Casini invita a essere "cauti nelle liquidazioni" dell’episodio
Fini e Schifani bacchettano Bossi, ma lui tiene duro
Il presidente della Camera, intervenendo in aula nel corso di un dibattito dedicato alle parole pronunciate dal leader della Lega sull’Inno di Mameli: ’’E’ un simbolo che va rispettato’’. Schifani: ’’E’ sacro’’. Veltroni: ’’Mi aspetto una chiarissima, netta e non scherzosa presa di distanze da parte di Berlusconi’’. Idv: ’’Se ci sarà la possibilità di una mozione di sfiducia la utilizzeremo’’
Roma, 21 lug. (Adnkronos/Ign) - I presidenti di Camera e Senato ’bacchettano’ Umberto Bossi per le sue dichiarazioni sull’inno di Mameli, ma il leader della Lega tira dritto mantenendo le sue posizioni. Le esternazioni del senatur hanno dato luogo ad una decisa polemica politica che ha avuto come scenario soprattutto l’aula della Camera, dove Bossi era presente per votare la fiducia alla manovra.
A Montecitorio, come anche a Palazzo Madama, si è svolto un dibattito sulle frasi del leader del Carroccio, al termine del quale sia Gianfranco Fini che Renato Schifani hanno sottolineato il valore dell’Inno di Mameli e dell’unità d’Italia.
L’Inno "rappresenta per il popolo italiano un simbolo che va rispettato", "nessuno deve offendere il "sentimento di unità nazionale" che rappresenta e "non esiste un’Italia del nord, del centro e del sud, ma un’unità degli italiani che in quel simbolo si riconoscono", ha detto il presidente della Camera Gianfranco Fini(nella foto) intervenendo in Aula. Fini ha auspicato che Bossi, "cui tutti danno atto di grande passione politica, coglierà l’occasione per precisare il suo pensiero". Al gruppo della Lega la terza carica dello Stato ha ricordato, tra gli applausi dell’Aula, che "il rispetto dell’unità nazionale è la condizione imprescindibile per una politica di riforme e per il federalismo, soprattutto fiscale, che è garanzia di sviluppo per tutta l’Italia, e non solo di una sua parte. E quell’Italia si riconosce nell’Inno nazionale".
"I simboli dell’unità e della patria sono sacri’’, gli ha fatto eco il presidente del Senato Renato Schifani, chiudendo il dibattito a Palazzo Madama. "Sono certo, comunque, che quanto accaduto nella giornata di ieri sia frutto di un clima particolare che spesso si realizza nei convegni di partito - ha poi aggiunto -. A mia memoria fatti come quelli di ieri non si sono mai verificati in ambito parlamentare". Schifani, poi, ha invitato "ad abbassare i toni e a lavorare per il bene del Paese". "In quel convegno di partito sono state manifestate espressioni non condivisibili. Ma fa parte di una forza politica che contemporaneamente lanciava un forte messaggio di confronto con l’opposizione", ha sottolineato la seconda carica dello Stato.
Bossi, però, ha rispedito al mittente le polemiche: sono "strumentalizzazioni" e il presidente della Camera "poteva non intervenire". Inoltre, anche oggi il leader del Carroccio ha confermato la sua preferenza per la canzone del Piave (ascolta l’audio) rispetto all’Inno di Mameli (ascolta l’audio). "Nell’inno di Mameli c’è anche scritto che i bambini italiani si chiamano ’balilla’", ha poi aggiunto rispondendo tra l’altro a chi gli ha domandato delle richieste di sue dimissioni: "Non sono mica venuto qui per mollare".
’’Mi aspetto una chiarissima, netta e non scherzosa presa di distanze da parte del presidente del Consiglio", aveva detto in mattinata Walter Veltroni. Un invito ribadito anche in Aula: "Le parole di Fini sono state chiare. Ma manca all’appello la posizione che il Paese attende di conoscere, quella del presidente del Consiglio, chiamato a dire se condivide la parole di un suo ministro e di un gruppo che fa parte della sua maggioranza".
