Rivelazioni
Libera Chiesa, in catene di Stato
In un libro di Emilio Gentile la lunga Storia di sottomissione del clero al regime fascista e le inquietanti analogie con l’Italia di oggi
di Riccardo Chiaberge (il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2010)
Corsi e ricorsi dell’onomastica: si chiamava Gasparri, ma non sedeva in Senato e vestiva la porpora del Segretario di Stato vaticano, l’uomo che nel 1923 aiutò Mussolini a far fuori uno dei suoi avversari più temibili, l’odiato don Sturzo. Il leader dei Popolari era passato all’opposizione e avrebbe votato contro la famigerata legge Acerbo che aboliva la proporzionale istituendo un premio di maggioranza su misura per le ambizioni totalitarie del fascismo. Ma il 10 luglio, senza preavviso, lasciò la guida del suo partito.
Secondo il cardinale questo abbandono era un espresso desiderio del Santo Padre, il quale riteneva che “nelle attuali circostanze in Italia, un sacerdote non può, senza grave danno per la Chiesa, restare alla direzione di un partito, anzi dell’opposizione di tutti i partiti avversi al governo, auspice la massoneria come ormai è risaputo”.
POCHI GIORNI prima, dai muri di Roma, il manifesto di una nuova organizzazione cattolica aveva invitato i fedeli a dare pieno sostegno alle camicie nere, in nome di “quei valori religiosi e sociali che costituiscono la base d’ogni sano reggimento politico” e a combattere le forze antinazionali contrarie a “un durevole ordine sociale cristiano e italiano”. L’avrete notato anche voi, lo stile ricorda in modo impressionante i sermoni di Bagnasco o di Bertone: non diversi gli accenti accorati sulla necessità di superare lo scontro, identico l’appello alla pacifica convivenza e al “bene supremo dell’Italia”.
In realtà, scrive lo storico Emilio Gentile nel suo nuovo libro, Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi (Feltrinelli, pagg. 442, euro 25), il desiderio del Santo Padre corrispondeva a quello del duce, che “aveva minacciato rappresaglie contro le associazioni cattoliche e il clero se la Chiesa non fosse intervenuta a togliere dalla politica il sacerdote siciliano”. L’uscita di scena di Sturzo accelerò la disgregazione interna del Partito popolare, la cui ala più conservatrice si affrettò a correre in soccorso del vincitore.
A dispetto del suo cognome, Gentile non è prodigo di gentilezze nei riguardi del Vaticano: “La costruzione del regime fascista, tra il 1925 e il 1929 - accusa - non incontrò alcuna resistenza da parte della Chiesa di Roma. La Santa Sede assistette da spettatrice silenziosa, ma evidentemente compiaciuta, alla distruzione delle libertà civili e politiche della democrazia parlamentare, rivendicando per sé unicamente l’esercizio della libertà religiosa, in ciò coerente con la dottrina che considerava la libertà di coscienza e le altre libertà politiche e civili il portato diabolico dell’apostasia moderna”.
Quando la dittatura, nel maggio 1928, decide la soppressione di tutte le organizzazioni giovanili che non facevano capo all’Opera Nazionale Balilla, esclusa l’Azione Cattolica, la stampa vicina alla Chiesa reagisce con manifestazioni di giubilo e grandi “inchini e ringraziamenti alla magnanimità del duce”.
Il parroco anticonformista di un paese del mantovano, don Primo Mazzolari, annota nel suo diario: “Oh, poi non è troppo? Dunque vivete per misericordia, per benigna e sovrana concessione di lui? Non c’è più un diritto comune, una libertà comune da rivendicare, entro cui agire, ma il beneplacito del tiranno, che vi ha accantonati, come spazzatura, in attesa che passi per la strada il carretto della nettezza urbana”.
IL VERO CRISTIANO, secondo don Primo, non deve cercare privilegi per sé ma giustizia e libertà per tutti: “Rivendicare un posto per sé soltanto è venir meno alla missione cattolica, senza contare che un privilegio, concesso e accettato a queste condizioni, è piuttosto un capestro e una tremenda responsabilità di fronte all’avvenire”.
La marcia su Roma era stata salutata con sollievo dalla gerarchia, impaurita dai disordini sociali e dal rivoluzionarismo rosso. La bestia fascista, per quanto manesca e brutale anche nei confronti delle organizzazioni cattoliche, sembrava addomesticabile. Ai primi approcci di Mussolini per risolvere la questione romana, nel 1923, papa Ratti manda a dire che il governo del duce “dura da un anno, mentre la Chiesa conta per secoli”. E sei anni più tardi, poco dopo la firma dei Patti Lateranensi, dichiarerà che “per salvare un’anima sarebbe disposto anche a trattare col diavolo in persona”.
Le anime, beninteso, vanno salvate da quelle che Pio XI considera le minacce più gravi che incombono sulla cristianità: il comunismo, “nemico dichiarato della Santa Chiesa e di Dio”, ma anche la democrazia laica, figlia della Rivoluzione francese e della modernità. E questo benché nei Palazzi apostolici siano in molti a chiedersi se “l’idolatria statalista” di Giovanni Gentile e Alfredo Rocco non sia “una brace” peggiore della “padella framassone e demoliberale”.
Più che Contro Cesare, il potente libro di Gentile, denso di retroscena e documenti inediti, dovrebbe intitolarsi Pro Cesare. Come scrive il grande studioso del fascismo, degno erede di De Felice, “all’inizio di un’era di statolatria quale l’Europa non aveva mai conosciuto, neppure nell’epoca del cesaropapismo romano o medievale o nell’era dell’assolutismo e del dispotismo, la Chiesa si trovò schierata, per i privilegi che ne riceveva, con il regime statolatra del nuovo Cesare in camicia nera e con altri dittatori suoi imitatori o ammiratori”.
Il Cesare totalitario del Novecento ha due volti: quello comunista di Stalin che vuole sopprimere la Chiesa e instaurare l’ateismo di stato, e il volto più ambiguo di Mussolini o di Hitler che tentano di asservire la fede di Cristo mescolandola con la propria ideologia, trasformata in religione politica.
Ma i cattolici e i protestanti che, in Italia e in Germania, mettono sullo stesso piano i due totalitarismi, giudicandoli entrambi antitetici al messaggio cristiano, si contano sulla punta delle dita. Tra gli italiani, ai nomi di Mazzolari e Sturzo possiamo aggiungere quelli di Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari, morti in esilio a Parigi, e pochi altri.
Comprensibile la rabbia di uno studioso non certo ostile alla Chiesa, Arturo Carlo Jemolo: “Con tutto ciò che da penne cattoliche è stato scritto contro il fascismo si riempirebbe a stento uno scaffaletto di libreria; con quanto è stato scritto nello stesso periodo contro il comunismo, una biblioteca”.
La lista dei capi di imputazione a carico della Santa Sede, secondo Gentile, è molto lunga: le dimissioni e l’esilio di don Sturzo, l’opposizione a un fronte antifascista dopo il delitto Matteotti, la sconfessione del Partito Popolare, l’avallo silente al soffocamento della democrazia italiana, e infine gli accordi del Laterano. Soltanto nel 1931, con l’enciclica Non abbiamo bisogno, e soprattutto dopo le leggi razziali del ’38, papa Ratti comincia a prendere le distanze dalla “statolatria pagana” di Mussolini e dai suoi crimini. Ma non arriva mai a paragonare il fascismo al bolscevismo, che rappresenta per lui il male assoluto. Lascio agli storici colleghi e rivali di Gentile, ben più titolati di me, il compito di confutare la sua ricostruzione, certo non tenera, a tratti perfino ingenerosa nei confronti della Chiesa e di Pio XI.
Mi limito a osservare che a quei tempi, almeno, papi e vescovi avevano qualche fondato motivo per essere prudenti. Adesso che non rischiano di finire in un lager o di essere manganellati, recitano un Te Deum al giorno per il Cesare di Arcore, senza nemmeno aspettare il Tartaglia di turno che gli tiri il duomo in faccia. Viene da domandarsi cosa ci voglia ancora, perché i monsignori aprano finalmente gli occhi e la bocca. Magari che Cesare rottami la Costituzione e trasformi il Quirinale in un bordello? O sono pronti a barattare pure quello in cambio di uno sconto sull’Ici e di qualche aiutino alle scuole cattoliche?
Sul tema, nel sito e in rete,, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
L’IMPERO E LA CHIESA (BARI, 1936). Storia, storiografia, e sonno dogmatico.
Una nota a margine di una segnalazione ... *
Il 9 maggio 1936, Mussolini celebra "dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui Colli fatali di Roma". Il "5 settembre 1936", nella Basilica di San Nicola di Bari, è murata su una parete una lapide ben illuminata su cui è scritto:
Per capire le ragioni politico-culturali di questo "documento" del Comune di Bari, collocato "nello storico tempio del santo mediterraneo", nella Chiesa di San Nicola di Bari, forse, è bene ampliare lo sguardo intorno alla data del "5-SETT-MCMXXXVI" (5 SETTEMBRE 1936) e quanto meno ricordare gli accordi sottoscritti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929 (Patti Lateranensi) e al contempo "riascoltare" e rileggere il "Discorso di proclamazione dell’Impero", tenuto da Mussolini dal balcone di piazza Venezia la sera del 9 maggio 1936:
Il 1° marzo 1924, su "L’Ordine Nuovo", Antonio Gramsci aveva già scritto: "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, RomoloAugustolo". Evidentemente gli ideologi imperiali avevano ignorato la lezione di Dante sulla Monarchia e sui "venticinque secoli" (Par. XXXIII, 95), come quella di Goethe sui "tremila anni" ("Libro del malumore", 1819).
* Una "lapide che lascia perplessi!", si cfr. la segnalazione di Nicola Fanizza.
Federico La Sala
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».. *
Sulla questione del ddl Zan.
Laici perché cristiani non privilegi ma libertà
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, venerdì 25 giugno 2021)
Perché ribadire l’ovvio in situazioni critiche? Forse per il fatto che lo dimentichiamo, come tralasciamo il buon senso e il radicamento nelle istituzioni. Il premier ieri non ha detto nulla di nuovo, ma, come dice Qoelet, non è mai superfluo rammentare che «non c’è nulla di nuovo sotto il sole!» (1, 9). In tal senso ribadisco quanto già espresso in diversi interventi. Una sana laicità è la nostra bussola. E la laicità l’Occidente la deve al messaggio evangelico: «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mc 12,17). Un loghion pronunciato da Gesù stesso, che mi piace interpretare nel senso di restituire a Cesare quel che è suo per dare a Dio ciò che gli appartiene, cioè tutto. Si tratta di «restituire» e qui entra in gioco la categoria giuridica del «risentimento», questione centrale nella ’Filosofia del diritto’ del beato Antonio Rosmini, il cui soggetto è la persona, «diritto sussistente».
E qui trova ampio spazio la legittimità di voler vedere riconosciuti i propri diritti da parte di minoranze per lungo tempo oppresse ed emarginate, spesso violentate. Poiché da cittadino italiano ritengo che sia la ’persona’ il principio architettonico della nostra Costituzione, non posso non scorgere in essa e nelle istituzioni che ha generato gli anticorpi più idonei per allontanare ogni possibile lesione dei diritti fondamentali. Nel nostro caso si tratta della libertà di pensiero e di educazione, il cui soggetto fondamentale non è lo Stato, ma la famiglia, al cui servizio vanno poste le istituzioni statali. E anche qui è in gioco qualcosa di decisivo. Gli anticorpi della nostra democrazia nei confronti di possibili devianze li avevo già messi in campo nella lettera al direttore di ’Avvenire’, pubblicata mercoledì 23 giugno: il Parlamento prima e poi, eventualmente, la Corte costituzionale verificheranno e si pronunzieranno circa la costituzionalità, come garanzia di libertà, della legge ancora in progetto sull’omotransfobia e per questo l’impegno dei laici è fondamentale. Né in questo processo si può cedere al ricatto della fretta, che non è mai buona consigliera e fa sì che la gatta generi dei gattini ciechi. Il campanello di allarme suonato dalla Chiesa cattolica, per mezzo del Vaticano, all’interlocutore italiano, se lo si legge senza paraocchi ideologici, significa una sola cosa: «Cesare non è Dio», e ne siamo felici... quindi si evocano l’umano e la persona come soggetto fondamentale del diritto.
Una riflessione che ha bisogno di tempo, di spazi e di libertà interiore, piuttosto che di strategici giochi elettoralistici. Nel suo discorso al Senato, ieri il premier ha ribadito la laicità dello Stato, ovviamente non confessionale, ma è tale proprio perché non è istituzione divina. Egli ha anche orientato verso il rispetto degli accordi internazionali, fra cui il Concordato. Illuminante ed estremamente lucido, a tal proposito, l’intervento del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin: «Ho apprezzato il richiamo fatto dal presidente del Consiglio al rispetto dei princìpi costituzionali e agli impegni internazionali. In questo ambito vige un principio fondamentale, quello per cui pacta sunt servanda. È su questo sfondo che con la Nota Verbale ci siamo limitati a richiamare il testo delle disposizioni principali dell’Accordo con lo Stato italiano, che potrebbero essere intaccate. Lo abbiamo fatto in un rapporto di leale collaborazione e oserei dire di amicizia che ha caratterizzato e caratterizza le nostre relazioni. Faccio anche notare che fino ad ora il tema concordatario non era stato considerato in modo esplicito nel dibattito sulla legge. La Nota Verbale ha voluto richiamare l’attenzione su questo punto, che non può essere dimenticato».
