«Capo»
di Antonio Gramsci [L’Ordine Nuovo, 1° marzo 1924] *
Ogni Stato è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano attorno a uno dotato di maggiore capacità e di maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un «capo».
Che dei socialisti, i quali dicono ancora di essere marxisti e rivoluzionari, dicano poi di volere la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei «capi», di non volere che il comando si individui, si personalizzi, che si dica, cioè, di volere la dittatura, ma di non volerla nella sola forma in cui è storicamente possibile, rivela solo tutto un indirizzo politico, tutta preparazione teorica «rivoluzionaria».
Nella quistione della dittatura proletaria il problema essenziale non è quello della personificazione fisica della funzione di comando. Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia, nei rapporti che esistono tra questo partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico?
Il capo, il partito sono elementi della classe operaia, sono una parte della classe operaia, ne rappresentano gli interessi e le aspirazioni piú profonde e vitali, o ne sono una escrescenza, o sono una semplice sovrapposizione violenta? Come questo partito si è formato, come si è sviluppato, per quale processo è avvenuta la selezione degli uomini che lo dirigono? Perché è diventato il partito della classe operaia? È ciò avvenuto per caso?
Il problema diventa quello di tutto lo sviluppo storico della classe operaia, che lentamente si costituisce nella lotta contro la borghesia, registra qualche vittoria e subisce molte disfatte; e non solo della classe operaia di un singolo paese, ma di tutta la classe operaia mondiale, con le sue differenziazioni superficiali eppure tanto importanti in ogni momento separato, e con la sua sostanziale unità e omogeneità.
Il problema diventa quello della vitalità del marxismo, del suo essere o non essere la interpretazione piú sicura e profonda della natura e della storia, della possibilità che esso all’intuizione geniale dell’uomo politico dia anche un metodo infallibile, uno strumento di estrema precisione per esplorare il futuro, per prevedere gli avvenimenti di massa, per dirigerli e quindi padroneggiarli.
Il proletariato internazionale ha avuto ed ha tuttora un vivente esempio di un partito rivoluzionario che esercita la dittatura della classe; ha avuto e non ha piú, malauguratamente, l’esempio vivente piú caratteristico ed espressivo di chi sia un capo rivoluzionario, il compagno Lenin.
Il compagno Lenin è stato l’iniziatore di un nuovo processo di sviluppo della storia, ma lo è stato perché egli era anche l’esponente e l’ultimo piú individualizzato momento di tutto un processo di sviluppo della storia passata, non solo della Russia, ma del mondo intiero. Era egli divenuto per caso il capo del partito bolscevico? Per caso il partito bolscevico è diventato il partito dirigente del proletariato russo e quindi della nazione russa?
La selezione è durata trent’anni, è stata faticosissima, ha spesso assunto le forme apparentemente piú strane e piú assurde. Essa è avvenuta, nel campo internazionale, al contatto delle piú avanzate civiltà capitalistiche dell’Europa centrale e occidentale, nella lotta dei partiti e delle frazioni che costituivano la II Internazionale prima della guerra.
Essa è continuata nel seno della minoranza del socialismo internazionale, rimasta almeno parzialmente immune dal contagio socialpatriottico. Ha ripreso in Russia nella lotta per avere la maggioranza del proletariato, nella lotta per comprendere e interpretare i bisogni e le aspirazioni di una classe contadina innumerevole, dispersa su un immenso territorio. Continua tuttora, ogni giorno, perché ogni giorno bisogna comprendere, prevedere, provvedere.
Questa selezione è stata una lotta di frazioni, di piccoli gruppi, è stata lotta individuale, ha voluto dire scissioni e unificazioni, arresti, esilio, prigione, attentati: è stata resistenza contro lo scoraggiamento e contro l’orgoglio, ha voluto dire soffrire la fame avendo a disposizione dei milioni d’oro, ha voluto dire conservare lo spirito di un semplice operaio sul trono degli zar, non disperare anche se tutto sembrava perduto, ma ricominciare, con pazienza, con tenacia, mantenendo tutto il sangue freddo e il sorriso sulle labbra quando gli altri perdevano la testa.
Il Partito comunista russo, col suo capo Lenin, si era talmente legato a tutto lo sviluppo del suo proletariato russo, a tutto lo sviluppo, quindi, dell’intiera nazione russa, che non è possibile neppure immaginare l’uno senza l’altro, il proletariato classe dominante senza che il partito comunista sia il partito del governo e quindi senza che il Comitato centrale del partito sia l’ispiratore della politica del governo, senza che Lenin fosse il capo dello Stato. Lo stesso atteggiamento della grande maggioranza dei borghesi russi che dicevano: - una repubblica con a capo Lenin senza il partito comunista sarebbe anche il nostro ideale - aveva un grande significato storico.
Era la prova che il proletariato esercitava non solo piú un dominio fisico, ma dominava anche spiritualmente. In fondo, confusamente, anche il borghese russo comprendeva che Lenin non sarebbe potuto diventare e non avrebbe potuto rimanere capo dello Stato senza il dominio del proletariato, senza che il partito comunista fosse il partito del governo; la sua coscienza di classe gli impediva ancora di riconoscere oltre alla sua sconfitta fisica, immediata, anche la sua sconfitta ideologica e storica; ma già il dubbio era in lui, e questo dubbio si esprimeva in quella frase.
Un’altra quistione si presenta. È possibile, oggi, nel periodo della rivoluzione mondiale, che esistano «capi» fuori della classe operaia, che esistano capi non-marxisti, i quali non siano legati strettamente alla classe che incarna lo sviluppo progressivo di tutto il genere umano?
Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera piú indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti.
Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro feroce meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Conosciamo tutto questo meccanismo, tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla gioventù delle scuole borghesi; esso è veramente impressionante anche visto da vicino e fa stupire.
Ma «capo»? Abbiamo visto la settimana rossa del giugno 1914. Piú di tre milioni di lavoratori erano in piazza, scesi all’appello di Benito Mussolini, che da un anno circa, dall’eccidio di Roccagorga, li aveva preparati alla grande giornata, con tutti i mezzi tribunizi e giornalistici a disposizione del «capo» del partito socialista di allora, di Benito Mussolini: dalla vignetta di Scalarini al grande processo alle Assise di Milano.
Tre milioni di lavoratori erano scesi in piazza: mancò il «capo», che era Benito Mussolini. Mancò come «capo», non come individuo, perché raccontano che egli come individuo fosse coraggioso e a Milano sfidasse i cordoni e i moschetti dei carabinieri. Mancò come «capo», perché non era tale, perché, a sua stessa confessione, nel seno della direzione del partito socialista, non riusciva neanche ad avere ragione dei miserabili intrighi di Arturo Vella o di Angelica Balabanoff.
Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia.
La dittatura del proletariato è espansiva, non repressiva. Un continuo movimento si verifica dal basso in alto, un continuo ricambio attraverso tutte le capillarità sociali, una continua circolazione di uomini. Il capo che oggi piangiamo ha trovato una società in decomposizione, un pulviscolo umano, senza ordine e disciplina, perché in cinque anni di guerra si era essiccata la produzione, sorgente di ogni vita sociale. Tutto è stato riordinato e ricostruito, dalla fabbrica al governo, coi mezzi, sotto la direzione e il controllo del proletariato, di una classe nuova, cioè al governo e alla storia.
Benito Mussolini ha conquistato il governo e lo mantiene con la repressione piú violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, piú per vedere com’era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi entro l’orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia...
Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo
* L’Ordine Nuovo, 1° marzo 1924. Non firmato. Poi nell’Unità, 6 novembre 1924, col titolo Lenin capo rivoluzionario, e firmato Antonio Gramsci. Cfr. Antonio Gramsci, Sul fascismo, pp. 98-100.
Sul tema, nel sito, si cfr. i seguenti link - ricchi di materiali (cliccare sui titoli):
ITALIA!!! TUTTI. MOLTI. POCHI: E NESSUNA COGNIZIONE DELL’UNO, DELL’UNITA’!!!
Federico La Sala
A Roma la filosofia abbatte i confini. Ritrovando i Quaderni di Gramsci
Al Congresso quasi seimila partecipanti, provenienti da 109 Paesi: con la cultura italiana tornata al centro del dibattito
di Marina Calloni ( Quotidiano Nazionale Magazine, 10 agosto 2024).
"Io so cantare, so suonare, so reagire ad un addio, ma stasera non mi riesce niente". Sulle note della Tosca di Puccini si era aperto il 1° agosto nella maestosa cornice delle Terme di Caracalla il 25° Congresso Mondiale di Filosofia incentrato sul tema “Filosofia oltre i confini”.
La filosofia dalla storia millenaria intende così superare quelle barriere che ostacolano la libera circolazione delle idee, così come oltrepassare quei limiti che si è autoimposta, rinchiudendosi in un ambito disciplinare angusto e monotono. La Notte della Taranta con musica, canti e balli della tradizione salentina ha concluso l’8 agosto il Congresso travolgendo partecipanti scatenati, a segno del bisogno di distensione e convivialità. Anche il caldo soffocante è stato così superato, trovando rifugio in aule ben attrezzate, climatizzate e affollate, ospiti della Sapienza Università di Roma.
La filosofia non è fatta solo di pensiero, ma di corpi, emozioni e relazioni, una sfida che ha voluto sfatare un’idea idealizzata e ridicolizzata di ragione, dove solo l’astrattezza è di casa. La filosofia va vissuta.
A parte alcune critiche riportate nei giornali da parte di chi o non è stato invitato o non ha partecipato agli incontri, i numeri hanno dato invece ragione agli organizzatori, in particolare a chi negli ultimi anni ha svolto un lavoro estenuante, come in particolare Luca Scarantino (presidente della Federazione internazionale delle Società di Filosofia) ed Emidio Spinelli (responsabile del comitato organizzativo italiano). I numeri sono notevoli: 5.723 sono stati i partecipanti, provenienti da 109 Paesi; 8.626 sono state le proposte di relazioni, a cui si aggiungono 997 presentazioni da parte di studenti. Gli ambiti tematici sono stati 89, sviluppati in 400 sessioni, con riferimenti sia a tradizioni di pensiero ben consolidate (come Kant, Hegel, Rawls), sia a questioni urgenti di interesse pubblico (dall’eredità postcoloniale alla crisi climatica, alle tensioni internazionali fino all’intelligenza artificiale). Dibattiti filosofici sono anche usciti dalla cittadella universitaria, per espandersi “sotto le stelle” allo Stadio Palatino, dove parole e musiche si sono unite in piena assonanza.
Il Congresso si è soprattutto configurato come una poli-polis, una città molteplice con sfaccettate arene del dialogo, in un momento in cui gli spazi del pensiero e della libera espressione sembrano contrarsi sempre più, nonostante la parvenza dell’illimitato spazio di Internet. Il bisogno di incontro è stato altresì mostrato dalle aule sempre popolate e da un programma davvero fitto (ogni giorno dalle 9 alle 19), puntualmente riportato in un’apposita app e pubblicato in un file generale che conta 552 pagine. La tecnologia è venuta incontro anche a un ostacolo apparentemente insormontabile: la conoscenza e la comprensione di lingue diverse dalla propria, tanto da limitare la partecipazione di alcuni. Ebbene, specifiche applicazioni hanno permesso traduzioni simultanee (soprattutto di e da lingue asiatiche), tanto da aver facilitato gli interventi, le conoscenze reciproche e la costituzione di reti, foriere di nuovi progetti comuni. Al centro ci sono state giovani generazioni di studiosi e studenti che - oltre che a presentare i loro lavori - sono stati decisivi per l’organizzazione e la buona riuscita dell’intero congresso.
Le tre linee innovative che si intendeva sviluppare sono state pienamente centrate, quali il discorso sull’interculturalità, l’approccio interdisciplinare, le questioni di genere, tali da indicare reciproche interdipendenze e intersezioni. Ma la domanda radicale rimane: ovvero se sia mai possibile parlare di una filosofia mondiale, se non intesa nelle sue molteplicità e differenze. O come sia mai possibile comprendere il mondo in trasformazione, facendo interagire la tradizione con l’innovazione concettuale.
Uno dei più importanti risultati è tuttavia consistito nel rimettere al centro del dibattito internazionale la filosofia, l’arte e la cultura italiana. Straordinaria l’esposizione - inedita - dei 33 Quaderni dal Carcere di Gramsci (prima custoditi dalla cognata Tatiana Schucht e ripubblicati nel 1975 dall’Istituto Gramsci in una nuova versione critica) che ha guidato come un filo rosso i diversi temi del Congresso. L’esposizione è stata accolta con emozione dai partecipanti, da chi per anni ha studiato Gramsci, ma non aveva mai visto la sua minuta e ordinata scrittura, le copertine colorate che racchiudevano le sue idee con la prospettiva di un’Italia liberata dal fascismo e di una cultura che potesse fare da collante a società libere e a individui emancipati. L’idea di egemonia in Gramsci ha influenzato molte correnti di pensiero a livello internazionale, a partire dagli studi postcoloniali e dalla possibilità di dare voce ai subalterni. La filosofia non può che superare i propri limiti concettuali e territoriali, grazie a una tradizione in movimento che non si appaga delle ripetizioni e che grazie a immaginazione produttiva può pensare a mondi possibili, non necessariamente utopici.
Prossimo appuntamento in Giappone, a Tokyo nel 2028, dove il tema sarà “Per una filosofia mondiale pluralizzata”. La sfida consisterà nuovamente nel superamento di un elitismo escludente o di chi ha diritto al pensiero. Del resto, come ricorda Gramsci, nel Quaderno 1 §12 esposto: "Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici".
FILOLOGIA, ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA.
UN VIADOTTO NON E’ UNA PORTA: A VOLER ESSERE, "SEVERI-NO", BISOGNEREBBE "RITORNARE A ELEA".
Una nota a margine del seguente intervento del prof. Francesco Fistetti (apparso su Fbook):
"Schmitt e Kojève, la politica a chiare lettere" ... chiarissimo Francesco Fistetti, condivido: siamo di fronte alla punta di un #iceberg epocale, di una #storia di #lungadurata di #doppiogiochismo e di una "coerenza filosofica" che riposa sulla incomprensione storica della lezione di #Kant e sul principio di contraddizione e sulla #dialettica hegeliana. #MichelFoucault ha risollecitato e riprendere la via del "#sàpereaude!" kantiano (1984), ma l’#Europa, oggi, pensa ancora prima di #Koenigsberg (1784) e, ancora, nell’epoca di #Kaliningrad (2023): un #letargo di secoli (#DanteAlighieri, Pd. XXXIII, 94), che investe tutta la cultura atea e devota. Sul tema, se non sbaglio, Gramsci scriveva: "Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta". O no?
Per Dante, svoltare a destra
di Stefano Jossa (Doppiozero, 16 Gennaio 2023) *
Dante di destra? Lo ha dichiarato, col compiacimento di chi ritiene di lanciare una provocazione dirompente («so di fare un’affermazione molto forte»), il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano in un’intervista al direttore di «Libero» Pietro Senaldi durante un evento elettorale di Fratelli d’Italia a Milano. Il ministro ha individuato in Dante Alighieri «il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese», perché ritiene che «quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia sia profondamente di destra».
Sangiuliano sperava di suscitare reazioni indignate, com’è effettivamente avvenuto, per cui come provocatore alla Marco Pannella, alla Renato Zero o alla Aldo Busi ha decisamente funzionato bene. Molto meno bene ha funzionato come pensatore originale, perché la sua battuta ha una lunga storia, che si radica almeno in quel «Dante fascista» che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime.
Rivelandosi estremamente difficile assimilare Dante alla prospettiva politica e culturale del PNF, perché l’etica francescana e la concezione universalista del poeta non potevano coincidere con il nuovo orizzonte aggressivo e nazionalista delle camicie nere, gli ideologi del tempo non trovarono di meglio che aggregare Dante al Pantheon eroico della Nazione, facendolo entrare in una lunghissima lista di campioni dell’italianità, da Giulio Cesare al Duce in persona, passando per, fra gli altri, Giangaleazzo Visconti, Emanuele Filiberto, Ugo Foscolo, i fratelli Bandiera, Goffredo Mameli, Camillo Benso Conte di Cavour, Alfredo Oriani, Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e Nino Oxilia (così Vittorio Cian nel 1928): lista che di Dante faceva un santino come gli altri, ormai svincolato dalla sua reale esperienza letteraria e dalla sua concreta identità storica.
Dante veniva presto ridotto a una controfigura del Duce, di cui del resto avrebbe profetizzato l’avvento in quel verso del trentatreesimo canto del Purgatorio in cui si annuncia un DVX liberatore dell’Italia dalle divisioni e dalle guerre: «nel quale un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque» (dove il numero romano per 515, DXV, viene anagrammato per indicare l’avvento di un vendicatore dell’alleanza a delinquere tra la puttana, la curia papale corrotta, e il gigante, la monarchia di Francia). Lo sintetizzava perfettamente lo storico Domenico Venturini nel volumetto di poco più di cento pagine intitolato Dante Alighieri e Benito Mussolini, stampato a Roma dalla Nuova Italia nel 1927, con prefazione di Amilcare Rossi, Presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti. Il volume era «pubblicato a beneficio dell’Opera Nazionale per il cimitero monumentale del Grappa, sotto l’alto patronato di S. M. il Re».
L’associazione con l’eroismo militare, da un lato (essendo il sacrario militare del monte Grappa, in Veneto, uno dei più imponenti e significativi monumenti alla memoria dei caduti della Grande Guerra), e con la monarchia, dall’altro (essendo pur sempre il Re il garante dell’unità della nazione), inseriva fin dall’inizio il libretto in un orizzonte d’italianità, come si affrettava a chiarire il prefatore nella pagina introduttiva.
Il risultato era una raccolta di corbellerie che istituivano il parallelo tra il Poeta e il Condottiero, accomunati dalla triste esperienza dell’esilio, che vissero entrambi con «acutissimo dolore per la lontananza della patria», e dalle nobili aspirazioni politiche, perché «Mussolini è il Dux che sta operando, conforme voleva Dante, quella riforma politica e morale da cui il Poeta sperava salute per l’Italia travagliata da fierissime discordie derivanti dai colluttanti partiti, riforma, ripeto, che schiude la via al conseguimento de’ più alti destini d’Italia, destini che renderanno imperituro alla memoria de’ posteri il meraviglioso secolo di Mussolini».
Gli avrebbero fatto seguito il «Dante Italiano e Imperiale» di Emilio Bodrero (Dante, l’Impero e noi, sulla «Nuova Antologia» del 1931) e il Dante precursore di Mussolini di Tommaso Vitti (Dante e Mussolini, Caserta, Tip. Sociale Jacelli & Saccone, 1934). Di qui discendeva il culto di Dante, che culminava nel progetto di quel Danteum che avrebbe sintetizzato la visione della nazione contenuta nella Divina Commedia. Alle ossa di Dante il segretario del Fascio di Salò Alessandro Pavolini affidava addirittura, simbolicamente, l’ultimo sussulto d’italianità dei repubblichini, proponendo di trasferirle nel «ridotto della Valtellina», il luogo dove i fascisti avrebbero dovuto organizzare la difesa finale della Repubblica Sociale Italiana. Dante ridotto, è proprio il caso di dirlo, a icona vuota, insomma, dentro cui si potevano accomodare i contenuti dettati dalle convenienze e dalle contingenze: se il simbolo uccide la cosa, hegelianamente e lacanianamente, il piano trascendente del linguaggio e delle rappresentazioni strutturate in termini linguistici negherà la cosa, l’oggetto, i contenuti, la storia, a favore di un sistema di significati altri, costruiti altrove e determinati altrimenti.
Un Dante di destra, quindi, nell’ottica dei fascisti e dei loro seguaci, è già abbondantemente esistito e come provocazione è risibile. Dalle parole del ministro, tuttavia, emerge quella vaghezza del linguaggio del politico, che riduce tutto a slogan senza contenuti, che è persino più preoccupante del proclama di un Dante di destra (che, inutile dirlo, Dante non fu, per il semplice fatto che le categorie politiche del suo tempo erano guelfi e ghibellini, con i primi divisi, a Firenze, in bianchi e neri, anziché destra e sinistra). Che vuol dire, ad esempio, «pensiero di destra»? Quali sono la «visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri»? Qual è la «costruzione politica» nei saggi diversi dalla Divina Commedia (che non è un saggio)? Secoli di esegesi e critica danteschi sono ridotti a due massime capitali che non significano nulla, perché ciascuno può riempirle del contenuto che preferisce, chiamandolo «di destra» per partito preso, per ragioni di schieramento politico oppure per semplice preferenza di una mano sull’altra.
Al quale si può senz’altro contrapporre il suo uguale e contrario, quel Dante di sinistra che emergerebbe prima di tutto dalla richiesta di veicolare istanze di libertà, come avvenne quando i neri d’America nelle piantagioni adottarono versi danteschi per i loro canti spiritual, in un processo descritto magnificamente da Dennis Looney in Dante for Freedom (assumendo, con Norberto Bobbio, che la sinistra tenda verso la comunità e la destra verso l’individualismo, con le dovute scuse per la sempflicazione da citazione en passant).
La «vision dell’Alighieri» era del resto il richiamo decisivo dell’inno nazionale fascista, la canzone Giovinezza, cui lo scrittore Salvator Gotta imprimeva nel 1925 una risoluta svolta dantesca nel segno della continuità tra momento profetico e realizzazione storica con l’aggiunta di due versi: «la vision dell’Alighieri | oggi brilla in tutti i cuor». Dante nazionalista, insomma, secondo una retorica di lunga durata, che discende dalla lezione risorgimentale, incarnandosi nella famosa sentenza di Cesare Balbo secondo cui «Dante fu l’Italiano più italiano che sia stato mai» (Vita di Dante, 1839), e si esalta nella sintesi capitale di Giovanni Gentile, per il quale «con Dante comincia ad affermarsi idealmente l’Italia» (Dante nella storia del pensiero italiano, 1904). In mezzo c’era l’incoraggiamento del grande teorico dell’eroismo romantico, lo storico e filosofo scozzese Thomas Carlyle: «La nazione che possiede un Dante è unita come nessuna muta Russia può esserlo» (On Heroes, 1941).
Questa retorica è appartenuta tanto alla destra quanto alla sinistra, poiché è soprattutto una retorica delle Istituzioni (in quanto tale, perciò, tendenzialmente di destra), al punto che personalità di certo immuni dal contagio delle destre, come l’allora Ministro della Cultura Dario Franceschini e l’ancora presidente della Repubblica Sergio Mattarella hanno potuto dichiarare, rispettivamente, che «Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia» (Comunicato del Ministero della Cultura del 17 marzo 2021) e che «Dante è in realtà il grande profeta dell’Italia, un patriota visionario, destinato, quasi biblicamente, a scorgere ma non a calcare la Terra vagheggiata e promessa» (Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione delle celebrazioni per il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri).
La risposta più sciocca possibile e immaginabile al ministro Sangiuliano è dunque che Dante non è né di destra né di sinistra, perché è soltanto italiano: cosa che Dante, storicamente, non fu mai, semplicemente perché per lui non era neppure concepibile esserlo, muovendosi il suo orizzonte politico tra il municipale (Firenze) e l’universale (l’Impero). È di destra, tuttavia, ridurre ogni discorso a una «pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile». Così scriveva uno dei grandi interpreti della cultura di destra, l’antropologo Furio Jesi, che proseguiva definendo i caratteri di questa cultura: una «cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari» e «in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto tradizione e cultura ma anche giustizia, libertà, rivoluzione». La conclusione era drammatica, perché identificava la destra col partito del tradizionalismo fine a se stesso, della difesa ottusa delle identità statiche e della chiusura ideologica su malintese proprietà: «La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra».
I due grandi miti del padre della patria (che Dante non fu) e del padre della lingua (che Dante neppure fu), congiunti mirabilmente in endiadi («padre della lingua italiana, e quindi della Nazione») da Benito Mussolini in un discorso del 27 giugno 1932, in occasione dell’apposizione della targa commemorativa al monumento di Dante a Napoli, andranno definitivamente decostruiti, smontati e ricalibrati. Su questo forse dovremmo continuare a interrogarci: non se Dante sia di destra o di sinistra, che è una boutade che lascia il tempo che trova e ha la sua risposta nell’effimero di una risata, ma cosa vogliano dire destra e sinistra. La destra al governo continua a tenerlo nascosto, ma è arrivato il momento di stanarla, smontandone il linguaggio e individuandone le incoerenze.
Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista, in «The Italianist», XVI (1996), 1, pp. 117-42.
Luigi Scorrano, Il Dante “fascista” (2000), in Id., Il Dante “fascista”. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna, Longo, 2001, pp. 89-125.
Dennis Looney, Dante for Freedom. The African American Reception of Dante Alighieri and the Divine Comedy, Notre Dame: University of Notre Dame Press, 2011.
Martino Marazzi, Danteum. Studi sul Dante imperiale nel Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2015.
Guy P. Raffa, Dante’s Bones. How A Poet Invented Italy, Cambridge (Mass.) - London, Harvard University Press, 2020.
* Ripresa parziale - senza allegati (FLS).
L’IMPERO E LA CHIESA (BARI, 1936). Storia, storiografia, e sonno dogmatico.
Una nota a margine di una segnalazione ... *
Il 9 maggio 1936, Mussolini celebra "dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui Colli fatali di Roma". Il "5 settembre 1936", nella Basilica di San Nicola di Bari, è murata su una parete una lapide ben illuminata su cui è scritto:
Per capire le ragioni politico-culturali di questo "documento" del Comune di Bari, collocato "nello storico tempio del santo mediterraneo", nella Chiesa di San Nicola di Bari, forse, è bene ampliare lo sguardo intorno alla data del "5-SETT-MCMXXXVI" (5 SETTEMBRE 1936) e quanto meno ricordare gli accordi sottoscritti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929 (Patti Lateranensi) e al contempo "riascoltare" e rileggere il "Discorso di proclamazione dell’Impero", tenuto da Mussolini dal balcone di piazza Venezia la sera del 9 maggio 1936:
Il 1° marzo 1924, su "L’Ordine Nuovo", Antonio Gramsci aveva già scritto: "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, RomoloAugustolo". Evidentemente gli ideologi imperiali avevano ignorato la lezione di Dante sulla Monarchia e sui "venticinque secoli" (Par. XXXIII, 95), come quella di Goethe sui "tremila anni" ("Libro del malumore", 1819).
* Una "lapide che lascia perplessi!", si cfr. la segnalazione di Nicola Fanizza.
Federico La Sala
Augusto figlio di dio
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di...
di Marco Sferini (La Sinistra quotidiana, 22 Settembre 2021)
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di uomo di legge e di procuratore, si interessò di storia - per così dire - “moderna” o “contemporanea“, se lo si vive calato esclusivamente nel suo tempo, astraendosi dal proprio presente. Questa sua passione la mise tutta nella redazione di una narrazione accurata delle Guerre civili: da Mario e Silla fino all’instaurazione del Principato.
In realtà, la sua monumentale opera, ben 24 libri, è arrivata fino a noi più che dimezzata: della “Ῥωμαικά” (“Rhomanikà“) rimangono solo 11 volumi, ma sono sufficienti per riuscire a ritrovare tutta una lunga serie di collegamenti con altri autori e con episodi della storia imperiale dell’Urbe.
Sappiamo che Karl Marx se ne interessò e che, molto probabilmente, soprattutto grazie alla lettura dei testi di Appiano imparò ad apprezzare oltre ogni modo la figura di Spartaco come “der famoseste Kerl“: tradotto dal tedesco, questo giudizio sul generale degli schiavi risulta essere “il tipo più in gamba“. Meglio di Garibaldi, si spinge il Moro nella comparazione con l’attualità che osserva in Europa e nell’Italia dei moti risorgimentali.
Appiano, come bene scrive Luciano Canfora nel suo “Augusto figlio di dio” (Editori Laterza, prima ed. 2015), è uno storico dilettante, ma tremendamente bravo e soprattutto ha accesso ad una vastità di fonti e di informazioni che, ancora oggi, rimangono un enigma per come siano state trovate, scoperte e utilizzate dall’alessandrino. Sembra essere, se non l’unico, almeno uno dei pochi cronachisti dell’antichità a conoscere situazioni così intime, segrete e particolari della corte augustea da mettere in discussione quel poco che sappiamo della sua vita.
La sorpresa di Marx davanti alla bravura di Appiano è nulla in confronto alle tinte di giallo che contornano questo avvocato dei tempi di Traiano, Adriano e Antonino Pio nel momento in cui si accinge a diventare uno scrittore, uno storico e lo fa con a disposizione dettagliatissimi resoconti della vita tanto privata quanto pubblica di Giulio Cesare ma, soprattutto, di Augusto.
L’opera di Canfora sul Princeps, sul rifondatore della Res publica, sul primo imperatore di Roma, è barocca, ricca di pieghe del tempo, di sovrapposizioni e intersezioni tra i personaggi di un passato che si rilegge nel tempo moderno ottocentesco, mentre prende corpo il marxismo, così come nel primo novecento mentre avanza lo spartachismo germanico. Sono pagine di meticolosa disamina della vita di Ottaviano, pur intervallate da viaggi nella quarta dimensione, accanto ad un Virgilio dantescamente ritrovato, seppure un bel po’ di anni dopo la sua morte, che però è - come scrive Marx ad Engels - «un egiziano tutto d’un pezzo».
Chi si dispone alla lettura dell’Augusto di Canfora, sappia fin dall’inizio che non è un libro semplice: necessita una certa conoscenza della romanità, tanto sul piano storico quanto su quello politico. Necessita pure una conoscenza, quanto meno di base, della letteratura latina, di autori come Seneca, Cicerone, Tacito ed anche il più leggero mondo svetoniano dei Cesari.
Non è una biografia né di Augusto e né di Appiano. Paradossalmente, però, riesce ad essere un grande affresco dinamicamente tinteggiato da tante sfumature di un mondo in continua evoluzione, che si riconosce proprio dall’atto fondativo prodotto dalle Guerre civili, dalla dittatura cesariana e dalla pax inaugurata da un Augusto scaltro, cui Appiano riconosce tutti i meriti del grande politico, camaleontico, capace di interpretare simultaneamente il difensore del Senato e della tradizione repubblicana della Roma che aveva cacciato i re ed essere il nuovo sovrano di un impero che viene rinnovato, completamente ristrutturato nella sua amministrazione ed anche nella preservazione della memoria, del sapere, dell’arte e delle lettere.
Augusto, ce lo dice Marco Antonio, ma lo sottolinea pure Canfora, deve un po’ tutto al suo nome: non a quello di nascita (Gaio Ottavio), bensì a quello del suo padre adottivo, il Divus Julius. Ottaviano ne è consapevole e fa di tutto per attribuirselo in ogni occasione, per farsi riconoscere dai Padri coscritti come l’erede di una volontà politica che difende la repubblica dai tentativi di restaurazione oligarchica dei cesaricidi.
In realtà, Luciano Canfora svela tante ambiguità di una storia romana che Appiano tuttavia non cela, non mistifica, non celebra inversamente, revisionisticamente, con quella accondiscendente sudditanza verso il potere, con una piaggeria che ci si aspetterebbe da uno scrittore che, per giunta, è un procuratore imperiale (anche se alcuni storici ritengono che questa carica gli venne assegnata più come titolo onorifico che come investitura vera e propria con pieni poteri).
“Augusto figlio di dio” è molto più di un libro sul primo imperatore di Roma: è un vero e proprio lavoro di ricerca storica, politica, sociale e morale tradotto in una biografia che ha il gusto piacevole del romanzo giallo, la fascinazione del prosa descrittiva di un passato mostrato con le tante similitudini del e nel nostro presente (in particolare, queste fanno riferimento alle caratteristiche più propriamente umane nelle declinazioni politiche, intellettuali e militari). Non ultimo, possiede il disincanto da una esposizione cattedratica che l’autore a volte è tentato di offrire a tutti i lettori nel proporre l’intersezione di tante difficili argomentazioni, ma che riesce sempre a coniugare con la cosciente pragmaticità della fruizione dell’opera da parte di un vasto pubblico dalle conoscenze più varie.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
FLS
RECENSIONI
Luciano Canfora, Augusto figlio di Dio
di LIVIA RIGA *
Augusto, non occorre dirlo, è il personaggio chiave della politica romana antica e quindi anche della nostra storia. Più diplomatico che militare, dimostrò abilità di stratega che gli permisero di cogliere al volo l’occasione creatasi al seguito degli avvenimenti del 44 a.C., ponendosi come restitutor rei publicae relativamente alla pace e all’ordine per la città e, al contempo, come unica alternativa al precipitare degli eventi. Cavalcando l’onda emotiva dell’uccisione di Cesare, Ottaviano si insinua nella politica romana e in un’abile manovra ne diventa il cuore, pur senza abolire le massime cariche dello Stato.
In questo libro - che vede la luce a conclusione delle celebrazioni del secondo Bimillenario Augusteo durante le quali in tutt’Italia si sono succedute iniziative, aperture straordinarie e nuovi allestimenti - Luciano Canfora propone una lettura della politica augustea che, attraverso la storiografia antica e moderna, rivela l’attualità e la genialità programmatica di questo princeps in re publica.
Il primo passo di Ottaviano per insinuarsi nelle dinamiche politiche di Roma è la divinizzazione dello zio Cesare (padre adottivo). In questo venne aiutato da un evento prodigioso occorso nel luglio del 44 a.C. quando nei cieli di Roma apparve una cometa che rimase visibile per sette giorni; questo fenomeno fu interpretato dal popolo come manifestazione dell’anima di Cesare accolta tra gli dei immortali e determinò la decisione del senato di onorarlo come un dio, rendendo Ottaviano di fatto Divi filius.
Che questa divinizzazione sia un passaggio obbligato per l’ascesa politica di Ottaviano appare evidente - sebbene l’autore scelga di non soffermarsi su questo aspetto - anche da alcune opere edilizie intraprese negli ultimi anni del primo secolo a.C. Sul luogo ove il corpo di Cesare rimase esposto subito dopo l’assassinio, Ottaviano costruì un tempio dedicato al Divo Giulio a perenne ricordo di quell’azione ignominiosa che cambiò le sorti della storia romana (e che ancora oggi viene onorata da qualche nostalgico che vi porta dei fiori; cfr. F. Coarelli, Roma, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 90-92); dedicò il tempio nel suo Foro a Marte Ultore, cioè il Vendicatore dei Cesaricidi, e alla statua del dio titolare e di Venere affiancò quella di Cesare divinizzato (cfr. F. Coarelli, op. cit., pp. 133- 134); inoltre nel Pantheon di Agrippa Cesare è ormai assurto allo stesso rango delle divinità canoniche (e Augusto stesso era probabilmente collocato nel pronao, pronto a fare anche lui, alla sua morte, il suo ingresso nell’Olimpo; cfr. F. Coarelli, op. cit., pp. 380- 381). Questa divinizzazione del padre insomma non è che una più o meno velata esaltazione in vita di se stesso.
A ricordo di quegli anni cruciali Augusto scrisse i Commentarii de vita sua e le Res gestae; quest’ultime, pervenuteci integralmente, erano il sacralizzante riepilogo dei propri successi da trasmettere a tutti i sudditi, da scrivere sul marmo per l’impiego monumentale, ispirandosi alla tradizione delle epigrafi regie del mondo persiano, egizio faraonico e tolemaico. Al contrario i Commentarii erano un genere letterario più tipicamente romano, redatti come un diario delle imprese, senza alcuna velleità storiografica ma pensati come materiale cronachistico alla base di eventuali historiae. Questo prezioso testo fu la fonte di diversi storici, ma non è purtroppo giunto fino a noi.
In Augusto figlio di Dio l’autore intende dimostrare che Appiano, lo scrittore e funzionario imperiale vissuto all’epoca degli Antonini (tra il 95 e il 160 d.C. ca.), nella sua Storia di Roma (Ῥωμαικά), attinse fedelmente ai commentari di Augusto traducendone pagine intere in greco.
In effetti, questo saggio di Luciano Canfora è un notevole studio bibliografico su tutte le fonti storiche e manoscritte che mira a far emergere la figura di Appiano sotto una nuova luce. Sono esaminate tutte le critiche, raffrontati tutti gli storici, antichi e moderni, per mostrare l’influenza di questo straordinario storico sulla cultura occidentale fino ai nostri giorni.
È ad esempio dimostrato che Appiano fu la principale fonte di Shakespeare per le sue tragedie, in particolare per il discorso davanti al cadavere di Cesare in cui Antonio, da consumato demagogo, capovolge una situazione per lui molto difficile. E ancora, Canfora mette in risalto come l’esaltazione di Spartaco da parte di Appiano sia stata favorevolmente letta da Marx in termini ‘comunistici’, definendolo un «vero rappresentante dell’antico proletariato» (p. 30). Infatti, nella gestione del bottino (κατ’ἰσομοιρίαν), nell’utilizzo delle armi e delle competenze che i patroni gli avevano fornito solo per il loro tornaconto, Spartaco rappresenta per Marx un modello che il moderno proletariato dovrà seguire nell’ottenere la libertà e conquistare il potere.
Appiano, tuttavia, ha goduto di scarso credito in epoca moderna (tra Cinquecento e Settecento), se non addirittura di discredito, fino a essere definito «plagiario» (fucus alienorum laborum, p. 71) da studiosi dell’Ottocento, quali Schweighauser, Xylander, Perizonio, Scaligero ecc. Questa accusa gli deriva dall’atteggiamento compilativo nell’uso delle sue fonti; egli è infatti un grande ordinatore della storia romana, rispetto alla quale scompone le precedenti hystoriae e i commentarii, per darne una nuova prospettiva geografica e, in alcuni casi, focalizzata su monografie di grandi personaggi. Per esempio nei suoi libri sulle Guerre civili, Appiano consulta tutti gli storici che hanno trattato quel periodo, compreso tra l’età dei Gracchi e la battaglia di Azio, utilizzando la loro documentazione e adottando spesso persino le loro osservazioni.
Per esempio, nei primi libri la fonte è rappresentata soprattutto dalle Historiae ab initio bellorum civilium di Anneo Seneca padre, che a sua volta si ispira alle Historiae di Asinio Pollione. Negli anni che vanno dall’omicidio di Cesare alle guerre con Antonio il riferimento principale sono invece proprio i Commentarii de vita sua di Ottaviano che, secondo Canfora, Appiano riporta con precisione, passando dalle sintesi dell’epoca precedente a un dettagliato e dilungato commento di tipo diaristico dell’età augustea.
Ma pur trascrivendo la cronaca narrata da Ottaviano, Appiano interviene nella narrazione facendo le proprie osservazioni; per esempio stigmatizza la scelta di Ottaviano di farsi chiamare Augusto, Σεβαστός (colui che deve essere adorato), che equivaleva a una divinizzazione addirittura da vivo. Inoltre Augusto, che già con la divinizzazione del padre Cesare era divenuto ‘figlio di Dio’, ha il demerito per l’egiziano Appiano di aver conquistato il regno d’Egitto, «che era il più duraturo e il più potente del lascito di Alessandro» (p. 108; Appiano, Proemio II, 21). E ancora, nell’Introduzione generale alla Storia di Roma egli, parlando del suicidio di Antonio dopo Azio, conclude con queste parole: «con quest’ultima guerra civile anche l’Egitto passò sotto i Romani e Roma tornò a essere una monarchia» (p. 61; Appiano, Guerre civili, 14, 60).
Appiano adopera qui il termine «monarchia» perché rifiuta il gioco di Ottaviano, che si era proposto come il difensore della repubblica, ma riconosce comunque a questo ordinamento politico il merito della raggiunta concordia e un lungo periodo di pace. Appiano, pertanto, non è un semplice trascrittore, ma aggiunge suoi commenti e valutazioni etico-politiche in modo originale, integrando anche all’occorrenza i Commentarii con altri testi non ‘di parte’. È il caso del Libro Siriaco, in cui si rifà a un’altra γραφή, la Storia siriana di Timagene di Alessandria, il cui punto di vista pone al centro Alessandro e la grande storia della Macedonia in chiave antiromana e a favore dei Parti.
Il libro di Canfora affronta in seguito la lettura che viene data di Ottaviano Augusto anche da altri storici come Seneca, Plutarco e Svetonio. Vengono descritti i rapporti di Ottaviano con Cicerone, il quale prima sarà favorevole ai cesaricidi Bruto e Cassio, poi diventerà protettore e ‘sponsor’ nell’ascesa di Ottaviano contro Antonio e, infine, con la costituzione del triunvirato di Ottaviano, Antonio e Lepido, cadrà nelle liste di proscrizione e verrà ucciso. Ben presto però Ottaviano lo recupererà come ‘grande patriota’ e come vate precursore della soluzione del princeps in re publica per conciliare forza, consenso e legalità. Augusto vuole, in effetti, controllare la storia costituendo un archivio delle sole lettere di Cicerone che avrebbero potuto essere strumentali al suo potere (e distruggendo le altre che gli erano ostili), e cerca a tal fine una riappacificazione con il figlio ed erede dell’oratore, concedendogli di condividere con lui il consolato nell’anno 30 a.C.
Nel volume è, poi, oggetto di analisi il “controllo culturale” del princeps, soprattutto attraverso Mecenate, sui poeti del suo tempo e sulle loro opere: basti pensare ai Fasti di Ovidio, l’Eneide di Virgilio, l’opera storica di Livio o alla lirica civile di Orazio. Eppure, anche se buona parte della letteratura nel periodo di Augusto si impegnò a celebrare la pace augustea simboleggiata dalla costruzione dell’Ara Pacis e sebbene il Senato avesse dato ordine di chiudere il tempio di Giano, le verità fatte valere da Augusto vennero negate dagli storici successivi tra cui Tacito, Svetonio e Plinio. Per esempio Tacito pone dubbi sulla morte di Irzio e Pansa e la pax augustea diventa per lui una «pace cruenta», con la repressione delle congiure e con la sconfitta sul suolo germanico di Lollio e Varo.
Augusto, durante il suo principato, aveva fatto di tutto per mettere a tacere la storiografia contraria (su questo argomento cfr. M. Lentano, La memoria e il potere. Censura intellettuale e roghi di libri nella Roma antica, Liberilibri, Macerata 2012, recensito per Syzetesis da F. Verde, https://goo.gl/YAG3Pd), tanto che Seneca padre, nato nel 60 a.C. ca., aveva prudentemente affidato la sua opera Historiae ab initio bellorum civilium alla sola circolazione nell’ambito familiare, temendo che la rivendicazione della veritas in un tempo di sistematica manipolazione storica avrebbe potuto nuocere alla sua vita. A titolo esemplificativo nelle Historie Seneca padre aveva descritto la crudeltà delle guerre civili e in particolare aveva rinfacciato a Silla l’invenzione delle proscrizioni, vero meccanismo di violenza legalizzata da parte dello Stato, con l’obiettivo di eliminare una parte delle classi dirigenti. Queste proscrizioni, condannate anche da Cesare, vennero invece riprese durante il triunvirato da Ottaviano, il quale fu inizialmente contrario ma poi, secondo Svetonio, «una volta iniziate le condusse con maggiore durezza degli altri due» (p. 469; Svetonio, Vita di Augusto, 27).
La storiografia dunque sconfigge la vulgata augustea e Appiano, al culmine della sua carriera sotto Marco Aurelio, commenta la mattanza delle proscrizioni triunvirali evidenziando la crudeltà di Ottaviano nel rifiuto della sepoltura delle vittime.
Il testo di Canfora si conclude con un’interessante riflessione sulla parabola politica augustea e sul fatto che Augusto, per affermarsi, abbia eliminato tutti gli avversari e posto l’immagine di sé come erede del Divus Iulius. La strategia culturale del princeps mirava a esaltare la continuità di un organismo politico di cui lui stesso era divenuto un abile manipolatore attraverso la realizzazione di una nuova visione dell’impero.
In questo Canfora raffronta l’era di Augusto con l’epoca moderna, in particolare con la rivoluzione russa e la figura di Ottaviano con quella di Stalin che, dopo aver eliminato tutti i suoi possibili rivali e posto la mummia di Lenin nella piazza Rossa, si erge come successore della sua linea politica.
Per quanto riguarda il titolo, è evidente che l’autore voglia implicitamente richiamare la tematica cristiana della filiazione divina di Cristo e dell’unicità del Dio (che, infatti, viene designato con l’iniziale maiuscola all’interno di tutto il testo). Tali riferimenti però appaiono del tutto estranei allo sviluppo della trattazione nel volume e in generale alla religiosità romana nell’epoca in esame. Inoltre, il titolo Augusto figlio di Dio potrebbe indurre nel lettore un’aspettativa tematica che verrebbe in parte disattesa.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, infatti, non è l’aspetto religioso dei culti nel periodo augusteo a essere l’oggetto privilegiato dell’esposizione di Canfora; a titolo di esempio, basti citare il fatto che l’autore sceglie di non soffermarsi sull’importante attività di rifondazione di alcuni culti antichi, portata avanti dal princeps subito dopo la battaglia di Azio.
Proprio perché il libro si configura come un’attenta analisi storiografica e filologica della vita di Ottaviano, forse sarebbe stato interessante mettere in risalto ciò che in quell’epoca fu fatto dagli eruditi su richiesta dello stesso Ottaviano per riportare in vita, in modo talvolta fantasioso, alcuni dei culti arcaici della città di Roma: uno studio antiquario e filologico (v. per esempio il caso dei Fratres arvales) atto a rafforzare l’immagine di Augusto come restitutor non solo dell’ordine politico ma anche dei doveri religiosi trascurati da almeno un secolo. (Sull’argomento si veda il nuovo allestimento del Chiostro Ludovisi inaugurato in occasione del Bimillenario Augusteo nel Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano; cfr. inoltre J. Scheid, Gli arvali e il sito ad Deam Diam, in R. Friggeri-M. Magnani Cianetti- C. Caruso, a cura di, Terme di Diocleziano. Il chiostro piccolo della Certosa di Santa Maria degli Angeli, Electa, Milano 2014, pp. 49-59).
I n conclusione, pur scegliendo di non trattare alcuni aspetti della politica edilizia e religiosa di Ottaviano, l’opera Augusto figlio di Dio giunge a un’interessante e condivisibile riflessione sulla modernità della parabola politica augustea e sulla paradigmatica strategia rivoluzionaria del protagonista. Il libro di Luciano Canfora presenta, quindi, un’interessante chiave di lettura di questo affascinante e cruciale periodo della storia umana.
* Fonte: Syzetesis, Anno III - 2016 (Nuova Serie) Fascicolo 2
Il Papa, l’umanità, la civiltà europea.
Richiamo all’essenza
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 7 dicembre 2021)
È una questione di vocabolario, per chiamare l’orrore con il suo nome. Di braccia, che sollevano chi cade e tirano giù i muri. Di occhi, perché anche il cuore parla con il viso, e solo guardando insieme agli altri si può pensare e disegnare un futuro diverso. Il viaggio del Papa in Grecia e a Cipro è stato un richiamo all’essenza dell’umanità, dell’autentica civiltà europea, e a tutti modi che esistono per difenderla e farla crescere. Non solo l’ennesima denuncia della vergogna delle barriere contro i poveri, che pure c’è stata e forse mai con discorsi altrettanto perentori, ma un itinerario politico, nel senso più nobile del termine, che quando si sposa con il Vangelo esce dal recinto dell’ideologia per diventare servizio pastorale, cioè ricerca del bene comune declinato come carità, come amore.
La visita in fondo ha toccato un fazzoletto di poche centinaia di chilometri però il suo respiro ha abbracciato un continente intero. E un sogno comunitario, quello dell’Unione, sempre più a rischio fallimento. A minarlo sono le scorciatoie per aggirare la complessità dei rapporti tra nazioni e dentro le società. Le ricette facili, rassicuranti dei populismi, l’autoritarismo «sbrigativo», la paura che arma la difesa del privilegio. E, dall’altra parte, la rinuncia a se stessi, l’annacquamento della propria identità, in nome di un politicamente corretto che diventa l’olio su cui far scivolare i conflitti, nell’illusione che evaporino come le polveri sottili dopo un giorno di vento. E invece stanno lì, quasi rafforzati dalla scelta del rinvio, che peraltro sembra non pagare più neanche a livello elettorale. Da Atene Francesco lo ha denunciato con chiarezza, oggi la democrazia è messa in pericolo dalle polarizzazioni esasperate, dal ridurre il pensiero alto a miseri interessi di bottega, dall’accettazione finanche del ridicolo pur di blindare il consenso.
Una deriva cui il Pontefice ha opposto il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal tifo urlato dal balcone allo sporcarsi le mani nel nome del dialogo. In fondo, è la ricetta dei padri dell’Europa, e non a caso il richiamo è andato a De Gasperi e al suo discorso di Milano, del 1949: «Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti» verso «la giustizia sociale». Che alla luce del Vangelo significa molto più della tolleranza, vuol dire solidarietà generosa, «di fatto» come diceva Robert Schuman e, in un crescendo virtuoso, consapevolezza dell’appartenenza a un’unica famiglia umana, fraternità, comunione.
Il sogno dell’Unione non è fallito, sembra suggerire il Pontefice, si tratta di aggiornarlo, di impegnarsi nella costruzione di un nuovo umanesimo che, citando il discorso del 2016 al conferimento del Premio Carlo Magno, si fonda su tre capacità: «capacità di integrare, di dialogare e di generare». La Chiesa, con i suoi figli e figlie, può, in questo. giocare un ruolo fondamentale, cominciando, com’è nel suo Dna, dal basso, dall’andare incontro alle ferite dell’uomo, dal circondare con il suo abbraccio di misericordia e di perdono chi compie un passo falso ma poi sa riconoscere il proprio errore.
Più che sognatori e maestri oggi servono davvero testimoni, oltre all’ardimento c’è bisogno di pazienza, e se un coraggio andiamo cercando è quello che fa rima con chiarezza, capace di chiamare bene il bene e male il male. Come i muri, le barriere, i ’lager’ costruiti sulle coste del Mediterraneo, che sono vernice nera sull’anima delle popolazioni civili, catastrofe del bene comune, «naufragio di civiltà». Ma la denuncia da sola non basta, servono braccia per sollevare chi fa fatica, servono mani unite nella preghiera, servono scarpe solide per incamminarsi sul sentiero, culturale prima e fisico poi, che porta ad abbattere le barriere, recuperando l’insegnamento di Elie Wiesel, il Nobel per la pace richiamato dal Papa a Lesbo: «Quando le vite umane sono in pericolo, quando la dignità umana è in pericolo, i confini nazionali diventano irrilevanti ».
A Cipro e in Grecia, quei fratelli recintati dalla miseria hanno come in ogni geografia della povertà, volti, storie, nomi. Sono le parole e il cuore di un’Europa che non può e non deve smarrire la sua vocazione di democrazia solidale. Sono la paura e la speranza di ogni uomo e ogni donna che chiede aiuto per non perdere la dignità di essere umani.
Cultura
Gianni Rodari, il comunista delle filastrocche
ITINERARI. Dall’adesione al partito al metodo rivoluzionario del marxismo critico. Il suo punto di riferimento è Gramsci, perfettamente inscritto nella tradizione umanistica italiana. Essere nel Pci nell’Italia del 1945 non è come esserlo solo due anni dopo. I comunisti sono chiamati, insieme a tutte le forze laiche e cattoliche, a scrivere la Costituzione
di Vanessa Roghi (il manifesto, 17.01.2021)
Chiamato nel 1950, dal Pci, a scrivere un’autobiografia per tracciare il suo percorso politico durante il ventennio, Gianni Rodari racconta il momento della scelta, durante la guerra di Etiopia. «In quell’epoca i miei filosofi erano Nietzsche, Stirner e Schopenhauer e trovavo ridicolo l’Impero». Amici operai sono il tramite a letture proibite: «In casa di uno di questi conobbi uno che ‘era stato un comunista’ nel 1921, il compagno Furega Francesco, muratore, della sezione di Gavirate, che mi raccontò a suo modo la nascita del fascismo».
Grazie a questo gruppo clandestino Rodari legge «una ‘vita di Lenin’, una di Stalin, e l’autobiografia di Trockij e la storia della Rivoluzione dello stesso Trockij. Queste opere ebbero due risultati: quello di portarmi a criticare coscientemente il corporativismo e quello di farmi incuriosire sul marxismo come concezione del mondo».
