Materiali per riflettere, sul sito, si cfr.:
(Maturità - 2008)
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO.
L’analisi di Gramsci (già contro le derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
ANTONIO GRAMSCI (1924). "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo".
Lettera aperta al Presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano
dei “ragazzi di Barbiana”
dell’11 aprile 2011
Signor Presidente,
lei non può certo conoscere i nostri nomi: siamo dei cittadini fra tanti di quell’unità nazionale che lei rappresenta.
Ma, signor Presidente, siamo anche dei "ragazzi di Barbiana". Benché nonni ci portiamo dietro il privilegio e la responsabilità di essere cresciuti in quella singolare scuola, creata da don Lorenzo Milani, che si poneva lo scopo di fare di noi dei "cittadini sovrani".
Alcuni di noi hanno anche avuto l’ulteriore privilegio di partecipare alla scrittura di quella Lettera a una professoressa che da 44 anni mette in discussione la scuola italiana e scuote tante coscienze non soltanto fra gli addetti ai lavori.
Il degrado morale e politico che sta investendo l’Italia ci riporta indietro nel tempo, al giorno in cui un amico, salito a Barbiana, ci portò il comunicato dei cappellani militari che denigrava gli obiettori di coscienza. Trovandolo falso e offensivo, don Milani, priore e maestro, decise di rispondere per insegnarci come si reagisce di fronte al sopruso.
Più tardi, nella Lettera ai giudici, giunse a dire che il diritto - dovere alla partecipazione deve sapersi spingere fino alla disobbedienza: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando avallano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.
Questo invito riecheggia nelle nostre orecchie, perché stiamo assistendo ad un uso costante della legge per difendere l’interesse di pochi, addirittura di uno solo, contro l’interesse di tutti. Ci riferiamo all’attuale Presidente del Consiglio che in nome dei propri guai giudiziari punta a demolire la magistratura e non si fa scrupolo a buttare alle ortiche migliaia di processi pur di evitare i suoi.
In una democrazia sana, l’interesse di una sola persona, per quanto investita di responsabilità pubblica, non potrebbe mai prevalere sull’interesse collettivo e tutte le sue velleità si infrangerebbero contro il muro di rettitudine contrapposto dalle istituzioni dello stato che non cederebbero a compromesso.
Ma l’Italia non è più un paese integro: il Presidente del Consiglio controlla la stragrande maggioranza dei mezzi radiofonici e televisivi, sia pubblici che privati, e li usa come portavoce personale contro la magistratura. Ma soprattutto con varie riforme ha trasformato il Parlamento in un fortino occupato da cortigiani pronti a fare di tutto per salvaguardare la sua impunità.
Quando l’istituzione principe della rappresentanza popolare si trasforma in ufficio a difesa del Presidente del Consiglio siamo già molto avanti nel processo di decomposizione della democrazia e tutti abbiamo l’obbligo di fare qualcosa per arrestarne l’avanzata. Come cittadini che possono esercitare solo il potere del voto, sentiamo di non poter fare molto di più che gridare il nostro sdegno ogni volta che assistiamo a uno strappo.
Per questo ci rivolgiamo a lei, che è il custode supremo della Costituzione e della dignità del nostro paese, per chiederle di dire in un suo messaggio, come la Costituzione le consente, chiare parole di condanna per lo stato di fatto che si è venuto a creare.
Ma soprattutto le chiediamo di fare trionfare la sostanza sopra la forma, facendo obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a promulgare leggi che insultano nei fatti lo spirito della Costituzione. Lungo la storia altri re e altri presidenti si sono trovati di fronte alla difficile scelta: privilegiare gli obblighi di procedura formale oppure difendere valori sostanziali. E quando hanno scelto la prima via si sono resi complici di dittature, guerre, ingiustizie, repressioni, discriminazioni.
Il rischio che oggi corriamo è lo strangolamento della democrazia, con gli strumenti stessi della democrazia. Un lento declino verso l’autoritarismo che al colmo dell’insulto si definisce democratico: questa è l’eredità che rischiamo di lasciare ai nostri figli.
Solo lo spirito milaniano potrà salvarci, chiedendo ad ognuno di assumersi le proprie responsabilità anche a costo di infrangere una regola quando il suo rispetto formale porta a offendere nella sostanza i diritti di tutti. Signor Presidente, lasci che lo spirito di don Milani interpelli anche lei.
Nel ringraziarla per averci ascoltati, le porgiamo i più cordiali saluti
Francesco Gesualdi, Adele Corradi, Nevio Santini, Fabio Fabbiani, Guido Carotti, Mileno Fabbiani, Nello Baglioni, Franco Buti, Silvano Salimbeni, Enrico Zagli, Edoardo Martinelli, Aldo Bozzolini
Niente paragoni con il Fascismo
di Emilio Gentile (il Fatto, 27.08.2010)
Riccardo Chiaberge è turbato dall’incubo di un paragone storico inquietante fra la situazione italiana di oggi e la situazione italiana alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1924, che aprirono la strada al regime fascista illiberale e totalitario, come lo definirono alcuni amanti della libertà, che nessuno ascoltò. Nel suo blog dell’11 agosto, Chiaberge ha chiesto agli italiani di liberarlo dall’incubo, convincendolo che ha torto oppure dimostrandogli, soprattutto, che hanno imparato la lezione della storia e non ricadranno di nuovo nella trappola del 1924.
La lezione inesistente
UN GRANDE storico disse due secoli fa che la storia dimostra che dalla storia gli uomini non imparano nulla. Un grande sociologo del secolo scorso scrisse che gli uomini fanno la storia ma non sanno che storia fanno. Nessuno ha finora dimostrato che gli italiani siano esseri umani speciali, perché sanno imparare la lezione della storia. Invece, è dimostrabile che in moltissimi italiani la capacità di oblio del passato è pari solo alla loro convinzione di essere sempre vittime di una storia fatta da istrioni ingannatori e da politicanti corrotti, piovuti da chissà quale pianeta maligno per traviare il Bel Paese. Dubito pertanto che Chiaberge possa avere dagli italiani la confortante promessa che non ripeteranno quello che, in maggioranza, i loro antenati fecero nelle elezioni del 1924.
Vorrei però tentare di liberare Chiaberge dall’incubo del suo inquietante paragone storico provando a convincerlo che ha torto, perché il paragone della situazione odierna con la vigilia delle elezioni dell’aprile 1924 non regge. Non regge neppure - e in questo Chiaberge ha ragione - il paragone che molti fanno fra la situazione attuale del governo in carica e quella del regime fascista alla vigilia del 25 luglio 1943. Come non regge, a mio modestissimo parere, nessun paragone fra la situazione italiana di oggi e il fascismo.
Prima di tutto, osservo che la riforma elettorale del 1924 non fu il suicidio del parlamento italiano: il suicidio, il Parlamento lo aveva già fatto nel novembre 1922 quando votò la fiducia ad un governo presieduto dal capo di un partito armato, nato appena tre anni prima (il partito armato, intendo), che si era aperto la via verso il potere con la violenza, dichiarando apertamente di voler creare uno Stato senza libertà per i suoi avversari, fortemente unitario e accentratore, fanaticamente nazionalista. E fu quello che il fascismo fece quando instaurò il regime a partito unico e impose agli italiani il primato assoluto dello Stato nazionale, trasfigurato in una divinità alla quale tutti dovevano dedizione totale, obbedendo ciecamente al Duce, adorato come un dio terreno in un culto collettivo. Inoltre, il regime fascista praticò un’etica spartana e bellicosa, esigendo da ogni uomo e donna di dedicare la sua vita alla patria, di sacrificare la ricerca della felicità, e persino la più modesta ricerca di un benessere personale, alla potenza dello Stato e alla conquista di un impero.
