A giorni sarà consegnata al Papa la nuova traduzione italiana della Bibbia: ne parliamo con monsignor Giuseppe Betori
La nuova Vulgata
«Il testo è frutto del rispetto che la Chiesa ha per la filologia.
Faccio appello agli uomini di cultura: riscoprite la bellezza del ’grande codice’ dell’Occidente»
DA ROMA MIMMO MUOLO (Avvenire, 24.05.2008)
A chi gli chiede se la nuova traduzione della Bibbia, che sarà presentata il prossimo 29 maggio al Papa, sia «la nuova Vulgata », il vescovo Giuseppe Betori risponde con un sorriso che è insieme un auspicio, ma anche uno schermirsi senza false modestie. «Non dico questo - risponde con la consueta pacatezza - Ma tendenzialmente l’operazione portata a termine dopo vent’anni di lavoro, è importante anche dal punto di vista culturale, perché mi auguro che il testo sia sorgente di stimoli per la comunicazione della fede e quindi anche per il dialogo con la cultura del nostro tempo».
Nello studio del segretario generale della Cei, che in quanto biblista ha partecipato attivamente al lavoro di traduzione, si respira aria di vigilia. Lunedì si aprirà a Roma l’assemblea generale dei vescovi, all’interno della quale - proprio nel corso dell’incontro con Benedetto XVI - avverrà la consegna al Pontefice della prima copia del nuovo testo. E quindi questo è anche il momento adatto per fare un primo bilancio del lungo cammino percorso.
Monsignor Betori, anche la cultura cosiddetta laica ha mandato segnali di attenzione all’operazione che ora giunge in porto. È un segnale di quel dialogo di cui si diceva?
«Sicuramente una tale attenzione ci fa piacere. Ma vorrei precisare che, contrariamente a quanto scritto da qualcuno, la Chiesa non è nemica della cultura. È stato detto, ad esempio, che la nascita della critica testuale in epoca rinascimentale, avvenne in opposizione alla Chiesa stessa che restringeva il testo sacro dentro una sorta di intangibilità dogmatica. La critica testuale però non l’hanno inventata il Rinascimento o Erasmo da Rotterdam, ma Origene e San Girolamo, che per la sua Vulgata, appunto, prima di tradurre i testi biblici dagli originali, fece un’accurata critica testuale. La Chiesa, inoltre, non ha mai condannato il lavoro di Erasmo».
Ci sono dunque analogie di metodo tra quella operazione e la traduzione che ora vede la luce?
«Sì, anzi direi che questa traduzione è figlia del medesimo rispetto che la Chiesa ha sempre avuto per la scienza filologica e che è stata ribadita recentemente dalla Santa Sede con la coraggiosa decisione di rimettere mano alla stessa Vulgata per produrre una nuova versione latina della Bibbia che fosse normativa per la Chiesa universale, a partire dalle edizioni critiche sia del Nuovo che dell’Antico Testamento. Dunque la nuova traduzione della Bibbia in italiano fa seguito proprio a questa decisione e applica gli stessi criteri. Non abbiamo paura delle scienze e siamo pronti a riconoscere il loro apporto in ordine alla ricostruzione di un testo».
Esiste, però, come qualcuno sostiene, un problema culturale in ordine alla conoscenza e alla diffusione della Bibbia in Italia?
«In effetti il nostro Paese non ha avuto mai una traduzione ufficiale che abbia influenzato la cultura corrente, perché pur essendoci molte traduzioni in italiano (a proposito: non è vero che la Chiesa abbia proibito le traduzioni, ma ha cercato invece di evitare l’uso personalistico della interpretazione della Bibbia: la lettura di un testo, infatti, non può prescindere dal contesto vitale che lo ha generato e tramandato), nessuna di esse ha preso il sopravvento. C’era quindi bisogno di una traduzione condivisa della Sacra Scrittura che potesse diventare interlocutrice della cultura odierna. E l’auspicio è che questa traduzione abbia anche tale capacità».