FINITA LA GUERRA, Gianni Rodari diventa un militante del Pci. Il suo punto di riferimento (suo e di tanti) è ovviamente Antonio Gramsci, perfettamente inscritto nella tradizione umanistica italiana, è la miglior difesa contro l’accusa che viene mossa al Pci di essere una mera espressione dello stalinismo in salsa mediterranea. Questo diventa chiaro con i Quaderni dal carcere (1947) che Palmiro Togliatti sceglie di far pubblicare dall’editore Einaudi e non da un editore comunista: Gramsci è esso stesso parte della cultura nazional popolare, è di tutti, e tutti con Gramsci devono fare i conti.
Nel 1948 Gianni Rodari scrive: «in Gramsci vive un tipo nuovo di «uomo di cultura. (...) La sua lotta contro Croce è un continuo smascheramento di posizioni teoriche e teoretiche che si presentano come posizioni universali e disinteressate dello spirito, per rilevarne il significato ed il valore storico di strumenti della conservazione sociale».
Il marxismo è un metodo, è costante ricerca, è scoperta della realtà, svelamento della conservazione.
INSIEME A GRAMSCI, il marxismo di Rodari si nutre di Bertolt Brecht di cui traduce nel 1945 La linea politica. Il poeta tedesco rappresenterà un riferimento costante sul senso di essere scrittori e comunisti: «Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?». Nella Storia degli uomini pubblicata a puntate su Vie nuove nel 1958 così come nella Storia universale, Rodari risponde: «C’erano solo gli uomini con due braccia per lavorare». Lo scrittore comunista, dunque, non ha solo come suo ideale committente il movimento operaio ma si impegna ad ascoltarne la voce nella storia.
ESSERE NEL PCI nell’Italia del 1945 non è come esserlo solo due anni dopo. I comunisti infatti sono chiamati, insieme a tutte le forze laiche e cattoliche, a scrivere la Costituzione e fondare la Repubblica. Ma, dopo il 1947, con l’estromissione del Pci dal governo e l’inizio della guerra fredda, la divisione del mondo in blocchi si ripercuote concretamente nell’attività dei militanti italiani. Serve un giornalismo che racconti i motivi di questa frattura e delinei i caratteri dell’’uomo nuovo’ comunista: questo fa Rodari sull’Unità. E quando il Pci gli chiede di scrivere per i bambini, lui accetta. «La generazione che il Pci ha rastrellato durante la Resistenza è quella che meno si è preoccupata di vocazioni personali».
Anche la direzione de Il Pioniere nel 1950 è un incarico che Rodari accetta per disciplina: lo obbliga infatti a lasciare Milano e trasferirsi a Roma. Ed è proprio per il suo ruolo centrale nella costruzione di una stampa popolare per ragazzi che interviene nel 1951 nella nota polemica sui fumetti con Nilde Iotti e Palmiro Togliatti: una polemica spesso presentata come la prova del fatto che Rodari fosse un comunista «eretico». In realtà una normale discussione, tipica del tempo (tesi, antitesi, sintesi del segretario) in cui alla fine Rodari e Togliatti non sono poi così distanti.
IOTTI INFATTI STIGMATIZZA il fumetto americano, violento. Rodari contesta l’opinione che non possano darsi fumetti «diversi da quelli americani» e conclude auspicando «la nascita di una nuova letteratura per l’infanzia» che comprenda accanto ai libri i fumetti. Togliatti rilancia dicendo che auspica «di riuscire a creare una letteratura e una pubblicistica per bambini e ragazzi che attirino, piacciano, educhino». E questo proverà a fare Gianni Rodari, sui periodici comunisti degli anni Cinquanta.
Nel 1956 rimane nel Pci, nel 1958 però passa a Paese sera, lasciando l’Unità. Secondo alcuni critici la militanza comunista di Rodari si farebbe più blanda a partire dal 1960, in coincidenza con la pubblicazione dei suoi libri con Einaudi. Rodari è consapevole di questa diffidenza politica che per conto suo rigetta: sa di essere la «quinta colonna comunista nella grammatica italiana», come scrive parafrasando una stroncatura di Guareschi sul Borghese. Che la sua è la «via sbagliata al socialismo».
Il solco che si apre fra Rodari e la «politica culturale» del Pci è però compensato dal rapporto fecondo che lo scrittore ha con i suoi compagni che da Reggio Emilia al movimento dei genitori democratici rappresentano quella via italiana al socialismo che Rodari rivendicherà sempre, facendolo rimanere saldo dentro al partito (Perché ho dedicato il mio libro alla città di Reggio Emilia, 1974).
Le critiche mosse alla sua svolta linguistica sono il sintomo di quel marxismo critico che «non utopizza: ha già la cosa nella mano, e nella cosa stessa ha messo la sua morale e il suo idealismo», come ha scritto Antonio Labriola. Rodari, invece, a un certo punto, inizia a «utopizzare»: sarà l’incontro con la fiaba o con lo strutturalismo e la linguistica, o con i maestri dell’Mce, ma a Rodari l’utopia sembra importante come la vista o l’udito. Inevitabile, dunque, il mutare del suo sguardo sul comunismo sovietico che vede crollare come progetto proprio per l’incapacità politica di educare alla fantasia, indispensabile tassello dell’utopia.
SCRIVE NEL 1979: «faccio obiezioni alle uniformi uguali, rispondono ‘l’uniforme educa, serve alla disciplina’. Mai esprimere un parere personale. Tutti accettano le spiegazioni date. Non so come in una scuola del genere possa mai nascere un movimento, un’iniziativa dal basso. Del resto, è un problema di tutto il sistema di democrazia socialista»
Scrive su questo una poesia: «La signora B dovette scendere a Brest/ le mancava il timbro dell’albergo/ compagni compagni cos’è come accade/ non avete fatto una rivoluzione/ per aumentare i timbri/ ma per distruggerli/ io non vi farò la lezione/ non dirò al russo che ha pagato per me/ che nella sua rivoluzione mancava qualcosa/ anch’io sono comunista/ tale mi chiamo per dare un nome alla speranza».
Essere comunista è, dunque, un modo di dare un nome alla speranza. Rodari rigetta l’alternativa imposta ai poeti dal comunismo: essere poeti rivoluzionari o essere poeti della rivoluzione. La rivoluzione è un metodo. Guarda con diffidenza gli apocalittici suoi coetanei, con simpatia il movimento del 1977 con i suoi slogan in rima, figli delle sue filastrocche. Il Pci non gli riconoscerà mai alcun incarico ufficiale nel nazionale, e abbandonerà il Giornale dei genitori che Rodari dirige dal 1968. Amareggiato, in una lettera scrive: «Se quando in Italia si parla di letteratura infantile bisogna fare al primo posto il nome di un comunista, con tutto quel che la cosa comporta, qualche merito ce l’ho anch’io».
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Graphic novel: «Sepolti vivi», la protesta di trecento minatori
Tra Cabernardi e Percozzone, vicino a Ancona, nelle Marche si trovava, nel dopoguerra, la più grande miniera di zolfo di Europa, di proprietà della Montecatini che, nel 1952, aveva deciso di chiudere e chiudendo licenziare tutti gli operai. Così nacque la protesta che vide più di 300 minatori asserragliarsi al 13° livello della miniera per più di un mese. Gianni Rodari, scrisse in quella occasione una lunga inchiesta su Vie nuove, rotocalco comunista: Viaggio sulla terra dei sepolti vivi, intrecciando, nel racconto, la battaglia politica e le storie private di chi fu protagonista dell’occupazione. Una di queste storie è quella di Ernesto Donini, un giovane minatore di Pergola che «voleva vedere la moglie, Maria, dopo ventiquattro giorni, almeno per un istante». Così i due escogitarono un modo di incontrarsi per un breve saluto all’uscita di sicurezza, presidiata dai celerini.
«Tredici livelli di miniera significano ventisei rampe di scale, ogni rampa supera un dislivello pari a cinque o sei piani di una casa moderna. Questa ’uscita di sicurezza’ assomiglia da vicino alla tormentosa invenzione di uno scrittore fantastico». Al loro incontro Ciro Saltarelli e Silvia Rocchi si sono ispirati per un graphic novel pubblicato da El (Einaudi ragazzi, pp. 96, euro 14). Inedito e bellissimo omaggio al fantastico scrittore. (vanessa roghi)
* Scheda. «Enciclopedia» per lo scrittore
A conclusione del centenario della nascita di Gianni Rodari, Electa dedica allo scrittore il secondo titolo della nuova collana Enciclopedia: «Rodari, A-Z», autori vari, a cura di Pino Boero e Vanessa Roghi, pp. 320, euro 34). Una sequenza di voci correlate e indipendenti, insieme a una biografia illustrata con fotografie, copertine di libri per raccontare un fantasioso editorialista, ironico polemista, grande riformatore della scuola, attento osservatore del rapporto fra grandi e piccoli, nonché esploratore della letteratura e artefice di racconti incantati che hanno affascinato molte generazioni. Come fosse un abecedario letterario, il volume è composto da 84 voci scritte da 56 autori. Come spiegano i curatori, «è un invito a un cambio di prospettiva. Abbiamo pensato che Rodari non dovesse essere guardato con una lente di ingrandimento ma semmai con un cannocchiale, da lontano». Così, a spiare la sua figura da lontano, sono docenti, pedagogisti, giornalisti, intellettuali e accademici, si va dal mondo dell’editoria e dell’infanzia a quello della militanza politica, dai luoghi della vita e del lavoro alle passioni per i libri e le riviste.
L’impero romano tra cambiamenti climatici e pestilenze
In un libro dello storico statunitense Kyle Harper
di Gabriele Nicolò (L’Osservatore Romano, 15 aprile 2020)
Si racconta che uno storico tedesco abbia addotto duecentodieci motivi per spiegare il crollo dell’impero romano. Molto più parco è lo storico statunitense Kyle Harper che nel libro Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero (Torino, Einaudi, 2019, pagine 520, euro 34) di cause - a parte quelle “istituzionali” legate sia alle farraginose dinamiche della ormai fatiscente struttura governativa che al logorio dell’esercito e delle forze di combattimento in generale - ne individua due: i cambiamenti climatici e le pestilenze. Vale a dire, due cause che rivestono, evidentemente, un valore di attualità sorprendente e disarmante.
È vero che Giulio Cesare si vantava che i suoi soldati erano così vigorosi nel fisico che potevano resistere sia ai rigori dell’inverno che ai torridi raggi del sole d’estate, ma è altrettanto vero - rileva lo storico statunitense in un’intervista al settimanale francese «Nouvelle Observateur» - che i bruschi cambiamenti del clima, attestati tra l’altro da numerosi documenti d’epoca, con graduale e non arginata pressione finirono per incidere profondamente sulla popolazione dell’impero, e in particolare sulla psiche dei soldati, resi più vulnerabili dalle continue privazioni, inevitabile prezzo da pagare in una vita spesa sui campi di battaglia. E a dare il colpo di grazia al già fatiscente impero - sottolinea Harper - furono le pestilenze, la cui propagazione fu alimentata dalla vertiginosa crescita del numero della popolazione, non solo a Roma, ma anche nelle zone limitrofe, ovvero nelle campagne che, col declinare dell’impero, non vennero più adeguatamente bonificate come invece accadeva nei giorni di gloria.
In particolare - sostiene lo storico - a sbaragliare ogni forma di resistenza fu lo Yersinia pestis, che corrisponde alla moderna accezione di peste bubbonica. Un inquietante intreccio di morbi e di germi invase vaste regioni dell’impero mietendo, senza pietà, lutti e devastazione. I romani - ricorda Kyle Harper - avevano saputo come sconfiggere i nemici, anche perché aveva saputo imparare dalle lezioni derivanti dalle sconfitte subite. Ma non avevano le conoscenze e i mezzi adeguati per fronteggiare le ricorrenti pestilenze che certo potevano “approfittare”, per attecchire e poi infuriare, anche della mancanza di social distancing, misura certo non praticabile visto che i romani solevano vivere in ambienti molto ristretti e in accampamenti sovraffollati.
NOTA:
L’Impero romano e la ragione nascosta della sua caduta: una questione "filologica", epocale! L’ "In principio era il logos" (e sulla testa di tutti e di tutte, c’era la corona-virtus) diventa piano-piano l’ "In principio era il Logo" (e sul capo c’era il coronavirus)!!!
Federico La Sala
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
La sorte della rivoluzione russa nelle mani di Stalin
di Diego Giachetti (Dalla parte del torto, 22 Novembre 2019)
«L’arte staliniana della falsificazione e della disinformazione coglie ogni volta di sorpresa gli storici», così scriveva Jurij Alekseevič Buranov nel 1994 presentando il suo lavoro sulle ultime volontà di Lenin nella traduzione inglese, frutto di una ricerca basata in parte su documenti fino allora secretati e conservati negli archivi del Comitato Centrale del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Per merito delle edizioni Prospettiva marxista, della traduzione di Paolo Casciola che ha curato anche una lunga e dettagliata introduzione, abbiamo oggi a disposizione la versione italiana di questo testo poco conosciuto: Il “testamento” di Lenin falsificato e proibito (Milano, 2019).
La ricerca di Buranov riguarda le mosse attuate da Stalin e dalla cerchia a lui vicina, negli anni in cui stavano intraprendendo una lotta senza scrupoli per ascendere ai vertici del potere sovietico. Il primo, importante ostacolo che trovarono sul percorso furono le ultime iniziative promosse da Lenin, ormai gravemente malato ed emarginato via via dai centri di potere decisionali. Nel riprendere il tema dell’“ultima battaglia di Lenin”, per dirla col titolo del libro di Moshe Lewin, edito da Laterza nel 1969, Buranov poteva avvalersi di documenti rimasti fino ad allora sepolti negli archivi (pubblicati in appendice al testo) e, tra questi, la “sensazionale” scoperta dell’alterazione, operata da Stalin, di una parte di quello che è passato alla storia come il “testamento” di Lenin. Si tratta di note dettate da Lenin tra il dicembre 1922 e il gennaio 1923, raccolte sotto il titolo “Lettera al Congresso” per il XII congresso del Pcus al quale egli non poté partecipare. La lettera non fu presentata a quel congresso, occorrerà attendere un anno prima che fosse letta, peraltro a porte chiuse e in sedute ristrette, durante il XIII Congresso del maggio 1924.
Stalin “corregge” Lenin
Buranov ha ritrovato negli archivi la trascrizione manoscritta e la versione dattiloscritta -contenente alcune modifiche introdotte da Stalin - della prima parte di questa lettera al congresso, dettata da Lenin il 23 dicembre 1922. Non solo Stalin manipolò le note di Lenin, agì in modo tale da ritardarne la divulgazione preoccupato, a ragione, per diverse annotazioni negative sul suo conto che culminavano nella proposta di rimuoverlo dal suo incarico.
Le rivelazioni di Buranov vennero esposte e sostanzialmente condivise da Luciano Canfora nel suo libro La storia falsa (Rizzoli, 2008), il quale affermò che le manipolazioni introdotte avevano come scopo quello di ridimensionare la fiducia posta da Lenin nei confronti delle richieste di Trotsky sul Gosplan, la Commissione statale per la pianificazione economica nell’Unione Sovietica, ed erano parte di un disegno generale volto al controllo del lavoro che Lenin tentava di continuare a svolgere (tra i due c’era crescente dissenso su questioni cruciali come la questione georgiana) e sminuire la sintonia politica tra Lenin e Trotsky in quel momento, sintonia che lasciava intendere che Lenin designasse Trotsky come suo “successore” (pag. 52), timore nient’affatto infondato, soprattutto dopo che Lenin, nella nota del 4 gennaio 1923 era stato molto esplicito circa la necessità di rimuovere Stalin dalla carica di Segretario generale.
Nel riassumere i risultati della sua ricerca, l’autore scrive che nel dicembre 1922 Stalin con l’aiuto dei propri sostenitori, approfittò della malattia di Lenin per cercare di allontanarlo dalla vita politica del paese. Mediante tale azione venne deliberatamente creata una situazione nella quale Lenin fu costretto a rendere segreto il suo rapporto politico all’imminente congresso del partito. Essendo pienamente informato dell’attività di Lenin, il segretario generale escluse da tali informazioni Trotsky, verso il quale aveva motivo di considerarlo come il rivale numero uno nella lotta per la direzione del partito. Nello stesso tempo Stalin incominciò ad alterare i testi dettati da Lenin.
Ciò è dimostrato, come già detto, dal ritrovamento della copia originale del testo dettato da Lenin del 23 dicembre 1922, e dal taglio apportato all’articolo di Lenin sull’Ispezione Operaia e Contadina pubblicato sulla «Pravda» nel gennaio del 1923. Dei tagli apportati a quest’ultimo testo si seppe molti anni dopo, quando la versione originaria dell’articolo sull’Ispezione Operaia e Contadina fu rinvenuto nel 1956, mentre la manipolazione delle note del 23 dicembre 1922 non furono scoperte fino al 1989.
Trotsky esita
Nella lunga introduzione, Paolo Casciola opera un utile lavoro di contestualizzazione delle vicende narrate per segnalare ad esempio, che il lavoro di Buranov getta nuova luce sulla lotta avviata da Lenin contro Stalin e la burocrazia e dimostra, ancora una volta, che tra bolscevismo e stalinismo non esiste continuità politico-programmatica e, purtroppo, neppure fisica, nelle persone, visto che la separazione politica è stata poi sancita dalla linea di soppressione degli avversari della vecchia guardia bolscevica, voluta da Stalin negli anni delle grandi purghe, con i processi farsa di Mosca del 1936-38 prima e, successivamente, con periodiche “ripuliture” condotte tra gli stessi quadri e militanti stalinisti, finiti anch’essi nel tritacarne della macchina poliziesca sotto l’egida di quello Stalin che avevano servito e osannato. In questo quadro s’inseriscono le considerazioni critiche svolte nei confronti della “nuova” scuola della falsificazione riemersa nella recente biografia negazionista di marca neostalinista.
Molto spazio però è dedicato a quelle che l’autore dell’introduzione definisce le “fatali esitazioni di Trotsky”, destinate a pesare in maniera decisiva sulle sorti dell’Unione Sovietica. Non a caso nei documenti proposti in appendice all’edizione italiana, oltre a quelli allegati da Buranov stesso, sono aggiunti testi di Trotsky e altri, tra i quali la moglie di Lenin, riguardanti la diatriba apertasi sul lascito del “testamento” di Lenin.
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA (E DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO DELL’ "UOMO SUPREMO"): INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI...
LE PAROLE, LE COSE, E LE PERSONE: "Identità. Poche settimane fa l’europarlamentare Eleonora Forenza (area di Rifondazione di Potere al Popolo) ha scatenato una piccola bagarre nel minuscolo stagno della sinistra italiana. Forenza ha bollato, su Twitter, la Brexit come “pasticcio di maschi”, non negando una certa solidarietà ‘femminista’ a Theresa May e alla gatta da pelare che i colleghi “maschi” le avrebbero rifilato. L’uscita infelice di Forenza non è cosa nuova (ma preoccupa che venga da una gramsciana). È parte integrante di un certo orientamento della sinistra diritto-civilista e culturalista, cioè di quella sinistra che, pur non escludendo le questioni legate al mondo del lavoro e della produzione, individua ormai nei diritti civili la principale chiave d’intervento sociale e, proprio a causa di tale scelta, si ritrova fatalmente irretita all’interno di un uso distorto del concetto di “identità”. Tale posizionamento (largamente maggioritario anche nel Partito Democratico) è stato spesso già portato a critica". Così inizia la riflessione di Mimmo Cangiano su “Intersezionalità, identità e comunità: a che punto siamo a sinistra” ("Le parole e le cose", 10 giugno 2019).
CONSIDERATO CHE ORA COME ORA proprio perché, come scrive l’autore,
nel condividere e nell’accogliere l’invito gramsciano citato in esergo (“quando tutto sembra perduto bisogna / mettersi tranquillamente all’opera / ricominciando dall’inizio”) e, INSIEME, nel RICORDARE che FORENZA è VICINO ACERENZA, in BASILICATA (là dove fu confinato l’Autore di "Cristo si è fermato ad Eboli"),
sul problema di lunga durata del nostro presente storico, IO CONSIGLIEREI DI RIPRENDERE IL DISCORSO proprio da "CAPO", da GRAMSCI.
FORSE è TEMPO di interrogarci un po’ più radicalmente! La sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico è già "vecchia" ed uscire da uno "stato di minorità" in cui versiamo da millenni, intrappolati come siamo in una logica adamitica ("Adamo ed Eva"!) di un cieco, cainico, teologico-dialettico, edipico, molochiano, capitalistico "familismo amorale" non è un gioco da "ragazzi"!
Bisogna aprire gli occhi (non "chiudere un occhio"! su "«chi» siamo noi in realtà e, nello stesso tempo, saper sognare il sogno di una cosa. Forse non è (ancora!) possibile?! Boh e bah...
Federico La Sala
USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" ...*
Un puzzle di idee per leggere il presente
Scaffale. «Gramsci e il populismo», a cura di Guido Liguori. Nel volume Unicopli sono stati raccolti i contributi degli studiosi al simposio di ottobre
di Lelio La Porta (il manifesto, 06.04.2019)
Secondo Aristotele, tre sono le forme di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la politìa. Ognuna di queste forme di governo presenta una patologia degenerativa, ossia la tirannide, la oligarchia e la democrazia, così definita dal filosofo greco, ma che in realtà, oggi, chiamiamo demagogia.
PRENDENDO IN PRESTITO dallo Stagirita questo modello, ne conseguirebbe che la patologia degenerativa della democrazia attuale sia il populismo il quale si proporrebbe come una forma di propaganda che, trascinando il popolo (come si evince dall’etimologia del termine greco demagogia che si pone come succedaneo di populismo) attraverso promesse e lusinghe, aspira alla conquista del potere e al suo mantenimento anche di fronte alle promesse non mantenute. Si tratta, fin qui, del populismo sub specie politica, o, se si vuole, del populismo come può essere spiegato nei termini dell’attualità politica nostrana e, forse, non solo nostrana.
A partire dagli scritti di Ernesto Laclau e di Chantal Mouffe (si vedano del primo, ora scomparso, La ragione populista, della seconda Per un populismo di sinistra, anche se all’origine della querelle va posto il testo scritto in collaborazione fra i due ed intitolato Egemonia e strategia socialista), anche il nostro Gramsci è stato chiamato in causa dai detrattori o dai sostenitori del populismo. Per fare chiarezza sulla questione, la International Gramsci Society-Italia ha organizzato lo scorso 12 ottobre un seminario i cui esiti sono ora raccolti in un volume: Gramsci e il populismo, a cura di Guido Liguori (Unicopli, pp. 171, euro 15; si tratta, en passant, del primo volume della nuova collana Per Gramsci presso l’editore milanese).
I SAGGI che compongono il volume sono undici più la Prefazione di Liguori. Essi vanno dalla ricognizione di carattere logico-storico, con ampi e doverosi riferimenti ai lavori di Laclau e Mouffe, intorno ai concetti di populismo, nazionale-popolare, popolo, «socialismo nazionale», popolo-nazione (Cingari, Mordenti, Frosini, Voza), al nesso egemonia-educazione versus ragione populista (Meta, Prospero), dal populismo nel dibattito contemporaneo (Anselmi) al «populismo di sinistra» alla Iglesias (Campolongo), per arrivare a Gramsci «icona dei neoborbonici» (Durante) e chiudere con la proposta di Nancy Fraser del «femminismo 99%» (Forenza).
La diversità dei punti di vista delle/degli autrici/autori pone alla/al lettrice/lettore la necessità di una notevole attenzione nell’approccio ai testi e nella loro analisi. Da diversi interventi emerge, comunque, anche grazie al tono deciso delle affermazioni e alla sicurezza, filologicamente supportata, l’esclusione di qualsiasi possibilità di recupero del nazionale-popolare e dell’egemonia gramsciane all’interno «di una cornice di pensiero ispirata al populismo»; questo in linea di continuità con chi aveva definito il populismo «un’entità cangiante» e aveva avvertito circa la inammissibilità di «immissioni populiste... nella teoria di Gramsci sull’egemonia» (N. Merker, Filosofie del populismo) e non solo sull’egemonia, ci sentiamo di aggiungere in continuità con molte/i delle/degli autrici/autori. Inoltre, lì dove si volesse tenere in considerazione l’analisi delle forme degenerate di democrazia proposta da Aristotele, ossia la succedaneità di populismo e demagogia, potremmo assumere come punto di riferimento una nota di seconda stesura dei Quaderni del carcere (Quaderno 19, §28) in cui Gramsci, definendo demagoga (populista) la destra risorgimentale, spiega le caratteristiche di tale atteggiamento che consistono nel ridurre il popolo-nazione ad oggetto, a strumento, «degradandolo», proprio nell’ottica populista dei partiti di destra «in polemica» con quelli di sinistra, fermo restando, aggiunge Gramsci, che ad aver esercitato «la peggiore demagogia» (populismo) sono stati i partiti di destra che, per questo, come Napoleone III in Francia, non hanno esitato a fare ricorso alla «feccia popolare».
UN’ULTIMA OSSERVAZIONE, che ci riconduce a quanto scritto in diversi dei contributi raccolti nel volume; se popolo è superamento della classe marxianamente intesa, è scioglimento delle classi in una forma indistinta a cui si vuole dare necessariamente un contenuto, si rischia di perdere di vista la realtà per quella che è, ossia il campo sul quale si scontrano gli interessi antagonisti di oppressori ed oppressi, di dominanti e subalterni. Sarebbe la fine della politica (in quest’ottica andrebbe meglio definita l’esperienza populista di sinistra spagnola, come avverte Campolongo nel suo intervento); ma forse questo è lo scopo ultimo dei populismi, neutralizzare il potere delle masse. Proprio per questo, sembra che con il populismo Gramsci abbia nulla a che vedere.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche... *
Un saggio di De Bernardi
Il fantasma perpetuo del fascismo
di Alessandra Tarquini (Corriere della Sera, 15.01.2019)
Perché nel dibattito pubblico ricorre la percezione di un riapparire del fascismo? Alla domanda risponde Alberto De Bernardi nel libro Fascismo e antifascismo (Donzelli, pagine 176, e 17), che offre una grande lezione di storia contemporanea. De Bernardi ricorda che di pericolo risorgente parliamo da tempo: era «ritorno del fascismo» il centrismo di De Gasperi e di Scelba, così come il tintinnar di sciabole del centrosinistra o anche il «fanfascismo» nei primi anni Settanta; furono definiti fascisti Bettino Craxi e Silvio Berlusconi.
Non si è trattato solo di polemiche politiche: sin dalla fine della guerra, intellettuali di diversa provenienza hanno individuato un fascismo persistente contrapposto all’antifascismo. Di fatto, fascismo e antifascismo sono diventate categorie generiche: «due archetipi metastorici del lessico politico». Così queste parole hanno perso il loro senso, come mostrano la discussioni di oggi.
De Bernardi ricorda che il recente sovranismo ha ben pochi punti di contatto con l’idea di nazione della prima metà del Novecento. Lo stesso ritorno della xenofobia è espressione di un’autodifesa identitaria e non certo di teorie sulla superiorità della razza ariana. Il razzismo italiano degli anni Trenta fu il prodotto della volontà di creare un uomo nuovo, non certo del tentativo di difendersi dalle ondate migratorie o da trasformazioni dell’economia.
Ma soprattutto, mentre la crisi degli anni Venti derivò dall’incapacità dello Stato liberale di integrare le classi subalterne, quella attuale sembra il prodotto della sconfitta della politica. Il regime totalitario fascista ha affermato il primato della politica sulle altre espressioni dell’esistenza, producendo una nuova modernità rivoluzionaria, alternativa a quella emersa dalla Rivoluzione francese. Oggi assistiamo alla diffusione di una concezione non mediata dei rapporti tra masse e Stato. In una società aperta e multiculturale che ha eroso i loro redditi, le classi medie mostrano una sfiducia radicale nella possibilità di cambiare il mondo.
La storia non si ripete. Ecco la lezione di questo libro che richiama uno degli storici più importanti del Novecento: l’antifascista Marc Bloch scrisse che la storia è irreversibile. Un invito a capire la specificità del tempo.
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO.
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
ROSA LUXEMBURG
Berlino, murales con una sua frase: «La libertà è sempre soltanto libertà di chi pensa diversamente»
Una vita intensa e troppo breve
La Rosa rossa 1919-2019. «Socialismo o barbarie», contro il militarismo e i nazionalismi. La biografia di Rosa Luxemburg
di Aldo Garzia (il manifesto, 15.01.2019)
Vita breve, intensa, quella di Rosa Luxemburg.
Con alcune intuizioni teoriche che forniscono una lettura particolare del marxismo e delle conseguenze della rivoluzione russa del 1917. Infatti, prese posizione contro il revisionismo teorico di Eduard Bernstein ma fu anche critica rispetto al modello leninista di organizzazione del partito (troppo elitario, troppo per «quadri» d’avanguardia). Il che non impedì che al Congresso dell’Internazionale di Stuttgart del 1907 fu proprio Lenin a volerla fra i delegati cedendole un posto nella delegazione del Partito bolscevico.
Per Rosa Luxemburg, come per Gramsci, la rivoluzione doveva essere un processo di continua conquista di «casematte», di maturazione collettiva attraverso la strategia consiliare che avrebbe dovuto garantirne la democraticità. Ecco perché Lelio Basso, che studiò a lungo i suoi scritti, la definì esponente di un originale «socialismo libertario».
Rosa nasce a Zamość, Polonia russa, il 5 marzo 1871 da genitori ebrei. Il padre era un commerciante di legname. Quando ha appena due anni, la famiglia va a vivere a Varsavia. Una malattia all’anca la rende claudicante per tutta la vita. Al liceo entra in contatto con il gruppo clandestino Proletariat, di cui diventa militante. Nel 1889 espatria in Svizzera, perché ricercata dalla polizia. Si iscrive alla facoltà di Filosofia di Zurigo per poi passare a quella di Diritto e Scienze politiche. Si laurea nel 1897 con una tesi sullo sviluppo industriale della Polonia, redatta in un soggiorno a Parigi.
Entra in contatto con gli ambienti dei rifugiati politici russi e polacchi. Conosce Leo Jogiches che diventa suo compagno di lotta e poi di vita per un periodo. Gli anni di Zurigo sono quelli della formazione teorica e dell’impegno politico finalizzato soprattutto alla costruzione del Partito socialdemocratico polacco, successivamente trasformatosi in Partito socialdemocratico di Polonia e Lituania. Nel 1898 abbandona la Svizzera e va a vivere in Germania.
Lo stesso anno ottiene la cittadinanza tedesca. Milita da subito nell’ala sinistra della socialdemocrazia guidata da August Bebel, Si reca a Varsavia nel 1905, dove viene arrestata per la sua attività rivoluzionaria insieme a Jogiches. Riesce a tornare in Germania, dove partecipa a tutti i più importanti dibattiti nella Spd (il partito socialdemocratico), in particolare contro il militarismo e il nazionalsciovinismo che portano alla votazione in Parlamento dei crediti di guerra da parte dei deputati socialdemocratici con l’assenza di un’opposizione alla prima guerra mondiale.
Dal 1907 al 1914 insegna economia politica alla scuola di partito di Berlino. Durante la guerra, nonostante lunghi periodi di prigionia, non interruppe gli studi e la stesura dei suoi scritti. Nel 1916 è con Karl Liebknecht tra i fondatori dello Spartakusbund, il movimento spartachista che prendeva il nome dal gladiatore che aveva guidato la ribellione degli schiavi nell’impero romano. Da quel momento, con la fine di fatto della Seconda internazionale e la trasformazione assai moderata della socialdemocrazia tedesca, Luxemburg si impegna per la ricostituzione di una forza marxista rivoluzionaria che vedrà la luce proprio con la fondazione dello Spartakusbund che poi si scioglierà nel Kpd, il Partito comunista tedesco, nel 1918.
Quando scoppia la Rivoluzione russa del 1917, Rosa è convintamente al fianco dei bolscevichi. Ciò non le impedisce di avvertire i pericoli del sistema a partito unico e dall’abbandono della strategia consiliare dei soviet. Critica anche lo scioglimento dell’Assemblea costituente e la firma del trattato di Brest-Litovsk con cui la Russia esce dalla prima guerra mondiale. Lo fa nell’estate del 1918, dal carcere, dove trascorre la maggior parte del periodo tra il 1915 e il 1918. Nel pieno del tentativo della rivoluzione tedesca, viene assassinata il 15 gennaio del 1919 insieme a Karl Liebknecht (Leo Jogiches sarà assassinato nel marzo successivo) dai Freikorps, reparti militari agli ordini del governo di cui facevano parte pure i socialdemocratici: una tragedia. Rosa Luxembug aveva appena 48 anni.
La sua opera fondamentale è considerata L’accumulazione del capitale, apparsa nel 1913, prezioso contributo allo studio della politica imperialistica e coloniale dell’epoca. Il filosofo ungherese György Lukács considerava questo testo insieme a Stato e Rivoluzione di Lenin «le due opere fondamentali con le quali rinasce storicamente il marxismo moderno».
«Nel 1986 i riflettori dei cinema si accendono su Rosa Luxemburg con il rigoroso film di Margarethe von Trotta, interpretato da Barbara Sukowa e presentato a Cannes, ora visibile nella versione italiana su youtube, mentre verrà riproposto a Roma alla Casa del cinema il 21 gennaio, presente von Trotta. Dieci anni prima, nel 1976, in Italia veniva rappresentata la monografia teatrale «Rosa Luxemburg» di Luigi Squarzina e Vico Faggi.
Ricca è la reperibilità di testi di Rosa Luxemburg: “L’accumulazione del capitale, edizioni Pgreco, 2010 (è il testo più famoso, un’analisi del colonialismo e del moderno capitalismo); “La rivoluzione russa. Un esame critico”, Massari editore, 2004; “Un po’ di compassione”, Adelphi, 2007 (la descrizione delle disumane condizioni carcerarie nel penitenziario di Breslavia); “Socialismo, democrazia, rivoluzione”, Editori Riuniti University press, 2018 ; “Riforma sociale o rivoluzione?” , Editore Prospettiva, 2009; “Lettere 1915-1918”, edizioni Pgreco, 2017; “Lettere di lotta e disperato amore”, Feltrinelli, 2019 (le missive dal carcere); “Scritti politici” (due volumi prefati e curati da Lelio Basso), Editori Riuniti Internazionali, 2012; “La lega spartachista” (il programma del gruppo neocomunista, a cura di Gilbert Badia), Pgrego, 2016. Di Lelio Basso, il socialista italiano che più di altri ha studiato la comunista polacco/tedesca: “Per conoscere Rosa Luxemburg”, Mondadori, 1970. (a. ga.)
La Rosa rossa 1919-2019. Cento anni fa, colpendo Liebknecht e la Luxemburg i controrivoluzionari tedeschi non colpivano solo le figure fisiche di due prestigiosi capi rivoluzionari, ma il patrimonio ideale e politico che in essi si era incarnato
di Enzo Collotti (il manifesto, 15.01.2019)
A cento anni dall’uccisione di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg ad opera di soldati controrivoluzionari con la connivenza di una parte della socialdemocrazia tedesca, non è spenta la memoria della guerra civile che dilaniò con il movimento operaio tedesco il movimento operaio internazionale. L’ombra di questa guerra civile si allungò sulla repubblica di Weimar fino alle soglie del potere nazista.
Colpendo Liebknecht e la Luxemburg i controrivoluzionari tedeschi non colpivano solo le figure fisiche di due prestigiosi capi rivoluzionari, ma il patrimonio ideale e politico che in essi si era incarnato. Con essi moriva la Seconda Internazionale che era naufragata con la sua impotenza dinnanzi all’esplosione della Prima guerra mondiale, lasciando senza guida e senza orientamento milioni di uomini e donne che negli ideali dell’antimperialismo, dell’antimilitarismo e della solidarietà internazionale avevano dato vita tra la fine dell’Ottocento e la prima decade del Novecento ai grandi movimenti di massa per il suffragio universale e l’affermazione dei diritti socialii.
Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg rappresentavano con la Lega Spartachista il tentativo di resuscitare un movimento rivoluzionario tra le rovine della guerra e le prospettive aperte dalla rivoluzione russa di ottobre. La lunga solitaria battaglia condotta da Liebknecht contro il voto ai crediti di guerra della socialdemocrazia tedesca ne fece il leader naturale dell’opposizione alla guerra e di un’alternativa alla politica della socialdemocrazia.
Liebknecht continuò ad essere un uomo solo anche nei mesi finali della guerra quando il malcontento serpeggiava tra grandi masse popolari, al fronte e dietro il fronte. Ma le grandi masse in rivolta non volevano la rivoluzione, volevano più semplicemente la fine della guerra che aveva isolato la Germania e ne aveva costretto alla fame e all’indigenza la popolazione.
Prima ancora che la loro uccisione ne facesse martiri e simboli della rivoluzione tradita, Liebknecht e la Luxemburg furono incessanti promotori della critica alla subalternità della socialdemocrazia alla politica di classe della borghesia prussiana e delle forme di repressione esercitate contro le minoranze di opposizione. Soprattutto la Luxemburg fu sensibile agli stimoli che provenivano dalla rivoluzione russa del 1917, della quale percepì precocemente la natura di prodromo della rivoluzione mondiale e il germe di una nuova Internazionale.
Fu proprio l’esplosione della rivoluzione in Russia che sollecitò Liebknecht e la Luxemburg ad accelerare la spinta rivoluzionaria in Germania nella duplice ottica di sottolineare la solidarietà con il movimento in Russia ed inserire la Germania in un processo rivoluzionario continentale. In realtà la storia ha dimostrato che mancavano le premesse per un processo di questo tipo; non solo in Germania ma anche altrove in Europa il movimento operaio si mosse in direzioni diverse. Liebknecht, grande agitatore politico e tenace combattente contro la guerra, e Rosa Luxemburg, tra gli ultimi teorici del marxismo, furono travolti dal loro estremo tentativo di porre la minoranza spartachista alla testa della rivoluzione in Germania.
Karl Liebknecht non fu solo uno straordinario tribuno popolare, era, come la Luxemburg, un grande intellettuale, un grande protagonista del binomio tra lotte parlamentari e lotte di massa, bersaglio preferito per questo dei conservatori prussiani quanto amato e quasi venerato nei ceti popolari, che lo consideravano lo scudo dei loro interessi. Prima ancora che come il fondatore del Partito Comunista tedesco Liebknecht, fu vissuto nella memoria popolare come il vindice delle ingiustizie e dei soprusi.
A cento anni dall’uccisione di queste due straordinarie figure dalla loro eredità discende un patrimonio di idee e un metodo di ricerca che il tempo non ha cancellato e che costituiscono tuttora un obiettivo a cui guardare nella lotta per il raggiungimento di una società più giusta.
Luciano Canfora "Io, Artemidoro e la mia guerra ai falsari geniali"
Dopo la sentenza della Procura di Torino, parla lo studioso che aveva considerato il Papiro sin dall’inizio una truffa. "Chi ha studiato con me è stato vittima di pressioni e minacce. Salvatore Settis? Lo considero ancora un amico"
Intervista di Dario Olivero (la Repubblica, 12.12.2018)
Questa storia si può raccontare, come tutte le storie, in molti modi. Uno è quello della procura di Torino: il Papiro di Artemidoro è un falso, non si procede per truffa solo perché il reato è caduto in prescrizione. Un altro è quasi conradiano: il Papiro di Artemidoro è il campo di battaglia di due duellanti, Salvatore Settis che ne ha perorato l’acquisto e difeso l’autenticità fino all’ultimo sangue e Luciano Canfora che fin dall’inizio l’ha messa in dubbio. Un terzo è la detective story con tutti gli ingredienti del noir: un falsario geniale, un venditore oscuro, un acquisto affrettato, svariate autopsie filologiche e scientifiche, misteri, depistaggi, esperti entrati e usciti di scena, molti soldi. E, naturalmente, un investigatore ossessionato dalla verità.
Professor Canfora, perché ha dedicato tredici anni della sua vita a dimostrare che il Papiro di Artemidoro è falso? È ossessionato?
«Per nulla», risponde al telefono da Bari il giorno dopo la notizia arrivata dalla procura di Torino che gli dà ragione. «Semmai sono uno curioso che desidera sempre andare a fondo. Mi sono occupato e mi occupo di tante cose con la stessa curiosità e, visto che non esistono ossessioni multiple, il Papiro non è la mia ossessione. Nessuno lascia a metà una ricerca o un problema, bisogna lavorare con disciplina rispettando lo stile che richiede una materia come la filologia».
Ma perché proprio il Papiro?
«Mi imbattei nel Papiro mentre lavoravo su tutt’altro. La mia ricerca mi portò a studiare i modi di ritrovamento e acquisto dei materiali papiracei negli anni Venti e Trenta, un periodo di grande fioritura. Un fondo si trovava a Milano al centro Achille Vogliano. Lì vidi dei lucidi che raffiguravano il cosiddetto Papiro di Artemidoro. Era il 2006, mi chiesero di esprimermi e scrissi un articolo in cui esortavo alla cautela sulla sua autenticità».
E come mai la storia non finì lì?
«L’Enciclopedia italiana, di cui faceva parte anche Settis, mi chiese di scrivere la voce "Papiro" con la precisa richiesta di dare molto spazio a questa novità appena esposta a palazzo Bricherasio. Allora approfondii lo studio e pubblicai sui Quaderni di storia i miei rilievi e li mandai a Settis che mi disse che anche lui all’inizio aveva avuto dei dubbi. Dopo alcune settimane, lo dissi anche in un’intervista. Due giorni dopo su Repubblica apparve un pezzo molto polemico del mio amico che mi chiamava in causa. A quel punto ritenni fosse mio dovere proseguire le indagini».
Lo chiama amico, lo siete ancora?
«Sì, lo siamo tuttora. I rapporti personali non possono essere intaccati da una disputa accademica».
C’è chi insinua che la sua battaglia fosse motivata dal risentimento per non essere stato chiamato alla Normale di Pisa.
«Ma certo che no. Quell’anno nessuno venne chiamato. Inoltre credo sinceramente che Settis mi fosse favorevole».
È vero che avete condiviso una stanza quando eravate studenti?
«Da studenti abbiamo dormito nella stessa stanza di un pessimo albergo di Taranto, ci stavamo laureando e avevamo ricevuto una colossale borsa di studio da 25mila lire per seguire un convegno. Mi ricordo che Settis chiese una birra ma non avevano neanche quella. Stiamo parlando del ’63: c’era ancora Togliatti».
Ma dai tempi di Togliatti quante volte vi siete sentiti negli ultimi tredici anni?
«Le ripeto, ci siamo visti spesso, per esempio nel consiglio scientifico della Treccani».
Mi aiuti a ricostruire la storia. Partiamo dal gallerista armeno, Serop Simonian, che vendette il Papiro all’allora Compagnia di San Paolo nel 2004 per 2 milioni e 750 mila euro. Lo ha mai incontrato?
«No, mai. Ha una galleria d’arte ad Amburgo, ma il personaggio è sospetto. Pensi che quando Eleni Vassilika, che poi avrebbe rifiutato il Papiro in comodato d’uso all’Egizio di Torino, era direttrice a Hildesheim aveva già avuto a che fare con lui ed ebbe molti problemi sull’autenticità e provenienza delle opere che trattava. Avemmo con lui due contatti: il primo fu quando Silio Bozzi, un dirigente della polizia scientifica, gli chiese il negativo di una foto scattata al Konvolut, cioè l’involucro da dove sosteneva provenisse il Papiro, e lui disse di no. La seconda per un invito a un convegno sul Papiro. Non venne».
Veniamo al secondo personaggio: il falsario. Si chiamava Simonidis, non le sarà sfuggita l’assonanza dei nomi dei due protagonisti.
«In effetti deve essere la provvidenza che si è divertita a mettere insieme un greco e un armeno di due secoli diversi nella stessa storia. Simonidis è un personaggio colossale. Non conosciamo né l’anno di nascita né quello di morte. Anzi, diffuse la notizia di essere morto ma in realtà si era ritirato in Egitto, secondo il Times (che non ne era del tutto certo) pare che sia morto in Albania nel 1890».
Falsificò la sua morte?
«Era un genio. Studiò sul Monte Athos dallo zio che era igumeno di uno dei monasteri. Imparò a disegnare teste, profili, imparò la composizione degli inchiostri antichi. Poi andò ad Atene dove pubblicò opere di argomento geografico con uno stile che imita quello bizantino. Studiò teologia a Istanbul, poi finì in Russia e cercò di smerciare una lista di testi greci che sosteneva aver portato dall’Athos ma l’Accademia di Pietroburgo li respinse. Erano tutti testi geografici come il Papiro».
Professore, se non sapessi che stiamo parlando del Papiro di Artemidoro, direi che lei stima questo falsario come certi detective ammirano i delitti di quelli a cui danno la caccia.
«Non mi sono invaghito, però in effetti so benissimo che la frequentazione assidua porta all’immedesimazione, Plutarco docet. Simonidis riuscì quasi a beffare l’Accademia delle scienze di Berlino. Ma, come diceva il grande filologo tedesco Wilamovitz: "Un falsario moderno per quanto bravo tradisce sempre la sua modernità"».
E torniamo al Papiro. E alla vittima. Perché la Compagnia di San Paolo lo acquistò? Non c’erano segnali che potesse trattarsi di una imprudenza?
«Nel 2004 nessuno aveva sospetti. C’era uno studio parziale tedesco del ’98. Certo, si tentò di venderlo anche in Spagna ma la Fondación Pastor sconsigliò, così come il Getty. Ma allora non era ancora scoppiato il caso. L’acquirente non aveva voci critiche che lo potessero allarmare».
Ma anzi, aveva il parere favorevole di Settis. Cosicché decise di esporlo in mostra.
«Esatto. Con tanto di sontuoso catalogo dal titolo Le tre vite del Papiro, oggi quasi introvabile».
Immagino non per lei.
«Io ne ho due o tre copie».
Comunque incominciò la sfida che è durata fino a oggi.
«Ma se io non fossi stato sollecitato ad occuparmene non lo avrei mai fatto. Uno deve disciplinare le energie».
L’archiviazione della procura di Torino sembra chiudere la storia. Eppure, come in un thriller, c’è un’autopsia ancora in corso. In questo momento il Papiro è a Roma all’Istituto centrale per il restauro. I proprietari, che hanno deciso di non intraprendere nessuna iniziativa legale, vogliono continuare a studiarlo. Ci aspettano nuovi colpi di scena?
«L’Istituto è un’eccellenza italiana, è giusto che procedano alle analisi, che sono soprattutto sugli inchiostri; ma ha già fornito indicazioni che vanno verso l’accertata modernità del papiro. Essendo scienziati procederanno con dei raffronti su pezzi di scavo per completare il referto».
Ma è giusto studiare un falso?
«Ma il Papiro è un eccellente prodotto moderno come altri prodotti del Simonidis ».
Quanti caduti ha lasciato sul campo la guerra del Papiro di Artemidoro?
«Mi ha colpito che studiosi di grande qualità in ognuno dei rispettivi ambiti siano stati bersaglio di attacchi e ostilità. Oltre alla ex direttrice dell’Egizio e Bozzi ci sono stati altri casi, restauratori, esperti, studiosi. Sono state fatte pressioni su di loro, alcuni costretti a lasciare il lavoro, altri trasferiti».
Pressioni da parte di chi?
«Posso citare Di Maio che oggi va tanto di moda?».
Se crede.
«Una manina misteriosa non so di chi».
E dal mondo accademico ha avuto più solidarietà, ostilità o indifferenza?
«Quando Mussolini fu arrestato il 25 luglio del ’43 un vicino di casa abbraccia un noto antifascista del suo stesso palazzo e gli dice commosso: finalmente. E il vicino gli risponde: me lo dovevi dire prima».
Ottobre russo, una partita a scacchi tra terra e cielo
Letture. «Proletkult»: il romanzo distopico dei Wu Ming sulla Rivoluzione, vista da un «marxista marziano» come Bogdanov e da una giovane aliena
di Girolamo De Michele (il manifesto, 06.11.2018)
Esistono diverse foto che ritraggono Lenin e Bogdanov sfidarsi a scacchi a Capri, nel 1908, alla presenza di Gor’kij, Lunacarskij e altri. Una partita che avrebbe potuto essere - ma non fu - il suggello alla ricomposizione delle divisioni della fazione bolscevica. E che, stando al racconto che ne fanno i Wu Ming nel 14 capitolo di Proletkult, Lenin perse per eccesso di leninismo: per lui la realtà era un dato oggettivo, e la sua conoscenza un atto meccanico e passivo come lo scatto di una fotografia. Già all’epoca una réclame della Kodak diceva: «tu schiacci il pulsante, il resto lo facciamo noi». Il gioco degli scacchi consiste invece nel «vedere lo scacco matto prima dell’avversario, soggettivamente, e poi manovrare per renderlo oggettivo»: qualcosa di molto più affine alla filosofia di Bogdanov. Per il quale la conoscenza è più simile al montaggio di un film, nel quale la stessa scena acquista diversi significati a seconda del suo inserimento.
NON ERA ANCORA ARRIVATO Antonioni a mostrare, con Blow up, che anche la fotografia ha ben poco di oggettivo e passivo. Eppure, nove anni dopo, Lenin fu capace di dare scacco matto allo zar con una mossa che rendeva oggettiva una prefigurazione soggettiva: mentre Bogdanov sosteneva, in nome di una concezione evoluzionistica della rivoluzione, l’appoggio al governo Kerenskij - rimaneva insomma fermo alla fotografia statica della situazione. La rivoluzione è una partita a scacchi? Forse: di certo, in entrambi i giochi agonistici ciò che conta è lo sviluppo futuro: ma anche, e soprattutto, il presente che rende possibile quel futuro. Che lo rende reale - ma al tempo stesso, che nel realizzarlo recide alcuni dei suoi possibili.
DOVEVANO, I WU MING, abbandonare il romanzo storico per narrare la Rivoluzione d’Ottobre: per essere liberi di farlo senza rischiare la caduta nel tribunale della ragione. Narrare la rivoluzione da un duplice punto di vista straniante: quello di Alexandr Bogdanov, «marxista marziano» scomunicato due volte da Lenin, né bolscevico né menscevico, imprigionato dalla Gpu (la dittatura del proletariato non può concedersi l’habeas corpus), scienziato, scrittore di fantascienza, terrorista - un uomo in fuga, come capita di trovarne nei romanzi dei Wu Ming; e quello di Denni, ragazza aliena proveniente dal pianeta Nacun narrato da Bogdanov nel romanzo Stella rossa, ovvero giovane aliena che si è rifugiata in un delirio allucinatorio fondato sulla lettura di quel romanzo. Come dire, l’Usbek di Montesquieu e il Candido di Sciascia nello stesso romanzo, a intrecciare discussioni sulla rivoluzione: ne valeva la pena?
Sì, se si considera che si sono visti posti peggiori. Sì, se, con le parole di Alekandra Kollontaj, si considerano le conquiste delle donne ottenute prendendo il potere: «e anche se il risultato che ottieni non è il meglio che ti aspettavi, lo devi difendere. Se non sei disposto a farlo, tanto vale che non ci provi nemmeno».
PROVARCI, e magari riuscirci, non significa però scattare una fotografia, e fermarsi lì: la vera rivoluzione è quella che accade dentro le teste, e le teste non cambia nello stesso modo. Essere capaci di fare a meno del Piccolo Padre che è dentro di noi. Per questo una rivoluzione non basta: ce ne vorrebbero cento, non in un solo paese ma in tutto l’universo, come afferma Denni, che forse vede l’Urss dall’astro di Nacun, dove la rivoluzione ha già vinto, e forse è una che è evasa dalla realtà. Evadere dalla realtà può essere sbagliato, se il compito è distruggere la prigione: però per farlo bisogna essere capaci di immaginare un mondo senza prigioni, come Denni. E, aggiungerebbe David Foster Wallace, bisogna essere capaci di vederla, la prigione.
