronta lasciano i milioni di profughi senza terra, siriani, turchi, sudamericani in un mondo nel quale non c’è più spazio per nessuno. Un mondo che cerca solo il modo per “smaltirli” pensando a piattaforme galleggianti o a navi in disarmo.
Eppure - afferma Zagrebelsky - tutti dovremmo poter partecipare alla cultura, altrimenti siamo fuori dall’umanità. Malgrado questo non sia, malgrado si resti al sicuro nelle proprie case guardando immagini di morte attraverso le moderne tecnologie, si riesce comunque a parlare di dignità senza arrossire. Entrambi i candidati alla Casa Bianca - sottolinea Zagrebelsky - hanno affermato che lo stile di vita americano non è negoziabile, come non lo è quello delle altre culture europee. Ognuno deve stare al suo posto: «Lo stato sociale non è per tutti ma solo per quelli di casa».
Di diritti fondamentali parla anche la giudice della Corte costituzionale Silvana Sciarra. «La dignità sta nella libertà dal bisogno e dunque nei salari sufficienti, nell’accesso al lavoro, nella tutela della salute». La Consulta - ricorda Sciarra - ha affermato la dignità nelle sue declinazioni: quella dell’embrione, il diritto alla riservatezza, la dignità dello straniero anche privo del permesso di soggiorno. Sciarra riconosce il ruolo delle Corti nell’interpretare i diritti, ma si chiede se lo fanno sempre bene. Un limite sta nel misurarsi con Stati indeboliti dalla crisi economica. Il problema per la giudice è nell’assicurare l’effettività del diritto, a cominciare dall’accesso al lavoro. «La dignità - afferma - deve essere anche uguaglianza di sacrifici, le misure di austerità non devono incidere sui diritti fondamentali, come il cibo e la salute. In Grecia - ricorda - il consiglio di Stato è intervenuto sui salari al di sotto della soglia di povertà, attraverso il diritto alla contrattazione collettiva». È comprensibile per la giudice che ci sia un’esigenza di contenimento di spesa, ciò che conta però è l’elemento della “temporaneità”: un diritto attenuato da una legge di stabilità deve essere “restituito”. Le Corti si occupano di pubblico impiego e di pensionati, Silvana Sciarra avverte però che ci sono anche i poveri, gli ultimi. Il filosofo Remo Bodei ricorda che gli uomini sono fatti tutti della stessa acqua, la differenza la fanno le rive, se sono larghe il fiume scorre tranquillo se, sono strette e tortuose l’acqua si intorbida. Oggi si parlerà ancora di migranti con il ministro dell’interno Angelino Alfano, di carceri, con Giuseppe Cascini e di equo processo con Franco Coppi e Armando Spataro.
GIOVANI ITALIANI NEL MONDO (PRIMA CONFERENZA),
ATTENTI AL TRUCCO E ALL’INGANNO.
E ALLA VERGOGNA!!!
“Non la Costituzione, l’hanno distrutta”
Ha detto Il giurista: non faccio lezione sul testo Renzi-Boschi
intervista di Jacopo Iacoboni (La Stampa, 15.03.2016)
«Tutto al mondo passa e quasi orma non lascia». Gustavo Zagrebelsky ci scherza su; una citazione leopardiana invita a non drammatizzare troppo la notizia che vogliamo commentare: a quasi 73 anni uno dei decani della cultura torinese - e un simbolo, nonostante lui neghi insistentemente - della Torino post-azionista lascia l’Università della città per accettare l’invito ad andare a insegnare a Milano, al San Raffaele. È un momento che segna oggettivamente la fine di una stagione, e forse di una fase del dibattito politico italiano.
Le fa effetto lasciare l’insegnamento a Torino? È esagerato dire che è la fine di tutto un mondo, di laicità e democrazia intransigente?
«Appunto: è un’esagerazione. Quel verso di Leopardi dice che tutto passa, ma aggiunge: “quasi”. Una certa Torino non c’è più dagli anni cinquanta, ma quel mondo non è sparito. Rivive in altre forme, magari non è più egemone, ma quando lo è stato? Torino insegna ancora una sorta di repulsione del mondo intellettuale verso il potere politico, la ripulsa dell’arruolamento. L’idea di entrare in una squadra ci sembra un tradimento. D’altra parte non mi sono mai sentito figlio legittimo della Torino azionista, non sono stato allievo di Bobbio, anche se, specialmente negli ultimi anni, ho avuto con lui una grande amicizia. Ma la mia Torino era anche Giuseppe Grosso, un cattolico, accanto appunto a Bobbio o a Galante Garrone. E Leopoldo Elia, colui con il quale ho iniziato gli studi costituzionalistici. Era questa sintonia tra laicità e il miglior pensiero cattolico liberale. La favola della Torino azionista “covo di moralisti, giacobini e intollerante” è una vulgata polemica creata ad arte da destra, a fini denigratori».
Vulgata poi arrivata, anche solo come ronzio, all’orecchio dei governanti di oggi, quelli che le danno del “professorone”.
«Mah! Lei crede che sappiano qualcosa dell’azionismo? Il nuovismo e il giovanilismo bastano a se stessi. Non hanno bisogno d’altro per compiacersi di sé».
Torniamo a Torino.
«Non è un addio, avrei comunque lasciato l’Università. Per una serie di ragioni. Per stanchezza, fisica ma anche mentale. Ho quasi 73 anni, preparare le lezioni di diritto costituzionale diventava più faticoso, anche se poi l’incontro con gli studenti è sempre stato molto bello. Qualche mese fa Massimo Cacciari, che era venuto a presentare un mio libro sul Grande inquisitore, mi ha chiesto se mi avrebbe fatto piacere tenere un corso al San Raffaele. Mi disse “vieni a insegnare filosofia del diritto”. La cosa mi ha stuzzicato e ho accettato; ma non parlerò di Tommaso o di Aristotele. Parlerò dei limiti, dei confini del diritto. Le idee migliori sul diritto, diceva Bobbio, vengono dai giuristi pratici, più che dai filosofi. Il diritto ha dei limiti? Può invadere tutte le sfere dell’esistenza o ce ne sono alcune davanti alle quali deve fermarsi? Non è rimasto allibito davanti all’idea che il legislatore, nel dibattito sulle unioni civili, possa legiferare su cose come la fedeltà? Siccome il diritto incontra dei limiti, e non ce la fa a vietare, per esempio il cosiddetto l’utero in affitto o la maternità surrogata, quello è il campo in cui deve operare non l’homo iuridicus, ma l’homo moralis. Poi, di fronte all’impotenza, i politici rimettono le decisioni ai giudici e, ipocritamente, si lamentano delle loro “invadenze”».
Lei che posizione ha sulla maternità surrogata?
«Gli aspetti commerciali mi turbano, sono un uomo dell’altro secolo. Che tutto sia o possa essere business mi spaventa. Comunque, non si può derogare a due principi: la non discriminazione del bambino nato con gestazione diversa, e l’interesse del minore. A Milano parlerò di cose come queste».
Che bilancio fa oggi di 50 anni in cattedra?
«Parafrasando San Paolo, che disse “ho combattuto la buona battaglia, e ho mantenuto la fede”, io direi invece che ho perduto la fede».
Perché?
«Non voglio più insegnare il diritto costituzionale. La Costituzione non è una materia come le altre, è qualcosa che implica l’adesione a certi valori. Se passerà il referendum sulla riforma Boschi non saprei neanche più che cosa insegnare. È un testo scritto malissimo, in certe parti contraddittorio e incomprensibile. La Costituzione del ’48 fu rivista da personaggi come Concetto Marchesi. La chiarezza, per una Costituzione, è anche un fatto di democrazia» (Zagrebelsky ha davanti l’articolo 70 sulla funzione legislativa. Ne legge le sgrammaticature, e fa impressione).
Chi ha scritto materialmente questa roba?
«Persone che hanno trovato su questo tema l’occasione, la volta buona, per emergere nel dibattito tra i costituzionalisti».
Renzi e Boschi non sono molto toccati dalle sue critiche.
«Me ne sono fatta una ragione. Siamo in mano a persone per le quali tutto diventa negoziabile. L’opportunismo governa. Per questo, mi va bene la filosofia del diritto; la consolatio philosophiae come, se mi è lecito, per Severino Boezio».
Da Abu Ghraib ai reporter sgozzati. Cosa resta di un principio che infonde leggi e costituzioni
Il valore della dignità quella fragile barriera contro la barbarie
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 12.09.2014)
LO spirito del nostro tempo è orientato alla dignità, come un tempo lo fu alla libertà, all’uguaglianza davanti alla legge, alla giustizia sociale. Tutti s’ispirano, o dicono d’ispirarsi, alla dignità degli esseri umani, soprattutto dopo lo scempio che ne hanno fatto i regimi totalitari del secolo scorso. Tutto bene, allora? Finalmente un concetto e una concezione dell’essere umano - un’antropologia - in cui si esprime un valore sul quale tutti non possiamo che concordare? Un pilastro sul quale un mondo nuovo può essere costruito? Cerchiamo di darci una risposta, lasciando da parte le buone intenzioni, le illusioni.
La legge fondamentale tedesca inizia proclamando la dignità umana «intoccabile». La nostra Costituzione la nomina a diversi propositi. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del dicembre 1948 si apre con la “considerazione” che «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».
Sulla scia di questa convinzione, non c’è Costituzione successiva che non renda omaggio anch’essa alla dignità umana. E non c’è trattazione di temi etici e giuridici in cui la dignità non assuma il significato onnicomprensivo della “dimensione dell’umano”, della sua ricchezza, della sua libertà morale e fisica, dell’inviolabilità del corpo e della mente, dell’autodeterminazione, dell’uguaglianza, della socialità, della “relazionalità”, fino al vertice kantiano dell’essere umano sempre come fine e mai (soltanto) come mezzo. L’appello alla dignità sembra, dunque, l’argomento finale, decisivo, in tutte le questioni controverse in cui è in questione l’immagine che l’essere umano ha di se stesso, cioè la sua autocomprensione.
Ma il fatto che d’un concetto si possa fare un uso tanto largo e, soprattutto, incontestato è un segno di forza o di debolezza del concetto stesso? Purtroppo, di debolezza: tanto più il concetto è generale e astratto, tanto meno è determinato in particolare e in concreto. A seconda dei punti di vista culturali, ideologici, morali gli si possono assegnare contenuti diversi. Questo vale per la libertà: libertà di e da che cosa? Per l’uguaglianza: rispetto a che e in che cosa? Per la giustizia: con riguardo ai bisogni o ai meriti? Per la dignità è lo stesso: degno di che cosa? Di questo genere di principi, tanto più se ne celebra la generale validità, tanto più li si svuota. I criteri assoluti (di libertà, di uguaglianza, di giustizia) sono tutti privi di contenuto. Si prenda la libertà (ma lo stesso esercizio si potrebbe fare per la giustizia o l’uguaglianza).
Già Montesquieu, realista e nemico dei voli pindarici, aveva osservato ( Lo spirito delle leggi , libro XI, cap. II): «Non c’è parola che abbia ricevuto tanti significati e che abbia colpito l’immaginazione in modi tanto diversi, quanto la libertà. Gli uni l’hanno presa come facilità di liberarsi di coloro ai quali avessero attribuito poteri tirannici; altri, come facoltà di eleggere coloro ai quali dovessero obbedire; altri, come diritto di portare le armi e di esercitare la violenza; alcuni, come privilegio di non essere governati che da uomini della propria nazione o dalle proprie leggi; una certa popolazione come l’abitudine di portare lunghe barbe» (allusione ironica ai Moscoviti, che non perdonarono la decisione di Pietro il Grande, presa nel 1698, di farli rasare).
Se avessimo voglia di leggere il Mein Kampf di Hitler, troveremmo che per lui la libertà, anzi la “sete di libertà” aveva a che fare con l’intolleranza fanatica, il militarismo, la purezza della razza, il giovanilismo, la liberazione dal peso della cultura, la fedeltà, l’abnegazione, la fede apodittica, il disprezzo del pacifismo e dello spirito ugualitario, l’espansionismo, la sopraffazione del più debole da parte del più forte. In una parola: l’uomo libero come “super- uomo”, “belva bionda”, “signore della terra”. Che cosa ha a che vedere questo modo d’intendere la libertà con, ad esempio, il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti », o con «la verità vi farà liberi » (Gv 8,32)? Nulla.
Non serve a superare le ambiguità e i dilemmi e a contenere i dissidi insistere quindi sull’elevatezza della dignità come principio della convivenza, innalzarlo a “trascendentale umano”, a “concezione antropologica”. Sottolineo questo punto, perché troppo facilmente ci facciamo accecare dalle belle parole, le quali spesso, tanto più sono belle, tanto più facilmente contengono concetti molto “disponibili”. Quello che ci deve mettere in allarme è la reversibilità dei valori, nel loro uso pratico.
A questo proposito, lo sguardo sulle pratiche del nostro mondo nuovo ci lascia interdetti, anzi inorriditi. Così accade davanti alle sconvolgenti immagini dei due reporter di guerra, James Foley e Steven Sotloff legati, inginocchiati, tenuti diritti dal boia ricoperto dalla tunica nera da cui appaiono solo occhi senza volto e mano armata del coltello, pronta allo sgozzamento. Sul terreno propriamente militare, l’assassinio di questi due uomini non ha evidentemente alcun significato. Ne ha uno grande e tremendo sul terreno psicologico. La guerra psicologica, un tempo, si faceva con altri mezzi: volantini, trasmissioni radio, disfattismo... Oggi si fa col coltello che taglia le gole messo in rete.
La guerra psicologica si avvale della violazione della dignità come arma, e tanto più cresce nelle nostre coscienze il valore dell’essere umano, tanto più la crudeltà si presenta nuda, priva di giustificazioni rispetto a presunte colpe della vittima e tanto più la vittima è scelta a caso, ignara e inerme, quanto più l’orrore è grande ed efficace. Ora siamo ai reporter, di cui si ha un bel dire ch’erano lì per ragioni non di collaborazione col nemico e che erano, in questo senso, “innocenti”. L’innocenza non interessa affatto ai carnefici. La vittima è un anonimo esemplare; non è una persona cui si accolli qualche sua colpa. Lo sgozzamento non è l’esecuzione d’una sentenza di condanna. Anzi, si potrebbe aggiungere che tanto più grande è l’innocenza, quanto maggiore è l’efficacia. Arriveremo a donne e, chissà, a bambini mostrati col coltello al collo?
Queste vittime sono tutte «sotto un dominio pieno e incontrollato », per usare le pa- role di Aldo Moro dal carcere delle Br, il 29 marzo 1978. Ma Moro apparteneva al fronte nemico. Qui ciò che conta è l’orrore come tale, l’orrore che, come lo sguardo di Medusa, paralizza i destinatari del messaggio. L’assassino si presenta come super-eroe, capace dell’ultra-umano, cioè di farsi beffe dell’ultima frontiera dell’umano, di un suo anche minimo contenuto di valore. Nell’umiliazione della vittima resa impotente, l’aguzzino trova l’esaltazione del suo ego: tra le montagne dell’Iraq, come nel carcere di Abu Ghraib e in tante altre situazioni d’illimitata sopraffazione. Solo che qui c’è l’esibizione dell’inumanità avente, come fine, la ripugnanza, lo sconvolgimento, la paralisi morale. Adriana Cavarero, qualche anno fa, ha analizzato con profondità questa mutazione genetica del terrorismo in “orrorismo” (Orrorismo, ovvero della violenza, Feltrinelli, 2007). Le considerazioni di questo libro sono, per una parte, constatazioni, per un’altra, spaventose profezie.
Nelle immagini che abbiamo davanti agli occhi è espresso quello che potremmo chiamare il paradosso della dignità: più alto è il valore violato, più alta è la capacità aggressiva della violazione. Paradossalmente, se la vita non valesse nulla, non ci sarebbe ragione di violarla. Non ci si scandalizzerebbe delle immagini che abbiamo negli occhi se la dignità non rappresentasse per noi uno dei sommi va- lori ai quali non siamo disposti a rinunciare. Forse, gli assassini non penserebbero che la scena che quelle immagini trasmettono possa avere un qualche significato nella guerra psicologica ch’essi intraprendono. La dignità dà forza al suo opposto. Il delitto vi trova il suo alimento. E il nutrimento è dato proprio dal valore che attribuiamo alla vittima.
Siamo di fronte alla fragilità del bene, alla fragilità della dignità come bene sommo dell’essere umano. Un libro famoso che tratta della virtù porta, per l’appunto, come titolo La fragilità del bene (il Mulino, 1996). L’autrice, Martha Nussbaum, discute di fortuna, di vulnerabilità, d’incertezza dell’esistenza. La virtù, come il fragile germoglio della vite, è esposta a ogni genere d’intemperie e d’imprevisti. Ma, qui siamo di fronte a qualcosa in più, alla ricattabilità: il bene è ricattabile proprio perché è bene e c’è chi gli si sente obbligato. Se non te ne importasse nulla, potresti passare davanti all’ignominia senza muovere un ciglio. I virtuosi sono più fragili dei cattivi, perché il bene è ricattabile dai suoi nemici, mentre il male non lo è.
L’orrore, se non cadiamo nell’indifferenza dell’assuefazione, induce a ripagare con la stessa moneta, cioè con altro orrore. Ciò dimostra quale fragile barriera sia il valore della dignità che ci protegge dalla barbarie. C’è una via che non sia né l’indiffer enza, né la rit orsio ne? C’è la possib ilità che non ci si abbandoni, a propria volta, alla violenza indiscriminata e dimostrativa che accomuna nella stessa sorte innocenti e colpevoli, cioè alla guerra che travolge gli uni con gli altri? Sì, c’è, ed è la responsabilità che si fa valere nelle sedi della giustizia. Dignità, responsabilità e giustizia si tendono la mano.
L’era della compiacenza
L’inganno della cultura al servizio del potere
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 03.11.2012)
NELLE società libere, la cultura è una funzione sociale, per così dire, democratica. Giustamente si dice che la cultura ha una funzione politica, ma questo vale in senso ampio, come servizio alla vita della pòlis, non nel senso stretto di “politica dei politici”. La cultura è una delle tre “funzioni sociali” sulle quali si reggono le nostre società: economia, politica e, per l’appunto, cultura.
Tutti i bisogni sociali sono ascrivibili a uno degli elementi di quella triade, elementi che, variamente configurati, intrecciati, coordinati o messi in gerarchia connotano il modo d’essere e di reggersi delle nostre società. La dottrina delle tre funzioni, che ha radici antichissime, deve tener conto degli odierni postulati della libertà e dell’uguaglianza. Libertà significa mobilità sociale, dunque la possibilità di passare da una funzione all’altra. L’uguaglianza, a sua volta, esclude che alle tre funzioni possano corrispondere categorie sociali separate, com’era invece nelle società antiche. Il cittadino è potenzialmente attivo nel campo economico, politico e culturale; può passare dall’uno all’altro, all’altro ancora, e può perfino svolgerne più d’una contemporaneamente.