In che modo la nuova traduzione potrà assolvere questo compito?
«Conto molto sulla bellezza del testo. È Parola di Dio e quindi la sua carica di verità è già portatrice di bellezza. Ma la Bibbia è bella non solo perché traluce la verità, ma perché porta al massimo delle sue potenzialità le risorse letterarie di una tradizione come quella del popolo ebraico in contatto con l’ellenismo. Non a caso si è sempre riconosciuto in essa il ’grande codice’ della cultura occidentale. Da questo punto di vista, dunque, se ne giustifica la presenza anche nel mondo scolastico, perché al contrario di quanti dicono molti, la Bibbia è il perno centrale di tutta la programmazione dell’insegnamento della religione nella scuola pubblica italiana, con l’approccio tipicamente culturale che gli è proprio».
Si parte, dunque, con la consegna dell’edizione in due volumi al Papa.
«Sì, ed è anche un atto di ringraziamento al Santo Padre perché in non poche occasioni egli ha indicato imprecisioni della vecchia traduzione, delle quali abbiamo fatto tesoro. Inoltre ha voluto che fosse sottoposta a revisione tutta la Bibbia e non solo le pagine di solito usate nella liturgia, e ciò al fine di un’eventuale estensione futura del numero di queste pagine. Questa è l’edizione per così dire ’elegante’. A metà settembre verrà messa in commercio la versione economica ».
La Bibbia è il best seller di tutti i tempi. Che cosa auspica per questa nuova traduzione?
«Auspico da un lato che essa favorisca un maggior accostamento popolare alla Sacra Scrittura, anche attraverso la nascita di gruppi di lettura e di ascolto biblico. Ma vorrei fare un invito a intellettuali, scrittori, poeti, musicisti, registi, sceneggiatori e uomini di cultura in generale. Se gli artisti trovassero i mezzi giusti per ridire le storie della Bibbia nel linguaggio di oggi, come è sempre avvenuto in passato, noi saremmo felici».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CARITAS IN VERITATE: "55.[...] La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali (133). Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità [caritatis] e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano » (134), porta in se stesso un simile criterio.
56 La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo « statuto di cittadinanza » (135) della religione cristiana. La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo."(Benedetto XVI, 29 giugno 2009).
FLS
Radici di futuro/5.
La favola del buon consumo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 2 ottobre 2022
Per cogliere l’essenziale di una civiltà, la sua arte è sempre strada maestra. Il Mercante di Venezia di William Shakespeare, da solo dice quasi tutto sulla nascita dello spirito del capitalismo. Siamo alla fine del Cinquecento, a Londra. Shakespeare è nella sua maturità artistica. Viene in contatto, ancora una volta, con materiali narrativi italiani. In particolare con la novella "Il pecorone", di Ser Giovanni Fiorentino, composta attorno agli anni ottanta del Trecento, dove ci sono tutti gli elementi del Mercante di Venezia, incluso il centro narrativo della tragedia: la penale di carne prevista dal contratto tra il ricco mercante di Venezia (Ansaldo) e l’usuraio ebreo di Mestre (novella I). Elio Toaf, nel 1966, ha poi riportato un fatto realmente accaduto a Roma (narrato da G. Leti nel 1852) durante il pontificato di Sisto V (1585-1590): Paolo M. Secchi, mercante romano, aveva scommesso una libbra della sua carne con il «giudeo» Sansone Ceneda, un episodio forse conosciuto anche a Londra.
La trama del Mercante di Shakespeare è nota. Bassanio, giovane scialacquatore, ha bisogno di 3mila ducati per poter partecipare a una sorta di concorso amoroso (i "tre scrigni") e poter sposare la ricca e bella Porzia. Si rivolge così al suo amico Antonio, un ricco mercante di Venezia (che, forse, dà il nome all’opera), che non avendo i contanti ma amando follemente Bassanio, cerca di ottenere i denari da un noto usuraio di Rialto: l’ebreo Shyloch. Questi però non gli propone un normale contratto usuraio a interesse. Gli fa un’offerta bizzarra e tremenda: se non restituirà il denaro alla scadenza, l’usuraio preleverà come penale «una libbra della vostra bella carne, su quella parte del corpo che mi piacerà di scegliere». Antonio accetta - sul seguito della storia ci soffermeremo domenica prossima.