Oggi non vedo in Italia un partito armato, non vedo un fanatismo nazionalista, e non vedo neppure il progetto di uno Stato accentratore deificato. E non vedo neppure un culto del capo, che faccia rassomigliare l’attuale presidente del consiglio al Duce del fascismo. Anzi, sarà probabilmente il Duce del fascismo, nella nuova versione diaristica, che somiglierà all’immagine che l’attuale presidente del Consiglio vuole dare di sé. Infine, chi governa oggi in Italia non sogna, neppure nei più esaltati sogni di grandezza, di militarizzare gli italiani per trasformarli in asceti e guerrieri, dedicati per la vita e per la morte alla potenza della nazione e dello Stato. Sogna, invece, di renderli tutti consumatori felici di un benessere senza limiti.
Come un ghiacciaio che si scioglie
DUNQUE , Chiaberge si rassereni. Da eventuali elezioni politiche con il porcellum, con la maggioranza degli italiani cloroformizzati dall’apatia, dalla rassegnazione, dal disgusto per la politica o dalla presunzione di farla sempre franca coll’arte di arrangiarsi e col miracolo dello Stellone, non nascerà certamente uno regime totalitario. E’ più probabile invece che avremo il totalitario disordine di uno Stato nazionale in disfacimento, che sopravvivrà ancora per qualche tempo come espressione istituzionale, e poi, forse, se ne andrà alla deriva disgregandosi, come un ghiacciaio che si scioglie in mare.
Un’ultima osservazione, per tranquillizzare Chiaberge. Il totalitarismo fascista si fondava sul principio della subordinazione del privato al pubblico, rappresentato dallo Stato: dalle eventuali prossime elezioni, uscirà probabilmente consolidato il corso di una democrazia recitativa, che da decenni ha subordinato il pubblico al privato. Una democrazia recitativa, per sua stessa natura, è l’opposto di uno Stato totalitario. La loro diversità è geneticamente insuperabile. Da uno Stato totalitario ci si può, alla fine, liberare: la storia lo dimostra. Da una democrazia recitativa, è quasi impossibile.
(*) docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma
COSTITUZIONE E CITTADINANZA. Lezione dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti: Se un cittadino-sovrano, una cittadina-sovrana, "pecora si fa, il lupo se la mangia"!!!
Non c’è democrazia senza scuola pubblica
Caro Direttore, *
Le scrivo da dietro il “ponte di Governo” di una delle tante scuole private d’Italia e della Sicilia. Le scuole che dirigo, paritarie e parificate, si trovano a Riesi ed operano da oltre 45 anni. Siamo, e qui arriva l’eccezione, una scuola non confessionale nel mare magnum delle scuole cattoliche. Benché la scuola si chiami “monte degli ulivi” e sia parte del Servizio Cristiano Istituto Valdese, nelle nostre aule non troverà né forma e né sostanza di insegnamenti religiosi e dogmatici di parte. S’immagini nemmeno l’ombra di un crocifisso.
Superate le presentazioni mi preme aggiungere la mia modesta voce a quella delle decine e centinaia di insegnanti della scuola pubblica che gridano al pericolo che sta oggi correndo il sistema scolastico statale. Mi dicono, voci interessate, che dovrei gioire, tacere e tifare Gelmini e Berlusconi. Che quest’ennesima riforma riempirà non solamente le private aule della scuola che dirigo, ma soprattutto le casse la cui gestione mi consentirà chissà quali mirabolanti arricchimenti.
Francamente credo sia opportuno unire la voce di una scuola laica, democratica e pluralista, come quella che dirigo, alle voci di cui sopra per impedire che lo sfacelo si compia.
A che vale avere le casse piene, magari per alimentare clientele tra insegnanti in cerca di punteggi (che domani varranno meno che nulla) e di lavoro così da creare nuovi tesoretti elettorali da barattare per nuovi premi legislativi, se la società che stiamo costruendo si avvia verso l’autoritarismo ed un nuovo medioevo?
Mi dirà, caro Direttore, “dr. Fiusco lei esagera”! Eppure vorrei, se me lo permette, cercare di spiegare perché, da direttore di una struttura scolastica privata, mi schiero a difesa del sistema scolastico pubblico di cui le scuole statali fanno parte.
Innanzitutto perché l’educazione non è una merce, né la didattica un’opzione di cui poter fare a meno. Educare, oltre le definizioni classiche, è un quotidiano impegno per costruire le generazioni del futuro. Questo, tradotto in soldoni (che parrebbe l’unica parola cui questa società sembra prestare veramente attenzione), significa che sono le aule i primi “consigli comunali” dove si costruisce e rafforza il tessuto democratico. Il confronto, lo studio, il reciproco sostegno tra alunni ed alunne, i valori della solidarietà e della reciprocità, vengono coltivati tra i nostri figli a scuola. Meno scuole pubbliche nel complesso significa meno “vivai” dove incubare i valori più preziosi della democrazia.
Meno investimenti nella scuola, ovvero impoverimento delle risorse e degli strumenti, significa una scuola pubblica destrutturata, resa fragile, pronta per essere colpita ed affondata.
Vede, caro Direttore, dei proclami della Ministra Gelmini non deve preoccupare il detto quanto il non detto. Mi pare che, in questi giorni, ci si stia concentrando troppo sul dito e si stia dimenticando di guardare alla luna.
L’obiettivo della riforma, al di la del grembiulino, del maestro unico, del tempo pieno non più tanto pieno e così via, è quello di sbriciolare le fondamenta su cui, fino ad oggi, poggiava il sistema dell’istruzione italiano.
Quando infatti si parla di riduzione di insegnanti, prima che di risorse, significa che si vuole un sistema più “controllabile”, ristretto perciò più condizionabile.
Quando si parla di “accorpamenti”, ovvero classi più corpose, meno plessi scolastici, ovvero più difficoltà di fruizione e di capillarità della presenza delle scuole, significa che il sistema sta creando un vuoto. Un vuoto che poi, certamente, i privati riempiranno seguendo logiche altre legate a rette, mercato, e razionalizzazione delle risorse.
Da privato vorrei competere sui contenuti dell’offerta formativa. A che vale stravincere sol perché il pubblico è stato costretto all’eutanasia dal Governo?
Quando un paese giunge a valutare dentro le categorie dell’utilità e della razionalità il sistema scolastico allora siamo in presenza di un paese che non ha più chiaro a cosa serva l’istruzione, che reputa la scuola un qualcosa di cui poter fare a meno.
Quando un Governo rincorre lo spauracchio delle spese, ovvero parte da un presupposto di buon senso come quello di voler eliminare gli sprechi, per giustificare non tanto i tagli quanto lo smantellamento della scuola pubblica, allora ci troviamo in presenza di un progetto diverso che non punta alla lotta agli sprechi quanto piuttosto all’impoverimento dell’offerta formativa del settore pubblico.
Da direttore di una scuola privata non posso tacere dinanzi a questo tentativo brutale e volgare di polverizzazione delle risorse pubbliche sol perché, alla fine, si deve favorire la nascita di una sorta di “CAI” scolastica.
Il privato che si occupa di educazione ed istruzione non può nascondersi dietro il dito che indica la luna sol perché si aspetta nuovi introiti. I nuovi introiti per i quali sono disposto a lottare sono quelli che consentano al sistema della formazione pubblica di mettersi al passo coi tempi, che consentano alle insegnanti di sperimentare, aggiornarsi, formarsi.
La pubblica istruzione, di cui da privato mi sento di far parte, se perde la spinta al confronto con le scuole statali, è misera, povera di valori e di progetti. A perderci, alla fine, non sarà soltanto la scuola statale, ma il sistema scuola nel suo complesso.
E, più di tutti, a rimetterci saranno i nostri figli che, orfani del confronto e del pluralismo delle idee e dei programmi, non diverranno cittadini democratici ma soltanto utili idioti da rincitrullire con la didattica derivata dai catechismi piuttosto che dai libri mastri dei partner di qualche più o meno pessima scuola privata generata da cordate di mercenari.
Se neghiamo alle giovani e giovanissime generazioni le opportunità di un sistema scolastico che formi alla democrazia, noi tutti saremo responsabili del tramonto della democrazia.