Si è dunque aperta con una dibattito sulle frasi, e i gesti, del senatur la seduta della Camera dedicata alla fiducia sulla manovra fiscale. E’ stato Pierluigi Castagnetti, per il Pd, a sollecitare un intervento di Gianfranco Fini sul caso del leader del Carroccio. All’intervento di Castagnetti hanno fatto seguito le parole di Pier Ferdinando Casini per l’Udc, Fabio Evangelisti per l’Idv, Roberto Cota per la Lega e Italo Bocchino per il Pdl. Alessandra Mussolini, da parte sua, grazie ad un piccolo registratore accostato al microfono del suo banco, ha diffuso nell’emiciclo le note dell’Inno di Mameli. "Siamo di fronte ad un involgarimento del linguaggio politico che ha superato ogni limite possibile", ha detto Castagnetti lamentando "il silenzio del capo del governo".
Dopo aver espresso solidarietà a "tutti gli insegnananti", Casini nel suo intervento ha invitato a essere "cauti nelle liquidazioni" dell’episodio parlando semplicemente di un "Bossi bifronte". Il leader dell’Udc si è rivolto anche all’opposizione che, secondo lui, fa passare Bossi dall"utilità alla pericolosità" a seconda delle fasi politiche. "Invito tutti ad avere convinzioni e a difenderle, e a non a scambiarle per convenienza", ha concluso Casini.
"Non cadiamo in questa trappola. Confermiamo l’alleanza politica con la Lega", ha invece replicato a Veltroni Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl alla Camera. "Noi diciamo di no a una strumentalizzazione di bassa lega che è solo vostra che cavalcate qualunque posizione che può andare a vostro vantaggio", ha detto Cicchitto parlando in aula. "Confermiamo la lealtà all’unità nazionale, all’Inno di Mameli, ma queste non sono ragioni per mettere in discussione un processo politico", ha aggiunto Cicchitto.
"Se ci sarà la possibilità di una mozione di sfiducia, utilizzeremo anche questo strumento", ha affermato invece il capogruppo dell’Idv al Senato, Felice Belisario. "Questa è l’ennesima puntata della ’Bossy-story’- ha aggiunto - Bossi vuole solo la secessione, del federalismo non gli interessa nulla. Ora deve avere la sensibilità di dimettersi, non può fare il ministro, non è credibile chi insulta prima il tricolore e poi l’Inno d’Italia". "Noi dell’Italia dei valori - continua Belisario - useremo tutti gli strumenti parlamentari, apriremo un caso in Parlamento, per chiarire che Bossi non può fare il ministro. Può fare il ministro della Repubblica delle banane, ma non certo il ministro delle Riforme".
Sul tema, nel sito (cliccare sulle parole rosse - per leggere l’art.), si cfr.:
Ansa» 2008-07-22 13:50
GIUSTIZIA, ALFANO: IN AUTUNNO LA RIFORMA
ROMA - Il ministro della Giustizia, Angiolino Alfano, ha annunciato la riforma del sistema giudiziario italiano per l’autunno. In sede di replica sul disegno di legge che garantisce l’immunità per le alte cariche dello Stato, il ministro ha detto:"Intendiamo procedere alla riforma della giustizia civile e del processo penale visti i tempi irragionevoli della durata dei processi e visto che il conto lo paga il cittadino".
Secondo Alfano, "oggi la linea di confine tra riformisti e conservatori è segnata dalla giustizia". Il Guardasigilli ha invitato "i settori ragionevoli dell’opposizione" ad un "confronto in autunno" sulla riforma della giustizia con l’auspicio che i settori riformisti dell’opposizione "non seguano i giustizialisti".