Perché un tale contratto? Perché presentare questo usuraio come un carne-fice? Si è molto discusso sulla presenza di un sentimento antisemita in quest’opera. In realtà Shakespeare registra i sentimenti del suo tempo senza esprimere un suo proprio giudizio sul tema - nelle opere d’arte, soprattutto nei capolavori, la descrizione del mondo è la prima critica dell’artista. Studiando quest’opera, e guardandola con gli occhi dell’economista quale sono, mi sono convinto che il giudizio etico di Shakespeare si possa rintracciare, e forse ci sorprenderà. È verosimile che il Mercante contenga una descrizione e una critica del proto-capitalismo di Venezia e, soprattutto, della "sua" Londra.
Shyloch è figura complessa e ambivalente. Una prima chiave di lettura la troviamo nel dialogo iniziale con Antonio, il mercante debitore: «Shyloch: "Ma, udite; mi parve diceste che voi non prestate mai né prendete a prestito con frutto". Antonio: "No, mai"». Antonio era un mercante che svolgeva anche attività bancaria, ma si vantava di prestare senza interessi. Infatti, quando lo vede, Shyloch pensa: «"Come ha l’aspetto di un ipocrita pubblicano! Lo odio perché è cristiano, e lo odio anche più perché nel suo umile candore presta denaro gratis, e fa così scendere a Venezia il tasso d’interesse».
Una prima tensione narrativa: da una parte l’usuraio ebreo e dall’altra il filantropo cristiano. I due si conoscevano: «Shyloch: "Inveisce contro di me, contro i miei leciti guadagni che lui chiama usura"». Antonio lo offende quindi nella piazza di Rialto. Inoltre - dato importante - Antonio non presta a interesse, eppure ora sta accettando un contratto usuraio. Ed è qui che troviamo una prima chiave di lettura. Shyloch cita la Bibbia, riporta il noto episodio dell’astuzia di Giacobbe grazie alla quale si arricchì presso il suocero Labano, un pagano (Genesi, cap. 30). Antonio commenta: «"E che c’entra? Giacobbe prese interessi?". Shyloch: "Non erano interessi diretti, come dite voi"».
L’ebreo spiega allora quell’episodio centrale nella storia d’Israele e nella storia del Mercante di Venezia. Labano vuole liquidare il salario di Giacobbe per il servizio resogli, ma la prima importante risposta di Giacobbe fu: "Non mi devi dare nulla" (Gn 30,31). Una risposta che somiglia al "gratis" di Antonio. Giacobbe e Labano stipulano poi un contratto bizzarro che al lettore appare quasi una burla, non troppo dissimile dal contratto tra Shyloch e Antonio: stabiliscono che tutti gli agnelli nati con il manto striato sarebbero stati di Giacobbe, gli altri di Labano. Il lettore sapeva che in un gregge gli agnelli striati sono molto pochi, quindi si immagina che il contratto sfavorisca Giacobbe, e pensa che quel suo "non voler nulla" fosse quasi vero. E invece ecco il colpo di scena.
Giacobbe trova un espediente (non fa quindi un furto): mentre le pecore più robuste si accoppiavano le metteva di fronte a delle verghe da lui scorticate con striature verticali, in modo - pensava - che guardando pali striati le pecore partorissero agnelli striati (Gn 30,39). L’espediente funzionò, gli agnelli migliori nacquero striati, e Giacobbe divenne molto ricco.