E, per favore, si cominci a guardare alla scuola dalla prospettiva dei più piccoli che, anche senza la maggiore età, sono i primi e più competenti “ministri” della scuola cui, di tanto in tanto, bisognerebbe seriamente ascoltare le esigenze senza la più falsa delle scuse: ovvero quella di dovere, alla fine, batter cassa.
Dr. Gianluca Fiusco, direttore della Servizio Cristiano Istituto Valdese Scuola Privata Paritaria e Parificata “monte degli ulivi”, via Monte degli Ulivi 6 - 93016 Riesi (CL)
* Fonte: l’Espresso -Scritto Mercoledì, 17 Settembre, 2008 alle 00:05
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La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
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L’ANALISI
Il morso del Caimano
di CURZIO MALTESE *
È un po’ ingenuo, anzi molto, stupirsi che Berlusconi sia tornato Caimano. Se esiste una persona fedele a se stessa, oltre ogni umana tentazione di dubbio o di noia, questa è il Cavaliere. Era così già molto prima della discesa in politica, con la sua naturale carica eversiva, il paternalismo autoritario, l’amore per la scorciatoia demagogica e il disprezzo irridente per ogni contropotere democratico, a cominciare dalla magistratura e dal giornalismo indipendenti, l’insofferenza per le regole costituzionali, appresa alla scuola della P2.
Il problema non è mai stato quanto e come possa cambiare Berlusconi, che non cambia mai. Piuttosto quanto e come è cambiata l’Italia, che in questi quindici anni è cambiata moltissimo. In parte grazie all’enorme potere mediatico del premier.
Ogni volta che Berlusconi ha conquistato Palazzo Chigi ha provato a forzare l’assetto costituzionale e per prima cosa ha attaccato con violenza la magistratura. Lo ha fatto nel 1994 con il decreto Biondi, primo atto di governo; nel 2001, quando i decreti d’urgenza sulla giustizia furono presentati prima ancora di ricevere la fiducia; e oggi. Con una escalation di violenza nei toni e, ancor di più, nei contenuti dei provvedimenti.
Il pacchetto giustizia di oggi è più eversivo della Cirami e del lodo Schifani, a sua volta più eversivi del "colpo di spugna" del ’94. Ma, alla crescente forza delle torsioni imposte da Berlusconi agli assetti democratici, ha corrisposto una reazione dell’opinione pubblica sempre più debole. Nel ’94 la rivolta contro la "salva-ladri" azzoppò da subito un governo destinato a durare pochi mesi. Nel 2001 i "girotondi" inaugurarono una stagione di movimenti, con milioni di persone nelle piazze, che si tradussero fin dal primo anno in una serie di pesanti sconfitte elettorali per la maggioranza di centrodestra, pure larghissima in Parlamento.
La terza volta, questa, in presenza di un tentativo ancora più clamoroso di far saltare i cardini della magistratura indipendente, la reazione è molto debole. L’opposizione, accantonate le illusioni di dialogo, annuncia una stagione di lotte, ma non ora, in autunno. La cosiddetta società civile sembra scomparsa dalla scena. I magistrati sono gli unici a ribellarsi con veemenza, ma sembrano isolati, almeno nei sondaggi. Quasi difendessero la propria corporazione e non i diritti e la libertà di tutti, così come l’hanno disegnata i padri della Costituzione.
Ecco che la questione non è che cosa sia successo a Berlusconi (nulla), ma che cosa è successo al Paese. Siamo davvero diventati un "paese un po’ bulgaro", come si è lasciato sfuggire il demiurgo pochi giorni fa? La risposta, purtroppo, è sì.
In questo quarto di secolo che non ha cambiato Berlusconi, l’Italia è cambiata molto e in peggio, il tessuto civile e sociale si è logorato, il senso comune è stato modellato su pulsioni autoritarie. Molti discorsi che si sentono negli uffici, nei bar, sulle spiagge oggi, da tutti e su tutto, si tratti di immigrazione o di giustizia, di diritti civili come di religione, di Europa o di sindacati, nell’Italia del ’94 sarebbero stati inimmaginabili.
Il berlusconismo è partito dalla pancia di un Paese dove la democrazia non si è mai compiuta fino in fondo, per mille ragioni (ragioni di destra e di sinistra), ma ora ha invaso tutti gli organi della nazione ed è arrivato al cervello. La mutazione genetica della società italiana è evidente a chi ci guarda da fuori. Perfino negli aspetti superficiali, di pelle: non eravamo mai stati un popolo "antipatico", com’è oggi. Più seriamente, il ritorno di Berlusconi al potere e le sue prime e devastanti uscite hanno evocato i peggiori fantasmi sulla scena internazionale.
Si tratta però di vedere se il "caso Italia" è tale anche per gli italiani. Se nell’opinione pubblica esistano ancora quei reagenti democratici che hanno impedito nel ’94 e nel 2001 la deriva, più o meno morbida, verso un regime. I segnali sono contraddittori, la partita è aperta. Certo, in questi decenni la forza d’urto del populismo berlusconiano è andata crescendo, così come la presa su pezzi sempre più ampi di società. Non si tratta soltanto di potere delle televisioni o dell’editoria, ma di una vera e propria egemonia culturale. E sorprende che nell’opposizione, gli ex allievi di Gramsci, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non comprendano i meccanismi e la portata della strategia in atto.
Altro che "l’onda lunga" di craxiana memoria. Anche loro, purtroppo, non cambiano mai. Si erano illusi (ancora!) di trasformare Berlusconi in uno statista, offrendogli un tavolo di trattative. S’illudono (ancora!) di poter resistere con la politica del "giù le mani" e con l’arroccarsi nelle regioni rosse, che sono già rosa pallido e rischiano prima o poi di finire grigie o nere. In attesa di tempi migliori.
Non ci saranno tempi migliori per l’opposizione. Bisogna trovare qui e ora il coraggio di proposte forti e alternative al pensiero unico dominante, invenzioni in grado di suscitare dibattito e bucare così la plumbea egemonia "bulgara" dell’agenda governativa. Bisogna farsi venire qualche idea, anzi molte, una al giorno, per svegliare l’opinione pubblica democratica dal torpore ipnotico con cui segue gli scatti in avanti di Berlusconi. Lo stesso torpore ipnotico che coglie la preda davanti alle mosse del caimano. Che alla fine, attacca.
* la Repubblica, 21 giugno 2008.
Costituzione, è ora di tornare a scuola
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 26.O6.2008)
Gentile ministro,
la cronaca quotidiana consegna ogni giorno ai lettori e all’opinione pubblica nazionale episodi continui di comportamenti scorretti e antidemocratici di italiani che mostrano di non conoscere la nostra Costituzione e le leggi fondamentali dello Stato manifestando sentimenti razzisti, volontà di aggressioni dentro e fuori la famiglia, comportamenti contrari alle regole approvate dei costituenti e scritte sessant’anni fa nel testo del 1948.
Di fronte a una simile situazione che esprime nel nostro Paese una sorta di crisi morale e di smarrimento dei valori fondamentali che dovrebbero informare le nostre azioni spetta allo Stato intervenire con una massiccia campagna di informazione e di educazione popolare. Mi chiedo allora e lo chiedo a lei in quanto titolare come ministro della Pubblica Istruzione se il governo, nell’anno che segna il sessantesimo anniversario della Carta costituzionale, se non sia il caso di metter da parte ogni esitazione e fare qualcosa che i governi della Repubblica non hanno mai fatto fino ad ora: decidere di organizzare nelle scuole elementari che segnano il primo incontro dei bambini con la scuola un’educazione civica obbligatoria che dia a tutti, con appositi corsi principali, gli elementi essenziali di conoscenza della costituzione e delle leggi.
È quello che fanno da molto tempo i governi europei nell’Europa anglosassone e del Nord. In un Paese come l’Italia nel quale governano in quattro regioni le associazioni mafiose indigene e straniere travolgendo le leggi dello Stato e indicando alle nuove generazioni, non lo stato di diritto ma una comunità retta da metodi mafiosi, violenti, parassitari, non è necessario e urgente incominciare subito a instillare nei nostri bambini il senso della democrazia e del governo delle leggi?