La caduta delle barriere rigide, non esclude affatto, tuttavia, che ciascuna funzione mantenga il suo profilo differenziato; che chi si dedica e quando si dedica a una di esse, operando negli ambiti e nelle istituzioni corrispondenti, sia tenuto a un codice di comportamento specifico, vincolato ai dettami di una vocazione particolare. La confusione dei comportamenti determina situazioni percepite come improprie, inammissibili, corrotte.
Le commistioni sono la spia della perdurante vitalità nella nostra coscienza civile di quell’antichissima visione tripartita delle funzioni sociali, in quanto non siano accettate ma siano squalificate come incompatibilità o conflitti d’interesse dagli effetti inquinanti. Non è forse questo uno dei temi politici dominanti nel nostro Paese, dove le connivenze tra finanza e politica, nel silenzio, nei balbettamenti o con la copertura e la connivenza della cultura, hanno avvelenato i pozzi da cui ciascuna di esse dovrebbe attingere le proprie specifiche, non contaminate, risorse?
La cultura, i suoi attori, i beni di cui essi dispongono, vivono, per così dire, assediati. La loro forza materiale è nulla, ma la forza spirituale può essere grande. Si comprende allora che le altre funzioni sociali, l’economia e la politica, la lusinghino per ottenerne i favori, la insidino. Dall’altra parte, poiché la cultura non produce né ricchezza né potere, si spiega la forza d’attrazione che economia e politica esercitano su chi opera nel campo della cultura. Qui, nascono i tradimenti.
C’è un’evidente asimmetria: le seduzioni sono a senso unico. Non si è mai visto che la cultura abbia seriamente tratto a sé uomini dell’economia e della politica, distraendoli dalla ricchezza e dal potere. Non esistono “stati di cultura”, se non nell’immaginario regno platonico dei filosofi. Invece, esistono “Stati di politica”, dove il momento politico pretende il monopolio della legittimità; ed esistono Stati di economia, dove è il momento economico, travestito da tecnico, a pretendere il monopolio della legittimità. Né l’uno né l’altro, tuttavia, potrebbero esistere senza la legittimazione, la copertura, offerta dalla cultura. Ma, quale cultura? Poiché la ricerca del potere e della ricchezza, come prodotti della libertà e dell’uguaglianza, ha di per sé effetti distruttivi della compagine sociale, la cultura che si limita a seguire pedissequamente gli interessi di chi opera in quegli altri ambiti moltiplica la distruzione e contraddice il suo compito di “terzo” unificatore.
Il mondo della cultura ha il diritto al rispetto della sua autonomia e gli uomini di cultura hanno il dovere di difenderla. Esempi? Non c’è rispetto, quando i beni culturali e i beni ambientali, che sono “culturali” anch’essi, sono usati e abusati, ceduti, cementificati, per ottenere consenso da spendere nella competizione per il potere. I “beni culturali”, conformemente alla loro natura e funzione, hanno da essere collocati in una sfera immunizzata dalla politica.
Se esiste un ministero che si occupa di cultura, questo non dovrebbe essere concepito come appannaggio di partiti in funzione di non si sa quali “politiche culturali”, che non spetta loro progettare e mettere in opera. Ma, devono anche essere immuni dagli interessi commerciali. Non c’è rispetto quando sono sfruttati in campagne commerciali, per promuovere marchi e pubblicizzare prodotti. Possono, certamente, procurare e produrre denaro.
La cultura - per parafrasare un’espressione triviale - non si mangia, ma può dare da mangiare a molti e in molti modi, soprattutto quando, com’è auspicabile, si rivolge al pubblico dei grandi numeri. Ma, deve trattarsi, per così dire, di una conseguenza, o di un effetto collaterale e indotto, non dell’obiettivo primario, prevalente sul rispetto della cultura. La quale non esiste per dar da mangiare ai corpi, ma per alimentare le forze spirituali dell’auto-coscienza individuale e collettiva.
Non c’è rispetto per la cultura quando il Ministero, questa volta dell’istruzione, formula programmi scolastici come quello noto “delle tre I” (inglese, internet, impresa) che esprimono un’idea puramente aziendalistico- esecutiva della scuola, idea resa concreta nella programmazione degli studi nei dove una volta si studiava il diritto costituzionale e pubblico e ora si studiano i contratti con la pubblica amministrazione, le opportunità di finanziamento delle imprese, la disciplina degli investimenti finanziari, e altre cose di questa natura (Gazz. Uff. 30.3. 2012, Supplemento), cose utili ma in ambito diverso. Dall’altra parte, non c’è rispetto per la cultura da parte di chi, per primo, dovrebbe difenderne l’autonomia.
Come ho già detto la nostra epoca è sempre più ricca di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali. Quella del consigliere sarebbe una sorta di versione odierna “dell’intellettuale organico” gramsciano che si collegava alle forze storiche della società per conquistare “l’egemonia” e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso. Il consigliere di oggi vive tra ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, e si lega al piccolo o grande potente, offrendo i suoi servigi intellettuali e ottenendo in cambio protezione e favori.
La stessa cosa può ripetersi per i consulenti che offrono le proprie conoscenze alle imprese, per testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i prodotti; per testimoniare la qualità del ciclo produttivo, la sua non-nocività, la sostenibilità dell’impatto ambientale, e altre prestazioni di questo genere. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono affatto cosa cattiva, ma solo quando non sono spinti dalla smania di “proporsi” e per questo, inevitabilmente, accettano d’essere reclutati e d’entrare “nell’organico” di questo o quel potente. L’uomo di cultura diventa allora uomo di compiacenza, sebbene spesso voglia illudere se stesso d’essere lui a usare il potente come mezzo per realizzacorsi re le proprie idee, mentre è sempre il contrario: sono le sue idee a essere usate come mezzo per gli interessi del potente.
La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove nessuno padroneggia anche solo la minima parte dei problemi dalla cui soluzione dipende la vita collettiva; dove il più sapiente nel suo campo è perfettamente ignorante nei campi altrui; dove quindi è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, se l’integrità delle loro “prestazioni” fosse inficiata dal sospetto di compromissione con interessi politici o economici, la cultura, come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza, sarebbe un corpo morto. Il dileggio degli intellettuali non sarebbe immotivato.
La ragione simbolica è pratica?
di Roberta de Monticelli (Il Sole-24 Ore, 22 luglio 2012)
Scriveva Kant nella Critica del giudizio: «Il poeta osa dar corpo a quelle essenze invisibili che sono le idee... il paradiso e l’inferno, l’eternità, la creazione, o anche a quelle di cui l’esperienza ci dà qualche esempio... ben oltre i limiti dell’esperienza che ne abbiamo...». Gustavo Zagrebelsky non esita ad allargare ben oltre la sfera di influenza dell’arte il potere dei simboli: «Attraversando il segno simbolico, si dischiude una dimensione supra-sensibile e supra-razionale dove gli esseri umani incontrano un mondo che è per loro realtà, come il divino e il diabolico, l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, l’infinitamente alto o l’infinitamente profondo, la giustizia e l’ingiustizia, l’ordine e il caos, il potere e l’arbitrio, l’amore e l’odio, l’unione e la divisione, il puro e l’impuro, la riscossa e la rassegnazione, la pace e la guerra: realtà anch’esse, per chi le percepisce, le desidera o le teme, pur se appartenenti a un altro ordine di realtà rispetto a quelle empiriche e razionali».
Il nuovo piccolo libro del grande costituzionalista è perfetto per spalancare la vacanza della mente alla vastità di quell’«immensa ontologia invisibile» (Searle) che è il mondo della nostra vita associata, con i suoi oggetti invisibili eppure realissimi almeno nei loro effetti, come mercati e monopoli, confini nazionali e proprietà, matrimoni e professioni, conflitti e guerre... Ma l’oggetto del libro non sono i fatti, le relazioni e gli atti sociali, ma ciò che in qualche modo li avvolge: le Idee, primo e ultimo oggetto della filosofia.
Questo rende insieme affascinante e scivolosa la breve via per cui Zagrebelsky ci conduce, e che a ogni svolta apre ulteriori e indefinite possibilità di accogliere l’invito che i simboli fanno - a pensare. O magari qualche volta al contrario - a sognare. Che cosa sono le Idee? Grumi di «eccedenza di significato che non si lascia racchiudere in un concetto determinato... sfugge al discorso descrittivo e razionale, si affida all’immaginazione, è sempre produttivo di significati e dà motivo per rivolgersi al passato... ma anche per guardare avanti, immaginando, sperando...». Eppure c’è un indizio che le Idee non sono solo, e non sono fondamentalmente questo.
È la parola «ideologia», che ci conduce nel cuore di questa operetta morale. Zagrebelsky riconosce quanto imbarazzante possa essere questa parola, e tuttavia osserva anche come il tramonto delle ideologie sia tutt’uno con il «deserto simbolico», l’apparente povertà che nelle nostre società affligge quella delle tre funzioni sociali riconosciute da Platone a Dumézil - la funzione economica, quella politica e quella simbolica - l’ultima, quella che invece è stata nei millenni - attraverso i chierici religiosi o laici di ogni civiltà - la funzione più potente e necessaria alle altre, quella che plasma le «rappresentazioni collettive» e dà alimento alla «fiducia» e alla «speranza» sulle quali si basano le convivenze umane. Quella di cui da sempre ha bisogno la politica per esistere e governare.
Ci sono pagine che il Presidente di Libertà e giustizia dedica alla nullità ideale e simbolica degli emblemi e dei discorsi dei partiti qui e oggi, pagine di cui non si può non condividere tutto l’irridente sconforto. Ma ecco, siamo al punto.
Se tanto necessaria e potente è la funzione simbolica, che in veste di ideologia «prende possesso delle menti...» - non sarebbe indispensabile, oggi, liberare questa funzione dall’ambiguità costitutiva - fra pensiero e «sogno», critica e illusione, libertà e prigionia della mente, che al procedere «simbolico» sembra costitutivamente inerire? Se la politica è nella sua Idea il governo delle società umane secondo giustizia e ragione, non è davvero tempo di provare a mettere a fuoco che cosa sia un’Idea come questa? Il nucleo di quest’idea è una qualità di valore, la «giustizia»: è possibile uno spazio non «ideologico», delle ragioni, dell’informazione, della critica, e naturalmente del confronto fra ordinamenti di priorità di valore diversi, quindi di diverse «parti» politiche?
Insomma: è possibile una fondazione razionale del pensiero pratico, che nella cognizione del dolore e dell’ingiustizia abbia proprio le sue fonti di evidenza? Ciò che fa dei fatti sociali dei beni o dei mali è offerto infine alla nostra critica, sorvegliata esperienza dei valori e disvalori, o consegnato all’arbitrio delle suggestioni, delle religioni, degli dei o delle forze in campo? Insomma: c’è possibile ricerca di verità nel campo dei valori, o la ragione pratica è «soltanto» ragione simbolica?
* G. Zagrebelsky, Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza, Einaudi, Torino, pagg. 92, € 10,00
Zagrebelsky: politica sotto tutela tecnocratica
di Dino Martirano (Corriere della Sera, 26 novembre 2011)
«Gustavo, non essere così pessimista. Non perdiamoci d’animo...». Con queste parole di caldo incoraggiamento, Giuliano Amato conclude il suo intervento dopo aver ascoltato il presidente emerito della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, che ha parlato di società votate all’autodistruzione, di politica egoista con le prossime generazioni, di miopia davanti alle catastrofi tecnologiche, ambientali e finanziarie. Dunque, argomenta il professore Zagrebelsky, quasi per dare una base giuridica a ciò che sta accadendo in Italia e in Europa, «la prospettiva che si apre è quella di una tutela tecnocratica del potere e della politica». Un passo necessario, questo, anche se la svolta tecnocratica dovrà per forza essere una parentesi: altrimenti, avverte l’ex presidente della Consulta, c’è il rischio che la sospensione della democrazia costituzionalmente intesa «possa alimentare ideologie illiberali».
Davanti al capo dello Stato - che ha partecipato, assieme al presidente del Senato Renato Schifani e alla vicepresidente della Camera Rosy Bindi, al seminario annuale della Consulta dedicato al tema «Dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana» - Zagrebelsky rompe gli schemi. E con una relazione che scava nel profondo dell’anima del pensiero occidentale gela l’uditorio: «Pensate alla storia dell’isola di Pasqua, situata a 3.700 chilometri dalle coste del Cile che nei secoli fu sempre rigogliosa, con ananas che pendevano a volontà dagli alberi e animali in grande quantità. Insomma, un posto magnifico dove bastava alzare la mano per cogliere un frutto. Un luogo ricco. Che però, agli inizi del ’700, quando fu scoperta dagli europei, si rivelò desertificato perché ogni generazione lì si comportò come fosse l’ultima. Nell’isola di Pasqua l’uomo ha agito libero da ogni debito nei confronti della generazione successiva. E alla fine ha autodistrutto la sua stessa società».
Ecco qual è il punto di questo mondo globalizzato, insiste Zagrebelsky, pensando forse a uno Stato che si dovrebbe comportare come il buon padre di famiglia che riceve in eredità beni per custodirli temporaneamente e mantenerli in buone condizioni per trasmetterli ai suoi figli: «La vita dei viventi oggi non può essere onesta se non guarda alle generazioni future, se non si comporta come la madre fa con il figlio... E ora il costituzionalismo, che forse è impreparato a questa prova, deve riscoprire i doveri oltre i diritti che possono essere pure ridotti nel tempo presente per poi poterli estendere nei tempi futuri». Questa, conclude il professore, «è l’ultima sfida cui è chiamato il costituzionalismo» che deve affrontare il tema «anche se tecnocrazia e doveri fanno paura».
Concorda il presidente della Corte, Alfonso Quaranta: «Forse dovremmo iniziare a pensare a una carta dei doveri». E in qualche modo Giuliano Amato - che prima dell’inizio dei lavori ha avuto un fitto colloquio con Gianni Letta - prova a risollevare l’umore nei presenti citando Sabino Cassese che lo ascolta in terza fila: «Lo Stato è particolarmente debole perché troppi si sentono forti. Bisogna ridare forza allo Stato debole... Ma oltre alla tecnocrazia ci vuole una dimensione etica: ci vuole il rispetto degli altri, presenti e futuri». Che poi si traduce, per chiunque governi, nell’applicare il principio di precauzione quando si assumono le decisioni.
Perché gli ideali non sono assoluti ma figli di un’epoca
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22 novembre 2011)
Si può dissentire radicalmente sulle premesse e consentire pienamente sulle conclusioni? È la domanda che ci si pone al termine della lettura dell’ultimo, profondo, appassionato, angosciato ma non rassegnato libro di Roberta De Monticelli, La questione civile - Sul buon uso dell’indignazione (Raffaello Cortina Editore).
Il tema è la giustizia, massima virtù sociale; lo scopo è il risveglio alla giustizia attraverso "esercizi di disgusto". L’impianto è filosofico. Il discorso si svolge da Platone e Aristotele, indugia su quello che sembra il preferito, Immanuel Kant, per arrivare a Simone Weil e a Bobbio. Ma, la riflessione spazia: antropologia, psicologia, teologia, giurisprudenza, letteratura. Tutto può essere messo a frutto e fatto reagire, al di sopra delle divisioni disciplinari. Trattandosi di filosofia pratica, cioè orientata all’azione sul suo oggetto - la giustizia -, inevitabile è incontrare di continuo le brutture, le oscenità, le meschinità, gli arrivismi, l’ipocrisia, l’illegalità, la corruzione, le prepotenze, le viltà e il servilismo, cioè la catastrofe etica della nostra società.
Il libro, con una certa sorpresa del lettore, non inizia dalla giustizia. Vi arriva attraverso la bellezza. Bellezza e giustizia: che rapporto c’è? Dicendo bellezza, non si deve pensare a estetismo, snobismo, collezionismo d’arte e cose di questo genere. Se bellezza è armonia e proporzione dei rapporti - di elementi figurativi, architettonici, poetici e musicali, e anche sociali - allora possiamo dire che la bellezza è forma visibile della giustizia. Il rapporto è stretto, inscindibile. Vale l’eterna massima della filosofia scolastica: iustum, bonum, verum et pulchrum convertuntur. Queste qualità dell ’esistenza vivono l’una nell’altra. Non occorre intuizione metafisica per capirne i nessi. Risultano ancora più chiari rovesciando il positivo in negativo: l’ingiustizia è cattiva; il cattivo è falso; il falso è brutto. Si può arrivare alla giustizia a partire dalla bellezza, ma si sarebbe potuto anche dal bonum o dal verum. A partire da uno, si arriva agli altri.
Fin qui, tutto bene. Il passo successivo è da discutere. Giustizia, bontà, verità e bellezza sono "valori", "cose che valgono", non in termini economici, (non c’è un mercato dei valori secondo la legge della domanda e dell’offerta), ma in termini morali. Sono il lato positivo, prezioso, della vita. A meno di pervertimento in bruta animalità, dove vige il fatto compiuto, cioè la "giustizia del più forte", non ne possiamo fare a meno. Potremmo perfino dire che li chiamiamo valori, ma sono necessità, secondo il motto di Kant: se non c’è posto per la giustizia sulla terra, non ha senso la vita degli uomini.
De Monticelli dà grande importanza alla questione del fondamento. È convinta che i valori siano "dati", non perché li si possa constatare e ammirare in sé e per sé. Nel teatro greco, per esempio, "La Pace" si presentava come una fanciulla, avvolta in un peplo trasparente, e tutti esclamavano: "come è bella!". Di lei si poteva dire: "Come è bella!" perché la bellezza le era incorporata e gli spettatori ne facevano esperienza. Dunque, "i fatti stessi si qualificano come beni e come mali" (belli o brutti, giusti o ingiusti, ecc.) e a noi non resta che prendere atto del loro valore, come constatazione. Ne è convinta De Monticelli e chi, come Platone, crede che esista "la bellezza" che si riflette in "le cose belle". Se fosse così, sarebbe possibile fondare la morale in termini oggettivi: le cose belle sono belle perché portano in sé la bellezza, non perché l’attribuiamo loro, secondo la nostra concezione. Insomma: è bello ciò che è bello, non ciò che piace: piace perché è bello, non viceversa (lo stesso, per gli altri valori).