Il riferimento a questo episodio della Genesi è cruciale nell’economia del Mercante di Venezia (trascurato dagli interpreti). Innanzitutto, nella saga di Labano e Giacobbe, il disonesto è il suocero, che continua a non rispettare i patti (li cambiò «dieci volte»: Gn 31,5). L’imbroglione è il pagano: Giacobbe qui è solo furbo e astuto ma, a modo suo, rispetta i patti. Inoltre, Giacobbe non prese il suo salario sotto forma di denaro: prese pecore, che però furono per lui un profitto molto maggiore del salario in denaro. E Antonio chiede: «Vorreste trar da ciò qualche deduzione in favore dell’usura? Il vostro oro e il vostro argento è simile alle pecore e alle capre di Giacobbe?». In realtà la risposta è: le tue pecore lo sono. Shyloch stava infatti dicendo ad Antonio: non c’è nessuna differenza etica tra le tue "pecore" (i tuoi guadagni dai commerci) e i miei interessi sul denaro. Siamo uguali, ma tu sei ipocrita e imbroglione, come Labano, pagano come te.
Ma il senso ultimo della citazione di Giacobbe emerge alla fine: «Il suo era un modo di prosperare [thrive] e Giacobbe fu benedetto: la prosperità [thrift] è benedizione, a meno che non sia un furto». Thrift in inglese non significa profitto né tantomeno usura; significa invece prosperità, beneficio, vantaggio, persino parsimonia, e non ha quindi una accezione negativa. Per l’etica di Shyloch prosperare con la furbizia è benedizione, non è un furto né un comportamento moralmente detestabile. E se fosse questa anche l’etica di Shakespeare?
C’è infatti un secondo elemento altrettanto importante. Ciò che potrebbe essere moralmente condannabile era la prodigalità di Bassanio: «Tu non ignori, Antonio, quanto io abbia dissestato il mio patrimonio conducendo un tenore di vita molto più fastoso dei miei mezzi». Infatti, a guardar bene, nell’opera gli ossessionati dal denaro sono i cristiani (Bassanio su tutti). Shyloch chiede una libbra di carne, di nessun valore economico - il suo spirito è simile a quello di Mazzarò verso la sua "roba".
Le domande della commedia-tragedia diventano: perché prestare denaro a interesse dovrebbe essere più immorale del profitto di un mercante?: «Mi chiamate miscredente, cane assassino... e tutto per l’uso che faccio di ciò che è mio?». E perché, invece, gli scialacquatori come Bassanio sono amici, amati e rispettati? È etico poi per Antonio rischiare la propria carne per soddisfare i capricci di un amico prodigo? Da quale parte sta, allora, l’etica buona?
Ecco dunque una prima conclusione. Con il Mercante siamo in un momento di svolta dell’etica economica nella nascita del capitalismo - va notato che la parola usata per il contratto della libra di carne è «bond».
In questo dialogo-conflitto tra Shyloch e Bassanio ci sono molte radici della modernità. C’è il seme del "vangelo della prosperità", ideologia centrata sulla benedizione della ricchezza che oggi è di nuovo di moda, soprattutto nei Paesi di cultura protestante. C’è anche una radice di quella visione romantica del denaro che è buono solo se viene speso, di una ricchezza etica solo se è consumata, non importa se quel denaro è preso a prestito da istituzioni finanziarie che condanniamo. Vi si trova pure una icona del declino del primo proto-capitalismo italiano del Rinascimento. L’Italia, infatti, che entrò nell’Inghilterra puritana non era più quella dei mercanti parsimoniosi del Trecento. Era invece quella di Francesco Benni: «Non c’è più bella vita al mondo di un debitore, fallito, rovinato e disperato. Questi è colui che si può dir beato. Fate, parente mio, pur de gli stocchi [prestiti], pigliate spesso a credenza, a ’nteresse, e lasciate ch’agli altri il pensier tocchi: perché la tela ordisce uno, l’altro la tesse» (In lode del debito, 1548).