Né può sfuggire il fatto che Draghi, al pari di Parolin, abbia posto l’accento su una «laicità» che non significa ’neutralità’ o ’indifferenza’ nei confronti dell’esperienza religiosa e credente. E abbia insistito sull’attenzione alla plura-lità, attraverso cui tale vissuto si esprime in un Paese come il nostro, che è per tradizione ospitale e inclusivo di differenti culture e appartenenze, fra le quali, oltre quella tradizionalmente cattolica, si rendono sempre più consistenti quella islamica e quella del cristianesimo orientale. Anche in questo sta la nostra mediterraneità. E di tutto questo lo «Stato laico», di cui ha parlato il premier, non potrà non tener conto. Infatti, richiamando la sentenza della Corte costituzionale 203/1989, ha ribadito, come se ne fossimo ignoranti, o peggio lo fossero i parlamentari presenti, che laicità non significa «indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale».
Il Governo sta giustamente alla finestra, mentre il Parlamento (ora il Senato) sta valutando e ci auguriamo che sia illuminato anche dalla profezia ecclesiale cattolica, nel frattempo noi pensiamo all’uomo, al suo ruolo nel cosmo e nella storia e al suo destino ultimo, che non può non interpellare anche il presente. In questo senso, come ancora il beato Rosmini insegna, la Chiesa non chiede privilegi, ma «libertà» e le sue piaghe provengono dall’aver in altre situazioni troppo ceduto a compromessi dettati da scelte di potere, che non possono appartenere a chi vuole seguire Gesù di Nazareth.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile, recensito da Riccardo Chiaberge
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Per una nuova laicità, un nuovo cristianesimo!!! Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle ... e la fine del cattolicesimo costantiniano!!!
Federico La Sala
#Costituzione e #antropologia:
al di là della #zoppia #cecità e
#contraffazione della
#Trinità evangelica,
la #Monarchia trinitaria dei
#dueSoli di
#DanteAlighieri,
#oggi
#DANTE2021, #STORIOGRAFIA. -#MEMORIA DI UNA #FENOMENOLOGIADELLOSPIRITO ITALICO-ROMANO (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5889#forum3161063).
Il fascismo e la #storia, oggi
INTERVISTA. “Il fascismo e la storia” a cura di Paola S. Salvatori *
Dott.ssa Paola S. Salvatori, Lei ha curato l’edizione degli Atti del Convegno dal titolo Il fascismo e la storia, pubblicati dalla Scuola Normale Superiore: quale considerazione ebbe delle discipline storiche il regime fascista?
A Pisa, presso la Scuola Normale Superiore, il 16 e il 17 febbraio del 2017 è stato organizzato il convegno intitolato Il fascismo e la storia i cui risultati vengono pubblicati nel volume che stiamo presentando: è stata l’occasione per riflettere - con colleghi esperti di diverse epoche - sulla complessità di un fenomeno non solo culturale ma anche politico e identitario i cui lasciti sono giunti fino a noi.
Durante il Ventennio, l’utopia della costruzione dell’uomo nuovo - con la sua proiezione anche nella dimensione del futuro - funzionò da pungolo per una storicizzazione estrema di tutti i campi della vita quotidiana e intellettuale del Paese: la storia fu utilizzata e manipolata nella sua prospettiva più diacronica, conducendo a un’interpretazione del passato onnicomprensiva. L’uso politico dell’analogia storica fu dunque uno dei principali strumenti utilizzati dal regime per fabbricare e alimentare il consenso: attraverso una propaganda capillare, la storia contribuì a dimostrare la necessità teleologica dell’avvento del fascismo. Con la rappresentazione della sostanziale unitarietà dell’intera vicenda italica - dai tempi più remoti a quelli presenti - si legittimò l’irruzione di Benito Mussolini nell’attualità, come fosse uno svelamento che perfezionava e portava a maturazione un processo altrimenti incompiuto. Lo stesso duce utilizzò con disinvoltura i riferimenti al passato nell’ambito di discorsi pubblici e di interventi scritti.
Va ricordato che già nei due decenni precedenti la Marcia su Roma, Mussolini nella sua attività giornalistica e politica aveva spesso rievocato personaggi ed eventi della Roma antica, della Rivoluzione francese o del Risorgimento, riflettendo sui conflitti politici e sociali a lui contemporanei con modalità e intenzioni ovviamente molto differenti rispetto a quanto sarebbe accaduto dopo il 28 ottobre del 1922: su questi aspetti ho ragionato negli anni passati, lavorando specificamente sull’uso della storia nella retorica del giovane Mussolini.
Con la presa del potere, il ricorso al passato seguì alcune traiettorie evolutive che avrebbero condotto alla predilezione di specifici temi e di particolari personaggi: così, si pianificarono liturgie pubbliche e politiche in occasione di date e di ricorrenze significative, si celebrarono figure assurte al rango di «precursori» del fascismo stesso, si isolarono specifici aspetti della storia italiana che più di altri si prestavano a una rilettura politica.
Quale approccio alla storia greca, antica e moderna, caratterizzò l’età fascista?
Dopo gli studi fondamentali di Andrea Giardina, negli ultimi vent’anni la centralità del mito di Roma nella propaganda del Ventennio è stata riconosciuta e analizzata nei suoi molteplici aspetti: è ormai indubbio che l’ideologia fascista trovò nella romanità il principale esempio a cui richiamarsi. Recentemente, la storiografia ha iniziato a occuparsi anche dell’uso di quelle che possiamo definire «altre antichità»: si può quindi confermare che nel vagheggiamento fascista di un passato archetipico nel quale riconoscere la propria origine e il proprio riferimento proiettivo, anche la storia greca e quella etrusca si scioglievano in un continuo confronto con l’antica Roma, che è sempre rimasta il vero modello interpretativo.
Quando il 28 ottobre del 1940 l’Italia iniziò la campagna bellica in Grecia, gli intellettuali - archeologi, antichisti, filologi - dovettero assumere in una nuova ricostruzione il debito culturale e filosofico che la civiltà romana aveva contratto secoli prima con quella greca: si ricorse così a un parziale ripensamento della storia della Grecia antica che sfumava naturalmente in una nuova valutazione di quella contemporanea, legittimando politicamente e teoricamente l’aggressione a un popolo civile in nome della difesa dell’antica romanitas.
In che modo il fascismo affrontò il problema degli etruschi?
Il rapporto con gli etruschi costituisce una vicenda più problematica rispetto a quanto accaduto con la Grecia antica: si è parlato di «imbarazzo» creato dalla storia etrusca nella cultura italiana, poiché a essa già prima del Ventennio si legavano riflessioni di medici e antropologi sull’origine mediterranea o ariana di quel popolo. Sul finire degli anni Trenta, quando la questione della razza esplose con le drammatiche conseguenze a tutti note, la presenza degli antichi etruschi nella propaganda e nella cultura si intrecciò ai tentativi di trovare una combinazione di elementi scientifici e culturali che giustificassero un «razzismo italiano» autonomo rispetto a quello nazista.
Che rapporto intercorreva, nella concezione fascista, tra romanità e modernità?
La visione fascista della storia nazionale era di lunghissimo periodo, più che bimillenaria, come gli anniversari delle nascite di illustri poeti ed eroi dell’antichità romana che, per una casualità convenientemente sfruttata dalla propaganda, caddero negli anni Trenta.
Nel 1930 fu infatti celebrato il bimillenario della nascita di Virgilio, nel 1935-’36 di Orazio, nel 1937-’38 di Augusto, con una moltiplicazione di occasioni utili e preziose per sovrapporre la rappresentazione del passato imperiale romano al presente fascista. L’antica Roma offriva il più straordinario accumulo di precedenti storici che si potesse avere: proponendo un modello concreto e astratto al tempo stesso poiché fondeva caratteristiche politiche, etiche e culturali prelevate dalla fase repubblicana e da quella imperiale, elaborava un idealtipo di passato nel quale l’eternità di Roma assumeva una dimensione mistica. Roma era infatti il bacino dal quale estrarre continuamente esempi di virtù guerriere e morali, di comportamenti patriottici, di eroi a cui ispirarsi e a cui aspirare. In questa visione, si appiattivano ovviamente le tante fasi della storia romana per far emergere il predominio di Roma anche sulle antiche provincie in una visione di lunghissimo periodo, funzionale a rimarcare il suo primato spirituale e politico su tutta la storia passata e presente.
Quale interpretazione prevalse nell’Italia fascista di Comune e Signoria?
Della storia medievale, nella propaganda popolare furono esaltati soprattutto aspetti che da tempo sono concordemente analizzati con categorie che richiamano una dimensione folklorica: furono organizzati - e a volte inventati - pali cittadini e giochi ambiziosamente medievali, che rivendicavano specifiche identità municipali; restaurati e ricostruiti edifici, palazzi e piazze secondo stili che riecheggiavano quelli tipici del medioevo; riesumati presunti valori che fondevano insieme la combattività romana con la spiritualità cristiana. -Nel dibattito storiografico, i temi attorno ai quali gli storici medievisti si confrontarono riguardavano principalmente problemi relativi all’assetto statuale. Si trattava di questioni di primaria importanza che evocavano la genesi dell’idea di Italianità, la controversia sulla delega del potere, il rapporto tra la monarchia sabauda e il popolo italiano, la contrapposizione del concetto di comune e di quello di signoria. Nello specifico, l’esperienza del comune fu valutata per i suoi lasciti culturali come vicenda fondativa della nazione italiana; la signoria fu invece apprezzata fortemente per aver anticipato la realizzazione di uno Stato inteso in senso moderno, oltre che per il conferimento dei poteri da parte del popolo.
Quale giudizio espresse il fascismo sulla Rivoluzione francese?
L’ideologia fascista era il risultato della convivenza di componenti politiche differenti e che tali rimasero per l’intero Ventennio: non fu una ideologia monolitica, così come non fu monolitica l’interpretazione di una vicenda storica complessa come quella della Rivoluzione francese. Si può schematicamente riassumere che, accanto a posizioni di ascendenza sindacalista-rivoluzionaria proposte per esempio da Roberto Farinacci che vedevano nella rivoluzione mussoliniana del 1922 il superamento dell’impasse scatenata dalla rivoluzione del 1789, ve ne furono altre di più spiccata matrice cattolico-reazionaria profondamente avverse all’esperienza rivoluzionaria francese, altre ancora di stampo nazionalista, e infine di impronta liberal-nazionale.
Certamente, durante il Ventennio la storia francese fu pure valorizzata nei suoi sbocchi più grandiosi e imperiali, cioè prevalentemente attraverso la mitizzazione della figura di Napoleone, in un implicito (non sappiamo quanto lucido) tentativo di risolvere l’annoso intreccio tra l’originaria cultura rivoluzionaria mussoliniana, l’evoluzione nazionalista e antisocialista espressa nei tanti rivoli del regime, e l’incancellabile eredità della Rivoluzione francese presente anche nella politica italiana ottocentesca.
Quale lettura diede del Risorgimento il fascismo?
Il fascismo sperimentò un duplice atteggiamento nei confronti della più recente storia nazionale, riconoscendo al Risorgimento da un lato il ruolo fondante di genesi della rivoluzione italiana, dall’altro una sostanziale incapacità di completare il processo di unificazione territoriale e politica, con una adesione particolarmente stringente alla figura di Giuseppe Mazzini. Egli non fu di certo l’unico protagonista dell’Unità d’Italia a essere esaltato e celebrato durante il Ventennio (è sufficiente solo accennare alle celebrazioni per il cinquantenario della morte di Giuseppe Garibaldi, nel 1932, con - tra l’altro - l’emissione di una corposa serie di francobolli, la pubblicazione dell’edizione nazionale dei suoi scritti, l’allestimento di una mostra storico-documentaria a Roma); ma in Mazzini si fondevano il tema nazionale e quello sociale, permettendo una adesione al suo pensiero pressoché unanime, pur con inevitabili distinzioni.
Come si pose il regime fascista nei confronti degli studi storico-religiosi?
La sacralizzazione della politica compiuta dal fascismo esigeva una inevitabile collaborazione anche con quelle discipline che si occupavano proprio delle dimensioni del sacro e del religioso: fu il regime fascista a istituire a Roma la prima cattedra universitaria di Storia delle religioni già nel 1923. Subito dopo la presa del potere, si volle di fatto ordinare gli insegnamenti universitari in campo storico attraverso una politica di assegnamento delle cattedre e di concorsi che proseguì ancora negli anni Trenta. Si raggiunse comunque un relativo equilibrio tra quelle strategie chiaramente politiche che furono alla base di assunzioni e nomine di commissioni, e le ragioni intellettuali che le comunità scientifiche seppero far affermare sul piano professionale.
Quale approccio caratterizzava i manuali di storia nella scuola fascista?
La proposta pedagogica del fascismo fu impostata già nella scuola, attraverso scelte editoriali e didattiche nelle quali si evocava una presupposta continuità storica assicurata dal valore al richiamo generazionale: la storia era presentata come un valore affettivo familiare, e in esso il legame tra Risorgimento e Prima guerra mondiale creava il terreno più fertile per la nuova educazione nazionale.
Quale rappresentazione dei soggetti storici si riscontra nelle opere artistiche dell’epoca?
Il ruolo educativo che lo Stato assunse con l’obiettivo di costruire un uomo nuovo trovò uno strumento indispensabile nei mezzi di comunicazione di massa. La storia e la politica erano messe alla prova della divulgazione moderna, e il regime fascista superò tale prova. Grazie al cinema, alle arti, al teatro e alla fotografia (ampiamente utilizzata nelle tante mostre storico-espositive organizzate negli anni Venti e Trenta) il fascismo indirizzava le masse facendole sentire al centro di un grandioso progetto collettivo: l’estetizzazione della politica attuata attraverso manifestazioni nazionali, parate, esposizioni e documentari apologetici costituiva non solo un mezzo propagandistico, ma anche l’unica possibilità di incanalare e controllare le ansie rivoluzionarie del popolo.