Come possiamo non insorgere - leggiamo nel libro - di fronte alle casette a schiera che deturpano le colline senesi dipinte da Simone Martini? Non è questo, oggettivamente, un insulto al bello, e dirlo non è forse una constatazione di fatto? "Nerone era crudele", non è la stessa cosa? Andiamo oltre: Adolf Hitler era un essere degenerato. Chi non sarebbe d’accordo? Dunque il brutto è incorporato nelle casette a schiera del Senese; la crudeltà, in Nerone; la degenerazione, in Hitler. Ripeto: chi non sarebbe d’accordo? Ma perché siamo d’accordo? Sono "le cose" (le villette, Nerone, Hitler) che parlano a noi, o siamo noi che parliamo a e di loro?
Siamo al problema del fondamento. Al "monismo" essenzialista - fatti e valori sono tutt’uno - sioppone la separazione "dualista": ciò che è non è detto che debba o non debba essere. Un muro separa i fatti dai valori: gli uni non "convertuntur" affatto negli altri. Riconsideriamo l’esempio estremo di Hitler. Ora (e, purtroppo, nemmeno da tutti) si ritiene sia stato uno dei massimi flagelli dell’umanità, ma non allora. C’era chi lo riteneva un nuovo messia, perfino tra gli uomini di chiesa. Per milioni di persone, in Germania e altrove, era il salvatore della civiltà europea contro la barbarie asiatica, impersonata dal comunismo sovietico. In nome del "valore" superiore della civiltà occidentale, si è stati perfino disposti a chiudere gli occhi davanti alla shoah: evidentemente, la difesa della vita degli ebrei si riteneva un non-valore, o un valore minore, di fronte ad altri valori, come il capitalismo o la religione cristiana.
C’era un valore assoluto, obiettivo, e, se sì, qual era? No, non c’era. C’era invece una lotta mortale tra valori soggettivi e relativi, con le rispettive armate schierate su fronti opposti. Noi sappiamo, ora, come sarebbe stato giusto, buono, vero, e bello schierarsi. Ma, come osservatori, dobbiamo ammettere che entrambe le parti, allora, ritenevano di combattere la buona battaglia e che ciascuna delle due vedeva incorporate nelle armi dell’altra il male, e nelle proprie il bene.
Dunque, è più probabile che la condizione esistenziale degli esseri umani non sia quella assunta da De Monticelli. Per lei, il valore delle cose, positivo o negativo, si manifesta nella loro esistenza. Dunque la precede. Per chi non pensa metafisicamente, invece, è l’esistenza che precede i valori. Il che è come dire ch’essi non sono dati ma sono i viventi a doverli dare; vengono dalla nostra libertà e responsabilità e non li troveremo fuori, ma in noi.
Sappiamo che entrambe le posizioni, monismo e dualismo, sono aperte a grandi rischi. Non sono quindi i rischi, gli argomenti per propendere per l’uno o per l’altro. La metafisica dei valori espone al dogmatismo, quando la loro gestione finisca, come è possibile, nelle mani di autorità etiche: stato, partito-chiesa, chiesa. L’anti-metafisica espone all’indifferenza o al soggettivismo estremo e distruttivo, quando prevale l’idea che le questioni di valore non abbiano senso o siano affari da gestire ciascuno per sé.
Piuttosto, riprendendo l’interrogativo iniziale, che è quello davvero importante per il vivere comune, possiamo dire che, quali che siano le opinioni circa il fondamento, sui contenuti si può perfettamente convenire. Gli uni riterranno di andar scoprendo valori; gli altri, di andar creandoli. Da punti di partenza diversi si può giungere alla medesima meta e, cosa consolante, si può, anzi si deve, operare insieme. A condizione di isolare le ali estreme: i dogmatici e i nichilisti. Per riprendere il titolo del libro di De Monticelli: a queste condizioni, far buon uso della comune indignazione è possibile.
Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio
“Senso dello Stato”: chi ne parla non ce l’ha
di Marco Filoni (il Fatto, 22.10.2011)
L’ammazzaparole. Ecco il mestiere del lessicografo Henri Cinoc. Per decenni ha cancellato parole, eliminando quelle vecchie e desuete dal dizionario Larousse. Anche noi abbiamo i nostri Cinoc. Peccato però che non provengano dalla penna felice e visionaria di Georges Perec, che s’inventò il personaggio nel suo insuperabile La vita istruzioni per l’uso. No, i nostri sono persone reali in carne e ossa. Loro non cancellano le parole, è vero. Ma fanno qualcosa di più sottile: le svuotano di senso. Certo, una lingua subisce variabili storiche e sociali che la portano a trasformarsi. Eppure vi sono parole che sono concetti, con una storia e un valore da non modificare. Sono parole da difendere. Perché gli italici emuli di Cinoc - facile riconoscerli - nel loro sprezzante abuso del linguaggio producono danni. Del resto aveva ragione il linguista Leo Spitzer quando diceva che le parole sono spie dello stato psichico di chi se ne serve. Ecco perciò un piccolo dizionario delle parole da conservare affinché il blatericcio quotidiano non le saccheggi del loro vero significato.
CONCERTAZIONE . Era una pratica di governo delle relazioni industriali, in cui i sindacati partecipavano alle decisioni di politica economica. Oggi è un problema per le aziende. Un ostacolo da schivare, pena il trasferimento all’estero. Visto lo spirito dei tempi, proponiamo di sostituirla con crowdsourcing: un neologismo che significa un modello di sviluppo in cui si richiede la partecipazione, dal basso, dei soggetti interessati. Magari qualche idea buona viene fuori. Con questo metodo in Islanda ci hanno scritto nientemeno che la nuova Costituzione.
DIALOGO . Da Platone in poi, il dialogo propriamente detto è quello in cui le persone che vi partecipano non sono d’accordo, e intendono mettersi d’accordo. Una vera e propria arte, nella quale con l’ingegno e la retorica si cerca di convincere l’altro, di tirarlo dalla propria parte o confutarlo con argomenti validi. Oggi dialogano soltanto gli interessi, quasi sempre individuali e non della comunità. La politica viene meno alla condizione necessaria del dialogo, cioè l’ascolto. I politici danno voce a monologhi. Il loro è un dialogo muto.
ETICA . Si tratta del giudizio della condotta dell’uomo, i criteri in base ai quali si valutano i comportamenti e le scelte. È associata all’azione, nel senso che l’etica deve indicare i valori che orientano le scelte di chi agisce. Non a caso, per secoli e secoli, l’etica veniva posta di fianco alla politica. Da non confondere però con la morale, perché sono due cose distinte : banalizzando, la morale è individuale (perciò si parla di morali, al plurale); l’etica è il sistema, quindi morale concreta, storica e pubblica. L’etica dovrebbe dar forma a uno stile di vita. Ecco, basterà questa constatazione (e la lettura dei titoli dei giornali) per capire quanto oggi sia totalmente assente dal dibattito pubblico. Ormai si parla di etica associandola non più alle virtù, bensì ai vizi. Aveva ragione Bertold Brecht quando diceva che prima viene lo stomaco e solo dopo la morale. Ma un avvertimento, prezioso, lo ritroviamo nell’esortazione di Bertrand Russel: “Senza moralità civile le comunità periscono; senza moralità privata la loro sopravvivenza è priva di valore”.
INNOVAZIONE . Significa progresso e genera un cambiamento positivo verso il meglio. Cioè l’applicazione degli elevati livelli di conoscenze (tecnologiche, scientifiche, sociali) che garantiscono un miglioramento della qualità della vita dell’uomo. Va da sé, è strettamente legata alla ricerca. Che da noi non se la passa troppo bene. Anzi. Le uniche innovazioni a cui assistiamo sono sempre piuttosto macchinose. Ma se un’innovazione è troppo difficile da introdurre significa che non è necessaria. E poi in Italia non seguiamo la “Legge di Terman” sull’innovazione, variabile applicata della Legge di Murphy: “Se vuoi formare una squadra che vinca nel salto in lungo, trova una persona che salti nove metri, non nove che ne saltano uno”.
ISTITUZIONE . È una cosa seria. E andrebbe riservata alle persone serie. L’istituzione è una sorta di casa dell’uomo nella quale tutti e ciascuno possano riconoscersi e dalla quale possano essere riconosciuti. Istituti umani, quindi politici e sociali. L’istituzione è l’ombra allungata dell’uomo, come la descrisse R.W. Emerson. Oggi l’istituzione, ahinoi, ha assunto la forma farsesca del “Lei non sa chi sono io!”. Peccato. Perché l’istituzione è fatta dalle persone. E pensare che una volta, quando Chirac era presidente francese, al suo passaggio un uomo gli gridò dalla strada connard (stronzo). Lui gli andò incontro con la mano tesa dicendogli: Chirac, c’est moi!
LIBERTÀ . Montesquieu la definì come il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono. Nell’Ottocento il filosofo inglese John Stuart Mill lo corresse, dicendo che la libertà consisteva nel fare ciò che si desidera. Pare che qui da noi questa seconda definizione abbia preso il sopravvento. Nonostante la difficoltà di definirla, comunque, si può sostenere che la libertà non è mai fine a se stessa, ed è possibile soltanto in un paese dove il diritto ha più forza delle passioni.
RIFORME . Il riformismo nasce come alternativa alla rivoluzione. Nasce a sinistra, muore a destra. Oggi tutti sono riformisti. Chi per vezzo, chi per virtù. Molti lo sono in stile ottocentesco, il cui motto era “Riformate , affinché possiate conservare”! Il problema non è la riforma in sé: si parte sempre dall’esistente, che può esser sempre migliorato. Il problema è il contenuto e chi fa le riforme. Cavour sosteneva che riformare rafforza l’autorità. Ma se a riformare è un buon governo. Altrimenti aveva ragione Tocqueville, per il quale - l’esperienza insegna - il momento più pericoloso per un cattivo governo è quello in cui comincia a riformarsi.
RIVOLUZIONE LIBERALE Molti la invocano. Quasi fosse una sorta di epifania alla risoluzione di tutti i mali. Nasce come progetto di applicazione delle teorie liberali, da Von Hayek ai sostenitori del laissez-faire. Nella realtà non è mai avvenuta. Gli stessi teorici pongono parecchi distinguo: una tale rivoluzione praticata senza vincoli potrebbe condurre la società a gravi difficoltà. Aveva ragione George Sorel quando affermava che la rivoluzione liberale è un’utopia. Ma alle utopie si può anche credere. Bisogna però far qualcosa affinché si realizzino. Un esempio? I giornali che invocano la rivoluzione liberale perché non rinunciano ai contributi pubblici e si mettono così in regime di libera concorrenza?
SENSO DELLO STATO . Qui siamo messi davvero male. Poche, rarissime eccezioni, sotto i nostri occhi. In generale dovrebbe essere la considerazione per l’incarico che si riveste, colmandolo di virtù affinché venga preso come esempio. Invece oggi è un’attitudine che si può riassumere con una citazione: “Lo Stato deve essere l’amministrazione di una grande azienda che si chiama patria appartenente a una grande associazione che si chiama nazione”. No, non è una dichiarazione recente di qualche politico aziendalista. L’ha scritto quasi cent’anni fa Filippo Tomaso Marinetti, che era un futurista e quindi un po’ burlone. Il testo che conteneva queste parole si intitolava, tutto un programma, così: Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio.
L’epoca dei consulenti
Zagrebelsky: Il rapporto col potere ha polverizzato gli intellettuali
"Si abdica al proprio ruolo e così si finisce per condannarsi all’irrilevanza"
"Il punto più basso è dare le proprie idee, le proprie parole, le proprie idee a chi ti paga"
In un dialogo uscito su "Alfabeta2" la questione della cultura piegata al servizio degli interessi politici
Piuttosto che la ricerca della verità prevale la convenienza immediata e il desiderio di piccoli privilegi
"L’indipendenza e la libertà finiscono per essere solo la rivendicazione di uno status"
di Enrico Donaggio (la Repubblica, 05.10.2011)
Che cosa ti sembra di vedere nel rapporto intellettuali-potere, con riguardo alla situazione del nostro Paese, in questo momento? «Una grande diversità di situazioni, tra due estremi: l’improduttiva futilità intellettualistica e il servilismo corruttivo del libero pensiero. Se siamo liberi, siamo superflui; se siamo utili, non siamo liberi. Queste tendenze, per ragioni diverse, hanno in comune l’incapacità della funzione intellettuale, in quanto tale, di svolgere una funzione sociale e si condannano all’irrilevanza e, alla fine, al disprezzo. Nell’insieme, coloro che si dedicano ad attività intellettuali risultano polverizzati, inconcludenti. Non mi pare che, per usare un’espressione gramsciana, essi costituiscano un "gruppo sociale autonomo e indipendente". Rivendicano, certo, autonomia e indipendenza, ma lo fanno forse in vista di un qualche compito comune, in forza del quale li si possa considerare in sé "gruppo sociale"? Ti faccio una domanda. Pensi che sarebbe possibile, nell’Italia di oggi, un’affaire Dreyfus?».
Che cosa intendi dire?
«Che certamente ci sono, nel nostro tempo e nel nostro Paese, grandi scandali del potere, del fanatismo, e della grettezza, alleati tra loro in azioni criminali d’ogni tipo. C’è, rispetto a queste cose, una mobilitazione intellettuale contro "l’emergenza civile"? E, se anche c’è o ci fosse, è o sarebbe in grado di smuovere le acque, fare da contraltare alle logiche del potere, in nome di principi e valori non riconducibili a quelle logiche? Domanda retorica. Sembra che l’ambiente intellettuale sia quello cui il potere si rivolge per trovare giustificazioni, coperture. E di solito le trova. Triste».
Vuoi dire che, da noi, gli intellettuali, in quanto tali, sono inconcludenti?
«Esattamente così! La loro funzione è come polverizzata in mille rivoli. La dispersione deriva dall’incapacità di definire i nodi fondamentali della loro riflessione. Per questo, la libertà e l’indipendenza ch’essi rivendicano non si traducono in una funzione sociale, ma si risolvono in una pretesa di status, non facile giustificare. Da qui, la facile ironia sulla prosopopea degli intellettuali, sulla loro vuota spocchia e, alla fine, sul loro parassitismo. Data la carenza di ruolo sociale, o ci si rifugia nella pura speculazione fine a se stessa, che è una sorta di consolazione del pensiero, oppure, rinunciando all’autonomia e all’indipendenza della funzione intellettuale, si cerca di collegarsi con chi sta dove il potere si esercita effettivamente, nell’economia e nella politica, per diventarne "consulenti". In due parole: il "consulente" sostituisce "l’intellettuale". Il nostro mondo è sempre più ricco di consulenti e sempre meno di intellettuali. C’è da ridere, se si pensa che quella del consulente è la versione odierna dell’"intellettuale organico" gramsciano. Questi si collegava alle grandi forze storiche per la conquista della "egemonia" e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso; quello è l’imboscato nell’inesauribile miniera di ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, ecc., offrendo servigi intellettuali e ricevendo in cambio protezione, favori, emolumenti. I consulenti si conoscono tutti "personalmente", ma s’ignorano "funzionalmente". Nell’insieme non adempiono una funzione intellettuale indipendente».
E c’è qualcosa di male? Non è bene che chi comanda sia informato, magari anche illuminato, da qualcuno che conosce le cose di cui parla?
«E come no. Ma, a condizione che il consulente non entri "nell’organico" del potente di turno. C’è differenza tra il fornire le tue conoscenze e offrire te stesso, tra il vendere e il venderti cioè, come si dice, essere "a libro paga". Il confine è teoricamente chiaro, praticamente vago. Nel primo caso mantieni la tua libertà, nel secondo la perdi: volontariamente la perdi, ma la perdi. C’è l’attesa, la speranza di ottenere qualcosa, e allora rispondi agli inviti; ai convegni non puoi mancare, perché se manchi, sembra che tu "non ci stia". Perdi il tuo tempo e disperdi la tua vita in convegni pseudo-culturali perché "non si sa mai" che qualcosa di buono ti possa prima o poi arrivare: i posti a disposizione sono tanti e ci può essere anche posto per te. Il punto più basso, l’intellettuale lo raggiunge quando si presta a dare il suo cervello, la sua intelligenza, la sua parola, all’uomo di potere che lo paga per scrivergli i suoi discorsi, i suoi articoli di giornale, le sue interviste. Addirittura, la consideriamo una professione intellettuale, quella del ghostwriter. Ti pare normale che chi scrive discorsi per altri, collaborando a un evidente plagio letterario, sia circondato dal massimo rispetto, ed egli stesso se ne compiaccia: come sono bravo, sono entrato in Tizio e Caio per far uscire dalla sua bocca le mie parole!».
Mah! Non è mica detto che si tratti poi di pura piaggeria. Possono essere grandi discorsi che, semplicemente, passano per un megafono di potenza tale - per esempio, negli Stati Uniti, la voce di un Presidente - che uno studioso, per quanto famoso non potrebbe neppure sognarsi.
«Pensi forse a un Arthur Schlesinger jr., grande saggista, che scriveva i discorsi per Adlai Stevenson e per i fratelli Kennedy? Ma, qui non è questione di qualità delle persone e delle loro prestazioni. Qui parlo della funzione stessa, come concetto. A proposito di Reagan (parliamo di lui e non di gente di casa nostra, per carità di patria), Noam Chomsky ha fatto osservazioni sulle esibizioni pubbliche di politici-attori che dovrebbero essere tenute presenti, come salutari avvertenze per l’uso, nell’ascolto delle loro parole: "quando in televisione si legge un ‘gobbo’ si fa una curiosa esperienza: è come se le parole vi entrassero negli occhi e vi uscissero dalla bocca, senza passare attraverso il cervello. E quando Reagan fa questo, quelli della tv devono disporre le cose in modo che di fronte a lui ci siano due o anche tre gobbi; in tal modo la sua faccia seguita a muoversi rivolgendosi da una parte e dall’altra, e allo spettatore sembra che stia guardando il pubblico, e invece passa da un gobbo all’altro. Ebbene, se riuscite a indurre la gente a votare per persone di questo tipo, praticamente avrete fatto il vostro gioco; l’avrete esclusa da ogni decisione politica. E bisogna fingere che nessuno rida. Se ci riuscite, avrete fatta molta strada verso l’emarginazione politica del popolo". Ecco, quello che voglio dire: gli intellettuali che si prestano a riempire la bocca dei politici di cose delle quali questi non hanno nessuna idea propria, oltre che umiliare la propria funzione, contribuiscono a svuotare di contenuto la democrazia, a ridurla a una rappresentazione».
Ma, non è meglio che i politici dicano cose sensate, piuttosto che insensate?
«No. Se non hanno nulla da dire, frutto del loro ingegno, è meglio che tacciano. E, se tacendo non si fa carriera politica, è meglio che non la facciano. Se poi dal loro ingegno escono sciocchezze, è bene che i cittadini elettori le constatino per quello che sono. Oltretutto, in questo modo, coprendo il vuoto dei politici con le loro non disinteressate "consulenze", contribuiscono a svuotare la politica stessa e, svuotandola, a renderla funzionale a interessi esterni. Non vorrei essere troppo brutale: si finisce per assecondare la sua tendenza a diventare funzione del potere che oggi più di tutti conta, il potere del denaro. Pecunia regina mundi».