Il Mercante è un’opera cerniera tra due mondi. Nella Londra elisabettiana di Shakespeare era ancora viva un’etica feudale cristiana che lodava il consumo, la terra, la nobiltà, che permetteva il prendere in prestito, ma condannava il dare a prestito - è davvero curioso che alla condanna del prestito a usura non corrisponde una altrettanto ferma condanna del debito a usura, pratica molto più popolare e diffusa. Quell’etica cristiana approvava il debito per il lusso, e stimava i mercanti come Antonio che accumulavano grandi ricchezze nei commerci e potevano permettersi anche di prestare gratis, ma condannava e malediceva il prestito a interesse di ebrei che con il loro denaro consentivano ai mercanti cristiani di arricchirsi e fare beneficenza e lussi: «Come ha l’aspetto di un ipocrita pubblicano». Chi prestava denaro era "come Giuda", chi lo prendeva in prestito per il consumo o per gli affari era invece un "buon cristiano", imitava la "Maddalena" che "sprecò" un profumo dal valore di 300 denari. Non capiamo l’Europa moderna senza queste ambivalenze e ipocrisie, e pochissimi come Shakespeare ce lo fanno vedere con una chiarezza aurorale.
Nella prima parte del Mercante l’ambivalenza decisiva è dunque quella tutta interna a Shakespeare e alla sua età, combattuto tra il vecchio mondo e il nuovo spirito capitalista. Fino al contratto di carne, la tragedia-commedia è ancora tutta aperta: quale delle due etiche prevarrà alla fine?
Sul tema, nel sito, cfr.: I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO".
Federico La Sala
COSTITUZIONE, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA:
DANTE ALIGHIERI, WILLIAM SHAKESPEARE, E JOHN MAYNARD KEYNES.
La questione dei due soli e "il nostro problema economico"...
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ECONOMIA, E FILOLOGIA: "HOMO HOMINI DEUS EST"!
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): DEUS CHARITAS EST (NON "DEUS CARITAS EST")!
IL "NOSTRO" PROBLEMA DI MAMMONA. Non potete servire a Dio (charitas - amore e giustizia) e a mammona (caritas - denaro e ricchezza):
24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. 25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Federico La Sala
Chiave concettuale *
É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la "cifra" e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è "utopico" per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: "La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine" (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte" (1 Gv 3, 14).
Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come "regina delle virtù". Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è "ordinata": essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda "graditi a Dio" (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di "estasi", un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).
La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: "questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri" (1 Gv 3, 11-12); "Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede", (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.
* Fonte: Chiave concettuale - Vatican.va
Il cardinale Betori: «Il Messale? Più fresco e fedele»
Parla l’arcivescovo di Firenze che ha seguito dall’inizio la traduzione Cei del nuovo libro liturgico «Espressione di unità, il rinnovato volume è frutto di un percorso sinodale suggellato dal Papa
di Giacomo Gambassi *
Definisce la giornata di domenica 29 novembre una «data significativa ». Perché con la prima Domenica d’Avvento inizia l’Anno liturgico e in contemporanea «cominciamo a usare il “nuovo” Messale tutti insieme per esprimere la comunione che è la Chiesa in Cristo », spiega il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze. Accadrà nella maggioranza delle diocesi italiane dove “debutterà” il rinnovato volume per celebrare l’Eucaristia. Betori può essere considerato uno dei fautori della terza edizione italiana del libro liturgico. Infatti il porporato, apprezzato biblista, ha seguito il lavoro di traduzione fin dall’inizio, ossia da quando era segretario generale della Cei. Domani alle 18 il cardinale presiederà la celebrazione eucaristica con il nuovo Messale nella Cattedrale di Firenze.
Eminenza, come leggere la scelta di adottare il Messale con la prima Domenica d’Avvento?