Il regime si trovò così a far convivere antichi linguaggi culturali e nuovi codici di rappresentazione estetica in una coesistenza di mezzi espressivi, riuscendo a superare il rischio di una inevitabile competizione tra di essi: è quanto accadde col teatro e col cinema, ai quali furono affidati momenti diversi del progetto educativo fascista. Nel primo confluirono aspettative legate a quel gusto del melodramma che il popolo italiano esprimeva ormai da secoli nella predilezione per specifici tipi di letteratura, di poesia, di arte.
Persino il duce fu co-autore di tre copioni teatrali insieme al celebre drammaturgo Giovacchino Forzano: si trattava di soggetti legati a tre illustri personaggi della storia passata (Giulio Cesare, Cavour e Napoleone), nei quali Mussolini e Forzano vollero impersonare quelle individualità storico-eroiche che parevano essere antesignane del duce stesso, oltre che esplicitare la cruciale questione del rapporto tra individuo e masse. Ma il teatro avrebbe potuto subire la rivalità della grande innovazione che il fascismo impose nel racconto degli avvenimenti passati e presenti, cioè del cinema di finzione e narrativo. Al contrario, la convivenza portò a esiti per vari aspetti significativi, in alcuni casi fondendo le due anime e i due linguaggi: proprio Forzano, per esempio, fu anche autore e regista cinematografico, tra i principali protagonisti dell’industria del cinema del Ventennio. La storia diventò soggetto privilegiato di questo mezzo espressivo, ancora una volta con funzione pedagogica: il ricorso all’aneddoto e a episodi specifici trasformava il racconto filmico quasi in un racconto scolastico, poiché il passato, nel regime fascista, legittimò sempre il presente.
Paola S. Salvatori, storica contemporaneista, è contrattista di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e docente a contratto presso l’Università degli Studi Roma Tre. Studiosa delle politiche culturali e propagandistiche del fascismo e delle retoriche celebrative dell’Italia repubblicana, ha scritto saggi sul mito fascista della romanità, sull’uso della storia nella retorica nazionalista e fascista, sul rapporto tra razzismo, propaganda e politica, e sul ruolo degli intellettuali nel Ventennio. Ha pubblicato inoltre la monografia Mussolini e la storia. Dal socialismo al fascismo. 1900-1922, Viella, Roma 2016, e ha curato i volumi Nazione e antinazione. Il movimento nazionalista dalla guerra di Libia al fascismo (1911-1923), Viella, Roma 2016, e Il fascismo e la storia, Edizioni della Normale, Pisa 2020.
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. La lezione di Pirandello (1918) e di Eduardo De Filippo (1931):
A) PIRANDELLO (Un "Goj",1918) .
B)EDUARDO DE FILIPPO ("Natale in casa Cupiello", 1931) *
Natale in casa Cupiello è un’opera teatrale tragicomica scritta da Eduardo De Filippo nel 1931.
Genesi dell’opera
Portata in scena per la prima volta al Teatro Kursaal di Napoli (oggi Cinema Filangieri), il 25 dicembre 1931, Natale in casa Cupiello segna di fatto l’avvio vero e proprio della felice esperienza della Compagnia del "Teatro Umoristico I De Filippo", composta dai tre fratelli e da attori già famosi o giovani alle prime armi che lo diventeranno (Agostino Salvietti, Pietro Carloni, Tina Pica, Dolores Palumbo, Luigi De Martino, Alfredo Crispo, Gennaro Pisano). A giugno Eduardo aveva firmato un contratto con l’impresario teatrale che lo impegnava per soli nove giorni di recite per presentare il suo nuovo atto unico subito dopo la proiezione di un film. Il successo della commedia fu tale che la durata del contratto fu prolungata sino al 21 maggio 1932. -Originariamente si trattava di una commedia ad atto unico (quello che, nella versione definitiva, costituisce oggi il secondo atto), ampliato successivamente in due distinte fasi: la prima, nel 1932, vide aggiungersi l’attuale primo atto e la conclusiva, nel 1934[1] (secondo anche quanto dichiarato da Eduardo sul numero 240 della rivista Il Dramma uscito nel 1936) o nel 1937[2] o addirittura nel 1943 (secondo un’ipotesi avallata più tardi dallo stesso autore[3]), che configurò l’opera nella sua versione attuale, composta da tre atti. La complessa genesi della commedia portò Eduardo stesso ad affermare che essa era nata come un "parto trigemino con una gravidanza di quattro anni" [4].
Trama
La scena si svolge nell’arco di circa cinque giorni nella casa della famiglia Cupiello, della quale vengono rappresentate la camera da letto (atti I e III) e la sala da pranzo (atto II).
I atto
È la mattina dell’antivigilia di Natale. Luca Cupiello e sua moglie Concetta si svegliano, ma il loro risveglio è reso comicamente faticoso dalle bizze dell’uomo, che si lamenta per il freddo e per il pessimo caffè che lei gli ha preparato. Luca è un fervente amante delle tradizioni natalizie, e non vede l’ora di potersi dedicare maniacalmente alla composizione del Presepe, nonostante le critiche della moglie e del figlio Tommasino (Nennillo), che lo ritengono anacronistico (questa situazione costituirà una gag ricorrente per tutta la messa in scena). La sua impresa è inoltre resa difficoltosa dall’intervento di suo fratello Pasqualino, scapolo collerico in perenne guerra col pestifero Nennillo; Luca sembra inoltre avere alcune difficoltà nei movimenti e nel ricordare le cose, tragicomiche anticipazioni del dramma che seguirà. Irrompe in casa la figlia Ninuccia, agitata per l’ennesima lite con suo marito Nicolino. Ninuccia, che non ha mai amato il marito, vuole scappare con il suo amante Vittorio e confessa alla madre di voler lasciare Nicolino a cui ha scritto una lettera di addio. La donna, a causa delle forti resistenze della madre, ha un attacco nervoso e, nell’impeto, rompe alcune suppellettili e la struttura del presepe. Nel caos che segue Concetta ha un mancamento, e riesce a strappare a Ninuccia la promessa di fare la pace con Nicolino; tuttavia nel trambusto la ragazza perde la lettera, che sarà ritrovata da Luca il quale, ignaro di tutto, la consegna a Nicolino.
II atto
In casa Cupiello è tutto pronto per festeggiare la vigilia di Natale. Tommasino, ignaro della relazione della sorella, arriva a casa accompagnato da Vittorio che, oltre a essere l’amante di sua sorella, è anche suo amico. Il ragazzo insiste perché si trattenga qualche minuto a casa sua. Rimasti soli, Concetta chiede a Vittorio di andarsene immediatamente e permettere a Ninuccia di salvare il suo matrimonio con Nicolino: quest’ultimo infatti, dopo aver letto la lettera consegnatagli incolpevolmente dal suocero, è a conoscenza della loro relazione, e solo i copiosi sforzi di Concetta hanno evitato il peggio. In quel momento tuttavia rincasa Luca che, anch’esso ignaro della relazione extraconiugale della figlia, insiste perché Vittorio si fermi a cena. La serata prosegue con una tensione di sottofondo, stemperata dai pasticci di Luca, Nennillo e Pasqualino e da mille disavventure che costellano la preparazione della cena. Approfittando di un momento di solitudine, Ninuccia e Vittorio hanno un drammatico incontro che sfocia nell’esplosione della passione tra i due; Nicolino li sorprende nell’atto di scambiarsi un dolce bacio, e accusa Ninuccia e Concetta di averlo ingannato. I due uomini e Ninuccia abbandonano quindi la casa per potersi sfidare a duello. Mentre Concetta, rimasta sola in scena, si dispera, giungono Luca, Pasqualino e Tommasino vestiti da re magi con i loro regali per lei.
III atto
Venuto brutalmente a conoscenza della situazione familiare, Luca, per anni vissuto nell’illusione di aver creato una famiglia felice, ha un colpo apoplettico e si ritrova a letto in preda a difficoltà motorie e verbali per l’ictus sopravvenuto. L’intero vicinato è ormai costantemente presente al suo capezzale, dove Luca accusa deliri e allucinazioni che hanno come protagonista il genero Nicolino, che ha lasciato immediatamente la moglie e si è recato da alcuni suoi parenti a Roma. Pur nel delirio Luca spera ancora di vederlo riappacificato con sua figlia, la quale è distrutta dal dolore in quanto è perfettamente cosciente che su di lei ricadono le colpe della malattia del padre. Sopraggiunge il medico, che improvvisa una diagnosi incoraggiante alla moglie ed alla figlia di Luca, ma rivela invece al fratello la cruda verità: Luca non ha scampo e la sua morte è ormai questione di ore. Una improvvisa visita dell’amante Vittorio, che si sente moralmente responsabile dello stato di salute di Luca, ne provoca l’ennesimo equivoco allucinatorio e Luca, scambiandolo per Nicolino, arriva a benedire inconsapevolmente l’unione dei due amanti proprio all’arrivo del marito di lei, che viene subito trattenuto a viva forza e portato fuori dai presenti. Luca Cupiello, ormai definitivamente ripiegato nelle sue allucinazioni, si avvia così a morire ignaro ancora una volta della realtà.
Tommasino, alla domanda che suo padre gli rivolge in punto di morte, «Te piace ’o presepio?» ("Ti piace il presepe?"), alla quale egli in precedenza aveva sempre risposto di no con stizzita protervia, finalmente si "scioglie" e tra le lacrime gli sussurra un laconico sì, proprio mentre suo padre sembra entrare nella gioiosa allucinazione di un "enorme presepe nei cieli".
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale).
C) "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile).
Federico La Sala
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO ... *
«QUELLA ROMA ONDE CRISTO È ROMANO»: LA RICEZIONE DI DANTE NEL MAGISTERO PONTIFICIO CONTEMPORANEO
di VALENTINA MERLA *
In un clima di polemica tra cattolici e non cattolici, negli anni dell’Unità d’Italia, in cui i patrioti italiani avevano studiato la concezione politica dell’Alighieri incasellandola sotto l’egida del ghibellinismo anticlericale, Leone XIII sceglie la strada del dialogo con la società, progettando una riforma della cultura cattolica sulla base del tomismo. La sua ricezione di Dante è possibile proprio alla luce del tomismo: Leone XIII è, in effetti, secondo una definizione di padre Semeria, un’«anima dantesca», soprattutto per la significativa consonanza tra il suo pensiero sociale e la Monarchia (era stato proprio il suo intervento ad assolvere il trattato dantesco dall’accusa di eterodossia, escludendolo dall’indice dei Libri Proibiti). Infatti, come Dante, anche papa Pecci partecipa al dibattito sui rapporti tra Stato e Chiesa, riflettendo “laicamente” sul potere politico e sostenendo la reciproca indipendenza delle due istituzioni.
Alla morte dell’anziano pontefice sale al soglio pontificio Pio X, attento riorganizzatore del Catechismo della Chiesa Cattolica e sostenitore di una nuova concezione pastorale, che considera ogni strumento culturale, anche il testo dantesco, funzionale all’esigenza catechetica. Il pontefice incentiva, dunque, le iniziative in preparazione alla commemorazione del VI centenario dantesco, tra le quali una è particolarmente vicina ai suoi orientamenti pastorali. Si tratta di un lavoro di sinossi e comparazione tra il testo del catechismo del pontefice e la scrittura dantesca, che, in questo modo, viene frammentata al duplice scopo di supportare le affermazioni del catechismo e di dimostrare la perfetta aderenza del poeta al cattolicesimo. L’opera, firmata con lo pseudonimo d Minimo Sacerdote in Cristo, si intitola Il più bel ricordo del VI centenario di Dante, ossia Catechismo della Dottrina Cristiana pubblicato per ordine di sua Santità Pio X, meditato e studiato con Dante.
Una linea spartiacque nella rivalutazione dell’Alighieri da parte del magistero pontificio si ha con l’enciclica In praeclara summorum (1921), scritta da Benedetto XV per commemorare il VI centenario della morte del sommo poeta, che viene per la prima volta apostrofato come figlio prediletto della fede cattolica. Sulla scia del predecessore, sebbene in modi differenti, si colloca il riuso che dell’opera dantesca fa Pio XI, riportando nei suoi documenti ufficiali un ricco corredo di citazioni.
Ciò emerge maggiormente quando riflette sulla romanità della Chiesa, poiché papa Ratti risolve definitivamente la “questione romana”, affermando la necessità della reciproca collaborazione tra potere spirituale e potere politico.
Di questa collaborazione si fa simbolo la città di Roma (residenza del Papato e antica capitale dell’Impero di Roma), che assurge a figura della città di Dio, secondo la più canonica esegesi di Pg XXXII 102, verso prediletto dal pontefice e più volte citato. Con Pio XI Dante si presta per la prima volta, in modo significativo, ad essere rispolverato e letto criticamente. In effetti papa Ratti consacra la Commedia come un’opera di fede e se ne avvale come auctoritas a supporto delle argomentazioni dei suoi discorsi.
Ad imitare il suo esempio è Pio XII, in cui si nota una fitta trama di allusioni desunte dall’Alighieri soprattutto nei discorsi rivolti alla Pontificia Accademia delle Scienze (di cui era membro onorario). Queste prolusioni finiscono inevitabilmente per riflettere sulla vastità dell’universo, sede e immagine di Dio attraverso l’utilizzo della fonte dantesca.
Diversa è la fruizione di Dante da parte di Angelo Roncalli, il cui nome si lega inequivocabilmente al Concilio Vaticano II e all’esigenza di un rinnovato dialogo con il mondo intero, sicché anche la sua ricezione del poeta di Firenze si può ascrivere a questo desiderio di un più agevole confronto con la contemporaneità. Anche se in realtà, nel corpus degli scritti del pontefice, sia in quelli ufficiali che in quelli destinati alla scrittura privata, non se ne conserva una memoria significativa.