Eppure, non credi che proprio questa funzione dell’intellettuale possa servire, al contrario, a dare alla cultura una forza nell’agone politico che altrimenti non avrebbe?
«Questa è l’illusione in cui spesso gli intellettuali rischiano di cadere, quando pensano di fare dei politici il megafono o l’imbuto delle loro idee. La realtà è che, quando non servono più, sono messi da parte. Ricordi la vicenda di Gianfranco Miglio con Bossi? E, ancor prima, con Eugenio Cefis? Oppure, di coloro che si sono messi alla corte Berlusconi pensando di potere fare la "rivoluzione liberale"? Dove sono finiti?».
Fuga dalla libertà
Guida antropologica al "servo arbitrio"
Un brano della lezione che Zagrebelsky terrà a Roma per il ciclo "Le parole della politica"
Dobbiamo liberarci dei nemici che ci portiamo dentro. Per farlo servono diversità, legalità, cultura uguaglianza e sobrietà Sono quattro i tipi umani che rinunciano al loro volere: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 16.06.2011)
Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è - parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne - questa complicità degli oppressi con l’oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome - apparso allora per la prima volta - è "servitù volontaria". Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d’essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s’impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.
a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L’uomo-massa è l’espressione per indicare chi solo nel "far parte" trova la sua individualità e in tal modo la perde. L’ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi "a posto", "accettato". Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l’autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l’affettazione modaiola. La "tirannia della pubblica opinione" è stata denunciata, già a metà dell’Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell’immagine, è certo più pericolosa di allora. L’individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della "polizia" senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d’essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?
b)L’opportunista è un carrierista, disposto a "mettersi al traino". Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d’essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d’essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t’accorgi d’essere prigioniero d’una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo.
Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?
c)L’uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente "la politica". Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l’ipocrita superiorità: "certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione", dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell’ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti.
La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta "autenticità" personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d’esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell’immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della "uguaglianza solitaria": vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria.
Su questa massa solitaria s’innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: "al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti". Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, "immenso e tutelare", è un uomo libero o è un bambino fissato nell’età infantile?
d)La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra "costituzione psichica", dice Freud: l’uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po’ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l’essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del "pane terreno", simbolo della mercificazione dell’esistenza. Il "pane terreno" che l’uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: "il superfluo, cosa molto necessaria". E’ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?
Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l’insidiano "liberamente", dall’interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all’apparenza; l’opportunista, alla carriera; il gretto, all’egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d’omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà.
La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l’amore per la diversità; l’opportunismo, con la legalità e l’uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
L’anticipazione/ Un brano dell’intervento di Zagrebelsky alla Biennale Democrazia sul potere "diabolico" di alcuni segni
Un blocco di potere economico e politico senza valori caratterizza la nostra epoca
Il senso delle istituzioni è ormai diventato un ferrovecchio di cui fare a meno
I padroni dei simboli
Così parole e immagini diventano propaganda
Anticipiamo una parte dell’intervento che terrà giovedì alla Biennale Democrazia
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 12.04.2011)
Secondo una classica visione della struttura delle nostre società, esse sono costruite su tre funzioni, riguardanti rispettivamente la politica, l’economia e la simbologia. Queste funzioni conformano rispettivamente le volontà, le necessità e le mentalità. Quale di queste tre funzioni sia più importante, sarebbe difficile dire. Forse nessuna, il che è quanto dire che tutte e tre sono ugualmente necessarie.
Non abbiamo nozione di alcun gruppo di individui costituiti in società senza un potere politico, senza un’attività rivolta alla provvista dei beni materiali, senza una funzione destinata al nutrimento delle menti. Se tutte e tre le funzioni sono necessarie, quella simbolica è però l’unica che dia un senso, un significato d’insieme alle altre due, che ci dica perché stiamo e vogliamo stare insieme.
La teoria dice che nelle società bene organizzate, cioè equilibrate, le tre funzioni sono reciprocamente indipendenti; una sorta di tripartizione dei poteri sociali. La storia ci dice invece che, essendo in questione il potere, ciascuna delle tre tende a imporsi sulle altre due e ad asservirle. Si potrebbe tratteggiare la storia delle nostre società come un continuo spostamento del baricentro da uno all’altro, all’altro ancora e così distinguerle a seconda del predominio del "politico", dell’"economico" o del "simbolico". Il potere simbolico, tuttavia, di tutti è il più sottile e pervasivo, ma fra tutti il più debole. Non ha dalla sua né la forza fisica, né quella dei bisogni materiali ed è perciò sempre stato il terreno più esposto alla capitolazione. Di una relativa, anche se sempre contestata, autonomia ha goduto nel periodo medievale, quando era monopolizzato dalla Chiesa e dai suoi ministri, forti d’una certificazione divina. La Chiesa è stata effettivamente, allora, una formidabile fucina di simboli politici, avendo di fronte a sé un potere civile fragile e bisognoso di sostegno e l’economia curtense non rappresentando un centro di potere competitivo. Ma questo monopolio è venuto meno da quando la cosiddetta secolarizzazione delle società ne ha rotto la compattezza, aprendo a visioni del mondo d’altra matrice, orientate al regno di quaggiù dove vige non il dogma unico ma la pluralità delle opinioni. Nel regno di quaggiù, poi, la funzione simbolica si è trovata a fare i conti, con sproporzione di mezzi, con la politica, che dispone dello Stato e dei suoi poteri coercitivi, e con l’economia basata sulla concentrazione di capitali immensi, capaci di tutto condizionare, se non comperare.
Chi sono dunque i padroni del mondo simbolico nel quale oggi viviamo? Se ci chiediamo chi muove le parole, le immagini, le cose che esprimono simbolicamente i valori, le aspirazioni, in genere le idee che plasmano le nostre società, andremmo probabilmente a cercarli in quel blocco di potere economico e politico chiamato lobbicrazia, che caratterizza in senso ormai sempre più chiaramente nichilistico la nostra epoca. Un’epoca definita come quella del "finanzcapitalismo" e del "grande saccheggio", del valore estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi. È in quella compenetrazione d’interessi che nasce la commissione di schemi di pensiero, valori e modelli di comportamento, alla quale rispondono centri di ricerca, accademie, think-tanks, "opinionisti" ai quali la visibilità e il successo sono assicurati dalla misura della loro consonanza. L’influenza sul pubblico è poi assicurata dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e omologanti.
La funzione simbolica diventa così una funzione passiva e servente. I simboli, strumentalizzati, imbrogliano circa il loro senso. Promettono il bene di chi li consuma e invece promuovono il bene di chi li produce. Si traducono in propaganda e in pubblicità. Il loro ideale è la società come superficie tutta liscia su cui scorrere liberamente. Se increspature all’omologazione vi sono, riguardano il folklore o l’arte d’avanguardia; l’uno a benefizio dei molto semplici, l’altra a beneficio dei molto raffinati. Ma non sono loro, quelli decisivi per i padroni dei simboli: è la massa quella che conta.
Il simbolo è un terzo tra due persone; in ogni caso è un segno riconosciuto dalle parti in causa che, essendo comune, non è proprio di nessuna di essa. Ciò che è di tutti, in certo senso, non è di nessuno in particolare. Il simbolo non si appiattisce e nessuno vi si può confondere. Solo così può svolgere i suoi compiti di unificazione, diffusione di fiducia, promozione di lealtà e di sentimento d’appartenenza. Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura. Allora, può diventare strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate, può diventare il diapason del potere totalitario.
Lo strumento del demagogo opera la più ardita delle identificazioni politiche: il popolo nel suo capo e il capo nel suo popolo. Il capo è organo del popolo e il popolo è organo del capo. Sono la stessa cosa. In questa identificazione, viene a mancare lo spazio per simboli "terzi" perché il capo stesso è il simbolo: il segno di tutti valori, le aspettative, le speranze convergenti del suo popolo.
Napoleone, Franco, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Castro, i nord-coreani Kim Jong-il e Kim il-Sung e, esemplarmente, l’orwelliano Grande Fratello rappresentano le figure moderne di questo genere d’identificazione. Essi stessi, nella loro corporeità, vera o fittizia, si sono proposti immediatamente come simboli politici, cioè come fattori unificanti, e così hanno fagocitato le istituzioni e le leggi, cioè quegli strumenti della convivenza che gli uomini si sono dati, costruendole su simboli "terzi". Sono soverchiate dagli uomini del potere che esibiscono il loro volto, la loro voce, le loro fattezze, mille volte riprodotti, ritrasmessi, amplificati. Si sono cioè trasformati essi stessi, direttamente, in istituzione e legge.
Il simbolo si confonde col corpo e viceversa. Così, tutte le distinzioni che vengono da una lunga storia del diritto pubblico tra persona privata e carica pubblica svaniscono. Le regole sono "impicci", le costituzioni "gabbie", la legalità angheria Il "senso delle istituzioni", che distingue l’etica pubblica dalla morale privata, diventa un ferrovecchio su cui si può ironizzare. Le dimore personali sono equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi sono interscambiabili. La fortune private sono intoccabili come se fossero pubbliche e quelle pubbliche sono disponibili come se fossero private. Queste e altre confusioni si giustificano non come privilegio del capo, ma come diritto del popolo, tanto più in quanto il primo sia stato eletto dal secondo e l’elezione sia concepita come investitura salvifica. Tutto deriva infatti dall’identificazione simbolica del capo con il popolo e del popolo con il capo. L’arbitrio del capo, simbolicamente, non è più tale, ma diventa l’onnipotenza del popolo, che può esibirsi come la forma più pura di democrazia.
Questa versione del simbolo, però, è la sua estrema corruzione diabolica. Potremmo dire è il Lucifero dei diaboli. Infatti, si traduce nell’esaltazione del potere personificato, che è l’esatto contrario di ciò che ci attendiamo dai simboli politici: essere fattore d’unificazione "terzo", cioè impersonale, cioè nemico d’ogni demagogia Si traduce, infine, in un rischio mortale per la società stessa. La scomparsa della persona fisica, coincide con la fine del simbolo, cioè di ciò senza cui essa non sta insieme. La dissoluzione del corpo fisico del capo finisce così per coincidere con la dissoluzione del corpo sociale, cioè con instabilità, disordini, lotte fratricide. Ecco il prezzo che pagano i popoli quando si mettono nelle mani di qualcuno dicendogli: vai, noi ci riconosciamo in te, perché tu ti riconosci in noi.
Le notti di Arcore e la notte italiana
Una sintesi del discorso che G. Z. terrà domani alla manifestazione di Libertà e Giustizia, a Milano.
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 04.02.2011)
Perché siamo qui? Che cosa abbiamo da dire, da chiedere? Niente e tutto. Niente per ciascuno di noi, tutto per tutti. Non siamo qui nemmeno come appartenenti a questo o quel partito, a questo o quel sindacato, a questa o quella associazione. Ciò che chiediamo, lo chiediamo come cittadini. Chi è qui presente non rappresenta che se stesso. Per questo, il nostro è un incontro altamente politico, come tutte le volte in cui, nei casi straordinari della vita democratica, tacciono le differenze e le appartenenze particolari e parlano le ragioni che accomunano i nudi cittadini, interessati alle sorti non mie o tue, ma comuni a tutti. Non siamo qui, perciò, per sostenere interessi di parte. Ma non siamo affatto contro i partiti. Anzi, ci rivolgiamo a loro, di maggioranza e di opposizione, affinché raccolgano il malessere che sale sempre più forte da un Paese in cui il disgusto cresce nei confronti di chi e di come governa; affinché i cittadini possano rispecchiarsi in chi li rappresenta e sia rinsaldato il rapporto di democrazia tra i primi e i secondi, un rapporto che oggi visibilmente è molto allentato.
Nulla abbiamo da chiedere per noi. Non chiediamo né posti, né danaro. Non siamo sul mercato. È corruzione delle istituzioni l’elargizione di posti in cambio di fedeltà. è corruzione delle persone l’elargizione di danaro in cambio di sottomissione e servizi. Crediamo nella politica di persone libere, non asservite, mosse dalle proprie idee e non da meschini interessi personali per i quali si sacrifica la dignità al carro del potente che distribuisce vantaggi e protezione. Anzi, chiediamo che cessi questo sistema di corruzione delle coscienze e di avvilimento della democrazia, un sistema che ha invaso la vita pubblica e l’ha squalificata agli occhi dei cittadini, come regime delle clientele. I cittadini che ne sono fuori e vogliono restarne fuori chiedono diritti e non favori, legalità e non connivenze, sicurezza e non protezione. Non accettano doversi legare a nessuno per ottenere quello che è dovuto. Vogliono, in una parola, essere cittadini, non clienti e non ne possono più di vedersi scavalcati, nella politica, negli affari, nelle professioni, nelle Università, nelle gerarchie delle burocrazie pubbliche, a ogni livello, dal dirigente all’usciere, non da chi merita di più, ma da chi gode di maggiori appoggi e tutele.
Chiediamoci, in questo quadro, perché le notti di Arcore - non parlo di reati, perché per ora è un capitolo di ipotesi ancora da verificare - sono esplose come una bomba nel dibattito politico, pur in un Paese non puritano come il nostro, dove in fatto di morale sessuale si è sempre stati molto tolleranti, soprattutto rispetto ai potenti. Dicono che il moralismo deve restare fuori della politica, che ognuno a casa propria deve poter fare quel che gli aggrada (sempre che non violi il codice penale), che il pettegolezzo non deve mescolarsi con gli affari pubblici. È vero, ma non è questo il caso. Se si trattasse soltanto della forza compulsiva e irresistibile del richiamo sessuale nell’età del tramonto della vita, non avremmo nulla da dire. Forse deploreremmo, ma non giudicheremmo per non dover poi essere, eventualmente, noi stessi giudicati. Proveremmo semmai, probabilmente, compassione e magari perfino simpatia per questa prova di senile, fragile e ridicola condizione di umana solitudine. Ma non avremmo nulla da dire dal punto di vista politico.
Ma la verità non si lascia dipingere in questi termini. La domanda non è se piace o no lo stile di vita di una persona ricca e potente che passa le sue notti come sappiamo. Questa potrebbe essere una domanda che mette in campo categorie morali. La domanda, molto semplicemente, è invece: ci piace o no essere governati da quella persona. E questa è una domanda politica.
La risposta dipende dalla constatazione che tra le mura di residenze principesche, per quanto sappiamo, viene messo in scena, una scena in miniatura, esattamente ciò che avviene sul grande palcoscenico della politica nazionale. Le notti di Arcore assurgono a simbolo facilmente riconoscibile, in versione postribolare, di una realtà più vasta che ci riguarda tutti. È un simbolo che ci mostra in sintesi i caratteri ripugnanti di un certo modo di concepire i rapporti tra le persone, nello scambio tra chi può dare e chi può ottenere. È lo stesso modo che impera e nelle stanze d’una certa villa privata e in certi palazzi del potere. Questo, credo, è ciò che preoccupa da un lato, indigna dall’altro.
Non troviamo forse qui (nella villa) e là (nel Paese), gli stessi ingredienti? Innanzitutto, un’enorme disponibilità discrezionale di mezzi - danaro e posti - per cambiare l’esistenza degli altri attraverso l’elargizione di favori: qui, buste paga in nero, bigiotteria, promozioni in impensabili ruoli politici distribuiti come se fossero proprietà privata; là, finanziamenti, commesse, protezioni, carriere nelle istituzioni costituzionali (la legge elettorale attuale sembra fatta apposta per questo), nell’amministrazione pubblica, nelle aziende controllate. Dall’altra parte, troviamo la disponibilità a offrire se stessi, sapendo che la mano che offre può in qualunque momento ritrarsi o colpirti se vieni meno ai patti. Cambia la materia che sei disposto a dare in riconoscenza al potente: qui, corpi e sesso; là, voti, delibere, pressioni, corruzione. Ma il meccanismo è lo stesso: benefici e protezione in cambio di prove di sottomissione e fedeltà, cioè di prostituzione. Ed è un meccanismo omnipervasivo che supera la distinzione tra pubblico e privato, perché funziona ogni volta che hai qualcosa da offrire che piaccia a chi ha i mezzi per acquisirlo.
Qui e là questo sistema alimenta un mondo contiguo fatto di gente alla ricerca di chi "ci sta" e possa piacere a quello che è stato brillantemente definito "l’utilizzatore finale": lenoni e faccendieri, gli uni per selezionare e reclutare corpi da concorsi di bellezza e luoghi di malaffare e organizzarne il flusso, gli altri per sondare disponibilità e acquisire fedeltà nei luoghi delle istituzioni dove possono essere utili. Analogo, poi, è il rapporto che si instaura tra i partecipanti a questi giri del potere. Poiché la legge uguale per tutti sarebbe incompatibile con un tal modo di concepire il potere, i rapporti di connivenza, molto spesso, anzi quasi sempre, si basano sull’illegalità e, a loro volta, la producono. Tutti cascano così nelle mani l’uno dell’altro e il giro si avviluppa nella reciprocità dei ricatti. Così, chi se ne è messo a capo è destinato, prima o poi, a diventare succubo, a trasformarsi in una vuota maschera che parla, vuole, magari fa la faccia feroce ma in nome altrui, il suo unico interesse riducendosi progressivamente a non essere rovinato dai sodali. A quel punto, è pronto a tutto.
Ritorniamo all’inizio. Non chiediamo nulla per noi ma tutto per tutti. Il "tutto per tutti" è lo stato di diritto e l’uguaglianza di fronte alla legge; il rispetto delle istituzioni e della dignità delle persone, soprattutto quelle più esposte ai soprusi dei prepotenti: le donne, i lavoratori a rischio del posto di lavoro, gli immigrati che noi bolliamo come "clandestini"; la disciplina e l’onore di chi ricopre cariche di governo; l’autonomia della politica dall’ipoteca del denaro e dell’interesse privato nell’uso dei poteri pubblici; l’indipendenza dei poteri di garanzia e controllo; l’equità sociale; la liberazione dall’oppressione delle clientele. Un elenco penoso di doglianze e un vastissimo programma di ricostruzione che è precisamente ciò che sta scritto a chiare lettere e per esteso nella Costituzione: la Costituzione che per questa ragione è diventata segno di divisione tra opposte concezioni della politica.
La richiesta di dimissioni del Presidente del Consiglio non è accanimento contro una persona. Sappiamo bene che la concezione del potere ch’egli rappresenta ha, nella nostra società, radici lontane e profonde, di natura perfino antropologica, e che perciò ha buone possibilità di sopravvivergli in quelli che si preparano a raccoglierne la successione, per il momento in cui si sentiranno pronti ad abbandonarlo. Ma sappiamo anche che, per ora, quel sistema di potere è incarnato, e in modo eminente, proprio da lui. Onde è da lui che occorre incominciare, non per fermarsi a lui ma per guardare oltre, al sistema di potere che l’ha espresso e di cui egli è, finché gli sarà possibile, l’interprete più in vista.