Celebrare tutti e ovunque allo stesso modo all’interno della Chiesa cattolica di rito romano è espressione dell’unità dei credenti in Cristo, dell’appartenenza all’unico popolo di Dio nel concreto contesto di incarnazione della fede. Per questo è importante che tutte le comunità locali, in specie quelle parrocchiali, si muovano all’unisono nel riferirsi alla medesima modalità del rito liturgico della Messa, quello codificato nella terza edizione del Messale Romano nella sua traduzione italiana. Se ogni parrocchia avesse deciso autonomamente, i fe- deli, a seconda della chiesa scelta per partecipare alla Messa, si sarebbero trovati domenica dopo domenica con forme liturgiche diverse. Come vescovi della Toscana - ma ciò mi risulta che accada in molte diocesi italiane - abbiamo allora stabilito che si cominciasse a usare il “nuovo” Messale tutti insieme.
Perché sono stati necessari 18 anni per giungere alla pubblicazione?
La terza edizione latina del Missale Romanum è stata promulgata il 20 aprile 2000 e pubblicata nel 2002, ma l’edizione a cui fa riferimento la traduzione italiana è quella emendata del 2008 che accoglie alcune ulteriori variazioni. I 18 anni diventano così 11. Va poi tenuto conto che alla base del linguaggio liturgico si pone il linguaggio biblico, per il quale la Chiesa italiana ha come riferimento normativo l’edizione della Bibbia promulgata nel 2007, da cui sono tratti i Lezionari liturgici pubblicati tra il 2007 e il 2010. Il lavoro di traduzione del Messale suppone tutti questi passaggi e si svolge ovviamente avendo come riferimento il testo biblico che viene riprodotto o costituisce ispirazione di antifone, orazioni, preghiere, ecc., ma anche la tradizione liturgica, la sensibilità letteraria odierna, la cantabilità di alcuni testi, e così via.
Un lavoro complesso.
E assai impegnativo in cui l’apporto degli esperti si è incrociato con revisioni e approvazioni dei vescovi fino all’approvazione finale dell’Assemblea della Cei del novembre 2018. Passato alla conferma della Santa Sede per la traduzione e all’autorizzazione degli adattamenti introdotti dalla nostra Conferenza - si tratta di testi già presenti nella seconda edizione del Messale italiano, ora ulteriormente rivisti - tutto il cammino si è concluso con l’approvazione data da papa Francesco il 16 maggio 2019. Un gesto «insolito ed eloquente» ha commentato un autorevole esperto, a cui ha fatto seguito il decreto della Congregazione per il culto divino. Un percorso in cui molte competenze, scientifiche, pastorali e magisteriali, si sono incrociate in un percorso profondamente sinodale. Va anche aggiunto che le norme sulle traduzioni dei testi liturgici hanno avuto una correzione di rotta con il Motu proprio di papa Francesco Magnum Principium del 2017 che ha comportato un significativo lavoro di ridefinizione dei testi nell’ultimo anno di lavoro. C’è da essere molto grati ai numerosi esperti che sono stati impegnati nella traduzione, come pure ai vescovi delle diverse Commissioni che hanno coordinato i lavori.
Nell’opinione pubblica il nuovo Messale è associato alle modifiche del Padre Nostro e del Gloria. Ma la ricchezza di novità è ben più ampia.
I due cambiamenti relativi all’inizio del Gloria e a due passaggi del Padre Nostro sono significativi di uno dei principi che reggono la traduzione, cioè la sua coerenza con i testi biblici di riferimento. È un aspetto molto importante perché così si contribuisce a creare un linguaggio di fede condiviso che ha alla sua base la Sacra Scrittura, si manifesta nella preghiera liturgica per giungere a nutrire la comunicazione della fede, dalla predicazione alla catechesi. Sarà però essenziale che ci si ponga con disponibilità all’ascolto di tutti i testi, in cui si è cercato di far emergere per quanto possibile la fedeltà alla tradizione del linguaggio liturgico latino.
Un esempio?