PER QUESTO la rivoluzione non può essere giudicata: deve essere narrata, in un dedalo di storie che passano di bocca in bocca, né mie né tue ma nostre, che sono strumenti per conoscere e cambiare il mondo - che sono poi un’unica cosa. Le stelle sono un buon punto di vista: migliore dell’io, il più lurido dei pronomi. Ne vale la pena: per quanto alto sia il prezzo da pagare, non sarà più alto di quello che l’umanità ha pagato in secoli di schiavitù e sfruttamento.
La rivoluzione ultragalattica
Il romanzo «Proletkult» del collettivo Wu Ming, pubblicato da Einaudi
di Giovanna Ferrara (il manifesto, 06.11.2018)
I dieci anni dopo la rivoluzione del 1917, esplorazione di un sogno comune, amarezza di una realtà che non regge al progetto, storia di un dissenso nella frazione bolcesvica, nato ai tempi dell’esilio del 1905, e incarnatosi, dopo la presa del palazzo d’inverno, nel gruppo Proletkult, cui il collettivo Wu Ming dedica un importante romanzo (Proletkult, Einaudi, pp.333, 18,50 euro).
A CONTENDERSI il significato stesso dell’evento-rivoluzione Lenin e Bogdanov. Comuni ai due le mosse iniziali, una rapina colossale per finanziare gli esuli e mantenere acceso il motore dell’insurrezione. Scrivere articoli in una dacia in Finlandia, vita in comune e poi le divisioni.
Lenin non tollerava le speculazioni di Empiriomonismo, dove prima dell’evento veniva la costruzione di una coscienza dell’evento, cui aggiungere il sigillo dato da una scienza dell’organizzazione universale, la tectologhia: processo di organizzazione del dato che dal caos impianta il soggetto collettivo nella dolcezza dell’armonia. Anche il conflitto, ineliminabile, seguiva la stessa traiettoria. Per Bogdanov questo incarnava l’assioma di Rosa Luxembourg: «il marxismo deve sempre lottare per le nuove verità».
A Capri, ospite dello scrittore Gor’kij, negli anni prima del ’17 assieme a Bogdanov c’era anche Lunacarskij, futuro ministro dell’istruzione. A tutti le scoscese a mare, dove sbattono le onde costiere nate da un blu luminescente, regalarono visioni di moltitudini come branchi di pesci, un mondo indistinguibile dalla bellezza. Fondarono la prima scuola per operai, cui partecipò il meccano-filosofo Voloch, che nel romanzo ispira a Bogdanov il libro Stella Rossa, fantavventura di un pianeta socialista (da poco riedito).
NON SOLO PENSARONO a come costruire una cultura proletaria. Si spinsero più in là, arrivando, per il tramite del metodo nietzschiano della trasvalutazione dei valori, a costruire dio dalla potenza del collettivo, il volto dipinto dalla marxista umanità solidale. Ne parlarono anche dopo la scomunica di Lenin, che usò quell’«opportunismo geniale», per azzerare il dissenso interno: era solo idealismo, contrario al materialismo marxista e, per questo, ostacolo alla catena di eventi che doveva portarli nel cuore della Rivoluzione.
Lenin sapeva che fare, la domanda era finzione: la verità oggettiva non la si costruisce assieme, è solo una tavola imbandita, cui bisogna sedere non per un pranzo di gala ma per rovesciare i rapporti di forze e prenderselo quel tavolo. Ma dopo che la rivoluzione ci fu perché diventarono «un partito-esercito, un ceto dirigente autoritario»? È Alexandra Kollontaj, di cui il libro ricorda la tenacia nella così lungimirante battaglia della differenza, a rispondere allo smarrimento di un Bogdanov ormai solo scienziato: «Se pure questo evento imperfetto, non era il risultato che ci aspettavamo, ebbene, va comunque difeso».
DALLA STELLA ROSSA arriva Denni, trova il padre del suo pianeta e gli racconta di come il suo sogno si è fatto prassi: alla lotta con l’ambiente si faceva fronte con l’«Interplanetarismo», nessun confine né terrestre né stellare. «Mamma» e «papà» non erano altro che aggettivi, perché dopo i tre anni si vive tutti assieme. Poiché il linguaggio fissa i concetti «se si parla della vita come fosse una cosa non si potrà rispettarla». Niente padroni, perché le gerarchie sono scomparse nella testa delle persone.
I lavoratori si dirigevano da soli, per avere più tempo e minore specializzazione. Intanto Proletkult, proiezione in terra del «marxismo marziano», finiva con Bogdanov, che applicando alla scienza il suo comunitarismo, sperimentava uno spericolato incrocio di trasfusioni, convinto che il sangue delle persone andasse mischiato per creare un grande noi, vittorioso persino sulla morte.
La scrittura dei Wu Ming riempie la storia di pensieri segreti su come uscire dall’isolamento senza compromettersi con le proprie ortodossie, come non stingersi nella malattia del reducismo. Una dialettica che continua a tracimare dall’esperienza di chi sogna che il pianeta socialista sia proprio questo mondo. E siccome nella testa delle persone torna sempre la tentazione del dominio, forse davvero bisogna capire che «di rivoluzioni non ne basta una, ce ne vogliono cento».
Populismo e trasformismo, la lezione di Gramsci
di Fabio Vander (il manifesto 12.06.2018)
Che c’entra Gramsci con il nuovo governo della destra e dei populisti? Chi voglia provare a capire i caratteri della nostra (eterna) crisi non può fare a meno delle sue analisi. Che come quelle di ogni classico mantengono intatta nel tempo la loro attualità.
In una nota del «Quaderno 6» scrive proprio del “populismo”: esso è una forma di neutralizzazione del protagonismo delle masse; di fronte alla loro domanda di diritti e di potere le classi dominanti «reagiscono con questi movimenti ‘verso il popolo’». Il “pensiero borghese”, aggiunge Gramsci, «non vuole perdere la sua egemonia sulle classi popolari e, per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una parte dell’ideologia proletaria».
La parola chiave è “egemonia”. Il “populismo” è insomma il travestimento della destra che si fa sinistra, per conservare il potere economico, politico e culturale accoglie “parte” delle istanze di sinistra: il lavoro, le tasse, le domande securitarie, le identità corporative o di campanile, fino a certo deteriore “nazionalismo popolare” del ‘sangue e suolo’.
In una nota del 1930 Gramsci aveva indagato il fenomeno dall’altro verso: non dell’andare al popolo dei potenti, ma della ripulsa della politica da parte del popolo. Popolo che prova «avversione verso la burocrazia» o «odia il funzionario», antipolitica diremmo oggi, ma che pure non riesce a darsi una strategia autonoma di alternativa. Si tratta, nota acutamente Gramsci, di «odio ‘generico’ ancora di tipo ‘semifeudale’, non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe».
Due elementi: è una politica immatura quella del populismo, regressiva; d’altro canto non è possibile populismo ‘di sinistra’ (osservazione non scontata, non mancano oggi infatti tentativi di declinazione progressiva del populismo, direi da Laclau a Mélenchon). Occorre invece una critica moderna dello stato di cose esistente. Che solo la politica può dare.
Contro populismo e antipolitica occorre non farsi corrivi con lo spirito dei tempi, non porsi “sulla difensiva” rispetto al piano egemonico dell’avversario. E invece la sinistra italiana, già agli occhi di Gramsci, scontava proprio un difetto politico, di «scarsa efficienza dei partiti», ridotti a «bande zingaresche» o al «nomadismo politico». L’eterno trasformismo della politica nazionale.
Questa doppia debolezza strutturale della destra di governo e della sinistra di alternativa è la ragione profonda ed esaustiva non solo della fragilità storica della nostra democrazia, ma dell’intero nostro tessuto civile, se è vero che in Italia non è «mai esistito un ‘dominio della legge’, ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale e di gruppo».
Si pensi proprio alla nascita del governo Conte. Sul manifesto Gaetano Azzariti ha parlato di «gestione del tutto privata della crisi», con «il programma di governo trasformato in un contratto tra due signori stipulato davanti a un notaio, le cui obbligazioni sono assolte da un loro fiduciario». Populismo e privatismo possono ben andare insieme. Come per altro avevamo imparato già da Berlusconi.
L’alternativa a tutto ciò deve essere chiara e netta: tornare alla politica, al «dominio della legge», dell’interesse generale. Perché se certo la colpa dell’antipolitica è della politica, pure l’antidoto all’antipolitica può essere solo di nuovo la politica. Combattere il populismo si deve rivendicando la nobiltà della politica. E praticandola. Rischiando anche l’impopolarità dell’antipopulismo (tanto più che il risultato straordinario del referendum del dicembre 2016 prova che nei momenti topici il popolo italiano mostra discernimento e intelligenza politica).
Ancora Gramsci ricorda che il fenomeno dell’“apoliticismo” si spiega col fatto che i partiti in Italia «nacquero tutti sul terreno elettorale», risultato di «un insieme di galoppini e maneggioni elettorali, un’accolita di piccoli intellettuali di provincia», senza visione, senza strategia, senza senso della politica.
Queste dunque le priorità della possibile e necessaria alternativa al populismo: organizzazione delle masse popolari, autonomia culturale e politica, un partito della sinistra in grado di corrispondere al dettato dell’articolo 49 della Costituzione: «Concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Avendone un’idea possibilmente: di interesse nazionale, di politica, di democrazia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI "RIFONDAZIONE COMUNISTA" FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
DITTATORI. I due leader avrebbero potuto conoscersi a Ginevra, quando erano entrambi socialisti rivoluzionari. Di sicuro il capo del fascismo fu attento alla tragedia russa e sfruttò la paura del comunismo per raggiungere il potere
Quel misterioso incontro tra Mussolini e Lenin.
di Marcello Flores (Corriere della Sera, La Lettura, 04.02.2018)
Benito Mussolini e Vladimir Uljanov, noto come Lenin, avrebbero potuto incontrarsi a Ginevra nel 1904. Forse l’incontro ebbe luogo, probabilmente no. Ma la possibilità fu reale, visto che rivoluzionari italiani (come allora era Mussolini) e russi (come Lenin), appartenenti tutti alla variegata famiglia del socialismo, si ritrovavano spesso nello stesso Café Landolt. Parte dalla ricostruzione di questo possibile incontro - attraverso memorie discordanti e documenti contraddittori - il libro di Emilio Gentile Mussolini contro Lenin (Laterza), che racconta la polemica dell’italiano contro il russo, soprattutto nel corso della Prima guerra mondiale e subito dopo, che termina sostanzialmente con la conquista del potere da parte del primo e la morte del secondo, cui fa da corollario il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Italia e Urss nel febbraio 1924.
Gentile ripercorre le strade parallele e diverse che entrambi seguirono all’interno del movimento socialista e rivoluzionario europeo del primo Novecento, il radicalismo che entrambi manifestarono all’interno dei loro partiti contro i più moderati ortodossi del marxismo, e la divergente biforcazione delle loro vite e delle loro politiche che il trauma della Prima guerra mondiale produsse e accentuò nel corso di pochi anni.
Lo studio di Gentile - uno dei più originali contributi apparsi nel centenario della rivoluzione russa - non vuole essere, ovviamente, un libro su Mussolini «e» Lenin, sul fascismo e il comunismo, sui rapporti tra Italia e Russia. Analizzando con precisione e ricchezza di citazioni l’interesse che Mussolini e il suo giornale, «Il Popolo d’Italia», dedicarono al bolscevismo e a Lenin, Gentile propone un altro piccolo pezzo del suo grande mosaico interpretativo sul fascismo: arricchendolo con l’analisi del rapporto e dello sguardo mussoliniano rispetto alla rivoluzione russa e alla figura di Lenin, un tassello centrale e indispensabile per meglio comprendere l’evoluzione del pensiero del futuro Duce soprattutto negli anni di passaggio dalla milizia socialista all’interventismo e poi alla fondazione dei Fasci e alla guida verso il potere di un fascismo sempre più dinamico e incisivo.
L’attenzione che «Il Popolo d’Italia» dedica alla rivoluzione russa a partire dai primi mesi del 1917 è costante, attenta alle notizie e alla ricostruzione degli eventi quanto a una loro interpretazione. E questa tensione «analitica» continuerà anche dopo la fine della guerra, nei confronti del regime bolscevico vincitore, della guerra civile che conduce vittoriosamente contro le armate bianche, del regime autocratico e «asiatico» che costruisce e che rappresenta - agli occhi di Mussolini - la prova del fallimento del socialismo come teoria e come proposta politica, quindi la giustificazione della propria scelta di abbandonarlo per cercare una «rivoluzione nazionale» di altro segno, ma altrettanto radicale.
Se l’idolo mussoliniano e del «Popolo d’Italia», per quanto riguarda la rivoluzione russa, è Aleksandr Kerenskij (su cui si spera di vedere presto in edizione italiana lo studio di Boris Kolonitskij Compagno Kerenskij), l’obiettivo polemico della crescente opposizione a Lenin è il Partito socialista italiano, affascinato tanto nei suoi vertici quanto, soprattutto, nella sua base, dal mito del leader rivoluzionario russo. Lenin è il «traditore» che, per conto dei tedeschi, sabota la rivoluzione russa e soprattutto il suo impegno nella guerra contro gli Imperi centrali; è il costruttore di una tirannia asiatica che viene definita come «esplosione di istinti zoologici». E il bolscevismo «ch’è la risorgenza e la sopraffazione degli istinti di ferocia primitiva, di annientamento, di distruzione, è la negazione del socialismo».
La battaglia ideologica contro i socialisti è particolarmente aspra dal 1918 al 1920, quando Mussolini mette a punto il suo progetto rivoluzionario (antistatalista e repubblicano), di cui un elemento ideologico centrale è proprio l’antibolscevismo (Gentile ricorda opportunamente un articolo antisemita, che Mussolini dovrà ritrattare e correggere rapidamente). Per il capo del fascismo il comunismo come progetto è ormai fallito, e Lenin con la Nuova politica economica (Nep) avrebbe intrapreso una chiara deriva capitalista, pur in un regime tirannico, sancendo la sconfitta del progetto socialista internazionale, che intravede in Germania e in Italia in modo definitivo.
Negli ultimi anni di vita di Lenin «Il Popolo d’Italia» polemizza con il «mito» che ne hanno creato i socialisti, con l’illusione delle masse, con un’esperienza di speranza tramutata in tragedia e sofferenza per tutto il popolo. Nello specchio di quel fallimento il Duce vede sorgere e affermarsi il trionfo del proprio movimento, e sembra pronto a concedere l’onore delle armi al nemico defunto. È comunque il fascismo ad avere salvato l’Italia dal bolscevismo, e di questa «leggenda», come la chiama Gentile, Mussolini si servirà per «legittimare la sua conversione dal fascismo libertario e antistalista, al nuovo fascismo antidemocratico e statalista, avvenuta nel corso del 1921». Una volta morto il «magnifico avversario» la strada è pronta per il riavvicinamento diplomatico tra i due primi totalitarismi del Novecento. Sul cui confronto c’è un ultimo interessante paragrafo, che si spera possa diventare presto uno studio più completo.
Mussolini e Lenin le divergenze parallele
Partiti dal socialismo rivoluzionario, i loro itinerari si svilupparono in senso antitetico con la Grande guerra
Un libro di Emilio Gentile che rovescia opinioni diffuse
di Mario Toscano (La Stampa, 02.02.2018)
Non esiste la certezza che Benito Mussolini e Vladimir Il’ic Ul’janov (Lenin) si siano incontrati occasionalmente alla Brasserie Handwerk di Ginevra il 18 marzo 1904. L’ipotesi è comunque suggestiva per tratteggiare e incrociare le biografie politiche dei due personaggi nel successivo, incandescente ventennio del Novecento. Emilio Gentile (Mussolini contro Lenin, Laterza) ricostruisce accuratamente le loro esperienze, intrecciando i percorsi dei due futuri dittatori verso il potere in un lavoro che offre dati e spunti di riflessione sul rapporto tra guerra e rivoluzione, sul ruolo del leader carismatico nella nuova politica di massa, sulle difficoltà e la crisi della democrazia liberale durante e al termine della Prima guerra mondiale, proponendo una lettura originale della relazione tra le due personalità.
Diversi per età, ambiente familiare e collocazione sociale, Lenin e Mussolini agli inizi del secolo erano entrambi assorbiti dall’impegno politico nell’ambito del socialismo rivoluzionario. Ostili al revisionismo riformista, manifestavano concezioni simili della rivoluzione e del partito. Nel corso del decennio successivo, le loro carriere politiche conseguivano risultati differenti: nel congresso socialista di Reggio Emilia del luglio 1912, Mussolini emergeva come una delle figure più significative della corrente rivoluzionaria e assumeva poco dopo la carica di direttore dell’Avanti! Lenin fondava il partito bolscevico, ma il suo nome era sconosciuto alle masse operaie e contadine russe.
Lo scoppio della Grande Guerra imprimeva una svolta alle loro storie politiche: Lenin si schierava contro la guerra borghese e imperialista, accusava di tradimento i partiti della Seconda Internazionale, si appellava al proletariato internazionale affinché trasformasse la guerra imperialista in guerra civile internazionale.
Mussolini, dopo aver condiviso la scelta neutralista del Partito socialista, individuava nel conflitto contro gli Imperi centrali l’evento destinato a scardinare l’assetto politico-sociale esistente e abbracciava la linea dell’interventismo rivoluzionario, che sosteneva dalle colonne del suo nuovo quotidiano Il Popolo d’Italia, ed era espulso dal partito.
Le vicende rivoluzionarie in Russia, a partire dal febbraio 1917, segnavano un’ulteriore diversificazione dei loro itinerari politici. La trattazione delle vicende russe da parte del Popolo d’Italia offre uno specchio significativo dell’evoluzione della posizione mussoliniana. La rivoluzione di febbraio, presentata come un moto della folla contro l’autocrazia zarista, accompagnato dalla volontà di proseguire la guerra, era una convalida dell’interventismo rivoluzionario. Il ritorno di Lenin in Russia nell’aprile del 1917, i suoi proclami contro la guerra erano accolti con disappunto. La presa del potere da parte bolscevica consolidava la critica nei confronti di un personaggio raffigurato come un agente al servizio del governo tedesco, «traditore della Russia, del socialismo, della libertà dei popoli, per la quale combattevano le nazioni dell’Intesa», come confermava la pace separata con la Germania.
L’attenzione del direttore del Popolo d’Italia si volgeva anche alle forme che andava assumendo il potere di Lenin, giudicato l’edificatore di una dittatura di partito e di una tirannia personale. Sin dagli inizi, le vicende russe avevano offerto al politico romagnolo anche un’occasione per polemizzare con i socialisti italiani, abbacinati (tranne i riformisti) dall’ascesa di Lenin e dal suo progetto rivoluzionario.
La polemica contro i «leninisti d’Italia» si accentuava nel dopoguerra, in un Paese lacerato dalle conseguenze del conflitto e percorso da un’ansia di rinnovamento e di rigenerazione che sfociava in aspre lotte sociali. Sfruttando limiti ed errori del massimalismo socialista, il movimento guidato da Mussolini passava nell’autunno del 1920 alla lotta contro un pericolo bolscevico ormai scomparso. Era il momento dell’affermazione dello squadrismo, della nascita del Partito fascista come partito milizia, che sosteneva la marcia di Mussolini verso il potere sulla base di un progetto politico nemico della democrazia e ostile ai valori del liberalismo.
La conclusione di Emilio Gentile è significativa e rovescia opinioni diffuse. A suo giudizio, «il duce nulla aveva appreso dal capo bolscevico. Né per conquistare il potere, né per costruire il proprio regime totalitario».
Classici rivisitati
Gramsci, ora di te ci fidiamo
Attraverso l’utilizzo dei migliori strumenti filologici, la nuova edizione dei «Quaderni» ridisegna e completa il profilo del pensatore
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.12.2017)
È ormai un dato di fatto acquisito: Antonio Gramsci, insieme a Croce e Gentile, è la figura più rilevante del pensiero italiano del XX secolo,ed è oggi l’autore italiano più conosciuto e più tradotto nel mondo: in Europa come in Asia, negli Stati Uniti e specialmente nell’America del Sud, dove da tempo la sua opera conosce una fortuna straordinaria .
Tanto più diventa necessario disporre di una edizione affidabile dei suoi testi, di tutti i suoi testi - di quelli precedenti il carcere e di quelli carcerari, anche per cogliere le diverse fasi della riflessione di Gramsci e i mutamenti, talvolta assai rilevanti, che connotano lo sviluppo del suo pensiero - mutamenti che si possono cogliere anche a livello linguistico, nelle trasformazioni del lessico di Gramsci su punti centrali della sua ricerca - a cominciare dalla interpretazione del pensiero di Marx.
Non è facile però allestire una edizione affidabile e rigorosa degli scritti gramsciani per una serie di motivi, connessi anche alla loro gestazione e alla loro complessa “fortuna” : redatti in carcere fra il 1929 e il 1935, vengono messi in circolazione molti anni dopo, nella seconda metà degli anni quaranta . Il primo testo di Gramsci pubblicato in Italia furono Lettere dal carcere, stampato dall’editore Einaudi, e ad esse, sempre presso Einaudi, seguirono i volumi organizzati nella cosiddetta edizione tematica, impiantata sui “quaderni speciali”, anche per gli obiettivi che si proponeva l’edizione.
L’opera di Gramsci è entrata dunque in circolazione in una situazione profondamente diversa da quella in cui furono scritti , quando tutti i punti di riferimento di Gramsci erano cambiati, e questo rendeva, ovviamente, più complessa una loro adeguata, ed esauriente, decifrazione. Ma a complicare la situazione si aggiungevano le particolari traversie politiche dei Quaderni, salvati grazie alla accortezza di Palmiro Togliatti, il quale riuscì a custodirli e a farli arrivare in Italia e, di fatto, a gestirne la prima edizione italiana, quella tematica uscita presso Einaudi sopra ricordata.
Come dimostra l’organizzazione del materiale, si trattava di una sapiente operazione politica, che mirava a collocare Gramsci nel pieno della battaglia politica e culturale in corso in Italia in quegli anni, facendone l’avversario principale, anzi il demolitore, della figura e dell’opera di Benedetto Croce, considerato ancora, a quel momento, la personalità più influente della cultura borghese nel nostro Paese. I Quaderni, nell’edizione tematica, sono organizzati in modo da poter rappresentare un punto di vista alternativo, anzi opposto a quello di Croce, in tutti i campi: letterario, estetico, politico, storiografico....
Di questa edizione sono stati mostrati poi i limiti, le carenze, le omissioni (comprese le importanti Note autobiografiche del quaderno 15), che certo ci sono, e si spiegano - anche se non si giustificano - con la funzione politica che Togliatti intendeva far svolgere a Gramsci, quale fondatore del Partito Comunista Italiano e ideatore della strategia culturale e politica seguita nel dopoguerra. In ogni caso, fu in questo modo che Gramsci venne fatto conoscere a nuove generazioni di italiani , trasformandolo in un momento centrale della loro formazione etico-politica .
Fu però lo stesso Togliatti a comprendere che Gramsci era altro, e di più , e che il suo pensiero travalicava gli orizzonti di un partito per configurarsi come uno dei vertici del pensiero italiano; a capire, insomma, che Gramsci era un classico e che in questi termini andava proposto e decifrato.
È da questa temperie, alla quale Togliatti diede un contributo decisivo avviando anche una nuova riflessione sulla storia delle origini del PCI sulla base di nuovi documenti, che nacque il progetto di una nuova edizione dei Quaderni, allestita da Valentino Gerratana, pubblicata nel 1975 dall’editore Einaudi.
Un’opera, va detto subito, di eccezionale rilievo, che pose su basi moderne lo studio di Gramsci , pubblicando i Quaderni nella loro integrità; proponendone una datazione e numerandoli secondo la data di avvio, ipotizzata o accertata; mostrando, anche attraverso soluzioni grafiche, come i testi di Gramsci fossero da distinguere almeno in due tipologie: quelli di cui esisteva una doppia redazione e quelli in unica redazione, mentre l’edizione tematica aveva escluso le annotazioni di prima stesura dei Miscellanei .
È da questa edizione che sono scaturiti i lavori degli anni successivi, imperniati su un saldo intreccio di filologia e filosofia, con un’attenzione alle “varianti” gramsciane che ha contribuito a mutare in modo sostanziale l’immagine tradizionale di Gramsci .
Con l’edizione di Gerratana il profilo di Gramsci quale classico che andava studiato, decifrato e interpretato come si studiano i classici era ,in buona parte, acquisito. Ma, come accade in testi così complessi e stratificati - anche per i modi e le situazioni in cui furono scritti -, molti problemi restavano ancora aperti, a cominciare dalla datazione dei Quaderni, dei tempi e dei modi in cui essi erano venuti alla luce ; problema che, a sua volta, ne implicava un altro, pregiudiziale, non ancora messo a fuoco in maniera adeguata: come lavorava Gramsci in carcere, in che modo ,e con quali criteri, aveva utilizzato, i quaderni. -Ed è proprio su questi problemi che si è lungamente impegnato Gianni Francioni nelle sue ricerche e raccogliendo intorno a sè una equipe di studiosi che stanno ora lavorando con lui alla nuova edizione dei Quaderni, di cui è ora uscito, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, il tomo che inizia la pubblicazione dei dodici quaderni miscellanei - dieci per intero - redatti da Gramsci tra il febbraio del 1929 e il giugno del 1935.
Merito di questo lavoro - che rientra nella nuova edizione nazionale degli scritti di Gramsci istituita dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, su iniziativa della Fondazione Gramsci - é, in primo luogo, quello di essere imperniato su una nuova datazione dei Quaderni sulla base di una tesi ben sostenuta ed argomentata: Gramsci lavorava contemporaneamente a diversi Quaderni; i quaderni
“misti“, così li definisce Francioni, erano utilizzati per lavori differenti.
E questo significa che la successione esterna dei Quaderni non corrisponde allo svolgimento effettivo del lavoro di Gramsci, che quindi deve essere decifrato, e periodizzato, tenendo conto di come egli effettivamente lavorava quando redigeva le note che compongono i Quaderni: dalla primavera del ’32 fino al giugno del ’35, Gramsci si impegna, ad esempio, nella sistemazione dei quaderni monografici, ma continuando a lavorare nei miscellanei. Una ricerca complessa e difficile che ha consentito di entrare nell’officina di Gramsci, utilizzando gli strumenti della migliore tradizione filologica italiana: quella che, in una parola, fa capo a Gianfranco Contini e ai suoi “esercizi di lettura”- a cominciare da quello su “come lavorava l’Ariosto.
Una nuova edizione; una nuova periodizzazione; e quindi una nuova interpretazione del pensiero di Gramsci, perché, si sa, periodizzare è interpretare , come conferma l’Introduzione al volume . Si tratta di un’opera importante e significativa, e non solo per gli studi gramsciani, e lo dimostra il ricchissimo apparato di note che correda il volume. E fa piacere che essa, come tutti gli altri volumi dell’edizione già usciti, appaia per i tipi dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, la sede più indicata e più prestigiosa per ribadire la classicità dell’opera di Gramsci . In questo caso il tempo - che divora ogni cosa - ha restituito a Gramsci quello che gli era dovuto .
L’autore è Professore di Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Scuola Normale Superiore
PER UN’ALTRA EUROPA E PER UN’ALTRA ITALIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni ...
Una terra per millenari incroci di destini
Tra passato e presente. «Storia mondiale d’Italia», a cura di Andrea Giardina, per Laterza. Il monumentale volume, che uscirà il 16 novembre, presenta un racconto aperto, contro la boria di ogni nazionalismo
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 12.11.2017)
Costituisce un evento editoriale e culturale di prima grandezza la pubblicazione della Storia mondiale d’Italia, a cura di Andrea Giardina (Laterza, pp.820, euro 30) e per più di una ragione. L’idea del libro, mutuata da Giovanni Carletti, editor laterziano, dalla recente edizione in Francia dell’Histoire mondiale de la France a cura di Patrick Boucheron, trova nella vicenda millenaria del nostro paese una realizzazione che si può definire monumentale. Se non fosse che il termine allude più alle dimensioni e alla organicità dell’opera che non al carattere programmaticamente sovvertitore che anima il testo.
UNA STRATEGIA INNOVATIVA già saggiata dal prototipo francese, ispirata, come scrive Boucheron nel suo Invito al viaggio, che accompagna l’introduzione di Giardina: «la scelta di seguire il tracciato di una storia discontinua, sorprendente, aperta, che consentisse al lettore di attraversare liberamente un racconto nel quale ci si riconosce ma dove, nel riconoscersi, ci si scopre diversi da ciò che si credeva di essere».
Il fine è quello di «disorientare la storia» e, ancor di più arditamente, «defatalizzare il tempo». Vale a dire correggere soprattutto l’immaginario identitario di popoli che hanno attraversato vicende «nazionali» di straordinaria ricchezza e ampiezza di influenza e che oggi si trovano immersi in una storia mondiale molto più ravvicinata e quotidiana di quanto non sia stato in passato. Una storia in cui appare urgente riconoscere i propri apporti di lungo periodo e i condizionamenti subiti perché «è nel loro rapporto con l’universale che i sentimenti nazionali si costruiscono tanto in Francia che in Italia».
Il testo coordinato da Giardina, parte dalle Alpi preistoriche e termina con la Lampedusa di oggi, un quadro geografico ben delimitato e chiuso entro cui si svolge una vicenda millenaria di straordinaria e forse unica varietà.
Il «popolamento eccezionalmente misto dell’Italia nel corso dei millenni - ricorda Giardina - la politica già romana della cittadinanza e dell’integrazione, le invasioni germaniche, le presenze islamiche, francesi, spagnole e così via, quasi un caleidoscopio etnico in perenne rotazione» ne fanno un caso esemplare per questo nuovo modo di fare storia. Per millenni dentro i confini territoriali della Penisola si è svolta una vicenda che ha coinvolto le culture, le religioni, le consuetudini di decine di altri popoli insediati in spazi prossimi e lontani del pianeta. Ma al tempo stesso mondiale è stata la proiezione dell’Italia, con i suoi uomini, le sue idee, il suo cibo, la sua arte e le sue tradizioni religiose. Si pensi all’universalismo cattolico, incarnato dalla centralità di Roma, che sorge nel mondo antico e vive ancora nella spiritualità e nell’immaginario di oggi. Questa molteplicità etnica e culturale del nostro Paese, consente di guardare in maniera ricca e spiazzante al cosiddetto carattere degli italiani, «uno dei principali protagonisti di questo libro, anche perché forse nessun altro popolo ha ricevuto un numero altrettanto grande di aggettivi».
MA GIARDINA tiene conto dell’insegnamento di Croce: «Qual è il carattere di un popolo? La sua storia: tutta la sua storia e nient’altro che la sua storia». Ed è questa storia che oggi ci riappare, grazie al lavoro corale di diverse decine di specialisti italiani e stranieri, sotto una luce nuova, più aderente al modo in cui essa realmente si è andata svolgendo, più vicina all’orizzonte universale con cui noi oggi osserviamo l’accadere nella nostra epoca. Occorre infatti considerare quanto di «tolemaico», subalterno all’apparente, c’è ancora nel nostro modo di guardare al passato, come se a una storia mondiale approdassimo oggi, grazie alla globalizzazione. E invece la storia mondiale precede quella nazionale, non solo perché le nazioni nascono tardi, ma perché per millenni la geografia ha imposto il suo dominio al movimento di uomini e merci che dovevano ricorrere agli spazi internazionali del mare.
UN MODO DI GUARDARE al passato che manda in frantumi ogni «boria delle nazioni» e annichilisce alla radice ogni pretesa chiusura identitaria, il pregiudizio di una storia delimitabile entro muri e confini. E il messaggio civile di Giardina è esplicito «non sono pochi gli italiani che oggi vorrebbero serrare il mare come se fosse l’uscio di casa... Ma il fatto è che l’istinto della tana conduce verso spazi sempre più stretti: dalla nazione alle città, dalle città ai quartieri, dai quartieri agli isolati, alle case e infine agli appartamenti. E dopo, cosa viene dopo?».
NON È FACILE dar conto dei centottanta saggi contenuti nel libro, che occupano otto pagine di indice. La segnalazione sarà necessariamente casuale come in parte erratica è stata sinora la nostra lettura. E tuttavia sufficiente per fornire più che una suggestione, per un testo che potrebbe diventare un breviario di storia da tenere sul comodino, un vademecum per la formazione cosmopolita dei giovani, un’«enciclopedia» da consultare costantemente.
I capitoli sono scanditi da date, spesso un anno, talora un preciso giorno, qualche volta un gruppo di secoli. Si pensi al saggio 150 a.C. Dall’Italia alla Groenlandia (Elio Lo Cascio). I carotaggi effettuati nei ghiacciai della Groenlandia rivelano che l’inquinamento atmosferico generato dalla produzione di rame e argento giunge al massimo, prima della rivoluzione industriale, tra i secoli II a.C. e il II d.C. Una straordinaria conferma della potenza dell’economia romana e del primato della Penisola in quell’epoca.
MA LA POTENZA ha i suoi lati oscuri e mostra la multiforme umanità che ha contribuito a costruirla. La rivolta di Spartaco, che con 70mila uomini infligge non poche sconfitte all’esercito romano, rivela la natura multietnica del proletariato dell’epoca: «Schiavi-merce portati da ogni angolo del Mediterraneo. Uomini soprattutto, ma anche donne e bambini acquistati sui mercati orientali», oppure prigionieri di guerra trascinati a Roma come bottino (Orietta Rossini).
Il carattere internazionale della storia della Penisola non è meno rilevante quando, nel medioevo, la potenza sovranazionale dell’Impero vive solo nell’immaginario dell’epoca e l’Italia non è neppure uno stato-nazione. Ma le sue città sono già terminali dell’economia-mondo.
Nel saggio 1088 Una comunità sovranazionale basata sulla conoscenza (Annick Peters-Custot) l’autrice mostra come l’Università di Bologna - che ha avuto più seguito e fortuna della scuola medica salernitana - diventi, a partire da quell’anno, uno straordinario centro di attrazione mondiale dei giovani dell’epoca, ansiosi di conoscenza e di manifestare il libero pensiero. Un’altra città, Firenze, che nel 1252 avvia la coniazione del fiorino d’oro - dopo un millennio che l’oro era scomparso dalla monetazione - ne fa «il dollaro della crescita medievale», destinato a governare il commercio internazionale. Mentre, nello stesso anno, viene coniato a Genova il «genovino d’oro», Firenze e la Penisola vengono acquistando «una posizione di primo piano nell’economia europea» (Franco Franceschi).
ANCHE IN ETÀ MODERNA e contemporanea, tra primati e fallimenti, il profilo della nostra storia appare inscindibilmente legato a quella di altri popoli e di altri spazi nazionali e continentali: per commercio, migrazioni, guerre e avventure coloniali, influenze culturali (arte e cibo soprattutto) e perfino sport. C’è un 1982 Italia-Germania 3 a 1 (Fabien Archambault) a indicare la popolarità identitaria guadagnata dal calcio in Italia e il nuovo prestigio mondiale acquisito in questo sport. Felice poi la chiusa del libro con la tragedia dell’affondamento del peschereccio di migranti, africani e asiatici, di fronte a Lampedusa il 18 aprile 2015 (Ignazio Masulli).
Una vicenda che ci ricorda come le Penisola continui a essere terra d’incrocio dei destini di vari popoli e come il nostro abbia concorso, e concorra, nel bene e nel male, alla storia degli altri, per farne una vicenda plurale comune.
Il sapore della Roma tardo antica raccontato da Peter Brown
di Marco Tagliaferri *
«Possibile mai che rinunciassero / alla loro bella vita; ai divertimenti / quotidiani di ogni sorta; al loro splendido / teatro, luogo di incontro dell’Arte / col fervore dell’eros, della carne?». Forse i versi di Kavafis sprigionano, intrisi come sono di uno spirito agli antipodi del mero Historismus (nell’accezione che Benjamin diede a questo termine), il sapore di un’epoca, quella tardo antica, in cui, come scrisse Glen Bowersock, «poteva trovare il proprio posto un edonista, al tempo stesso cristiano e greco»; un’epoca che Peter Brown, in un volume appena pubblicato da Einaudi in una nuova edizione, Il mondo tardo antico (traduzione di Maria Vittoria Malvano), riesce a evocare coniugando la precisione dello studioso di storia e antropologia con la finezza profonda di un Montaigne, incline quindi a leggere i meri dati che la ricerca storiografica ed epigrafica comunica mutandoli in una sintassi strutturata e sensibilissima, in un discorso evocatore di molteplici significati.
Se al cultore di materie storiche il nome di Peter Brown è naturalmente ben noto, non sarà d’altro canto infruttuoso presentarne sommariamente la figura e le linee di pensiero al profano che voglia avvicinarsi al periodo sul quale la sua ricerca ha insistito e alla sua opera.
Nato a Dublino nel 1935 e laureatosi a Oxford nel 1956 sotto il magistero di Arnaldo Momigliano, Peter Brown è autore di alcuni testi fondamentali per comprendere la tarda antichità, dai quali emerge un approccio le cui principali direttrici possono essere individuate: in una visione che, a scapito di un modo di intendere la Storia come isomorfica alla vita biologica, con il suo processo ineluttabile di nascita, ascesa e decadenza (rappresentato da uno storico come Gibbon o da un autore che, invece, storico non fu: Oswald Spengler), sa cogliere al contrario le continuità, il permanere di strutture arcaiche (ma non archetipali, sempre comprese nel loro alveo storico) o superate, osservate nelle loro sopravvivenze (per usare un termine caro a Warburg) sotto le spoglie che il divenire storico ha loro imposto, allontanandole così dal significato originario (in un’epistrofe verso un’origine, come ha dimostrato abilmente Georges Didi-Huberman in un bel saggio su Blanchot, non mai raggiungibile); nella considerazione del fenomeno religioso come fatto centrale, promotore assieme ai fenomeni economici e politici dei mutamenti in atto e non attore secondario, un filo vigoroso, insomma, che innerva abitudini, idee, corpi; e, infine, nella dilatazione del periodo cosiddetto tardo antico fino al IX secolo, fino al nascere e all’attestarsi dell’Islam.
Non stupirà, quindi, che il suo testo su Il culto dei santi (sempre pubblicato da Einaudi), venga considerato da Carlo Ginzburg come l’opera più importante per comprendere un fenomeno il quale, senza le peculiarità appena esposte, sarebbe materia di un’interpretazione tanto vaga quanto inesatta nel suo volervi attribuire una natura di novità troppo radicale e ignorandone così la continuità con l’habitus pagano.
Ne Il mondo tardo antico Brown traccia un disegno pulsante e vividissimo della metamorfosi cui l’impero romano è sottoposto durante il III secolo d.C., quando l’ansia che, sottile, pervade già più di un secolo prima quell’opera straordinaria che è il De defectu oraculorum di Plutarco, si manifesta, con un’evidenza fino a quel momento inedita, nell’insicurezza che dal 240 d.C. le invasioni barbariche cominciano a instillare nel tessuto sociale, creando così un contesto che poco più di un decennio prima un autore come Dione Cassio non aveva nemmeno presentito, sicuro com’era dell’immutabilità non solo di Roma eterna, ma anche dei privilegi che quella società, rigidamente divisa fra un’aristocrazia senatoria e un mondo oscuro di contadini sottosviluppati, di “zotici” e “barbari, garantiva, attraverso un approccio che Erich Neumann avrebbe chiamato “negazione della negazione”: se, infatti, «le classi governanti dell’impero romano si erano mantenute in gran parte immuni dai più virulenti esclusivismi dei regimi coloniali moderni», tuttavia non riuscirono a evitare di esigere il conformismo al proprio stile di vita e alla propria cultura, conditio sine qua non per elevarsi dallo stadio infimo nel quale l’assenza di una paideia solidamente classica confinava.
Il perfetto realizzarsi della propria interiorità in una vita pubblica organizzata, come i templi e le cerimonie pagane, si interrompe, proprio in quegli anni, dando vita a una rivoluzione spirituale gravida di conseguenze profondissime; Plotino e Antonio, «questi due straordinari egiziani», sebbene antitetici, rappresentano con grande chiarezza la Stimmung di questa epoca: in un ripiegamento verso la propria interiorità, attraverso il quale il corpo e l’esteriorità possano perdere i propri privilegi a favore dello spirito e dell’intelletto, la dialettica di “conversione” e “rivelazione” inizia, lentamente, a creare la figura di un uomo nuovo, capace di trovare la propria fisionomia in una biografia che non contempli, per forza, episodi eclatanti, ma che sia la storia del proprio cuore e dei movimenti, allo stesso tempo sottilissimi e squassanti, che esso produce. Un processo che avrebbe trovato, in una figura monumentale come quella di Agostino, compiuta fine e stentato inizio, in un movimento che ancora oggi non vediamo esaurito.
* TRECCANI Magazine/Atlante, 28.09.2017 (ripresa parziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ROMOLO AUGUSTOLO. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO" -- "REX" E "DUX". Nardò e il Sedile, l’altro ieri, ieri, e oggi.
IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
Federico La Sala
L’ITALIA, IL SEDILE, LA SELLA CURULE, LA "X" DI "REX" E "DUX", HENRY W, LONGFELLOW, E IL "DVX" DEL FASCISMO.... *
AD AMPLIARE e a contribuire a rendere più comprensibili ed evidenti i nessi tra i vari livelli del brillante lavoro di Armando Polito sul SEDILE di Nardò (Lecce), è bene tenere presente e ricordare cosa era la SELLA CURULE nella società dell’antica Roma:
"La sella curule (in lat. sella curulis) era un sedile pieghevole a forma di "X" ornato d’avorio, simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente ai re di Roma e in seguito ai magistrati superiori dotati di giurisdizione, detti perciò "curuli".
I magistrati solevano portare con sé la sella curulis assieme agli altri simboli del loro potere (fasci, verghe e scuri) e ovunque disponessero questi simboli, lì era stabilita la sede del loro tribunale.
Durante il periodo della Repubblica, il diritto di sedere sulla sella curule era riservato a: consoli, pretori, edili curuli, sacerdoti massimi, dittatori e al magister equitum. In epoca imperiale l’uso della sedia curule fu ampliato anche all’imperatore, al praefectus urbi e ai proconsoli.
Il simbolo di potere rappresentato dalla sedia curule affonda le sue radici nell’antica Etruria; infatti già gli Etruschi consideravano lo scranno pieghevole a forma di sella una prerogativa di chi poteva esercitare il potere (giudiziario ed esecutivo) sul popolo. Fu portato a Roma dal quinto re, Tarquinio Prisco.[1]
RICORDARE CHI ERA HENRY W. LONGFELLOW:
"Henry Wadsworth Longfellow (Portland, 27 febbraio 1807 - Cambridge, 24 marzo 1882) è stato uno scrittore e poeta statunitense, tra i primi letterati americani ad assurgere alla fama mondiale.
Longfellow fu il più famoso poeta della scena del New England nell’’800 e scrisse numerose opere tra cui Evangeline e Il faro.
Fu un acceso promotore dell’abolizione della schiavitù negli anni prima e durante la Guerra Civile Americana insieme ad altri intellettuali che gravitavano nell’orbita di Harvard e soprattutto insieme all’allora Governatore del Massachusetts John Andrew.
Intorno al 1862 insieme ai letterati James Russell Lowell, Oliver W. Holmes e George Washington Greene diede vita al cosiddetto "Circolo Dante", atto a promuovere la conoscenza della Divina Commedia di Dante Alighieri negli Stati Uniti. Insieme ai suoi colleghi del circolo, Longfellow ne portò a termine la prima traduzione statunitense in inglese nel 1867.
Da allora il successo dell’opera di Dante in America fu costante ed in seguito il Circolo diventò la "Dante Society", una delle più famose associazioni di dantisti nel mondo [...]" (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Henry_Wadsworth_Longfellow).
LE PAROLE ("DVX-LVX, REX-LEX") SCRITTE SULLA "CROCE" INSCRITTA NEL "CERCHIO" SULLA TOMBA DI LONGFELLOW sicuramente - via Dante Alighieri (e probabilmente anche via Dante Gabriele Rossetti) - si ricollegano al filo della tradizione religiosa cristiana, e sono riferite a CRISTO, concepito come LUCE, LEGGE, RE, DUCE.
E, ANCORA, per capire come e perché siano apparse le scritte "REX" e "DVX" sulla parete del SEDILE di Nardò (Lecce), bisogna RICORDARE chi era MARGHERITA GRASSINI SARFATTI e rileggere il suo "DVX" (sul tema, mi sia consento, cfr IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE).
E, INFINE, PER CAPIRE MEGLIO, E ALLA LUCE DEL SOLE ("INVICTUS"), IL SENSO DELLE "QUATTRO PAROLE" (LVX, LEX, REX, DVX), LEGGERE E RILEGGERE E ANCORA RILEGGERE LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA ....
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....
Gianni Ferrara
Dov’è la dottrina comunista dello Stato
di Tommaso Edoardo Frosini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 16.07.2017)
A metà degli anni Settanta, Norberto Bobbio pubblicò un articolo nel quale poneva la domanda: esiste una dottrina marxista dello Stato? Per poi argomentare una risposta sostanzialmente negativa. Adesso, Gianni Ferrara, insigne costituzionalista e già deputato indipendente del Pci, pubblica un libretto che si fonda sulla seguente affermazione: è esistita una dottrina marxista della costituzione e della democrazia. Con specifico riferimento al caso italiano, e grazie al contributo di tre leader comunisti: Gramsci, Togliatti e Berlinguer.
Certo, non è una tardiva risposta alla domanda di Bobbio; ma non è nemmeno, come si sarebbe indotti a pensare, un déjà-vu: un libretto che rispolvera un passato nel tentativo di declinarlo al presente. Certo, c’è molta nostalgia nelle pagine di Ferrara e c’è anche l’orgoglio di sentirsi ancora parte di un mondo ideologico da tempo tramontato. Nella convinzione, giusta o sbagliata, che la lotta per la democrazia in Italia è stata, e tutta intera, la storia del Partito comunista italiano. Rivendicazione coraggiosa ma debole, che valorizza oltremodo una teoria politica ponendola in maniera egemone rispetto alle altre. Sebbene la storia abbia dato chiaramente indicazioni diverse. Sebbene le società siano cresciute e si siano sviluppate nel solco del liberalismo, quale teoria politica della società aperta.
La dottrina politica di Gramsci ha davvero influenzato la nascita della democrazia in Italia? Direi proprio di no. L’idea dell’egemonia gramsciana, quale combinazione di forza e consenso e di direzione intellettuale e morale, si mostra come contrapposta al concetto di pluralismo e libertà, perché comprime lo sviluppo dell’individuo costringendolo in un perimetro ideologicamente chiuso, da rappresentarsi in forma diretta e solo per il tramite del partito politico, quale moderno principe. Vale la pena quantomeno di ricordare come, qualche anno prima, Tocqueville avesse chiaramente raccontato la democrazia come libero associazionismo.
La dottrina politica di Togliatti ha davvero influenzato la nascita della democrazia in Italia? Pur senza negare il contributo fattivo del leader comunista ai lavori della Costituente e quindi al formarsi della Costituzione in Italia, anche qui esprimerei un giudizio di riserva. Ferrara afferma che Togliatti era un fine giurista, come Marx e come Lenin.
Dichiarazione tutta da dimostrare, se è vero come è vero, per dirla con le parole di Calamandrei, Togliatti avrebbe voluto una Costituzione come «un manifesto di propaganda ed anche un po’ predica». Innegabile il suo impegno per la ricerca del compromesso fra culture politiche, la sua ambizione a essere un “rivoluzionario costituente”, ma soprattutto la sua battaglia nel voler fare della democrazia italiana la via al socialismo, e quindi nella direzione generale di una trasformazione economica socialista. Il “fine” giurista, però, non seppe cogliere l’importanza della Corte costituzionale, che definì una “bizzarria”, e i suoi compagni di partito addirittura “un grave atto di lesa democrazia”, quale invece fondamentale baluardo contro la tirannia della maggioranza e per l’affermazione e tutela dei diritti di libertà. Sul punto, mi sembra che Ferrara sia un po’ sbrigativo.
La dottrina politica di Berlinguer ha davvero influenzato la nascita e lo sviluppo della democrazia in Italia? Qui la valutazione deve essere più ponderata. Per il suo apprezzabile impegno ad affermare il principio dell’assoluta indipendenza e sovranità di ogni Stato socialista e di ogni partito comunista. Che si risolse con un progressivo distacco del partito comunista italiano da quello sovietico. E nella costruzione di una democrazia italiana sempre più dinamica per favorire le condizioni per un graduale passaggio al socialismo, sebbene attraverso un “blocco storico”, ovvero la conquista del potere da parte di un blocco di forze politiche e sociali, di cui il partito è parte. Torna, qui, l’idea di egemonia oppositiva al pluralismo e alla libertà.
Ferrara la chiama, sulla scia di Togliatti, «democrazia progressiva»: concetto un po’ vago, a ben vedere, che si identifica con quello di forma di Stato, cioè l’insieme di apparato gius-politico e di comunità umana, come insieme di due entità collegate. Uniti nella lotta per la via italiana al socialismo, per una teoria politica del marxismo. Una lotta, come esplicitato nelle ultime pagine del libro, da muoversi contro la «cappa composta dai Trattati europei», contro un’Europa che si assume essere fonte di diseguaglianze e compressioni sociali. Senza tenere conto, però, che questa Europa, piaccia oppure no, ci ha finora dato la cosa più importante: la pace fra i popoli. E ci ha garantito la libertà: certo, anche economica. Alla domanda di Bobbio, esiste una dottrina marxista dello Stato?, si può oggi agevolmente rispondere che esiste solo una dottrina liberale dello Stato, che si chiama costituzionalismo.
INDIVIDUO E SOCIETÀ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITÀ, APRIRE GLI OCCHI ..
Il presente che nutre il fascismo
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 12.07.2017)
IL FASCISMO non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità comunitaria. Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti).
Il fascismo rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico - le fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a chiamare blandamente “populismo” sono il segno di una risposta, sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i diritti individuali possono fare il gioco contrario.
La democrazia nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato la società nazionale nel ventennio.
Nei paesi di cultura cattolica, dove il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata.
I diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare, ma anche per le persone che li godono. Un diritto è un abito di solitudine - definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni sociali strutturate - senza quei corpi intermedi associativi, dalla famiglia al mutualismo locale - essi sono sinonimo di una libertà troppo faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungiumiranti, i liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati dai diritti individuali.
Non si vuole con questo giustificare la rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente, dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente. Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe miope non vedere.
Il primo corrisponde al declino di legittimità della politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita politica - la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato.
Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta, di contrattazione, e di progetto per una società più giusta.
Il terzo luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale connessa alla scomposizione della vita comunitaria.
In altre parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’atomizzazione individualistica, dalla solitudine delle persone, dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie. Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori del loro contesto di significato.
Ora, se le cose stanno così, se la nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti, pensare di rimediare ritornando ai modelli gerachici fascisti e al vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione sociale e del potere politico dei cittadini democratici.
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RIPENSARE L’UNO E I MOLTI ("UNO"), L’IDENTITA’ E LA DIFFERENZA!!! CONTIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ....
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ.
Farsi santificare dal popolo
Con Napoleone inizia la «dittatura per mezzo del plebiscito». Un metodo antiliberale ancora oggi in voga e pieno di rischi
di Nadia Urbinati (Il Sole-24 Ore, Domenica, 11.06.2017)
L’appello al popolo misura il rapporto tra governanti e governati. Usato da leader cesaristi per vantare l’amore del popolo, il plebiscito, in cui l’appello al popolo si manifesta, ha un rapporto obliquo con la democrazia, che non è identica al consenso perché regola innanzi tutto il ruolo del dissenso nella costruzione della maggioranza.
Il plebiscito occupa un ruolo importante nella storia politica moderna, a partire prima di tutto dalle costituzioni americane (dove venne usato per confermare le carte con voto popolare) e poi, soprattutto, dalla Rivoluzione francese, dove la forma plebiscitaria ha giocato ruoli diversi e contradditori.