Se il benessere diventa di tutti
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 17.09.2010)
La Dichiarazione d’indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 inizia con un’enfatica dichiarazione. Esistono verità "per se stesse evidenti": che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dal Creatore dotati di alcuni inalienabili diritti. Tra questi, oltre alla vita e alla libertà, c’è la ricerca della felicità (pursuit of happiness).
La (ricerca della) felicità è uno dei grandi temi che ha caratterizzato, nel suo insieme, il secolo XVIII, dal punto di vista morale e politico. La Dichiarazione d’indipendenza è figlia di quel tempo e, come vedremo, di quella terra. Il secolo successivo è stato molto più prudente. Anzi: la felicità come meta della vita individuale e collettiva è stata piuttosto associata all’infelicità, in una sorta di coincidentia oppositorum. Per gli individui, è fonte d’inquietudine e di aspirazioni mai stabilmente soddisfatte. Per le società, è fonte di forze distruttive, operanti su larga scala. Possiamo farci aiutare da un testo classico, che non cessa di stupire per la sua fecondità, Il Grande Inquisitore de I fratelli Karamazov di Dostoevskij.
Si dice, di solito, che il dialogo dell’Inquisitore col Cristo silente tratta di libertà degli uomini e di dominio sugli uomini. In realtà, ancor prima è un discorso sulla felicità e sull’infelicità: l’infelicità che è generata dalla libertà e, viceversa, la felicità che può derivare dalla liberazione dalla libertà. Leggiamo. Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà del proprio giudizio, ma non c’è nulla di più tormentoso. Onde verrà presto il momento in cui, tutti insieme, deporranno la loro libertà ai piedi di qualcuno che ne li libererà e questi saranno gli Inquisitori: ecco i veri liberatori dell’umanità, coloro che la libereranno dall’oppressione della libertà cioè da quella tensione tra il desiderio e la realizzazione, da quella irrequietezza e da quello spirito di rivolta che è il germe dell’infelicità umana. Un paradosso letterario, o una diagnosi antropologica e politica?
Che la libertà sia un peso è quasi un luogo comune. Che questo peso, almeno nella letteratura reazionaria basata sull’idea della corruzione della natura umana, possa essere sopportato solo da uomini superiori e non dalla massa, anche. La massa è fatta da schiavi con la costituzione del ribelle, dice l’Inquisitore: in quanto ribelli, vogliono la felicità, ma in quanto schiavi non ne sono capaci e hanno bisogno del padrone. L’Inquisitore avrebbe certamente detto che il diritto "americano" di cercare la felicità era in realtà la condanna all’infelicità. Dovrà regnare la felicità, sì, ma la dovrete ricevere da noi, gli Inquisitori, che ve la amministreremo nella misura che vi è consona .
Ma quale felicità? La felicità consiste nell’aver tolto dal cuore il tormento che deriva da quel dono che è la libertà. Non s’intende qui la libertà come possibilità di scelta di convenienza; della libertà, per così dire economica, legata semplicemente a preferenze, la libertà del consumatore, per intenderci. Stiamo parlando di ben altra cosa, della libertà di realizzare se stessi, di scegliere che cosa si vuole che sia la nostra esistenza. È questa, non l’altra, la libertà che deve essere tolta all’essere umano per renderlo felice.
Non è forse questo il segreto di un certo tipo di dominio su vasta scala, su esseri umani standardizzati nei piccoli loro desideri, alimentati continuamente dalla "comunicazione", questa nuova scienza del governo che sempre di nuovo propone stili vita, modelli di massa che promuovono desideri mediocri, volgari e conformisti? Oggi, così si vive in società, attraverso il governo dei desideri, cioè degli animi: una forma di potere che sembra avere sostituito, con effetti anche più radicali, il controllo dei corpi. Che sia meglio una cosa o l’altra, è discutibile, poiché il controllo dei corpi almeno lascia la libertà interiore di desiderare, pur se impedisce di perseguire l’oggetto del desiderio.
Questo è un modo per contrastare gli effetti distruttivi della (ricerca della) felicità, tramite il controllo omologante dei desideri, un controllo che può giungere fino a spegnerli, con ciò riducendo gli esseri umani a bestie. "Il faut les embêter". L’altro modo è quello di ricondurli non di disumanizzarli, ma di "istituzionalizzarli", trasformando l’instabile "materiale psichico" soggettivo che alimenta la ricerca della felicità in qualcosa di obbiettivo, funzionale alla vita sociale.
Sigmund Freud, nel celebre scritto del 1920 su Il disagio della civiltà parla di felicità, infelicità e istituzioni con riguardo alla psiche umana e dice: «Non vogliamo ammetterla [l’infelicità delle società odierne], non riusciamo a comprendere perché le istituzioni che noi stessi abbiamo creato non debbano rappresentare una protezione e un beneficio per tutti. [...]. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza». Con queste parole, si tocca il punto centrale: il rapporto tra felicità e sicurezza. La massima (ricerca individuale della) felicità comporta la massima insicurezza sociale: nessuno sarebbe sicuro di nessuno; i patti sarebbero impossibili perché tutti li violerebbero quando ostacolassero quella ricerca. Verrebbe meno la fiducia, che di ogni vita sociale è condicio sine qua non. Simmetricamente, la massima sicurezza coinciderebbe con l’assoluto divieto della (ricerca individuale) della felicità.
Che dire allora? Che per vivere in società dobbiamo rinunciare alla ricerca della felicità, riducendoci a gregge sotto un pastore che provvede per noi o istituzionalizzandoci integralmente, "funzionalizzandoci" alla società? Non sia mai. Ogni società è un equilibrio tra sicurezza dei rapporti e desiderio di alterarli per accrescere la propria felicità. Come permettere la ricerca della felicità senza compromettere un livello minimo di sicurezza e fiducia tra gli esseri umani? La formula della Dichiarazione d’indipendenza americana, dalla quale abbiamo preso spunto per queste considerazioni, è l’espressione genuina del più ingenuo ottimismo del secolo dei "lumi". Poteva forse corrispondere a una possibilità effettiva in società come quella delle tredici colonie che non conoscevano confini. O meglio: società dove lo spazio non costituiva limite e condizione. Il viaggio a occidente per cercare fortuna era la prospettiva per una ricerca della felicità che poteva svolgersi senza conflitti (le popolazioni autoctone non facevano problema). Questo era il mito americano, così intimamente legato al miraggio della felicità.
Ma negli "spazi pieni"? Lo spazio pieno è quello in cui ogni spostamento di uno comporta lo spostamento di altri. È, da secoli, la condizione europea. Ma gli spazi sono ormai saturi anche in America dove, oggi, le frontiere, non più allargabili, sono presidiate dalla forza pubblica.
Che cosa si deve concludere, allora? Che la ricerca della felicità, qui e oggi, è impossibile? Che la società, con i suoi vincoli, ci soffoca inesorabilmente? Che la profezia del Grande Inquisitore o il "disagio della civiltà" ci condannano alla passività e all’immobilità?
Sopra tutto, notiamo uno spostamento, anzi un rovesciamento di senso. La ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli [nel testo a stampa manca la parola - ndr] cioè degli oppressi. Basta leggere il preambolo della Dichiarazione d’indipendenza. Oggi, il senso s’è rovesciato. Sono i potenti, i "Prominenten", che la rivendicano come diritto, la praticano e l’esibiscono, spesso oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato, una madre che vede il suo bambino morire nei primi mesi di vita, rivendicare il suo diritto alla "felicità". Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere, invece che felicità, giustizia. La loro "felicità" sta nel chiedere un poco di giustizia. Negli spazi pieni, la felicità nel senso della Dichiarazione citata all’inizio è diventata la pretesa dei forti, che fa torto ai deboli; la giustizia, non la felicità, è la richiesta dei deboli che contestano i privilegi dei forti. Così, oggi, felicità è diventata parola dal senso rovesciato rispetto a quello originario, cioè è diventata parola d’oppressione, parola di classe, e come tale dovremmo trattarla. Con quest’ulteriore precisazione, che viene quasi da sé: la felicità è un’aspirazione che riguarda i singoli individui, la giustizia, è un’aspirazione che riguarda la società tutta intera. Come tale, è funzione non delle pulsioni individuali ma delle politiche collettive. Una conclusione certo inquietante. Sullo sfondo c’è lo stato-provvidenza, uno stato che ha tendenze totalitarie in vista di una qualche concezione della giustizia che deve valere per tutti. Così è che, nella ricerca dell’equilibrio tra libertà della ricerca individuale della felicità e giustizia sociale, in Europa entra quel vincolo esterno alla coscienza che è l’obbligo legale.
Anche nella Dichiarazione dei diritti francese del 1789 si parla di felicità. Ma non è la felicità individuale; è "le bonheur de tous". Tra questi "tutti", la legge ha il compito di stabilire i limiti e i confini, onde la felicità dell’uno non diventi infelicità degli altri. Una dimensione oggettiva della felicità fa qui apparizione, come insieme dei diritti di libertà previsti, regolati e limitati dalla legge. In tutti gli "spazi pieni" nel senso anzidetto è così. La rivendicazione di un anacronistico diritto all’illimitata ricerca individuale della felicità, per quanto seducente agli occhi degli ingenui o dei troppo furbi, è fautrice di ingiustizie, tensioni e disfacimento sociale.
Questo testo è una parte della Lezione magistrale dal titolo "Felicità. La possibilità del bene" che terrà domenica a Modena nell’ambito del Festivalfilosofia
L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...
(...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino (...)
Quando il potere teme la verità
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 17.07.2009)
Sono venute a galla, finalmente, due questioni che riguardano, l’una, la verità e, l’altra, la moralità nella vita pubblica. Sono questioni che oggi particolarmente toccano un uomo alle prese con l’affannosa gestione davanti alla pubblica opinione di uno sdoppiamento, tra la realtà di ciò che effettivamente egli è e fa e la rappresentazione fittizia che ne dà, a uso del suo pubblico. Siamo di fronte a una novità? Possiamo credere sia un caso isolato? Via! La menzogna e l’ipocrisia, alla fine la schizofrenia, sono sempre state compagne del potere.
Questa constatazione realistica può chiudere il discorso solo per i nichilisti, i quali pensano a un eterno nudo potere, che volta a volta, si presenta in forme esteriori diverse, ma sempre e solo per coprire la sua immutabile, disgustosa, realtà. Per gli altri, quelli che credono che il potere non necessariamente sia sempre solo quella cosa lì, ma che si possa agire, oltre che per conquistarlo, anche per cambiarlo; per quelli, in breve, che credono che vi siano diversi possibili modi di concepire e gestire le relazioni politiche, verità e menzogna, moralità e ipocrisia sono dilemmi su cui si può e si deve prendere posizione.
Vizi e virtù cambiano, anzi si scambiano le vesti, a seconda di quali siano le concezioni del vivere comune. I vizi possono diventare virtù e le virtù, vizi. Onde possiamo dire che da come li si concepisce capiamo che idea abbiamo della nostra convivenza. C’è qui una spia che permette di guardare nello strato profondo, magari inconscio, delle nostre concezioni politiche. Nelle Istorie fiorentine (III, 13), Machiavelli dice che i mezzi del potere sono "frode e forza" e che "quelli che per poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affogano; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e fraudolenti". Buone massime di comportamento, ma per il Principe in società di servi e padroni: qui davvero le virtù diventano vizi e i vizi, virtù.
La verità, il rispetto dei "bruti fatti", è la virtù di coloro che si intendono e vogliono intendersi tra loro; al contrario, quando il proposito non è l’intesa ma la sopraffazione, la virtù non è più la verità ma è la menzogna, la simulazione di quel che è e la dissimulazione di quel che non è. La verità predispone al dialogo in cui ciascuno onestamente fa valere i propri punti di vista; la menzogna prepara inganni e, in risposta, giustifica altre simulazioni e dissimulazioni (Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta - 1641), come arma di legittima difesa. Ne vengono società di maschere, mascheramenti e mascherate che nascondono violenza, come erano le società di cortigiani, venefici e tradimenti del 5 e ‘600 in cui l’elogio della malafede dei governanti ha trovato il suo terreno di coltura.
Gesù di Nazareth impartisce ai discepoli due comandamenti, all’apparenza contraddittori: «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 5, 36) e «siate avveduti (phronimòi) come serpenti» (Mt 10, 16). Da un lato, dunque, rispecchiare la verità, né più né meno; dall’altro, usare la lingua biforcuta del "più astuto tra tutti gli animali" (Gn 3, 1). Come si scioglie la contraddizione? In un modo molto interessante per la nostra questione. Il primo comandamento vale nei rapporti tra leali appartenenti alla stessa cerchia, in quel caso i credenti nella medesima parola di Dio ("avete inteso che fu detto ..., ma io vi dico"). Il secondo vale quando le pecore (i discepoli) sono inviati in mezzo ai lupi, gli uomini dai quali devono "guardarsi" con accortezza.
Ecco, dunque. La verità vale tra amici; tra nemici è dissennatezza. Se riteniamo di non essere vincolati alla mutua obbligazione al vero, se riteniamo legittima la frode, la menzogna, l’inganno è perché viviamo nell’ostilità e i regimi dell’ostilità sono quelli inclini alla sopraffazione. Noi comprendiamo perciò lo scandalo che, purtroppo in altri Paesi e non nel nostro, dà l’uomo pubblico che è scoperto avere mentito, per questo solo fatto, magari su una questioncella da niente: uno scandalo non di natura morale o moralistica ma politico, che può portare alla rovina d’una carriera. Chi mente, non importa su che cosa, è un pericolo per la libertà e la democrazia. Oggi, da noi, si moltiplicano assennati appelli alla concordia e al dialogo, ma senza il parallelo, anzi preliminare, appello alla chiarezza della verità, sono parole destinate al vento.
* * *
Anche la questione della moralità conduce a un problema politico di democrazia. Si dice: il giudizio morale non deve influire sul giudizio politico. La politica si giudica con criteri politici; la moralità, con criteri morali. Un ottimo uomo pubblico può essere un pessimo individuo nel privato, col quale non si vorrebbe avere nulla da spartire. O viceversa: una persona dabbene può essere un pessimo politico, cui non vorremmo affidate responsabilità pubbliche. Gli ambiti sono diversi e devono essere tenuti separati. Lo Stato moderno è il prodotto della scissione dell’ufficio pubblico dalla persona fisica che lo ricopre. Il funzionario è, come tale, soggetto a particolari e stringenti doveri di moralità pubblica, della cui osservanza risponde pubblicamente. Ma la stessa persona, nel momento in cui è spogliato della sua funzione ritorna a essere uno come tutti, ha il diritto di essere lasciato in pace come un qualunque altro cittadino. La sua moralità è in questione solo di fronte alla sua coscienza, a Dio o al confessore.
Tutto questo è chiaro ma troppo semplice. I punti di interferenza sono numerosi, in un senso e nell’altro. Quando c’è interferenza, non si può negare l’esigenza di verità. Può accadere che la posizione pubblica sia spesa nella vita privata, oppure che i comportamenti privati si riverberino sulla posizione pubblica. Talora queste commistioni hanno rilievo per il codice penale. Ma molto spesso no. Non per questo non hanno rilievo politico. Esempio del primo tipo: la strumentalizzazione del "fascino del potere" per ottenere vantaggi nella vita privata. I favori sessuali attengono certamente alla vita privata. Ma altrettanto certamente ciò non basta a escludere il diritto dell’opinione pubblica di sapere se questi si ottengono facendo balenare o distribuendo favori, come solo chi occupa posizioni di pubblico potere può fare. Oppure, esempio del secondo tipo, lo stile di vita personale attiene certamente all’ambito privato che chiunque ha il diritto di definire come vuole. Ma se questo stile di vita contraddice i valori sociali e politici che si professano pubblicamente e si vogliono imporre agli altri, possiamo dire che questa ipocrisia sia irrilevante per un giudizio politico da parte dell’opinione pubblica?
Non è affatto questione di moralismo. Nessuno, meno che mai quella cosa che si denomina opinione pubblica, ha diritto di pronunciare sentenze morali, condannare peccati e peccatori. Chi mai gradirebbe un giudizio di questo genere sulle piazze o sui giornali? Non è questo il punto. Il punto è che in democrazia i cittadini hanno diritto di conoscere chi sono i propri rappresentanti, perché questi, senza che nessuno li obblighi, chiedono ai primi un voto e instaurano con loro un rapporto che vuol essere di fiducia. Devono poterli conoscere sotto tutti i profili rilevanti in questo rapporto. Ora, entrambe le interferenze tra pubblico e privato di cui si è detto convergono nel creare divisioni castali in cui la disponibilità del potere crea disuguaglianze, privilegi e immunità, perfino codici morali diversi, che discriminano chi sta su da chi sta giù. E questo non ha a che vedere con la democrazia? Non deve entrare nel dibattito pubblico? Così siamo ritornati al punto di partenza, il rapporto verità menzogna. Che questa immoralità tema la verità è naturale ed evidente. Anzi, proprio il rifiuto ostinato di renderla disponibile a tutti in un pubblico dibattito, motivato dalle temute ripercussioni sul rapporto di fiducia tra l’eletto e gli elettori, è la riprova che questa è materia di etica politica, non (solo) di moralità privata; è questione che tocca tutti, non (solo) famigliari, famigli, amici, clienti.
L’attacco a "Repubblica", di cui la citazione in giudizio per diffamazione è solo l’ultimo episodio, è interpretabile soltanto come un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia. Le domande poste al Presidente del Consiglio sono domande vere, che hanno suscitato interesse non solo in Italia ma nella stampa di tutto il mondo. Se le si considera "retoriche", perché suggerirebbero risposte non gradite a colui al quale sono rivolte, c’è un solo, facile, modo per smontarle: non tacitare chi le fa, ma rispondere.
Invece, si batte la strada dell’intimidazione di chi esercita il diritto-dovere di "cercare, ricevere e diffondere con qualsiasi mezzo di espressione, senza considerazioni di frontiere, le informazioni e le idee", come vuole la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, approvata dal consesso delle Nazioni quando era vivo il ricordo della degenerazione dell’informazione in propaganda, sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso.
Stupisce e preoccupa che queste iniziative non siano non solo stigmatizzate concordemente, ma nemmeno riferite, dagli organi d’informazione e che vi siano giuristi disposti a dare loro forma giuridica, senza considerare il danno che ne viene alla stessa serietà e credibilità del diritto.