Vero e proprio punto di svolta nella lunga vicenda della ricezione dantesca è la lettera apostolica Altissimi cantus, che Paolo VI divulga il 7 dicembre 1965 in occasione del VII centenario della nascita di Dante. In essa il pontefice non esita ad appellare il sommo poeta con l’epiteto di teologo perché ha saputo comunicare le verità di fede servendosi della bellezza del verso. È, quella di papa Montini, una forte presa di posizione che innalza l’Alighieri al ruolo di maestro delle cose di Dio. Non a caso le citazioni del poema abbondano quando affronta temi particolarmente rilevanti, come l’amore di Dio; oppure quando parla del giubileo; numerosi sono poi i documenti che riflettono sul significato simbolico della città di Roma (in cui, a sostegno delle argomentazioni, viene citato If II 22-24 e Pg XXXII 102, evidenziando il significato provvidenziale che il poeta attribuisce all’Urbe).
Albino Luciani è ricordato dalla storia per il suo brevissimo pontificato, ma pur nella esiguità dei documenti del suo magistero, la fonte dantesca non passa sotto silenzio: l’Alighieri, infatti, è uno degli autori più citati dal papa bellunese. La prima interessante presenza si nota nella raccolta, pubblicata nel 1976, sotto il titolo di Illustrissimi. Lettere del Patriarca, in cui non mancano riferimenti danteschi espliciti, tra i quali i più interessanti si ravvisano nella lettera indirizzata a Casella, amico di Dante e personaggio della Commedia. -Tra i documenti che precedono l’elezione al soglio di Pietro, il più interessante è il messaggio quaresimale del 31 gennaio 1978, che risulta essere un vero e proprio microsaggio sul Purgatorio, perché il suo esordio trae spunto proprio da questa cantica.
Durante il periodo del pontificato, Giovanni Paolo I, sceglie di citare Dante nell’udienza generale del 20 settembre 1978, richiamando alla memoria l’esame teologico sulla speranza che il poeta affronta nel paradiso (Pd XXV).
Se per Paolo VI e per i suoi predecessori la scrittura dantesca assume una notevole rilevanza come auctoritas, nei discorsi di Giovanni Paolo II la vastissima gamma di citazioni, oltre che emergere nelle più svariate occasioni, predomina nelle riflessioni che hanno per argomento l’arte e il ruolo dell’artista.
Nel caso del pontefice polacco tale preponderanza assume un particolare rilievo perché, prima dell’elezione papale, Wojtyla è stato drammaturgo e poeta.
Il riuso di Dante si intravede non solo nei documenti ufficiali del magistero wojtyliano, ma anche nella sua produzione letteraria, in cui, al di là delle tracce intertestuali (irrisorie a mio parere), è possibile un accostamento a Dante, considerando non solo la concezione del ruolo del poeta e della poesia, ma anche lo sviluppo di alcuni nuclei tematici, ad esempio: il legame con le terra natia; la ricerca problematica di Dio; l’attenzione alla storia contemporanea considerata nella prospettiva escatologica; l’incontro con l’uomo, la concezione dell’io autoriale come “poeta visionario”. Si possono notare anche confluenze dal punto di vista stilistico come, ad esempio, l’insistenza sulle sfere semantiche dell’acqua, del fuoco, della luce, del viaggio, e ciò soprattutto nell’ultimo lavoro poetico, risalente al 2003: il Trittico romano.
Interessanti sono anche i documenti ad argomento prettamente dantesco. Tra questi, molto significativa è la lettera indirizzata a Mieczyslaw Kotlarczyk, datata 27 maggio 1964 e risalente al periodo in cui Karol Wojtyla era vescovo di Cracovia. Come già nel magistero dei suoi predecessori, anche nei documenti di Giovanni Paolo II le presenze dantesche non sono sporadiche e casuali: numerosissime sono quelle mariane, (desunte essenzialmente da Pd XXIII 73-74, Pd XXIII 88-89 e Pd XXXII 85-87, da Pd XXXIII 1-18). Tra le citazioni ricorrenti si annovera quella riferita all’Ulisse dantesco (If XXVI 118-120) e quella che descrive la scelta ascetica di san Pier Damiani (Pd XXI 117).
La Commedia non è ignorata neanche da papa Ratzinger. È esemplare in tal senso il messaggio per l’incontro promosso dal Pontificio Consiglio Cor Unum, il 23 gennaio 2003 in cui il pontefice, sin dall’esordio, afferma di aver attinto da Dante lo stimolo per elaborare l’intera prolusione. La fonte dantesca è, inoltre, ridondante nei discorsi mariani: è come se i luoghi topici della mariologia dantesca avessero delineato in modo talmente ineguagliabile il profilo di santità della Madre divina, da pretendere di essere richiamati alla memoria, proprio per la loro ineguagliabile bellezza.
* Scheda: Cineca Iris (Università di Foggia, Tesi di dottorato - 24-giugno-2014).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
*
Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
UNA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" ITALICO-ROMANO. L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma: *
A) Mussolini, Discorso dell’anno IX - Roma, 27 ottobre 1930: "Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, è universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. -Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, unì Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo.
Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. Per questo noi sorridiamo quando dei profeti funerei contano i nostri giorni. Di questi profeti non si troverà più non solo la polvere, ma nemmeno il ricordo, e il Fascismo sarà vivo ancora. Del resto ci occorre del tempo, moltissimo tempo, per compiere l’opera nostra. Non parlo di quella materiale, ma di quella morale. Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. È una fatica grandiosa.
Il Risorgimento non è stato che l’inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno per giorno, in questa opera di rifacimento del carattere degli italiani [...]"(Messaggio per l’Anno Nono - Roma, 27 ottobre 1930, in B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIV, p. 283).
B) Mussolini - Milano, Piazza Duomo, 25 ottobre 1932: "Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che questo secolo decimoventesimo darà il secolo del Fascismo. Sarà il secolo della potenza italiana. Sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere direttrice della civiltà umana. Perché fuori dai nostri principi, e soprattutto in tempi di crisi, non c’è salvezza né per gli individui e tanto meno per i popoli.
Fra dieci anni - lo si può dire. Senza fare i profeti - l’Europa sarà cambiata. Non da ora si sono commesse delle ingiustizie, anche contro di noi, soprattutto contro di noi. E niente di più triste il compito che vi spetta di dover difendere quello che è stato il sacrificio magnifico di sangue di tutto il popolo italiano. [...] Tra un decennio l’Europa sarà fascista o fascistizzata!
L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma [...]" (B. Mussolini, Opera Omnia, XXV, pp. 147-148).
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAFIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924). IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO : MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
La Chiesa di Pio XII e i totalitarismi *
di Anna Foa, storica *
Torna ad accendersi il dibattito sulle responsabilità della Chiesa di Pio XII nei confronti della Shoah, in concomitanza dell’apertura dell’Archivio Apostolico Vaticano (già Archivio Segreto) per gli anni del suo pontificato. E non manca chi, pur fra gli storici, avanza scoop azzardati, data la brevità del tempo concesso dall’epidemia di coronavirus ai ricercatori, una settimana appena, e il fatto che molte delle nuove scoperte non modificano che in minima parte realtà note da decenni alla storiografia (come ad esempio, a proposito della conoscenza da parte del Vaticano di quanto stava accadendo in Polonia, sappiamo già dal libro di Walter Laqueur del 1980).
Di tutt’altro tenore è il libro di David Bidussa La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi tra il 1932 e il 1948, che esce in questi giorni per le edizioni Solferino. Un libro intelligente, innovativo e carico di suggestioni e di stimoli. Un libro inoltre che ha il grandissimo merito di ricollocare in un contesto assai più ampio, quello dell’atteggiamento della Chiesa di fronte ai totalitarismi e ai fascismi, il problema dello specifico ruolo di Pio XII di fronte allo sterminio nazista, con un approccio che consente di liberarsi finalmente dal confronto tra leggenda nera e leggenda rosa, diventate entrambe, più che uno stimolo, un vero e proprio ostacolo alla conoscenza. Il libro è, come dicevo, molto ricco e tocca temi di vasto respiro. Più che una recensione, queste mie note vogliono essere quindi soprattutto un invito alla discussione, un’apertura di dibattito, in cui mi soffermerò soprattutto sull’impianto generale del libro.
Al centro dello studio di Bidussa sono gli anni fra il 1932 e il 1948: sedici anni che vedono l’affermarsi dei fascismi e dei totalitarismi, le leggi razziste e l’antisemitismo razziale, la guerra di Spagna, la guerra, la Shoah, il dopoguerra e la nascita di Israele. Per la Chiesa, sono gli anni dei Concordati con fascismo e nazismo, del pontificato di due pontefici spesso contrapposti l’uno all’altro, dell’emergere di un razzismo basato sul sangue difficile da conciliare con la dottrina cattolica, della neutralità nel corso della guerra, del controverso atteggiamento di fronte alla Shoah, degli aiuti dati agli ebrei perseguitati, del ritorno ad un antigiudaismo che non avrà tuttavia vita lunga dato il peso della frattura che la guerra e la Shoah hanno avuto sull’Occidente e l’avvicinarsi della svolta conciliare.
Merito grande del libro di Bidussa è quello di aver sempre tenuto presente il nesso tra le vicende storiche più generali e le scelte del papato. In questa prospettiva, assume particolare rilievo l’importanza attribuita alla guerra di Spagna, una guerra in cui tutti coloro che avrebbero combattuto il nazismo videro i prodromi della guerra, la sua anticamera (“Oggi in Spagna, domani in Italia”, affermava Carlo Rosselli) e in cui la Chiesa vide uno scontro di civiltà, una crociata da appoggiare senza tentennamenti. In quel contesto la difesa dell’identità nazionale cristiana era affidata alle armi di Mussolini e di Hitler. Un tema su cui poco si è riflettuto nel contesto più generale del rapporto tra Chiesa e totalitarismi e la cui analisi può aggiungere tasselli significativi di conoscenza a questi controversi problemi.
Oltre ad allargare il quadro storico complessivo, Bidussa si propone di estendere anche il quadro cronologico: ad essere analizzati non sono solo gli anni della guerra, ma anche quelli che li precedono e li seguono, che egli considera altrettanto importanti. Quelli cioè in cui la Chiesa elabora giudizi e politiche sui totalitarismi, come anche sui fascismi, e quelli che seguono, quelli della ripresa della tradizione antigiudaica, dello schierarsi della Chiesa in funzione anticomunista, della sua posizione rispetto alla nascita di Israele. Molto attento è inoltre l’autore a distinguere non solo fra le diversi posizioni all’interno della Chiesa ma anche sui mutamenti delle politiche della Chiesa nei confronti della guerra e quindi anche nei confronti della politica nazista di sterminio degli ebrei.
La svolta tra una politica di neutralità ed una di avvicinamento alle potenze alleate è, analizza Bidussa, collocabile fra il 1942 e il 1943, accompagnata da un aumento della sensibilità, non solo della Chiesa ma in genere dell’episcopato sia in Italia che negli altri paesi occupati, nei confronti dello sterminio degli ebrei. Sono i mesi in cui, ad esempio, dopo la Rafle du Vel d’Hiv, molti vescovi francesi denunciano dai pulpiti le deportazioni, senza che i nazisti e i collaborazionisti di Vichy reagiscano ed anzi riuscendo ad impedire o a rallentare le deportazioni (contrariamente a quanto succede invece, com’è noto, in Olanda).
Parlare di atteggiamento della Chiesa verso i totalitarismi e non di Chiesa e Shoah, allargare quindi la prospettiva, contestualizzando la politica della Chiesa entro una storia più ampia che non riguarda solo gli ebrei e l’antisemitismo, offre alla ricerca e alla riflessione storica dei notevoli vantaggi. Il primo dei quali è quello di uscire da un’ottica giudeocentrica, quella legata per intenderci ad una concezione dogmatica della Shoah, che la vedeva come un capitolo assolutamente unico rispetto alla storia del mondo, un momento tragicamente glorioso dell’eterna storia ebraica. Un conseguenza che Bidussa non esplicita apertamente, ma che emerge con chiarezza dall’intero impianto del libro e che la frase di Claudio Pavone sulla storia come nemica di ogni fondamentalismo, posta come esergo al libro, non fa che confermare.
In sostanza, un libro che spero farà discutere, dal momento che si muove fuori dagli schemi precostituiti e dalle banalità del senso comune storiografico. Un libro di storia e di riflessione, un libro di cui c’era davvero bisogno.
*Anna Foa, storica
Moked/מוקד il portale dell’ebraismo italiano 15/05/2020 - 21 אייר 5780
Chiesa.
Il primato del Papa e l’infallibilità, i due dogmi compiono 150 anni
Approvati dal Concilio Vaticano I, affrontano temi dibattuti per secoli. Lo storico Fantappiè: una scelta per ribadire la sovranità spirituale della Chiesa. Il Vaticano II aprirà poi alla collegialità
di Filippo Rizzi (Avvenire, sabato 18 luglio 2020)
Era il 18 luglio 1870, esattamente centocinquanta anni fa, quando veniva promulgata la Costituzione Pastor Aeternus approvata dal Concilio Vaticano I. Con questa Costituzione il Concilio presieduto dal futuro beato il papa Pio IX ha definito due dogmi della Chiesa cattolica: il primato di giurisdizione del Vescovo di Roma e l’infallibilità papale. Un evento di portata storica che suscitò reazioni fortissime sia all’esterno sia in alcuni settori della Chiesa, provocando lo scisma dei “vecchi cattolici”.
Il documento venne approvato due mesi prima della fine del potere temporale dei Papi che avvenne con l’ingresso delle truppe piemontesi a Porta Pia a Roma.
A giudizio di Carlo Fantappiè, docente di storia del diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, il testo conciliare «rappresentò il coronamento di un processo di verticalizzazione interna alla Chiesa, dall’età gregoriana al Concilio di Trento, dopo la sconfitta delle tesi conciliariste intorno al primato del Concilio sul Papa e la consacrazione delle sue prerogative magisteriali dopo secolari discussioni intorno alla infallibilità del Papa».
Infatti, se fin dai primi secoli fu riconosciuto il ruolo del Vescovo di Roma come «custode della fede», nell’età moderna, prima Lutero e i riformatori, poi i gallicani e i giansenisti, tentarono più volte di negare o di limitare l’infallibilità papale.