In questo libro interessante e utilissimo, Enzo Fimiani ricostruisce la storia comparata del plebiscito nei Paesi europei moderni in un lasso di tempo di duecento anni, dal 1791 quando venne usato in Francia per ratificare la Costituzione, fino al 1991 quando Boris Eltsin usa il “grimaldello plebiscitario” per sancire la fine dell’URRS. Coloro che nella Francia rivoluzionaria si espressero a favore dell’appello al popolo posero il problema della legittimazione popolare delle leggi in maniera diretta: la Costituzione, disse Brissot, potrà essere “perfetta” solo quando il popolo l’avrà ratificata.
In effetti il plebiscito sembrò connettere al meglio popolo e Costituzione e si iscrisse in un processo interessante di interpretazione della voce sovrana in un tempo di attiva sperimentazione istituzionale, quando la monarchia era ancora in campo, disposta di lì a poco a scendere in diretta competizione con il popolo-re per la conquista del potere sovrano.
Pochi anni dopo, Napoleone avrebbe usato il plebiscito per soddisfare le sue esigenze di “tribuno ambizioso” che cercava nell’“entusiasmo irriflessivo” dei francesi il viatico supremo. Comincia con lui la “dittatura per mezzo del plebiscito” che sarà destinata a godere di larga e sinistra fortuna nell’Europa continentale, fino a suggellare i regimi totalitari. Condizioni democratiche e condizioni cesaristiche si sono dunque contese lo scettro mediante il plebiscito.
La svolta più dirompente verso la dittatura consensuale si ebbe con Luigi Napoleone che, da Presidente della seconda Repubblica ne decretò la fine con la forza del voto popolare, usato per sottolineare il vincolo affettivo che lo univa direttamente alla nazione. La domanda plebiscitaria che lo incoronò era furbescamente privata del punto interrogativo: «Il popolo francese vuole il mantenimento dell’autorità di Luigi Napoleone Bonaparte, e gli delega i poteri necessari per stabilire una Costituzione sulle basi proposte nella sua proclamazione del 2 dicembre 1851».
Dall’età rivoluzionaria viene la consuetudine di assegnare all’appello al popolo la sorgente della delega formale e totale non a governare semplicemente, ma a scrivere una nuova Costituzione: dal Settecento in poi, la conquista del potere, fosse per mano dei rappresentati eletti per suffragio o di un capo che si auto-dichiarava rappresentante ideale dell’unità del popolo, è associata alla scrittura di norme. La politica costituzionale cercò la legittimità per via di consenso dunque, che poteva essere una tantum (come con il ’golpista’ Napoleone III) o il primo atto di una politica basata sul consenso elettorale.
Darsi al capo e dare vita a una sovranità democratica sono opzioni contraddittorie che possono partire dal seme plebiscitario, a dimostrazione di quanto ambiguo sia il principio del consenso popolare.
Un esempio di questa originaria ambiguità è anche nella storia italiana, la cui unità nazionale sotto i Savoia avvenne anche attraverso i plebisciti (a suffragio largo e anche universale maschile) per legittimare un nuovo Stato i cui governi si sarebbero di lì in poi retti solo sul consenso elettorale di una ristrettissima minoranza di aventi diritto al voto.
All’opposto sta l’esempio che ci viene dall’epilogo della Resistenza: il referendum istituzionale che nel 1946 fonda la Repubblica italiana darà vita ad un’Assemblea costituente che scriverà la nuova Costituzione democratica che non interpellerà il popolo alla fine dei lavori. Il grande potere che l’Assemblea si è dato non introducendo l’obbligo del referendum confermativo rifletteva la diffidenza dei costituenti nei confronti degli appelli al popolo, usati con pompa propagandistica dal regime fascista.
Nel plebiscito si manifesta una particolare predisposizione a semplificare il voto popolare : non solo esso non è un’istituzione con cadenza regolare ma mantiene un carattere di eccezionalità (non è identificabile quindi con il referendum); è inoltre indifferente all’espressione individuale del voto perché conta la massa. Infine, il suo successo è fortemente associato alla partecipazione più che alla conta dei voti: indire un plebiscito e vincerlo su una partecipazione esigua è un segno di sconfitta. Ciò prova che nonostante la sua identificazione tecnica con la democrazia diretta, il plebiscitario vuole l’esaltazione dell’opinione e un consenso entusiasta, non semplicemente una maggioranza di consensi. La sua norma è, come recita il titolo del libro, “l’unanimità più uno”. Come tale piace ai leader cesaristi e populisti, mentre incontra la diffidenza dei democratici liberali.
IMMAGINARIO E POLITICA. ALLE ORIGINI DEL SUPERUOMO DI MASSA E DELL’ITALIA COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DI UN UOMO SUPREMO
EDITORIALE
«L’Unità fondata da Gramsci uccisa dall’incuria di questi ultimi due anni»
Editoria. L’editore sospende le pubblicazioni. Martedì incontro decisivo alla Fnsi. I lavoratori dell’Unità impaginano il giornale solo per l’on line e scrivono l’ultimo editoriale
Ci sono storie che non dovrebbero finire, per la storia che hanno raccontato e testimoniato, per quella che hanno cercato di capire, per chi ci ha creduto, per chi ci ha messo passione, professionalità e attaccamento.
Questa storia, la nostra, hanno deciso di chiuderla nel modo peggiore, calpestando diritti, calpestando lo stesso nome che porta questa testata, ciò che ha rappresentato e ciò che avrebbe potuto rappresentare.
L’editore ha comunicato, con una lettera spedita alle ore 22.49 del 1° giugno, che incontrerà la Federazione nazionale della stampa, Stampa Romana e il Cdr per illustrare la situazione economico-finanziaria del giornale e la «conseguente decisione di interrompere volontariamente la pubblicazione». «Riteniamo - aggiunge l’amministratore delegato Guido Stefanelli - che questa sia la scelta più giusta da fare in attesa di portare a compimento le procedure di ristrutturazione aziendale».
Una decisione grave, arrivata dopo giorni di assenza del giornale dalle edicole perché lo stampatore ha fermato le rotative per la mancata riscossione dei crediti maturati e per i quali da mesi chiedeva il relativo pagamento.
Se si è arrivati fino a questo punto non è stato per un improvviso fatto esterno, ma per una decisione più volte annunciata dallo stesso stampatore. Nel silenzio più totale da parte dell’amministratore delegato abbiamo tuttavia continuato a svolgere il nostro lavoro confezionando un giornale che nessuno ha potuto acquistare in edicola, destinato soltanto agli abbonati che per alcuni giorni neanche riuscivano a scaricarlo nella sua versione online. Nel silenzio più assoluto da parte di un’azienda che non ha neanche ritenuto di dover comunicare che non avrebbe pagato gli stipendi ai lavoratori e alle lavoratrici.
E che oggi dà notizia di una ristrutturazione annunciata da mesi ma mai avviata davvero. In questi mesi l’azienda, la stessa che in due anni non ha presentato un seppur minimo piano industriale, ha solo più volte minacciato licenziamenti collettivi, come se a pagare il conto della mancata gestione aziendale dovessero essere i lavoratori e le lavoratrici.
Tutto questo è avvenuto in un giornale che si chiama l’Unità, che ha fatto della difesa dei lavoratori il suo tratto distintivo, e di cui ancora oggi il Partito democratico è socio al 20% attraverso la fondazione Eyu.
Non siamo cioè di fronte a una società composta di soci privati tout court: siamo di fronte ad un’impresa editoriale che ha al suo interno un partito politico che ha fatto della difesa dei diritti il suo cavallo di battaglia. Un Pd che ha assistito a quanto sta avvenendo da mesi, compreso il ricatto al sindacato di non pagare gli stipendi fino a quando lo stesso cdr non avesse convinto ex dipendenti a rinunciare ai loro diritti sanciti dal giudice del lavoro, senza prendere una forte posizione pubblica.
Ci sono storie ed imprese editoriali che possono iniziare con la migliore delle intenzioni e poi, malgrado ogni sforzo, scontrarsi con una competizione su un mercato difficile e in forte crisi, e dunque prendere atto di non avercela fatta ma garantendo sempre, fino all’ultimo momento, il rispetto dei diritti dei propri dipendenti, delle relazioni sindacali, della professionalità di tutti.
Questa storia, la nostra, invece, è stata scritta in un altro modo.
Nessun progetto, nessun piano industriale, relazioni sindacali calpestate, dignità professionali umiliate, tanto da arrivare nell’incredibile situazione di dover confezionare un quotidiano che non va in edicola. Anche in questa giornata siamo qui, al lavoro, per un giornale diverso da tutti quelli finora scritti: il più doloroso, il più triste.
Perché l’Unità finisce oggi, con questo numero, visto che la redazione sarà in sciopero fino al giorno dell’incontro in Fnsi con l’editore. Fino a quando non ci diranno cosa intendono fare del futuro di questo giornale, con quali risorse, con quale progetto industriale ed editoriale e in quali tempi.
Non ci fidiamo più, troppe promesse disattese, troppi strappi a qualunque civile e normale dialettica tra azienda, sindacato e lavoratori. Quello che chiediamo con forza a tutti i soggetti in campo è di avere almeno il rispetto che meritano i lavoratori e le lavoratrici di questo giornale. Il rispetto per l’Unità, fondata da Antonio Gramsci e uccisa giorno dopo giorno dall’incuria di questi ultimi due anni.
In questa storia sono in diversi a dover rispondere di quanto accaduto. Gli editori di maggioranza, la Piesse di Massimo Pessina e Guido Stefanelli, Eyu, che fa capo al Partito Democratico, e lo stesso segretario del Pd Matteo Renzi a cui più volte ci siamo rivolti senza mai ottenere una risposta o una parola di solidarietà nei momenti più duri della lotta quando per otto giorni di seguito la redazione è scesa in sciopero ad oltranza.
Un silenzio che ha ferito tutti coloro che in questo giornale hanno lavorato accettando condizioni spesso al limite dell’accettabile. Ci chiediamo se anche di fronte a questa decisione dell’editore proseguirà la scelta del silenzio.
Ai nostri lettori diciamo che noi ce l’abbiamo messa tutta. Fino all’ultimo momento. Malgrado tutto, malgrado le scelte e le inerzie dei colpevoli. Anche noi odiamo gli indifferenti, e in questa storia siamo gli unici a non esserlo stati.
Le storie possono essere scritte in tanti modi. Per noi hanno scelto il peggiore.
Storia
Roma, declino senza illusioni
di Gabriele Pedullà (Il Sole-24 Ore, 28 aprile 2017)
Che cosa accomuna Angelo Poliziano e un maestro del cinema western come Anthony Mann, il patriarca di Costantinopoli (e bibliofilo) Fozio e Niccolò Machiavelli, il libertino francese François de La Mothe Le Vayer e il grande storico settecentesco di Roma Edward Gibbon, l’illuminista radicale Mably e Tommaso Moro? Tutti, in forme diverse, furono estimatori della Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, redatta in greco da Erodiano, che della “crisi del terzo secolo” si era trovato testimone diretto.
Erodiano, a essere generosi, non è tra i classici che si incontrano sui banchi del liceo e si rileggono (o ci si ripromette di leggere) per il resto della vita. L’ultima edizione italiana risale al 1967, quando Filippo Cassola lo pubblicò presso La Nuova Italia. A distanza di mezzo secolo esatto, fa dunque bene Einaudi a riproporlo nella NUE senza originale greco a fronte e con una leggera revisione del testo (nonostante nel frattempo sia uscita da Teubner una nuova edizione critica a cura di Carlo M. Lucarini), ma arricchito da una premessa di Luciano Canfora.
Poco presente nei canoni scolastici, Erodiano è però di quegli autori che possono suscitare l’entusiasmo dei lettori più esigenti: uno storico di impianto “tucidideo”, sobrio e vigilante, impegnato come il suo modello a raccontare gli avvenimenti a lui contemporanei senza farsi troppe illusioni sugli uomini e sulle passioni che li guidano, sempre pronto ad andare oltre le apparenze, persino spregiudicato nella valutazione spassionata dei rapporti di forza. Insomma un gigante della storiografia antica, da mettere tra gli otto o dieci maestri indiscussi della disciplina.
A dire il vero, Cassola e Canfora sembrano meno persuasi della grandezza di Erodiano. Il saggio introduttivo del primo è tutto sulla difensiva, nel tentativo di riscattare il greco dai giudizi severi della filologia tedesca dell’Ottocento, che come nel caso di tanti altri storici antichi (esemplare il caso di Dionigi di Alicarnasso) aveva ingiustamente sdegnato la sua prosa e messo in dubbio la sua attendibilità. Canfora aggira invece il problema deviando sul tema affascinante (ma anche laterale) del dibattito sulla crisi della civiltà al principio del XX secolo.
Il non specialista che, presa in mano la Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, rimane folgorato dall’intelligenza politica del racconto e si convince a poco a poco di essersi imbattuto in un capolavoro inatteso può comunque stare tranquillo: prima del sostanziale oblio otto-novecentesco, per circa tre secoli, a partire dalla fine del Quattrocento, Erodiano era stato unanimemente considerato un autore di prima grandezza in tutta Europa (tanto per fare un esempio, assieme a Erodoto e Tucidide, è uno dei tre storici che Moro asserisce di aver portato in dono agli abitanti dell’isola di Utopia). Se il giudizio assai favorevole di Fozio (IX secolo) contò sicuramente, i nuovi lettori trovarono ben presto nuovi motivi per apprezzarlo, depositando le ragioni del loro trasporto negli apparati e nelle lettere dedicatorie delle edizioni e delle versioni che, dopo quella di Poliziano in latino (1493) si succedettero rapidamente in tutte le principali lingue europee.
Per Poliziano, che lo tradusse (infedelmente ma con straordinaria eleganza) su richiesta di papa Innocenzo VIII, Erodiano aveva parlato della corte di Roma «non solo con eloquenza, ma con franchezza e in maniera attendibile», arricchendo il racconto di «saggi precetti in uno stile pieno di maestà e dolcezza», così che le sue pagine potevano essere lette come «un deposito di moralità» e «uno specchio della umana sorte». Secondo La Mothe Le Vayer, che nel Jugement sur les anciens et principaux historiens grecs et latins (1646) gli tributa i massimi onori, «Erodiano riceve la principale raccomandazione dal suo proprio merito». -Analogamente, in De la manière d’ècrire l’histoire (1783), Mably lo pone tra «gli storici più giudiziosi dell’antichità», additandolo a esempio per il modo in cui aveva evitato le digressioni inutili e per il suo realismo («Tutto diventa una lezione per me. Vedo come la politica delle passioni non ha altra arte che quella di conformarsi alle circostanze»), mentre il suo traduttore ottocentesco Pietro Manzi si sofferma in particolare sul suo stile, dove «la brevità non adombra la chiarezza», sino a concludere che Erodiano, come storico e come prosatore, «è tutto verità, è tutto natura».
La migliore garanzia che questa Storia costituisce davvero un testo fuori dal comune ce la fornisce però Machiavelli: che la lesse, ne rimase affascinato e se ne servì abbondantemente soprattutto nel Principe. -Sino a oggi gli studiosi hanno riconosciuto il debito di Erodiano nel solo capitolo XIX, dove Machiavelli ripercorre le vicende degli imperatori succedutisi dopo Marco Aurelio.
Tuttavia, a guardare bene, tracce di Erodiano emergono lungo tutto il Principe, offrendo a Machiavelli più di uno spunto. Considerazioni spregiudicate sulla incapacità degli uomini di perdonare veramente le offese (Princ. VII; Storia III.2), sulla opportunità di compiere tutte assieme le azioni violente contro i propri avversari (Princ. VIII; Storia III.8), sulla inutilità delle concessioni fatte in ritardo (Princ. VIII; Storia II.11), sulla superiorità dei vincoli della paura su quelli dell’amore (Princ. XVII; Storia I.4), sulla impossibilità di dimenticare un bene strappato con la forza (Princ. XVII; Storia III.2) e sulla diversità degli interessi dei soldati mercenari e del popolo (Princ. XIX; Storia II.4; VII.3; VIII.8) si trovano infatti in tutte e due le opere. Ed è molto probabile che, anche in assenza di un rimando esplicito, non si tratti di una semplice coincidenza.
Per quanto importante, Machiavelli rappresenta comunque solo un esempio tra i tanti possibili. Come tutti i veri classici (poco importa se letti nelle scuole) Erodiano ha conquistato l’immaginario politico europeo grazie alla sua capacità di tornare attuale nei contesti più diversi. Dove Poliziano, da umanista, è colpito dai «molti esempi del potere della Fortuna» presenti nelle sue pagine, la prima edizione in greco di Francesco Torresano (1524) evoca prontamente le analogie tra le guerre intestine dei Romani e la divisione che da qualche anno, con Lutero, stava lacerando la Cristianità. Allo stesso modo, mentre il grande filologo riformato Henri Estienne, nel dedicare la propria traduzione latina a Philip Sidney (il celebrato autore dell’Arcadia e della Defense of Poetry), descrive l’opera di Erodiano come una guida contro «le Sirene delle corti» (1581), il filologo tedesco Daniel Pareus può costruire uno speculum principis con esempi esclusivamente tratti dalla Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio (1630). Ma lo stesso si può ripetere per la traduzione in versi di C.B. Stapylton (1652) e per l’anonima edizione londinese del 1698: le quali, sulla scia degli avvenimenti che avevano da poco sconvolto l’Inghilterra, rileggono entrambi le guerre civili narrate da Erodiano attraverso la categoria di rivoluzione.
Col sussidio di una buona biblioteca, si potrebbe continuare a lungo. Quello che conta, però, è il principio generale: la capacità di Erodiano di rispondere alle esigenze più diverse suscitando nel contempo domande inedite. Ora che la sua Storia è di nuovo tra noi, si tratta dunque di capire come sarà il nuovo Erodiano, inevitabilmente nutrito delle ansie di questi primi anni del XXI secolo. Canfora, giustamente, mette in guardia dalla formula, troppo scontata, della crisi. Si potrebbe scommettere allora, un’altra volta, sul potere di seduzione del realismo politico: e sarebbe, questo, un Erodiano “per capire”, sulla scia di Machiavelli e Mably.
Ma non è nemmeno escluso che - tra congiure, battaglie su tre continenti e continui colpi di scena - a prevalere sia piuttosto la straordinaria forza del racconto: che, non a caso, ha ispirato (via Gibbon) l’unico peplum americano che ancora oggi si lascia guardare senza imbarazzo La caduta dell’impero romano di Anthony Mann (1964). Perché no, anche considerato che il diletto, assieme all’istruzione, è sempre stato l’obiettivo della storiografia classica? L’importante, intanto, è che adesso la Storia sia di nuovo in libreria, disponibile per un ennesimo, imprevedibile incontro con i lettori.
Antonio Gramsci: i veri intellettuali *
Quando si distingue tra intellettuali e non intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore dell’attività specifica professionale, se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si può parlare di intelettuali, non si puà parlare di non-intellettuali, perché non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione de mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.
Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo. Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i “veri” intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale.
Su questa base ha lavorato l’”Ordine Nuovo” settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti e era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita.
Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente” perché non puro oratore - e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico).
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A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III.
MARX, LA RIVOLUZIONE FRANCESE, E I POPULISMI - OGGI. UN OMAGGIO AL LAVORO E ALLA MEMORIA DI MIGUEL ABENSOUR... *
SENZA KANT, GLI “SPINOZIANI” E I “MARXIANI” FINISCONO PER DIVENTARE SEMPRE SPINOZISTI E MARXISTI. Il problema J.-J. Rousseau - e la dialettica esistente tra tous uns (tutti unici) e tous Un (tutt’Uno) - non si risolve con la teologia e il misticismo fichtiano ed hegeliano...
SICURAMENTE “Marx avrebbe sempre voluto scrivere un libro sulla Rivoluzione francese (chissà quanto ci avrebbe aiutato a capire meglio sia la rivoluzione sia il pensiero di Marx!): essa può venir intesa come democrazia insorgente nel senso che è sempre stata attraversata da un conflitto interno tra una comunità politica popolare e le istituzioni; sia, da un lato, le istituzioni dell’Ancien Régime (come la monarchia) sia, dall’altro, le nuove istituzioni in statu nascendi” (Miguel Abensour, in dialogo con Daniele Gorgone: http://www.leparoleelecose.it/?p=27245), MA ALTRETTANTO SICURAMENTE avrebbe avuto al suo centro il nodo del ” 18 brumaio di Luigi Bonaparte”:
Non basta dire come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l’enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una nazione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza (https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1852/brumaio/index.htm).
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL “RISCHIARAMENTO” (“AUFKLARUNG”) NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! (cfr.: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790):
In Germania, la “distorsione” - e le premesse della ”hitlerizzazione di Kant” - avviene già alla fine del 1700, ad opera di Fichte prima e di Holderlin, Schelling, e Hegel poi. Chi dà il via - contro il programma critico di Kant che, già con “i sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica” (1766) prima e soprattutto con la “Critica della ragion Pura” (1781 e del 1787) dopo, ha ‘ghigliottinato’ (anticipando gli eventi: la rivoluzione francese e la morte di Luigi XVI) il “Dio” dei Faraoni (atei e devoti) e senza negare la rivelazione (l’antropologico “bisogno razionale” della ragione) ha sbarrato la strada a ogni possibilità di una metafisica e di una teologia come scienza, - è Johann G. Fichte. Questi, nato nel 1762, nello stesso anno della pubblicazione dell’Emilio e del Contratto sociale di J.-J. Rousseau, è segnato paradossalmente dalla lettura del Robinson Crusoe di Daniel Defoe.
Nel 1791 con il “Tentativo di critica di ogni rivelazione” (1792), Fichte dà l’avvio al suo programma, sottopone il discorso di Kant a una radicale distorsione e comincia le sue lezioni “sui doveri degli eruditi” (sulla cosiddetta “Missione del dotto”, un tema che sarà al centro delle sue preoccupazioni fino al 1811-1812, quando sarà eletto rettore del’Università di Berlino), dà il via libera al sogno di una restaurazione della “Scienza” (“Sul concetto della dottrina della scienza“, e il “Fondamenti della intera dottrina della scienza” sono del 1794) e, infine, con i “Discorsi alla nazione tedesca” (1807-8), lavora a stimolare un risveglio politico e morale della coscienza nazionale in modo già fortemente nazionalistico.
Hegel, in una lettera a Schelling del 1795, documenta molto bene l’atmosfera “romantica e mistica” della strada aperta da Fichte e subito condivisa da lui stesso, Schelling, e Holderlin, e a Schelling scrive: “Holderlin mi scrive da Jena di tanto in tanto. (...) Segue le lezioni di Fichte e ne parla con entusiasmo, come di un titano che combatte per l’umanità e la cui sfera d’azione non rimarrà certamente confinata tra i muri dell’aula accademica (...) Venga il regno di Dio e le nostre mani non restino in grembo (...) Ragione e libertà restano la nostra parola d’ordine, e il nostro punto d’incontro resta la chiesa invisibile” (G.W.F. Hegel, Lettere, Laterza, Bari 1972, p. 11-12).
L’ “Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico” (Kant, 1784), per quanto ancora segnata da eurocentrismo e memoria delle origini greco-romane, è buttata alle ortiche e l’ottica diventa sempre più (e già, minacciosamente) nazionale. Nel 1799, quando Kant era ancora vivo (uno dei suoi ultimi scritti, “Logica”, uscì nel 1800), Holderlin lo consegna filosoficamente già morto agli amici del “seminario di Tubinga” e lo im-mortala come la pietra fondante della costruzione dell’idealismo tedesco, come il “Mosè della nostra nazione, che conduce dal torpore egiziano nel libero, solitario deserto della speculazione, portandole dal sacro monte l’implacabile legge” (cit. in: Remo Bodei, Scomposizioni, Einaudi, Torino 1987, p. 90).
E nel 1805, Hegel a Johann H. Voss (che aveva realizzato la traduzione tedesca dell’Odissea nel 1781 e dell’Iliade nel 1793), scrive: “Lutero ha fatto parlare la Bibbia in tedesco, Lei, Omero: è il più grande regalo che possa essere fatto a un popolo; infatti un popolo rimane allo stato barbarico e non considera come sua proprietà le cose pregiate che viene a conoscere, finché non impara a riconoscerle nella propria lingua. Se Lei vuol dimenticare questi due esempi, Le dirò che il mio sforzo è diretto a far parlare la filosofia in tedesco”. E, poco oltre, aggiunge: “Per la Germania sembra essere venuto il tempo in cui la verità debba diventare manifesta, e che a Heidelberg possa sorgere una nuova aurora per la salvezza della scienza” (G.W.F. Hegel, Lettere, cit., p. 68).
Hegel sta alludendo alla imminente pubblicazione della “Fenomenologia dello Spirito”, ma è ancora incerto. Su Heidelberg si sbaglia, ma alla fine dell’anno successivo a Jena, occupata dai francesi, abbagliato dalla luce dello Spirito del mondo, riceve l’ ‘investitura’ e scrive: “Ho visto l’Imperatore [Napoleone] - quest’anima del mondo - uscire a cavallo dalla città per andare in ricognizione; è in effetti, una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, s’irradia per il mondo e lo domina” (Lettera a Niethammer, op.cit., p. 77). Allora rompe ogni indugio e, preso dall’entusiasmo, taglia il cordone all’ombelico del suo sogno (ma anche di Cartesio) e, agli inzi del 1807, butta giù la famosa ‘Vorrede’ (la “Prefazione” alla Fenomenologia dello Spirito), celebrata da Marcuse di “Ragione e Rivoluzione” come “una tra le più grandi imprese filosofiche di tutti i tempi, costituendo niente di meno che un tentativo di restaurare la filosofia come la forma più alta della conoscenza umana, come La Scienza”. Egli, finalmente, è giunto a cogliere e a ‘svelare’ al mondo l’ “elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua religione”: l’Assoluto come Spirito (“Io che è Noi, e Noi che è Io”)! E il sogno di “far parlare la filosofia in tedesco” comincia. [...] (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790)
Federico La Sala
Heiner Müller, anatomia della differenza
di Massimo Palma *
Come si ferma la patologia della vendetta, come si esce da un’epidemia della mutilazione in cui tutti tagliano arti, recidono organi e versano lacrime assieme col sangue? Sembra chiedere questo Heiner Müller, quando nel 1984-85 - la perestrojka non è ancora all’orizzonte, la DDR itera annoiata la sua “tolleranza repressiva” in materia culturale - affronta il primo Shakespeare, che dal vortice grandguignolesco del teatro elisabettiano estrae una trama illeggibile, il Tito Andronico.
Protagonista finto di una storia vera - il declino di Roma, la progressiva commistione Romani-barbari, la contaminazione della romanitas in una koinè cupa e “incivile” -, Tito Andronico è il generale che ha sconfitto i Goti, portandosi in trionfo la regina per poi concederla al nuovo imperatore Saturnino. Questo non prima di averne squartato il figlio - come atto sacrificale, atto di pietas -, scatenando una sequela di vendette mutuata da Seneca e da Ovidio che attraverso frodi, stupri, mutilazioni inferte, richieste ed esaudite, porterà fino al pasto cannibalico, dove l’eroe eponimo s’improvvisa cuoco di pietanze umane per genitrice ignara.
Come sempre in Müller, la lezione del maestro Brecht è mandata a memoria e insieme modificata: i classici vengono rivisitati per consegnarli al presente, vengono tradotti, stravolti e integrati per farli rimare col proprio tempo. E se Shakespeare parla sempre anche della nostra barbarie, in Anatomia Tito - anatomia che fa il protagonista del corpo proprio e altrui, anatomia che fa Müller del testo altrui e proprio, perché «si assimila solo disintegrando dentro di sé l’oggetto della conoscenza», ammonisce il curatore Francesco Fiorentino nell’essenziale introduzione che restituisce alcune linee guida per addentrarsi nel labirinto mülleriano - si arriva al grado estremo di sopportabilità, un grado zero dell’umano che lascia trasudare, nella sua eco pulp, persino inattesi scatti comici.
Un testo autenticamente mostruoso già in Shakespeare, quindi, che Müller traduce, chiosa e dota di commenti d’inaudita profondità, riportati in maiuscoletto, che affondano nella trama per toglierle orpelli e aggiungere carne e materia, o prendono una distanza politica, letteraria, storica, dislocandone i temi nell’oggi o nell’altrove minerale o animale. E lettera e commento, in questa preziosa edizione italiana, appaiono illuminate da un ulteriore elemento d’eco e di rimando: immagini romane di oggi, foto scattate da Alejandro Gomez Tuddo, che risuonano superbamente nell’iconografia altrimenti solo immaginata del Tito.
Il metodo, nella follia dell’oggetto, è scritto nel titolo e nel verso finale - l’anatomia, lo smembramento, è il fondamento dell’analisi: «se gli strappate la pelle di dosso, lo conoscerete». Dissezionare il Tito Andronico per comprendere Shakespeare e insieme la caduta di Roma, l’osmosi barbari-romani e insieme la proiezione culturale verso il problema dell’altro che preme alle frontiere: ovvero, il problema del prossimo secolo, amava ripetere Müller citando Pasolini, sarà l’entrata del Terzo Mondo nel Primo.
Il grande protagonista del testo è quindi quello più inatteso. Oltre la spietata Tamora, oltre Tito, oltre Lavinia - “scultura” di donna dopo la violenza subita da quei “barbari” che però imitano la letteratura romana (“non è mai un documento di cultura senza essere un documento di barbarie”, il monito brechtiano-benjaminiano alla base di molte riflessioni a cuore aperto del commento) -, l’eroe è l’indemoniato Aronne, il villain che ha appreso l’alfabeto di Roma ed è male assoluto, teorico e pratico del supplizio inflitto agli altri e allo spettatore. E soprattutto Aronne, insieme Satana in terra e nero dal nome ebraico, nella lettura di Müller è anche il “regista di se stesso”, il Negro - contro ogni politicamente corretto - che vomita verità accanto alle atrocità. Il Terzo mondo che arriva nel Primo per minarne ogni finzione di convivenza, per velargli l’inimicizia come fondamento del politico (“il resto è politica”, asserisce Aronne canzonando l’Amleto), radicalizza il suo ciclo di lutti, ne rivela la legge, la costante: ecco “il plot del nostro dramma luttuoso / Il filo rosso è il sangue dei nemici”.
Non più tragedia, ma mero Trauerspiel affogato nell’immanenza, lo scenario di Tito è la fine di ogni altezza, di ogni trascendenza del giusto e del divino, è il cielo che si abbassa e piove sangue (“nevica monumenti”, sostiene Tito in una sinestesia totalizzante). In questo cielo basso, nell’atmosfera soffocante di una Roma in rovina e senza tempo, dove appaiono supermercati, televisioni e campi di calcio, si affollano sciami di mosche, che da elementi di paesaggio divengono protagoniste e simboli dell’itinerario di Tito nella vendetta.
Ma domina dunque solo la legge del taglione in questo recital della colpa ripetuta? Regna dunque solo la letteralità scabra dell’ occhio per occhio? Dov’è l’altro, rispetto a quel Carl Schmitt che Müller legge, compulsa e fruga - lui, famelico lettore di Sofocle e di Deleuze, ossessionato dal problema-Dostoevskij del male (assoluto, radicale, innocente)?
La risposta non è certo in Shakespeare, specchio in cui rimirare la nostra barbarie perché la mostra in ogni civiltà, ma forse in quel mirabile “excursus sul Negro”, testo scritto non da Müller ma da un “malato di mente ufficiale”. L’excursus viene inserito nel cuore dell’esercizio anatomico di Tito, mentre il vecchio generale accecato dall’odio squarta e scioglie il nemico. Il matto, giocando sull’omofonia tedesca tra negro e roditore, arriva a svelare la “talpa”, altro animale shakespeariano e di qui marxiano, come metafora del Terzo Mondo - che finora è “sempre stato sotto la nostra terra”, protagonista di un “mondo negro che albeggia”.
Mentre i primi due mondi stavano finendo di guardarsi come ostili, Müller scopriva, al di là del nemico a est e a ovest, l’incredibile pressione anche culturale di chi finora non ha visto e non sa, perché “vive e muore là sotto”. Mentre ancora Honecker si diceva sicuro che il Muro sarebbe durato cent’anni, in Anatomia Tito la questione migratoria albeggiava come continuazione di quella “differenza”-Shakespeare, di cui parla la densa “conferenza” che chiude il libro. “Il terrore che proviene dalle immagini riflesse di Shakespeare è l’eterno ritorno dell’identico”, spiega Müller a se stesso e a noi. La barbarie di ogni civiltà è lo sfruttamento. Ma Aronne che ne gode, che gode del suo raccontare il male inferto, è, problematicamente, la mosca di un’intera cultura che ronza per portare altrove. Verso quell’utopia cui l’arte allude - anche quando guarda all’inimicizia assoluta e sembra affondarvi.
Risposte a Heiner Müller, anatomia della differenza *
TEATRO E CINEMA. “Anatomia Titus Fall of Rome “, “Il Gladiatore” ...
== “QUINTO: Un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto. MASSIMO: TU lo capiresti Quinto? IO LO CAPIREI?”* ==
IL GLADIATORE (Ridley Scott, 2000) è un film-saggio da rivedere-rileggere! Per una riflessione sulla caduta dell’impero romano-americano-occidentale, è da mettere in corrispondenza e in parallelo con il lavoro di Muller, “Anatomia Titus. Fall of Rome” - e con questa ipotesi di ‘lettura’ di Palma-Fiorentino (e la storica fondamentale riflessione di Gramsci, su “Romolo Augustolo” e sul “rinato Sacro Romano Impero”, cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5154)
MASSIMO HA CAPITO: SA GIA’ CHE I “BARBARI” COMBATTERANNO (PER LA LORO LIBERTA’ E PER LA LORO DIGNITA’) E STANNO APETTANDO LA LORO RISPOSTA.
MA QUINTO NO! Quinto non risponde (cfr: https://www.youtube.com/watch?v=yeZhxEJ-fkk): non capisce (e siamo all’Inizio del film, l’attimo prima di sapere se ci sarà o meno lo scontro tra romani e “barbari”), che cosa voleva dire Massimo: lo capisce solo alla fine (quando Commodo - nel duello con Massimo - chiede a Quinto un’altra spada, ma la sua richiesta viene rifiutata, sia da Quinto che dai pretoriani (“rinfoderate le spade”, cfr.: https://www.youtube.com/watch?v=vznl3uX0DaU da lui comandati).
CHI COMPRENDE IL DISCORSO DI MASSIMO è un Africano, Juba. Alla fine del film, dopo la morte di Massimo, è proprio Juba (l’amico gladiatore, il cacciatore numida, memore della sua libertà e della sua dignità), la notte seguente, che fa ritorno nell’arena vuota, lo ricorda (“Adesso siamo liberi ... Io ti rincontrrò un giorno. Ma non ancora, non ancora”, cfr.: https://www.youtube.com/watch?v=r-XgMTevoQ0), seppellisce le statuine della moglie e del figlio di Massimo, nella sabbia dell’arena, e si avvia verso l’uscita (ultima scena del film).
Heiner Müller, anatomia della differenza: “La risposta non è certo in Shakespeare, specchio in cui rimirare la nostra barbarie perché la mostra in ogni civiltà, ma forse in quel mirabile “excursus sul Negro”, testo scritto non da Müller ma da un “malato di mente ufficiale”. L’excursus viene inserito nel cuore dell’esercizio anatomico di Tito, mentre il vecchio generale accecato dall’odio squarta e scioglie il nemico. Il matto, giocando sull’omofonia tedesca tra negro e roditore, arriva a svelare la “talpa”, altro animale shakespeariano e di qui marxiano, come metafora del Terzo Mondo - che finora è “sempre stato sotto la nostra terra”, protagonista di un “mondo negro che albeggia”.”(M. Palma)
P. S.
***L’Europa non è l’unico luogo dove sia esistito l’illuminislmo(Amartya Sen)***
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di “una seconda rivoluzione copernicana” (CFR.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2962)
Federico La Sala
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Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista
Raccolti in un volume appena pubblicato con la prefazione di Canfora e la postfazione di Frasca Polara. Un vero e proprio manuale della professione e le battaglie su molte testate. Fino all’Unità, della quale racconta la genesi del nome.
di GIOVANNI CEDRONE (la Repubblica, 06 aprile 2017)
Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista
"Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale". Queste parole, contenute in una lettera a sua cognata Tatiana Schucht dell’ottobre 1931, forse meglio di altre testimoniamo l’indomito spirito con cui Antonio Gramsci si è dedicato al giornalismo. Le parole sono contenute nell’ultimo volume dedicato al fondatore del Partito comunista "Il Giornalismo, Il Giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore dell’Unità" a cura di Gian Luca Corradi (edito da Tessere).
A 80 anni dalla sua morte, avvenuta il 27 aprile 1937, Corradi ha raccolto alcuni fra gli oltre 1.500 articoli che Gramsci pubblicò su varie testate (prima di essere recluso nel 1927) e alcune lettere, antecedenti e successive alla carcerazione, nelle quali tocca l’argomento della stampa periodica. L’ideatore del concetto di egemonia si conferma un pensatore aperto e non dogmatico e le sue intuizioni sul giornalismo stupiscono per l’attualità e la lungimiranza. Come sottolinea Giorgio Frasca Polara nella postfazione, "Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia".
Non bisogna dimenticare che il contributo di Gramsci al giornalismo italiano è stato enorme: oltre ad aver fondato "L’Ordine Nuovo" e "L’Unità", Gramsci scrisse per almeno una decina di giornali, tra cui "La Città futura", numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese e "Energie nove", quindicinale diretto da Piero Gobetti. Luciano Canfora ricorda nell’introduzione le parole contenute nel verbale d’interrogatorio di Antonio Gramsci nel carcere giudiziario di Milano, datato 9 febbraio 1927, con cui lo stesso pensatore comunista dichiara di essere "pubblicista" prima ancora che "ex deputato al Parlamento". Sui "Quaderni" il fondatore dell’Unità traccia quasi un manuale del buon giornalista: parla di giornalismo "integrale", cioè quello che non solo intende soddisfare tutti i bisogni del suo pubblico, ma intende creare e sviluppare questi bisogni, rimarca poi la necessità per i giornalisti di "seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese".
Un sano realismo lo porta a considerare i lettori da due punti di vista, sia come elementi "ideologici, trasformabili filosoficamente", sia come elementi "economici, capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri". Sottolinea come il contenuto ideologico di un giornale non sia sufficiente a garantire le vendite: conta anche la forma in cui viene presentato. Interviene su quella che chiama "l’arte dei titoli" in cui influisce l’atteggiamento del giornale verso il suo pubblico che può essere "demagogico-commerciale" o "educativo-didattico".
Le riflessioni teoriche di Gramsci si riflettono nella sua attività di pubblicista. Il fondatore del Pci non si occupava solo di politica, ma anche di costume, società, teatro, musica e storia. In una pagina del marzo 1916 di "Sotto la Mole", Gramsci contesta, ad esempio, l’assunto che la malavita organizzata sia solo al sud, un discorso che a 100 anni di distanza risuona quanto mai attuale.
Nel maggio 1916 difende il maestro Toscanini per aver scelto una sinfonia di Wagner in un concerto al Teatro Regio di Torino, scelta che, con l’Italia entrata in guerra contro gli Imperi centrali, aveva provocato i fischi del pubblico. Scrive di teatro e in particolare la sua attenzione cade su Pirandello che per lui aveva il merito di creare "delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione".
Ragiona poi sul "carattere" degli italiani improntato, secondo lui, all’ipocrisia in tutte le forme della vita: nella vita familiare, nella vita politica, negli affari. "La sfiducia reciproca, il sottinteso sleale - sottolinea Gramsci - corrodono nel nostro paese tutte le forme di rapporti: i rapporti tra singolo e singolo, i rapporti tra singolo e collettività. L’ipocrisia del carattere italiano è in dipendenza assoluta con la mancanza di libertà".
Da un punto di vista storico, le pagine più interessanti sono nelle lettere, soprattutto quelle dal carcere, con il racconto della sua detenzione e le riflessioni sul giornalismo che occupano una parte importante della sua corrispondenza. In una missiva al Comitato esecutivo del Pcd’I del settembre 1923 svela perché fu scelto il nome "l’Unità" per il giornale da lui fondato. Aveva un duplice significato: innanzitutto richiamava all’unità tra operai e contadini, non soltanto nell’ambito del rapporto tra le classi, ma anche nel più generale tema della questione nazionale, "unità" tra nord e sud, tra città e campagna.
Nella lettera a Vincenzo Bianco del marzo 1924 emerge il Gramsci "maestro di giornalismo", una pagina che forse qualsiasi giornalista alle prime armi dovrebbe sempre tenere a portata di mano. Prima di iniziare a scrivere - afferma Gramsci - bisogna predisporre uno schema e domandarsi cosa sia veramente importante. Consiglia poi di leggere "Il Manifesto dei Comunisti" che definisce "un capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica". Infine invita alla brevità ricordando l’esempio di Andrea Viglongo, suo collaboratore, che allenava a scrivere articoli di al massimo una colonna e mezzo.
La raccolta di scritti ha il grande merito di tracciare con chiarezza un aspetto del profilo di Gramsci forse meno noto, quello del Gramsci giornalista. Un aspetto che conferma, come giustamente sottolinea Canfora, quanto Gramsci sia davvero appartenuto alla cultura italiana di quegli anni molto più che ad una cultura di partito. Pensatore mai banale, marxista irregolare, oggi icona pop e studiato nelle università di mezzo mondo, Gramsci fu anche "maestro di giornalismo" i cui insegnamenti, a distanza di 80 anni, restano più che mai validi.
L’arte della rivoluzione: Russia 1917 - 1932
di Mariella Guzzoni *
Un uomo di spalle con un cappotto scuro sta dipingendo una scritta bianca su uno striscione rosso disteso sul tavolo. Di fronte a lui campeggia una Venere di Milo. La stanza è grigia, una mansarda, una finestra, il filo della corrente, ben visibile, pende dal soffitto con la sua lampada. Le lettere in bianco proclamano:
ВСЯ ВЛАСТЬ СОВЕТАМ
“Tutto il potere ai Soviet”. Non c’è tavolozza, bastano un pennello e un bicchiere.
L’artista è Nikolaj Terpsikhorov, un pittore poco noto, che si ritrae mentre lavora al suo nuovo compito e, volgendoci le spalle, ci porta dentro il quadro. Primo Motto è la tela che incontriamo all’ingresso di Revolution: Russian Art 1917 - 1932, la mostra aperta alla Royal Academy di Londra (fino al 17 aprile).
Curata da Ann Dumas, John Milner e Natalia Murray, la rassegna prende le mosse da un grande evento del 1932, tenutosi al Museo Statale Russo dell’allora Leningrado che celebrava i “Quindici anni degli artisti della Repubblica Sovietica Russa” (“Khudozniki RSFS za 15 let”). Fu una retrospettiva enorme, esposizione massiccia della produzione artistica russa post-rivoluzionaria, con più di 2600 opere di oltre 400 artisti, curata da Nikolaj Punin. Un’opportunità senza precedenti per artisti, critici e per il pubblico in genere ma, anche, il canto del cigno per le avanguardie, prima della violenta repressione di Stalin.
“Una delle principali caratteristiche di quella celebrazione furono le diversità. Ci siamo ispirati a quella molteplicità includendo opere di artisti meno conosciuti, non tanto per evocare gli scopi della mostra del 1932, ma per collocare l’avanguardia russa all’interno di una produzione molto più vasta, celebrata in Russia ma spesso dimenticata in Occidente” scrive John Milner nell’introduzione al catalogo.
Prendendo spunto da quella mostra, i tre curatori di Revolution mettono gli artisti delle avanguardie accanto a quelli dei Realismi delle tante correnti che germinavano nel contesto dei tempi rivoluzionari in cui operarono, in un periodo in cui la rivoluzione era una promessa di libertà e le possibilità di creare un’arte proletaria sembravano senza barriere. E così artisti come Kandinskij, Chagall, Malevič, Tatlin e Rodčenko, solo per nominarne alcuni, sono presentati di fianco a Dejneka, Kustodiev, Filonov, Petrov-Vodkin, Grigoriev, Brodskij, Muchina, Samochvalov e tanti altri (anche unknown artists di ceramiche o manifesti), in un rapporto di vicinanza di grande impatto.
Non siamo abituati a questa convivenza gomito a gomito, senza le rassicuranti divisioni in correnti, ma è proprio la “diversity” il punto che i curatori vogliono far emergere, attraverso una centrata pluralità di sguardi: dalla pittura al cinema alla fotografia passando per la scultura, progetti architettonici, manifesti e grafiche pubblicitarie, ceramiche e tessuti celebrativi, oggetti di papier maché. “Respiravano tutti lo stesso clima”, commenta John Milner. Lo spaccato dell’epoca è ricchissimo e poliedrico.
Nelle didascalie delle singole sale non mancano i riferimenti storici, i fallimenti e i morti che ricordano al visitatore la realtà che dalle immagini non si può vedere.
I grandi temi, i volti
La mostra si articola in ampie sezioni tematiche che abbracciano l’arco di quei quindici anni; Saluta il Leader, L’uomo e la macchina, Il nuovo mondo, Il destino dei contadini, Eterna Russia, Nuova città, nuova società (Il comunismo di guerra/La Nuova Politica Economica-NEP), L’utopia di Stalin.
Sono sezioni costruite come grandi puzzle. Circa duecento opere, provenienti per lo più dai principali musei russi (la Galleria Tret’jakov di Mosca, il Museo di Stato Russo e il Museo di Storia di San Pietroburgo) e da collezioni private, con oggetti, manifesti, stoffe, sculture, documenti che scorrono accanto a un protagonista discreto ma sempre presente, in quasi tutti i temi: il cinema.
Alcuni minuti estratti dalle straordinarie pellicole di Dziga Vertov, Vsevolod Pudovkin, Sergej Ejzenštein, Aleksandr Dovženko ed altri assumono un valore diverso, immersi tra i quadri, e lasciano il desiderio di rivedere tutto. Due sale speciali, come lo furono a Leningrado: la prima è dedicata a Malevič e ricostruisce fedelmente (qui per la prima volta) l’allestimento deciso dall’artista per la mostra del 1932. Sono tre grandi pareti fitte di dipinti (e tre tavoli di modelli architettonici - arkhitektoniki), che replicano come Malevič, mescolando attentamente figurazione e astrazione, creò una sintesi di grande effetto del suo linguaggio pittorico.
Nella seconda i curatori presentano il lavoro del bravissimo Kuz’ma Petrov-Vodkin, un pittore pieno di fascino, sapienza e fantasia, i cui antenati a quanto pare erano banditi, mentre la leggenda vuole che il cognome derivasse dalla nonna produttrice di vodka. Formatosi come pittore di icone e di affresco, studiò a Monaco nello studio di uno dei maestri di Kandinskij, ma viaggiò anche in Francia e in Italia (importante l’influenza di Giotto), sviluppando poi uno stile molto personale. Nella Rivoluzione vedeva una forza catartica, che si percepisce anche nei suoi quadri sulla natura e il ciclo della vita. La sua “prospettiva sferica” caratterizza in modo spirituale il suo spazio pittorico. Ann Dumas spera che la sala a lui dedicata sia “una scoperta per molti e contribuisca a far conoscere il lavoro di questo artista”.
Sono volti che si ricordano. Ogni sezione ci porta tra sguardi memorabili, ora sorridenti, ora impietriti, ora eroici, robotici o sognatori. Le operaie scalze di Aleksandr Dejneka si aggirano tra enormi bobine che, riposte in alto a destra, diventano puro segno grafico, mentre rimaniamo col fiato sospeso di fronte all’operaia-robot con, tra le mani, un filo quasi invisibile. È a grandezza naturale, è lì davanti a noi, immobile, che guarda nel vuoto (Lavoratrici tessili, 161 x 185 cm). Accanto, la schiena statuaria di un operaio-eroe, unico elemento baciato dal sole, si eleva con il suo “piedestallo” macchina di ferro, nella tela con la quale Isaak Brodskij celebra la costruzione della diga sul Dnepr (Shock-worker from Dneprostoi, 1932). Dalla finestra di casa sua invece, Boris Kustodiev, paraplegico già da qualche anno, trasforma la sua visione in una fiaba dipinta, con un bolscevico-gigante che fa grandi passi, gli stivali immersi nella minuscola folla che riempie le strade a fiumi (Il Boscevico, 1920). Ma gli occhi del gigante son come di ceramica, la sua pare una marcia cieca, che procede governata da un misterioso ascolto. Poco dopo affondiamo, con Malevič, nell’assenza totale di sguardo.
Qualche passo più in là un’infilata di occhi contadini mi costringe a una brusca frenata: i visi in primo piano, e i due quasi-gemelli subito sotto a sinistra, sono di poco sovradimensionati rispetto alle misure naturali, ma l’effetto è impressionante (il quadro misura 90 x 215 cm). Boris Grigoriev viaggiò nella Russia contadina esplorandone i volti con passione scultorea (aveva studiato all’Académie de la Grande Chaumière di Parigi tra il 1912 e il 1914) e dedicherà loro un ciclo di ritratti “Russia”, iniziati nel 1916-1917 con soluzioni formali molto ardite. Religiosi e superstiziosi, essi rappresentavano un problema per i bolscevichi, sospetto e tragedia annunciata già colti dal suo pennello, in Terra di contadini (1917). Quasi quindici anni più tardi, ai tempi della collettivizzazione forzata delle terre, Pavel Filonov sospende l’astrazione rivoluzionaria della sua Formula del proletariato di Pietrogrado - dove la collettività era un fluido divenire di elementi, tra volti e case di Pietroburgo (1920-1921) - per registrare con empatia il contadino rassegnato alla fattoria collettiva che gli pesa sulle spalle al posto dei campi: Lavoratore di una fattoria collettiva (1931).
Stalin aveva festeggiato i suoi cinquant’anni due anni prima, nel 1929, dando inizio alla propria santificazione da Padre buono amico dei bambini. Tutto il potere nelle sue mani. La lotta contro i kulaki assume proporzioni di sterminio di massa. Inizia la chiusura sistematica delle chiese.
Ritorno alla prima sala della mostra, Saluta il Leader, per soffermarmi qualche attimo ancora Accanto alla bara di Lenin (Beside Lenin’s Coffin). È un dipinto di Kuz’ma Petrov-Vodkin, formatosi come pittore di icone, uno dei pochissimi artisti a cui fu permesso di fare degli schizzi al funerale di Lenin.
Nascosto agli occhi di tutti per quasi 70 anni, ora nella collezione della Galleria Tret’jakov di Mosca, la co-curatrice Natalia Murray ha deciso di portarlo a Londra. “Abbiamo altri ritratti, anche migliori, di Lenin - perché non provi a scegliere tra quelli?”, “ma perché il ritratto di un morto?...” queste e altre domande simili le sono state rivolte dai curatori della galleria moscovita, che erano un po’ sorpresi da questa richiesta, come racconta la Murray.
La tradizione voleva il ritratto di Lenin vivo, ma la mano dell’artista lo riprende fedelmente nella sua bara e raccoglie impressioni e schizzi “dal vivo” da rielaborare poi in studio con luce di santità. Siamo a Mosca, nella Sala delle Colonne della Casa dei Sindacati, è il 23 gennaio 1924 di un inverno freddissimo (Lenin muore la sera del 21). Ancora oggi raramente esposto al pubblico, l’idea di mostrare Lenin nella bara si scontrava apertamente con il messaggio imperante: Lenin è vivo.
Ma cos’è che, agli occhi dei curatori, ha reso così ‘speciale’ la mostra di Leningrado del 1932 alla quale si sono ispirati? Spinta da questa curiosità mi sono spostata alla British Library per approfondire le dinamiche delle mostre del 1932 e del 1933 (a Mosca), e per addentrarmi tra le pagine del libro che Natalia Murray ha dedicato a Nikolaj Punin e al suo tempo.