Franco Cordero
Stefano Rodotà
Gustavo Zagrebelsky
* la Repubblica, 28.08.2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente della Repubblica
LE IDEE
La colpa di chi fa
le leggi per se stesso
di GUSTAVO ZAGREBELSKY *
"Un dio o un uomo, presso di voi, è ritenuto autore delle leggi?" chiede l’Ateniese ai suoi ospiti venuti da Creta e da Sparta. "Un dio, ospite, un Dio! - così come è perfettamente giusto". Queste parole aprono il grande trattato che Platone dedica alle Leggi, i Nòmoi. Il problema dei problemi - perché si dovrebbe obbedire alle leggi - è in tal modo risolto in partenza: per il timor degli Dei. Le leggi sono sacre.
Chi le viola è sacrilego. Tra la religione e la legge non c’è divisione. I giudici sono sacerdoti e i sacerdoti sono giudici, al medesimo titolo. Oggi non è più così. Per quanto si sia suggestionati dalla parola che viene dal profondo della sapienza antica, possiamo dire: non è più così, per nostra fortuna. Abbiamo conosciuto a sufficienza l’intolleranza e la violenza insite nella legge, quando il legislatore pretende di parlare in nome di Dio. Ma, da quella scissione, nasce la difficoltà. Se la legge ha perduto il suo fondamento mistico perché non viene (più) da un Dio, ma è fatta da uomini, perché dovremmo prestarle obbedienza? Perché uomini devono obbedire ad altri uomini? Domande semplici e risposte difficili.
Forse perché abbiamo paura di chi comanda con forza di legge? Paura delle pene, dei giudici, dei carabinieri, delle prigioni? Se così fosse, dovremmo concludere che gli esseri umani meritano solo di esseri guidati con la sferza e sono indegni della libertà. In parte, tuttavia, può essere così. In parte soltanto però, perché nessuno è mai abbastanza forte da essere in ogni circostanza padrone della volontà altrui, se non riesce a trasformare la propria volontà in diritto e l’ubbidienza in dovere. Ma dov’anche regnasse la pura forza, dove regna il terrore, dove il terrorismo è legge dello Stato, anche in questo caso ci dovrà pur essere qualcuno che, in ultima istanza, applica la legge senza essere costretto dalla minaccia della pena, perché è lui stesso l’amministratore delle pene. In breve, molti possono essere costretti a obbedire alla legge: molti, ma non tutti. Ci dovranno necessariamente essere dei costrittori che costringono senza essere costretti. Ci dovrà essere qualcuno, pochi o tanti a seconda del carattere più o meno chiuso della società, per il quale la legge vale per adesione e non per costrizione. In una società democratica, questo "qualcuno" dovrebbe essere il "maggior numero possibile".
Che cosa è, dove sta, da che cosa dipende quest’adesione? Qui, ciascuno di noi, in una società libera, è interpellato direttamente, uno per uno. Se non sappiamo dare una risposta, allora dobbiamo ammettere che seguiamo la legge solo per forza, come degli schiavi, solo perché la forza fa paura. Ma, appena esistono le condizioni per violare la legge impunemente o appena si sia riusciti a impadronirsi e a controllare le procedure legislative e si possa fare della legge quel che ci piace e così legalizzare quel che ci pare, come Semiramìs, che "a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta" (Inferno, V), allora della legge e di coloro che ancora l’invocano ci si farà beffe.
Possiamo dire, allora, che la forza della legge, se non si basa - sia permesso il banale gioco di parole - sulla legge della forza, si basa sull’interesse? Quale interesse? La moralità della legge come tale, indipendentemente da ciò che prescrive, dovrebbe stare nell’uguaglianza di tutti, nel fatto che ciascuno di noi può rispecchiarvisi come uguale all’altro. "La legge è uguale per tutti" non è soltanto un ovvio imperativo, per così dire, di "giustizia distributiva del diritto". È anche la condizione prima della nostra dignità d’esseri umani. Io rispetto la legge comune perché anche tu la rispetterai e così saremo entrambi sul medesimo piano di fronte alla legge e ciascuno di noi di fronte all’altro. Ci potremo guardare reciprocamente con lealtà, diritto negli occhi, perché non ci sarà il forte e il debole, il furbo e l’ingenuo, il serpente e la colomba, ma ci saranno leali concittadini nella repubblica delle leggi.
Questa risposta alla domanda circa la forza della legge è destinata, per lo più, ad apparire una pia illusione che solo le "anime belle", quelle che credono a cose come la dignità, possono coltivare. È pieno di anime che belle non sono, che si credono al di sopra della legge - basta guardarsi intorno, anche solo molto vicino a noi - e che proprio dall’esistenza di leggi che valgono per tutti (tutti gli altri), traggono motivo e strumenti supplementari per le proprie fortune, economiche e politiche. Sono questi gli approfittatori della legge, free riders, particolarmente odiosi perché approfittano (della debolezza o della virtù civica) degli altri: per loro, "le leggi sono simili alle ragnatele; se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e scappa via" (parole di Solone; in versione popolare: "La legge è come la ragnatela; trattiene la mosca, ma il moscone ci fa un bucone"). Anche per loro c’è interesse alla legalità, ma la legalità degli altri. Poiché gli altri pagano le tasse, io, che posso, le evado. Poiché gli altri rispettano le procedure per gli appalti, io che ho le giuste conoscenze, vinco la gara a dispetto di chi rispetta le regole; io, che ho agganci, approfitto del fatto che gli altri devono attendere il loro turno, per passare per primo alla visita medica che, forse, salva la mia vita, ma condanna quella d’un altro; io, che posso manovrare un concorso pubblico, faccio assumere mio figlio, al posto del figlio di nessuno che, poveretto, è però più bravo del mio; io, che ho il macchinone, per far gli affari miei sulla strada, approfitto dei divieti che chi ha la macchinina rispetta; io, che posso farmi le leggi su misura, preparo la mia impunità nei casi in cui, altrui, vale la responsabilità.
L’ultimo episodio della vita di Socrate, alle soglie dell’autoesecuzione (la cicuta) della sentenza dell’Areopago che l’aveva condannato a morte, è l’incontro con Le Leggi. Le Leggi gli parlano. Qual è il loro argomento? Sei nato e hai condotto la tua vita con noi, sotto la nostra protezione nella città. Noi ti abbiamo fatto nascere, ti abbiamo cresciuto, nutrito ed educato, noi ti abbiamo permesso d’avere moglie e figli che cresceranno come te con noi. Tutto questo con tua soddisfazione. Infatti, non te ne sei andato altrove, come ben avresti potuto. E ora, vorresti ucciderci, violandoci, quando non ti fa più comodo? Così romperesti il patto che ci ha unito e questo sarebbe l’inizio della rovina della città, le cui leggi sarebbero messe nel nulla proprio da coloro che ne sono stati beneficiati.
Le Leggi platoniche, parlando così, chiedono ubbidienza a Socrate in nome non della paura né dell’interesse, ma per un terzo motivo, la riconoscenza. Il loro discorso, però, ha un presupposto: noi siamo state leggi benigne con te. Ma se Le Leggi fossero state maligne? Se avessero permesso o promosso l’iniquità e non avessero impedito la sopraffazione, avrebbero potuto parlare così? Il caso non poteva porsi in quel tempo, quando le leggi - l’abbiamo visto all’inizio - erano opera degli Dei. Oggi, sono opera degli uomini. Dagli uomini esse dipendono e dagli uomini dipende quindi se possano o non possano chiedere ubbidienza in nome della riconoscenza.
Certo: abbiamo visto che l’esistenza delle leggi non esclude che vi sia chi le sfrutta e viola per il proprio interesse, a danno degli altri. Ma il compito della legge, per poter pretendere obbedienza, è di contrastare l’arroganza di chi le infrange impunemente e di chi, quando non gli riesce, se ne fa una per se stesso. Se la legge non contrasta quest’arroganza o, peggio, la favorisce, allora non può più pretendere né riconoscenza né ubbidienza. Il disprezzo delle leggi da parte dei potenti giustifica analogo disprezzo da parte di tutti gli altri. L’illegalità, anche se all’inizio circoscritta, è diffusiva di se stessa e distruttiva della vita della città. Tollerarla nell’interesse di qualcuno non significa metterla come in una parentesi sperando così che resti un’eccezione, ma significa farne l’inizio di un’infezione che si diffonde tra tutti.
Qui è la grande responsabilità, o meglio la grande colpa, che si assumono coloro che fanno leggi solo per se stessi o che, avendo violate quelle comuni, pretendono impunità. Contrastare costoro con ogni mezzo non è persecuzione o, come si dice oggi, "giustizialismo", ma è semplicemente legittima difesa di un ordine di vita tra tutti noi, di cui non ci si debba vergognare.
Questo testo sarà letto stasera da Gustavo Zagrebelsky
al Teatro della Corte di Genova, nel corso
del primo incontro del ciclo "Fare gli italiani - Grandi Parole alla ricerca
dell’identità nazionale"
© la Repubblica, 01 marzo 2010
[CHE LE ISTITUZIONI DEL NOSTRO PAESE ABBIANO PERMESSO UN PARTITO CON IL NOME DI "FORZA ITALIA" PRIMA, E CON IL "POPOLO DELLA LIBERTA’" POI, SIGNIFICA CHE ’ITALIA E’ GIA MORTA!!!
Il costituzionalista Zagrebelsky: così si apre la strada a nuove intimidazioni
Il presidente Napolitano opera per evitare la violenza
"Una corruzione della legge
che viola uguaglianza e imparzialità"
di LIANA MILELLA ( la Repubblica, 07.03.2010)
ROMA - Non critica Napolitano, dissente da Di Pietro, benedice le proteste, boccia un decreto inconcepibile in uno Stato di diritto. Gustavo Zagrebelsky inizia citando un episodio che, "nel suo piccolo", indica lo stravolgimento dell’informazione. Al Tg1 di venerdì sera va in onda la foto di Hans Kelsen, uno dei massimi giuristi del secolo scorso. "Gli fanno dire che la sostanza deve prevalere sulla forma: a lui, che ha sempre sostenuto che, in democrazia, le forme sono sostanza. Una disonestà, tra tante. Gli uomini di cultura dovrebbero protestare per l’arroganza di chi crede di potersi permettere di tutto".
Professore, che succede?
"Apparentemente, un conflitto tra forma e sostanza".
Apparentemente?
"Se guardiamo più a fondo, è un abuso, una corruzione della forza della legge per violare insieme uguaglianza e imparzialità".
Perché? Non si trattava invece proprio di permettere a tutti di partecipare alle elezioni?
"Il diritto di tutti è perfettamente garantito dalla legge. Naturalmente, chi intende partecipare all’elezione deve sottostare ad alcuni ovvi adempimenti circa la presentazione delle candidature. Qualcuno non ha rispettato le regole. L’esclusione non è dovuta alla legge ma al suo mancato rispetto. È ovvio che la più ampia "offerta elettorale" è un bene per la democrazia. Ma se qualcuno, per colpa sua, non ne approfitta, con chi bisogna prendersela: con la legge o con chi ha sbagliato? Ora, il decreto del governo dice: dobbiamo prendercela con la legge e non con chi ha sbagliato".
E con ciò?
"Con ciò si violano l’uguaglianza e l’imparzialità, importanti sempre, importantissime in materia elettorale. L’uguaglianza. In passato, quante sono state le esclusioni dalle elezioni di candidati e liste, per gli stessi motivi di oggi? Chi ha protestato? Tantomeno: chi ha mai pensato che si dovessero rivedere le regole per ammetterle? La legge garantiva l’uguaglianza nella partecipazione. Si dice: ma qui è questione del "principale contendente". Il tarlo sta proprio in quel "principale". Nelle elezioni non ci sono "principali" a priori. Come devono sentirsi i "secondari"? L’argomento del principale contendente è preoccupante. Il fatto che sia stato preso per buono mostra il virus che è entrato nelle nostre coscienze: il numero, la forza del numero determina un plusvalore in tema di diritti".
E l’imparzialità?
"Il "principale contendente" è il beneficiario del decreto ch’esso stesso si è fatto. Le pare imparzialità? Forse, penseremmo diversamente se il beneficiario fosse una forza d’opposizione. Ma la politica non è il terreno dell’altruismo. Ci accontenteremmo allora dell’imparzialità".
Anche lei, come l’ex presidente Onida, considera il dl una legge ad personam?
"Questa vicenda è il degno risultato di un atteggiamento sbagliato che per anni è stato tollerato. Abbiamo perso il significato della legge. Vorrei dire: della Legge con la maiuscola. Le leggi sono state piegate a interessi partigiani perché chi dispone della forza dei numeri ritiene di poter piegare a fini propri, anche privati, il più pubblico di tutti gli atti: la legge, appunto. Si è troppo tollerato e la somma degli abusi ha quasi creato una mentalità: che la legge possa rendere lecito ciò che più ci piace".
Torniamo al decreto. Si poteva fare?
"La legge 400 dell’88 regola la decretazione d’urgenza. L’articolo 15, al comma 2, fa divieto di usare il decreto "in materia elettorale". C’è stata innanzitutto la violazione di questa norma, dettata non per capriccio, ma per ragioni sostanziali: la materia elettorale è delicatissima, è la più refrattaria agli interventi d’urgenza e, soprattutto, non è materia del governo in carica, cioè del primo potenziale interessato a modificarla a suo vantaggio. Mi pare ovvio".
Quindi, nel merito, il decreto viola la Costituzione?
"Se fosse stato adottato indipendentemente dalla tornata elettorale e non dal governo, le valutazioni sarebbero del tutto diverse. Dire che il termine utile è quello non della "presentazione" delle liste, ma quello della "presenza dei presentatori" nei locali a ciò adibiti, può essere addirittura ragionevole. Non è questo il punto. È che la modifica non è fatta nell’interesse di tutti, ma nell’interesse di alcuni, ben noti, e, per di più, a partita in corso. È un intervento fintamente generale, è una "norma fotografia"".
Siamo di fronte a una semplice norma interpretativa?
"Quando si sostituisce la presentazione delle liste con la presenza dei presentatori non possiamo parlare di interpretazione. È un’innovazione bella e buona".
E la soluzione trovata per Milano?
"Qui si trattava dell’autenticazione. Le formule usate per risolvere il problema milanese sono talmente generiche da permettere ai giudici, in caso di difetti nella certificazione, di fare quello che vogliono. Così, li si espone a tutte le possibili pressioni. Nell’attuale clima di tensione, questa pessima legislazione è un pericolo per tutti; è la via aperta alle intimidazioni".
Lei boccia del tutto il decreto?
"Primo: un decreto in questa materia non si poteva fare. Secondo: soggetti politici interessati modificano unilateralmente la legislazione elettorale a proprio favore. Terzo: si finge che sia un interpretazione, laddove è evidente l’innovazione. Quarto: l’innovazione avviene con formule del tutto generiche che espongono l’autorità giudiziaria, quale che sia la sua decisione, all’accusa di partigianeria".
Di Pietro e Napolitano. È giusta la critica dell’ex pm al Colle?
"Le reazioni di Di Pietro, quando accusa il Capo dello Stato di essere venuto meno ai suoi doveri, mi sembrano del tutto fuori luogo. Ciascuno di noi è libero di preferire un comportamento a un altro. Ma è facile, da fuori, pronunciare sentenze. La politica è l’arte di agire per i giusti principi nelle condizioni politiche date. Queste condizioni non sempre consentono ciò che ci aspetteremmo. Quali sono le condizioni cui alludo? Sono una sorta di violenza latente che talora viene anche minacciata. La violenza è la fine della democrazia. Il Capo dello Stato fa benissimo a operare affinché non abbia mai a scoppiare".
Ma Di Pietro, nella firma del Presidente, vede un attentato.
"La vita politica non si svolge nel vuoto delle tensioni, ma nel campo del possibile. Il presidente ha agito usando l’etica della responsabilità, mentre evocare iniziative come l’impeachment significa agire secondo l’etica dell’irresponsabilità".
Lei è preoccupato da tutto questo? "Sì, è anche molto. Perché vedo il tentativo di far prevalere le ragioni della forza sul quelle del diritto. Bisogna dire basta alla prepotenza dei numeri e chiamare tutte le persone responsabili a riflettere sulla violenza che la mera logica dei numeri porta in sé".
L’opposizione è in rivolta. Le prossime manifestazioni e le centinaia di messaggi sul web non rischiano di produrre una spirale inarrestabile?
"Ogni forma di mobilitazione contro gli abusi del potere è da approvare. L’unica cautela è far sì che l’obiettivo sia difendere la Costituzione e non alimentare solo la rissa. C’è chi cerca di provocare lo scontro. Per evitarlo non si può rinunciare a difendere i principi fondamentali. Speriamo che ci si riesca. La mobilitazione dell’opposizione responsabile e di quella che si chiama la società civile può servire proprio a far aprire gli occhi ai molti che finora non vedono".
Sull’Unità d’Italia dimissioni a catena
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 23.04.2010)
E’ qualcosa di emblematico nella burrasca che scuote il comitato per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Dopo le dimissioni del presidente Carlo Azeglio Ciampi, dettate da ragioni d’anagrafe, s’annunciano altre defezioni illustri, firmate da Dacia Maraini, Ugo Gregoretti, Marta Boneschi e Ludina Barzini. Tra i nomi dei dimissionari è circolato ieri anche quello di Gustavo Zagrebelsky, il quale però precisa: «Non esiste alcun atto formale. Siamo ancora in alto mare, non so bene come andrà a finire. Quel che posso esprimere è solo un sentimento di disagio».
Se è vero che anche le precedenti celebrazioni - nel 1911 e nel 1961 - si svolsero nel segno della disunità, queste del prossimo anno rischiano di saltare del tutto: anche per scarsa convinzione - da parte dei seguaci di Bossi, ma non solo - che vi sia qualcosa da festeggiare. Ora il nuovo contrasto, di cui non erano mancate le avvisaglie. Ma conviene procedere per ordine. Ciampi scrive una lettera di dimissioni a Berlusconi e Bondi dai toni molto sereni («Negli ultimi tempi sto avvertendo una riduzione delle mie energie, che si traduce in un senso di affaticamento, fisico e psicologico. Nulla di grave. Tutto in linea con... i dati anagrafici»). Una missiva che in sostanza riconosce al governo il merito di avere avviato le celebrazioni, e che dunque sembra sgombrare il campo da ogni malizia (ora, per la sua successione alla presidenza, si fanno i nomi di Giovanni Conso, Lamberto Maffei e Giuliano Amato).
Però alcuni "saggi" del comitato colgono l’occasione per annunciare il proprio ritiro. Tra questi Dacia Maraini, che sul sito dell’Espresso dichiara: «Con il passare dei mesi il ruolo del comitato è stato svuotato. Non contavamo più niente, non potevamo decidere niente. Mi sembrava poco dignitoso restare lì a fare la foglia di fico e così ho mandato una mail a Zagrebelsky, anche lui preoccupato per la deriva del nostro lavoro, dicendogli: "Ma che ci stiamo a fare?". Zagrebelsky ha scritto una lettera di dimissioni piuttosto dura e motivata, che è stata firmata da me, da Gregoretti e da Boneschi». Zagrebelsky mostra cautela: «È solo una situazione in movimento, la lettera è un documento privato». Di più lo studioso non vuole dire, anche perché «tradirei la riservatezza di altri membri del comitato».