Molti ricorderanno che, già alcuni decenni fa, venne introdotta in Italia una materia che si chiamava Educazione Civica ma lo si fece male, nella scuola secondaria e in aggiunta a tutti i programmi esistenti, con il risultato che l’efficacia fu assai scarsa. Ed ora in alcune scuole ci sono progetti degli insegnanti sulla legalità o sulla lotta alla mafia.
Nell’uno o nell’altro caso, sono iniziative sporadiche e che non coprono l’intero territorio nazionale. Quello che è necessario e urgente di fronte alla mafia che avanza ed è sempre più insidiosa e penetrante, è una campagna generale e obbligatoria che veda protagonista lo Stato, mobiliti tutte le scuole e tutti gli insegnanti che sono in grado di farlo puntando a formare cittadini democratici che hanno idee chiare sullo Stato di diritto e su quella che è una democrazia moderna.
Si tratta di far capire a bambini che si affacciano alla vita che cosa significa osservare le regole, comportarsi in maniera onesta e leale, non badare soltanto a se stessi, rispettare gli altri, far valere i propri diritti ma osservare anche i propri doveri, escludere il parassitismo e la violenza dai propri comportamenti.
Sa il ministro che, secondo il decimo rapporto di «Sos Impresa», la mafia è in Italia la più grande azienda del Paese? Che il sommerso nel nostro Paese è una percentuale assai alta rispetto al Pil e rapprensenta una ricchezza enorme sottratta al fisco e al controllo dello Stato? Perché, se si sente il bisogno di introdurre elementi di educazione civica, come lei stessa ha dichiarato nei giorni scorsi, non lo si fa nell’unico modo efficace sperimentato in altri Paesi con risultati assai positivi, invece che con le modalità precedenti risultate negli scorsi decenni più o meno inutili?
Dico queste cose perché, da oltre trent’anni, ho dedicato miei studi al fenomeno mafioso e ho potuto verificare che, come scriveva Giovanni Falcone in tempi ormai lontani, la repressione giudiziaria non avrà mai ragione da sola della mafia. E, prima di lui, un conservatore illuminato come Leopoldo Franchetti lo aveva capito, già nel 1876, dopo un viaggio in Sicilia. Si cattureranno i capimafia ma l’esercito mafioso sostituirà i generali caduti e proseguirà la sua azione criminale.
Soltanto se si influirà sul modo di pensare e sentire degli italiani, e in particolare delle masse popolari, e si farà in modo che la vita economica delle comunità locali e del Paese sia sana, sarà possibile stroncare il cancro mafioso che, come ogni fenomeno umano, è destinato ad avere un inizio e una fine. Ma se lo Stato resta immobile e non lo contrasta in maniera efficace, resteremo ancora per anni e per decenni a registrare le imprese violente di Cosa nostra, della ‘ndrangheta e della camorra, per non parlare delle consorelle straniere.
Mi auguro che lei, ministro, possa e voglia riflettere su questa idea e dare agli italiani una risposta e una speranza.
Avviso d’emergenza
di Furio Colombo (l’Unità, 16.06.2008)
L’invio di reparti militari armati
nelle strade delle grandi città
rende unica l’Italia in Europa.
Le intercettazioni vietate stanno
già raccogliendo l’opposizione
netta di tutta l’Europa libera
Voci di estremo allarme si alzano nel Paese in cui un nuovo governo aveva fatto finta, sulle prime, di essere normale, un qualunque governo di destra europeo. Improvvisamente annuncia di seguito - e si prepara a imporre per decreto e con l’approvazione automatica della sua maggioranza - una serie di leggi con cui inventa un clima di tensione e paura. E risponde a quel clima inventato con leggi liberticide, anticostituzionali e contro il diritto di sapere. L’opinione pubblica libera e informata viene proclamata il nemico da eliminare. Si rivela il volto del nuovo governo. Come è stato detto da Antonio Di Pietro, è un volto che evoca paesi ad alto rischio come la Colombia. Ecco alcune voci che descrivono il nostro Paese oggi.
Stefano Rodotà: «Siamo di fronte a un fenomeno che l’Italia ha conosciuto in altri decenni: le leggi speciali.
Giovanni Sartori: «La Carta della prima Repubblica non è stata abolita perché non c’è più bisogno di rifarla. La si può svuotare dall’interno. Basta paralizzare la magistratura. Alla fine il potere politico comanda da solo».
Marco Travaglio: «Personalmente annuncio fin d’ora che continuerò a informare i lettori senza tacere nulla di quello che so. Continuerò a pubblicare atti di indagine e intercettazioni che riuscirò a procurarmi, come ritengo giusto e doveroso al servizio dei cittadini. Lo farò in base all’art. 21 della Costituzione e all’art. 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo».
Eugenio Scalfari: «Attenti al risveglio. Può essere durissimo. Può essere il risveglio di un Paese senza democrazia».
Ecco che cosa è accaduto: militarizzazione del territorio «per ragioni strategiche»; uso dei soldati per il pattugliamento delle aree urbane; divieto quasi assoluto delle intercettazioni telefoniche nelle indagini, con limiti scandalosi e risibili (interrompere dopo tre mesi, non poterle utilizzare se si accerta un nuovo reato!) per le poche intercettazioni possibili; impunità (ancora non si sa per che cosa) al primo ministro garantita dal ritorno del vergognoso «lodo Schifani». Torna il passato e torna al peggio. Rivediamolo.
***
Un giorno dell’anno 2002, il secondo anno di direzione de l’Unità rinata e rifondata (non più di partito, non più vincolata ad alcuna ortodossia, ispirata alle battaglie «liberal» della stampa anglosassone, pragmatica e intransigente) direttore e il condirettore di questo nuovo corso (ovvero Antonio Padellaro e io) si sono presentati a una assemblea di senatori Ds per spiegare perché nel descrivere le imprese del governo Berlusconi di allora, fondato su una serie di «leggi vergogna», di «leggi ad personam» e di progetti di svuotamento o annullamento della seconda parte della Costituzione (in modo da colpire, sterilizzandoli, i principi democratici fondanti della prima parte della Costituzione, da cui nasce la nostra libertà) perché l’Unità usasse ripetutamente e con piena convinzione la parola «regime». L’accusa era di estremismo. Ma uno strano estremismo. Non eravamo colpevoli di squilibri e tensioni ideologiche. Il nostro singolare e mal tollerato estremismo non si misurava sulla causa dei lavoratori ma sulle accuse al primo ministro. Dicevamo che godeva della speciale potenza, di una ricchezza immensa e che usava liberamente, impunito, i vantaggi di un gigantesco conflitto di interessi che gli consentiva di governare insieme il pubblico e il privato e di bloccare le informazioni, stava dando segni sempre più chiari di tracimare ogni argine, passare ogni limite, e piegare norme e leggi, anche europee, ai suoi interessi privati. Già allora l’operare politico di Berlusconi era come una bomba a grappolo. Ogni nuovo colpo assestato ai codici italiani portava immediate conseguenze private per il legislatore-beneficiario, un serie di distorsioni e anomalie estranee all’Europa nel sistema giuridico e una catena di conseguenze di fatto su soggetti estranei, come il blocco o l’impossibilità di decine di altri processi o la cancellazione di fatto di altre azioni penali.
Ma l’accusa è rimasta, come se si fosse trattato di un ossessione privata e personale. La frase tipica era: dire «regime» è una sciocchezza. Un governo può essere più o meno buono ma la nostra democrazia è intatta». Non era intatta. E ci è voluto un referendum popolare per cancellare le gravi ferite arrecate alla costituzione. Una legge elettorale clamorosamente antidemocratica è ancora in vigore, e sono rimaste intatte tutte le leggi vergogna e ad personam che hanna reso ridicola o brutta l’immagine italiana nel mondo democratico ai tempi del primo Berlusconi.