Il professore che è anche ordinario di diritto canonico all’Università Roma Tre si sofferma sul legame stretto che si venne a creare nel corso dell’Ottocento fra l’affermazione del potere assoluto di governo del Papa nella Chiesa, sollecitato dalle correnti ultramontane e dal pensiero controrivoluzionario di De Maistre, e la formazione della sovranità negli Stati-nazione.
«Il conflitto fra Stati e Chiesa romana si venne a focalizzare sul problema della sovranità e dell’appartenenza dei fedeli alla Chiesa o alla nazione. Pio IX volle affermare la sovranità spirituale della Chiesa con i due dogmi del Vaticano I contro la sovranità temporale degli Stati che assoggettavano le strutture della Chiesa ai poteri secolari e minacciavano lo Stato pontificio».
In questo secolo e mezzo si è avvalso della prerogativa dell’infallibilità papale Pio XII per la proclamazione nel 1950 del dogma dell’Assunzione della Vergine in anima e corpo in Cielo.
Fantappié si sofferma su alcuni aspetti della Pastor Aeternus che, visti con gli occhi di oggi, possono apparire controversi. «Il testo definitivo che noi conosciamo - spiega - è concentrato sulle prerogative del Papa. In verità si pensava di elaborare una seconda Costituzione che completasse gli aspetti mancanti ma, a causa della sospensione del Vaticano I, ciò non fu possibile.
Anche per questo il Vaticano I fu un “Concilio monco”. In questa Costituzione avviene un sbilanciamento dottrinale a favore delle funzioni e dei poteri del Vescovo di Roma mentre vengono sottaciuti i diritti e le prerogative dell’episcopato come la partecipazione della “comunità dei fedeli” all’elaborazione del magistero e della vita della Chiesa. Per la verità diversi padri conciliari si resero conto di questo “sbilanciamento”. Una lacuna che sarà colmata cento anni dopo solo con il Vaticano II».
Inoltre osserva: «I padri conciliari ebbero l’avvertenza di restringere le prerogative del Pontefice quando egli parla “ex cathedra” nella sua veste di “pastore e dottore di tutti i cristiani” in materia di fede e di costumi, cioè lasciando lo spazio all’idea che anche un Papa quando esprime una semplice opinione può errare....». Bisogna distinguere infatti fra infallibilità e inerranza.
Fantappié legge soprattutto il filo rosso di continuità «non solo ideale di magistero» che i successori di Pio IX (in particolare Giovanni XXIII e Paolo VI, «entrambi grandi estimatori di papa Giovanni Maria Mastai Ferretti») hanno intravisto nel Vaticano II come «il completamento di ciò che non fu possibile realizzare durante l’assise conciliare del 1869-1870».
Di qui la riflessione finale: «In un certo senso lo stesso cardinale e oggi santo John Henry Newman comprese prima di altri che ogni Concilio, incluso il Vaticano I, doveva essere letto alla luce di quelli precedenti. Egli era convinto che, proprio perché il Vaticano I fu oggetto di “grandi opposizioni e prove” a livello di discussioni teologiche, avesse avuto bisogno di un riassetto e di un riequilibrio che ridefinisse quelle verità di fede che rimanevano valide. E cento anni dopo il suo auspicio fu esaudito con il Vaticano II. Per questo Newman per le sue intuizioni è considerato tra i migliori ermeneuti del Vaticano I e il precursore, secondo Jean Guitton, del Concilio successivo».
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Democrazia e cristianesimo
Per una democrazia inclusiva
di Dario Antiseri (L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2019)
In tema di democrazia una domanda ineludibile è la seguente: l’essere cristiano è compatibile con la laicità dello Stato? O, rovesciando l’interrogativo, lo Stato laico sarebbe stato possibile senza l’avvento del cristianesimo? Nella pratica politica, il relativismo - ha affermato qualche anno fa l’allora cardinale Joseph Ratzinger - è benvenuto perché ci vaccina dalla tentazione utopica. E novità essenziale del cristianesimo per la storia è che «fino a Cristo l’identificazione di religione e Stato, divinità e Stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo Stato. Poi l’islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità».
In realtà, «da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell’amore che attrae. Egli dice “attirerò tutti a me”. Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo Stato [...]. I padri hanno pregato per lo Stato riconoscendone la necessità, ma non hanno adorato lo Stato».
Questa, ad avviso di Ratzinger, è «la distinzione decisiva» - una distinzione che rappresenta uno straordinario punto di incontro tra il pensiero cristiano e cultura liberal-democratica. «Io penso - afferma Ratzinger - che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando una nuova libertà. Lo Stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo Stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo Stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello Stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal-democratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa».
Il cristiano de-assolutizza, cioè relativizza, il potere politico; non può servire a due padroni: Dio e il dio-denaro; non può genuflettersi davanti all’altare di una ragione trasformata in dea. E dev’essere fedele al comandamento di amare il prossimo come se stesso. Ed è esattamente in base a questi princìpi che il messaggio cristiano, per dirla con Pëtr J. Čaadaev, «è più che storia, più che psicologia, è la fisiologia dell’uomo europeo». Thomas S. Eliot: «Un singolo europeo può non credere che la Fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice, e fa, scaturirà dalla parte di cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato». Per questo, è ancora Eliot a parlare, se il cristianesimo se ne va, è l’Europa che scompare: «Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura; e allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie».
In altre parole, la decadenza dell’Europa è una decadenza spirituale: è l’allontanarsi degli europei dalle idealità cristiane. E quando gli ideali della fede cristiana si sono spenti, l’Europa - annota Röpke - ne ha cercato «un surrogato nelle ideologie politico-sociali (le “religioni sociali”, come le ha definite Alfred Weber): il socialismo, il comunismo e, soprattutto, il nazionalsocialismo».
E oggi che cosa è rimasto nella mente di non pochi cittadini e soprattutto - e purtroppo - di non pochi dei nostri giovani, una volta lontani dalle idealità cristiane? Rimane l’idolatria del potere sugli altri, considerati e trattati come oggetti delle proprie voglie; rimane l’idolatria del denaro quale fonte perenne che alimenta la vasta fenomenologia della corruzione, con migliaia e migliaia di giovani e meno giovani che scorrazzano sul palcoscenico del gran teatro dell’illegalità; si impone una situazione dove alle ragioni della legge si sostituisce la ragione della forza o, più esattamente, la non-ragione di bande violente di intolleranti - di predoni divorati dalla brama di vestirsi da padroni - padroni del narcotraffico e, dunque, padroni della vita e della morte altrui.
di Dario Antiseri
Professore emerito di Epistemologia delle scienze sociali - luiss, Roma
L’Osservatore Romano, 23.10.2019.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
NELL’ORIZZONTE DELL’IMMAGINARIO DI COSTANTINO (“IN HOC SIGNO VINCES”). Lorenzo Scupoli, Francesco di Sales, e Maria Gaetana Agnesi ....
PER COMPRENDERE come e perché il libro di Lorenzo Scupoli (nato intorno al 1530 a Otranto, l’antica Hydruntum, che cinquant’anni prima era stata teatro del tragico martirio di ottocento suoi concittadini, decapitati dai turchi sul colle della Minerva), sia diventato un “bestseller senza tempo” (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/01/lorenzo-scupoli-1530-1610-di-otranto-e-il-suo-best-seller-senza-tempo/), non è male RICORDARE CHE
A) [...] il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli va collocato all’interno di una ricca e articolata produzione centrata sulla nozione di ‘milizia cristiana’, che poteva esibire un precedente di assoluto rilievo come Le armi necessarie alla battaglia spirituale di Caterina da Bologna e visse la sua stagione più feconda nei convulsi anni del Concilio di Trento e nei decenni successivi [...]” (cfr.: http://www.ereticopedia.org/lorenzo-scupoli).
B) “Francesco di Sales considerava un bene prezioso il Combattimento spirituale, che portava sempre con sé da ben diciotto anni, come ricorda in una lettera del 1607”, E CHE “Discutendone con l’amico e corrispondente epistolare Jean-Pierre Camus, il Sales espresse l’opinione che il Combattimento dello Scupoli costituiva per i teatini, mutatis mutandis, ciò che gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio avevano rappresentato per i gesuiti” (op.cit.),
C) “[...] Il Combattimento spirituale fu una delle letture preferite di Maria Gaetana Agnesi, newtoniana e matematica di respiro europeo, il cui Cielo mistico - rimasto a lungo inedito - attinge soprattutto alla spiritualità teatina dei primordi, a sant’Andrea Avellino e a Lorenzo Scupoli, che con l’ascetica dell’imitatio Christi e la devozione della Croce offrivano immagini e suggestioni di straordinaria efficacia psicologica e visiva. Agnesi possedeva il Combattimento in un’edizione padovana del 1724 e di certo doveva ritrovarvi molte idee proprie, che sul piano spirituale riflettono una fede di matrice teatina, attenta alle deliberazioni del Tridentino ma sensibile alle istanze riformatrici di stampo muratoriano, in dialogo continuo con le esigenze della ragione e la sensibilità tipica dei Lumières. In tale contesto iniziò a diffondersi a metà Settecento il mito che Agnesi, da precoce adolescente qual era, aveva tradotto in greco il Combattimento spirituale di Scupoli [...] (op.cit.).
Federico La Sala
NOTA
SULL’immaginario del cattolicesimo romano e sull’ "istanze riformatrici di stampo muratoriano", nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
FLS
LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.... *
L’ORIZZONTE DELLA CIVILTÀ E I DRAMMI CON CUI CONVIVIAMO
di don Paolo Farinella (la Repubblica, 10 giugno 2018)
«Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, sono della stessa essenza. Quando il tempo affligge con il dolore una parte del corpo (anche) le altre parti soffrono. Se tu non senti la pena degli altri, non meriti di essere chiamato uomo». Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu.
Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran 1203 - 1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, « Adamo » non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa « Umanità - Genere Umano » , senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale. L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di « civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
Due giorni fa, di mattina presto, un’amica mi ha inviato due video ripresi nei pressi della Regione Liguria dove dormivano persone per terra, « figlie di Adamo » , carne e sangue « della sua essenza » . Mi sono chiesto se la nostra civiltà non stia regredendo verso la preistoria, verso il nulla.
Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: « Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova sarà restaurata la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz. Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti.
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile)
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
I "PROMESSI SPOSI": DON RODRIGO, DON ABBONDIO, E QUEL "RAMO D’ORO" DEL LAGO DI COMO! Liberare gli studenti dalla "boria" dei "sapientissimi" proff. e dalle sapientissime proff.!!!
“Liberiamo gli studenti dai Promessi sposi”
La noia di leggere Manzoni a quindici anni
I "Promessi sposi" sono testo obbligatorio dal 1870. Ora docenti come Giunta e Gardini, e scrittori come Camilleri, Terranova e Trevi chiedono di cambiare. Per salvare le prossime generazioni di lettori
di Marco Filoni ("pagina 99", 19 maggio 2017)
Facciamo un esperimento. Provate a immaginare una sensazione, un’immagine che vi torna alla mente dei Promessi sposi. D’accordo, a tutti più o meno risuona il famoso incipit Quel ramo del Lago di Como... Ma provate a far emergere dai vostri ricordi qualcosa che più che a mezzogiorno “volge” alle vostre emozioni. -Siate sinceri: pensate a un misto di noia e fastidio? Bene, la cosa non deve preoccuparvi. Fatti salvi gli studiosi, rientrate nella quasi totalità della popolazione italiana che, a scuola, ha letto le pagine dei Promessi sposi. Lo chiamano “effetto-Manzoni” e, secondo molti, sarebbe alla base di una successiva ripulsa verso la letteratura di molti giovani.
C’è però una considerazione che forse è arrivato il momento di fare. Ovvero: quanto questo romanzo ottocentesco (la prima versione è del 1827, la sua edizione definitiva uscì fra il 1840 e il 1842) è davvero costitutivo del carattere nazionale dell’Italia?
La domanda non suoni peregrina. Se la sono posta allo scoccar d’ogni decennio funzionari ministeriali, scrittori e insegnanti dal 1870 in poi - alternando elogi delle pagine manzoniane a severi giudizi sulla loro utilità, proponendo alternative (le Confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo nel 1922, fra gli altri) e netti rifiuti (come Giosuè Carducci «perché dalla lingua dei Promessi sposi a certa broda di fagioli non c’è traghetto e dall’ammagliamento logico dello stile e discorso manzoniani alle sfilacciature di calza sfatta di cotesti piccoli bracaloni c’è di mezzo un abisso di ridicolo»).
Sul nuovo numero di pagina99, in edicola e in versione digitale, pubblichiamo una lista dei libri che sono le letture obbligatorie in differenti Paesi del mondo (compilata da Daryl Chen e Laura McClure per il sito dei Ted Talks). Perché sapere cosa un Paese fa leggere ai suoi giovani ci dice qualcosa di quel Paese. Prendiamo la Germania, dove si legge Il diario di Anna Frank (scritto in olandese, non in tedesco). Per non dire dei molti Paesi che fanno leggere romanzi scritti negli ultimi decenni: per esempio il Pakistan che propone Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid (2007).
Verrebbe da chiedersi, con Italo Calvino, cos’è oggi un classico... E nel rispondere a questa domanda ci vorrebbe forse un po’ di coraggio per superare un certo familismo culturale che investe la nostra società: i nostri padri vogliono che studiamo le stesse cose che hanno studiato loro, così come noi vogliamo che i nostri figli studino quello su cui siamo incappati noi stessi. Una sorta di immobilismo che ritroviamo esplicitato nelle così dette riforme della scuola italiana, alla cui crisi si accompagna una mancanza di coraggio (ricordate don Abbondio?) forse insita nel nostro patrimonio culturale...