ALFANO, URGENTE? SOLO GIUSTO - Il ministro della Giustizia Angiolino Alfano ha difeso con forza e con piglio polemico il disegno di legge che garantisce l’immunità delle alte cariche dello Stato (il Lodo che porta il suo nome) in sede di replica al Senato prima che comincino le votazioni sugli emendamenti. "Alle critiche che sono state rivolte - dice Alfano - sulla fretta con cui si è messo a punto questa legge, io rispondo che non è molto urgente né poco urgente è solo giusto". "Noi lo abbiamo fatto - aggiunge il Guardasigilli rivolgendosi ai banchi dell’opposizione - come abbiamo fatto il decreto sulla sicurezza atteso dai cittadini, così come era giusto fare il decreto che ha levato la spazzatura nella città di Napoli, così come era importante fare il decreto sull’abolizione dell’Ici sulla prima casa". L’elenco delle cose messe in cantiere e fatte dal governo, viene interrotto dall prime forme di protesta dai senatori dell’opposizione. Il ministro Alfano non si scompone, alza un po’ di più la voce proseguendo nell’elenco. "Era importante - sottolinea il Guardasigilli - anticipare i termini della manovra economica, visto che abbiamo ereditato un paese in ginocchio, mentre il Dpef era diventato in passato un genere letterario e noi lo abbiamo trasformato in misure al servizio del paese per contrastare la crisi". Prima di questa rivendicazione della linea legislativa del governo, Alfano aveva difeso il suo "Lodo" sottolineando soprattutto il fatto che "tiene conto dei rilievi della Corte Costituzionale". Il ministro parla di un "testo sobrio e ben calibrato rispetto ai principi e ai valori costituzionali che risultano coinvolti, nonché in linea con le norme di altri ordinamenti occidentali". Il Guardasigilli ha replicato alle accuse dell’opposizione di aver fatto un disegno di legge ordinario su un tema come quello che garantisce la sospensione di eventuali processi penali per le alte cariche dello Stato che è di natura costituzionale, data la sua rilevanza, perché considerato in conflitto con l’articolo 3 della Costituzione che stabilisce che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. "Si tratta - ha detto Alfano - di un disegno che stabilisce la sospensione del procedimento penale e questo è possibile farlo con una legge ordinaria. I processi sono sospesi e la legge introduce un limite preciso ed ineliminabile: la fine della legislatura".
SENATORI PDL IN PIEDI PER ALFANO - Non appena il Guardasigilli Angelino Alfano conclude il suo intervento nell’aula del Senato sul lodo annunciando che, per settembre l’obiettivo sarà quello di presentare una riforma complessiva della giustizia, il presidente della commissione Affari costituzionali Carlo Vizzini si alza in piedi per applaudire. A quel punto gran parte dei senatori della maggioranza, che già stavano battendo le mani, decidono anche loro di alzarsi in piedi come omaggio ad Alfano. Il presidente della commissione Giustizia Filippo Berselli si alza anche lui e va ai banchi del governo per abbracciare e baciare il Guardasigilli. Vizzini non vuole essere da meno e così dopo averlo baciato e abbracciato anche lui gli si siede accanto, mentre dai banchi dell’opposizione si grida: "Vizzini, ormai sei diventato una macchietta!" e "Siete davvero ridicoli...!". Alfano ha difeso il lodo che porta il suo nome e che prevede la sospensione dei processi per le 4 più alte cariche dello Stato fino alla fine del mandato, sostenendo che si tratta di un "testo sobrio, ben equilibrato e in linea con le altre norme dello stesso tipo presenti in Europa".
La Costituzione ai tempi della democrazia autoritaria
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22.07.2008).
La Costituzione fatica nel compito di creare concordia. Quando una Costituzione genera discordia, è segno di qualcosa di nuovo e profondo che ha creato uno scarto. È il momento in cui le strade della legittimità e della legalità (la prima, adeguatezza ad aspettative concrete; la seconda, conformità a norme astratte) si divaricano. Di legalità si vive, quando corrisponde alla legittimità. Ma, altrimenti, si può anche morire. Alla fine è pur sempre la legittimità a prevalere su una legalità ridotta a fantasma senz’anima.
La difesa della Costituzione non può perciò limitarsi alla pur necessaria denuncia delle violazioni e dei tentativi di modificarla stravolgendola. Una cosa è l’incostituzionalità, contrastabile richiamandosi alla legalità costituzionale. Ma, cosa diversa è l’anticostituzionalità, cioè il tentativo di passare da una Costituzione a un’altra. Contro l’anticostituzionalità, il richiamo alla legalità è uno strumento spuntato, perché proprio la legalità è messa in questione. Che cos’è, dunque, la controversia sulla Costituzione: una questione di legalità o di legittimità? Dobbiamo poter rispondere, per metterci sul giusto terreno ed evitare vacue parole. Per farlo, occorre guardare alla psicologia sociale e alle sue aspettative costituzionali. Questa è un’epoca in cui, manifestamente, le relazioni tra le persone si fanno incerte e il primo moto è di diffidenza, difesa, chiusura. Questo è un dato. Alla politica, che pur si disprezza, si chiede attenzione ai propri interessi, alla propria identità, alla propria sicurezza, alla propria privata libertà. L’ossessione per "il proprio" ha, come corrispettivo, l’indifferenza e, dove occorre, l’ostilità per "l’altrui".