[CONTINUA NEL POST SUCCESSIVO]
L’arte della rivoluzione: Russia 1917 - 1932
di Mariella Guzzoni *
Leningrado, 1932
Il 13 novembre apre i battenti la grande mostra di Leningrado, nata con lo scopo di celebrare i ‘primi’ quindici anni dell’arte russa prendendo simbolicamente il 1917 come punto di partenza. In scena 2640 opere (1050 dipinti, 1500 opere grafiche e 90 sculture) di 423 artisti provenienti da tutte le tendenze artistiche e che, come ricorda John Milner, erano “in competizione per avere l’attenzione di quell’unico sponsor collettivo, lo Stato”.
Masha Chlenova, nel suo contributo al catalogo della mostra (“Soviet art in review: ‘Fifteeen years of artists of the Russian Soviet Republic’ in Leningrad, 1932”, 2017, pp. 27-31), ricostruisce i retroscena di questo grande evento, anche attraverso documenti e manoscritti legati alla sua preparazione. L’idea della retrospettiva era nata in gennaio (1932), e all’inizio la città prescelta sembrava Mosca, che però non aveva un luogo adatto disponibile. Così Leningrado offrì gli spazi del suo immenso Museo di Stato Russo. La macchina burocratica prevedeva: un Comitato Governativo, con a capo il nuovo Commissario del popolo per l’Istruzione Andrej Bubnov (sostenitore di Stalin, succeduto nel 1929 al liberale Anatolij Lunačarskij, nominato da Lenin nel 1917) per la direzione ideologica e il budget; un Comitato Mostra con artisti, curatori museali e studiosi per la selezione delle opere; un gruppo di lavoro composto dal vicedirettore del Museo con due curatori dell’arte del XX Secolo, Nikolaj Punin, e Nadezhda Dobychina, che avevano entrambi sostenuto l’avanguardia russa.
Nikolaj Punin, influente critico, teorico dell’arte vicino alle avanguardie, dal 1926 era curatore (e fondatore) del Dipartimento delle Nuove Tendenze al Museo di Stato Russo; la Dobychina nel 1915 aveva ospitato nel suo Art Bureau dell’allora Pietrogrado la (ben documentata) mostra che sarà poi una pietra miliare nella storia dell’arte: L’ultima mostra di quadri futuristi 0.10’ .
Furono discusse le varie proposte per il titolo, da L’arte sovietica in quindici anni, a Quindici anni di potere sovietico, e alla fine fu deciso per Quindici anni di artisti della Repubblica Sovietica Russa, (Khudozniki RSFS za 15 let), mettendo in rilievo il ruolo dell’artista - si potrebbe anche dire Artisti della RSFS - in 15 anni.
Questa evoluzione è molto interessante e si colloca in linea con il fatto che, nell’introduzione al catalogo della mostra del 1932, Mikhail Arkadiev (del Comitato Mostra e capo della Sezione Arte del Commissariato del popolo per l’Istruzione) sottolineò che la principale funzione politica della rassegna era quella di dimostrare come i singoli artisti sovietici fossero giunti gradualmente “a padroneggiare la visione socialista del proletariato” arrivando a “unirsi all’edificazione socialista”.
Il pittore Igor Grabar, altro membro chiave del comitato, descrisse la mostra come “un esame per un certificato di maturità individuale di singoli artisti o di interi gruppi artistici” (Chlenova 2017, p. 28).
Non c’è dubbio: la ‘dirigenza’ doveva essere molto attenta al decreto del Comitato Centrale del 23 Aprile 1932 (la mostra era ancora in fase organizzativa) che ordinava lo smantellamento di tutti i gruppi artistici esistenti. Per farla breve, bisognava dimostrare che, ora, i vari artisti avrebbero lavorato “pacificamente insieme su un unico fronte”, senza più lotte o competizioni tra i singoli gruppi.
Il cavaliere di Petrov-Vodkin sembra preannunciare la morte degli ideali rivoluzionari, non guarda avanti fiducioso. Il suo cavallo non è più l’iconico Bagno del cavallo rosso, ora vola su un mondo terremotato (1925). A un anno dalla morte di Lenin, nell’aria iniziavano a svanire i sogni.
Tappeti rossi, panneggi e falce e martello in cima allo scalone d’ingresso del Museo di Stato Russo, con piante verdi e composizioni floreali -, tutto era in grande stile all’inaugurazione del 13 novembre. La soluzione fu trovata: il percorso era circolare, il che serviva a “tracciare una simbolica continuità tra inizio e arrivo” (ivi, p. 29). L’allestimento circolare non era concepito in modo cronologico, ma illustrava l’evoluzione dei singoli artisti nell’arco dei quindici anni, offrendo esempi cruciali di come essi “potessero adattare il proprio lavoro alle esigenze in evoluzione della società sovietica” (ivi, p. 28).
La parte del leone con ampi spazi la fecero gli artisti dell’Associazione degli artisti della Russia Rivoluzionaria (AKhRR, molto potente, che si opponeva alle avanguardie) con la figura centrale di Isaac Brodskij, in dialettico dialogo con gli artisti dell’OMKh (Gruppo degli Artisti di Mosca), la Società dei pittori da Cavalletto (OST), tra i quali David Shterenberg e Aleksandr Dejneka, e con gli Itineranti.
Punin descrisse con diplomazia come i vari gruppi interagissero tra loro: “I pittori della Russia rivoluzionaria hanno imparato a illuminare i loro dipinti guardando all’eredità di Paul Cézanne e di altri modernisti occidentali espressa nelle opere degli Artisti di Mosca, che a loro volta si sono ispirati alle tendenze realiste dei pittori russi conosciuti come gli Itineranti...” (ivi, pp. 29-30).
In un articolo poco prima dell’inaugurazione, Punin annunciò che “la cosa principale nella rassegna era quella di mostrare nel miglior modo possibile l’identità individuale dell’artista”. Sette figure chiave ricevettero una sala dove potevano decidere in autonomia l’allestimento delle loro opere.
Tra questi, gli unici rappresentanti della ‘sinistra’ che il coraggioso Punin riuscì a presentare furono due: una sala venne assegnata al padre del Suprematismo, Kazimir Malevič (ricostruita fedelmente alla Royal Academy), una seconda a Pavel Filonov, inventore del cosiddetto ‘Realismo analitico’ e fondatore del gruppo dei Maestri d’Arte Analitica di Leningrado.
Ma la galleria che doveva inizialmente essere dedicata al periodo del Comunismo di guerra, con al centro l’arte russa della ‘sinistra’, fu eliminata dal programma. Il Comitato decise altrimenti “per ragioni di spazio”. Risultato: le opere astratte o costruttiviste rimasero nei magazzini.
Mosca, 1933
Le alte sfere decidono di ripetere l’evento a Mosca, e il 27 giugno la mostra riapre le sue porte sulla Piazza Rossa al Museo Storico Statale.
Il titolo della retrospettiva è lo stesso “Quindici anni degli artisti della Repubblica Sovietica Russa” (Khudozniki RSFS za 15 let), ma si presenta anche come “Rassegna dell’Arte Sovietica”. Gli artisti sono diventati quasi 500, le opere quasi 3.500, distribuite in più sedi, ma il panorama dell’arte russa di quei primi, stessi, quindici anni dalla rivoluzione è stravolto. A Mosca “metà dei dipinti dell’avanguardia esposti a Leningrado” non c’erano più, scrive Natalia Murray. “Miturich, Suetin e Tyrsa furono misteriosamente esclusi, e solo cinque delle 73 opere di Filonov esposte a Leningrado arrivarono a Mosca”. Malevič era presente solo con qualche quadro, ma fu escluso dal catalogo. A differenza di Punin, i curatori moscoviti non volevano rischiare il posto “per amore dell’arte alternativa - il Realismo Socialista era alle porte” (Natalia Murray, The Unsung Hero of the Russian Avant-Garde. The Life and Times of Nikolay Punin, 2012, Brill p. 200).
Nel suo discorso inaugurale, Andrej Bubnov disse che la mostra di Mosca “testimonia la svolta della maggior parte della nostra arte verso le posizioni della classe operaia”. Nel nuovo catalogo c’era anche un articolo di Arkadiev: “Lo Stile della nostra epoca - è il Realismo Socialista”. Criticava anche la mostra di Leningrado che non aveva saputo mostrare “l’intera dinamica dello sviluppo dell’arte sovietica” e “le giuste forme dell’arte visiva, necessarie al proletariato nella lotta per la vittoria del Socialismo” (ibid.).
Nel giro di pochi mesi tutti i cataloghi della mostra di Leningrado (che si era chiusa nel gennaio 1933), furono ritirati da tutte le biblioteche e librerie. “Ancora oggi nelle biblioteche russe si trova solamente il catalogo della mostra di Mosca del 1933”. Il titolo è lo stesso, non così il contenuto. Manomissione radicale della memoria. In una nota, Natalia Murray aggiunge che “tra le collezioni pubbliche, l’unica copia del catalogo della mostra di Leningrado è conservato nella Biblioteca del Museo Russo, che è chiusa a un pubblico generico” (ivi, p. 201, nota 26).
Ecco perché la mostra ispiratrice di Revolution non è mai stata documentata, scivolando via in poche righe (se non nel totale silenzio), nei testi di storia dell’arte. Marca invece un giro di boa, un capitolo importante della storia dell’arte russa, in un periodo di transizione cruciale. Un’occasione perfetta per poter, in brevissimo tempo, emarginare, eliminare, far sparire gli artisti che non rispondevano alle esigenze della nuova politica. Poco prima di essere rinchiusi nei sotterranei del Museo Russo, “i dipinti di Malevič, Filonov, Tatlin e di tanti altri artisti dell’avanguardia erano considerati arte anti-sovietica, arte da evitare” (ibid.).
La revisione politico-culturale di Stalin procedeva su tutti i fronti, le correnti artistiche attive furono abolite e diventeranno in breve il ‘Sindacato degli Artisti’, il ‘Sindacato dei Musicisti’ e così via. Da quel momento in poi l’unica finalità dell’arte sarà la ‘rieducazione’ delle masse e lo Stato, interessato a solo un tipo di produzione artistica, doveva riorganizzare i suoi investimenti per far funzionare al meglio la grande macchina che avrebbe a tale scopo prodotto immagini in milioni di copie.
Ideologia e mito in forma di realtà.
E Nikolaj Punin, l’eroe dimenticato narrato da Natalia Murray, che si era battuto sin dall’inizio a sostegno dell’arte più innovativa, criticando apertamente il realismo socialista, e avventurandosi in zone pericolose, fu a mano a mano emarginato. I suoi articoli e libri non furono più pubblicati. Smise di tenere diari. Arrestato più volte e di nuovo nel 1949 per aver criticato i ritratti di Lenin come “insipidi e senza carattere”, fu mandato in Siberia, dove morì a Vorkuta nel 1953.
Era stato compagno di Anna Achmatova, avevano vissuto insieme per molti anni nelle stanze di quello che è oggi il Museo Achmatova di San Pietroburgo. Era una casa dove gli intellettuali si trovavano per parlare liberamente, negli anni in cui era ancora possibile. Riuniti in mostra, i due ritratti: da un lato vediamo il volto di Achmatova dipinto da Kuz’ma Petrov-Vodkin, dall’altro il profilo di Punin dipinto da Malevič.
Accanto a loro, alcuni stupendi ritratti fotografici tra poesia, musica e teatro ci avvicinano ai volti di Majakovskij, Blok, Šostakovič e Mejerchol’d, negli scatti di Moisej Nappelbaum e Aleksandr Rodčenko.
Utopia e memoria
Sport, corsa e disciplina fisica i primi protagonisti di questa sezione, l’ultima della mostra: L’utopia di Stalin. Uomini e donne forti, belli, e pieni di energia ci accolgono come esempi perfetti dell’uomo nuovo. Anche qui gli artisti sono chiamati a promuoverne l’ideologia. Aleksandr Dejneka figura tra i più audaci, i suoi sportivi si muovono e galleggiano nello spazio come se non avessero peso. Poi è la volta delle muscolose e anonime ragazze di Aleksandr Samochvalov, dipinte in tenuta sportiva e maglia da football (1932-1933). Ma è uno scatto dello straordinario fotografo Arkadij Shaikhet che, riprendendo dall’alto le marce collettive del mattino, ci ricorda ciò che fu alla base delle importantissime parate militari, investimento visivo grandioso (Phisical Training. Morning Gymnastics, 1927).
Al centro di quest’ultima sala c’è un grande cubo nero. È la Stanza della memoria. Al suo ingresso, una riga di Anna Achmatova: “Nessuna generazione ha avuto un simile destino”. Dentro due panche, la saletta è buia. Sullo schermo scorrono decine e decine di fotografie d’archivio. Un volto dopo l’altro, fotografato sia di profilo che di fronte, con un numero; sotto, le didascalie ci dicono qualcosa di queste identità e dei loro destini. Chimici, ingegneri, economisti, politici, studiosi, scrittori, compositori, artisti, come anche migliaia di cittadini normali, uomini e donne. Impossibile riconoscere alcuni visi che abbiamo appena incontrato in mostra, come Vsevolod Mejerchol’d o Nikolaj Punin. Ce ne andiamo salutando i morti.
Revolution: Russian Art 1917-1932
Royal Academy of Arts
Londra, 11 febbraio - 17 aprile 2017
La mostra, curata da Ann Dumas, John Milner e Natalia Murray, è accompagnata dal catalogo (solo in inglese) Revolution: Russian Art 1917:1932, con contributi di John Milner, Natalia Murray, Faina Balakhovskaya, John E. Bowlt, Masha Chlenova, Ian Christie, Christina Lodder, Nicoletta Misler, Nicholas Murray, Mike O’Mahony, Evgenia Petrova, Zelfira Tregulova e Lauren Warner.
Per saperne di più sulle opere su carta (disegni e gouaches) dell’avanguardia russa si segnala il volume: The Russian Avant-Garde. The Khardzhiev Collection at the Stedelijk Museum Amsterdam (2013), il primo Catalogue raisonné della collezione Nikolai Khardzhiev (circa 800 opere, di cui quasi 300 di Malevič), edito in occasione della mostra: Kazimir Malevich and the Russian Avant-Garde (Stedelijk Museum).
Per un panorama sulla pittura sovietica (1920-1970): Realismi Socialisti. Grande pittura sovietica 1920-1970 (Skira, 2011), catalogo della mostra al Palazzo delle Esposizioni (Roma, 2011-2012).
Tra i libri recenti: Gian Piero Piretto, Gli occhi di Stalin. La cultura visuale sovietica nell’era staliniana (Raffaello Cortina, 2010); Gian Piero Piretto, Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche (Einaudi, 2001); Boris Groys, Art Power (Postmediabooks 2012); Natalia Murray, The Unsung Hero of the Russian Avant-Garde. The Life and Times of Nikolay Punin (Brill 2012).
* DoppioZero, 28 marzo 2017 (ripresa parziale- senza foto).
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Nota
SULL’ARTE IN ITALIA [1917-1932], SI CFR. L’IMPORTANTE LAVORO DI ROSSANA BOSSAGLIA, IL "NOVECENTO ITALIANO". Un’intervista:
Pittura eccellente. Il Gruppo Novecento. Agli inizi degli anni Venti in Italia si crea intorno all’intellettuale Margherita Sarfatti, personalità carismatica ed influente, un gruppo di artisti che non tarda a darsi una connotazione precisa. E’ il pittore Anselmo Bucci a trovare il nome del cenacolo, Gruppo Novecento, dichiarando che la pittura dovesse guardare alla grande tradizione italiana, da Giotto al Rinascimento, e rivisitarla con canoni attuali. Il movimento fu molto seguito, non solo per motivazioni politiche ma soprattutto per il grande talento degli artisti che ne fecero parte, tra i quali Mario Sironi, il già citato Anselmo Bucci, Achille Funi, Ubaldo Oppi. Le opere del Gruppo Novecento rappresentano una delle più significative espressioni artistiche di quegli anni e ad oggi costituiscono una delle migliori produzioni pittoriche di tutto il ‘900 italiano. La studiosa Rossana Bossaglia, autrice del volume Il Novecento italiano, in questa intervista del 1996, ne racconta la genesi, i protagonisti, l’evoluzione.
LA PRASSI MALINCONICA: IL PRINCIPIO-MALINCONIA.
PREMESSO CHE "MALINCONIA DI SINISTRA", il polemicissimo scritto del 1930 di WALTER BENJAMIN, era "un furente attacco a certa satira linksradikal, in cui intellettuali come Tucholsky, Mehring e il bistrattatissimo Erich Kästner venivano attaccati frontalmente come simboli di uno scollamento tra élite intellettuale e classi oppresse, come autori pronti a farsi non produttori, ma articoli di consumo, organici più alla piccola-borghesia dei rampanti e degli individualisti che al proletariato di cui si dichiaravano alfieri", e che nel "libro di Traverso il fenomeno indagato è esattamente l’opposto" (Massimo Palma, "Enzo Traverso, il principio malinconia": https://www.alfabeta2.it/2017/03/24/enzo-traverso-principio-malinconia/)
E CONDIVIDENDO L’URGENZA DI "rivolgere il nostro sguardo su una diversa possibilità" (la "politicizzazione" della malinconia, «dove aggrapparsi agli oggetti del passato rende possibile l’interesse e l’azione nel mondo presente»),
E LA NECESSITA’ di "costruire i «frammenti di esperienza» attraverso immagini che rechino il significato di un’epoca. Non qualsiasi immagine, ma immagini complesse di folla rappresentata come «corpo vivente»",
CREDO SIA OPPORTUNO, FONDAMENTALE E VITALE, riprendere non solo le mie note al testo di MASSIMO PALMA ("Walter Benjamin, l’inquilino in nero": https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/#wp-comments) e di Luigi Azzariti-Fumaroli, "Walter Benjamin, l’Opera senza originale": https://www.alfabeta2.it/2017/02/27/walter-benjamin-lopera-senza-originale/#comment-625754), ma rimeditare ancor di più e meglio il breve testo dal titolo «Capo», apparso su "L’Ordine Nuovo" del 1° marzo 1924 (e ripreso il 6 novembre 1924, su "L’Unità", col titolo «Lenin capo rivoluzionario», firmato Antonio Gramsci: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5154).
Federico La Sala
"I DUE CORPI DEL RE" - E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ...
La storia Come nelle antique esequie reali, un autentico teatro sacralizza l’ultimo viaggio del Comandante
La scomparsa del Capo
Così l’isola celebra l’apoteosi dell’ultimo sovrano del secolo breve
di Marino Niola (la Repubblica, 29.11.2016)
HASTA SIEMPRE Comandante. Ieri in Plaza de la Revolución è cominciato il solenne addio di Cuba a Fidel Castro. Una folla oceanica sfila davanti all’urna con le ceneri del Líder Máximo, circondata da un picchetto d’onore di militari in alta uniforme e sovrastata da una sua foto in bianco e nero. Il lutto per l’ultima icona del Novecento durerà nove giorni. E culminerà il 4 dicembre a Santiago, città madre della rivoluzione, da dove nel 1959 partì la marcia vittoriosa della Carovana della Libertad. Il compagno presidente riposerà a Santa Ifigenia, il cimitero dei padri della patria, accanto a José Marti, il liberatore di Cuba dalla colonizzazione spagnola e a Compay Segundo, l’entrañable presencia del Buena Vista Social Club, che toccava la chitarra con la grazia di un Orfeo tropicale.
Adesso un’isola senza voce e senza musica si prepara a celebrare l’apoteosi laica dell’ultimo sovrano del secolo breve. E lo fa ricorrendo a una simbologia millenaria che, sin dai tempi degli imperatori romani, fa della scomparsa del capo, un autentico teatro della morte. Una grande drammatizzazione dello scarto che sussiste tra l’immortalità del potere e la mortalità dell’uomo che lo incarna. Quello stesso scarto che separa le ceneri di Fidel dalla gigantografia dell’eroe rivoluzionario. I resti mortali dell’uomo dalla sua effigie immortale. Che, ora come allora, serve a rappresentare e garantire la continuità del potere e dunque la continuità della vita di tutti.
Nel Medio Evo, un’autorevole dottrina politica, destinata a sopravvivere fino alla fine delle monarchie assolute, accreditava ai regnanti due nature, a immagine e somiglianza di Cristo. È la cosiddetta teoria dei due corpi del re, secondo la quale il sovrano possiede sia un corpo fisico, che palpita, sanguina, si ammala, muore. Sia un corpo politico, che coincide con la sua nazione e il suo popolo, di cui è il simbolo supremo. Questa seconda natura invece è considerata immortale. La simbiosi tra queste due facce della sovranità rendeva indispensabile scongiurare in tutti i modi il contagio di malattie e lo stesso invecchiamento del re, perché l’indebolirsi del suo organismo fisico non contagiasse l’organismo sociale. Perché in un certo senso l’uomo può morire, ma lo Stato assolutamente no. Tanto che nella Francia e nell’Inghilterra rinascimentali per esorcizzare il pericolo dell’interregno, cioè del vuoto di potere che si apriva alla morte del sovrano, si nutriva e si trattava come persona viva un simulacro del defunto, una sorta di manichino regale, fino all’incoronazione del successore. Insomma, il re è morto, viva il re!
Si trattava di una sorta di transfert simbolico dal potere verso l’immagine. Come dire che la mano del defunto non ha più la forza di reggere lo scettro, ma non ha ancora lasciato la presa. Paradossalmente per allungare la vita del morto, ogni giorno veniva visitato dai medici il suo avatar, fatto di cera o di cuoio, che per tutta la durata del periodo di lutto ne constatavano il peggioramento. Come se il cadavere fosse ancora gravemente ammalato, ma non spirato. Questa messa in scena si chiamava funus imaginarium, ovvero funerale dell’immagine. Un rito che prevedeva una lunghissima processione attraverso l’intera nazione, durante la quale i due corpi del sovrano erano inseparabili. Il climax veniva raggiunto con il rogo finale del fantoccio su una pira di aromi e incensi, che trasportavano l’immagine del sovrano in cielo tra gli dei. Solo allora il re veniva dichiarato morto. E sepolto.
Il caso più celebre è quello del funerale di Francesco I di Francia, avvenuto nel 1547 e che durò alcuni mesi, perché il feretro regale doveva toccare tutte le città più importanti e non poteva saltarne nemmeno una, senza provocare una rivolta popolare.
Questa necessità di sospendere il tempo prima della sepoltura trova la sua spiegazione nel fatto che il rito funebre ha un fortissimo senso politico, sociale, culturale. E soprattutto emotivo. In questo senso l’urna cineraria del Jefe Máximo toccherà insieme alle città e ai villaggi, anche e soprattutto i cuori del suo popolo. Anche perché l’itinerario ripercorre a ritroso il cammino dei barbudos. È un ritorno nel ventre materno della revolución. Che torna sui suoi passi. Fino a quella prova generale che è stato l’assalto fallito alla caserma Moncada di Santiago del 26 luglio del 1953, quando Fidel lanciò il primo guanto di sfida a Fulgencio Batista.
Insomma proprio come nelle antiche esequie reali, e come nelle processioni delle icone religiose, l’ultimo viaggio del Comandante sacralizza un percorso che è fatto di spazio e di tempo, di sentimenti e di avvenimenti. Così il corpo cremato del capo riassume insieme la storia e la geografia dell’isola. Con un rituale solenne che chiude per sempre una pagina memorabile del Novecento e al tempo stesso ne apre una nuova.
Intellettuali in campo per Fidel
Cuba. Scrittori, musicisti, filosofi a scuola di Revolucion
di Geraldina Colotti (il manifesto, 1.12.2016)
Stratega militare, politico, però anche intellettuale. «Raro caso di un capo di stato sempre disposto ad ascoltare e a discutere, senza mai la superbia che tanto spesso ottunde la capacità di comprendere dei leader». Nell’obituary su Fidel Castro, l’intellettuale argentino Atilio Boron ne ha ricordato anche l’alto profilo intellettuale: «Come Chavez, Fidel era un uomo coltissimo e un lettore insaziabile. La sua passione per l’informazione esatta era minuziosa e inesauribile». Boron, una delle voci più presenti nel nuovo corso bolivariano dell’America latina, ha raccontato «l’immensa fortuna» di aver assistito a «un intenso ma rispettoso scambio di idee tra Fidel e Noam Chomsky a proposito della crisi dei missili dell’ottobre ’62 o dell’Operazione Mangusta». In nessun momento «l’anfitrione fece orecchie da mercante a quel che diceva il visitatore nordamericano».
LA CRISI DEI MISSILI fu uno dei momenti più critici della Guerra fredda tra Stati uniti e Unione Sovietica, che seguì al tentativo di invadere Cuba, nell’aprile del ’61, e portò al dispiegamento difensivo di missili nucleari sovietici nell’isola. Come attestano documenti Usa desecretati, l’Operazione Mangusta venne approvata da Kennedy il 18 gennaio del ’62, con lo scopo di «aiutare i cubani a rovesciare il regime comunista a Cuba e istituire un nuovo governo con cui gli Stati uniti possono vivere in pace». Si prevedevano quattro compiti per azioni di intelligence, sei di tipo politico, tredici relativi alla Guerra economica, quattro a quella Psicologica e quattro di tipo militari, con l’obiettivo di giustificare un’invasione dell’isola da parte dell’esercito Usa.
IN QUEGLI ANNI arrivavano all’Avana intellettuali da ogni parte del mondo: scrittori, pittori, musicisti... E al ritorno dedicavano un omaggio a Cuba. Leonard Cohen, scomparso a novembre, arrivò all’Avana pochi giorni prima dell’invasione della Baia dei Porci. Vent’anni dopo, ha ricordato la figura di Fidel Castro nelle note surrealiste della canzone «Field commander». Nel ’61, Fidel Castro tiene il primo discorso storico agli intellettuali.
DÀ CONTO di «tre sessioni» di accese discussioni, che metteranno le basi per la politica culturale degli anni a venire: «Noi siamo stati agenti di questa Rivoluzione, della rivoluzione economico-sociale che si sta tenendo a Cuba - dice Fidel - A sua volta, questa rivoluzione economico-sociale deve produrre una rivoluzione culturale». Da lì, il «punto più polemico della questione: se deve esserci o no un’assoluta libertà di contenuto nell’espressione artistica».
UN TEMA che, negli anni più complicati della rivoluzione cubana, porterà gli intellettuali a schierarsi. «Nel 1961 - scrive il compianto scrittore Manuel Vazquez Montalban - la Rivoluzione cubana era coccolata dall’intelligencia di sinistra di tutto il mondo e l’Avana come Mosca nel 1920 fu la Mecca di tutti i trasgressori di codici del mondo, che cercavano in Cuba un nuovo destinatario sociale capace di intendere il nuovo». E ricorda il viaggio che fecero Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, che definirono Fidel Castro «un amico».
TUTTAVIA, la prima grande incrinatura si produsse nel 1971, di fronte al gruppo di scrittori che appoggiarono Heberto Padilla, i quali ritenevano che la rivoluzione avesse tradito. «Quale dev’essere la prima preoccupazione: i pericoli reali o immaginari che possono minacciare il libero spirito creatore, o i pericoli che possono minacciare la Rivoluzione stessa? Dentro la rivoluzione, tutto, contro della rivoluzione, niente», diceva Fidel agli intellettuali, nel ’61. Molti scelsero di sostenere Cuba purchessia, altri le voltarono le spalle, magari per ritornare sui loro passi molti anni dopo.
IL RUOLO di Cuba nei cambiamenti strutturali del continente, ha però rimesso in campo un nuovo immaginario, una nuova mitopoiesi «bolivariana» nutrita dai punti più alti e poliedrici portati dai nuovi movimenti latinoamericani. Si è creata la Rete mondiale degli intellettuali e artisti in difesa dell’umanità, guidata da Venezuela e Cuba, e un laboratorio di pensiero - anche critico, ma fraterno - che va dall’Europa al Latinoamerica, agli Usa, e che si è fatto sentire in questi giorni per ricordare l’apporto di Fidel.
«Fidel soy yo», l’urlo di Cuba
Hasta Siempre. Oltre un milione di cubani ha invaso l’Avana per il saluto al «lìder maximo». Dall’Europa unico leader, Alexis Tsipras
di Roberto Livi (il manifesto, 1.12.2016)
«Donde está Fidel?» domanda il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega. «Aqui, yo soy Fidel» risponde un boato che scuote l’Avana. È la voce di più di un milione di persone, una valanga umana che riempie la gigantesca Piazza della Rivoluzione, debordando poi per un lungo tratto del viale d’accesso. Una marea tutt’altro che amorfa, quella che ieri sera per quasi quattro ore ha animato la cerimonia per l’estremo saluto dell’Avana al Comandante della Rivoluzione cubana. Sventolio di bandiere, canti - «Fidel, qué tiene Fidel que los americanos no pueden con él» -, applausi e qualche lacrima e il ritmare di quello slogan col quale un popolo intero vuole identificarsi col suo leader e il suo lascito politico: «Io sono Fidel».
JOSÈ MARTÌ Più in alto, sotto la grande statua di José Martí, di fronte all’entrata del mausoleo dedicato al padre della patria di Cuba, la tribuna delle autorità cubane e soprattutto degli ospiti, che ha visto riuniti i membri delle delegazioni di capi di Stato e di governo, più di venti, o di inviati dei paesi di quattro continenti, America, Europa, Asia e Medioriente e Africa. In prima fila i rappresentanti dell’Alleanza bolivariana, con il presidente venezuelano Nicolás Maduro - simbolicamente seduto alla destra del presidente Raúl Castro (in uniforme da generale) - e i colleghi della Bolivia, Evo Morales, dell’Ecuador, Rafael Correa, del Nicaragua, Daniel Ortega, affiancati dal presidente del Salvador, Salvador Sánchez Céren-, dal messicano Enrique Peña Nieto e dal panamense Juan Carlos Varela. L’Africa australe era rappresentata dai presidenti del Sudafrica e della Namibia.
SCARSE le rappresentanze di altri paesi. A dimostrazione che, anche da morto, Fidel polarizza gli schieramenti, tra chi lo giudica un gigante del XX secolo che ha contribuito a «cambiare il volto dell’America latina e a influenzare il mondo» e chi, soprattutto leader di paesi entusiasticamente neoliberisti, lo ritiene un «caudillo» che ha imposto a Cuba un regime totalitario. La Spagna era rappresentata da Juan Carlos di Borbone e l’Ue dal premier greco Alexis Tsipras. Il presidente Obama non ha voluto sfidare le ire dei repubblicani e ha inviato a rappresentarlo il diplomatico Jeffrey DeLaurentis e Ben Rhodes, il consigliere alla Sicurezza che ha partecipato alle trattative per la normalizzazione dei rapporti con Cuba. Assente anche il presidente russo Vladimir Putin che ha inviato il presidente della Duma, Volodin, a rappresentarlo.
UNA PROVA visibile, comunque, di quanto ha affermato nel suo intervento il presidente della Bolivia, Evo Morales: «Fidel ha portato Cuba nella mappa politica del mondo, lottando contro l’avidità dell’impero. E oggi il mondo riconosce Fidel come un figura politica di taglia inacessibile». Un successo e un credito davvero eccezionali per un’isola di 11 milioni di persone che , fino alla vittoria dei «barbudos» di Fidel nel 1959, era nota soprattutto per gioco d’azzardo, prostituzione e la produzione, monopolizzata dagli Usa, di zucchero. Correa ha affermato che Fidel «è morto invitto» e ha duramente criticato l’embargo degli Usa. «Poche vite sono state tanto complete e luminose. Fidel non se ne va, resta con noi, assolto dalla Storia della patria grande» (latinoamericana), ha detto il presidente Maduro, assicurando Raúl Castro che «può contare oggi più che mai sull’appoggio del Venezuela». Il vicepresidente della Cina ha definito il leader scomparso «un colosso della storia».
Particolarmente emotivi sono stati gli interventi del presidente del Sudafrica, Jacob Zuma e della Namibia, Hage Gengob. Il primo ha messo in risalto l’importanza dell’intervento militare cubano - «con quasi mezzo milione di soldati» - in Angola nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso per contrastare l’invasione delle truppe del Sudafrica in quegli anni governato dai fautori dell’apartheid. La vittoria cubana comportò non solo la sovranità dell’Angola, «ma anche la decolonizzazione della Namibia e la sconfitta del regime razzista» a Pretoria. «Fidel non inviò le sue truppe per impadronirsi del petrolio, dell’oro o dei diamanti - ha detto Zuma - ma per la libertà e l’indipendenza dei nostri popoli». Tesi confermata dal presidente Gengob: «Quando incontrai Fidel mi disse che dall’Africa avevano portato via solo i resti mortali dei loro soldati».
COMMOVENTE e ripetuto è stato il continuo richiamo alla solidarietà che Fidel, «nonostante l’illegale blocco economico degli Usa», ha saputo assicurare a varie nazioni e popoli: «Ha inviato personale medico e ha formato a Cuba centinaia di nostri studenti di medicina» (Jacob e Gengob), «per il Vietnam si è detto disposto a dare anche il proprio sangue» - (presidente della Camera dei deputati Nguyen Thi) - «dopo un ciclone dimostrarono che con noi erano disposti a dividere il pane» (Daniel Ortega).
La gigantesca manifestazione è stata conclusa dall’intervento del presidente Raúl, il quale ha avuto anche un inatteso motto di spirito assicurando i partecipanti che il suo era «l’ultimo intervento». Un discorso asciutto, che ha ricordato come la piazza della Rivoluzione è stata il luogo dove il fratello maggiore ha annunciato e spiegato tutte le decisioni del suo governo, dalla riforma agraria - «che è stata come passare il Rubicone» - alla dichiarazione del carattere socialista della Rivoluzione.
L’ITALIA «È stata una grande manifestazione di orgoglio nazionale in memoria di un personaggio storico del XX secolo che ha saputo conquistare e difendere l’indipendenza del suo paese», ha dichiarato il viceministro degli Esteri Mario Giro che ha rappresentato il governo italiano. «Un governo che è stato sempre amico di Cuba, pronto a collaborare nei settori economici, commerciali e culturali».
Ieri mattina è partita dalla capitale la carovana funebre che porterà l’urna di legno rivestita dalla bandiera di Cuba all’interno di una teca di vetro che contiene le ceneri di Fidel lungo tutta l’isola fino a Santiago dove saranno inumate domenica. Lungo tutto il percorso - circa 900 chilometri - si prevede una fila ininterrotta di cubani per salutarlo.
Alla ricerca di un Politico nell’era dei piccoli Napoleone
Saggi. «La scienza politica di Gramsci» di Michele Prospero per Bordeaux edizioni. Da Grillo a Renzi, la nuova onda populista esprime la crisi della democrazia rappresentativa
di Leonardo Paggi (il manifesto, 09.07.2016)
Da tempo ormai immemorabile la bibliografia italiana su Gramsci è dominata dal tema dei suoi rapporti con il partito negli anni del carcere. L’esistenza di una difformità, peraltro da sempre largamente nota, tra i Quaderni e i coevi indirizzi culturali e politici del partito ha generato una ricerca sempre più ossessiva sul «tradimento» che sarebbe stato giocato ai danni del prigioniero. Sull’onda di una filologia avventurosa e spericolata si è persino ipotizzato un quaderno «mancante», fatto sparire dalla censura preventiva del Pci. Si accoglie pertanto quasi con sollievo un libro come quello di Michele Prospero (La scienza politica di Gramsci, Bordeaux) che torna a cimentarsi con una lettura diretta dei testi.
La tesi del libro è che la richiesta di un politico forte e auto centrato fa da contrappunto in Gramsci ad una analisi che indugia a lungo sui modi in cui un sistema liberale di tipo parlamentare può subire un processo di progressivo corrompimento e degrado fino alla negazione di fatto del principio della rappresentanza democratica. La crisi del partito, in quanto essenziale tratto di unione tra società civile e stato, è sempre il vero epicentro di una involuzione di sistema, destinata a sfociare, prima o poi, in un mutamento della stessa forma di governo.
Prospero ripercorre e commenta tutti i fondamentali passaggi dell’analisi gramsciana: la degenerazione burocratica, la disgregazione trasformistica, la fascinazione carismatica, la regressione nell’apoliticismo, l’involuzione cesarea, che può avanzare anche attraverso la formazione di grandi coalizioni di governo che tolgono al parlamento la sua precipua funzione di rappresentazione politica del conflitto sociale.
Una teoria dello Stato
Comprensiva di questa complessa fenomenologia è la più generale contrapposizione tra lo stato inteso come costituzione e il governo, tra la politica come forma in cui una società si organizza e si esprime in ottemperanza ai conflitti sociali da cui è percorsa, e la politica come macchina o tecnica (come governance nel linguaggio di oggi), ossia come potere esecutivo che ricerca nella sua separazione e nella sua razionalità esclusiva ed escludente il principio del proprio sviluppo. O ancora: tra lo stato che si allarga alla società civile e lo stato che si contrae nell’apparato burocratico.
Questa linea di conflitto attraverso cui matura sempre lo svuotamento di ogni forma di sovranità popolare, ha investito, per Gramsci, anche il nuovo potere nato dalla rivoluzione d’ottobre. In questo senso si può dire che nei Quaderni ci sono i fondamenti di una teoria unica dello stato. In qualsiasi contesto sociale la democrazia avanza solo con la diffusione e l’arricchimento del politico.
Gramsci non ha letto gli ultimi corsi di Foucault al Collége de France sulla contrapposizione tra stato e governamentalità. I suoi punti di riferimento sono da un lato La filosofia del diritto di Hegel, che, nelle sue parole, interpreta la società civile come «trama privata dello stato», dall’altro Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, che vede nel potere dell’esecutivo, sempre più dilagante con lo sviluppo di rapporti capitalistici, la causa immanente di ogni involuzione autoritaria. Il passaggio da Napoleone il grande a Napoleone il piccolo sta a testimoniare l’esistenza di un potere separato che sovrasta e condiziona la politica. Per questo l’involuzione cesarea può avanzare senza il concorso di grandi personalità.
Dinanzi all’incapacità del pensiero liberaldemocratico classico di dire una parola sulla crisi della democrazia che stiamo vivendo, i Quaderni di Gramsci, che Norberto Bobbio volle tanto tenacemente mandare in soffitta, continuano ad avere un singolare potere di illuminazione sul presente. Oggi valutiamo meglio l’effetto disarmante di una visione della democrazia che si costruiva nella più completa ignoranza del legame di ferro tra potere economico e potere burocratico che la mondializzazione e lo stesso sviluppo del processo di integrazione europeo stava già allora saldando.
La lettura dei testi gramsciani che Prospero ci propone è legittimamente, ossia senza alcuna sollecitazione dei testi, orientata all’esperienza dell’oggi. Si può dire che in essa si definisce la prospettiva critica con cui egli guarda alla crisi italiana nel suo volume immediatamente precedente Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Bordeaux.
Con particolare efficacia il capitolo intitolato «La rivoluzione passiva» suggerisce come nello smantellamento progressivo del partito politico, sempre incoraggiato e promosso dai poteri costituiti, si debba cogliere il tratto distintivo di una «crisi organica» che dall’inizio degli anni Novanta arriva, con le elezioni del febbraio 2013, al crollo del bipartitismo, assunto come principio fondante della seconda repubblica, per approdare (provvisoriamente!) all’Opa (offerta pubblica di acquisto) di Renzi sul Partito democratico.
Il ciclo populista genera un politico sempre più fragile e aleatorio, in cui il carisma di carta pesta inventato dai media si mescola con la degenerazione trasformista e con un discorso pubblico sempre più svuotato di ogni contenuto reale. Le affinità tra questi diversi episodi sono indubbiamente impressionanti. E tuttavia la fedeltà allo spirito della analisi gramsciana impone la ricerca di differenze che indiscutibilmente permangono. Con i leaderismo di Berlusconi si cementa una nuova destra di governo estranea e aggressivamente contrapposta a tutta la precedente storia repubblicana. Con il leaderismo di Grillo si esprime la protesta di vasti ceti popolari nei confronti di un sistema politico che ha abbassato drammaticamente il livello delle proprie prestazioni, disattendendo sistematicamente le aspettative della società civile. Con i leaderismo di Renzi giunge a conclusione la involuzione programmatica e politica del Partito democratico (a sua volta ultima metamorfosi del vecchio Pci) che è definitivamente precipitata nell’autunno del 2011 con il consenso dato alla formazione del governo Monti.
Stress da austerità
Nell’ondata populista che oggi investe tutti i sistemi politici europei sottoposti allo stress della politica di austerità si esprimono contenuti sociali spesso tra loro opposti. La protesta antipolitica di chi ha perso il lavoro rimane profondamente diversa da quella di chi non vuole pagare le tasse. Riuscire a mantenere il senso delle distinzioni è la vera posta in gioco sia dell’analisi che dell’iniziativa. La perenne saldatura tra contenuto e forma è in effetti il lascito più importante della metodologia gramsciana che questi due libri di Prospero ripropongono con grande forza all’attenzione della nostra cultura politica.
Renzo De Felice (1929 - 1996) / 1
Preoccupato per l’Italia
di Emilio Gentile 22 maggio 2016
«A più di un mese dalle elezioni ... i dati più significativi mi sembrano due. Il primo ... è quello rappresentato dal nuovo aumento delle astensioni di vario genere ... Il secondo dato più significativo è costituito a sua volta dalla conferma dell’esistenza di un consistente voto fluttuante. In una situazione normale, entrambi questi dati non mi sembrerebbero preoccupanti e, assai probabilmente, li considererei positivi. ... Il fatto è che la situazione italiana non è normale, per cui entrambi questi dati, piuttosto che indici di salute, sono indici di malattia: di una sfiducia diffusa e crescente nel sistema politico-partitico esistente, di una sfiducia che, sotto lo stimolo di accavallantisi stati d’animo, certo indebolisce la democrazia italiana e può persino sfociare in situazioni non dico senza ritorno (ché in un Paese economicamente e socialmente sviluppato e integrato nel sistema politico-economico occidentale come l’Italia ciò è impensabile), ma certo tali da mettere irreparabilmente a terra l’economia nazionale e far cadere l’Italia nel girone dei dannati al sottosviluppo»; «oltre tutto, il processo di integrazione dell’Europa segna il passo e addirittura regredisce, sicché, a livello di massa, da un lato le speranze in essa ... si attenuano e tendono a trasformarsi in sfiducia e, da un altro lato, acquista ancora maggior consistenza la tendenza a occuparsi e preoccuparsi veramente solo dei problemi di casa».
Le parole ora citate, che paiono descrivere l’attuale situazione italiana ed europea, sono state scritte trentadue anni fa, dopo le elezioni europee del giugno 1984, dallo storico Renzo De Felice.
Noto in Italia e all’estero per gli studi sul fascismo e la biografia di Mussolini (e per le aspre polemiche di quanti lo accusarono di subdoli intenti apologetici), a venti anni dalla morte avvenuta il 25 maggio 1996, De Felice è meno conosciuto, se non addirittura sconosciuto, come osservatore della crisi della democrazia. Interamente dedito al lavoro storiografico, egli non era solito commentare l’attualità politica, ma ogni tanto, con qualche intervista, entrava nelle acque dell’attualità, e contribuiva ad agitarle con qualche dichiarazione eterodossa, provocando scandalizzate reazioni. Come quando, alla fine del 1987, propose di cancellare dalla Costituzione le norme transitorie che vietavano la ricostituzione del partito fascista. La vera minaccia per la democrazia italiana non era nel Movimento sociale italiano, che ormai esisteva da decenni, ma si annidava nei cambiamenti della società moderna.
«Nelle società moderne - argomentava la sua proposta De Felice - si sviluppano oggi processi che vanno in direzione contraria a quella della democratizzazione», perché «il potere si concentra al vertice, con tratti di vero oligarchismo, e si frammenta alla base, con tratti di vero anarchismo. Il risultato è che crescono le concentrazioni di autorità e decresce invece, alla base della piramide, la governabilità». Con la burocratizzazione di apparati sempre più incontrollabili, l’avanzamento della tecnocrazia, l’«estrema specializzazione delle conoscenze necessarie a mandare avanti la macchina sociale», era «in atto una sottile riduzione del potere dei cittadini, del loro massimo potere: quello di essere informati sui termini della scelta, e poi di scegliere». Per far fronte alle disfunzioni della democrazia italiana, lo storico riteneva utile una revisione della Costituzione, che doveva essere venerata come «monumento archeologico», ma rispettata come «cosa viva e vivificabile».
È però probabile che per lo storico, la revisione costituzionale per sanare le disfunzioni della democrazia non sarebbe stata efficace senza aver risolto prima la “questione morale”, che fin dal 1984 egli definiva «il nodo della vita democratica italiana», sostenendo che per i partiti veramente democratici un «aspetto non secondario» della questione morale era costituito «dalla chiarezza delle posizioni, dal rifiuto pregiudiziale - educativo direi - dei tatticismi volti a presentarsi nel modo, nei panni ritenuti più accetti alle masse, agli elettori, anche se ciò vuol dire adeguarsi ai pregiudizi, ai miti, alle mode correnti, alla cultura meno viva e, addirittura, di tipo vietamente giornalistico». Scivolando sulla china demagogica, concludeva De Felice, anche i settori più avanzati del Paese sarebbero stati spinti «o a rassegnarsi all’immobilismo o a puntare sulla roulette russa di nuovi esperimenti politici destinati ad aggravare la situazione».
De Felice tornò a esporre le sue preoccupazioni sulla situazione italiana in un convegno a Trieste nel settembre 1993. Trattando il tema del rapporto fra democrazia e Stato nazionale, abbozzò una nuova riflessione sulla crisi della democrazia in Italia, divenuta ormai cronica, considerandola sia come «aspetto fondamentale della crisi degli Stati nazionali e della stessa idea di nazione, oggi sempre più a rischio di far naufragio», sia come manifestazione «della crisi funzionale che travaglia la democrazia (non come principio cioè, ma come effettiva capacità di far fronte a un numero crescente di problemi)». De Felice estendeva la sua riflessione alla crisi della democrazia occidentale, individuandone le disfunzioni nella concentrazione del potere al vertice e della sua frammentazione alla base: due processi «che gli strumenti classici della democrazia non sono in grado di fronteggiare, o lo sono sempre meno (a seconda del grado del “senso nazionale” ancora vivo nei vari Paesi)».
Ventitre anni fa, De Felice ammoniva che le disfunzioni della democrazia occidentale «denunciano ogni giorno di più il rischio o di una demotivazione collettiva, che equivarrebbe alla fine della democrazia stessa, o di un prevalere di gruppi, economici o di mero potere, che non possono che essere un ostacolo mortale sulla via, già tanto accidentata, di una progressiva integrazione di Stati nazionali, in grado di esprimere valori, tradizioni, esperienze ed energie comuni, necessarie a perpetuare una civiltà che - almeno per ora e, credo, ancora per molto tempo - è l’unica che possa farsi carico dei problemi dell’umanità».
Come ho dimostrato altrove (E. Gentile, Renzo de Felice. Lo storico e il personaggio, Laterza 2003), la riflessione sulla crisi della democrazia, svolta con un realismo che appare oggi preveggente, fu per De Felice l’assillo dei suoi ultimi anni, mentre nello stesso periodo studiava da storico la tragedia del popolo italiano nella guerra civile del 1943-45. Egli si definiva uno «storico puro», ma in realtà fin dall’inizio la sua storiografia ebbe una motivazione etico-politica: storico esordiente a ventiquattro anni (era nato a Rieti l’8 aprile 1929), De Felice riteneva che «gli interessi storiografici fioriscano e rinverdiscano sia in funzione di intendere storicamente il presente, sia sulla base degli ideali, dei problemi, degli interessi della società nella quale lo storico vive».
Renzo De Felice (1929 - 1996) / 2
Il misticismo dei giacobini
di Francesco Perfetti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.5.16
L’immagine di Renzo De Felice studioso del giacobinismo italiano è sopraffatta dalla notorietà dello studioso dell’Italia fascista. Tuttavia, fino alla metà degli anni Sessanta, gli interessi storiografici di De Felice ruotarono attorno alla breve stagione rivoluzionaria dell’Italia napoleonica e post-napoleonica. Ciò fu dovuto alla frequentazione con Delio Cantimori, uno storico con grande sensibilità per la filosofia, il pensiero politico, la storia religiosa, la storia della cultura.
Nacquero, così, i saggi dedicati agli ebrei nella Repubblica Romana del 1798-99, a figure dell’evangelismo rivoluzionario, agli aspetti socio-economici della realtà romana e laziale nel periodo rivoluzionario, oltre al volume Note e ricerche sugli “Illuminati” e il misticismo rivoluzionario (1960).
Emersero subito, da questi scritti, sia la capacità di De Felice di analizzare i fatti riconducendoli nell’alveo del «concreto sviluppo storico» sia la sua tendenza a rifiutare qualsiasi tipo di vulgata storiografica.
Al dibattito sul giacobinismo De Felice offrì un contributo notevole attraverso lavori, che suggerivano l’importanza dell’approccio biografico e dell’analisi dell’opinione pubblica e della stampa periodica. In particolare, suscitò interesse la sua definizione del giacobinismo.
Per De Felice il giacobinismo fu, sul piano politico, un movimento repubblicano democratico che si tradusse, sul piano sociale, in un egualitarismo che postulava la redistribuzione della proprietà privata, mentre, sul piano religioso, creò nuove forme di culto e, sul piano psicologico, rivelò una sensibilità intessuta di attese escatologiche sulla capacità rigeneratrice della rivoluzione. Walter Maturi commentò icasticamente la tipologia dello studioso osservando che se qualcuno si fosse permesso di chiamare giacobino un tizio che non avesse avuto quei quattro connotati, sarebbe stato «fulminato ipso facto» da un De Felice «intransigente come un domenicano».
La polemica accompagnò sempre la pubblicazione degli studi di De Felice. All’inizio degli anni Sessanta non fu risparmiata da critiche una sua antologia del giornalismo giacobino italiano (I giornali giacobini), che richiamò l’attenzione sul ruolo politico e di rinnovamento sociale della stampa giacobina e fece emergere temi che avevano agitato il mondo giacobino: libertà di stampa e diritto di «censura pubblica», rapporti con i francesi, diffidenza delle masse, difficoltà di formare uno «spirito pubblico» rivoluzionario e via dicendo. Dagli studi di De Felice - come dimostrò anche il volume antologico Giacobini italiani, curato insieme a Cantimori - emergevano le varie anime di un movimento ideologicamente variegato e composito.
La pubblicazione, nel 1965, di Italia giacobina costituì, se non l’ultima, una delle ultime incursioni defeliciane sul terreno dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica prima del dirottamento di interessi verso il periodo fascista. Il volume conteneva un suggestivo profilo della storia d’Italia in età rivoluzionaria, risalendo fino al 1789, quando «nel cielo italiano» avevano cominciato «a dardeggiare i primi raggi del sole della Rivoluzione» senza attendere che con il 1796 la rivoluzione varcasse le Alpi al seguito delle armate francesi: il periodo 1789-1796 appariva a De Felice importante per individuare gli sviluppi che «i fiori italiani erano portati ad avere prima che la mano del giardiniere francese li selezionasse e li coltivasse secondo le esigenze del suo mercato».
Gli avvenimenti successivi al 1796, il cosiddetto «triennio rivoluzionario», venivano letti alla luce della politica francese. Il Direttorio non aveva concepito la campagna d’Italia come «guerra di liberazione», ma come operazione secondaria rispetto ad altri scacchieri, un mezzo per appoggiare la campagna dell’armata del Reno, assicurarsi territori utilizzabili come merce di scambio, rimpinguare le casse dell’erario, sovvenzionare le altre armate e autofinanziare quella d’Italia. Invece, Bonaparte aveva presentato la campagna come «guerra rivoluzionaria», ma lo aveva fatto per facilitarsi le operazioni militari e impostare una politica personale da imporre a Parigi.
In conclusione, De Felice faceva vedere come sia la politica del Direttorio sia quella di Bonaparte, diverse nelle premesse, avessero finito, dal punto di vista italiano, per risultare identiche, puntando entrambe a impadronirsi delle ricchezze italiane e a impedire la creazione di governi popolari dotati di prestigio e forza propri e capaci di opporsi alla politica di sfruttamento economico della penisola o a scambi franco-austriaci o franco-spagnoli di territori italiani. Il che spiegava perché le amministrazioni provvisorie, le municipalità, i governi insediati dai francesi o costituiti al seguito delle truppe francesi si fossero rivelati «screditati e passivi strumenti» della politica francese.