***
Ed eccoci arrivati alla nuova prova mortale a cui è sottoposta adesso la democrazia italiana. In nome di un dialogo che - ormai deve essere evidente ed è certo chiaro ai milioni di cittadini che hanno votato Pd - sarà impossibile, la opposizione continua a esprimersi con i toni garbati e rispettosi della normale vita democratica. Quei toni, quanto alle civilissime intenzioni che esprimono, fanno onore a chi le usa. O meglio, facevano onore a chi voleva ostinarsi a credere nella normalità, forse in base al sempre atteso ma raro miracolo della fede che muove le montagne.
Ma niente è normale nella situazione italiana che stiamo vivendo. Tutta l’energia, la bravura tecnica e la forza politica che ci servirebbe in un mondo attanagliato da una crisi gravissima, per proteggere i cittadini dai danni più gravi, collaborare fra noi e collaborare col mondo, vengono dirottati in alcune ossessioni che riguardano esclusivamente interessi personali o politici di alcune persone in Italia.
È un delitto contro il Paese, spinto dentro strade senza sbocco, tenuto stretto in una morsa di paura insensata. La militarizzazione del territorio serve per coprire l’incapacità di risolvere il problema dei rifiuti al modo facile e immediato che era stato sbandierato in campagna elettorale. Berlusconi, incapace di capire e di risolvere la questione, ricorre all’occupazione militare.
L’invio di reparti militari armati nelle strade delle grandi città esalta la paura, inventa una emergenza, rende unica l’Italia in Europa (e certo i fucili spianati di soldati non addestrati all’ordine pubblico non è un invito al turismo) e - se ci fossero i problemi che, per fortuna non ci sono - aggraverebbe i rischi di incidenti. Comunque, farà sparire provvisoriamente i criminali, che sanno come riorganizzarsi, e lascerà gli immigrati isolati e spaventati a fare da esca per le ronde militari. Bisognerà pure arrestare qualcuno. Quanto alle intercettazioni vietate, esse stanno già raccogliendo l’opposizione netta di tutta l’Europa libera, giornalisti, giuristi, difensori dei diritti civili. È bene annunciare per tempo, anche in Italia, la disobbedienza civile per evitare di farsi complici di un progetto estraneo al diritto, alla Costituzione, ai codici europei e italiani, e al buon senso. Perché è impensabile che un governo voglia fare sua la battaglia per creare uno scudo salva- malfattori. Ma se questo è lo scopo, dovrà avere tutta l’opposizione che merita. Speriamo che il Partito Democratico si renda conto che questa è la sua battaglia, pena la caduta in un vuoto senza storia.
Il vero volto del Cavaliere
di Ezio Mauro (la repubblica, 17.06.2008)
Nel mezzo della luna di miele che la maggioranza degli italiani credeva di vivere con il nuovo governo, la vera natura del berlusconismo emerge prepotente, uguale a se stessa, dominata da uno stato personale di necessità e da un’emergenza privata che spazzano via in un pomeriggio ogni camuffamento istituzionale e ogni travestimento da uomo di Stato del Cavaliere. No. Berlusconi resta Berlusconi, pronto a deformare lo Stato di diritto per salvaguardia personale, a limitare la libertà di stampa per sfuggire alla pubblicazione di dialoghi telefonici imbarazzanti, a colpire il diritto dell’opinione pubblica a essere informata sulle grandi inchieste e sui reati commessi, pur di fermare le indagini della magistratura. La Repubblica vive un’altra grave umiliazione, con le leggi ad personam che ritornano, il governo del Paese ridotto a scudo privato del premier, la maggioranza parlamentare trasformata in avvocato difensore di un cittadino indagato che vuole sfuggire al suo legittimo giudice, deformando le norme.
In un solo giorno - dopo la strategia del sorriso, il dialogo, l’ambizione del Quirinale - Silvio Berlusconi ha chiamato a raccolta i suoi uomini per operare una doppia azione di sfondamento alla normalità democratica del nostro sistema costituzionale. Sotto attacco, la libertà di informazione da un lato, e l’obbligatorietà dell’azione penale dall’altro. Per la prima volta nella storia repubblicana, il governo e la sua maggioranza entrano nel campo dell’azione penale per stravolgerne le regole e stabilire una gerarchia tra i reati da perseguire. Uno stravolgimento formale delle norme sulla fissazione dei ruoli d’udienza, che tuttavia si traduce in un’alterazione sostanziale del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Principio istituito a garanzia dell’effettiva imparzialità dei magistrati e dell’uguaglianza dei cittadini. La nuova norma berlusconiana (presentata come un emendamento al decreto-sicurezza, firmato direttamente dai Presidenti della I e II commissione di Palazzo Madama) obbliga i giudici a dare «precedenza assoluta» ai procedimenti relativi ad alcuni reati, ma questa precedenza serve soprattutto a mascherare il vero obiettivo dell’intervento: la sospensione «immediata e per la durata di un anno» di tutti i processi penali relativi ai fatti commessi fino al 31 dicembre 2001 che si trovino «in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado».
È esattamente la situazione in cui si trova Silvio Berlusconi nel processo in corso davanti al Tribunale di Milano per corruzione in atti giudiziari: con l’accusa di aver spinto l’avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri della galassia Fininvest all’estero. Quel processo è arrivato al passo finale, mancano due udienze alla sentenza. Si capisce la fretta, il conflitto d’interessi, l’urgenza privata, l’emergenza nazionale che ne deriva, la vergogna di una nuova legge ad personam. Bisogna ad ogni costo bloccare quei giudici, anche se operano "in nome del popolo italiano", anche se il caso non riguarda affatto la politica, anche se il discredito internazionale sarà massimo. Bisogna con ogni mezzo evitare quella sentenza, guadagnare un anno, per dar tempo all’avvocato Ghedini (difensore privato del Cavaliere e vero Guardasigilli-ombra del suo governo) di ripresentare quel lodo Schifani che rende il premier non punibile, e che la Consulta ha già giudicato incostituzionale, perché viola l’uguaglianza dei cittadini: un peccato mortale, in democrazia, qualcosa che un leader politico non dovrebbe nemmeno permettersi di pensare, e che invece in Italia verrà presentato in Parlamento per la seconda volta in pochi anni, a tutela della stessa persona, dalla stessa moderna destra che gli italiani hanno scelto per governare il Paese.
Con ogni evidenza, per l’uomo che guida il governo non è sufficiente vincere le elezioni, e nemmeno stravincerle: non gli basta avere una grande maggioranza alle Camere, parlamentari tutti scelti di persona e imposti agli elettori, una forte legittimazione popolare, mano libera nel dispiegare legittimamente la sua politica. No. Ancora una volta a Berlusconi serve qualcosa di illegittimo, che trasformi la politica in puro strumento di potere, il Parlamento in dotazione personale, le istituzioni in materia deformabile, come le leggi, come i poteri della magistratura. È una coazione a ripetere, rivelatrice di una cultura politica spaventata, di una leadership fuggiasca anche quando è sul trono, di un sentimento istituzionale che abita la Repubblica da estraneo, come se fosse un usurpatore, e non riesce a farsi Stato, vivendo il suo stesso trionfo come abusivo. Col risultato di vedere il Capo dell’esecutivo chiedere aiuto al potere legislativo per bloccare il giudiziario. Qualcosa a cui l’Occidente non è abituato, un abuso di potere che soltanto in Italia non scandalizza, e che soltanto l’establishment italiano può accettare banalizzandolo, per la nota e redditizia complicità dei dominati con l’ordine dominante, che è a fondamento di ogni autoritarismo popolare e di ogni democrazia demagogica, come ci avviamo purtroppo a diventare.