In termini morali, quest’atteggiamento implica una pretesa di plusvalenza. In termini politici, comporta la semplificazione dei problemi, che si guardano da un lato solo, il nostro. In termini costituzionali, si traduce in privilegi e discriminazioni.
Esempi? "A casa nostra" vogliamo comandare noi: espressione pregnante, che sottintende un titolo di proprietà tutt’altro che ovvio. Detto diversamente: ci sono persone che, pur vivendo accanto a noi, sono come "in casa altrui", nella diaspora, senza diritti ma solo con concessioni, revocabili secondo convenienza. Gli immigrati pongono problemi? Li risolviamo con quote d’ingresso determinate dalle nostre esigenze sociali ed economiche e, per quanto eccede, ne facciamo dei "clandestini", trattandoli da delinquenti. Non pensiamo che anche noi, gli "aventi diritto", portiamo una responsabilità delle persone che muoiono in mare o nascoste nelle stive, indotte da questa nostra legislazione ad agire, per l’appunto, da clandestini. La criminalità si annida nelle comunità che vivono ai margini della nostra società (oggi, i rom e i sinti; domani, chissà). Allora, spianiamo per intanto i campi dove vivono e pigiamone i pollici, grandi e piccoli, perché lascino un’impronta. Basta non guardare la loro sofferenza e la loro dignità. Certo, i mendicanti seduti o sdraiati sui marciapiedi ostacolano il passaggio. Noi, che non abbiamo bisogno di elemosinare, vietiamo loro di farsi vedere in giro. Basta non pensare alla vergogna che aggiungiamo al bisogno. L’indigenza si diffonde? Istituiamo l’elemosina di Stato. Si crea così una frattura sociale, tipo Ancien Régime? Basta non accorgersene. I diritti si rovesciano in strumenti di esclusione quando, per garantire i nostri, non guardiamo il lato che riguarda gli altri. In una società di uguali, il lato sarebbe uno solo: il mio è anche il tuo. Ma in una società di disuguali, l’unilateralità è la premessa dell’ingiustizia, della discriminazione, dell’altrui disumanizzazione. Quando si prende questa china, non si sa dove si finisce. Perfino a teorizzare la tortura, in nome della sicurezza.
Ma questa è anche un’epoca di restrizione delle cerchie della socievolezza. Il nostro benessere è insidiato dagli altri: dunque rifugiamoci tra di noi, amici nella condivisione dei medesimi interessi. Al riparo dalle insidie del mondo, pensiamo di trovare la nostra sicurezza. L’esistenza in grande appare insensata, anzi insidiosa: la parola umanità suona vuota, le unità politiche create dalla storia dei popoli si disgregano in piccole comunità sospettose l’una verso l’altra; l’Europa segna il passo. Le riduzioni di scala della socievolezza riguardano ogni ambito della vita di relazione e, a mano a mano che procedono, creano nuove inimicizie in una spirale che distrugge l’interesse generale e i suoi postulati di legalità, imparzialità, disinteresse personale. La legge uguale per tutti è sostituita dalla ricerca di immunità e impunità. Ciò che denominiamo "familismo" crea cricche politiche e partitiche, economiche e finanziarie, culturali e accademiche, spesso intrecciate tra loro, dove si organizzano e si chiudono relazioni sociali e di potere protette, per trasmetterle da padri a figli e nipoti, da boss a boss, da amico ad amico e ad amico dell’amico, secondo la legge dell’affiliazione. Sul piano morale, quest’atteggiamento valorizza come virtù l’appartenenza e l’affidabilità, a scapito della libertà. Sul piano politico, si traduce in distruzione dello spirito pubblico e nella sostituzione degli interessi generali con accordi opachi tra "famiglie". Sul piano costituzionale, si risolve nella distruzione della repubblica di cui parla l’art. 1 della Costituzione, da intendersi nel senso ciceroniano di una comunione basata sul legittimo consenso circa l’utilità comune.