Tuttavia, De Felice respingeva la condanna, basata sul canone storiografico della «rivoluzione passiva», che presentava il triennio giacobino come fase storica negativa ed effimera e sosteneva invece che «il movimento rivoluzionario italiano fu un fenomeno, pur nelle sue peculiarità locali e regionali, squisitamente unitario».
Gli scritti di De Felice chiusero una fase della discussione sul giacobinismo, ma, al tempo stesso, costituirono la premessa dei suoi successivi studi sul fascismo. Egli, infatti, non avrebbe mai tralasciato di sottolineare motivi riconducibili ai precedenti interessi: la dimensione rivoluzionaria, per esempio, del movimento fascista; la mentalità democratica e illuminista presente nell’idea mussoliniana dello Stato educatore; la vocazione giacobina e totalitaria del fascismo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
ORIGINI DEL TOTALITARISMO. LA TESI DI HANNAH ARENDT NON CONVINCE.
Emilio Gentile, con "La via italiana", lo dimostra e getta luce sul nostro stesso presente
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
Ripartire da Gramsci
di Alberto Scanzi (il manifesto, 12.11.2015)
Pres.Associazione Cir. Gramsci Bergamo
Gramsci, come risorsa per la definizione di un nuovo soggetto politico di sinistra. Sembra che si sia finalmente giunti alla decisione di costituire in Italia un nuovo soggetto politico di Sinistra. Provo allora ad elencare qualche snodo decisivo come contributo alla discussione. E’ importante partire con idee chiare, superando ogni sorta di perplessità e attendismo. In questo contesto ci può aiutare la ricchezza dell’attività giornalistica e politica di Gramsci degli anni torinesi. Le questioni affrontate, poi, da Gramsci nei Quaderni, sono tante e complesse che rimandano ai temi di stretta attualità dei giorni nostri, là dove Gramsci descrive una classe borghese che diventa casta, e per mantenersi tale, non esclude l’opzione della guerra. Né vanno sottovalutati i temi storici della «teoria della prassi» e i nodi concettuali di «società civile», «egemonia», «rivoluzione passiva». Vorrei però oggi soffermarmi sull’analisi gramsciana di «coscienza di classe» e «ruolo e funzione del partito».
Come spunto di riflessione per la costruzione in Italia di un nuovo soggetto politico a Sinistra, che rivendichi non solo i diritti civili ma anche l’eguaglianza sociale. Gramsci muove dall’idea che senza coscienza (di sé ,della realtà, del contesto storico) non ci sia soggettività, quindi sia inevitabile la subalternità al potere dominante. Senza coscienza di classe, la massa è indissolubilmente legata al dominio della borghesia capitalistica. La conquista della coscienza sociale è quindi il primo atto di quel processo che potrà portare a costruire un nuovo soggetto politico di Sinistra, poiché significa divenire consapevoli del conflitto sociale e politico in atto. Così come lo sono stati il partito Giacobino nella Rivoluzione francese del 1789, i Mille di Garibaldi nel 1860, la Comune di Parigi nel 1870, il partito bolscevico nella Rivoluzione d’Ottobre il nuovo soggetto politico è chiamato a svolgere una funzione pedagogica in termini egemonici e non autoritari, con l’autorevolezza e il prestigio della direzione.
Compito primo di questa nuova forza politica di Sinistra è, in altri termini, farsi soggetto promotore della contro-egemonia di classe, la quale deve a sua volta essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo, quindi concepire da subito i germi della nuova società, iniziando a costruire linguaggi alternativi, codici, forme, relazioni, esperienze sottratte al dominio dello sfruttamento capitalistico e finanziario. Quindi ribadire con forza i temi della Sinistra: ruolo pubblico nel mercato, la pace, acqua e beni comuni, lavoro, pensioni, scuola pubblica, l’Europa dei popoli, il No alla Nato, diritti civili ecc..
Per Gramsci il partito è un insieme di dirigenti all’altezza delle necessità e in grado di stare nel conflitto. «Coscienza e organizzazione» costituiscono per Gramsci un binomio indissolubile. Il dovere più urgente, dice Gramsci, è il problema di organizzazione, di forza, di corpi fisici e di cervello, di organizzazione delle menti cioè formazione e coordinamento. Per Gramsci organizzare è sinonimo di direzione, di consapevolezza, di competenza delle conoscenze e di coerenza sul piano pratico. Entra quindi in gioco il tema del «lavoro di massa», caratteristico e fondante della teoria gramsciana del partito.
Lavorare tra le masse vuol dire essere continuamente presenti, essere in prima fila in tutte le lotte. Strategico e decisivo è quindi creare gruppi dirigenti «organici e adeguati» per la creazione e la formazione di un’autonomia culturale e politica che sappia dare risposte concrete, qui e ora al «Socialismo del XXI secolo». In questo arcipelago di movimenti di Sinistra, fondamentale sarà la presenza di un forte e nuovo Partito Comunista.
Rodotà: «Dalla scuola all’Italicum la pedagogia del Capo mina la democrazia»
Riforma Scuola. Intervista. Stefano Rodotà a tutto campo su Matteo Renzi: «Con il preside manager trasferisce la sua visione del potere all’intera società». «La scuola dovrebbe impedire diseguaglianze, il Ddl spinge invece verso la segmentazione sociale». «Chi si oppone al renzismo dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere istituzionale»
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 21.05.2015)
«Fino ad oggi ci siamo concentrati sul modello di organizzazione istituzionale emerso dal combinarsi dell’Italicum e della riforma del Senato - afferma Stefano Rodotà - La riforma della scuola approvata ieri alla Camera mostra un elemento radicale: l’idea che Renzi ha della società».
Possiamo farne un profilo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elettorale e di quella costituzionale?
La scuola è la parte più importante del Welfare tradizionale. In un momento in cui aumentano disoccupazione e povertà si dovrebbe investire sul suo ruolo di inclusione per impedire il riprodursi delle disuguaglianze. Invece la riforma disconosce che la scuola sia un corpo sociale composto da soggetti differenziati e ribadisce una fortissima spinta verso la segmentazione sociale. Attacca il contratto nazionale, esclude i corpi intermedi, e in particolare i sindacati, non riconosce la partecipazione democratica espressa dagli insegnanti e dagli studenti che si stanno opponendo. Sono gli elementi già emersi nel Jobs Act che ha portato l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti. In questo modello di società non c’è spazio per la coesione sociale.
Nel Ddl scuola approvato dalla Camera c’è lo «School Bonus», un credito d’imposta al 65% per il biennio 2015 - 2016 e del 50% per 2017, riconosciuto a chi farà donazioni in denaro per le scuole pubbliche o private. Cosa ne pensa?
È una forte spinta verso l’outsourcing. Questa norma è un incentivo a far uscire la scuola dall’ipoteca del pubblico per affidarla ai privati che la gestiranno come meglio credono. È come incentivare a farsi una previdenza privata oppure una sanità privata.
Contrasta con l’articolo 33 della Costituzione che prevede l’esistenza di scuole private «senza oneri per lo Stato»?
Sono stato ostile alla legge sulle scuole paritarie approvata nel 2000. Ci vedevo l’escamotage per aggirare proprio questo articolo. Quando l’hanno scritto, i costituenti non avevano preclusioni ideologiche ma intendevano riconoscere la priorità degli investimenti nella scuola pubblica di ogni ordine e grado. Lo Stato deve in primo luogo permettere che la scuola pubblica funzioni al meglio. Solo quando questa condizione sarà soddisfatta, si potrà pensare di dare un euro anche ai privati. Nel Ddl di Renzi non c’è alcuna una risorsa aggiuntiva ai privati. I fondi a loro destinati sono sottratti alla scuola pubblica.
È stato detto che questa norma rispecchia il pluralismo e, in più, rappresenti la fine di un tabù ideologico della sinistra.
Altro che abbattere un tabù. Ne costruisce un altro: la distinzione tra scuole per abbienti e per non abbienti, di serie A e di serie B. Chi sostiene queste posizioni crede che il ruolo della scuola pubblica sia in contrapposizione con quella dei preti, come si diceva secoli fa quando ero un ragazzino. Il problema è un altro: la scuola pubblica, come spazio pubblico di riconoscimento e confronto, è irrinunciabile perché qui posso costituirmi come cittadino. Se invece dico che ognuno può farsi la propria scuola religiosa, etnica, territoriale o culturale innesco un conflitto. La scuola non è più un luogo dove si apprende a riconoscere l’altro in base alle sue diversità, ma un luogo dove si adempie una funzione pubblica per un numero tendenzialmente riducibile di persone. Tutto questo è in conflitto con l’idea di una società aperta e plurale dove l’uguaglianza esiste nella misura in cui viene riconosciuta la diversità delle opinioni.
Crede che Renzi abbia attribuito al «preside manager» un’importanza paragonabile alla leadership politica che lui intende svolgere in politica e nello Stato?
Certamente. È rivelatore di questo atteggiamento il fatto che abbia scelto di usare la lavagna e il gessetto: voi siete gli scolari e io il maestro che vi spiega la riforma. Dopo avere usato tweet e slide ha cambiato la sua comunicazione e si è messo nella posizione di chi parla dall’alto. È la rappresentazione tangibile della concentrazione dei poteri nella figura del presidente del consiglio, prima ancora che nell’esecutivo, che si vuole realizzare con le riforme istituzionali. Con questo disegno di legge Renzi tende a trasferire questa visione del potere a tutti i livelli della società. Alle figure apicali dei presidi affida la missione della scuola, quella di produrre buona cultura, uguaglianza e rispetto dell’altro. Sono d’accordo con chi ha definito questa politica come una «pedagogia del Capo».
Renzi sostiene invece che il preside-manager sarà libero di decidere e di rendere più efficiente la scuola.
Ma il problema della responsabilità dirigenziale non può tradursi nell’accentramento del potere e soprattutto nella possibilità di selezionare i docenti. È lo stesso meccanismo visto all’opera nel Jobs Act: all’imprenditore sono stati concessi sgravi fiscali, l’abolizione dell’articolo 18, per facilitare le assunzioni. In questo modo i diritti dei lavoratori sono stati subordinati al suo potere sociale. Con la riforma della scuola si crea un centro di potere per gestire un istituto con una logica tutta imprenditoriale e ad esso si subordina la partecipazione nella scuola.
Chi si oppone a questa politica è accusato di essere corporativo o un relitto della storia. Come si smonta questa retorica?
Dicendo che quella in atto non è un’opera di sburocratizzazione della società, ma di concentrazione del potere in una sola persona. Nei settori dove questo è accaduto, ad esempio nelle opere pubbliche, sono venuti meno i meccanismi di controllo, di partecipazione e trasparenza. Il potere è stato usato in maniera discrezionale e la corruzione si è moltiplicata.
In Italia è innegabile il problema della burocrazia, non crede?
Ma non lo si risolve aumentando diseguaglianze e ingiustizie. Man mano che si introduce la logica privatistica e l’accentramento della gestione si indeboliscono le possibilità di controllo e di partecipazione. Queste funzioni sono essenziali anche nella vita della scuola il cui scopo è garantire l’inclusione sociale, non la competizione tra le persone.
Perché, fino ad oggi, chi si richiama alla Costituzione non ha prodotto una politica capace di affrontare la sfida di Renzi?
Si è pensato che, tutto sommato, ci sarebbe stato il tempo necessario per aggiustare le cose. Quando poi si sono compresi gli effetti istituzionali e sociali della sua politica è stato troppo tardi. La politica ufficiale non è stata in grado di contrapporsi a Renzi. Questo vale per chi sta nel Pd, ma anche per chi oggi critica l’accentramento dei poteri nell’esecutivo. Questi elementi erano presenti sin dall’inizio e adesso le resistenze sono tardive. Non voglio dire che avevo ragione, quando ci chiamavano «professoroni», né voglio fare la parte della Cassandra. Per me è un elemento di autocritica.
Cosa è mancato a questa opposizione?
La visione alternativa di una società dove la politica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia. Oggi chi si oppone a Renzi dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere che si sta realizzando a livello istituzionale. La società deve riconquistare il suo ruolo nel momento in cui lo spazio nelle istituzioni si restringe. Rimettere in movimento questi meccanismi oggi è un problema politico che si devono porre anche chi sta nelle istituzioni. Non si può fare politica solo attraverso gli emendamenti. Quella può permettere di salvarsi l’anima solo quando si discute una legge.
Lettera di Norberto Bobbio a Luisa Mangoni *
[...]
TORINO , 16 marzo 1977
Gentile signora,
la ringrazio dell’estratto del suo articolo su cesarismo ecc. Un bel tema, che mi piacerebbe però vedere sviluppato meglio anche concettualmente. Lei per esempio accenna a un certo punto alla distinzione tra cesarismo e bonapartismo, poi se non sbaglio non la riprende più.
Così il problema del rapporto tra cesarismo, democrazia di massa e capo carismatico, da cui parte, andrebbe meglio approfondito anche riguardo a Gramsci, che cita Michels a proposito del capo carismatico in un famoso passo sulla demagogia in senso negativo e sulla demagogia in senso positivo.
Il tema del capo carismatico è un tema che entra con forza nelle discussioni di quegli anni tra coloro che si rendono conto che è cominciata l’era della democrazia di massa (della “ribellione delle masse” per dirla con una espressione nota e negativa).
Dal momento che lei ha dedicato l’ultima parte del suo articolo a Gramsci, perché non analizzare il suo pensiero anche su questo punto? Chi è “il demagogo superiore”? È anche lui un capo carismatico? Come mai tutta la teoria politica marxistica anche dopo Michels e dopo Weber non ha mai parlato volentieri del capo carismatico? (...) Cordiali saluti
Norberto Bobbio
*
“Altro che cultura per me il fascismo fu solo retorica”
Nel carteggio del ’76 con Luisa Mangoni lo studioso difende le sue tesi: “Un’era di cortigiani e adulatori”
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 23.01.2015)
D’Orsi sfata il mito di un Gramsci quasi liberale
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 30.12.2014)
Non da oggi, qui da noi, la storia delle dottrine politiche è anche un campo di battaglia che sconfina spesso nell’attualità. E, a volte, si colora pure di tinte gialle o noir. Ecco perché Antonio Gramsci, sul quale si appuntano inesauribili polemiche e querelle, e pure «misteri», sparizioni e «oggetti smarriti», val bene una nuova seria ricognizione che preferisce nettamente la storia documentaria a quella indiziaria (e nulla vuole spartire con una sorta di detective story).
Angelo d’Orsi, profondo conoscitore del pensiero del padre teorico del comunismo italiano, ha curato un’esaustiva Inchiesta su Gramsci (Accademia University Press, pp. 219, €18), raccogliendo i testi di 26 specialisti, per cercare di mettere alcuni punti fermi nel dibattito storiografico. Che è complesso - innanzitutto per la natura plurima e «problematica» dei testi gramsciani (articoli per la stampa, materiale carcerario e documenti di partito, per di più spesso non integralmente suoi) - ma da cui andrebbero rigorosamente espunti i «corpi estranei» del revisionismo e dell’opinionismo, responsabili della diffusione di una sequela di «leggende metropolitane» (tra le quali gli studiosi coinvolti indicano quella di un Gramsci sulfureo cattivo maestro, il sospetto intorno a un Piero Sraffa agente sotto copertura del Comintern, se non direttamente di Stalin, e la dicotomia tra un Gramsci buono e un Togliatti malvagio).
L’obiettivo del volume collettaneo - in cui tutto il corpus gramsciano è passato sotto la lente di ingrandimento (dalle interpretazioni postmoderniste alla larghissima ricezione internazionale, sino alla linguistica) - è anche quello di rigettare ai mittenti il tentativo, reputato inaccettabile, di un’ermeneutica liberale del marxista eterodosso Gramsci, che mirerebbe a svuotarne la carica irriducibilmente critica e alternativa.
Come pure quello di sgombrare il campo dalla tesi del Quaderno o dei (due) Quaderni di «fuoriuscita dal comunismo» fatti sparire, anche se a Franco Lo Piparo, suo principale alfiere, pur nel dissenso fermo e totale, viene concesso l’onore intellettuale delle armi (e un intervento all’interno del libro).
Il populismo tecnocratico del «rottamatore»
di Lelio De Michelis *
L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso. Effetto culturale - questo - dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente.
Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali). Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare - questa l’azione appunto culturale, pedagogica prima che economica - le retoriche neoliberiste dell’essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.
Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All’essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell’ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all’intera società.
Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l’uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso.
E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch’egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito tuttavia, ormai anch’esso trasversale - e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.
Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio).
Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all’austerità, all’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio.
Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell’Italia - e ogni populismo è stato, storicamente anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.
Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche - al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi - sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall’ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente). Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell’azione per l’azione.
Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent’anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E’ un neopopulismo tecnocratico - per altro discendenza diretta di quello neoliberista - che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia.
Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l’estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.
Concetti sempre efficaci
Gramsci, un pensiero diventato mondo
di Razmig Keucheyan
Le Monde Diplomatique, luglio 2012, pag 3
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Perché quello che è stato possibile in Russia nel 1917, vale a dire una rivoluzione operaia, altrove è fallito dappertutto? Come mai è accaduto che all’epoca il movimento è stato sconfitto negli altri Paesi europei - in Germania, Ungheria, ma anche nell’Italia delle «assemblee di Torino», quando gli operai del Nord del Paese, negli anni 1919-1920, occuparono le loro fabbriche durante molti mesi?
Questa domanda è il punto di partenza dei celebri Quaderni dal carcere (1) di Antonio Gramsci, che, giovane rivoluzionario, era alle prime armi al tempo dell’esperienza torinese. Redatti qualche anno dopo il riflusso di quel progetto, questa opera politica del XX secolo, di fondamentale importanza, fornisce una profonda riflessione sull’insuccesso delle rivoluzioni in Europa e sul modo di superare la sconfitta del movimento operaio degli anni 1920 e 1930. Tre quarti di secolo dopo la morte di Gramsci essa continua a parlare a tutti coloro che non hanno rinunciato a trovare le vie verso un altro mondo possibile.
Stranamente, essa parla anche a quelli che si accaniscono per impedire che questo altro mondo si realizzi. «In fondo, ho fatto mia l’analisi di Gramsci: il potere si ottiene con le idee. È la prima volta che un uomo di destra fa propria quella battaglia», così dichiarava Nicolas Sarkozy qualche giorno prima del primo turno delle elezioni presidenziali del 2007 (2).
Il ricupero dell’autore dei Quaderni dal carcere da parte dell’estrema destra, dalla quale provenivano alcuni consiglieri di Sarkozy - in particolare Patrick Buisson - è in realtà un caso vecchio. Così essi sono un riferimento centrale per la «nuova destra», quando il suo principale teorico, Alain de Benoist, qualifica la sua strategia di «guerra culturale» di «gramscismo di destra» (3). Questa appropriazione indebita tuttavia non ha impedito che, lungo il secolo XX, Gramsci fosse oggetto di stimolanti reinterpretazioni da parte delle correnti rivoluzionarie nel mondo intero.
Che la rivoluzione sia stata possibile in Russia ma non nell’Europa occidentale è dovuto, secondo Gramsci, alla natura dello Stato e della società civile. Nella Russia zarista l’essenza del potere era concentrata nelle meni dello Stato; la società civile - partiti, sindacati, imprese, stampa, associazioni... - era poco sviluppata. Prendere il potere in queste condizioni, come l’hanno fatto i bolscevichi, presuppone innanzitutto impadronirsi dell’apparato dello Stato: esercito, amministrazione, polizia, giustizia... Poiché la società civile era allo stato embrionale, chiunque detiene il potere dello Stato è in grado di assoggettarla. Beninteso, una volta preso lo Stato, cominciano i problemi: guerra civile, rilancio dell’apparato produttivo, delicati rapporti fra la classe operaia e quella contadina...
Nell’Europa dell’Ovest, al contrario, la società civile è corposa e autonoma. Sotto l’effetto della rivoluzione industriale essa si costituisce progressivamente come sede della produzione. Detiene una parte importante della somma totale del potere, a tal punto che non basta impadronirsi dello Stato: occorre ancora dominare nella società civile, poiché il problema è che non la si conquista nello stesso modo. Ciò presuppone che il cambiamento sociale prenda forme distinte da quelle del caso russo. Non è che le rivoluzioni nell’Europa occidentale siano diventate impossibili, tutt’altro, ma esse dovranno inserirsi in una «guerra di posizione» di lungo corso.
Dal peronismo ai «subaltern studies»
Gramsci vuole essere fedele alla rivoluzione russa - è un ammiratore di Lenin, al quale nei Quaderni dal carcere non cessa di rendere omaggio. Ma ha anche compreso che questa fedeltà implicava, in pratica, di cambiare il modo di fare le rivoluzioni. La sua teoria dell’«egemonia» trova il suo punto di partenza in questa constatazione. La lotta delle classi, dice Gramsci, deve ormai includere una dimensione culturale, deve porsi la questione del consenso delle classi subalterne alla rivoluzione. La forza e il consenso sono i due fondamenti della conduzione degli Stati moderni, i due pilastri di una egemonia. Quando il consenso viene a mancare - come fu il caso, per esempio, nel 2011 nel mondo arabo - si creano le condizioni per il rovesciamento del potere esistente.
La prima edizione dei Quaderni dal carcere esce alla fine degli anni ’40. È messa sotto la responsabilità di Palmiro Togliatti, il segretario generale del Partito comunista italiano (PCI), che fino all’inizio degli anni ’60 manterrà il dominio sulla messa in circolazione degli scritti del suo compagno defunto. Da quest’epoca in poi l’opera di Gramsci serve come punto di incontro a tutti coloro che, nel mondo, cercano di combinare fedeltà alla rivoluzione d’Ottobre e volontà di adattare il processo a contesti sociopolitici talvolta lontani dal caso russo. Questo è ciò che spiega la rapida diffusione internazionale delle tesi di Gramsci e la costituzione di correnti gramsciane in tutto il globo. Dei Quaderni dal carcere si può così dire che si tratta di una delle prime teorie critiche a livello mondiale.
Tre casi molto diversi gli uni dagli altri illustrano questa circolazione delle sue idee. Dalla metà del XX secolo l’Argentina diventa il centro di un’importante tradizione gramsciana, prima che altri Paesi del Continente, come il Brasile, il Messico o il Cile, si immergano anch’essi nello studio dei Quaderni dal carcere. La rapidità e l’ampiezza dell’accoglienza di Gramsci in Argentina si spiega con l’importanza dell’immigrazione italiana. Esse sono ugualmente dovute al fatto che i suoi concetti principali - «egemonia» ma anche «cesarismo» o «rivoluzione passiva» - vi sono messi a contributo per comprendere questo fenomeno politico tipicamente argentino che è il peronismo.
Più in generale essi servono allora per analizzare i regimi militari «progressisti» o «espansionisti dello sviluppo» - oltre a Juan Domingo Perón in Argentina, Lázaro Cárdenas in Messico o Getúlio Vargas in Brasile - che fanno la loro comparsa nella regione. Questi poteri mettono in opera forme di «modernizzazione conservatrice», né rivoluzione né restaurazione, frequenti durante il secolo XX nei Paesi del terzo Mondo, che si modernizzano garantendosi che le ineguaglianze di classe non siano fondamentalmente rimesse in discussione.
Il concetto di «rivoluzione passiva, che Gramsci forgia nei Quaderni dal carcere quando esamina la formazione dello Stato nazionale italiano nel XIX secolo, descrive precisamente questo tipo di processo politico ambivalente. Talvolta queste rivoluzioni sono condotte da un «cesare» - da qui l’idea di «cesarismo» -, cioè da un capo carismatico che stabilisce un legame immediato con le masse, i cui esempi, anche qui, non mancano nell’America Latina dei secoli passati e presente.
Fra gli altri, pensatori come José Aricó, Juan Carlos Portantiero, Carlos Nelson Coutinho o Ernesto Laclau producono in quel tempo letture innovatrici dei Quaderni dal carcere, la cui influenza si estende molto al di là dell’America Latina (4). Sull’esempio dello stesso Gramsci molti dei loro interpreti più importanti sono impegnati nella lotta rivoluzionaria che dilagò sul Continente negli anni ’60 e ’70.
Il partito degli oppressi
All’altro capo del Pianeta le idee dell’intellettuale italiano raggiungono l’India a partire dagli anni ’60. Gramsci è un grande punto di riferimento degli studi postcoloniali (postcolonial studies). Il principale fondatore di questa corrente di pensiero, il palestinese Edward Said, vi ha fatto ricorso per formulare la sua critica dell’orientalismo, vale a dire delle rappresentazioni di «Oriente in auge nel mondo occidentale (5)». Sotto l’influsso di Said, ma anche degli storici marxisti britannici Eric Hobsbawm e E. P. Thompson, emerge negli anni ’70 un settore specifico indiano di studi postcoloniali: gli studi subalterni (subaltern studies).
Questa corrente, rappresentata particolarmente da Ranajit Guha, Partha Chatterjee (6) e Dipesh Chakrabarty, prende il suo nome direttamente da Gramsci. L’espressione «subalternes» si trova effettivamente nel titolo del Quaderno dal carcere n° 25, il cui titolo esatto è «Ai margini della storia. Storiografia dei gruppi subalterni». I «margini della storia» vogliono significare i gruppi sociali assenti dalle storie «ufficiali», ma suscettibili, quando entrano in attività, di sconvolgere l’ordine sociale.
La circolazione dei concetti gramsciani dall’Italia dell’inizio del XX secolo all’India degli anni ’70, si spiega con la prossimità delle strutture sociali di questi Paesi e in particolare con la presenza in entrambi di una classe contadina rilevante. Nel testo che scrive nel 1926, proprio prima della sua incarcerazione, «Qualche tema della questione meridionale», Gramsci preconizza un’alleanza fra la classe operaia del Nord d’Italia, numericamente minoritaria, ma economicamente e politicamente in ascesa, e quella contadina del Sud, a quell’epoca ancora numerosa. I «subalternisti» indiani presagirono il medesimo tipo di strategia nel loro Paese.
Una terza corrente si è dedicata a pensare la geopolitica con l’ausilio dei concetti proposti dall’autore dei Quaderni dal carcere. Essa si presenta sotto il nome di teoria «neogramsciana» delle relazioni internazionali. Il suo fondatore è il canadese Robert Cox, un marxista innovatore che ha anche svolto funzioni direttive presso l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) a Ginevra. Kees Van der Pijl, Henk Overbeek e Stephen Gill, fra gli altri, s’iscrivono in questa orbita. Questi autori hanno analizzato in particolare la costruzione europea, della quale cercano di comprendere l’attuale crisi (7). Da una parte, essa si spiega ai loro occhi con l’incapacità del progetto europeo di ottenere il consenso attivo delle popolazioni continentali. Ora, perché un’egemonia si stabilisca durevolmente, a livello di un Paese o di un Continente, i dominanti devono convincere i dominati che essa serve almeno in parte ai loro interessi.
D’altronde, dall’inizio del XX secolo, si assiste a un’interpenetrazione crescente fra le élite europee e americane. Questo spiega perché la costruzione europea sia stata molto sovente subordinata agli interessi dell’impero americano e non sia pervenuta a dotarsi di un progetto politico autonomo.
Gramsci non cesserà di contribuire alla costruzione del «partito degli oppressi», su scala sia italiana che mondiale, tramite le sue attività nella III Internazionale. Egli collegava quindi la teoria con la pratica, ciò che si rivela essere - purtroppo - un caso raro fra gli intellettuali critici attuali.
Al servizio della rivoluzione - Una breve biografia
Nato in Sardegna nel 1891, Antonio Gramsci cresce in una famiglia relativamente povera. Dopo aver ottenuto nel 1911 una borsa di studio che gli permette di proseguire gli studi di filologia a Torino, conosce Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini. Insieme essi militeranno dapprima nel Partito Socialista Italiano (PSI), prima di creare nel 1919 il mitico giornale operaio L’Ordine Nuovo. Al momento della fondazione del Partito Comunista Italiano (PCI), nel 1921, Gramsci diviene membro del Comitato centrale; è nominato segretario generale nel 1924. In aprile dello stesso anno è eletto deputato al Parlamento nazionale. Si racconta che, quando Gramsci prendeva la parola nell’emiciclo con la sua voce esile, Benito Mussolini tendeva l’orecchio per non mancare una parola del discorso di questo irriducibile oppositore.
Arrestato in novembre 1926 a Roma, Gramsci è condannato nel 1928 a vent’anni di prigione. «Noi dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare per vent’anni», dirà il Procuratore fascista prima che la sentenza sia emessa, cosciente della minaccia che un simile avversario rappresentava per il potere in carica. Nel 1929 Gramsci ottiene il diritto di scrivere in carcere, diritto che esercita fino al 1935, al momento in cui la sua salute si degrada irrimediabilmente. Egli muore il 27 aprile del 1937 per un’emorragia cerebrale, dopo dieci anni di calvario nelle prigioni mussoliniane, lasciando un insieme di quaderni incompiuti che sconvolgeranno il marxismo della seconda metà del XX secolo.
(1) Antonio Gramsci, Cahiers de prison, Gallimard, coll. « Bibliothèque de philosophie », Paris, 19781992, 5 tomes.
(2) Le Figaro, Paris, 17 avril 2007.
(3) Cf Pierre-André Taguieff, «Origines et métamorphoses de la nouvelle droite », Vingtième Siècle, n° 40, Paris, 1993.
(4) Cf. Raúl Burgos, Los gramscianos argentinos, Siglo XXI, Buenos Aires, 2004.
(5) Edward Said, L’Orientalisme. L’Orient créé par l’Occident, Seuil, coll. «La couleur des idées», Paris, 2005 (l" éd. : 1978).
(6) Lire Partha Chatterjee, « Controverses en Inde autour de l’histoire coloniale», Le Monde diplomatique, février 2006.
(7) Cf par exemple Henk Overbeek et Bastiaan Van Apeldoorn (sous la dir. de), Neoliberalism in Crisis, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2012.
La vittima sacrificale di un potere senza nemici
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 30 gennaio 2013)
Un libro che non nasconde le sue ambizioni, quello di Rita di Leo pubblicato da manifestolibri. Già il titolo è critico verso lo spirito del tempo - Il ritorno delle élites, pp. 122, euro 15 -. A supporto dell’intenzionalità critica anche la forma scelta di esposizione - il pamphlet - è commisurata all’altro obiettivo del volume: un atto di accusa contro la politica ridotta a arida amministrazione dell’esistente.
Il punto di vista dell’autrice si muove in una prospettiva storica, con una datazione che vede nel Novecento il punto di svolta del concetto di élite. Impregnate di sapori premoderni, le élite vengono scalzata dalla scena politica mondiale a partire dalla formazione dei grandi partiti di massa nel vecchio continente. È infatti in Europa che il nodo tra produzione di ricchezza ed esercizio del potere viene reciso. I detentori del potere economico devono vedersela con la politica, quella con la P maiuscola. Non riescono più a piegare lo stato ai loro interessi, che diviene invece l’arena in cui confliggono diverse concezioni del vivere in società. Protagonisti di questa trasformazione sono i politici di professione, eredi legittimi di quegli intellettuali francesi che durante la Rivoluzione del 1789 diventarono i leader delle prime formazioni politiche moderne.
Rita di Leo ha scelto però la prospettiva storica per analizzare il ruolo delle élite. Sa che la «politica progetto» ha un suo epicentro ben preciso. È a Est dell’Elba, cioè in Russia. È in quel paese che la politica scalza dagli scranni del potere le élite economiche. Da allora, come un virus, la «politica progetto» si diffonde nel resto d’Europa, ma con una sostanziale differenza da Mosca e da Pietroburgo. Nella Russia sovietica la «politica progetto» punta infatti a trasformare la società, rinunciando all’esistenza dell’élite economiche; a Ovest dell’Elba i politici di professione elaborano strategie per contenere il «virus sovietico». Da qui prende forma quello che è stato poi chiamato il welfare state. I grandi partiti socialdemocratici, assieme a esponenti della borghesia industriale, sono gli artefici di questa «grande trasformazione» europea. Le èlite economiche per sopravvivere cedono così la sovranità alla politica.
Instabile equilibrio
Rita di Leo conosce bene la genealogia del concetto di élite, ma accetta il rischio di confrontarsi con la sua ambivalenza. E nel fare questo si sposta al di là dell’Atlantico, dove la storia ha usato un altro lessico. Negli Stati Uniti la commistione tra politica e economia è alle radici della storia americana. Le élite non hanno mai ceduto la sovranità alla politica. Semmai hanno creato un delicato dispositivo che ha consentito equilibrio di poteri, ma anche tracciato la via affinché il passaggio da una poltrona in un consiglio di amministrazione a un seggio al Congresso sia indolore e funzionale alla imprese capitalistiche. Ironicamente, si potrebbe dire che gli Stati Uniti sono fondati non sulla ricerca della felicità, come recita la loro carta fondamentale, ma su una ben più materiale commistione di interessi tra eletti al senato, al congresso e le imprese. Più che conflitto di interessi sarebbe dunque lecito parlare di convergenza di interessi in un, appunto, equilibrio di poteri.
Ma la storia è come l’evoluzione descritta da Stephen Jay Gould. Tutto procede senza variazioni, fino a quando c’è una variazione sostanziale, che crea discontinuità storica. Anche qui la datazione dell’autrice è chiara. È l’Ottantanove del Novecento ha segnare la cesura. Il crollo del Muro di Berlino e l’implosione del socialismo reale aprono la porta per il ritorno trionfale dell’élite economiche.
Da allora la «politica progetto» è sospinte sullo sfondo, in un ruolo marginale e del tutto ininfluente sia a livello nazionale che globale. Sono élite economiche, che agiscono su un piano globale, spesso indifferenti al ruolo dello stato-nazione, a patto che non disturbi il loro operato. In caso contrario, lo occupano, ripristinando la «politica di potenza» che la «politica progetto» aveva ridimensionato. Soltanto che le armi usate sono la borsa e la circolazione dei capitali, che possono far eleggere un leader in un paese, oppure far cadere un governo da un giorno all’altro.
D’altronde, la retorica italiana per legittimare scelte neoliberiste in politica economica si basa sulla frase: è l’Europa che lo vuole. In altri termini lo vogliono le élite economiche e la politica ridotta ad amministrazione non fa altro che ratificare quando deciso altrove. Sono dunque élite cosmopolite, anche se Rita di Leo scrive che vivono prevalentemente negli Stati Uniti o in qualche gated community della vecchia Europa.
C’è però da decidere se questo ritorno delle élite sia un ritorno al passato o a una inedita forma di interdipendenza tra economia e politica. Quesito lasciato aperto dall’autrice, anche se traspare una qualche nostalgia per quella «politica progetto» che ha plasmato la storia globale del Novecento. Ma oltre a questo è l’ambivalenza della nozione di élite che chiede di essere interrogata. Nelle pagine finali del libro, Rita di Leo evoca lo slogan di Occupy Wall Street sul 99% vittima della crisi e l’1% che continua ad arricchirsi. Più che analitica, è una rappresentazione che semplifica lo scenario sociale, la composizione del lavoro vivo e la divisione in classi della società.
Tra Gramsci e Lenin
Le élite di cui si descrive il ritorno ricordano, così rappresentate, più i ceti dominanti del passato che non gli esponenti di un capitale finanziario fortemente differenziato socialmente al suo interno. Il manager di una impresa finanziaria è infatti cosa diversa da chi siede nel suo consiglio di amministrazione.
Per questo, varrebbe la pena attingere alla cassetta gramsciana degli attrezzi e mettere al lavoro - teorico, va da sé - il concetto di blocco sociale. Ne uscirebbe un quadro più articolato che aiuterebbe meglio a comprendere il consenso che le élite hanno. La stessa operazione andrebbe fatta, ma in questo caso la cassetta degli attrezzi è diversa vede al suo interno il nome di Lenin, per meglio capire come il lavoro vivo interagisce con l’esercizio del potere. Ma questo indicherebbe solo il lavoro teorico per meglio comprendere l’eclissi Politico nel capitalismo contemporaneo. Un lavoro che è sempre più urgente compiere per dare forma a una rinnovata e più radicale «politica del progetto».
La società orizzontale
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 25 novembre 2012)
Nel nostro tempo spira un vento forte in direzione contraria alla funzione sociale delle istituzioni. Gli esempi sono molteplici e investono anche la nostra vita collettiva: dalla famiglia alla Scuola, dai partiti ai sindacati, dall’editoria alla vita affettiva, assistiamo ad una caduta tendenziale della mediazione e della sua funzione simbolica.
Di fronte ad una bocciatura i genitori tendono ad allearsi con i loro figli più che con gli insegnanti; possono cambiare scuola o impugnare la loro causa rivolgendosi ai giudici del Tar; il ruolo educativo da parte di un adulto suscita spesso il sospetto di un abuso di potere; la Rete offre la possibilità a chi ritiene di essere uno scrittore di farsi il proprio libro online senza passare dal giudizio degli editori; la figura del critico, che faceva da ponte tra opera e pubblico, è oramai azzerata; le amicizie non passano più dalla mediazione indispensabile dell’incontro dei volti e dei corpi, ma si coltivano in modo immateriale sui social networks;di fronte alla dimensione necessariamente snervante del conflitto politico si preferisce l’opzione della violenza o dell’insulto.
Anche i sintomi che affliggono la vita delle persone hanno cambiato di segno; mentre qualche decennio fa apparivano centrati sulle pene d’amore, sull’importanza irrinunciabile del legame sociale, oggi non è più la rottura del legame a fare soffrire, ma è l’esistenza del legame che viene avvertita come fonte di disagio.
Un disagio diffuso soprattutto tra i ragazzi. Milioni di giovani vivono, nel mondo cosiddetto civilizzato, come prigionieri volontari. Hanno interrotto ogni legame con il mondo, si sono ritirati nelle loro camere, hanno abbandonato scuola e lavoro. Questa moltitudine anonima preferisce il ritiro, il ripiegamento su di sé, alla difficoltà della traduzione imposta dalla legge della parola.
È un segno dei nostri tempi. Il Terzo appare sempre più come un intruso. Eppure non c’è vita umana che non si costituisca attraverso la mediazione simbolica dell’Altro. Il pianto angosciato di un bambino nella notte ci chiama alla risposta, alla presenza, ci convoca nella nostra responsabilità di accogliere la sua vita. Il mito del farsi da se stessi, dell’autogenerazione, come quello del farsi giustizia da sé, è un mito che il liberismo contemporaneo ha assunto come un suo stemma.
In realtà nessuno è padrone delle sue origini, come nessuno può essere salvatore del mondo. Non esiste comunità umana senza mediazione istituzionale, senza mediazione simbolica, senza il lavoro paziente della traduzione della lingua dell’Altro.
Divento ciò che sono solo passando dalla mediazione dell’Altro (famiglia, istituzioni, società, cultura, lavoro, ecc.) e non solo attraverso le esperienze personali che ho fatto. Nel nostro tempo questa mediazione necessaria alla vita è in crisi.
Nel nome di una società orizzontale che esalta i diritti degli individui senza dare il giusto peso alle loro responsabilità evapora la dimensione della mediazione simbolica: fare gli interessi della collettività è percepito come un abuso di potere contro la libertà dell’individuo.
Questo declino della mediazione simbolica non significa solo che il nostro tempo ha smarrito la funzione orientativa dei grandi ideali della modernità e scorre privo di bussole certe al di fuori dei binari solidi che le grandi narrazioni ideologiche del mondo (cattolicesimo, socialismo, comunismo, ecc) e le sue istituzioni disciplinari (Stato, Chiesa, Esercito) assicuravano, ma manifesta una sorta di mutazione antropologica della vita.
L’individualismo si afferma nella sua versione più cinica e narcisistica investendo la dimensione della mediazione simbolica di un sospetto radicale: tutte le istituzioni che dovrebbero garantire la vita della comunità non servono a niente, sono, nella migliore delle ipotesi, zavorre, pesi arcaici che frenano la volontà di potenza dell’individuo o, nella peggiore delle ipotesi, luoghi di sperpero e di corruzione osceni. Ma come? Non è compito delle istituzioni, come dichiarava Lacan, porre un freno al godimento individuale rendendo possibile il patto sociale, la vita in comune?
La violenza di questa crisi economica ha prodotto giusta indignazione e sfiducia verso tutto ciò che agisce in nome della vita pubblica, verso tutto ciò che sfugge al controllo diretto del cittadino. Le istituzioni non l’hanno saputa avvertire, frenare, governare.
Il caso della politica si impone come esemplare. Il luogo che secondoAristotele deve riuscire a determinare l’integrazione pubblica delle differenze individuali sotto il segno del bene dellapolis- il luogo più eminente della traduzione simbolica - si è rivelato corrotto dalla affermazione più scriteriata degli interessi individuali.
Il politico liberato dal peso dell’ideologia si è ridotto a un furfante che ruba per se stesso. Eppure non si può rinunciare così facilmente alla politica, l’arte della mediazione.Perché i rischi sono evidenti, li abbiamo visti in questi anni, tra leadership carismatiche e fondazioni mitiche. Li vediamo oggi quando avanza un nuovo populismo che si appoggia sulla democrazia tecnologica garantita dalla Rete per evitare la “truffa” della mediazione politica.
Ma il populismo non è forse una forma radicale di pensiero anti-istituzionale che rigetta la mediazione simbolica affermando l’illusione di una democrazia diretta puramente demagogica?In questo senso il liberale conservatore Lacan replicava alle critiche degli studenti del ’68 che gli rimproveravano di non autorizzare la rivolta contro le istituzioni che non esiste alcun “fuori” dalla mediazione imposta dal linguaggio. Il destino degli esseri parlanti è infatti quello della traduzione.
Lacan disillude l’impeto rivoluzionario degli studenti: non esiste possibilità che una rivolta animata dalla rottura con il campo istituzionale del linguaggio non ricada nella stessa violenza dalla quale avrebbe voluto liberarsi. La rivoluzione porta sempre con sé un nuovo padrone.
L’invocazione di una democrazia diretta che reagisca in modo anti-istituzionale alla debolezza e alla degenerazione insopportabile delle istituzioni rischia di spalancare il baratro di un populismo che finisce per gettare via insieme all’acqua sporca anche il bambino.
Il grillismo sbandiera una forma di partecipazione diretta del cittadino che rifiuta, giudicandola un ferro vecchio della democrazia, la funzione sociale dei partiti. Ma è un film che abbiamo già visto. È una legge storica e psichica, collettiva e individuale insieme: chi si pone al di fuori del sistema del confronto politico e della mediazione simbolica che la democrazia impone,finisce per rigenerare il mostro che giustamente combatte.
Non è solo un insegnamento della storia ma anche, più modestamente, della pratica della psicoanalisi. La rabbia verso i padri, il puro rifiuto di tutto ciò che si è ricevuto, il disprezzo dell’eredità, rischia sempre di generare una protesta sterile, che impedisce di discriminare l’oro dal fango, che fa di tutta l’erba un fascio, e,dulcis in fundo,che mantiene legati per sempre al padre di cui ci si voleva liberare, rieditandone il volto mostruoso e autoritario.
Ecco chi ha tradito Antonio Gramsci
Canfora indaga sull’arresto del padre del Pci
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 17.11.2012)
Luciano Canfora è noto quale detective in materia storica sui temi più vari. I suoi non sono, però, lavori di ginnastica intellettuale, eseguiti per il piacere di sciogliere un rebus. Li anima, invece, una passione civile e morale della verità, che gravita sempre su nuclei di problemi vivi e di spicco e risponde a profonde convinzioni politiche. Caso vissuto, quindi, di quella contemporaneità della storia, per cui è l’urgenza del presente a volgerci al passato e a renderne attuali i problemi; e il buono storico si distingue dal cattivo se la spinta del presente non altera ciò che del passato una corretta filologia ci può dire. Non è un caso, perciò, che Canfora inizi il suo nuovo libro Spie, Urss, antifascismo. Gramsci 1926-1937 (Salerno Editrice) con alcune colorite pagine sulle «storie sacre», ossia quelle in cui la ricerca è condizionata in partenza da fini ideologici o di parte.
Qui si tratta del rapporto fra Antonio Gramsci, dopo il suo arresto nel novembre 1926, e il gruppo dirigente del suo partito - un rapporto, finché non vi fu la postuma santificazione, difficile - e di tre lettere di Ruggero Grieco a Terracini, a Scoccimarro e a Gramsci, insidiose per quest’ultimo, che perciò definì «criminale» quella diretta a lui.
Per l’arresto (non facilmente evitabile) si configurano «pesanti ombre» e una inettitudine dei responsabili della sicurezza di Gramsci. Per le tre lettere - sfrondando al massimo la questione, che Canfora mostra al centro di scelte e condotte politiche rilevanti per la storia del comunismo italiano ed europeo negli anni di Stalin - emerge che Grieco si fece strumentalizzare da un qualcuno, mosso da torbidi fini e individuato in Angelo Tasca.
Intorno a tutto ciò Canfora fa ruotare la dirigenza comunista italiana fra il 1926 e il 1937, con una folla di personaggi maggiori (Sraffa, Togliatti, Bordiga, Camilla Ravera, la cognata di Gramsci, i diplomatici russi a Roma) e minori o quasi sconosciuti, che egli porta in luce. Una puntigliosa indagine illustra poi tormenti e difficoltà della storiografia dei comunisti fino alla pubblicazione delle lettere di Grieco (di cui una copia, non si capisce bene come, finì nell’Archivio dello Stato in Roma).
Si chiude, infine, con l’esame del pensiero gramsciano sull’affermazione del fascismo in Europa e sugli scenari aperti con la fine della prospettiva rivoluzionaria nell’Occidente europeo. Dalle sue analisi teoriche e storiche Gramsci emerge in tutto il rilievo di una rigorosa e vigorosa riflessione, in cui Luciano Canfora distingue tre fasi: quella «esordiale» fra il 1914 e il 1918, in cui egli si vota alla causa della rivoluzione socialista; la seconda, in cui crolla il sogno rivoluzionario e si hanno nuove condizioni nell’Europa fascista e nell’Unione Sovietica; la terza è quella del carcere e dei Quaderni, con un originale sforzo di riflessione storica e politica.
Per noi è dubbio che la scelta «esordiale» di Gramsci sia quella dal 1914 in poi. Il Gramsci di allora, per nulla vergine, aveva alle spalle un’intensa vicenda intellettuale, in cui la rivoluzione era già sull’orizzonte e in cui aveva influito a fondo su di lui la cultura italiana (e soprattutto, per noi, checché se ne pensi, Croce). Senza questi incunaboli il pensiero gramsciano perderebbe, sempre per noi, alcuni suoi tratti di fondo. Nelle altre fasi, e in specie nella terza, Canfora riporta a Gramsci l’idea di una via nazionale al socialismo e vede in Togliatti l’erede di questo progetto, connesso, così, alla storia della democrazia italiana.
Non si può qui approfondire la cosa, ma per il Togliatti post 1945 rimane sempre l’adesione piena, in effetti, alla linea di Mosca fin ben oltre i fatti d’Ungheria nel 1956, e ciò porta ad altre idee sul rapporto fra comunismo e democrazia in Italia. Il pensiero dell’ultimo Gramsci è, comunque, oggetto qui di un’analisi più che stimolante. Il fascismo come «rivoluzione passiva», la novità del nazismo, il corporativismo e il fascismo come «terza via», il rilievo dell’elemento nazionale, la riflessione sulle «rivoluzioni concorrenti», con le collusioni di Roma e poi di Berlino con Mosca, sono prospettive gramsciane, spesso di grande acutezza, che Canfora studia in pagine meritevoli di attento indugio.
Si conclude, così, degnamente un «romanzo storiografico», ricchissimo di figure sia note che quasi ignote, nelle cui logiche comportamentali Canfora penetra spesso con acume; ricco, altresì, di vicende al limite del paradossale, se non dell’incredibile; e scritto con lucida e partecipe foga dall’autore di una ricerca, che vale anche come un eloquente monito contro errori e nefandezze a cui, nell’oppressione della libertà congiunta a spirito settario e all’accettazione di un verbo totalitario, idoli falsi e bugiardi (rivoluzione, nazionalismo o altro) possono portare i fautori di qualsiasi causa.
Storia e antistoria
Il Gramsci di tutti
di Bruno Bongiovanni (l’Unità, 04.03.2012)
È tornato Gramsci. È tornato in primo luogo grazie all’edizione nazionale dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Fantastico è il primo volume dell’Epistolario (2009). Si va dal 1906 al 1922. Per quel che riguarda il periodo che va dalla fondazione del PcdI (21 gennaio 1921) sino alla partenza di Antonio, con Graziadei e Bordiga, per Mosca (arrivano il 2 giugno 1922), non si ha nessuna lettera. Poi vi sono le lettere, di enorme interesse, della seconda metà del 1922.
Sappiamo, ed è positivo, che i Gramsci sono stati tanti. Quello del 1914, poi della rivoluzione leninista contro Il Capitale di Marx, dei consigli operai, del partito comunista bordighiano, della bolscevizzazione, della Costituente, della lettera di Grieco, della lotta contro la strategia del socialfascismo, dei Quaderni e dell’ultimo periodo in cui, fuori dal carcere, anche se non abbiamo fonti, è respinto sicurissimamente lo stalinismo.
Eccellente è poi ora il volume di Rapone Cinque anni che paiono cinque secoli (2011) sul 1914-1919. Ed inutile è polemizzare con Veneziani o con Biocca, già noto, quest’ultimo, per le false denunce contro Silone. Li si lasci chiacchierare. Non li si ricorderà. Si presti attenzione invece a I due carceri di Gramsci (2012) di Lo Piparo, che, su questo giornale, ha pubblicato un intervento elegante. E non importa se crollerà il dogma della continuità tra Gramsci e Togliatti. E se apprenderemo con certezza che, all’uscita dal carcere (1934), per Gramsci l’Urss non rappresentava più il socialismo.
Usciamo dalla gran bonaccia delle Antille. Il Pci ha dato un enorme contributo all’antifascismo e alla nostra rinascita. Riconosciamone le differenze. E non rinunciamo, ventidue anni e mezzo dopo la Bolognina, al Gramsci antistalinista e libertario. È il Gramsci di tutti.
Il piccolo grande Gramsci
Anche da studente di IV elementare, era già lui
di Sandra Amurri (il Fatto, 12.11.2011)
La grafia è quella di un bambino di dieci anni. Il contenuto è quello di un bambino che a dieci anni già parlava agli uomini di domani. Il suo nome è Antonio Gramsci. Questo è il suo tema di italiano all’esame di quarta elementare: “Se un tuo compagno benestante e molto intelligente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli risponderesti?". Scuola elementare di Ghilarza, 15 luglio 1903. Non si può che restare colpiti da un maestro che chiede a dei bambini di affrontare un argomento così centrale per una società giusta e uguale: il diritto allo studio che nel 1948 diverrà un diritto sancito dalla Carta costituzionale, oggi così discussa. Ma non solo: lo studio come forma più alta della libertà di un individuo a prescindere dalle sue condizioni economiche. Non è il denaro, che la modernità ha posto al centro della vita di relazione e neppure lo sfarzo che ne deriva, per il piccolo Gramsci, a garantire un futuro onorato e dignitoso.
IL SOLO strumento per combattere l’ingiustizia sociale è la cultura. La conoscenza, perché chi non conosce non sceglie e chi non sceglie non è una persona capace di esercitare a pieno il suo compito di cittadino attivo. Più o meno le stesse cose rivendicate dagli studenti scesi in piazza contro la Riforma Gelmini, per una scuola pubblica di tutti e per tutti.
Ma veniamo al tema. Antonio Gramsci si rivolge all’ipotetico amico che chiama Giovanni per fargli sapere: “Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per studiare, ma molte volte, neanche per sfamarsi. Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale”.
E lo stupore cresce di fronte alla consapevolezza che il suo compagno di banco Giovanni abbia deciso di non andare più a scuola, lui che è un privilegiato: “Un punto solo mi fa stupire di te; dici che non riprenderai più gli studi, perché ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelligente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di far lo stesso, perché è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anziché rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perché se no resteremo zucconi. Ma io, caro amico, non potrò mai abbandonare gli studi che sono la mia unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perché come sai, la mia famiglia non è ricca di beni di fortuna”.