Quel che si percepisce è il sentimento di inutilità diffuso tra i "saggi", messi da parte dalle autorità che guidano le celebrazioni. La Maraini racconta di aver provato a impegnarsi in prima persona con due proposte, una rassegna di film sul Risorgimento e una serie di iniziative sulla lingua italiana. «Nessuno mi ha mai risposto. Poi improvvisamente ci è stato detto che non c’era più una lira, che non si poteva fare più niente. Abbiamo continuato a vederci lo stesso, sperando di sbloccare la situazione, ma è stato inutile. In tutte le nostre riunioni siamo riusciti ad approvare una sola cosa, un disegno con tre bandierine che sarà il logo delle celebrazioni».
Anche il programma finora definito - il restauro dei monumenti, un museo virtuale del Risorgimento, un paio di convegni e poche altre cose - era apparso a diversi membri del comitato molto debole, inadeguato a restituire il senso del processo unitario e di una storia lunga un secolo e mezzo. Un progetto che in sostanza restituiva la scarsa convinzione con cui l’attuale governo si predispone a omaggiare la data fondativa della nostra identità italiana.
Ma abbandonare oggi il comitato potrebbe avere conseguenze indesiderate. Il rischio è che saltino le celebrazioni o subiscano l’influenza di chi ancora crede che l’Italia sia "un’espressione geografica". È dai primi anni Novanta che alcune forze politiche oggi al governo mettono in discussione il processo storico unitario e l’assetto statuale dell’Italia. È anche per sottolineare il valore di un anniversario - contestato "con toni rozzi e inaccettabili", come dice la Maraini - che molti avevano accettato con entusiasmo di impegnarsi nelle celebrazioni. Ora però sembrano venute meno le condizioni per il proseguimento della collaborazione. Un bel pasticcio. Gli storici del futuro potranno usare anche questa vicenda come indicatore del debole stato di salute del nostro sentimento nazionale.
"Pericle insegnami che cos’è la legge"
La legge e le sue ragioni
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica , 26.09.2008)
«DIMMI, Pericle, mi sapresti insegnare che cosa è la legge?» chiede Alcibiade a Pericle. Pericle risponde: «Tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto, stabilendo ciò che si debba e non si debba fare, si chiama legge». E prosegue: «Tutto ciò che si costringe qualcuno a fare, senza persuasione, facendolo mettere per iscritto oppure in altro modo, è sopraffazione piuttosto che legge». Se non ci si parla, non ci si può comprendere e, a maggior ragione, non è possibile la persuasione.
Questa è un’ovvietà. Per intendere però l’importanza del contesto comunicativo, cioè della possibilità che alle deliberazioni legislative concorra un elevato numero di voci che si ascoltano le une con le altre, in un concorso che, ovviamente, non è affatto detto che si concluda con una concordanza generale, si può ricorrere a un’immagine aristotelica, l’immagine della preparazione del banchetto. In questa immagine c’è anche una risposta all’eterna questione, del perché l’opinione dei più deve prevalere su quella dei meno.
Il principio maggioritario è una semplice formula giuridica, un espediente pratico di cui non si può fare a meno per uscire dallo stallo di posizioni contrapposte (E. Ruffini)? È forse solo una «regoletta discutibile» (P. Grossi) che trascura il fatto che spesso la storia deve prendere atto, a posteriori, che la ragione stava dalla parte delle minoranze, le minoranze illuminate (e inascoltate)?
Quali principi sono alla base di una norma? Quanto vale il criterio maggioritario e quanto la necessità del dialogo? Un tema dibattuto dai tempi di Pericle e rimbalzato fino all’attualità Una richiesta confessionale che dovrebbe valere anche per i non credenti La formula di Ugo Grozio per la legislazione era "Come se Dio non ci fosse" Si deve essere disposti, nel confronto con gli altri, a difendere i propri principi Oppure, si tratta forse non di una regoletta ma di un principio che racchiude un valore? Non diremo certo che la maggioranza ha sempre ragione (vox populi, vox dei: massima della democrazia totalitaria), ma forse, a favore dell’opinione dei più, c’è un motivo pragmatico che la fa preferire all’opinione dei meno. A condizione, però, che «i più» siano capaci di dialogo e si aggreghino in un contesto comunicativo, e non siano un’armata che non sente ragioni.
In un passo della Politica di Aristotele (1281b 1-35), che sembra precorrere la sofisticata «democrazia deliberativa» di Jürgen Habermas e che meriterebbe un esame analitico come quello di Senofonte al quale ci siamo dedicati, leggiamo: «Che i più debbano essere sovrani nello Stato, a preferenza dei migliori, che pur sono pochi, sembra che si possa sostenere: implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità. Può darsi, in effetti, che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a ciascuno di loro, in quanto presi non singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e quando si raccolgono e uniscono insieme, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza».
Dunque, inferiori presi uno per uno, diventano superiori agli uomini migliori, quando è consentito loro di contribuire all’opera comune, dando il meglio che c’è in loro. Più numeroso il contributo, migliore il risultato.
Naturalmente, quest’immagine del pranzo allestito da un «uomo in grande» non supera questa obiezione: che nulla esclude che ciò che si mette in comune sia non il meglio, ma il peggio, cioè, nell’immagine del pranzo, che le pietanze propinate siano indigeste. Ma questa è un’obiezione, per così dire, esterna. Dal punto di vista interno, il punto di vista dei partecipanti, è chiaro che nessuno di loro ammetterebbe mai che il proprio contributo all’opera comune è rivolta al peggio, non al meglio.
Ognuno ritiene di poter contribuire positivamente alle decisioni collettive; l’esclusione è percepita come arbitrio e sopraffazione proprio nei riguardi della propria parte migliore. Ora, accade, e sembra normale, che il partito o la coalizione che dispone della maggioranza dei voti, sufficiente per deliberare, consideri superfluo il contributo della minoranza: se c’è, bene; se non c’è, bene lo stesso, anzi, qualche volta, meglio, perché si risparmia tempo. Le procedure parlamentari, la logica delle coalizioni, la divisione delle forze in maggioranza e opposizione, il diritto della maggioranza di trasformare il proprio programma in leggi e il dovere delle minoranze, in quanto minoranze, di non agire solo per impedire o boicottare, rendono comprensibile, sotto un certo punto di vista, che si dica: abbiamo i voti e quindi tiriamo innanzi senza curarci di loro, la minoranza. Ma è un errore. Davvero la regola della maggioranza si riduce così «a una regoletta». Una regoletta, aggiungiamo, pericolosa. Noi conosciamo, forse anche per esperienza diretta, il senso di frustrazione e di umiliazione che deriva dalla percezione della propria inutilità. Si parla, e nessuno ascolta. Si propone, e nessuno recepisce. Quando la frustrazione si consolida presso coloro che prendono sul serio la loro funzione di legislatori, si determinano reazioni di auto-esclusione e desideri di rivincita con uguale e contrario atteggiamento di chiusura, non appena se ne presenterà l’occasione. Ogni confronto si trasformerà in affronto e così lo spazio deliberativo comune sarà lacerato. La legge apparirà essere, a chi non ha partecipato, una prevaricazione.
La «ragione pubblica» - concetto oggi particolarmente studiato in relazione ai problemi della convivenza in società segnate dalla compresenza di plurime visioni del mondo - è una sfera ideale alla quale accedono le singole ragioni particolari, le quali si confrontano tramite argomenti generalmente considerati ragionevoli e quindi suscettibili di confronti, verifiche e confutazione; argomenti che, in breve, si prestino a essere discussi. Le decisioni fondate nella ragione pubblica sono quelle sostenute con argomenti non necessariamente da tutti condivisi, ma almeno da tutti accettabili come ragionevoli, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di valore. Contraddicono invece la ragione pubblica e distruggono il contesto comunicativo le ragioni appartenenti a «visioni del mondo chiuse» (nella terminologia di John Rawls, che particolarmente ha elaborato queste nozioni, le «dottrine comprensive»). Solo nella sfera della «ragione pubblica» possono attivarsi procedure deliberative e si può lavorare in vista di accordi sulla gestione delle questioni politiche che possano apparire ragionevoli ai cittadini, in quanto cittadini, non in quanto appartenenti a particolari comunità di fede religiosa o di fede politica.
Un sistema di governo in cui le decisioni legislative siano la traduzione immediata e diretta - cioè senza il filtro e senza l’esame della ragione pubblica - di precetti e norme derivanti da una fede (fede in una verità religiosa o mondana, comunque in una verità), sarebbe inevitabilmente violenza nei confronti del non credente («l’infedele»), indipendentemente dall’ampiezza del consenso di cui potessero godere. Anzi, si potrebbe perfino stabilire la proporzione inversa: tanto più largo il consenso, tanto più grande la violenza che la verità è capace di contenere.
Sotto questo aspetto, dire legge non violenta equivale a dire legge laica; al contrario, dire legge confessionale equivale a dire legge violenta. La verità non è di per sé incompatibile con la democrazia, ma è funzionale a quella democrazia totalitaria cui già sì è fatto cenno.
L’esigenza di potersi appellare alla ragione pubblica nella legislazione, un quanto si voglia sconfiggere la violenza che sempre sta in agguato nel fatto stesso di porre la legge, spiega la fortuna attuale dell’etsi Deus non daretur, la formula con la quale, quattro secoli fa, Ugo Grozio invitava i legislatori a liberarsi dall’ipoteca confessionale e a fondare il diritto su ragioni razionali; invitava cioè a lasciar da parte, nella legislazione civile, le verità assolute. Mettere da parte Dio e i suoi argomenti era necessario per far posto alle ragioni degli uomini; noi diremmo: per costruire una sfera pubblica in cui vi fosse posto per tutti. Naturalmente, da parte confessionale un simile invito ad agire indipendentemente dall’esistenza di Dio non poteva non essere respinto. Per ogni credente, Dio non si presta a essere messo tra parentesi, come se non ci fosse. Ma l’esigenza che ha mosso alla ri-proposizione di quell’antica espressione (G. E. Rusconi) non è affatto peregrina. È l’esigenza della «ragione pubblica». A questa stessa esigenza corrisponde l’invito opposto, di parte confessionale, rivolto ai non credenti affinché siano loro ad agire veluti si Deus daretur (J. Ratzinger). Altrettanto naturalmente, anche questo invito è stato respinto.
Per un non credente in Dio, affidarsi a Dio (cioè all’autorità che ne pretende la rappresentanza in terra) significa contraddire se stessi. Ma questa proposta-al-contrario coincide con la prima, nel sottolineare l’imprescindibilità di un contesto comune, con Dio per nessuno o con Dio per tutti, nel quale la legge possa essere accettata generalmente in base alla persuasione comune.
Entrambe le formule non hanno dunque aiutato a fare passi avanti. Sono apparse anzi delle provocazioni, ciascuna per la sua parte, alla libertà, autenticità e responsabilità della coscienza. In effetti, non si tratta affatto di esigere rinunce e conversioni di quella natura, né, ancor meno, di chiedere di agire come se, contraddicendo se stessi. Non è questa la via che conduce a espungere la violenza dalla legislazione.
Un punto deve essere tenuto fermo: la legge deve essere aperta a tutti gli apporti, compresi quelli basati su determinate assunzioni di verità. La verità può trovare posto nella democrazia e può esprimersi in «legislazione che persuade», perché la democrazia non è nichilista. Ma solo a patto però - questo è il punto decisivo - che si sia disposti, al momento opportuno, quando cioè ci si confronta con gli altri, a difendere i principi e le politiche che la nostra concezione della verità a nostro dire sostiene, portando ragioni appropriatamente pubbliche (J. Rawls).
Così, i sistemi religiosi, filosofici, ideologici e morali non sono esclusi dalla legislazione, ma vi possono entrare solo se hanno dalla propria parte anche buone ragioni «comuni», su cui si possa dissentire o acconsentire, per pervenire a decisioni accettate, pur a partire da visioni del mondo diverse, come tali non conciliabili. La legislazione civile, in quanto si intenda spogliarla, per quanto è possibile, del suo contenuto di prevaricazione, non può intendersi che come strumento di convivenza, non di salvezza delle anime e nemmeno di rigenerazione del mondo secondo un’idea etica chiusa in sé medesima.
Il divieto dell’eutanasia può essere argomentato con una ragione di fede religiosa: l’essere la vita proprietà divina («Dio dà e Dio toglie»); l’indissolubilità del matrimonio può essere sostenuta per ragioni sacramentali («non separare quel che Dio ha unito»). Argomenti di tal genere non appartengono alla «ragione pubblica», non possono essere ragionevolmente discussi. Su di essi ci si può solo contare. La «conta», in questi casi, varrà come potenziale sopraffazione. Ma si può anche argomentare diversamente. Nel primo caso, ponendo il problema di come garantire la genuinità della manifestazione di volontà circa la fine della propria esistenza; di come accertare ch’essa permanga tale fino all’ultimo e non sia revocata in extremis; di come evitare che la vita, nel momento della sua massima debolezza, cada nelle mani di terzi, eventualmente mossi da intenti egoistici; di come evitare che si apra uno scivolamento verso politiche pubbliche di soppressione di esseri umani, come dicevano i nazisti, la cui vita è «priva di valore vitale».
Alla fine, se ne potrà anche concludere che, tutto considerato, difficoltà insormontabili e rischi inevitabili o molto probabili consigliano di far prevalere il divieto sul pur molto ragionevole argomento dell’esistenza di condizioni di esistenza divenute umanamente insostenibili. Oppure, viceversa. Nel secondo caso, si potrà argomentare sull’importanza della stabilità familiare, nella vita e nella riproduzione della vita delle persone e delle società; a ciò si potrà contrapporre il valore della genuinità delle relazioni interpersonali e la devastazione ch’esse possono subire in conseguenza di vincoli imposti. Su questo genere di argomenti si può discutere, le carte possono mescolarsi rispetto alle fedi e alle ideologie, le soluzioni di oggi potranno essere riviste domani. Chi, per il momento, è stato minoranza non si sentirà per questo oggetto di prevaricazione.
Qualora poi le posizioni di fede non trovino argomenti, o argomenti convincenti di ragione pubblica per farsi valere in generale come legge, esse devono disporsi alla rinuncia. Potranno tuttavia richiedere ragionevolmente di essere riconosciute per sé, come sfere di autonomia a favore della libertà di coscienza dei propri aderenti, sempre che ciò non contraddica esigenze collettive irrinunciabili (questione a sua volta da affrontare nell’ambito della ragione pubblica). Tra le leggi che impongono e quelle che vietano vi sono quelle che permettono (in certi casi, a certe condizioni). Le leggi permissive, cioè le leggi di libertà (nessuno oggi pensa - in altri momenti si è pensato anche questo - che l’eutanasia o il divorzio possano essere imposti) sono quelle alle quali ci si rivolge per superare lo stallo, il «punto morto» delle visioni del mondo incompatibili che si confrontano, senza che sia possibile una «uscita» nella ragione pubblica. Anzi, una «ragione pubblica» che incorpori, tra i suoi principi, il rigetto della legge come violenza porta necessariamente a dire così: nell’assenza di argomenti idonei a «persuadere», la libertà deve prevalere. Questa è la massima della legge di Pericle.
Anticipazioni / La prefazione di Zagrebelsky a una conferenza inedita del grande giurista
Piero Calamandrei. Se la legge è uguale per tutti
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 17.09.2008)
Anticipiamo parte dell’introduzione di Gustavo Zagrebelsky a un testo inedito di una conferenza che Piero Calamandrei pronunciò nel gennaio del 1940 e che ora viene raccolto in un volume intitolato Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei, Laterza, pagg. 148, euro 12)
La conferenza (di Calamandrei, n.d.r.) è un’apologia della legalità. La legalità non è solo un elemento della forma mentis del giurista, o di quel tipo di giurista (legalitario, appunto) nel quale Calamandrei si riconosceva. È per lui un elemento morale, che corrisponde esso stesso a un’idea di giustizia: nella legge e nel suo rigoroso rispetto sta la giustizia dei giuristi, giudici, avvocati, studiosi del diritto. E non perché egli creda in un legislatore-giusto, che è tale perché e in quanto da lui promanino leggi giuste, come possono ritenere i giusnaturalisti di ogni specie; e nemmeno perché creda in un giusto-legislatore, dal quale, per qualche qualità sua propria, provengano leggi giuste per definizione, come ritengono i gius-positivisti ideologici; ma perché crede che la legge in se stessa, in quanto cosa diversa dall’ordine particolare o dalla decisione caso per caso, contenga un elemento morale di importanza tale da sopravanzare addirittura l’ingiustizia eventuale del suo contenuto.
Questo elemento morale risiede nella forma-legge in quanto tale, cioè nella forma generale e astratta in forza della quale si esprime, poiché questa è la "forma logica" della solidarietà e della reciprocità tra gli esseri umani, su cui soltanto società e civiltà possono edificarsi. I toni attraverso i quali è tratteggiata questa concezione della legge, tipicamente razionalista, sono particolarmente appassionati: la legge generale e astratta «significa che il diritto non è fatto per me o per te, ma per tutti gli uomini che vengano domani a trovarsi nella stessa condizione in cui io mi trovo. Questa è la grande virtù civilizzatrice e educatrice del diritto, del diritto anche se inteso come pura forma, indipendentemente dalla bontà del suo contenuto: che esso non può essere pensato se non in forma di correlazione reciproca; che esso non può essere affermato in me senza esser affermato contemporaneamente in tutti i miei simili; che esso non può essere offeso nel mio simile senza offendere me, senza offendere tutti coloro che potranno essere domani i soggetti dello stesso diritto, le vittime della stessa offesa. Nel principio della legalità c’è il riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini, nell’osservanza individuale della legge c’è la garanzia della pace e della libertà di ognuno. Attraverso l’astrattezza della legge, della legge fatta non per un solo caso ma per tutti i casi simili, è dato a tutti noi sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte». «Indipendentemente dalla bontà del suo contenuto», «anche quando il contenuto della legge gli fa orrore».