(federico la sala)
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
La Chiesa sotto l’albero di Cesare
di Franco Garelli (La Stampa, 29 gennaio 2011)
«Con tutto ciò che da penne cattoliche è stato scritto contro il fascismo si riempirebbe a stento uno scaffaletto di libreria; con quanto è stato scritto nello stesso periodo contro il comunismo, una biblioteca». Questa frase di Jemolo, riferita al ventennio italiano dopo la Grande Guerra, ben illustra un paradosso del rapporto tra religione e totalitarismi nell’epoca dei fascismi.
Verso i regimi totalitari che in quel periodo conquistavano il potere in Europa, la posizione dei credenti e delle chiese cristiane è stata assai diversa. Di ferma e unanime condanna per il bolscevismo, per la sua furia di estirpare la religione dalla coscienza del popolo; di rapporti più alterni e ambivalenti verso il fascismo e il nazionalsocialismo. Questi ultimi, infatti, hanno spesso blandito la religione cristiana a fini politici, presentandosi a molti credenti come un baluardo contro quelli che le chiese di allora (la cattolica soprattutto) consideravano i veri nemici: da un lato appunto il comunismo sovietico, dall’altro la modernità liberale e la democrazia laica.
Proprio il problema della compatibilità tra totalitarismo e cristianesimo è l’oggetto dell’approfondita ricerca di Emilio Gentile, storico del fascismo e delle religioni della politica: il suo "Contro Cesare" ripercorre il dramma vissuto dalle coscienze cristiane nel conflitto tra il primato di Cristo e quello di Cesare, prima nella Russia sovietica e poi nell’Italia fascista e nella Germania di Hitler. I tre totalitarismi avevano in comune molti tratti, tra cui l’idea di una radicale trasformazione della società, un’interpretazione «religiosa» e sacra della politica (con tanto di simboli, riti, metafore, culto del capo), una nuova fede mitica nell’uomo e nella storia, l’elaborazione di credenze «per le quali milioni di persone erano pronte a soffrire e a morire»; e inoltre una leadership capace di mobilitare le masse e che sapeva di dover fare i conti con le chiese e le religioni per conquistare il popolo.
Per espandere il suo disegno, anche il bolscevismo fu all’ inizio duttile verso la chiesa ortodossa, consapevole che la religione è come un chiodo: se lo colpisci sulla testa non fa altro che conficcarsi più a fondo. Tuttavia, la politica rivoluzionaria divenne presto anticlericale, confiscando i beni della chiesa, privandola dei diritti giuridici, contrastando la resistenza del clero e del popolo credente con spietate repressioni; rimandando al mittente gli appelli lanciati dal Vaticano a sostegno dei fratelli ortodossi. Per contro, in Italia e in Germania, gran parte del clero e dei credenti non riconobbe la natura anticristiana del fascismo e del nazionalsocialismo, ritenendoli congruenti con gli interessi e gli scopi delle chiese cristiane. Così solo dopo un lungo periodo di appoggi e riconoscimenti, di patti e sostegni reciproci - ma anche di silenzi e conflitti - apparve evidente che i Cesari totalitari intendevano di fatto sopprimere le Chiese e sostituire la mistica del Vangelo con quelle della Razza, del Sangue, della Nazione, della Forza, della Guerra.
In quegli anni non mancarono - da parte del Papa e di prelati vaticani, come di alti esponenti delle chiese protestanti - forti denunce e condanne di principi del fascismo e del nazionalsocialismo che erano in aperto contrasto con la dottrina e l’etica cristiana, soprattutto il totalitarismo e il razzismo; anche se «non si giunse mai alla condanna integrale dei due regimi».
Solo una minoranza di credenti, sia di fede protestante che cattolica, avvertì da subito di essere di fronte alla barbarie, per cui combatté i due regimi senza tentennamenti e ambiguità, pagando di persona (con l’esilio, la persecuzione, la tortura, anche con la morte) la scelta antitotalitaria e l’idea che la libertà religiosa è la premessa e la condizione della libertà politica.
Il saggio di Emilio Gentile è importante anche perché ci ricorda che sovente la storia si ripete, e che molte vicende di oggi - pur assai meno drammatiche di quelle del periodo qui analizzato - hanno antiche radici. La prudenza è per la chiesa cattolica una virtù perenne, praticata anche nel ventennio fascista. Quando nel 1922 l’«uomo formidabile» (Mussolini) assunse il governo dello Stato italiano col consenso del sovrano, la Santa Sede salutò l’evento come «necessario» per il paese o come ilmale minore. A padre Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica di Milano, che chiedeva come comportarsi verso il nuovo governo, Pio XI rispondeva: «Lodare no. Fare opposizione aperta non conviene, essendo molti gli interessi da tutelare. Occhi aperti».
In effetti l’albero del duce non fu avaro di doni per la chiesa del tempo, appagando desideri e rivendicazioni frustrati per molti decenni dai governi liberali, anticlericali e massonici: introducendo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari, parificando le scuole cattoliche alle pubbliche, facendo esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, istituendo la figura dei cappellani nei corpi «militari», dando più risorse economiche al clero e alle opere della religione, difendendo la moralità pubblica e la sacralità del matrimonio, sino a risolvere la questione romana e giungere alla Conciliazione tra lo Stato italiano e la Chiesa di Roma.
Scambi come questi ricorrono nel corso della storia, offrendo alla chiesa un ruolo di rilievo nella società a difesa e promozione degli interessi e dei valori religiosi, anche se a lungo andare possono invischiarla in un rapporto ambiguo col potere politico che ne condiziona la missione profetica.
Il Vangelo secondo Ruini
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 28.12.2010)
Per Natale il cardinale Ruini porta la buona novella che la “stabilità è un bene”. Sottinteso: i cattolici dell’Udc appoggino Berlusconi. La cometa indica un governo per le riforme. Colpisce nell’ampia intervista del cardinale, apparsa sul Corriere della Sera, l’impronta tutta politica senza il minimo guizzo di un’ispirazione proveniente dall’annuncio evangelico di un Dio, incarnato per portare all’umanità il messaggio delle Beatitudini. Un messaggio inquieto, che non lascia le cose al loro posto ma sovverte tutto ciò che è ingiusto, disumano, dis-amore.
Spiega il cardinale, di nuovo molto ascoltato da Benedetto XVI, che quanto dice la Chiesa spesso è controcorrente. Non lo si avverte nei suoi input politici. La stabilità è auspicata per un governo che, con la maggioranza più schiacciante della storia repubblicana, non ha messo mano alla ricostruzione de L’Aquila, non ha avviato misure contro la disoccupazione, lascia alla deriva le famiglie, ignora il dilagante precariato che devasta le giovani generazioni.
In questa Italia che marcisce, che si sfascia sotto i colpi di un federalismo raffazzonato ed egoista, in cui (come avverte De Rita) sono morti i desideri, l’ex presidente della Cei non invita ad allargare l’orizzonte, a superare una leadership inefficiente e immorale. Non ricorda - lo fa papa Ratzinger nell’enciclica Deus Caritas Est - che per sant’Agostino uno Stato non retto secondo giustizia “si ridurrebbe a una grande banda di ladri” (molto si è già fatto nell’era berlusconiana). No. Il cardinale si augura che ognuno contribuisca a questa stabilità, “che è un bene per il Paese”. In questo patto ecclesiastico con l’Esistente non risuona la grande tradizione cattolico democratica di De Gasperi e di Sturzo, che ben altre scosse sapevano imprimere al Paese per aiutarlo a risollevarsi. Ritorna, però, il mantra che non ha senso parlare di berlusconismo o antiberlusconismo e meno che mai “dare giudizi sui comportamenti privati di singole persone”.
Avesse proclamato che non era giusto esprimersi sulla moralità di Erode, San Giovanni avrebbe ancora la testa al suo posto. Ma eravamo agli inizi dei Vangeli.
Il cardinale, don Serafino e il signor B
di Aldo Maria Valli (Europa, 21.12.2010
In quel Natale del 2010, nei giorni più infuocati della polemica politica, quando il governo del signor B. riuscì a vivacchiare ancora per un po’ ma senza una vera prospettiva, l’eminentissimo cardinale sentì il bisogno di un consiglio.
L’eminentissimo cardinale aveva puntato a lungo su B. e sulle sue promesse: più soldi alle scuole cattoliche, più aiuti alle famiglie, più possibilità di lavoro per i giovani, più attenta difesa della vita umana. Erano quelli che il papa amava definire «valori non negoziabili», e l’eminentissimo cardinale, per difenderli, aveva appoggiato il signor B.
Quel presidente del consiglio vanaglorioso e pieno di sé, in realtà, non gli piaceva troppo. Però era politicamente forte, sapeva aggregare consensi, godeva del sostegno di ampie fasce della popolazione, anche fra i cattolici, ed era stato capace di tenere lontana dal governo per un bel po’ di tempo la sinistra, composta da pericolosi ex comunisti e da ancor più pericolosi cattocomunisti. Ora però, in presenza di una crisi politica logorante e di preoccupanti segni dei cedimento del potere messo in piedi dal signor B., si trattava di prendere una decisione: puntare ancora su di lui o che cosa?
Per questo l’eminentissimo cardinale chiamò alcuni dei suoi più fidati collaboratori e chiese loro di stendere un rapporto. Lo chiese anche a don Serafino, un prete giovane, studioso della dottrina sociale della Chiesa e persona molto sincera. L’eminentissimo cardinale voleva un giudizio spassionato sull’opera del capo del governo negli ultimi anni e su quanto fosse stato assennato, da parte della Chiesa, puntare su di lui.
Don Serafino ubbidì e dopo pochi giorni fece pervenire all’eminentissimo cardinale il seguente documento.
«Eminenza reverendissima, a meno che non possa vivere davvero duecento anni o giù di lì, come fingono di credere alcuni dei suoi interessati laudatores, il signor B. è alla fine della parabola vitale e dunque anche politica. Tuttavia la sua vicenda ha qualcosa da insegnare, e poiché lei mi ha chiesto un giudizio, le dirò quello che penso.
Punto primo. Fin dalla sua discesa in campo, il signor B. ha rappresentato la negazione di tutto ciò che la dottrina sociale della Chiesa insegna a proposito di politica e impegno civile. Come sappiamo, seguendo le direttive del suo amico e protettore C., il signor B., quando era soltanto un costruttore e imprenditore televisivo, dopo aver fatto molti soldi in modo poco chiaro, decise di dedicarsi alla politica e di fondare un partito esclusivamente per tornaconto personale, per cercare di sottrarsi alla giustizia e per meglio perseguire i propri interessi. Tutto il contrario di quanto insegna la dottrina sociale della Chiesa, secondo la quale la politica, in quanto alta forma di carità, deve essere ispirata al servizio verso gli altri, specialmente verso i più deboli e indifesi, nel segno del bene comune. Per la Chiesa, come lei certamente sa, il singolo che si impegna in politica assume su di sé i problemi di tutti e di essi si fa interprete per trovare soluzioni il più possibile condivise. Ma nel caso del signor B. la decisione di dedicarsi alla politica nasce solo dalla necessità di tutelare se stesso.
Punto secondo. Il compendio della dottrina sociale della Chiesa è molto chiaro. Coloro che hanno responsabilità politica non devono mai dimenticare o sottovalutare la “dimensione morale della rappresentanza”. Il politico, per il fatto di essere delegato a occuparsi dei problemi di tutti, deve dare testimonianza personale di assoluta trasparenza e moralità. Non c’è e non ci può essere distinzione tra sfera privata e sfera pubblica. Anzi, l’autorità veramente responsabile è, secondo l’insegnamento della Chiesa, soltanto quella esercitata mediante il ricorso alle virtù che favoriscono una concezione e una pratica del potere come servizio. Tali virtù, elencate esplicitamente, sono: la pazienza, la modestia, la moderazione, la carità, lo sforzo di condivisione. Ebbene, ce n’è forse una che il signor B. abbia mai praticato? O non è stato piuttosto egli il campione dell’impazienza e dell’insofferenza verso le regole democratiche, dello sfarzo, del lusso, della presunzione, dell’immodestia, della vanità, della ricchezza ostentata, dell’esagerazione, dell’eccesso,dell’intemperanza, dell’egocentrismo, dell’amore di sé e del narcisismo eletto a sistema?
Punto terzo. La Chiesa cattolica insegna che l’autorità deve lasciarsi guidare dalla legge morale, perché è la morale il criterioguida che precede e fonda gli altri. Tale moralità ha un modo molto pratico ed evidente di manifestarsi: consiste nell’emanare leggi giuste, cioè conformi al bene comune, e nel rispettare la divisione fra i poteri. Ma anche sotto questi profili il signor B., con la sua costante azione legiferante a favore di se stesso, con la pretesa di far prevalere nettamente l’esecutivo, con i ripetuti attacchi verso gli altri poteri costituzionali e con la battaglia ingaggiata contro la magistratura, ha disatteso pervicacemente l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa.
Punto quarto. Parlare di morale vuol dire, lei me lo insegna, parlare anche di famiglia e sessualità, e sotto questo profilo lo spettacolo offerto dal signor B. è, se possibile, ancor più sconfortante. Quest’uomo pluriseparato e incapace di tenere a bada i suoi istinti sessuali ha fornito uno degli esempi più tristi e devastanti che mai siano stati offerti da un politico occidentale. Inutile dilungarsi su vicende note. Basti ricordare il suo uso avvilente e umiliante della donna, da lui ridotta a oggetto di piacere, e senza che tutto ciò lo abbia mai condotto a un minimo accenno di pentimento o di contrizione. Al contrario, ciò che quest’uomo ha fatto per anni, fino alla tarda età, è stato di alimentare il deprimente mito di se stesso come vero maschio: uno spettacolo rivoltante.