Della diffidenza e della chiusura, conseguenza naturale è la perdita di futuro, come bene collettivo. Si procede alla cieca e, non sapendoci dare una meta che meriti sacrifici, cresciamo in particolarismi e aggressività. Le visioni del futuro, che una volta assumevano le vesti di ideologie, sono state distrutte e, con esse, sono andati perduti anche gli ideali che contenevano. Sono stati sostituiti da mere forze divenute fini a se stesse, come la tecnica alleata all’economia di mercato, mossa dai bilanci delle imprese: forze paragonate al carro di Dschagannath che, secondo una tradizione hindu, trasporta la figura del dio Krishna e, muovendosi da sé senza meta, travolge la gente che, in preda a terrore, cerca inutilmente di guidarlo, rallentarlo, arrestarlo. In termini morali, la perdita di futuro contiene un’autorizzazione in bianco alla consumazione nell’immediato di tutte le possibilità, senza accantonamenti per l’avvenire. In termini politici, comporta una concezione dell’azione pubblica come sequenza di misure emergenziali. In termini costituzionali, distrugge ciò che, propriamente, è politica e la sostituisce con una gestione d’affari a rendita immediata.
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Tutto ciò, invero, è un insieme di constatazioni piuttosto banali che, oltretutto, non rispecchiano l’intera realtà costituzionale, per nostra fortuna fatta anche d’altro. Ma, per quanto in queste constatazioni c’è di vero, non sarà altrettanto banale collegarlo con la Costituzione e le sue difficoltà. Quelle tre nevrosi da insicurezza - visione parziale delle cose; disgregazione degli ambiti di vita comune; assenza di futuro - hanno un unico significato: la corrosione del legame sociale. Non siamo solo noi a trovarci alle prese con questa difficoltà, ma noi specialmente. Una domanda classica nella sociologia politica è: che cosa tiene insieme la società? Oggi la domanda si è spostata, e ci si chiede addirittura se di società, cioè di relazioni primarie spontanee, non imposte forzosamente, si possa ancora parlare. In effetti, poiché convivere pur bisogna, vale una relazione inversa: a legame sociale calante, costrizione crescente.
Non è forse questa la nostra china costituzionale? Una china su cui troviamo, da un lato, per esempio, indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per l’indipendenza della funzione giudiziaria: indifferenza, in breve, per ciò qualifica come "liberale" una democrazia; sostegno, dall’altro, alle misure energiche, alla concentrazione e alla personalizzazione del potere, alla democrazia d’investitura, all’antiparlamentarismo, al fare per il fare, al decidere per il decidere: in breve, a ciò che qualifica invece come "autoritaria" la democrazia.
La sintesi potrebbe essere la frase pronunciata da un deputato socialista, all’epoca delle nazionalizzazioni decise dal governo Mitterand e osteggiate dall’opposizione di destra, che aveva promosso un ricorso al Conseil constitutionnel (più o meno, la nostra Corte costituzionale): «Voi avete giuridicamente torto, perché noi abbiamo politicamente ragione». In altri termini, il vostro richiamo alla Costituzione vale nulla, perché noi abbiamo i voti. Quella frase fece grande scandalo, chi l’aveva pronunciata dovette rimangiarsela. Ma si esprime lo stesso concetto dicendo: la gente ha votato, ben sapendo chi votava, e questo basta; la forza del consenso rende nulla la forza del diritto; chi obbietta in nome della Costituzione è un patetico azzeccagarbugli che con codici e codicilli crede di fermare la marcia della nuova legittimità costituzionale.
La Costituzione non ammette questo modo di ragionare. Non c’è consenso che possa giustificare la violazione delle "forme" e dei "limiti" ch’essa stabilisce (art. 1). Ma questa è legalità costituzionale. Pensare di sostenere una legalità traballante nella sua legittimità, invocando soltanto la legalità, è come volersi trarre dalle sabbie mobili aggrappandosi ai propri capelli. Chi vuol difendere la Costituzione deve accettare la sfida della legittimità e saper mostrare, anche attraverso i propri comportamenti, che la Costituzione non è un involucro ormai privo di valida sostanza, non è l’espressione o la copertura di un mondo senza futuro. Occorre far breccia in convinzioni collettive, là dove domina indifferenza, sfiducia, rassegnazione: i sentimenti qualunquistici, naturalmente orientati a esiti autoritari, di cui s’è detto. Se la crisi costituzionale è innanzitutto crisi di disfacimento sociale, è da qui che occorre ripartire. Si difende la Costituzione anche, e soprattutto, con politiche rivolte a promuovere solidarietà e sicurezza, legalità e trasparenza, istruzione e cultura, fiducia e progetto: in una parola, legame sociale. Se non andiamo alla radice, per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità illegale: tragico nel senso più proprio e classico della parola. Ci si dovrà ritornare.