Queste proposizioni non possono non colpire profondamente, sia per l’immagine ch’esse rendono del giurista e della giurisprudenza, sia per il carattere assolutorio del servizio che i giuristi prestino all’arbitrio che si manifesta in legge: il servizio allo "Stato di delitto" (per usare la formula di Gustav Radbruch) che si fa schermo delle forme dello Stato di diritto. Il giurista come puro esecutore della forza messa in forma di legge? Non è questa una concezione servile del "giurista, giudice o sapiens", che riduce il coetus doctorum a "una sorta di congregazione di evirati"?, ha domandato polemicamente. Tutto questo sembra scandaloso ? si può aggiungere ?, soprattutto in un’epoca nella quale la legge aveva dimostrato tutta intera la sua disponibilità a qualunque avventura, nelle mani di despoti e perfino di criminali comuni, impadronitisi del potere. In Italia, non si trattava solo delle leggi che avevano istituzionalizzato l’arbitrio poliziesco e la vocazione autoritaria del fascismo (per esempio, il codice penale del ’31, o il Testo Unico delle leggi di p.s. del ?34). Si trattava, niente di meno, delle leggi razziali del ?38, sulle quali non una parola è spesa nella conferenza: leggi che paiono dunque essere tacitamente comprese, nella sua argomentazione, tra quelle cui si deve "culto a ogni costo" e ossequio, sia pure, eventualmente "sconsolato", un ossequio dovuto, da parte dei giuristi consapevoli del compito che è loro proprio, come atto di "freddo e meditato eroismo". Queste espressioni, che sono state intese come manifestazione di piaggeria verso il regime, non si leggono oggi senza scandalo.
Ma è proprio così? Il silenzio tenuto in proposito si può spiegare certo col clima d’intimidazione poliziesca del tempo. Ma non è questo il punto che qui interessa. Interessa piuttosto sottolineare che nella nozione "formale" di legge, cui Calamandrei si riferiva, non potevano rientrare leggi come quelle razziali, leggi discriminatici per antonomasia, con riguardo alle quali non si sarebbe certo potuto parlare di reciprocità, capacità di valere oggi per uno e domani per l’altro, solidarietà in una sorte comune, virtù educatrice e civilizzatrice: caratteristiche proprie della legge generale e astratta cui Calamandrei si riferiva, che sono invece puntualmente contraddette da atti in forma di legge aventi lo scopo di spaccare la comunità di diritto, espellendone una parte. Chi potrebbe parlare, per quelle leggi, di reciprocità, valenza generale, solidarietà, eccetera?
L’elogio della legalità non era dunque riferito alla pura e semplice forma del potere che si fosse espresso nel rispetto delle vigenti procedure per la produzione di atti d’imperio, chiamati leggi. Era rivolta a quella legalità che esige una determinata struttura della prescrizione: la generalità e l’astrattezza, alle quali soltanto si possono riferire virtù come la reciprocità, la solidarietà, ecc., del tutto estranee alle misure che creano discriminazioni. Queste ultime, dunque, a ben leggere, non sono da comprendere nell’elogio alla legalità, anche se assumono l’aspetto esteriore della legge. (...) «La scienza giuridica deve mirare soltanto a "sapere qual è il diritto", non a crearlo; solo in quanto il giurista abbia coscienza di questo suo limite e non tenti di sovrapporsi al dato positivo che trova dinanzi a sé, l’opera sua è benefica per il diritto. Io mi immagino il giurista come un osservatore umile e attento».
La certezza del diritto è il valore che primariamente è in gioco, un valore strettamente intrecciato alla sicurezza del singolo, affinché possa «vivere in laboriosa pace la certezza dei suoi doveri, e con essa la sicurezza che intorno al suo focolare e intorno alla sua coscienza la legge ha innalzato un sicuro recinto dentro il quale è intangibile, nei limiti della legge, la sua libertà». Anche a questo proposito, sarebbe facile osservare che queste parole possono sembrare addirittura beffarde, se riferite a leggi che legittimano l’arbitrio. Delle leggi dei regimi autoritari o, peggio ancora, totalitari, tutto si può dire, ma non che esse valgano a protezione della sicurezza delle persone. Ma la preoccupazione di Calamandrei, risultante con evidenza dalla conferenza e da numerosi passi di altri scritti coevi, era la difesa, se non contro l’autoritarismo o il totalitarismo, almeno contro l’arbitrarietà del potere.
Era un’ultima e minima linea difensiva, contro quello che in altri tempi si sarebbe detto il dispotismo, cioè il potere capriccioso, imprevedibile, casuale. Così, si spiega l’attaccamento alla legge e, per converso, la polemica contro quello che viene definito il "diritto libero", considerato il regno dell’arbitrio. (?)
Il "diritto libero" cui Calamandrei si riferisce è un movimento che "libera" la giurisprudenza dall’osservanza stretta della legge, ma allo scopo di sottoporla a una devastante soggezione, la soggezione alle minaccianti pressioni ideologiche e politiche dell’epoca. Gli esempi ch’egli porta, tratti dall’esperienza sovietica e nazista, non sono quelli che ci si aspetterebbe siano forniti da regimi politici e sociali in disfacimento, ma sono quelli di regimi che si sono affermati con durezza e integrità totalitaria. Se non ci si rendesse conto di questo punto, il "chiodo fisso" di Calamandrei ? l’incubo del diritto libero - resterebbe incomprensibile. Forse ci si avvicina al vero, osservando che il "diritto libero" che veniva offrendosi all’attenzione degli studiosi negli anni di Calamandrei era tutt’altro che "libero": era un diritto fortemente ideologizzato, era un diritto che si alimentava direttamente nella "legalità socialista" o nel Volksgeist nazista e nei loro "valori". L’attuazione di tali valori, una volta posta come compito dei giudici, avrebbe travolto ogni limite e legittimato ogni azione, perché di fronte ai valori "che devono valere" in maniera assoluta come fini, ogni mezzo è autorizzato. (?)
Ritorniamo, per un momento, alla "politica razziale", lo scoglio che la conferenza, nell’elogio della legalità, evita accuratamente. Certo, abbiamo difficoltà a vedere differenze di abiezione tra la persecuzione e lo sterminio pianificati per legge, da un lato, o, dall’altro, lasciati all’attivismo dei pogrom, delle azioni "spontanee" della "notte dei cristalli", delle direttive di partito e dei suoi funzionari, assunte fuori di ogni procedura legale in un raduno di gerarchi (la "conferenza di Wannsee", ad esempio), diramate illegalmente e in segreto (come avvenne in Germania e poi, dopo l’8 settembre, da noi, nella Repubblica sociale) ed eseguite con zelo creativo anche se, talora, con improvvisazioni controproducenti. Anzi, sotto certi aspetti, la procedura "legale" ci appare ancor più ributtante perché apparentemente "oggettiva", apparentemente "non coinvolgente" le responsabilità personali, apparentemente più "pulita". Sotto altri aspetti, però, pubblicizzando e burocratizzando le procedure, almeno si evitava di mettere direttamente in movimento il fanatismo ideologico e l’odio razziale che lo Stato etico diffonde nella società, facendo di ogni suo membro un organo o una vittima. Lo Stato, per quanto criminale, evitava almeno di trasformarsi in orda. La difesa della legalità aveva questo estremo significato. Calamandrei, per la sua concezione della legalità, probabilmente non avrebbe rifiutato la famosa immagine di Eraclito delle leggi come le "mura della città".
Il sovrano e l’ideologo
di Ida Dominijanni (il manifesto, 23.07.2008)
La forma della Repubblica cambia nell’aula del senato alle 20 in punto, 171 sì 128 no e 6 astensioni al lodo Alfano che rende Silvio Berlusconi immune dal virus della giustizia. Lo spettro del Sovrano Assoluto si materializza, rigurgito di premodernità che scava la democrazia postmoderna. Ma è di prima mattina, ore 10.30, seduta appena iniziata, che entra in scena l’intendenza, addetta alla divisione ideologia. La guida Gaetano Quagliariello, professione storico, senatore da due legislature, vocazione intellettuale organico. Non nega, non sdrammatizza, non derubrica: rivendica, «a testa alta». Altro che interessi personali del premier, dice: il lodo rende uno storico servigio al paese.
Il paese, argomenta, soffre da sempre di una malattia, che si chiama «illegittimità del potere politico» e si manifesta nel fatto che l’esercizio del potere viene vissuto come un’usurpazione, fino a che il potente di turno non dà segni di cedimento e diviene oggetto di spietata crudeltà popolare. Con scientificità, diciamo, opinabile lo storico cita vittime illustri, da De Gasperi a Fanfani, da Moro a Craxi; con furbizia da guitto si annette l’idea dell’autonomia della politica di Togliatti, perché risalti di più l’ignavia dei suoi eredi che a un certo punto presero a considerare la magistratura «una casamatta gramsciana da conquistare per derivarne il potere sullo stato». Poi arriva al punto: dopo l’89, la storia d’Italia è storia del doppio conflitto fra potere politico e potere giudiziario, e fra giudici militanti e giudici «servitori (o servi?) dello stato». Sì che tre vittorie elettorali non sono bastate a togliere ai giudici il vizio di provare a delegittimare Berlusconi. È tempo di voltare pagina: si sappia d’ora in poi «che un risultato elettorale è definitivo fino alla successiva elezione», perché chi è legittimato dal popolo deve poter fare quello che vuole senza sottostare a legge alcuna. E l’opposizione ringrazi, perché il lodo le dà la storica occasione di liberarsi da quella «sindrome di superiorità morale» che un altro storico, com’è noto, le rimprovera un giorno sì e l’altro pure dalle colonne di un grande quotidiano.
Applausi. L’intellettuale organico ha svolto bene il suo compito. Ha preso i fatti e li ha messi a testa in giù e piedi in aria, come si conviene a una buona ideologia. Ha preso le carte e le ha mischiate col trucco, come si conviene a un mediocre illusionista. Ha scambiato lo storico deficit di legalità che affligge in Italia potere politico, potere economico e società civile e l’ha ribaltato in un deficit di legittimità. Ha preso l’equilibrio fra i poteri, che in Costituzione vincola il principio della legittimità politica al principio della legalità, e l’ha trasformato in «due legittimità concorrenti, quella dell’autorità giudiziaria e quella che deriva dalla sovranità popolare», rivoltando la tragedia in farsa. La tragedia, per dirla con le parole di Gustavo Zagrebelsky, è il rischio assai prossimo che lo scarto che si sta spalancando tra legalità e legittimità si trasformi nel conflitto insanabile «tra una legittimità illegale e una legalità illegittima». La farsa è il banale quadretto sempreverde di Silvio Berlusconi rincorso da frotte di toghe rosse.
Da ieri però c’è anche una farsa che può rivoltarsi in tragedia. Finora troppo pop, troppo cheap, troppo naïf, Silvio Berlusconi ha capito che gli serve un apparato ideologico, un pennacchio intellettuale, una rilettura della storia nazionale adatta allo scopo. E’ l’ultima casamatta da espugnare all’egemonia che fu della sinistra. Lo spettro della sinistra ci rifletta e riemerga anch’esso da dov’è nascosto. È ora di ritrovare quantomeno una propria versione dei fatti e dei misfatti.
Ansa» 2008-07-23 18:42
LODO ALFANO, NAPOLITANO HA PROMULGATO LA LEGGE
ROMA - Al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si legge in un comunicato dell’ufficio stampa del Quirinale, è stata sottoposta oggi, per la promulgazione, la legge in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato. Già il 2 luglio, in riferimento alla autorizzazione alla presentazione alle Camere del disegno di legge (ora approvato dal Parlamento), si era reso noto che "punto di riferimento per la decisione del Capo dello Stato è stata la sentenza n. 24 del 2004 con cui la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 140 del 20 giugno 2003 che prevedeva la sospensione dei processi che investissero le alte cariche dello Stato.
A un primo esame, quale compete al Capo dello Stato in questa fase -, prosegue la nota - il disegno di legge approvato il 27 giugno dal Consiglio dei ministri è risultato corrispondere ai rilievi formulati in quella sentenza. La Corte, infatti, non sancì che la norma di sospensione di quei processi dovesse essere adottata con legge costituzionale. Giudicò inoltre un interesse apprezzabilé la tutela del bene costituito dalla "assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche", rilevando che tale interesse ’puo’ essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale", e stabilendo a tal fine alcune essenziali condizioni". Non essendo intervenute, in sede parlamentare, modifiche all’impianto del provvedimento, salvo una integrazione al comma 5 dell’articolo unico diretta a meglio delimitarne l’ambito di applicazione - conclude la nota -, il presidente della Repubblica ha ritenuto, sulla base del medesimo riferimento alla sentenza della Corte costituzionale, di procedere alla promulgazione della legge.
MANCINI, SERVE LEGGE COSTITUZIONALE - "Non sarebbe fuor d’opera rafforzare con una legge costituzionale" il ’lodo Alfano’. All’indomani dell’approvazione definitiva del provvedimento il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, ribadisce il suo punto di vista per il quale ha ricevuto anche critiche. Il vice presidente del Csm ricorda di aver sempre sostenuto che un intervento per garantire l’immunità alle alte cariche dello stato per un periodo temporaneo richiedesse una legge costituzionale. "Da senatore ho sostenuto - dice - che la legge Schifani sarebbe stata travolta dalla Corte Costituzionale. Qualcuno ha insinuato il sospetto che avessi collegamenti con la Consulta. Non era vero allora e non è vero neanche adesso". Mancino si dice quindi amareggiato per le critiche ricevute all’epoca e anche di recente: "ora mi sono imposto un periodo di tregua; alla ripresa, a settembre, non penso che ci sarà la guerra. Ma mi chiedo: è legittimo esprimere una opinione in un paese democratico?".
ALFANO, PER ME LODO E’ LEGGE DELLO STATO - "Per me il Lodo è legge dello stato. Siamo già proiettati sulla riforma". Lo ha detto il ministro della giustizia, Angelino Alfano, a margine di un convegno sulla giustizia, rispondendo a una domanda relativa alle dichiarazioni del vice presidente del Csm, Nicola Mancino, il quale ha sostenuto la necessità di abbinare il Lodo Alfano ad una riforma costituzionale.
"Questa è una legislatura che ha una maggioranza solida, un’idea e un piano chiari sulla giustizia. E’ l’occasione giusta per procedere. Non ce la faremo scappare". Il guardasigilli, Angelino Alfano, ha accolto l’occasione di un convegno sulla giustizia per ribadire il senso della riforma del sistema giudiziario che il governo intende mettere in atto a settembre. "L’idea che la giustizia sia un tema prioritario dell’agenda - ha detto - è un risultato positivo a tre mesi dall’insediamento del nuovo governo. La riforma alla quale intendiamo mettere mano in autunno non deve spaventare né illudere. Presenteremo un piano che costituirà la piattaforma di lavoro per il Parlamento". Il ministro ha quindi ribadito: "non intendiamo procedere contro qualcuno, ma per il cittadino. Il punto centrale della riforma sarà il cittadino". Riferendosi alle difficoltà derivanti dai tagli di spesa destinati alla giustizia, Alfano ha detto che ieri è stato approvato un decreto del presidente del Consiglio con cui sarà costituito un fondo al quale confluiranno i beni confiscati al di sopra del miliardo di euro che potrà essere utilizzato in materia di giustizia e sicurezza.
Al Senato il Lodo Alfano Il Pd: un sovrano senza limiti
Casson: chiamatelo Lodo Berlusconi *
«Non è né molto urgente né poco urgente, é semplicemente giusto». Il ministro della Giustizia Angelino Alfano parla così del Lodo che martedì sera sancirà l’immunità delle quattro più alte cariche dello Stato. Sarà anche giusto, come dice Alfano, ma nel dubbio si è scelta anche l’urgenza.
Il Lodo arriva infatti al Senato, e più in generale all’attenzione del Paese, con una rapidità che in campagna elettorale si diceva sarebbe stata dedicata ad altri temi. Ma tant’è, si va avanti spediti. Martedì mattina, in meno di mezz’ora, la maggioranza ha respinto tutti e 58 gli emendamenti presentati dall’opposizione. E continua a chiedere il dialogo, nonostante non mostri il minimo interesse per le ragioni della controparte. La capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro dice chiaramente che sembra che «l’intenzione della maggioranza sia di costruire un sovrano senza limiti e francamente non mi convince». Per questo, ribadisce, «è ben difficile che si possa trovare un filo comune di ragionamento».
La Finocchiaro non è sola, si scaglia contro «una furia legislativa cieca, quasi iconoclasta, per approvare qualsiasi norma che possa non arrecare noia al premier, anzi al princeps» anche il senatore Pd, Felice Casson. Casson ci tiene a chiamare il Lodo con il suo nome: non Alfano, dunque, ma Berlusconi, perché «è stato lo stesso premier a dire nella lettera inviata al presidente del Senato che aveva bisogno di questo scudo protettivo ritenendolo indispensabile contro quelli che lui ha definito attacchi della magistratura».
* l’Unità, Pubblicato il: 22.07.08, Modificato il: 22.07.08 alle ore 17.08
’’La sua condotta risulta ancora più grave in quanto posta in essere da un componente di governo’’
Bossi denunciato per offesa a Inno Mameli
La denuncia è arrivata dal consigliere del Comune di Roma Athos De Luca per aver "denigrato, dileggiato e offeso in modo pubblico con la garanzia dell’ampia risonanza del gesto, uno dei simboli più alti e significativi della nostra Repubblica e della Costituzione’’. Fini e Schifani bacchettano il senatùr, ma lui tiene duro
Roma, 22 lug. - (Adnkronos) - Il ministro delle Riforme Umberto Bossi (nella foto) è stato denunciato oggi dal consigliere del Comune di Roma Athos De Luca per aver "denigrato, dileggiato e offeso in modo pubblico con la garanzia dell’ampia risonanza del gesto, uno dei simboli più alti e significativi della nostra Repubblica e della Costituzione", cioè l’inno di Mameli.
Assistito dall’avvocato Giuseppe Di Noto, De Luca ha presentato stamane alla Procura della Repubblica di Roma la denuncia, accusando Bossi di vilipendio di un emblema dello Stato in seguito a quanto accaduto domenica scorsa a Padova. Qui, si sottolinea nella querela "dopo essersi scagliato violentemente contro i professori del Sud rei, a suo dire, di ’martoriare i nostri figli’ ha affermato che ’l’inno nazionale dice che dobbiamo essere schiavi di Roma, ma io dico... toh’ levando a questo punto il dito medio in chiaro segno di dispregio di uno dei simboli fondamentali della Repubblica italiana".
"La condotta del ministro Bossi - si legge nel documento - lesiva della dignità e dell’onore della nostra Repubblica, risulta ancora più grave in quanto posta in essere da un componente di governo che dovrebbe, così come costituzionalmente garantito, rappresentare l’intero Paese". "Il ministro Bossi -continua la denuncia - non è peraltro nuovo a gesti ed affermazioni di tal genere; lo stesso infatti è stato già condannato, con sentenza passata in giudicato, per il reato di vilipendio alla bandiera, avendo pronunciato nel corso di un comizio a Calbiate le seguenti parole: ’Quando vedo il tricolore io mi incazzo. Il tricolore lo uso solo per pulirmi il culo’".