Nella seconda Preghiera eucaristica l’invocazione della venuta dello Spirito che nel latino è così espressa «Haec ergo dona... Spiritus tui rore sanctifica », era finora tradotta con «Santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito», mentre ora il celebrante prega «Santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito». Non ne acquista solo la fedeltà al latino e la valenza poetica del testo, ma anche il rinvio ai numerosi testi che utilizzano il simbolo della rugiada nella letteratura biblica e patristica. Siamo di fronte a un linguaggio rinnovato, in genere più fresco e fedele. Non sottovaluterei neanche l’attenzione al linguaggio inclusivo, peraltro senza esagerazioni.
Anche il canto ha un maggiore spazio?
Non meno importante è la promozione del canto liturgico, con l’inserimento della notazione musicale all’interno del formulario eucologico: nella stessa pagina abbiamo il testo di preghiera e direttamente la melodia per poterlo eseguire in canto. Insomma un gran lavoro che esalta le fonti, in specie quelle bibliche, ed è attento al contesto culturale e celebrativo attuale.
Il nuovo Messale può aiutare a riscoprire la bellezza della liturgia?
Le novità saranno percepite anzitutto dai sacerdoti in quanto si troveranno costretti a superare una certa assuefazione a formule ormai entrate nella memoria. Ci sarà quindi bisogno di un gran lavoro formativo che è stato avviato nelle diocesi in questi mesi, con appositi incontri. C’è da sperare che questa attenzione non si fermi qui. Poi ci sono i fedeli. Nella nostra diocesi abbiamo chiesto ai sacerdoti, fornendo loro una guida, alla fine della celebrazione domenicale negli ultimi due mesi, di ripercorrere i diversi momenti della Messa, illustrandone il significato e segnalando le novità introdotte dal “nuovo” Messale. Ma anche questo impegno formativo dovrà continuare. E poi c’è da incrementare il rapporto tra liturgia e vita. Solo quando questa risuona nella preghiera della Chiesa, fa risplendere come il mistero eterno che si celebra è vivo nella storia di cui siamo partecipi.
Leggi anche
* Avvenire sabato 28 novembre 2020 (ripresa parziale).
La Lettera. Papa Francesco e l’eredità di san Girolamo: amate le Sacre Scritture
Nel 16esimo centenario della morte, la Lettera apostolica rilancia la figura del grande Dottore della Chiesa, esempio anche per i giovani: partite alla ricerca del vostro patrimonio culturale
di Redazione (Avvenire, mercoledì 30 settembre 2020)
"Oggi ho firmato la Lettera apostolica Sacrae Scripturae affectus nel 16mo centenario della morte di San Girolamo. L’esempio di questo grande dottore e padre della Chiesa che ha messo la Bibbia al centro della sua vita, susciti in tutti un rinnovato amore alla Sacra Scrittura e il desiderio di vivere in dialogo personale con la Parola di Dio".
Lo ha annunciato oggi papa Francesco, al termine dell’udienza generale.
La Lettera (QUI IL TESTO) ripercorre la figura di San Girolamo, "di grande attualità per noi cristiani del XXI secolo”. Proprio l’affetto, l’amore per la Sacra Scrittura è l’eredità che Girolamo “ha lasciato alla Chiesa attraverso la sua vita e le sue opere”.
Nella Lettera Francesco ne ripercorre la vita ricordando la sua solida educazione cristiana e la sua dedizione agli studi, i suoi viaggi, le sue amicizie e le sue esperienze. Tra queste il deserto, "luogo delle scelte esistenziali fondamentali, di intimità e di incontro con Dio, dove attraverso la contemplazione, le prove interiori, il combattimento spirituale, arriva alla conoscenza della fragilità, con una maggiore consapevolezza del limite proprio e altrui, riconoscendo l’importanza delle lacrime”.
Ed è nel deserto che il giovane di Stridone “avverte la concreta presenza di Dio, il necessario rapporto dell’essere umano con Lui, la sua consolazione misericordiosa”. Girolamo ha consacrato “la sua esistenza a rendere sempre più accessibili le lettere divine agli altri, con il suo infaticabile lavoro di traduttore e commentatore”.