E quanta amorevole insistenza nelle sue parole: “Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni possibili. Chi non studia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rovescio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Francesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillan-tissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli da sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare. Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo proposito”.
INFINE, il saluto, Antonio si rivolge a Giovanni scusandosi per la franchezza del suo dire, dettata dal cuore e dall’affetto: “Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano, perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti. Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal Tuo amico Antonio”.
Le fotocopie di questo “tema d’autore” appartiene a Giovanni Cocco, giovane ricercatore dell’Università di Sassari, segretario provinciale del Pdci, che a sua volta l’ha ricevuta da suo padre Agosti-no, per oltre 20 anni segretario della scuola elementare intitolata ad Antonio Gramsci nel 1985, occasione in cui a tutti i bambini, venne regalato L’albero del riccio. Ma l’originale dove si trova, visto che all’Archivio di Stato di Oristano, dove Agostino Cocco lo aveva inviato assieme a tutti gli altri, non è mai arrivato? Un giallo che siamo riusciti a risolvere a patto che il nome di chi lo conserva - con la stessa gelosia con cui si ha cura di un tesoro - resti misterioso. L’originale del tema di quarta elementare di Gramsci ce l’ha il figlio della domestica del maestro di Antonio Gramsci, che ha ereditato la sua casa.
NELLA BIBLIOTECA, nascosto tra le pagine di un libro, c’era il tema di quel bambino che a dieci anni dava lezione di latino ai compagni del ginnasio. Una sola volta lo ha prestato alla Casa Museo Gramsci di Ghilarza perché fosse esposto durante un convegno, ma restando di guardia finché non gli è stato restituito. “È un vecchio compagno, cresciuto come me a pane e Gramsci”, dice Giovanni Cocco “che grazie ad Antonio ha appreso le cose veramente importanti per ognuno di noi, come il senso critico, e ha imparato - per fare un esempio di attualità stretta - che bisogna guardare alla speculazione finanziaria dando priorità alla speculazione mentale”. Eppure in Italia Antonio Gramsci non è così studiato, mentre è il terzo autore più letto a livello planetario dopo Karl Marx e Jean-Jacques Rousseau. Fino a diventare l’autore più studiato nei club neoliberisti americani. Una malattia tutta italiana quella della perdita della memoria, che condanna chi non è padrone della sua storia a non esserlo neppure del suo futuro.
E Gramsci annunciò la rivoluzione
In un discorso del 1922 a Mosca spiegò: «L’Italia è matura»
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 11.11.2011)
Antonio Gramsci è un autore così studiato ed esplorato che la scoperta di un suo inedito può sorprendere. Ma gli archivi di Mosca sono una miniera inesauribile per chi abbia la pazienza di scavare a fondo. Così due ricercatori italiani affiliati all’Università inglese di Exeter, Caterina Balistreri e Alessandro Carlucci, hanno ritrovato il testo dell’intervento tenuto da Gramsci, il 7 agosto 1922, alla XII Conferenza del Partito bolscevico. Si pensava che nella fase iniziale della sua permanenza in Russia (era arrivato in maggio come delegato del Pci nell’esecutivo dell’Internazionale comunista) l’intellettuale sardo avesse potuto combinare poco, per via di gravi problemi di salute sfociati nel ricovero in sanatorio, ma ora si dimostra che riuscì a portare il suo contributo in quella sede. Nell’Archivio statale russo di storia socio-politica (Rgaspi) è stata rinvenuta anche la sua scheda personale di partecipazione alla Conferenza, con tanto di firma autografa.
Il testo reperito dai due studiosi, che lo presentano con un saggio sul prossimo numero della rivista «Belfagor», diretta da Luigi Ferdinando Russo, ci mostra un Gramsci poco più che trentenne e ancora partecipe dell’estremismo rivoluzionario che caratterizzava all’epoca il Pci, guidato da Amadeo Bordiga. Insiste, notano Balistreri e Carlucci, sulla imminente «disgregazione dell’ordine sociale borghese». Anzi, «vede nel fascismo una conferma estrema di questo processo disgregativo, e quindi dell’esistenza di condizioni mature per una rivoluzione proletaria». Due mesi e mezzo dopo, con la marcia su Roma, al governo sarebbe invece arrivato, per restarci molto a lungo, Benito Mussolini.
Colpisce il parallelo che Gramsci traccia fra le camicie nere e il partito antibolscevico dei Socialisti rivoluzionari (Sr), erede della tradizione populista russa. In entrambi i casi, sostiene, si tratta di rinnegati che, provenendo da sinistra, sono diventati «collaboratori della borghesia». Potrebbe sembrare una polemica propagandistica, ma è curioso che certe similitudini tra il populismo degli Sr e il fascismo siano state rilevate, molti anni più tardi, da un esperto del mondo slavo come Enzo Bettiza nel libro Il mistero di Lenin (Rizzoli, 1982).
Va sottolineato peraltro, notano Balistreri e Carlucci, che lo scopo principale dell’intervento di Gramsci è accreditare il Pci come unico vero partito rivoluzionario italiano, di fronte alle pressioni dei sovietici che insistono per un accordo con i socialisti massimalisti. Un contrasto in cui il giovane sardo si trovò a sperimentare per la prima volta i «metodi tendenti a imporre burocraticamente idee precostituite» tipici della mentalità bolscevica.
Il brano
«Le camicie nere assomigliano ai socialisti russi»
Pubblichiamo un brano tratto dal resoconto del discorso di saluto tenuto a Mosca da Antonio Gramsci il 7 agosto 1922, alla XII Conferenza del Partito bolscevico (Corriere della Sera, 11.11.2011)
In Italia in questo momento non c’è governo: né borghese, né socialista, né anarchico; non c’è nessun governo. Esistono alcune piccole cricche autonome che hanno il controllo del paese. I fascisti hanno ucciso più di cinquemila operai, ne hanno feriti più di trentamila, hanno distrutto cinquecento cooperative, hanno devastato mille e cinquecento amministrazioni comunali. Vedete in quali condizioni tragiche si trova il proletariato.
Per quanto riguarda il Partito socialista, attraversa un periodo di completa disgregazione, ha creduto in diversi riformismi, e nel fatto che si potesse superare pacificamente il movimento banditesco dei fascisti. Tuttavia, come dimostra l’esperienza, il Partito socialista si è sbagliato, e in Italia rimane solo il Partito comunista a condurre la lotta.
Il compagno Gramsci propone un interessante parallelo tra gli Sr (Socialisti rivoluzionari) e i fascisti, per quanto ciò possa sembrare strano ad una prima impressione. Tuttavia, conoscendone i membri, si può affermare che il fascismo è sorto sulla base di quella stessa psicologia da cui sono sorti gli Sr. Anch’essi, ex anarchici e terroristi, sono ora collaboratori della borghesia. Il loro (dei fascisti) capo è il rinnegato Mussolini, e tra le loro file si trova una massa di socialisti e anarchici rinnegati. I fascisti sono solo più franchi degli Sr, e si sono subito sbarazzati di ogni maschera. In tal modo la borghesia, del tutto disorientata di fronte agli attacchi terroristici dei fascisti, non sapendo cosa fare, si rivolge alla Chiesa in cerca d’aiuto, le fornisce somme enormi e di recente le ha dato due miliardi. Il deficit è enorme. La borghesia si rifiuta di compiere qualsiasi forma di sacrificio finanziario.
Questi fatti costituiscono senza dubbio condizioni mature per una rivoluzione. Non c’è altro partito capace di rappresentare un centro serio di opposizione agli elementi del vecchio sistema ormai in disfacimento se non il Partito comunista.
Cosa significa essere italiani
di Carlo Galli (la Repubblica, 14.09.2011)
«L’Italia è il Paese che amo». In questa dichiarazione - l’inizio della Grande Propaganda - c’era molta verità. Berlusconi ama veramente l’Italia perché ama veramente se stesso, avendo evidentemente operato una sintesi a priori fra l’Italia e la propria persona. Il suo amore non è un rapporto con l’oggetto amato; è il preventivo annullamento della sua autonomia, a cui segue l’identificazione con l’amante. Non è neppure un’inclusione: è un’illusione, un culto idolatrico.
Un culto il cui primo adepto, oltre che il primo beneficiario, è proprio Berlusconi. Il quale crede veramente di essere l’Italia. Non di rappresentarla - come nelle moderne dottrine della regalità il Re col proprio corpo concreto rappresentava l’intera complessità del regno - ma di coincidervi.
Una delle conseguenze di questa smisurata proiezione egolatrica è la indistinguibilità di pubblico e privato - l’annullamento del conflitto d’interessi, trasformato nella più perfetta identità d’interessi, passati presenti e futuri, fra Berlusconi e l’Italia - , ma anche la loro intercambiabilità (è Berlusconi che decide che cosa è pubblico, come per esempio la telefonata per Ruby, e che cosa è privato, come le serate con le escort). Un’altra è la coincidenza della parte col Tutto, del suo Partito con l’intero Popolo (il nome del Pdl è tutto un programma), e quindi l’esclusione degli avversari di Berlusconi dall’Italia - da questa Italia fittizia, fatta di proiezioni mentali, ma anche molto concreta nella sua configurazione di potere - . Quelli che lo criticano perdono ogni legittimità politica e morale, poiché non sono una parte che si contrappone, com’è normale in una democrazia, a un’altra parte, ma sono faziosi, traditori e sabotatori, che attaccando il Capo attaccano ipso facto il Paese. Nemici interni, dunque. Una terza conseguenza è che sovrana non è la legge, che vorrebbe considerare Berlusconi un cittadino fra gli altri; sovrano è lui, che è l’Italia, e che in quanto tale è il soggetto della legge e non è soggetto alla legge. Chi potrà mai voler processare l’Italia se non degli anti-italiani?
L’identificazione del governo con lo Stato, e dell’opposizione con l’attività anti-nazionale, è, certo, un’abusata strategia retorica, di ogni tempo e di molti Paesi - per lo più autoritari -; ma in concomitanza con la crisi finale della sua politica e della sua stessa avventura pubblica, Berlusconi sta toccando il grottesco. Il suo ricorso al tema-chiave della sua propoganda, alla radice della sua costruzione di legittimità, è ormai parossistico. Ora, è giunto il momento di squarciare il velo di Maya, di spezzare l’incantesimo, di dissipare le nebbie dell’illusione. E di spiegare a tutti (molti, in verità, lo stanno già comprendendo da soli, all’amara luce dell’esperienza), e in primis all’interessato, che Berlusconi non è l’Italia, che l’Italia non è Berlusconi, e che essere italiani non è essere berlusconiani. Che Berlusconi non è il destino dell’Italia e che lo si può attaccare senza essere anti-italiani.
Essere italiani non è una cosa soltanto, non significa realizzare un’essenza, un carattere, una vocazione unica. L’Italia non ha un’identità compatta, né nella nazione né nella razza, né nella religione né nell’ideologia. E quindi essere italiani vuol dire molte cose; essere portatori di interessi diversi, di ideali diversi, di visioni del mondo e della società differenziate. E questa pluralità, questa complessità - che hanno radici nella storia e nella geografia, nell’economia e nella politica -, non riconducibili a una unanimità, a un unico modello omologante, a un pensiero unico, possono essere una ricchezza, una riserva d’energie e di prospettive, se il punto d’unificazione del Paese, l’essenza dell’essere italiani, non sta nell’identificazione fra l’Italia e un Capo - che in realtà è stata superficiale ed episodica, e che ha avuto come effetto reale la più grave frantumazione della nostra società in mille linee di frattura disarticolate - ma al contrario nella sovranità della legge e nel più solenne dei vincoli: la Costituzione.
Essere italiani, oggi, può significare, in positivo, il riconoscersi in un’unità giuridica e politica, in un sistema di norme e in un’idea di democrazia pluralistica, che costituiscono, in realtà, un patto di uomini e di donne libere. Uniti dal rispetto delle leggi, e quindi dalla reciproca fiducia in se stessi, e dal riconoscersi nelle istituzioni: dall’identificarsi non in un uomo ma nella Repubblica e nei suoi ordinamenti. Essere italiani significa prendere sul serio la Costituzione, che è l’essenza dell’italianità, il progetto di una patria viva e libera perché consapevole della propria ricchezza plurale e della propria volontà di un destino civile comune. Una patria, un Paese, che non dipende dalle affabulazioni, dai rancori e dalle smanie narcisistiche di Uno - che dapprima ama, e che infine, quando l’incantesimo finisce, ingiuria -, ma dall’orgoglio civile di tutti. Dalla voglia, di tutti, di sciogliere il vincolo - tutt’altro che indissolubile - col Capo, e di riprendere, dopo tanti anni perduti, un cammino comune, libero dall’eccezione permanente, dall’anomalia in servizio perenne ed effettivo. Convinti che sia possibile, e magari anche bello, essere italiani.
Fuga dalla libertà
Guida antropologica al "servo arbitrio"
Un brano della lezione che Zagrebelsky terrà a Roma per il ciclo "Le parole della politica" Dobbiamo liberarci dei nemici che ci portiamo dentro. Per farlo servono diversità, legalità, cultura uguaglianza e sobrietà Sono quattro i tipi umani che rinunciano al loro volere: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 16.06.2011)
Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è - parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne - questa complicità degli oppressi con l’oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome - apparso allora per la prima volta - è "servitù volontaria". Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d’essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s’impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.
a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L’uomo-massa è l’espressione per indicare chi solo nel "far parte" trova la sua individualità e in tal modo la perde. L’ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi "a posto", "accettato". Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l’autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l’affettazione modaiola. La "tirannia della pubblica opinione" è stata denunciata, già a metà dell’Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell’immagine, è certo più pericolosa di allora. L’individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della "polizia" senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d’essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?
b)L’opportunista è un carrierista, disposto a "mettersi al traino". Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d’essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d’essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t’accorgi d’essere prigioniero d’una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo.
Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?
c)L’uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente "la politica". Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l’ipocrita superiorità: "certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione", dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell’ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti.
La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta "autenticità" personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d’esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell’immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della "uguaglianza solitaria": vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria.
Su questa massa solitaria s’innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: "al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti". Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, "immenso e tutelare", è un uomo libero o è un bambino fissato nell’età infantile?
d)La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra "costituzione psichica", dice Freud: l’uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po’ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l’essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del "pane terreno", simbolo della mercificazione dell’esistenza. Il "pane terreno" che l’uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: "il superfluo, cosa molto necessaria". E’ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?
Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l’insidiano "liberamente", dall’interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all’apparenza; l’opportunista, alla carriera; il gretto, all’egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d’omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà.
La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l’amore per la diversità; l’opportunismo, con la legalità e l’uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.
PER UN’ITALIA FUORI DAL SONNAMBULISMO (1994-2011)!!! AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA L’INVITO A RIPRENDERSI LA "PAROLA" E A RIDARE ORGOGLIO E DIGNITA’ A TUTTO IL PAESE: VIVA L’ITALIA!!!
RISULTATO REFERENDUM: 57%. IL "QUORUM" DELL’ITALIA E LA GRANDE SBERLA A CHI CERCA DA ANNI DI METTERE LA COPPOLA SUL PAESE E METTERE IN BARILE UN POPOLO DI PERSONE LIBERE E SOVRANE.
IL REFERENDUM DEL 12 E 13 GIUGNO 2011 E IL LEGAME TRA CHIESA E SOCIETA’ IN ITALIA, OGGI: RITROVATA E RIPRESA LA MEMORIA DELLA LEGGE, DEL FUOCO, E DELL’ACQUA DELL’ALLEANZA ...
ACQUA, FUOCO, LEGGE DELL’ALLEANZA! UN’ESPLOSIONE D’AMORE - LA PENTECOSTE, "LA DONAZIONE DI PIETRO", E IL CATTOLICESIMO ROMANO. Una riflessione di Jacques Noyer, con una nota di Federico La Sala
(...) Si potrebbe credere che l’esplosione d’Amore che è la Pentecoste sia da moltissimo tempo diventata inoffensiva. Lungo la storia, però, degli uomini e delle donne hanno buttato all’aria le tradizioni e le ovvietà per disegnare con le loro parole e con i loro gesti quel Regno di Dio che continua a rimbombare nelle profondità della nostra umanità.
Giovani, web e anziani
Il popolo dei disobbedienti
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 15 giugno 20119
Il referendum è passato ma i suoi effetti - politici e sociali - dureranno a lungo. Perché il successo del referendum è, a sua volta, effetto di altri processi, maturati in ambito politico e sociale. E perché i referendum hanno sempre marcato le svolte della nostra storia repubblicana.
Fin dal 1946 - quando nasce, appunto, la Repubblica. Poi: nel 1974, il referendum sul divorzio. Il Sessantotto trasferito sul piano dei costumi. La svolta laica e antiautoritaria della società italiana. Nel 1991, giusto vent’anni fa, il referendum sulla preferenza unica per la Camera. È il muro di Berlino che rovina su di noi. Annuncia la fine della Prima Repubblica e l’avvio della Seconda. Nel 1995, il referendum contro la concentrazione delle reti tivù. Dunque, contro la posizione dominante di Berlusconi. Fallisce. E rende difficile, in seguito, ogni azione contro il conflitto di interessi.
Da lì in poi tutti i referendum abrogativi falliscono. A partire da quello dell’aprile 1999. Riguardava l’abolizione della quota proporzionale nella legge elettorale. Non raggiunse il quorum per una manciata di votanti. Sancisce la fine del referendum come metodo di riforma e di cambiamento istituzionale, ad opera della società civile. Perché i referendum sono strumenti di democrazia diretta. Complementari, ma anche critici rispetto alla democrazia rappresentativa. Ai partiti e ai gruppi dirigenti che li guidano. Per questo hanno la capacità di modificare bruscamente il corso della storia. Quando il distacco fra la società civile e la politica diventa troppo largo. Negli ultimi vent’anni questo divario è stato colmato - in modo artefatto - dalla personalizzazione, dallo scambio diretto fra i leader e il popolo, attraverso i media. Ora questo ciclo pare finito. Il referendum di domenica scorsa lo ha detto in modo molto chiaro e diretto.
In attesa di vedere cosa cambierà - a mio avviso, molto presto - proviamo a capire cosa sia avvenuto e perché.
1. Il referendum, come avevamo già scritto, è il terzo turno di questa lunga e intensa stagione elettorale. Il suo esito è stato, quindi, favorito dai primi due turni. Le amministrative. Dal successo del centrosinistra a Milano, Napoli, Torino, Bologna, Cagliari, Trieste. E dalla parallela sconfitta del Pdl e della Lega. Soprattutto, ma non solo, nel Nord. I referendum erano stati dissociati, temporalmente, dalle amministrative, per ostacolarne la riuscita. È avvenuto esattamente il contrario. Le amministrative hanno agito da moltiplicatore della mobilitazione e della partecipazione. Un effetto boomerang, per il governo, come ha rammentato Gad Lerner all’Infedele.
2. I singoli quesiti posti dai referendum, come di consueto, non sono stati valutati in modo specifico, dagli elettori. La differenza tra proprietà e uso dell’acqua, l’utilità della ricerca nucleare. In secondo piano. Al centro dell’attenzione dei cittadini, altre questioni, non di merito ma sostanziali. Il valore del bene comune. Il bene comune come valore. Ancora: la sicurezza intesa non come "paura dell’altro" ma come tutela dell’ambiente. La ricerca del futuro, per noi e per le generazioni più giovani.
3. Letti in questa chiave, i referendum sono divenuti l’occasione per fare emergere un cambiamento del clima d’opinione, ormai nell’aria - chi non ha il naso chiuso dal pregiudizio lo respirava da tempo. Una svolta mite, annunciata dal voto amministrativo, ribadita dal referendum. Una svolta di linguaggio, di vocabolario, che ha restituito dignità a parole fino a ieri dimenticate e impopolari. Vi ricordate altruismo e solidarietà? Chi aveva più il coraggio di pronunciarle? Per questo, paradossalmente, il referendum sul legittimo impedimento, il più politico, il più temuto dalla maggioranza e anzitutto dal suo capo, è passato quasi in second’ordine. A traino degli altri.
4. Qui c’è una chiave, forse "la" chiave del risultato. I referendum riflettono il cambiamento carsico, avvenuto e maturato nella società. Che, secondo Giuseppe De Rita, si sarebbe ulteriormente frammentata. In questa galassia, attraversata da emozioni più che da ragioni, dalle passioni più che dagli interessi, è cresciuto un movimento diffuso. Affollato di giovani e giovanissimi. La cui voce echeggia attraverso mille piccolemanifestazioni, nei mille piccoli luoghi di vita quotidiana. Attraverso il contatto diretto. Attraverso la Rete. Per questo è poco visibile. Ma attivo e vitale. L’ostracismo della maggioranza di governo, il silenzio di MediaRai. Li hanno aiutati. Legittimati. Perché la tivù MediaRai e i suoi padroni, ormai, sono il passato.
5. Tuttavia, una partecipazione così alta sarebbe stata impensabile se non avesse coinvolto altri settori della società. Il popolo della Rete, per quanto ampio, è una élite. Giovane, colta, cosmopolita. Non avrebbe sfondato se non avesse coinvolto genitori, nonni, zii. Un elettorato largo e politicamente trasversale. Il successo dei referendum, infatti, scaturisce dalla spinta dei movimenti sociali, dal sostegno dei partiti e degli elettori di centrosinistra. Ma anche da quelli di centrodestra.
Si guardi la geografia elettorale della partecipazione. Le Regioni del Nord (ora non più) Padano hanno espresso i tassi di partecipazione fra i più elevati. Osserviamo, inoltre, il risultato complessivamente ottenuto alle Europee del 2009 dai partiti di Centrosinistra, Sinistra e dall’Udc. Quelli che hanno sostenuto l’opportunità di votare in questa occasione. Ebbene, risulta evidente che la partecipazione è stata molto più ampia rispetto alla loro base. Nel Nord Est: ha votato il 32% (e circa 1.700.00) di elettori in più. Nel Nord Ovest: il 29% (e circa 3.500.000) di elettori in più. In Italia, complessivamente, il 28% (e circa 13.000.000) di elettori in più. (Elaborazioni Demos, su dati Ministero degli Interno; indicazioni analoghe provengono dalle analisi dell’Istituto Cattaneo su dati delle elezioni politiche 2008).
6. Da qui il senso generale di questo passaggio elettorale. È cambiato il clima d’opinione. Il tempo della democrazia personale e mediale - come ha osservato ieri Ezio Mauro - forse è alla fine. Mentre si scorgono i segni di una democrazia di persone, luoghi, sentimenti. Passioni. I partiti e gli uomini che hanno guidato la stagione precedente, francamente, sembrano improvvisamente vecchi e fuori tempo. Il Pdl - ma anche la Lega. Berlusconi - ma anche Bossi. Riuscivano a parlare alla "pancia della gente", mentre la sinistra pretendeva di parlare alla "testa". Per questo il centrodestra era popolare. E la sinistra impopolare. Fino a ieri. Oggi, scopriamo che, oltre alla pancia e la testa, c’è anche il cuore. Parlare al cuore: è importante.
La menzogna come bandiera
di BARBARA SPINELLI *
DUE mesi prima della marcia su Roma, l’8 agosto 1922, Luigi Einaudi prese la penna e disse quel che andava detto nelle ultime ore della democrazia. Disse alcune cose semplici, profetiche: che "è più facile sperare di risolvere con mezzi rapidi ed energici un problema complesso, che risolverlo in effetto". Che l’idea di sostituire il politico con uomini provenienti dalle industrie, dalla "vita vissuta", è favola perniciosa.
Nella favola i non-politici "trasporteranno al governo i metodi di azione che sono loro familiari; faranno marciare le ferrovie; licenzieranno gli inetti; incuteranno un sano terrore agli altri". Ma è una chimera, e la macchina s’incepperà: "Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi industriali disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale. Essi non potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori". Saranno audaci, ma il primo impulso di simili audaci è di semplificare quel che è complesso: "di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso il giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10 lire e così via".
Gli italiani tuttavia erano attratti dalla chimera, allora come oggi. Il fatto è che si sentivano abbattuti, tristi: erano "come malati che non trovano tregua alle loro sofferenze da qualunque lato si voltino". La via della dittatura pareva così rapida, e brillante, mentre com’era "noiosa, fastidiosa, minuta, la via della legalità costituzionale, sotto il maligno sguardo di giornali avversari e infidi"! È a questo punto che Einaudi, che nel ’48 sarà il secondo Presidente della Repubblica, ricorda come esista una sola salvezza dall’errore e il disastro che è la dittatura: la discussione, essenza della democrazia. Al cittadino triste e malato ci si rivolge con fiducia, non trattandolo come un triste, un malato. Meglio informarlo bene e aiutarlo a discutere sul vero e il falso, piuttosto che dargli verità preconfezionate per sedarlo. Meglio una pluralità di poteri, che il potere apparentemente efficace di uno solo.
Sono saggezze che tanti italiani hanno difeso lungo il tempo, ma che si sfaldano quando viene meno la discussione libera. Si sfaldano da quasi un ventennio e spesso vien da pensare che siamo nella stasi più totale, ma non è così: ultimamente qualcosa si è incrinato ancor più vistosamente. Accusato di reati commessi prima e dopo essere entrato in politica, il premier ha smesso di presentare le leggi che si fa cucire sulla propria persona come utili per l’intero Paese. I suoi seguaci, politici o giornalisti, hanno cominciato a dire apertamente, senza remore, che sì, il Parlamento deve mobilitarsi per mettere il capo sopra la legge e le corti. Il capo è quel conta, e i suoi eventuali reati sono bazzecole, da non evocare. Di bene pubblico nessuno parla più, l’inganno si disfa e tutto ruota attorno a un privato che governando gode di meritati privilegi.
È cosa sana e buona, rispondere a un attacco giudiziario ad personam con leggi ad personam. Lo stesso Berlusconi ha citato il mitico mugnaio prussiano che nel ’700 decise di veder riconosciute le proprie ragioni, e ai soprusi di Federico il Grande replicò: "C’è pur sempre un giudice a Berlino". Solo che Berlusconi non è un mugnaio, diffida d’ogni giudice, ed essendo Re assoluto pensa di non dover rispondere dei propri soprusi, di potersi fare giustizia da sé. Perfino l’apologo sulla giustizia del mugnaio è riuscito a riscrivere, trasformandolo in apologo dell’impunità.
Altra incrinatura visibile, da settimane, è nel linguaggio dei potenti. I giudici che indagano sui reati sono chiamati ufficialmente brigatisti (Berlusconi davanti alla stampa estera, 13 aprile). Il loro scopo è sovvertire lo Stato, violare la sovranità del popolo elettore. Egualmente eversore è chiunque dissenta: giornalisti, intellettuali, coi quali non si discute. È lunga la lista dei neo-terroristi, e in cima a tutti sta ora Asor Rosa. Probabilmente anche il cardinale Tettamanzi disarticola lo Stato, avendo detto domenica scorsa al Duomo che davvero paradossali sono questi giorni in cui tocca domandarsi: "Perché ci sono uomini che fanno la guerra, ma non vogliono si definiscano come "guerra" le loro azioni violente? Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni?". Siamo, insomma, davanti a un salto di qualità importante, a qualcosa che somiglia a una vigilia: tanto esibiti, innalzati come stendardi, sono inganni e paradossi.
Il colmo, a mio parere, è stato raggiunto con l’elogio, da parte di un giornale del potere berlusconiano, del Grande Inquisitore di Dostoevskij (Il Foglio, 16-4). Nelle Lamentazioni che si recitano alla vigilia della Croce e della Resurrezione, Geremia parla di abominio, di panno immondo, e c’è un elemento di abominio nell’allegra difesa di una delle più nere leggende della letteratura. Come pretesto si è scelto il libro di Franco Cassano, L’Umiltà del Male (Laterza). La leggenda narra di Gesù che torna sulla Terra - con la sua mitezza, con i suoi messaggi di libertà - e per la seconda volta, quindici secoli dopo la sua morte, è giustiziato.
Ma il libro è stravolto, usato in difesa del nostro premier. L’Inquisitore non è forse santo ma di certo è più attento alle umane debolezze di quanto lo sia stato Cristo, perché sa quanto il male sia radicato nell’uomo e come difficile sia estirparlo e dare pace ai mortali infelici invece che tormento e angoscia. Sa che l’uomo non sopporta la libertà che Cristo gli ha dato: che la salvezza la troverà inginocchiandosi davanti all’autorità, commettendo le colpe che vuole ma col consenso delle gerarchie ecclesiastiche, le quali prenderanno su di sé il castigo patteggiando con Satana. Le parole che ho letto sabato sul quotidiano berlusconiano sono stupefacenti.
È scritto che il cardinale gesuita di Siviglia (l’Inquisitore), "impartisce (a Gesù) una lezione appassionata e tragica di umiltà del male e di teologia della storia e nella storia, spiegandogli che il suo aristocratismo etico, la sua bontà naturale e santa, non riesce a fare i conti, come riesce invece e bene la sua chiesa gerarchica, con la natura radicale del peccato umano". Gesù non ha la boria e la iattanza dei neopuritani che oggi avversano Berlusconi, ma in fondo appartiene anch’egli a una minoranza etica, che non ama gli uomini come li ama e li aiuta la Chiesa. Solo la Chiesa e l’Inquisitore amano davvero, perché tengono conto dei "bisogni umili delle maggioranze relativamente indifferenti, di coloro che non sono tra gli eletti, che per insicurezza chiedono protezione e sogni, magari anche rivolgendosi ad agenti del male, e che praticano la tutela del proprio interesse legittimo nelle forme e nei modi possibili alla creatura umana sofferente".
Se Gesù non diventa un brigatista, è solo perché nel momento decisivo (un momento musicale, vien definito) tace e bacia l’Inquisitore, a suo modo assoggettandosi. Così vengono distorti sia Gesù sia Dostoevskij: con il suo bacio, infatti, Gesù non s’assoggetta affatto; non accetta il parere dell’Inquisitore e i consigli di Satana. Il bacio è dato perché l’Inquisitore ha detto la verità, su se stesso e la Chiesa (la Chiesa gerarchica, non la Chiesa-popolo di Dio). Perché ancora una volta, come sempre ha fatto, Gesù restituisce all’uomo, compreso il malvagio, la piena libertà di scegliere, ragionando, tra il bene e il male. Dostoevskij almeno lo racconta così: il vecchio Inquisitore sussulta, "il bacio gli arde nel cuore" anche se resiste nella sua idea.
Non ho mai letto elogi simili del Grande Inquisitore, e mi domando cosa li renda possibili: oggi, qui in Italia. Forse perché siamo oltre la constatazione che l’umanità è fatta di un legno storto. La stortura non è constatata, ma incensata, addirittura cavalcata. Una sfiducia radicale negli uomini permette agli inquisitori odierni di trasformare il male e l’ingiustizia in vanti personali messi trionfalmente in mostra. L’uomo è malvagio. Inutile, assurdo, scommettere sulla sua libertà come fece Cristo, perché questa libertà la creatura umana vuole consegnarla, in cambio di protezione e sogni (di "felici canzoni infantili e cori e danze innocenti", scrive Dostoevskij) a chi usa le tre grandi forze necessarie al controllo delle coscienze: il miracolo, il mistero, l’autorità.
Per questo si giunge sino a sfoderare la menzogna come bandiera. Si dice senza temere smentite che Berlusconi è stato sempre assolto nei processi. È un falso: su 16 processi, solo 3 lo hanno assolto, gli altri o sono stati prescritti o è stato abolito il reato con leggi ad hoc. Si dice che i suoi processi iniziarono appena entrò in politica. È un falso: cominciarono prima, e fu colpa di tutta la classe politica accogliere chi era gravemente indagato. Da allora mentire è divenuto possibile, fino alle escrescenze odierne. Da allora la democrazia ha smesso di essere discussione e separazione dei poteri, intrisa com’è di paure, ricatti, silenzi inauditi. La macchina non ha funzionato, ma resta l’illusoria speranza in un audace, che infranga le leggi e permetta agli uomini deboli, inermi, di consegnargli la loro libertà in cambio di favole e favori.
* la Repubblica, 19 aprile 2011
Italia, avanza un nuovo regime: il «dispotismo democratico»
La lotta con il potere giudiziario è una questione di vita o di morte: non può essere conclusa da qualche forma di compromesso. Illudersi su questo significa non aver compreso la situazione
Le liste taroccate pro-Formigoni. In un Paese normale si sarebbe preso atto di quanto sta facendo la Procura: qui invece si dà la stura agli attacchi a contro l’opposizione e i magistrati che indagano
di Michele Ciliberto (l’Unità, 17.04.2011)
Si illudevano coloro i quali pensavano che il capo del governo avrebbe ‘mollato’ sulla questione delle intercettazioni telefoniche, su cui è invece immediatamente ritornato, mettendole all’ordine del giorno, dopo aver incassato il ‘processo breve’. Non è, del resto, una questione di carattere personale, di temperamento: il potere, specie quello di tipo dispotico, non ha mai tollerato la dimensione ‘pubblica’, come spiegò a suo tempo Girolamo Savonarola nel suo Trattato sul governo di Firenze: “...el tiranno è pessimo quanto al governo, circa al quale principalmente attende a tre cose. Prima, che li sudditi non intendano cosa alcuna del governo, o pochissime e di poca importanza, perché non si cognoschino le sue malizie...”.
Ad ogni forma di dispotismo il controllo pubblico è strutturalmente estraneo; anzi, gli è antitetico. Il dispotismo può essere combattuto, e anche sconfitto; ma non addomesticato. Specificando i tratti propri del tiranno, Savonarola ne individuava anche un altro, che può essere utile citare, per comprendere qualche tratto del governo dispotico attualmente al potere in Italia: “si trova rare volte, o non forse mai, tiranno che non sia lussurioso e dedito alla delettazione della carne”.
Come si vede, alcuni comportamenti propri della figura di Berlusconi erano stati già illustrati alcuni secoli fa, come pure era stato messo a fuoco, sempre da Savonarola nel Trattato, il rapporto del tiranno con la legge. Dal punto di vista del potere dispotico, la lotta con il potere giudiziario è una questione di vita o di morte; né può essere conclusa da qualche forma di tregua o di compromesso.
Stupisce leggere ogni tanto commenti politici nei quali si depreca questa situazione, auspicando una sorta di tregua, se non di pacificazione. E’ un auspicio giusto e comprensibile. Chi non vorrebbe che si uscisse da questa guerra quotidiana tra potere esecutivo e magistratura? Ma illudersi su questo significa non aver compreso la situazione attuale dell’Italia, la conformazione dispotica che ha assunto il nostro tempo storico. Il ‘dispotismo democratico’ è fondato sul rifiuto della moderna distinzione dei poteri.
Quello che distingue il moderno ‘dispotismo democratico’ dalle forme tradizionali di dispotismo è la diffusione a livello di ‘senso comune’, quotidiana e ordinaria di questo modo di pensare. Il capo del moderno ‘dispotismo democratico’ usa la legge in chiave privatistica, capovolgendo, in altre parole, il significato stesso della legge e sostituendo ad essa il proprio arbitrio; ma ha avuto, e continua in parte ad avere, il consenso di una larga parte del paese. Da qui la sua novità.
Un esempio: è venuto fuori che, nel caso delle elezioni del marzo 2010 del Consiglio regionale della Lombardia, una firma su cinque è risultata falsa fra le 3628 depositate il 27 febbraio 2010 per presentare il listino bloccato di 16 candidati “Per la Lombardia” di Roberto Formigoni. C’era un motivo preciso alla base di quel taroccamento: il listino era stato fatto e rifatto, fino all’ultimo momento, per cercare di far quadrare i conti sia fra le correnti del Pdl sia tra la Lega e il Pdl. Si trattava di inserire, in tutti i modi, nel listino personalità di primo piano come Nicole Minetti, Giorgio Puricelli (fisioterapista del Milan), Francesco Magnano (geometra di fiducia di Berlusconi)... La Procura ha ora contestato il reato di ‘falso ideologico’ a coloro che attestarono le firme taroccate, una diecina di amministratori locali.
In un paese normale si sarebbe preso atto di quanto sta facendo la Procura, aspettando l’esito del procedimento; ma in Italia attualmente vige un regime dispotico, sia pure di tipo democratico. I giornali che fanno capo al premier hanno perciò iniziato una polemica frontale contro la Procura e i partiti di sinistra, che si avvantaggerebbero, a loro dire, di questa situazione, dal momento che a Milano ci saranno fra poco le elezioni amministrative. Quello che però colpisce in questa polemica - e che dimostra nuovamente la conformazione dispotica assunta oggi dall’Italia - è il tipo di argomento che viene utilizzato, imperniato sulla rivendicazione, e sul primato, della democrazia ‘sostanziale’ e ‘reale’ rispetto alla democrazia ‘formale’.
Non è necessario citare Kelsen o Bobbio per smascherare questa opposizione; è sufficiente pensare alla storia del ‘900 e alle forme dispotiche - anche di tipo democratico - che lo hanno connotato: per quanto diverse esse fossero, sono state tutte costruite sul primato del ‘popolo’ - cioè della sostanza - contro la ‘forma’ - cioè la legge.
E’ Berlusconi per primo a dare l’esempio: dopo ogni seduta con i giudici scende in piazza e si rivolge direttamente al popolo, riconoscendolo come unica fonte della sovranità, dalla quale ricava il suo potere, e in cui si immerge, ripulendosi anche dai suoi vizi e dai suoi peccati. E’ una sorta di vero e proprio rito, anche questo non nuovo, al quale ricorre ormai in modo sistematico, contrapponendo ‘forma’ e ‘sostanza’, legge e popolo.
E’ questo il frutto più avvelenato del moderno ‘dispotismo democratico’. Esso inquina l’ethos del paese, le ragioni sostanziali per cui un insieme di uomini diventa una comunità di cittadini, una repubblica, uno Stato, trasformando in un fatto quotidiano la distruzione della certezza del diritto e della legge. In questo senso, per ricostituire in Italia la vita democratica non bisogna ricorrere né ai carabinieri, né alla polizia; la prima cosa da fare è ristabilire, contro la ‘sostanza’, il primato della ‘forma’, su tutti i piani, a cominciare dalla vita quotidiana.
Le ossessioni del capo
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.04.2011)
Nella prossimità delle elezioni Berlusconi si scalda e ricorre ai suoi cavalli di battaglia più logori e pericolosi. Qualcosa è cambiato, tuttavia; il tono è sempre più esasperato, minaccioso, truce, come di chi - nonostante i successi in Parlamento e le mille trappole legali a cui si dedicano i suoi avvocati - si sente perseguitato, colpito, braccato.
E reagisce con crescente furore. Così, i giudici sono ormai comunisti, eversori, un’associazione a delinquere che complotta per indebolire il premier, per danneggiarlo; ed è giusto e opportuno che il Legislativo, le Camere, organizzi una commissione d’inchiesta per appurarlo.
Così, il Capo va protetto da indagini e processi, perché il suo ruolo è troppo importante perché lo si possa disturbare con "bazzecole" mentre "deve difendere il suo Paese in politica estera" (la citazione letterale è dovuta). Così, è ormai venuto il momento di vibrare il colpo finale: andare alle urne per elezioni anticipate e confermare l’attuale maggioranza, coesa, dura e pura, per potere finalmente, nel quarto tempo della parabola tendenzialmente infinita di Berlusconi, riformare la Costituzione e in particolare la Giustizia.
Così, soprattutto, si potrà mettere in chiaro che la sovranità appartiene al popolo, che la "cede" (letterale) al Parlamento; e che quindi questo - naturalmente si parla della maggioranza, opportunamente prodotta da un’apposita legge elettorale - deve essere lasciato legiferare in santa pace, al riparo dalle pretese di una Corte Costituzionale oggi in mano ai comunisti e ai pm di sinistra, che non si potrà più permettere di disfare con un tratto di penna i frutti di un lungo lavoro parlamentare (con particolare riguardo al lodo Schifani, al lodo Alfano e alla legge sul legittimo impedimento). Il registro espressivo di questa politica è ormai paradossale, isterico, estremistico: è strutturato per ossessioni. Che sono certamente rivolte a utilizzare e attizzare pulsioni di lungo periodo dell’elettorato del Pdl, ma che ormai sono, altrettanto certamente, condivise anche da Berlusconi, che ne è come prigioniero, in una sorta di perfetta identificazione tra se stesso e il suo popolo. In una solitaria prefigurazione di un regime monocratico.
La prima è quella del comunismo: Berlusconi lo vede ovunque, nei pm, nei giudici, nel personale politico dei partiti d’opposizione. Non sa bene che cosa è, e non si cura di definirlo per i suoi ascoltatori; al riguardo s’intendono benissimo: c’è una sorta di precomprensione empatica tra di loro. Comunismo è una natura diabolica che si impossessa di una persona e non la abbandona mai più, rendendola per sempre malvagia e animata da spirito critico verso la tradizione, il buon senso, le persone per bene e i buoni sentimenti; e soprattutto istillando odio per lui, per Berlusconi. Comunista, anzi, è chiunque si opponga al Cavaliere e alla sua politica, anche se - poniamo - è liberale. Questo anticomunismo è la vendetta postuma del moderatismo italiano contro la sinistra, nell’epoca storica che sta vedendo l’estinzione di questa.
L’altra ossessione, fondamentale, è quella della magistratura - che va insultata e minacciata con particolare enfasi e vigore -; e qui emerge un altro elemento storico chiarissimo: Berlusconi è la rivincita postuma di Craxi su Mani Pulite, ed è al tempo stesso l’esorcisma collettivo della maggioranza degli italiani verso il soprassalto di legalità che li colse vent’anni fa, e che ora va dimenticato come un lontano errore.
L’ultima ossessione - anche questa condivisa da Berlusconi e dalla sua ‘gente’ - è quella del popolo; entità misteriosa, evocata continuamente come ‘sovrana’ contro le élites, anzi contro l’ultima élite sopravvissuta: appunto la magistratura. Che questo sovrano sia maneggiato, attivato e disattivato a piacere da Berlusconi e dalle sue molte macchine comunicative non è percepito dal popolo stesso, che ha appreso da tempo a sentirsi libero solo quando per bocca del Capo può sfogare il proprio rancore postumo contro gerarchie sociali e culturali ormai tramontate. Il trionfo della maggioranza sulla competenza, dell’omogeneità sulla distinzione, si compie così, felicemente, attraverso il magnate populista, attraverso colui che sta costruendo per sé solo l’eccezione assoluta che lo rende superiore a ogni norma e a ogni regola.
È, quello di Berlusconi, un populismo monocratico, reso profondamente antidemocratico appunto dal richiamo al popolo a vantaggio di una persona sola. E soprattutto dalla necessità che il cavaliere ha di alimentarlo con l’attivazione di un conflitto permanente tra il popolo e le istituzioni. Un populismo di micidiale efficacia, che viene da un passato collettivo potenziato dalla volontà di Uno, e che cerca di impadronirsi del futuro; un populismo che è frenato solo, per ora, da ciò che - giustamente - esso identifica come il proprio avversario: il moderno costituzionalismo, il sistema di equilibri e di garanzie, che informa di sé la nostra Costituzione. Il baluardo che ci separa da una postmodernità squilibrata, informe e feroce.
Privatizzare la libertà statale
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 17.04.2011)
Sulle mura di Milano è ancora fresca la colla dei manifesti che attaccano i giudici come terroristi dando voce alle irresponsabili piazzate di un capoparte populista: e oggi è sempre lo stesso capoparte che si lancia in un nuovo attacco a testa bassa, questa volta contro la scuola pubblica. Si tratta di attacchi eversivi.
Nel senso proprio del termine, diretti cioè a distruggere le istituzioni statali. Non è per caso se si è passati dai giudici delle Procure alla scuola pubblica. Sono i luoghi dove per definizione tutti i cittadini sono o dovrebbero essere posti in condizioni di uguaglianza nel godimento di diritti fondamentali. Se non lo sono, questo accade per strozzature sociali a monte che i padri costituenti della Repubblica ebbero ben presenti e indicarono come ostacoli da rimuovere. Oppure accade per strozzature a valle, perché le risorse disponibili sono scarse, perché si taglia il personale che dovrebbe garantire il funzionamento delle istituzioni pubbliche più delicate. Sappiamo molto bene come, riducendo mezzi e persone, chi manovra le finanze statali possa uccidere le reti istituzionali della vita associata: lo vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.
Non è difficile però comprendere le ragioni dell’odierno attacco contro la scuola pubblica. Vediamole, premettendo che l’accusa alla scuola pubblica di essere un luogo di indottrinamento ideologico da parte della sinistra è una tesi indimostrabile e speciosa. Ma è probabile che l’attacco del premier sia stato ispirato dalla scoperta fatta dai 19 deputati del Pdl guidati dall’onorevole Gabriella Carlucci che nei manuali di storia c’è chi "getta fango su Berlusconi", da cui la richiesta di una commissione d’indagine. Se tutto il problema si riduce a questo, si faccia pure l’indagine: ma non certo per sostituire i manuali oggi scelti autonomamente dagli organi scolastici competenti con la lettura obbligatoria dell’autobiografia del premier.
La scuola pubblica è tale proprio perché è il luogo della serietà e della libertà dell’apprendimento, cioè l’esatto contrario dell’indottrinamento passivo. La scuola pubblica come palestra di formazione non può che essere luogo di responsabile libertà del docente e dell’impegno serio e assiduo dei discenti, mentre allo Stato deve garantire quel principio liberale del premiare i capaci e meritevoli tra i docenti e tra i discenti. Su questi e non su altri fondamenti è nata la scuola che, dai tempi di Napoleone, si definisce "pubblica" per distinguerla da quella "privata".
C’è però una ragione più generale alla radice di questa polemica: l’avversione contro tutto ciò che è pubblico, dall’ordinamento istituzionale del paese ai valori della carta costituzionale che lo tengono unito. È questo che suscita la reazione dell’uomo che sta risucchiando nei gorghi del suo privato tutto ciò che tocca.
Quello che vediamo è la versione italica di un conflitto profondo e sostanziale tra la privatizzazione capitalistica delle risorse pubbliche e i fondamenti stessi della democrazia. In un progetto che tende allo svuotamento della sostanza democratica e costituzionale del paese la scuola non è un obbiettivo secondario.
Come ha ricordato il presidente Napolitano, è alla scuola e all’istruzione pubblica che spetta un compito fondamentale: «Diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini». Un compito importante e delicato : è stato ancora Napolitano a sottolineare quanto ne dipenda la crescita del paese nel contesto del sistema e dei valori dell’Europa unita. Ecco perché non bisogna stancarsi di difendere i diritti alla scuola dall’attacco dei privatizzatori; ed ecco perché agli studenti bisogna chiedere che non si stufino di difendere la scuola pubblica dagli attacchi di chi avrebbe tante ragioni per dichiarare fallimento e ritirarsi da una scena politica dove ha portato solo divisione e scandali.
Matteotti, italiano diverso
di Angelo d’Orsi (il Fatto, 16.04.2011
Il 10 giugno 1924 un signore, alto e distinto, che percorreva Lungo Tevere Arnaldo da Brescia veniva affiancato da un’automobile nera. Ne scendevano alcuni uomini che lo aggredivano, colpendolo fin quasi a tramortirlo, e a forza lo cacciavano nella vettura, dove la colluttazione proseguì, finché l’uomo fu trafitto da vari colpi di pugnale. Gli assassini erano guidati da Amerigo Dumini; l’ucciso si chiamava Giacomo Matteotti, e il suo cadavere, scarnificato, fu ritrovato in un bosco non lontano da Roma, il 16 agosto.
La “crisi Matteotti” fece vacillare il regime fascista, ma si risolse in un fiasco per le opposizioni, per la loro interna divisione, e per la complicità del re Vittorio Emanuele III con Mussolini. Questi il 3 gennaio 1925, con un discorso arrogante e ribaldo davanti a una Camera largamente asservita, si assumeva la responsabilità morale e politica di quanto era avvenuto. E dava il via a una seconda ondata di violenze squadriste. Già, “il fascismo non era poi così male”, potrebbe commentare (come ha fatto) il Giuliano Ferrara di turno.
CHI ERA Matteotti? Un italiano diverso, lo definisce lo storico Gianpaolo Romagnani che gli ha appena dedicato una biografia appassionata (Longanesi), che sebbene discutibile in qualche punto e in molti giudizi, è un lavoro utile che, dopo l’agiografia e il martirologio, vuole raccontare in modo critico la vita di questo riformista anomalo, che non smise di pensare alla rivoluzione, ma che era stato uno dei più tenaci oppositori della guerra, tanto nel 1911, per la prima impresa di Libia (ora siamo alla terza, dopo la seconda, sterminatrice negli anni ’30), quanto, poco dopo, nella Grande guerra.
La coerenza fu il tratto distintivo del rodigino Matteotti, pur nella incoerentissima posizione di rampollo (solo sopravvissuto dei 7 figli) di una ricca famiglia di proprietariespeculatori,nonproprio amatissimi nel povero Polesine tra Otto e Novecento. Ma a ben pensare, l’accusa di “tradimento” che gli si moveva da parte borghese, e i sospetti che si addensavano su di lui dalla sua parte, per quell’appartenenza sociale, costituiscono elementi che accrescono il valore del personaggio.
Quanto gli sarebbe stato più facile fare l’avvocato, amministrare le proprietà, o avviarsi alla carriera universitaria, o persino fare quella politica, ma dalla “sua” parte, quella dei padroni: invece Giacomo scelse la via stretta e aspra del militante (poi dirigente) socialista, scelse di stare dalla parte degli umili, e di aiutarli a risorgere.
Perciò egli ebbe sempre attenzione al linguaggio della politica: farsi capire dagli analfabeti e, aiutarli a crescere, culturalmente, prima che politicamente. Di qui il suo interessamento alle questioni scolastiche: e specialmente relative ai gradi più bassi dell’insegnamento. Organizzatore lefficace, formidabile oratore, ottimo amministratore a livello comunale, ebbe dei limiti sul piano della visione politica, ma fu davvero un combattente coraggioso, con quella sua “figuretta ostinata ed esigente”, come gli scriveva la sua adorata Velia, la compagna che gli diede tre figli, e che, cattolica e disinteressata alla politica, condivise con lui ansie, pericoli, ostracismi. Pur avendo denunciato, quasi con spavalderia, la natura ferocemente di classe del movimento mussoliniano, accusava innanzitutto la borghesia che lo sosteneva, ma non aveva il coraggio di farlo palesemente: reazionari e vili.
E LA REAZIONE incarnata dalle squadre armate fasciste colpì durissimamente proprio la provincia di Rovigo, dove il Socialismo aveva dominato incontrastato: era, come a livello nazionale, un gigante dai piedi d’argilla. E cadde, dolorosamente, travolto dal micidiale combinato disposto fra squadristi, forze dell’ordine (un bel paradosso) e altre pubbliche istituzioni, e associazioni agrarie.
L’azione di Matteotti fu instancabile, anche quando fu costretto a lasciare la provincia: gli era del resto già accaduto durante il primo conflitto mondiale quando fu inviato al confino di polizia in Sicilia, per timore che la presenza di un antimilitarista come lui avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti sulle truppe italiane.
Fu, il dopoguerra, la sua ultima stagione politica, ma anche la più intensa, cominciata e finita all’attacco: minacciato, pestato, addirittura (pare) sodomizzato dai fascisti, Giacomo Matteotti non arretrò di un passo, continuando nella sua opera di denuncia, documentata e precisa, delle violenze squadriste. Costanza, abnegazione, moralità severa, furono i tratti distintivi della sua azione, che ne fecero una delle figure più a rischio dell’antifascismo.
Matteotti non era un deputato in vendita, come s’usa oggi; non era un uomo per tutte le stagioni, secondo i modelli correnti; non aveva l’impudicizia del voltagabbana, oggi sulla cresta dell’onda. Era un uomo intero, che visse la politica con abnegazione assoluta, certo compiendo errori, ma assumendosene la responsabilità, secondo princìpi etici inderogabili, che non lo fecero mai venir meno a quell’assunto di “redenzione delle “plebi agricole” (come disse in uno dei suoi celebri discorsi) e più in generale della masse dei diseredati, guidandole sulla strada del socialismo. Un italiano da rimpiangere, in tempi di bunga-bunga.