Punto quinto. Nel compendio della dottrina sociale c’è un interessante capitolo dedicato all’informazione. L’insegnamento è molto chiaro. L’informazione, vi si legge, è tra i principali strumenti di partecipazione democratica, perché non è immaginabile alcuna forma di partecipazione senza la conoscenza dei problemi della comunità e senza il possesso di tutti i dati conoscitivi a proposito di chi governa. Ebbene, che cosa ha fatto per anni e anni il signor B. se non cercare di condizionare a proprio favore anche l’informazione, esattamente per evitare che la comunità avesse una conoscenza corretta della realtà, per nascondere le proprie malefatte e per illudere i cittadini che sotto il suo governo tutto procedesse per il meglio quando invece i problemi sociali aumentavano? Come si pone quest’uomo, che si è battuto contro le intercettazioni telefoniche e ha detto che la libertà di stampa non è un valore assoluto, rispetto a un insegnamento della Chiesa che sostiene la necessità di garantire il pluralismo dell’informazione agevolando, mediante leggi appropriate, condizioni di uguaglianza nel possesso e nell’uso dei mass media? Lascia senza parole verificare come il signor B. incarni, anche in questo campo, l’esatto contrario di quanto la Chiesa insegna. Mi perdoni se cito ancora il compendio, ma è inevitabile. Tra gli ostacoli che si frappongono alla piena realizzazione del pluralismo e di quel diritto fondamentale che è l’obiettività dell’informazione, si legge, merita particolare attenzione il fenomeno delle concentrazioni editoriali e televisive, che hanno “pericolosi effetti per l’intero sistema democratico”, specialmente “quando a tale fenomeno corrispondono legami sempre più stretti tra l’attività governativa, i poteri finanziari e l’informazione”. E cosa dire dei contenuti culturali e morali veicolati dalle televisioni di cui il signor B. è proprietario e da quelle sulle quali esercita il controllo? La questione essenziale, afferma la dottrina sociale della Chiesa, è verificare se il sistema dell’informazione e dell’intrattenimento contribuisca a “rendere la persona umana migliore, cioè più matura spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperta agli altri”. Appunto.
Punto sesto. L’alibi con il quale il signor B. ha spesso giustificato le sue scelte è il consenso degli elettori. “Abbiamo i numeri per farlo, la gente è con noi”, questo il ritornello. E che i numeri ci siano stati è fuori discussione, ma che cosa dice in proposito l’insegnamento della Chiesa? Ecco la risposta: “Il solo consenso popolare non è tuttavia sufficiente a far ritenere giuste le modalità di esercizio dell’autorità politica”. Per il cristiano ciò che conta è la legge morale, perché le maggioranze possono appoggiare scelte politiche moralmente ingiuste e i politici possono guadagnarsi il consenso attraverso operazioni moralmente tutt’altro che irreprensibili.
Conclusioni. Alla luce di tutto ciò, eminenza reverendissima, credo che la risposta alla domanda su come sia stato possibile che il signor B. abbia governato così a lungo con il consenso di molti cattolici e l’appoggio delle più alte gerarchie si possa esprimere con una sola parola: tradimento. Tradimento del vangelo. Tradimento di ciò che la fede cristiana è e insegna. Tradimento di tutti coloro che per questa fede sono morti. Tradimento di nostro Signore Gesù Cristo che disse:“Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,32)».
Dopo aver letto, l’eminentissimo cardinale prese il rapporto, lo mise in un cassetto e sospirò. Pure a Natale era costretto a occuparsi di faccende tanto complicate. Pensò a don Serafino e gli scappò un mezzo sorriso. Che ragazzo! La sincerità era un suo pregio, ma, decisamente, era anche il suo principale difetto.
La "Santa Alleanza" tra Putin e il Patriarca
di Nicola Lombardozzi (la Repubblica, 20 dicembre 2010
Pare che la più entusiasta sia stata la signora Svetlana Medvedeva, first lady di Russia, che aveva presenziato a una messa propiziatoria del Patriarca Kirill in una chiesa di San Pietroburgo usata per anni come circolo degli ufficiali di Marina sovietici. E certamente il premier Vladimir Putin avrà baciato, come dice di fare ogni mattina, l’inseparabile crocefisso d’oro, dono della mamma, che indossa sempre sotto la camicia.
La grande promessa del premier e del tandem al potere è stata mantenuta: una legge, approvata dalla Duma con il solo no dei comunisti ha riconsegnato alla Chiesa Ortodossa l’immenso patrimonio sequestrato con violenza e senza scrupoli dal regime sovietico. Una speciale commissione sta già cominciando a occuparsi della restituzione dei beni. Si tratta di 1600 chiese ed edifici vari sparsi per il Paese e un tesoro ancora tutto da inventariare di oggetti sacri e icone custoditi nei più prestigiosi musei di Mosca e San Pietroburgo. Una vittoria storica per la Chiesa russa uscita dalla clandestinità appena vent’anni fa quando la decisione di Gorbaciov di restituire ai cittadini libertà di pensiero e di culto fece il giro del mondo e diede un ulteriore segnale della fine imminente dell’Urss.
Ma i giorni della festa e della commozione sincera di milioni di fedeli, delle lacrime versate durante la prima funzione nella cattedrale di San Basilio, sono lontani. La restituzione in un solo colpo di beni di enorme valore depredati nel corso degli anni ai fedeli di tutte le religioni crea inevitabilmente difficoltà tecniche, rivendicazioni e gelosie. E soprattutto, in un paese dominato per più di settant’anni dal laicismo di Stato, la brusca conversione del governo e dei suoi uomini più rappresentativi solleva polemiche e sospetti su una facile ricerca di consenso. O addirittura su una vera e propria santa alleanza con la Chiesa Ortodossa desiderosa di mantenere la supremazia ideologica e patrimoniale sulle altre Chiese.
Il caso più clamoroso è avvenuto nel territorio ex clave di Kaliningrad, l’ex Konigsberg patria di Kant, dove una donazione anticipata della locale amministrazione ha "restituito" agli ortodossi anche una chiesa cattolica tuttora sede della Filarmonica della città. Insieme alla protesta dei musicisti sfrattati si è levata ovviamente anche quella della minoranza cattolica guidata dai più anziani che ancora ricordano la brutalità dell ’esproprio e le messe clandestine celebrate di nascosto da coraggiosi sacerdoti braccati dagli agenti del kgb.
Più articolate, e non sempre limpide, le obiezioni tecniche. Quando nel 1922 nel pieno della carestia e della rivolta dei kulaki, Lenin ordinò di «espropriare i beni della Chiesa con la più brutale e selvaggia energia», monasteri, pii istituti e varie proprietà ecclesiastiche furono distrutti o riconvertiti. Molti divennero musei, altre ospedali, scuole, sale da concerto. "Riportarle alla loro destinazione originaria priverebbe lo Stato di strutture fondamentali e non immediatamente sostituibili", recita ad esempio un documento della Camera civile russa che si opponeva alla legge.
Ancora più forte la protesta dei direttori dei musei guidati dal responsabile dell’Ermitage di San Pietroburgo che si appellati a Medvedev nel vano tentativo di fermare il provvedimento. «Le collezioni dell’arte ecclesiastica russa raccolte nei musei rappresentano uno strato della cultura ortodossa che inevitabilmente perderà impatto frazionandosi nelle tante chiese di Russia», hanno scritto in una lettera aperta al Cremlino. E insinuano anche un altro dubbio: «Le chiese di Russia non sono in grado di preservare fragilissimi tesori d’arte che verrebbero destinati alla distruzione per inadeguatezza dei sistemi di conservazione e di restauro».
Niente da fare, la legge è già in vigore nonostante polemiche e mugugni. La svolta, voluta con forza da Vladimir Putin sembra ormai giunta al punto di non ritorno. E’ una svolta fatta di cose ma anche di simboli. Da tempo l’ex agente del Kgb che guida la Russia, ostenta sempre più una fede che per anni deve aver evidentemente tenuta segreta, facendosi sorprendere da troupe televisive ben informate, mentre prega in solitudine in qualche chiesetta di campagna. La sintonia di pensiero con il patriarca Kirill ha fatto il resto.
L’intervento di Putin ha fatto bocciare l’anno scorso l’abolizione della parola Dio nelle versione post sovietica dell’Inno nazionale. Sempre il premier si è battuto per il ritorno dell’ora di religione nelle scuole elementari, le modifiche alla costituzione per limitare i diritti delle comunità evangeliche tanto indigeste agli ortodossi. E adesso guarda con benevola condiscendenza alla proposta del Patriarca di chiedere che le leggi in discussione alla Duma vengano prima lette e commentate dalla Chiesa Ortodossa. Parere solo consultivo, ovviamente, ma che rappresenterebbe il passo decisivo verso il sogno nemmeno troppo nascosto del Patriarca: trasformare la sua Chiesa in una Chiesa di Stato.
La Chiesa di Esaù
di Piero Stefani
in “Il pensiero della settimana” n. 319 (http://pierostefani.myblog.it)
Tra i vari riti popolar-pagani che contraddistinguono le feste vi è, da molte parti d’Italia, quello di mangiar lenticchie. Specie a Capodanno, esse simboleggiano la fortuna e, in particolar modo, il denaro. «Per un piatto di lenticchie» è, però, anche espressione proverbiale di antica ascendenza biblica. Essa indica l’improvvido baratto compiuto da Esaù, il quale, per conseguire un beneficio immediato, svende la grande eredità (primogenitura) di cui avrebbe potuto beneficiare in futuro (cfr. Gen 25,29-34). Le due accezioni si uniscono quando, per un vantaggio monetario di breve respiro, si compromette il proprio avvenire. È quanto stanno compiendo i vertici della CEI. Lo evidenzia in modo palese l’atteggiamento da essi assunto nel corso dell’attuale crisi politica. Sulla falsariga di quanto avviene con i deputati, anche l’appoggio ecclesiale è, infatti, sostenuto da precisi flussi finanziari.
Una esemplificazione, tra le altre, è data dalla vicenda dell’8 per mille. Non solo la CEI beneficia della quota indicata in modo esplicito dai contribuenti - percentuale alimentata da una martellante e profanissima campagna pubblicitaria - non solo lucra in proporzione predominante la quota dell’8 per mille derivata dalla ridistribuzione della parte di gettito proveniente dai contribuenti che non hanno espresso alcuna destinazione specifica, ma, in virtù di recenti decisioni governative, riceve parti crescenti dell’8 per mille statale. Queste ultime sono erogate, oltre che in funzione di restauro di chiese di interesse storico-artistico (atto giustificabile), anche a beneficio di diocesi e oratori. Pensandosi come ditta, è inevitabile che i vertici CEI trovino affinità elettive con l’attuale capo del governo, la cui vita è posta, da sempre, sotto il segno della lenticchia.
Qualcuno potrebbe trovare qualunquistico il discorso, senza dubbio non di alto profilo, fin qui condotto. Qualche fedele potrebbe, in buona fede, tirare in ballo anche i valori e la loro difesa. Per elevare il pensiero e portarlo su un piano non semplicemente economico, diamo la parola a un prete (e teologo), non più giovane, Severino Dianich, il quale attesta come dentro l’attuale Chiesa cattolica italiana ci possa essere, tuttora, qualche anfratto per altri discorsi e altri stili di vita. «A scorrere i documenti [conciliari] si nota la preoccupazione dei padri di evitare tutte quelle controversie che, indipendentemente dal buon diritto che la Chiesa avrebbe di sollevarle, possono impedire di fatto alle persone di cogliere il suo vero interesse, che è solo quello di poter compiere la sua missione al servizio della fede e del bene comune: essi impegnano, quindi, la Chiesa a rinunziare “all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni” (Gaudium et spes, 76).
Se negli ultimi decenni il dialogo con il mondo contemporaneo si è fortemente deteriorato, questo è avvenuto anche perché troppo spesso le indicazioni del Concilio non sono state ascoltate e praticate. Così, di fronte all’abbandono della fede di molti, ci si ritrova a essere meno ascoltati e più incapaci di interessare un colloquio che permetta l’invito a credere. Mentre il missionario, che svolge il suo ministero là dove la Chiesa non esiste ancora o non ha ancora un impianto istituzionale così imponente da condizionare la vita sociale e politica del paese, può parlare ‘cuore a cuore’, nei nostri paesi questo è molto più difficile. Il non credente dei paesi di antica tradizione cristiana, per aprirsi all’ascolto del messaggio evangelico, deve superare i sospetti che gli vengono dalla storia sulla natura della Chiesa, vecchie avversioni e avversioni nuove, provocate dalle sue prese di posizione su problematiche, oggi molto sentite, dalla quale egli ricava l’idea che essa intenda tornare a imporsi sulla società, minandone la struttura laica e l’assetto democratico» (S. Dianich, Chiesa che fare? in Regno-att., 20,2010, pp. 719-720).
Quanto don Severino non dice è che c’è pure un rovescio della medaglia. È stato, infatti, proprio questo tipo di opzione a suscitare il fenomeno inedito (e antievangelico) degli «atei devoti», esitocoerente di una Chiesa impegnata a cercar di prospettare una illusoria tenuta valoriale (assai più concentrata sul sorgere della vita e sul suo tramonto che su tutto quanto vi sta in mezzo) senza attestare quanto è proprio della fede. La dirigenza della Chiesa (questa volta non solo della CEI) ha spesso ritenuto costoro come fiancheggiatori affidabili (basti ricordare i poco lungimiranti rapporti avuti da Ratzinger, anche da papa, con l’ormai dimenticatissimo Marcello Pera e gli inviti che un certo mondo cattolico continua a rivolgere a Giuliano Ferrara); mentre non ha dato ascolto o ha addirittura imbavagliato voci che, in nome della fede, la richiamavano al vangelo della misericordia e della consolazione.
Delle due accezioni di lenticchie evocate in apertura, la più grave non è quella dei soldi, ma l’altra, quella dello sperpero di un’eredità inestimabile. Il nostro è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma la nostra Chiesa appare sempre di più quella di Esaù. Il paradosso è che è divenuta tale proprio mentre dichiara di voler conservare e difendere i preziosi valori del passato.