Questo uso esclusivo delle istituzioni e della norma, porta fatalmente il Premier ad un conflitto con il Capo dello Stato, garante della Costituzione. Napolitano era già intervenuto, nelle forme proprie del suo ruolo, contro il tentativo di introdurre la norma anti-prostitute nel decreto sicurezza, spiegando che non si vedeva una ragione d’urgenza. Poi aveva preso posizione per la stessa ragione contro l’ingresso nel decreto della norma che porta i soldati in strada a svolgere compiti di polizia. Oggi si trova di fronte un emendamento che addirittura sospende per un anno i processi penali e ordina ai magistrati come devono muoversi di fronte ai reati, una norma straordinaria inserita come "correzione" in un decreto che parla di tutt’altro. Che c’entra la sospensione dei processi con la sicurezza? Qual è il carattere di urgenza, davanti ai cittadini? L’unica urgenza - come l’unica sicurezza - è quella privatissima e inconfessabile del premier. Una stortura che diventa un abuso, e anche una sfida al Capo dello Stato, che non potrà accettarla. Come non può accettarla il Partito Democratico, che ieri con Veltroni ha accolto la proposta di Scalfari: il dialogo sulle riforme non può continuare davanti a questi "strappi" della destra, perché non si può parlare di regole con chi le calpesta.
Nello stesso momento, mentre blocca i magistrati e ferma il suo processo, Berlusconi interviene anche sulla libertà di cronaca. Il disegno di legge sulle intercettazioni presentato ieri dal governo, infatti, non impedisce solo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, con pene fino a 3 anni (e sospensione dalla professione) per il cronista autore dell’articolo e fino a 400 mila euro per l’editore. Le nuove norme vietano all’articolo 2 la pubblicazione "anche parziale o per riassunto" degli atti delle indagini preliminari "anche se non sussiste più il segreto", fino all’inizio del dibattimento. Questo significa il silenzio su qualsiasi notizia di inchiesta giudiziaria, arresto, interrogatorio, dichiarazione di parte offesa, argomenti delle difese, conclusioni delle indagini preliminari, richiesta di rinvio a giudizio. Tutto l’iter investigativo e istruttorio che precede l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare è ora coperto dal silenzio, anche se è un iter che nella lentezza giudiziaria italiana può durare quattro-sei anni, in qualche caso dieci. In questo spazio muto e segreto, c’è ora l’obbligo (articolo 12) di "informare l’autorità ecclesiastica" quando l’indagato è un religioso cattolico, mentre se è un Vescovo si informerà direttamente il Cardinale Segretario di Stato del Vaticano, con un inedito privilegio per il Capo del governo di uno Stato straniero, e per i cittadini-sacerdoti, più cittadini degli altri.
Se il diritto di cronaca è mutilato, il diritto del cittadino a sapere e a conoscere è fortemente limitato. Con questa norma, non avremmo saputo niente dello spionaggio Telecom, del sequestro di Abu Omar, della scalata all’Antonveneta, della scalata Unipol alla Bnl, del default Parmalat, della vicenda Moggi, della subalternità di Saccà a Berlusconi, dei "pizzini" di Provenzano, della disinformazione organizzata da Pollari e Pompa, e infine degli orrori della clinica Santa Rita di Milano. Ma non c’è solo l’ossessione privata di Berlusconi contro i magistrati e i giornalisti (alcuni). C’è anche il tentativo scientifico di impedire la formazione di quel soggetto cruciale di ogni moderna democrazia che è la pubblica opinione, un’opinione consapevole proprio in quanto informata, e influente perché organizzata come attore cosciente della moderna agorà. No alla pubblica opinione (che non sappia, che non conosca) a favore di opinioni private, meglio se disorientate e spaventate, chiuse in orizzonti biografici e in paure separate, convinte che non esista più un’azione pubblica efficace, una risposta collettiva a problemi individuali.
A questo insieme di individui -di cui certo fanno parte anche gli sconfitti della globalizzazione, la nuova plebe della modernità - il populismo berlusconiano chiede solo una vibrazione di consenso, un’adesione a politiche simboliche, una partecipazione di stati d’animo, che si risolve nella delega. La cifra che lega il tutto è l’emergenza, intesa come orizzonte delle paure e fine del conformismo, del politicamente corretto, delle regole e degli equilibri istituzionali. Conta decidere (non importa come), agire (non conta con che efficacia), trasformare l’eccezione in norma. Il governo, a ben guardare, non sta militarizzando le strade o le discariche, ma le sue decisioni e la sua politica. Meglio, sta militarizzando il senso comune degli italiani, forzandolo in un contesto emergenziale continuo, con l’esecutivo trasformato per conseguenza da organo ordinario in straordinario, che opera in uno stato d’eccezione perenne. Così Silvio Berlusconi può permettersi di venire allo scoperto in serata, scrivendo in una lettera a Schifani che la norma blocca-processi «è a favore di tutta la collettività», anche se si applica «a uno tra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica». È il preannuncio di una ricusazione, in una giornata come questa, vergognosa per la democrazia, con il premier imputato che rifiuta il suo giudice mentre ne blocca l’azione. A dimostrazione che Berlusconi è pronto a tutto. Dovremmo prepararci al peggio: se non fosse che il peggio, probabilmente, lo stiamo già vivendo.
Lo Stato ad personam
di Nicola Tranfaglia *
La delibera unanime della Federazione europea dei giornalisti che, l’altro ieri a Berlino, ha condannato, per palese incostituzionalità e violazione di molti trattati internazionali il disegno di legge Berlusconi-Ghedini-Alfano che limita di fatto le intercettazioni telefoniche ad alcuni reati (per i sacerdoti è previsto in più il consenso dei vescovi) e prevede per i giornalisti che pubblichino le relative notizie il carcere da uno a tre anni e l’ammenda da 500 a oltre mille euro, sta suscitando crescenti proteste nell’opinione pubblica italiana e internazionale.
Storici e giornalisti (a cominciare da Eugenio Scalfari) si chiedono il significato della svolta (ammesso che lo sia) del nuovo governo di destra verso un ottuso autoritarismo di cui sembrano segni concomitanti l’emendamento al Senato per ripristinare una sorta di lodo Schifani e l’impiego dell’esercito nelle città. A chi scrive pare, piuttosto, che l’azione del presidente del Consiglio e del suo governo rifletta il riprodursi (come era già avvenuto nel quinquennio 2001-2006) di una visione naturalmente antidemocratica e l’impossibità di un cedimento al dialogo istituzionale da parte dell’opposizione parlamentare del Pd e dell’Udc. A proposito delle intercettazioni telefoniche, vale la pena ribadirlo, entrano in gioco tre principi costituzionali: l’interesse alla giustizia, quello alla libertà di informazione e quello alla riservatezza dei cittadini.
Il disegno di legge (in 17 articoli) Berlusconi-Ghedini-Alfano sembra di fatto tener conto in maniera prevalente del diritto alla privacy e poco o nulla degli altri due principi. Si limita drasticamente il ricorso alle intercettazioni come strumenti di indagine giudiziaria nel caso di tutti i reati che comportano pene edittali inferiori ai dieci anni e l’elenco dei casi di divieto prevede lo scippo, il furto, il furto in appartamento, la truffa, la ricettazione, l’incendio, la calunnia, le false informazioni al pubblico ministero, le rivelazioni del segreto di ufficio, la calunnia, la falsa testimonianza, la ricettazione e persino l’associazione a delinquere. Basta scorrere l’elenco per rendersi conto che ci sono ipotesi gravi di reati ma anche fattispecie che possono rivelare, se si usano le intercettazioni, vicende oscure che è dovere indubbio dei pubblici ministeri perseguire non soltanto per l’obbligo costituzionale di procedere all’azione penale ma anche perché sono vicine ad altre e più gravi fattispecie.
Possiamo dire per questo primo aspetto che si tolgono ai Pm armi essenziali che in altri paesi sono date addirittura ai corpi di polizia (come in Francia, Germania e Stati Uniti) per esercitare il necessario controllo sociale contro l’azione della criminalità individuale e organizzata. I meccanismi ipotizzati per superare questi divieti sono ancora peggiori perché tolgono al singolo magistrato inquirente l’autonomia che gli dà la Costituzione e trasferiscono a un collegio di tre giudici la possibilità di decidere eccezioni rispetto alla norma generale autorizzando singole indagini. Qui si vede con chiarezza come ci sia da parte del governo l’incomprensione profonda dell’autonomia della magistratura e della divisione dei poteri che sono proprie del testo approvato nel 1948.