Il barone e l’invertito
di Marco D’Eramo (il manifesto, 12 aprile 2011)
Invertiti, avvertiti, convertiti, divertiti, pervertiti, riveriti, sovvertiti di tutta Italia, unitevi! Anzi uniamoci contro l’esimio barone Roberto De Mattei che sulle onde di Radio Maria attribuisce la caduta dell’impero romano all’«effeminatezza degli invertiti» e teme per l’Italia «l’invasione dell’Islam» («religione indubbiamente basata sulla violenza e sulla sopraffazione»). Uniamoci noi per liberarci di quest’inquietante macchietta, che non è un radioimbonitore qualunque, ma è il vicepresidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).
Cioè dell’organo statale preposto alla ricerca scientifica. Facciamolo, visto che migliaia e migliaia di intrepidi scienziati italiani se ne guardano bene. E, per ragioni di bottega, lo temono e si tacciono. Questo paladino del razionalismo critico era noto finora per le tesi creazioniste, per avere organizzato nel 1999 un convegno antidarwiniano e per aver scritto nel 2009 Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi, pamphlet finanziato con 9.000 euro di denaro pubblico.
Ma da ultimo si è superato, prima con la fantasiosa spiegazione del perché declinò la civiltà classica (un declino davvero lungo: Socrate e Platone «invertiti» erano - per usare l’elegante termine di De Mattei - nove secoli prima che l’impero romano fosse dissolto). E poi per aver spiegato, sempre su Radio Maria, che il terremoto e lo tsunami che hanno colpito il Giappone «sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio», tesi ribadita ieri in un’intervista ad Antonio Gnoli di Repubblica: «Anche i popoli possono peccare e per questo essere puniti».
Non sappiamo se De Mattei sarà ricordato come l’uomo che schiantò Darwin. Ma certo già oggi è colui che ha disintegrato la reputazione prima di Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, e poi dell’intero corpo scientifico italiano. Infatti quel che rende insopportabili le panzane del già professore associato all’università di Cassino è quel che il pensiero femminista chiama «il luogo di enunciazione».
Molti telepredicatori statunitensi propagano castronerie ancora più surreali, ma almeno loro non sono stati messi alla testa dell’apparato pubblico di ricerca scientifica. Invece le ministre Moratti e Gelmini lo nominarono nel consiglio d’amministrazione del Cnr per ingraziarsi un po’ il Vaticano e un po’ la corrente di Gianfranco Fini, visto che De Mattei è considerato in quota ai finiani: e quest’affiliazione non è estranea all’indulgenza, soprattutto recente, mostrata nei suoi confronti dai professori di centrosinistra. Certo che De Mattei al Cnr è come un iconoclasta alla Galleria degli Uffizi. Con un altro governo sarebbe stato inimmaginabile mettere un creazionista bigotto nella sala di controllo della ricerca.
Ma chi da questa storia esce peggio è la comunità scientifica e accademica italiana. Più delle corbellerie omofobe di De Mattei, a colpire è il silenzio pavido degli scienziati. È la loro viltà. Abbiamo tanto sparlato degli accademici sovietici che subirono le assurde dottrine biologiche di Lyssenko senza fiatare, per paura di perdere il posto, per compromesso, per quieto vivere, perché magari nel frattempo Stalin lasciava lavorare veri scienziati come Pyotr Kapitza e Lev Landau.
Ma allora cosa dovremmo dire dei nostri accademici, dei ricercatori che tacciono o tutt’al più mugugnano sottovoce? (Il mugugno era diritto garantito alle ciurme in cambio del divieto -pena la morte - di ammutinamento). Anzi bofonchiano. A volte persino lo difendono perché il prode De Mattei sarebbe l’unico baluardo che ripara il presidente del Cnr Luciano Maiani dalle Gelmini, dai Berlusconi, o dai tagli di Tremonti.
Il fisico Maiani è un valentuomo, ma il peso della Chiesa l’ha sentito tutto sulle sue spalle: quando nel 2007 firmò una lettera pubblicata dal manifesto in cui alcuni docenti (tra cui Marcello Cini e Giorgio Parisi) definivano «incongrua» la visita di papa Ratzinger all’università La Sapienza di Roma, come per incanto la sua nomina al Cnr fu bloccata per mesi in Commissione. È così che discepoli di Galileo, scienziati evoluzionisti e baciapile oscurantisti vivono tutti insieme felici e contenti.
Dopo il secolo dei totalitarismi, un nuovo mostro tirannico l’individualismo senza freni che distrugge la società
Libertà della volpe e libertà delle galline
di Tzvetan Todorov (La Stampa. 12.04.2011)
Perché un potere sia legittimo, non basta sapere com’è stato conquistato (ad esempio con libere elezioni o un colpo di Stato), occorre ancora vedere in che modo viene esercitato. Fra poco saranno tre secoli dacché Montesquieu ha formulato una regola per guidare il nostro giudizio: «Ogni potere senza limiti non può essere legittimo». Le esperienze totalitarie del XX secolo ci hanno resi particolarmente sensibili ai misfatti di un potere statale illimitato, in grado di controllore ogni atto di ogni cittadino.
In Europa questi regimi appartengono al passato ma, nei Paesi democratici, restiamo sensibili alle interferenze del governo negli affari giudiziari o nella vita dei media, perché queste hanno come effetto la soppressione di ogni limite posto al suo potere. I ripetuti attacchi del Presidente francese o del premier italiano ai magistrati e ai giornalisti sono una dimostrazione di questo pericolo. Tuttavia lo Stato non è l’unico a detenere poteri all’interno di una società. All’inizio di questo XXI secolo, in Occidente, lo Stato ha perso buona parte del suo prestigio, mentre è diventato una minaccia l’ampio potere che detengono alcuni individui, o gruppi di individui. Eppure questa minaccia passa inosservata, perché questo potere si orna di un bel nome, di cui tutti si fanno forti: libertà. La libertà individuale è un valore in crescita, i difensori del bene comune oggi sembrano arcaici.
Come si sia prodotto questo capovolgimento, lo si vede bene nei Paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est. L’interesse collettivo oggi è sospetto: per nascondere le sue turpitudini, il regime precedente l’aveva invocato così spesso che più nessuno lo prende sul serio, lo si considera una maschera ipocrita. Se il solo motore del comportamento è in ogni caso la ricerca del profitto e la sete di potere, se la lotta senza pietà e la sopravvivenza del più adatto sono le dure leggi dell’esistenza, tanto vale smetterla di fingere e accettare apertamente la legge della giungla. Questa rassegnazione spiega perché gli ex burocrati comunisti abbiano saputo rivestire, con una facilità sconcertante, gli abiti nuovi dell’ultraliberismo.
A migliaia di chilometri di lì, negli Stati Uniti, in un contesto storico completamente diverso, si è sviluppato da poco il movimento del Tea Party, il cui programma inneggia alla libertà illimitata degli individui e rifiuta qualunque controllo del governo: esige di ridurre drasticamente le tasse e qualunque altra forma di redistribuzione delle ricchezze. Le sole spese comuni accettate riguardano l’esercito e la polizia, cioè ancora la sicurezza degli individui. Chiunque si opponga a questa visione del mondo viene trattato da criptocomunista! Il paradosso è che questa visione si rifà alla religione cristiana, mentre questa, in accordo con le altre grandi tradizioni spirituali, raccomanda di curarsi dei deboli e dei miserabili.
Si passa, in questi casi, da un estremo all’altro, dal tutto-Stato totalitario al tutto-individuo ultraliberale, da un regime liberticida a un altro, di spirito «sociocida», per così dire. Ora il principio democratico vuole che tutti i poteri siano limitati: non solo quelli degli Stati, ma anche quelli degli individui, anche quando rivestono i vecchi abiti della libertà. La libertà delle galline di attaccare la volpe è uno scherzo, perché non ne hanno la capacità: la libertà della volpe è pericolosa perché è la più forte. Attraverso le leggi e le norme che stabilisce, il popolo sovrano ha tutto il diritto di restringere le libertà. Questa limitazione non tocca allo stesso modo tutta la popolazione: idealmente, limita coloro che hanno già molto potere e protegge chi ne ha molto poco.
Il potere economico è il primo dei poteri nelle mani degli individui. Lo scopo di un’impresa è generare profitti, senza i quali è condannata a sparire. Ma al di fuori dei loro interessi particolari, gli abitanti di un Paese hanno anche interessi comuni, ai quali le imprese non contribuiscono spontaneamente. Tocca allo Stato liberare le risorse necessarie a prendersi cura dell’esercito e della polizia, dell’educazione e della salute, dell’apparato giudiziario e delle infrastrutture. O della protezione della natura: la famosa mano invisibile attribuita ad Adam Smith non serve a molto, in questi casi. Lo si è visto con la marea nera nel Golfo del Messico, nella primavera 2010: lasciate senza controllo, le compagnie petrolifere cercano i materiali da costruzione poco costosi e dunque poco affidabili. Di fronte allo smisurato potere economico di individui o di gruppi di individui, il potere politico si rivela spesso troppo debole.
La libertà di espressione a volte viene presentata come il fondamento della democrazia, e per questa ragione non deve conoscere freni. Ma si può dire che è indipendente dal potere di cui dispone? Non basta avere il diritto di esprimersi, occorre anche averne la possibilità; se non c’è, questa «libertà» non è che una parola vuota. Tutte le informazioni, tutte le opinioni non vengono accettate con la stessa facilità nei grandi media. Ora la libera espressione dei potenti può avere conseguenze funeste per i senza-voce: viviamo in uno stesso mondo. Se si ha la libertà di dire che tutti gli arabi sono degli islamisti non assimilabili, essi non hanno più quella di trovare lavoro e neppure di camminare per strada senza essere controllati.
La parola pubblica, un potere tra gli altri, a volte deve essere limitata. Dove trovare il criterio che permetta di distinguere le limitazioni buone da quelle cattive? Soprattutto nel rapporto di potere tra chi parla e colui di cui si parla. Non si ha lo stesso merito se si combattono i potenti del momento o si indica al risentimento popolare un capro espiatorio. Un organo di stampa è infinitamente più debole dello Stato, non c’è dunque ragione di limitare la sua libertà di espressione quando lo critica, purché la metta al servizio della libertà.
Quando il sito Mediapart rivela una collusione tra poteri economici e responsabili politici, il suo gesto non ha nulla di «fascista», qualunque cosa dicano quelli che sono presi di mira. Le «fughe di notizie» di WikiLeaks nulla hanno di totalitario: i regimi comunisti rendevano trasparente la vita dei deboli, non quella dello Stato. In compenso, un organo di stampa è più potente di un individuo e il «linciaggio mediatico» è un abuso di potere.
I difensori della liberà d’espressione illimitata ignorano la distinzione tra potenti e impotenti, il che permette loro di coprirsi da soli di alloro. Il redattore del quotidiano danese Jyllands-Posten , che nel 2005 aveva pubblicato le caricature di Maometto, cinque anni dopo torna sulla questione e modestamente si paragona agli eretici del Medioevo bruciati sul rogo, a Voltaire nemico della Chiesa onnipotente o ai dissidenti oppressi dalla polizia sovietica. Decisamente la figura della vittima esercita oggi un’attrazione irresistibile! Ciò facendo, il giornalista dimentica che quei coraggiosi praticanti della libertà di espressione si battevano contro i detentori del potere spirituale e temporale del loro tempo, non contro una minoranza discriminata.
Porre limiti alla libertà di espressione non significa sostenere la censura, ma fare appello alla responsabilità dei padroni dei media. La tirannia degli individui è certamente meno sanguinosa di quella degli Stati; eppure anch’essa è un ostacolo a una vita comune soddisfacente. Nulla ci obbliga a rinchiuderci nella scelta tra «tutto-Stato» e «tutto-individuo»: abbiamo bisogno di difenderli entrambi, e che ciascuno limiti gli abusi dell’altro.
«Temo il messianismo politico. Come Goya»
di Stefano Montefiori (Corriere della Sera, 12.04.2011)
Dalla Spagna del 1808 alla Libia del 2011, molto è cambiato ma non la voglia di edulcorare la violenza delle armi con nobili motivazioni. Ecco perché secondo il filosofo Tzvetan Todorov, nato a Sofia 72 anni fa e parigino di adozione, per capire le guerre, compresa quella condotta dalla Nato in questi giorni tra Tripoli e Bengasi, basta rifarsi a Goya. «Non fu solo un grande pittore, ma un intellettuale che riuscì a riflettere in modo profondo su quel che succedeva intorno a lui - dice Todorov, autore di "Goya à l’ombre des Lumières"-. Era molto influenzato dagli illuministi spagnoli di fine Settecento, e assistette all’invasione della Spagna da parte delle truppe napoleoniche che combattevano, almeno in teoria, in nome dei diritti dell’uomo e degli ideali dei Lumi. Lo spettacolo delle atrocità commesse sia dai francesi sia dai guerriglieri spagnoli lo fece ragionare sulla guerra. Fu così in anticipo sui suoi tempi che possiamo considerarlo un contemporaneo» .
Nella raccolta di incisioni «I disastri della guerra» Goya mostra pile di corpi, combattenti delle due parti gettati nelle fosse comuni, fucilazioni sommarie.
«I francesi incontrarono una resistenza durissima, fu in quei giorni del resto che venne coniata la parola guerrilla. Gli spagnoli combattevano per patriottismo e per fedeltà ai valori tradizionali della religione, i francesi in nome della ragione e di libertà, fratellanza e uguaglianza. Gli orrori però erano gli stessi. Goya scelse di schierarsi non contro una parte o l’altra, ma contro la guerra» .
Una posizione che oggi viene ripresa da Tzvetan Todorov a proposito degli interventi in Libia e anche in Costa d’Avorio, giustificati dalla necessità di difendere i diritti dell’uomo proteggendo le popolazioni civili.
«Credo che purtroppo la guerra abbia una sua logica interna, che le impedisce di restare così circoscritta e chirurgica come sostiene chi la propone. Prima del 19 marzo le truppe di Gheddafi stavano per eseguire un massacro a Bengasi, ci ha ripetuto il presidente Sarkozy per convincere l’Occidente a intervenire. Sono stati allora legittimi i primi bombardamenti, quelli che hanno fermato l’avanzata del regime. Ma poi l’intervento pseudo-umanitario si è trasformato in un’altra cosa» .
L’Occidente viene spesso criticato per la sua inazione, per la tentazione di stare a guardare mentre a pochi chilometri di distanza, in questo caso nella sponda sud del Mediterraneo, i carri armati soffocano il desiderio di libertà. Lei oggi critica il protagonismo di Sarkozy, ma prima dell’intervento il presidente francese e l’Europa venivano accusati di cinico disinteresse e di appeasement con i dittatori.
«È un riflesso intellettuale in voga in Francia, quello di accusare chi si dice contrario alla guerra ricordandogli gli accordi di Monaco del 1938, che permisero a Hitler di guadagnare posizioni nella conquista dell’Europa. Non è la stessa cosa, e io non dico che tutte le guerre sono ingiuste. Le guerre difensive, come quella degli Alleati nel 1939-1945, sono legittime. E le guerre per impedire un genocidio acclarato. Ma in questi casi l’Occidente non si nuove mai. Fu il Vietnam a fermare la carneficina operata dai Khmer rossi in Cambogia. E sono stati i ruandesi alleati con l’Uganda a porre fine al massacro in Ruanda» .
Eppure il fatto che i diritti dell’uomo siano tornati un vessillo dell’Occidente è forse positivo.
«No, lo trovo invece molto rischioso. Siamo davanti a una nuova fase di messianismo politico. La prima è appunto quella napoleonica, dipinta da Goya. La seconda ondata messianica è stata quella del comunismo, che prometteva di portare la liberazione alle masse con l’Armata rossa, a cominciare dai piccoli Paesi europei al confine con la Russia. E ora assistiamo al terzo risveglio del messianismo politico: la prima guerra del Golfo è stato un rodaggio, l’intervento in Kosovo, senza mandato dell’Onu, la prova generale, ed ecco poi Afghanistan, Iraq, oggi Libia. In fondo, cos’è la guerra in Afghanistan, se non la riproposizione duecento anni dopo dello scontro tra illuminati e tradizionalisti, napoleonici e conservatori e patrioti spagnoli che oggi chiameremmo talebani?» .
I dipinti di Goya come le foto su Internet di Abu Ghraib. Ma è possibile un no filosofico, assoluto, alla guerra?
«No, e non credo sarebbe un bene. L’ambizione di estirpare totalmente il Male sarebbe ancora più dannosa: è la funzione del peccato originale, ricordarci, come diceva Romain Gary, che esiste una "parte inumana dell’umanità". Dobbiamo però cercare di limitare al massimo le guerre non inevitabili. Come quella in Libia, per esempio» .
Il padrone e i poteri sudditi
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 11.04.2011)
La legge della natura delle cose contro le norme della giustizia: la forza del più forte contro quella della legge. Una storia che si ripete da secoli ma che ogni volta che riappare sembra nuova, inedita e diversa. Le recentissime esternazioni del presidente del Consiglio sono un florilegio da manuale sul rischioso cammino nel quale una democrazia si immette quando consente a un cittadino che ha acquistato già troppo potere economico e mediatico di coprire incarichi di governo.
Il rischio si sta dimostrando fatale, soprattutto perché viviamo nell’era della audience leadership, dove la propaganda viaggia non più attraverso partiti strutturati ma invece il fluido mondo delle immagini e delle opinioni dette e non falsificabili. Antico e moderno si uniscono tuttavia, poiché nonostante la forma mediatica e da gossip con la quale si alimenta il plebiscitarismo di oggi, la sostanza e la tentazione restano le stesse, poiché, dopo tutto, la natura umana è fatta delle stesse passioni, in primo luogo quelle che spingono a ottenere il "massimo" di godimento da ciò che piace: dal potere di comandare masse di sudditi facendo loro bere ciò che è non è nel loro interesse e come se lo fosse, a quello di gestire un commercio largo e capiente di procuratori e procuratrici di piacere.
Però, nonostante la natura immoderata del potere, sarebbe sbagliato pensare che il plebiscitarismo si sorregga solo sul potere del leader, che tutto nel bene e nel male sia a lui solo imputabile. Nessun regime si sorreggerebbe più di una manciata di ore senza il sostegno di un gruppo di fedeli e senza consenso. Il plebiscitarismo nasce del resto nella democrazia, che è una forme di governo fondata sul consenso.
Dunque, partiamo da questa ovvietà: nessun governo può sussistere senza consenso. Nemmeno i tiranni possono permettersi il lusso di stare al potere senza fare affidamento su un qualche sostegno da parte dei loro sudditi; diversamente dovrebbero mettere un guardiano a sentinella di ciascun suddito con la conseguenza di trasformare il paese in una caserma.
A questo inconveniente i governi totalitari hanno provveduto facendo dei sudditi docili militanti dell’ideologia di governo. Ecco dunque che la differenza tra Paesi governati dispoticamente e Paesi liberi non consiste semplicisticamente nel fatto che questi ultimi sono governati per mezzo dell’opinione mentre i primi per mezzo della forza. Entrambi sono, in forme e con intensità diverse, governati anche grazie al sostegno dell’opinione e del consenso di chi occupa le istituzioni. I governi autocratici cadono quando l’élite di governo si fraziona e rompe il consenso, come avvenne appunto con il Gran consiglio fascista il 25 luglio 1943. I governi liberi, invece, cadono quando il Parlamento toglie la fiducia alla maggioranza che governa.
La differenza fra i due tipi di regimi sta nel fatto che in quelli dispotici i sudditi obbediscono a un potere il quale non è certo che sia espressione della loro opinione poiché non godono della libertà di gridare forte il loro dissenso; mentre nel caso dei governi liberi cittadini ed eletti sanno di essere consapevolmente e volontariamente, in forma diretta o indiretta, gli agenti e i sostenitori del governo che hanno. È a questi ultimi che dobbiamo dirigere la nostra attenzione quando parliamo di plebiscitarismo democratico, nel quale dunque la responsabilità del consenso è principalmente imputabile a coloro che sono stati eletti e operano nelle istituzioni.
Il Parlamento ha una responsabilità diretta nelle persistenza del governo democratico. Lo si è visto molto bene con la recente votazione sul caso Ruby o quella sulla fiducia del dicembre scorso. In entrambi i casi, il Parlamento ha dismesso una delle sue due funzioni fondamentali, quella per la quale la sua presenza è segno distintivo della nostra libertà: la funzione di veto.
Poiché il rapporto del Parlamento con l’esecutivo non è né di predellino né di copertura. I parlamentari hanno infatti mandato libero e nessuno, nemmeno il capo del loro partito, può costringere la loro volontà decisionale: su questa loro libertà sta la doppia funzione del Parlamento, quella deliberativa ovvero di produrre una maggioranza e quella di veto o limitazione del potere del governo. Il Parlamento non è mai un docile e passivo sostenitore del governo. Quando dismette la sua funzione di veto, esso diventa cassa di risonanza del governo e spalanca le porte al plebiscitarismo che la propaganda mediatica rinforza quotidianamente. Come l’opinione pubblica, il Parlamento diventa un potere docile nelle mani del leader.
Il presidente del Consiglio è consapevole di avere in mano il Parlamento quando riesce a neutralizzarne il potere di veto. Sa anche che due altri poteri di fermo gli sfuggono ancora di mano: la Presidenza della Repubblica e la giustizia. Da questa consapevolezza scaturiscono le sue recentissime esternazioni: cambiare la Costituzione per rendere tutti i contro-poteri docili al suo potere.
Di fronte a questo rischio evidente, il Parlamento dovrebbe sentire la responsabilità del suo ruolo poiché è un fatto che nella democrazia elettorale i governi non dovrebbero cadere con la mobilitazione delle piazze, ma nel Parlamento. È possibile rendere il rischio gravissimo che sta di fronte alla nostra già compromessa democrazia costituzionale in questo modo: al Parlamento spetta il compito di riprendersi la sua completa autonomia, che è di rendere possibile una maggioranza e di fungere da veto. Più ancora, di impedire che tutti i poteri di veto e di controllo siano resi docili e addomesticati.
La proposta dei vescovi sui “problemi cruciali” é il “consolidamento di una democrazia governante”, vale a dire prevalenza dei poteri sui diritti, rafforzamento dell’esecutivo, sistema elettorale maggioritario, legge che regoli la democrazia interna ai partiti: ma i padri della Costituzione l’avevano respinta, allora che neutralità é?
La Chiesa non può essere “neutra” (al fianco del potere) quando il paese precipita nella disperazione
di Raniero La Valle *
C’è un caso serio che si è aperto nella Chiesa italiana e nella stessa comunità civile. È un’agenda di “problemi cruciali” e di cose da fare (detta “un’agenda di speranza per il futuro del Paese”) che è stata presentata dai vescovi a conclusione della recente Settimana Sociale dei cattolici tenutasi a Reggio Calabria. Che qualcuno si preoccupi di quel che ci sarebbe da fare in questo povero Paese per riaprire i cuori alla speranza è certamente una cosa positiva, come è positivo dire che tra le cose più ragionevoli e giuste da fare ci sia di accogliere gli stranieri.
È motivo però di grande sconforto e allarme trovare che i “primi temi” indicati siano quelli attinenti al “consolidamento di una democrazia governante” (espressione che nell’attuale gergo politico indica la prevalenza dei poteri sui diritti) e che questi temi vengano identificati così: a) rafforzamento dell’esecutivo; b) sviluppo del federalismo; c) sistema elettorale maggioritario; d) bipolarismo; e) legge che disciplini la vita dei partiti e ne regoli la democrazia interna (ipotesi discussa, ma respinta, alla Costituente); e tutto ciò in una “forma di governance” che si preferisce definire “poliarchica” invece che democratica, con un richiamo non pertinente a Benedetto XVI che nell’enciclica “Caritas in veritate” usava sì il termine “poliarchico”, ma non per incoraggiare una frammentazione feudale dei poteri negli ordinamenti interni, bensì per sostenere una pluralità dei poteri sul piano internazionale, contro il mito di un unico governo mondiale e di un unico Impero.
In questo complesso di tesi e di programmi politici proposto ora dai vescovi è riconoscibile l’ideologia propria di un gruppo minore del Partito democratico vicino a Veltroni; ma la Chiesa che c’entra? L’opzione che essa in tal modo propone all’Italia si presta in effetti a due gravi critiche, una nel merito, l’altra nel metodo. Sul piano del merito la piattaforma politica avanzata dalla Conferenza episcopale sembra non tenere conto della drammaticità della situazione italiana, oggi dominata da un potere oltracotante e corruttore, che non viene mai nominato, grazie alla scelta indicata dal Rettore della Cattolica, Ornaghi, di fare un’analisi intenzionata a “restare neutra rispetto agli schieramenti politici”.
Ora, nell’astrazione di un Paese assunto senza schieramenti politici, senza partiti, senza alcun giudizio sulle pratiche del governo in atto, sulle sue politiche e le sue leggi, l’idea della CEI è che sia “indilazionabile il completamento della transizione istituzionale”, nel senso indicato di una prevalenza dell’esecutivo, del maggioritario, del bipolarismo, del federalismo. Invece, sulla base dell’esperienza disastrosa dell’ultimo ventennio molti italiani pensano a un ripristino della rappresentanza, a una riabilitazione del Parlamento, a uno sviluppo del pluralismo delle culture politiche e dei partiti, e ad elezioni veritiere basate su un voto libero ed eguale.
Siamo, certo, nell’opinabile. Ma rispetto ai fini specifici della Chiesa ragioni non troppo opinabili dovrebbero spingerla a opzioni opposte a quelle adottate: il bipolarismo, nella settaria versione italiana, ha rotto infatti l’unità spirituale del Paese, ha spronato a una legislazione e a provvedimenti amministrativi spietati contro la vita degli stranieri (anche quella nascente), ha seminato rancore ed odio, e lascia per cinque anni incontrollato il governo anche se decide guerra, politiche di impoverimento e nucleare. Inoltre, con la complicità del maggioritario, ha separato dalla politica il movimento cattolico ed esclude ogni forma di partecipazione autonoma dei cattolici alla competizione tra i partiti.
Sul piano del metodo la pronunzia ecclesiastica si presenta come fatta in nome di “noi tutti come Chiesa e come credenti, chiamati al grande compito di servire il bene comune della civitas italiana”; e benché formalmente il documento sia riconducibile al Comitato organizzatore della Settimana, esso è stato approvato dal Consiglio permanente della CEI, mentre lo stesso Comitato è un’articolazione permanente della Conferenza episcopale, presieduto com’è da un vescovo nominato da lei e incaricato com’è di monitorare il seguito da dare alla Settimana mettendosi in relazione, quasi come alto Direttorio, con “le diverse forme di presenza capillare dei cattolici nella società italiana”.
Il documento, come è proprio dei migliori documenti ecclesiastici, chiama a testimoni apostoli, evangelisti e profeti, fa appello al tesoro dell’attuale magistero pontificio ed episcopale, chiede conferma al Concilio, unisce cielo e terra, eucaristia e politica, si rivolge non a una parte, ma a tutti i cattolici e a tutti gli italiani, e parla in nome della fede. Ma in base a quale carisma sceglie tra l’una o l’altra legge elettorale e forma di governo, e in base a quale sussidiarietà si sostituisce, nel dettare l’agenda politica, alla responsabilità dei cattolici come cittadini, così come dei cittadini non cattolici?
Sull’apologia del fascismo
ANPI NAZIONALE (l’Unità, 07.04.2011)
A proposito del Disegno di Legge costituzionale, depositato alla Segreteria di Palazzo Madama da cinque senatori della destra, volto ad abolire la XII Disposizione transitoria della Costituzione Repubblicana che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del partito fascista”, l’ANPI (Associazione nazionale Partigiani d’Italia) denuncia questo proposito odioso e provocatorio.
Si tratta dell’ennesima aggressione alla Costituzione, la più dissennata tentata dalla destra e dal suo governo. Sul fascismo e sui suoi misfatti di dittatura, miseria, guerra, occupazione straniera del Paese, torture, crimini e stragi, pende implacabile e incancellabile da ogni revisionismo il giudizio della storia. Sull’Antifascismo, sulla Resistenza e sulla Liberazione fondano la Costituzione, la Repubblica e la Democrazia riconquistata! Contro l’esecrabile tentativo di riaprire la porta alla costituzione del partito fascista e di abolire il reato di apologia del fascismo, l’ANPI chiede la mobilitazione unitaria in tutto il Paese dei partigiani, degli antifascisti e delle loro associazioni insieme alle forze della politica, della cultura, dei sindacati e dell’associazionismo democratico.
Nostalgia nera in Parlamento
Fascisti sì, e non per caso
Chi rimpiange davvero il partito del Duce
di Chiara Paolin (il Fatto, 07.04.2011)
L’hanno fatta grossa, e adesso tentano di riderci su. "Ma scusate un attimo: è stato Fini a proporre tante volte di abolire il reato di apologia del fascismo. Lo so bene, perché c’ero anch’io con lui. E almeno fino al 1994 se ne parlava tranquillamente: il fascismo è storia passata, possiamo metterla da parte". Parola di Achille Totaro, senatore Pdl di area An, cofirmatario del disegno di legge per la “Abrogazione della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione" presentato lo scorso 29 marzo e subito diventato un caso politico. Ma perché metter mano alla norma sul fascismo proprio ora? "Mah, era una proposta tra le tante, una di quelle che capita di firmare quando un collega prepara un documento e ti chiede di condividerlo spiega ancora Totaro pigiando forte sulle aspirate da toscanaccio -. Nessuno immaginava si scatenasse tutto ’sto putiferio, dico la verità".
EPPURE un po’ d’attenzione ci voleva nel maneggiare la materia ideata da Cristiano de Eccher, primo firmatario della norma revisionista e personaggio su cui si sono allungate pesanti le ombre del passato più tragico della destra italiana. Nota la sua vicinanza al terrorista nero Franco Freda, inquietante l’ipotesi formulata dal giudice Guido Salvini su un suo ruolo d’appoggio nella strage di Piazza Fontana, certa la condanna a due anni di carcere per attività eversive. Storie vecchie, e ora il senatore De Eccher non ha voglia di parlare con nessuno.
DOPO UNA NOTA con-giunta con i colleghi di firma, in cui spiega che nessuno di loro “ha mai pensato di avviare una battaglia di tipo ideologico fuori dal tempo e dalla storia”, ha deciso di tacere. Come mai? “Io ci ho parlato, ma non mi faccia dire nulla” ridacchia Francesco Bevilacqua, altro senatore che non vuole più sentir parlare di apologia del fascismo nella Costituzione italiana. “Siamo di fronte a una sceneggiata bella e buona insiste Bevilacqua -, ma forse un errore l’abbiamo fatto: siamo tutti ex An ad aver firmato, e allora può sembrare che il tema interessi solo a noi. Garantisco che non è così, potevamo sicuramente raccogliere adesioni tra altri colleghi di provenienza diversa dalla nostra. E precisiamo: a firmare siamo stati ex An, ma sia di area Alemanno che Gasparri. Quindi non era un fatto politico, ecco”.
Ma lo è diventato. Perché i firmatari si sono divisi in due gruppetti distinti: da una parte i cinque del Pdl e dall’altra un Fli, ovvero il lucano Egidio Digilio che subito dopo le prime accese reazioni ha deciso di ritirare la sua firma. “Lo hanno costretto, o comunque gli hanno fatto capire che era meglio cambiare idea infilza Totaro -. Questo sì che è un atteggiamento fascista, e per questo io preferisco stare nel Pdl”. Partito che però non ha gradito particolarmente l’iniziativa: il presidente del Senato Schifani si è dichiarato esterrefatto dopo aver letto il testo della proposta, e anche a livello locale i guai non mancano. Giorgio Bornacin, coordinatore del Pdl a Genova, è stato duramente attaccato. “Deve dimettersi immediatamente” ha detto la consigliera regionale Raffaella Della Bianca. “No, il tema è attuale e importante” ha replicato Gianni Plinio, altro collega Pdl.
La verità è che il senatore Bornacin è un uomo dai grandi slanci emotivi. Due anni fa, quando il ministro della Difesa La Russa era in visita tra i vicoli della sua città e un giovane contestatore gli si era avvicinato un po’ troppo, il Bornacin è scattato di destro: “Mi scuso per il pugno, forse ho esagerato disse allora -, ma ho avuto paura per il ministro e per i poliziotti. Ero stato avvertito che c’era un pazzo in giro con un coltello, il pugno l’ho dato perché ho visto quell’uomo rovistare tra le gambe dei poliziotti. E comunque, non mi dimetto”.
COERENZA vuole che nemmeno stavolta voglia farsi da parte, anche perché il periodo è fecondo: Bornacin ha appena lanciato l’Apired, l’Associazione Parlamentare di Amicizia Italia - Repubblica Dominicana cui hanno già aderito “una trentina di parlamentari di varie formazioni politiche”, come ha informato un puntuale comunicato stampa. E certo occuparsi dei rapporti italo-domenicani sarà un buon modo per lenire le urticanti polemiche di questi giorni. Perché, a dir la verità, ora i prodi sostenitori del disegno in questione sarebbero pronti a ritirarlo pur di calmare gli animi. Ma proprio adesso che il responsabile Scilipoti fa tornare d’attualità il manifesto dei valori fascisti? “Bisogna coinvolgere Di Pietro a questo punto chiude il cerchio Bevilacqua -. Perché qui ormai è tutto da ridere. Ma se qualcuno pensa di isolare noi ex An dentro Il Pdl ha sbagliato i conti”.
In Abruzzo, dove è stato eletto il quinto firmatario Fabrizio Di Stefano, non c’è molta voglia di scherzare. Maurizio Acerbo, consigliere regionale Prc, torna alla storia ed è preoccupato: “Il fatto che il senatore Di Stefano si dichiari “né antifascista, né fascista” non è una dichiarazione di agnosticismo ma di istintiva distanza dai valori democratici della Resistenza e dell’antifascismo. La XII disposizione non è una norma anacronistica e il fascismo non è un “fenomeno storico circoscritto” visto che vi sono in tutta Europa gruppi e movimenti neonazisti dentro un contesto di crisi economica che alimenta violenze xenofobe e razzismo”.
di Massimo Gramellini (La Stampa, 07.04.2011)
Il programma dei Responsabili è copiato di sana pianta dal manifesto degli intellettuali fascisti del 1925. Incredibile. Non tanto per il riferimento ai fascisti, ma agli intellettuali. Uno non fatica a immaginarsi la scena: Scilipoti alla scrivania con la matita in bocca e gli occhi al soffitto.
Responsabilità nazionale è... è... è... Ah, saperlo. All’improvviso, la luce: perché non inserire una parola-chiave su Internet, come uno studente in cerca di ispirazione? «Manifesto», per esempio. Orrore! Sullo schermo è comparso il barbone di Marx. Un momento... più in basso affiora il filosofo Gentile col manifesto degli intellettuali fascisti da lui ispirato.
Leggiamo un po’... «Il fascismo è il movimento recente e antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della nazione». Scilipoti ha un sussulto: parla di me! Chi è più recente e antico della nostra simpatica combriccola di voltagabbana? Chi più intimamente connesso alla storia della nazione? Il leader recente e antico pigia il tasto «copia e incolla» e il più è fatto. Giusto un paio di ritocchi. «Responsabilità Nazionale» al posto di «Fascismo», che come soggetto è un po’ datato. Anche «intimamente» va sostituito perché fa venire in mente il bunga bunga. Meglio «internamente»: orribile e casto.
Tra una scopiazzata e un’incollata si approda al gran finale. Gentile aveva scritto: «La patria è concezione austera della vita». Scilipoti lo personalizza con la sua griffe inimitabile: «Responsabilità è concezione austera della vita». Ci piace sperare che a quel punto gli sia almeno venuto da ridere.
SCOPERCHIARE I SEPOLCRI
di Ernesto Balducci *
Più vado avanti e più mi rendo conto che le grandi parole, quelle che sono all’altezza dei nostri desideri più profondi, dei nostri concetti pin elevati, sono anche le parole pin fraudolente, portano dentro di loro un’insidia quasi invincibile. Capisco perché nel popolo ebraico c’era la prescrizione di non nominare il nome di Dio. Il nome di Dio è una di queste parole che dovrebbe essere custodita nel silenzio e noi invece ne abbiamo fatto una parola da pronunciare dovunque, a tutti gli usi, a tutti gli scopi. Capisco perché Gesù, spesso, quando parlava della resurrezione o compiva opere mirabili, faceva prescrizione ai suoi di non parlarne a nessuno perché le cose, gli eventi che sono al livello alto, che toccano perciò le fibre più profonde delle nostre attese, possono, nella promiscuità con le altre parole, deturparsi e cambiare senso.
A questa legge appartengono parole come «resurrezione», come «vita» ed io sento che ogni volta che dobbiamo parlarne, dobbiamo con cautela disciogliere questa consegna del silenzio ed impegnarci a capire il perché di questa indecifrabilità, di questa impronunciabilità. Me lo dicevo proprio in questi giorni. Noi gridiamo dai microfoni, dai video, parole che sono di quelle di cui parlavo e che rimbalzando nelle masse, attraverso i mass-media, diventano profane ed equivoche.
Da una parte l’annuncio va gridato, dall’altra va taciuto. Perché questo? Proviamoci intanto a raccogliere il messaggio di oggi che è, come avete ascoltato, il messaggio della resurrezione, il messaggio della vita, di una vita che non conosce la barriera irreparabile della morte. Questo messaggio nasconde in sé una frode. La frode è che noi appoggiamo a questo messaggio tutti i nostri desideri inappagati, le nostre frustrazioni, i nostri punti di vista magari animati dal lievito impuro dell’egoismo. Esso ci da soddisfazione e noi crediamo; però tutto sta a sapere se questa fede non sia un prolungamento in più del nostro egoismo, una nuova frontiera della nostra carnalità o sia autentica fede. Come possiamo risponderci? Intanto rispettiamo le leggi interne di questo messaggio.
La parola «vita», lo sappiamo, in questi tempi rimbalza in ogni ambiente con sensi diversi e con cariche normative diverse. Chi non è per la vita? Tutti sono per la vita e però molti sono per la vita in modo mortale e molti difendono accanitamente la vita spargendo sangue. E’ una parola pericolosa. Io intanto devo prendere atto che la resurrezione di cui si parla in queste pagine è una resurrezione globale che non può essere intesa se non mantenuta nella sua indivisibile unità e globalità. Nella prima lettura si parla di una liberazione di un popolo intero dal sepolcro della sua schiavitù.
Le parole del profeta Ezechiele sono queste: «Io apro i vostri sepolcri e vi riconduco nel vostro paese». E’ resurrezione! Qualcuno direbbe che è politica, in realtà è resurrezione. Anche la politica può produrre resurrezioni. La parola di Dio mi dice che c’è una politica secondo il sepolcro e una secondo la vita. Là dove invece ci si preoccupa di distinguere attentamente una lettura individualistica della resurrezione da quella sociale e politica si cade in una frode, si spezza l’unità del messaggio il quale non può essere ricondotto in modo piatto e ideologico dentro i parametri delle nostre concettualizzazioni, va mantenuto nella sua trascendente ed unitaria realtà. Se non rispetto questa legge non sono più in grado di parlare della resurrezione secondo la prospettiva consueta, quella individuale, che è certo giusta, ma purché non venga scissa dalla totalità. (...)
Il sepolcro non è il nostro sbocco ultimo. Questa verità è certamente mo¬tivo di gioia, ma è una verità che non va mai scissa da tutte le altre verità che nell’insieme trascendono il senso particolaristico e si confondono con lo stesso mistero di Dio che è vita e amante della vita e il cui Spirito, come ci è ripetuto, è la forza che spezza i sepolcri.
Nella mia prospettiva di liberazione c’è un punto d’appoggio che è la fede in questa potenza che noi chiamiamo Spirito e che è Dio in quanto agisce nel mondo e che, come spezzò il sepolcro di Cristo fratello nostro, spezzerà i sepolcri delle sue creature. Tuttavia, per entrare in questa certezza senza violarne il mistero, senza appiattirla in funzioni indebite, devo, come dicevo or ora, applicarla all’intero perimetro dove l’impero della morte avanza e ci assale. Questo perimetro è immenso. La dittatura è un sepolcro ed è un sepolcro l’inedia, il vivere senza il necessario ed è morte la solitudine, l’amore senza risposta è morte. La parola morte è una parola sintetica che abbraccia in se tutte le forme in cui l’esistenza è in deficit su se stessa, e vive la parabola del proprio estinguersi, o è ferita in legittime attese.
Vorrei che il termine non rimanesse nell’astratta concettualizzazione e che lo percepiste nella sua multilaterale realtà concreta: siamo accerchiati. La vita ha la stessa dimensione. Dobbiamo stare molto attenti a pronunciare questa parola, che ha l’ampiezza delle speranze possibili dell’uomo, per legittimare i sepolcri, per giustificare i domini, le autorità oppressive, per vincolare le coscienze nel timore. Questa nobiltà di intenzioni, se è solo formale, fa da schermo ad un’operazione di morte. Questo il dramma. (....)
Ci vuole un di più di serietà, di autocontrollo, di spirito critico e quindi ci vuole, come dicevo agli inizi, il rispetto delle grandi parole, dei grandi messaggi. Il rispetto non significa evidentemente lasciarle nel silenzio, lasciarle nella loro intangibile santità, ma significa fare i conti con le esigenze che esse esprimono quando osiamo pronunciarle. Quando osiamo pronunciarle, siamo coinvolti. Non siamo dei predicatori che vanno da un luogo all’altro a dirle, lasciando poi la gente nelle sue tribolazioni appena si è spento il fuoco della momentanea illusione. Ogni volta che le pronunciamo, quelle parole ci coinvolgono. Se io vado tra i poveri a portare una parola di consolazione e poi riparto lasciandoli ai loro guai, cosa ho fatto? Ho manipolato la disponibilità che ha il povero a sperare in un miracolo, ma forse ho contratto un debito di fronte all’umanità e di fronte a Dio.
Sono riflessioni sparse che riconduco ad una conclusione, quella che ci viene proposta poi dal messaggio di oggi; la nostra speranza nella resurrezione deve attraversare l’intero ventaglio dei nostri impegni morali, sociali e politici che caratterizzano la nostra presenza nel mondo di oggi.
Dopo tutto quello che ho detto credo di poter ripetere la parola senza scadere nella frode: noi dobbiamo essere dalla parte della vita, noi dobbiamo dichiarare guerra ai sepolcri e a tutti coloro che li costruiscono e che obbediscono ad una strategia di morte. Io sono convinto - e ogni giorno l’esperienza allarga ed arricchisce la lezione - che ogni volta che noi scegliamo la logica del potere, le sue astute diplomazie che si allargano fino ad acquistare sembianze di umanità e di bontà e legittimiamo l’oppressione di una sola coscienza, il terrorizzare una sola coscienza - fosse pure di un bambino -, noi siamo dalla parte della morte. Questo è tanto più vero oggi, perché il confronto tra due potenze - morte e vita - si è fatto radicale e si è esteso dovunque. Allora abbiamo anche il diritto - se posso dir così - di lasciare illuminare di una Luce il sepolcro personale che abbiamo in prospettiva. Ma questa speranza dobbiamo custodirla nel segreto e nel pudore. Per poterla gridare dobbiamo pagarla attraverso tutti i giorni della nostra vita. Allora possiamo dire: «resusciterò», ma dopo che avremo in concreto lottato contro ogni opera di morte.
(Gli ultimi tempi - pp. 161-165 - Borla editore)
*
Di certo accade anche a voi.
Ci sono delle parole pronunciate nell’oggi, dei discorsi proclamati nella contemporaneità degli accadimenti, che purtuttavia sanno di muffa: sembrano appartenere ad un mondo passato e risultano aver perso ogni mordente sulla raltà che viviamo.
Discorsi e parole d’altri tempi, inerti e mute, che non denunciano nulla, nulla annunciano e non mordono né risvegliano le coscienze.
Al contrario, capita di leggere parole scritte nel passatoremoto dei tempi e che ciononostante risultano attuali, svelano il segreto delle ipocrisie e risvegliano le coscienze all’urgenza di presenze combattive.
E’ il caso di queste parole di padre Balducci, a commento delle letture di domani, quinta domenica di Quaresima.
Ve ne allego una sintesi. Pensate! Questa cose Padre Badlucci le ha dette nel 1986!
Buona domenica.
Aldo [don Antonelli]
Data di pubblicazione: 27.06.2005 *
"Se fossi Papa..."
di Federico La Sala *
Se fossi nei panni di Papa Benedetto XVI e ... avessi ancora un po’ di dignità di uomo, di studioso, di politico, e di cristiano - oltre che di cattolico, dopo l’incontro di ieri con il Presidente della Repubblica Italiana, di fronte all’elevato ed ecumenico discorso di Carlo Azeglio Ciampi (lodevolmente, L’Unità di oggi, 25.06.2005, a p. 25, riporta sia il discorso del Presidente Ciampi sia di Papa Benedetto XVI), considerato il vicolo cieco in cui ho portato tutta la ’cristianità’ (e rischio di portare la stessa Italia), prenderei atto dei miei errori e della mia totale incapacità ad essere all’altezza del compito di "Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale", chiederei onorevolmente scusa Urbe et Orbi, e ....convocherei immediatamente un nuovoConcilio!!!
Non me la sento di insegnare ad altri come fare un mestiere che non è il mio, ma credo che tutti abbiano apprezzato la difesa della laicità dello Stato italiano compiuta da Ciampi. La ringrazio dei documenti, che allego.
Due discorsi al Quirinale (Benedetto XVI e Carlo Azeglio Ciampi.pdf 25.29 KB )
* EDDYBURG
L’età dell’angoscia
L’Impero Romano e il suo lato oscuro
Ai Musei Capitolini dal 28 gennaio la rassegna dedicata al III secolo dopo Cristo, tempo di ansie religiose e presagi di decadenza
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 22.01.2015)
SI ERA nel 1970 e La Nuova Italia mandò in libreria Pagani e Cristiani in un’epoca d’angoscia , un libro di Eric R. Dodds. L’autore, regius professor di Greco a Oxford, era in realtà già noto in Italia per un altro libro dal titolo ugualmente suggestivo: I Greci e l’irrazionale , apparso una decina di anni prima. Che cosa introduceva Dodds, con questa nuova opera, nella nostra visione dell’età imperiale romana e del mondo antico in generale?
Sostanzialmente due cose: il richiamo a un poema composto nel 1947 da Wystan Hugh Auden, The Age of Anxiety e soprattutto l’idea che una determinata epoca della storia umana potesse aver condiviso uno stesso stato d’animo, una medesima condizione spirituale: per non dire un medesimo inconscio.
Sappiamo che nel periodo compreso fra Marco Aurelio e Costantino l’impero romano fu caratterizzato da una crescente spirale di mali: decadenza sociale, crisi economica, pressione ai confini dell’impero da parte di altre popolazioni, conflitti intestini, strapotere dell’esercito, e così di seguito.
Nell’interpretazione di Dodds, a questa realtà profondamente negativa avrebbe fatto riscontro, in campo spirituale, la crescita di un nuovo sentimento religioso, più profondo, più individuale, tale da aprire la strada all’affermazione di culti centrati sull’immortalità e la sopravvivenza dell’anima: fra cui il cristianesimo, ovviamente, che in breve avrebbe assunto una posizione dominante.
Questa trasformazione religiosa dell’impero si sarebbe dunque consumata sullo sfondo di uno stato d’animo ben individuato e largamente condiviso: l’angoscia. Per la verità l’edizione originale del libro di Dodds aveva per titolo Pagans and Christians in an Age of Anxiety . E come rileva Eugenio La Rocca nel bel saggio che inaugura il catalogo di questa mostra, è difficile capire perché il termine anxiety - “ansietà”, “inquietudine” - fosse stato tradotto con una parola tanto più marcata come “angoscia”. In ogni caso fu forse anche per questa scelta editoriale, un po’ spiccia ma efficace, che il libro suscitò molta attenzione.
Questa formula foriera di inquietudine, “età dell’angoscia”, torna adesso nel titolo della mostra che si apre il 28 gennaio ai Musei Capitolini (fino al 4 ottobre), dedicata al periodo che Dodds mise al centro delle sue ricerche.
Inutile dire che un momento come quello odierno, in cui certezze sociali, economiche e culturali sembrano scomparire, pare fatto apposta per resuscitare i fantasmi che, secondo Dodds, agitarono pagani e cristiani. Per altro verso, però, non dobbiamo neppure semplificare troppo il senso delle trasformazioni che ebbero luogo nel III secolo d. C.
Sarebbe sbagliato affermare che l’afflusso di religioni “straniere” a Roma in quel periodo costituì un fenomeno radicalmente nuovo: il politeismo antico ha sempre praticato, e accettato, la trasmigrazione degli dèi, cercare e accogliere nuovi culti faceva parte del sistema. Così come è difficile accettare l’idea che l’avvento di nuove religioni, e soprattutto quello del Cristianesimo, fosse dovuto esclusivamente al bisogno di spiritualità che travagliava gli abitanti dell’impero: con l’implicita presupposizione che i culti tradizionali fossero inadeguati a soddisfare questo bisogno e come tali già predestinati a soccombere.
Si tratterebbe infatti di un’interpretazione più teologica che non storica. Ma non è tanto questo che deve interessarci, quanto l’angoscia, o l’ansia, collocate da Dodds sullo sfondo della sua ricostruzione. In altre parole, com’era arrivato l’autore a trasformare una condizione psicologica in una categoria buona per interpretare la storia?
Per comprenderlo conviene rifarsi all’altro libro di Dodds: I Greci e l’irrazionale . Siamo nel 1948, la seconda guerra mondiale è appena terminata, la prima non è affatto lontana. La storia recente dell’Europa mostra, in altre parole, che la cultura europea, apparentemente così razionale, in realtà non lo era affatto.
Probabilmente fu questo il motivo che spinse Dodds a dedicare le sue energie alla parte più “scandalosa” della Grecia: la pazzia vista come fenomeno po- sitivo, veicolo di ispirazione poetica o di contatto con la divinità; il sogno, alla cui realtà significativa i Greci sembrano in qualche modo credere; lo sciamanesimo, che Dodds vede all’origine di una nuova dottrina dell’anima, concepita adesso come soggetto autonomo rispetto all’essere umano nel suo complesso.
Nelle sue ricerche l’obiettivo di Dodds è quello di sostituire l’immagine dei Greci come popolo dominato dalla ragione - amministratori unici del lógos - con una in cui trova piena cittadinanza anche ciò che al lógos si oppone. Ecco perché, oltre all’antropologia, ne I Greci e l’irrazionale l’orizzonte metodologico include anche la psicoanalisi, nella convinzione che l’inconscio possa esercitare un grosso peso nelle vicende umane: e quindi anche nei fenomeni storici o culturali.
A Dodds insomma sta a cuore mettere in luce il lato oscuro, profondo di una cultura o di un popolo, ciò che si agita nella sua psiche: sia che si tratti dei Greci, sia che si tratti degli abitanti dell’impero romano divenuti preda dell’ansia.
La vita intellettuale di una persona, comunque, è una cosa complicata, e quella di Eric R. Dodds sembra esserlo stato anche più di altre. Il fatto è che egli fu personalmente e individualmente un attento osservatore di fenomeni psicologici, specie se oscuri e irrazionali. Il regius professor, infatti, per anni partecipò alle sedute della Society for Psychical Research, di cui divenne anche presidente: una società che si occupava di manifestazioni extrasensoriali, di trasmissione del pensiero e di fenomeni medianici.
Un classicista oggi di fama internazionale, il quale fu studente ad Oxford quando Dodds era ormai in pensione, mi ha raccontato una volta questo aneddoto. Dopo aver preso il suo PhD discutendo una tesi sulla religione greca, il giovane studioso aveva inviato a Dodds il libro che aveva tratto dal proprio lavoro. Questo dono gli era valso un invito per il tè a casa dell’illustre maestro. Ci era andato, piuttosto emozionato, aveva suonato il campanello e Dodds era venuto ad aprirgli la porta. «Grazie per il suo libro, giovanotto» gli aveva detto ancora sulla soglia «ma debbo avvertirla che non mi occupo più di religione greca. Mi interessa solo lo spiritismo».