Piero Stefani
Questo è il nodo da sciogliere.......FACILE!
Le chiese: Dove sono dirette?
COSA sta succedendo alle chiese “cristiane”? Dalle vostre parti sono in declino o stanno prosperando? Forse avete sentito parlare di un risveglio spirituale, e di tanto in tanto da Africa, Europa orientale e Stati Uniti giungono notizie di congregazioni religiose che si espandono. Ma in altre parti del mondo, soprattutto nell’Europa occidentale, le notizie parlano di chiese che chiudono i battenti, di fedeli in diminuzione e di diffusa apatia nei confronti della religione. Di fronte al calo delle presenze, molte chiese hanno cambiato stile.
Alcune dicono di non voler giudicare o criticare il comportamento della gente, lasciando così intendere che Dio accetti qualunque tipo di condotta. Sempre più spesso anziché impartire istruzione basata sulla Parola di Dio le chiese offrono intrattenimento e attività ricreative, nonché attrazioni che nulla hanno di religioso. Anche se alcuni praticanti considerano questi cambiamenti un necessario adattamento alla realtà del mondo attuale, molte persone sincere si chiedono se le chiese non stiano deviando dalla missione affidata loro da Gesù. Esaminiamo le tendenze che hanno caratterizzato le chiese negli ultimi decenni.
L’Europa volta le spalle alle chiese
Per oltre 1.600 anni gran parte dell’Europa è stata sotto il dominio di governi che si professavano cristiani. Che dire di oggi? Mentre ci addentriamo nel XXI secolo, la religione in Europa sta forse prosperando? Nel 2002, in un suo libro sulla secolarizzazione dell’Occidente, il sociologo Steve Bruce ha scritto riguardo alla Gran Bretagna: “Nel XIX secolo quasi tutti i matrimoni venivano celebrati con rito religioso”. (God is Dead-Secularization in the West) Tuttavia, nel 1971 solo il 60 per cento dei matrimoni inglesi era religioso. Nel 2000 lo era appena il 31 per cento. Nel commentare questa tendenza, un giornalista del Daily Telegraph che scrive in materia di religione ha detto: “Tutte le principali denominazioni, che si tratti di Chiesa d’Inghilterra o Chiesa Cattolica, oppure di Chiesa Metodista o Chiesa Riformata Unita, stanno subendo un graduale declino”. Riguardo a uno studio ha detto: “Entro il 2040 le Chiese britanniche saranno in via di estinzione con appena il due per cento della popolazione che frequenterà le funzioni domenicali”. Sono stati fatti commenti simili sulla condizione della religione nei Paesi Bassi. “Negli ultimi decenni sembra che il nostro paese sia diventato decisamente più secolarizzato”, ha osservato l’Ufficio di Pianificazione Socio-Culturale olandese. “Si prevede che entro il 2020 il 72% della popolazione non apparterrà ad alcuna confessione religiosa”. Un quotidiano on-line tedesco dice: “Sempre più tedeschi si rivolgono alla stregoneria e all’occulto per ricevere il conforto che una volta trovavano nella chiesa, nel lavoro e nella famiglia. . . . In tutto il paese le chiese sono costrette a chiudere i battenti per la mancanza di fedeli”.
Le persone che in Europa vanno ancora in chiesa di solito non ci vanno per scoprire cosa Dio richiede da loro. Un articolo dall’Italia dice: “Gli italiani si costruiscono una religione su misura che sia adatta al loro stile di vita”. E un sociologo italiano afferma:
“Dal papa prendiamo qualunque cosa ci sia congeniale”.
Lo stesso si può dire dei cattolici in Spagna, dove la religiosità ha lasciato il posto al consumismo e alla ricerca di un paradiso da ottenere subito, quello economico! Queste tendenze sono in netto contrasto con il cristianesimo insegnato e praticato da Cristo e dai suoi seguaci.
Gesù non offrì una religione “self-service” o “a buffet”, in cui ognuno prende ciò che più gli aggrada e scarta quello che non è di suo gradimento. Egli disse: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda di giorno in giorno il suo palo di tortura e mi segua di continuo”. Gesù insegnò che il modo di vivere cristiano richiedeva sacrificio e sforzo a livello personale.
La Chiesa appare sempre di più quella di Esaù. Svende la grande eredità.
(Non di primogenitura ma di seconda genitura) La primogenitura era quella degli Israeliti convalidata dal patto di Abramo ma! aime’ ben due mila anni fa’ anche gli Israeliti come nazione e’’ stata riggettata da Dio (rimpiazzandola con! ("Un Israele SPIRITUALE") composto di persone di ogni colore, Popolo,Tribu’ e Lingua di tutto il mondo (Cosmos) (Inclusi anche ex Israeliti d’attitudine Faraisiaca o ex Cattolici di pari condotta Costantiana.
Salutoni,,,con tutto il bene del mondo e tanti torroni e panettoni, Fritti e Turdilli e Pitte-npigliate.
(Meglio scegliere i saluti e il bene sincero)
Cardinali e governo si scambiano festeggiamenti !
di gruppo di coordinamento del Chicco di senape di Torino
del 17 dicembre 2010 *
Perché i nuovi cardinali dovrebbero essere presentati al Presidente del Consiglio e ai più autorevoli ministri? Perché cioè i principi della Chiesa dovrebbero essere presentati ai principi di questo mondo? Evidentemente perché sono colleghi di principato. In ogni caso, “è stato un momento di festa”, secondo quanto ha dichiarato mons. Crociata, presente in rappresentanza del card. Bagnasco alla cena festosa del 9 dicembre presso la Santa Sede. Se qualcuno obiettasse che c’è poco da festeggiare e ricordasse lo stato di crisi profonda, materiale e morale, dell’Italia, sarebbe preso per un guastafeste. E dunque lasciamoli festeggiare. Semplicemente diciamo: non in nostro nome, non nel nostro nome di cittadini e di cristiani. Di cittadini cristiani sgomenti di fronte a un Presidente del Consiglio e ad un Governo, che rappresentano un concentrato di quanto di più antievangelico sia mai comparso sulla scena politica della nostra Repubblica e che è invece uno dei più apprezzati e vezzeggiati dalle gerarchie ecclesiali.
Più di una volta il card. Bertone ha dato un esplicito appoggio a Berlusconi con cene e incontri più o meno clandestini, ora è intervenuto addirittura con grande pompa casualmente pochi giorni prima del voto sulla mozione di sfiducia; e non solo questo, ma anche è entrato nei dettagli, suggerendo e premendo perché un partito, l’UDC, si accordasse con Berlusconi: il pastore è diventato un trafficante di consensi politici e di giochi di potere.
Un tempo, quando si considerava la condizione della Chiesa nel Rinascimento, si pensava che quell’epoca di degrado delle sue gerarchie non potesse più tornare. Ci eravamo sbagliati. La fornicazione è soltanto diventata più subdola, perché è cresciuta l’ipocrisia e i principi della Chiesa non hanno più l’ardita sfacciataggine dei cardinali del Rinascimento, che principi lo erano davvero.
Chiediamo a tutti i credenti di denunciare la grave ferita che il card. Bertone e gli altri eminenti cardinali hanno inferto alla dignità e all’unità della Chiesa. Perché la presentazione dei nuovi porporati a un principe corrotto e corruttore, che infanga il Vangelo mentre se ne appropria, è un’umiliazione per la Chiesa intera, una Chiesa fatta anche e soprattutto di tanti silenziosi, umili e coraggiosi credenti, e perché l’intervento squisitamente politico del Segretario di Stato non può che portare divisioni nella Chiesa.
Chiediamo di pregare perché lo Spirito sostenga la Chiesa anche in questo momento difficile, perché sia preservata la sua unità, ma anche perché, a questo fine, sia liberata dei pastori indegni. Ma siamo certi che la festa e anche i festini stanno per finire, perché il Signore non abbandona i suoi fedeli e il male non avrà l’ultima parola.
Claudio Ciancio
Enrico Peyretti
Toni Revelli
Riccardo Torta
Salvatore Passari
Maria Adele Roggero
Beppe Elia
Torino, 17 dicembre 2010
*
Fonte: "Fine Settimana"
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est") E PENSA DI VIVERE NEL IV SEC d.C.
«Viviamo la crisi che fu dell’Impero Romano»
Benedetto XVI: senza il consenso morale anche oggi è in gioco il futuro del mondo
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 21.12.2010)
CITTÀ DEL VATICANO - «Excita, Domine, potentiam tuam, et veni» . La voce del Papa è sommessa ma il tono è solenne, «è in gioco il futuro del mondo» , alza lo sguardo a cardinali e monsignori: e ripete quella preghiera di Avvento, «Ridesta, Signore, la tua potenza e vieni» che fu probabilmente formulata, spiega, «nel periodo del tramonto dell’Impero Romano» . Allora come oggi si «disfaceva» quel «consenso morale» senza il quale «le strutture giuridiche e politiche non funzionano» .
Nel discorso natalizio alla Curia romana, Benedetto XVI ripercorre l’anno e parla per primo del male interno, la «dimensione per noi inimmaginabile» degli abusi su minori commessi da sacerdoti, l’ «umiliazione» per lo scandalo dal quale «siamo stati sconvolti» e che ha «coperto di polvere il volto della Chiesa» . Quindi allarga lo sguardo «ai fondamenti ideologici» (la «perversione» dell’etica perfino «nell’ambito della teologia cattolica» , l’idea diffusa per cui «niente sarebbe in se stesso bene o male» : «Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino» ) e «al contesto del nostro tempo» e torna a denunciare la pornografia, il turismo sessuale, «la devastazione psicologica dei bambini» ridotti a merce, quel «commercio dei corpi e delle anime» che l’Apocalisse «annovera tra i grandi peccati di Babilonia, simbolo delle grandi città irreligiose del mondo» ; denuncia «la dittatura di mammona che perverte l’uomo» e trova espressione nella droga «che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all’intero globo terrestre» ; invoca i leader politici e religiosi «perché fermino la cristianofobia» e le persecuzioni dei fedeli in Paesi come il Medio Oriente, dove sulle «voci troppo deboli» della ragione prevalgono «avidità di lucro ed accecamento ideologico» .
Tutti «spaventosi segni dei tempi» , tempi difficili nei quali vacillano «le basi essenziali e permanenti dell’agire morale» ed è «in pericolo» il consenso di fondo sulla «grande tradizione razionale dell’ethos cristiano» . Ecco il parallelo con il crollo dell’Impero Romano: «Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l’invocazione della potenza propria di Dio» . Anche oggi, dice Benedetto XVI, «il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo» .
Come rivolgendosi al mondo laico, cita Alexis de Tocqueville: «Aveva osservato che in America la democrazia era diventata possibile e aveva funzionato perché esisteva un consenso morale di base che, andando al di là delle singole denominazioni, univa tutti» . Ma il Papa guarda anzitutto all’interno. Evoca una visione di Sant’Ildegarda di Bingen (XII secolo), il volto della Chiesa «coperto di polvere» , le scarpe «infangate» , il vestito «strappato» per colpa dei sacerdoti, «come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto in quest’anno» .
L’ «umiliazione» dei crimini pedofili è «un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento» , sillaba: «Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere» . Ma se «siamo consapevoli» della «nostra responsabilità» , dice, «non possiamo tacere circa il contesto del nostro tempo» . Il consenso etico che si dissolve. E, per contro, l’esempio di tanti sacerdoti, la «capacità di verità dell’uomo» mostrata dal cardinale Newman. Come capitò ai discepoli di Gesù, «anche in noi tanto spesso la fede dorme» , sospira il Papa: «PreghiamoLo di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti -di dare l’ordine giusto alle cose del mondo» .
Quel declino rafforzò la struttura ecclesiale
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 21.12.2010)
Richiamarsi alla fine dell’impero romano (invero dell’impero romano d’Occidente) è stato, nel corso del tempo, un luogo comune, o meglio un motivo ricorrente della angoscia storiografica. Anche il grande Edward Gibbon pensò per qualche momento che la ribellione delle colonie americane e il loro distacco dalla corona britannica fossero una avvisaglia di decadenza, assimilabile - egli pensava - alla fine dell’impero romano. Peraltro proprio il grande libro di Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, documentava come quella cosiddetta decadenza fosse in realtà durata almeno un millennio concludendosi soltanto alla metà del secolo XV con la conquista turca di Costantinopoli.
Ma questa corretta prospettiva non si è mai pienamente affermata. Studiosi, soprattutto non professionali, hanno spesso pensato al 476 dei manuali per il fu-ginnasio come alla data catastrofica e conclusiva della vicenda imperiale. Trascuravano di considerare che la parte più ricca e potente dell’impero, cioè la pars Orientis, continuò ad essere per secoli uno degli epicentri della politica mondiale. La visione a tinte fosche o morbose di un mondo che si sgretola affogato nella immoralità è un motivo ricorrente: qualcosa del genere pensava già Orazio nell’epodo XVI al tempo delle guerre civili tardo repubblicane. È una visione essenzialmente oleografica, cui diede forma altamente poetica il celebre sonetto di Verlaine (1883): «io sono l’impero alla fine della decadenza /il quale guarda il passaggio dei grandi barbari bianchi /... ah tutto è perduto! Batillo hai finito di ridere?» etc.
La versione popolare di tutto questo si trova nei film peplum. Dei destini dell’impero fu il Cristianesimo uno dei fattori decisivi. E anche in questo caso gli esiti nella parte occidentale e in quella orientale furono diversi. A Occidente il cristianesimo attrasse nella struttura ecclesiale energie ed élites che in altre epoche avevano percorso brillanti carriere politico-militari. A Oriente invece la prevalenza dello Stato sulla Chiesa si consolidò e fu garanzia della durata di un impero millenario antagonista e interlocutore prima degli Arabi e poi dei Turchi.