Il secondo aspetto che va sottolineato riguarda un altro controllo necessario rispetto all’azione della criminalità ed è quello della pubblica opinione e, dunque, dei mezzi informazione giornalistici e televisivi.
Prevedere, in generale, una sanzione penale da uno a tre anni per giornali e tv che pubblichino intercettazioni prima del dibattimento processuale (a quel punto siamo di fronte a documenti pubblici in quanto forniti alle parti processuali) è assai grave. In parte per ragioni di fatto. La lentezza e la lunghezza dell’iter processuale nel nostro paese che dura più anni e, in più del cinquanta per cento dei casi non arriva al processo, concludendosi con un patteggiamento tra le parti fanno sì che una simile norma porterebbe, nella maggior parte dei casi, al silenzio dell’informazione su vicende clamorose e significative o alla pubblicazione di particolari dopo che sono passati molti anni dagli avvenimenti e, quindi, con un’efficacia pedagogica minore o nulla rispetto proprio all’opinione bombardata da continui messaggi.
Al di là delle assurde sanzioni contro giornalisti che cercano di fare il proprio lavoro sulla base dell’articolo 21 della Costituzione, ci troveremmo di fronte a una forte lesione del diritto fondamentale dei cittadini a essere informati che è un principio essenziale del nostro vivere civile.
Il sospetto sui i veri obbiettivi della legge come sulla tattica manipolativa che usa il governo Berlusconi in questi casi è inevitabile. I veri obbiettivi hanno al centro il pericolo che le indagini giudiziarie possano toccare proprio Berlusconi e il suo governo. Di qui la forte limitazione dei reati intercettabili, la ripresa del lodo Schifani e l’urgenza del provvedimento. Ed è significativo il modo di procedere. In un primo tempo il capo del governo in una grande occasione mediatica lancia in termini generali (ed esagerati) l’editto e si parla addirittura di cinque anni di carcere per tutti, poi interviene la Lega Nord che chiede e ottiene un’estensione dei reati intercettabili insistendo su corruzione e concussione amministrativa che fanno pensare a una lotta che non esclude le classi dirigenti. Berlusconi, a questo punto, accetta le correzioni e in Consiglio dei ministri arriva a una soluzione solo in apparenza mediana ma che conserva tutti gli errori e la violazione ai principi costituzionali ma con un abbassamento delle pene e un certo strizzare l’occhio verso i giornalisti che, se incensurati,forse non andrebbero in carcere.
Bisogna dire che si tratta di una strategia abile, capace probabilmente di darla a bere a cittadini distratti o poco interessati. Ma il disegno di legge, se resta nei termini descritti, porta a una forte diminuzione della possibilità per i magistrati di indagare con le intercettazioni, per i giornalisti di far esercitare il controllo sociale sulla criminalità, per i cittadini di essere informati su quel che succede in questa Italia.
* l’Unità, Pubblicato il: 17.06.08. Modificato il: 17.06.08 alle ore 8.20
«non accetto che un potere dello Stato voglia cambiare chi sta al governo»
«Vogliono darmi 6 anni e farmi dimettere»
Lo sfogo di Berlusconi con i suoi: come potrei continuare a governare con una condanna?
ROMA - Forse è l’unica parola che non ha ancora pronunciato in pubblico, che non è entrata nello sfogo di ieri, o in quello della settimana scorsa a Bruxelles. Ma è una parola che illustra un incubo, che spiega lo stato d’animo del premier meglio di qualsiasi discorso sul diritto di governare o sulla sovranità popolare minacciata dalle toghe. La parola è «dimissioni », e il Cavaliere non ha dubbi: «Questi magistrati vogliono darmi 6 anni e un istante dopo sarei obbligato a dimettermi ».
Non l’ha ancora detto in pubblico, ha girato intorno al concetto, ma chi chiacchiera in modo riservato con Berlusconi è proprio questo ragionamento che ascolta: «Come potrei continuare a fare il capo del governo con una condanna, con i risvolti interni e internazionali che avrebbe? Non potrei. E conterebbe poco il fatto che l’accusa dei magistrati milanesi è ridicola, che persino all’estero - compreso il liberalissimo Financial Times - si sono accorti che i magistrati italiani tengono da troppo tempo sotto ricatto la democrazia del nostro Paese ».
Ieri mattina, calcolo o meno, è anche questa paura che ha fatto da molla alle parole di Berlusconi davanti alla platea di Confesercenti. Alla definizione di una parte dei giudici come «metastasi della democrazia». Al gesto mimato delle manette: «Certi giudici vorrebbero vedermi così...». Appena finito di parlare il Cavaliere ha preso sotto braccio il presidente di Confesercenti, Marco Venturi, e ha continuato lo sfogo, anche per rispondere ai fischi: «Voi non avete ancora capito nulla, non avete capito che io difendo anche voi, i vostri interessi a vivere in un Paese non soffocato da un potere che non ha più nulla di legittimo, che tiene sotto scacco il Paese dal ’94: prima con me, poi con Mastella e Prodi, ora di nuovo con il sottoscritto ». C’era Veltroni in prima fila: poteva essere un deterrente, non lo è stato. Berlusconi è entrato pienamente, o rientrato se vogliamo, in quella fase che gli è caratteristica, congeniale, naturale: dire quello che pensa. Da alcune settimane ormai è in totale disaccordo anche con il suo primo consigliere, quel Gianni Letta che lui stesso tributa di onori ad ogni possibile occasione.
In queste ore Letta dice agli alleati che «Silvio sbaglia», che «ci vorrebbe meno aggressività », che «non è questo il metodo giusto». E in queste ore Berlusconi continua a fare di testa sua, a respingere i tentativi di mediazione condotti con un occhio alle ragioni del Colle, ai possibili obiettivi da raggiungere con un approccio più soft. Si è rimesso in moto il meccanismo che due legislature fa divideva la corte del premier in falchi e colombe. La differenza con il passato è il Cavaliere, che non ha più voglia di ascoltare grandi discorsi. Ieri lo ha spiegato anche dal palco di Confesercenti, per rispondere ai fischi. Ha reagito alle critiche con un «mi avete invitato voi...». Poi ha concluso avvertendo, assimilando il proprio disastro a quello del Paese: «Dicono che faccio leggi nel mio interesse. Ma io in politica sono sceso per difendere gli interessi degli italiani. Il mio interesse semmai sarebbe quello di lasciare il Paese e godermi i soldi meritatamente guadagnati».
E se questa è la cornice la presenza di Veltroni diventa invisibile: «Se questa opposizione non capisce, il dialogo si spezza. Lo hanno voluto spezzare loro, ma adesso non lo vogliamo più noi, sono ancora giustizialisti». L’Italia, conclude Berlusconi, è ormai «una democrazia in libertà vigilata, tenuta sotto il tacco da giudici politicizzati, ma i cittadini hanno il diritto a esser governati da chi scelgono democraticamente: non posso accettare che un ordine dello Stato voglia cambiare chi è al governo, con accuse fallaci».
Marco Galluzzo
* Corriere della Sera, 26 giugno 2008
l Cavaliere scrive ai Giovani per la Libertà-Forza Italia riuniti a Napoli
"Fango su di me e sui ministri". Duro con le toghe: "Non li temo, pettegolezzi inutili"
Berlusconi: "Patto scellerato
tra riformisti e giustizialisti"
Come anticipato, il governo ha rinunciato a discutere il decreto legge
Scelti i vertici Inps, Inail e Inpdap. Marrazzo commissario per il deficit del Lazio
ROMA - "La sinistra riformista ha siglato un patto scellerato con l’ala giacobina e giustizialista della società italiana che propugna il dominio della magistratura sullo Stato, sulle istituzioni, sulla politica e sulla società". Lo scrive il premier Silvio Berlusconi in un messaggio inviato all’incontro dei Giovani per la Libertà-Forza Italia in corso a Napoli. "Questa deriva giustizialista va assolutamente fermata", aggiunge Berlusconi, mentre il Pd annuncia la raccolta di 5 milioni di firme per tutelare "la democrazia a rischio". "E’ inconcepibile che la sinistra, invece di difendere il diritto del popolo sovrano a scegliersi i suoi governanti, si schieri con chi cerca con ogni mezzo di deviare il corso della democrazia sovvertendo il voto degli elettori".
Rinviato il provvedimento intercettazioni. Il premier non si ferma. Impegnato da giorni in una durissima battaglia contro quella magistratura che considera il nemico pubblico numero uno, Berlusconi torna ad alzare i toni. Soltanto poche ore dopo il mancato esame del provvedimento sulle intercettazioni, il premier è tornato ad attaccare le toghe: "I giudici non ci impressionano". Ostenta sicurezza il premier; è convinto che quella che lui ritiene essere una persecuzione nei suoi confronti non ha fatto breccia nell’opinione pubblica: "I sondaggi dimostrano che il fango senza fondamento dei pettegolezzi non hanno scalfito la fiducia degli italiani nel governo e nella sua attività".
"Rinuncio ai vantaggi". Rispondendo alle critiche dei giorni scorsi, Berlusconi ha ripetuto che è pronto a rinunciare "a ogni vantaggio. Non ho bisogno di nuove norme giudiziarie", ha detto. "Mi sono sempre difeso nei processi e sono il recordman dei processi con 2.500 udienze". Il lodo Alfano, ha aggiunto, non è una legge ’ad personam’. I "nostri avversari - ha lamentato - stanno cercando di farla passare per una norma ad personam e invece è una norma salvatutti".
"Vogliono sovvertire il voto popolare". "L’attenzione si concentra su fatti che nulla hanno a che vedere con il programma di governo e portano in primo piano l’attacco continuo di certa magistratura a chi deve governare scelto dal Paese, mentre si vuole sovvertire il voto popolare". Un tentativo, ha aggiunto Berlusconi, "riuscito nel 1994, ma che non riuscirà nel 2008’’.
"Manovra economica innovativa". Rivendicando i successi del suo governo, Berlusconi ha definito la manovra economica "un’assoluta innovazione" e ha annunciato che "nei prossimi 15 giorni rimuoveremo i rifiuti da tutte le strade di Napoli e della Campania e ipotizziamo che alla data del 20 di luglio non ci saranno più cumuli in strada".
Nomine Inps, Inail e Inpdap. Il Consiglio dei ministri odierno, oltre al tema intercettazioni rimandato, non ha affrontato neppure la vicenda Alitalia. Deciso invece il ricambio ai vertici degli istituti previdenziali e assistenziali con la scelta dei nuovi dirigenti di Inps, Inail e Inpdap. Antonio Mastrapasqua è stato indicato come nuovo presidente dell’Inps al posto di Gian Paolo Sassi. Ai vertici dell’Inail va Marco Sartori, che succede a Vincenzo Mungari. All’Inpdap, invece, sale Paolo Crescimbeni, al posto di Marco Staderini. Le indicazioni di nomina sono state accolte su proposta del ministro del Welfare Maurizio Sacconi.
Marrazzo commissario all’economia. Palazzo Chigi ha ratificato anche la nomina del presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, a commissario ad acta per la realizzazione degli obiettivi di risanamento finanziario previsti nel piano di rientro dai disavanzi nel settore sanitario.
* la Repubblica, 4 luglio 2008.
Torna in libreria il "Discorso sulla servitù volontaria" di de La Boétie
Perché i popoli scelgono i tiranni
La prima edizione circolò anonima nella Francia delle guerre di religione.
L’autore era amico di Montaigne, che considerava l’opera un esercizio adolescenziale
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 15.06.2011)
È meglio servire o essere liberi? La domanda sembrerebbe oziosa: un’intera tradizione delle culture occidentali ha risposto con le parole di Amleto: meglio morire che sopportare l’oppressione dei tiranni e l’insolenza del potere. Ma la realtà storica e politica parla una lingua diversa: quella della corsa a precipizio dei popoli verso la servitù - la "servitù volontaria": avere posto al centro del suo Discorso sulla servitù volontaria (Chiarelettere) proprio questa espressione è il principale, quasi unico titolo di gloria di Étienne de La Boétie, quello che fa tornare di tempo in tempo in libreria il suo scritto dopo la prima edizione postuma e anonima che vide la luce nella Francia delle guerre di religione. Allora il potere monarchico era in crisi, la furia dell’intolleranza religiosa scuoteva i troni e il pugnale dei tirannicidi minacciava la vita dei re. Ma anche se il libretto di Étienne de La Boétie fu edito in un contesto tanto agitato e violento con un titolo di battaglia - Contr’un -, si sbaglierebbe a definirlo un testo rivoluzionario.
Renzo Ragghianti, il nostro più esperto studioso dell’argomento, ha osservato che fu proprio Michel de Montaigne a considerare lo scritto dell’amico scomparso una declamazione giovanile, quasi un esercizio adolescenziale costruito su luoghi comuni letterari. E quanto al sintagma "servitù volontaria", Mario Turchetti nella sua vasta ricostruzione storica della discussione su tirannia e tirannicidio ne ha fissato l’origine al commento medievale di Nicole Oresme alla Politica di Aristotele. Tutto questo però non cancella il fascino delle pagine di Étienne de La Boétie. C’è in apertura quel genuino sentimento di stupore di chi fa una vera scoperta: «com’è possibile che tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino un tiranno che non ha altra forza se non quella che essi gli danno?».
Questo è un problema vero: ci volle Thomas Hobbes per trovare la risposta. Una risposta racchiusa in una parola: paura. È per paura che gli uomini rinunciano alla libertà dello stato di natura e si piegano alla servitù del potere politico. Poi, con la nascita delle costituzioni liberali e democratiche, si pose il problema ulteriore se fosse preferibile sottoporsi al potere di uno o al potere di molti. E accanto a democratici e liberali favorevoli al governo dei molti sorsero i reazionari alla De Maistre, maestro perenne della genìa dei "servi liberi" di un padrone solo. Ma quella descrizione di Étienne de La Boétie di popoli supinamente acquiescenti e di tiranni che li addormentano con gli spettacoli, i bordelli e la religione, resta carica di una sua attualità (come nota il curatore Paolo Flores d’Arcais).
Pensiamo per esempio al modo in cui de La Boétie viene discoprendo dietro la figura solitaria dell’uno tutta una rete di complici e di clienti: quell’uomo apparentemente solo ha una piccolissima corte di sei complici delle sue ruberie e ruffiani dei suoi piaceri. Da loro dipendono seicento profittatori: e dai seicento dipendono altri seimila. Tutti sono legati tra di loro dalla spartizione di poltrone politiche e di fortune finanziarie, tutti coperti dall’impunità garantita da un potere che sospende o cancella la validità delle leggi. È un modello in cui parte dell’Italia di oggi può ben riconoscersi.
Si può spingere l’analogia anche più in là. Nel testo resta una sproporzione tra l’empito libertario della denunzia e la modesta proposta che si intravede: la speranza dell’autore si affida al ceto degli uomini di legge di cui fa parte e all’autorità dei Parlamenti, cioè a una minoranza di magistrati chiamati a difendere i diritti naturali degli uomini e a fare argine alla prepotenza del tiranno. L’alternativa libertà o morte non gli appartiene.
E non appartiene nemmeno alla maggior parte di noi lettori. A qualcuno di noi sì, se consideriamo tra i "noi" i disperati che attraversano il canale di Sicilia per diventare italiani. Ci vuole uno sguardo straniero per cogliere le assurdità delle nostre forme di convivenza civile e politica.
Non è per caso se l’accusa di "servitù volontaria" è diventata davvero celebre nella cultura europea solo quando Montaigne ebbe l’intuizione di farla sua mettendola però in bocca a chi davvero aveva i titoli per guardare alla realtà della nostra società con sguardo estraniato: i selvaggi brasiliani da lui incontrati a Rouen. Secondo Montaigne quei "barbari" vestiti di piume si erano meravigliati, come de La Boétie, che tanti uomini "civili" obbedissero a un re bambino; ma ancor più si erano stupiti della passività di una massa di popolo che moriva di fame senza ribellarsi.