Viene ordinato sacerdote ad Antiochia intorno al 379 e si sposta poi a Costantinopoli, dedicandosi alla traduzione in latino di importanti opere dal greco. “È una benedetta inquietudine a guidarlo e a renderlo instancabile e appassionato nella ricerca” scrive papa Francesco, che riporta le stesse parole di Girolamo:
A Roma nel 382 diviene stretto collaboratore di papa Damaso, e partecipa ai cenacoli di lettura della Sacra Scrittura. In quegli anni Girolamo “intraprende una revisione delle precedenti traduzioni latine dei Vangeli, forse anche di altre parti del Nuovo Testamento”. “Per Girolamo, la Chiesa di Roma è il terreno fecondo dove il seme di Cristo porta frutto abbondante - osserva il Papa -. In un’epoca convulsa, in cui la tunica inconsutile della Chiesa è spesso lacerata dalle divisioni tra i cristiani, Girolamo guarda alla cattedra di Pietro come punto di riferimento sicuro: ‘Io che non seguo nessuno se non il Cristo, mi associo in comunione alla Cattedra di Pietro. So che su quella roccia è edificata la Chiesa’”.
Quando papa Damaso muore, Girolamo lascerà Roma e dopo vari viaggi e vari studi sceglierà di vivere a Betlemme, nei pressi della grotta della Natività, dove fonda due monasteri, uno maschile e uno femminile, con ospizi per l’accoglienza dei pellegrini.
Proprio a Betlemme, dove muore nel 420, Girolamo vive “il periodo più fecondo e intenso della sua vita, completamente dedicato allo studio della Scrittura, impegnato nella monumentale opera della traduzione di tutto l’Antico Testamento a partire dall’originale ebraico. Nello stesso tempo, commenta i libri profetici, i salmi, le opere paoline, scrive sussidi per lo studio della Bibbia”, chiedendo “continuo sostegno nella preghiera di intercessione per la riuscita della sua traduzione dei testi sacri ‘nello stesso Spirito con cui furono scritti’”. Un lavoro prezioso che ancora è possibile apprezzare nelle sue opere.
Nella Lettera Apostolica papa Francesco sottolinea che “lo studio di Girolamo si rivela come uno sforzo compiuto nella comunità e a servizio della comunità, modello di sinodalità anche per noi, per i nostri tempi e per le diverse istituzioni culturali della Chiesa". Il Papa ricorda l’attività epistolare di Girolamo, in particolare le missive in cui affronta le polemiche dottrinali, “sempre nella difesa della retta fede, rivelandosi uomo di relazioni, vissute con forza e con dolcezza".
Ed ecco le due dimensioni caratteristiche di Girolamo che bisogna considerare per una piena comprensione della sua personalità: "Da un lato, l’assoluta e rigorosa consacrazione a Dio, con la rinuncia a qualsiasi umana soddisfazione", dall’altro, "l’impegno di studio assiduo, volto esclusivamente a una sempre più piena comprensione del mistero del Signore”. Per queste due caratteristiche lo rendono modello “per i monaci, innanzitutto, perché chi vive di ascesi e di preghiera venga sollecitato a dedicarsi all’assiduo travaglio della ricerca e del pensiero; per gli studiosi, poi, che devono ricordare che il sapere è valido religiosamente solo se fondato sull’amore esclusivo per Dio, sulla spoliazione di ogni umana ambizione e di ogni mondana aspirazione”.
“Il tratto peculiare della figura spirituale di San Girolamo - rimarca Francesco - rimane senza dubbio il suo amore appassionato per la Parola di Dio”. Un altro tratto è l’obbedienza di cui è intriso il suo amore per le divine Scritture, nei confronti di Dio e, di conseguenza, "obbedienza anche a coloro che nella Chiesa rappresentano la vivente tradizione interpretativa del messaggio rivelato”. Un’obbedienza, tuttavia, che non è “mera recezione passiva di ciò che è noto”, ma che “esige, al contrario, l’impegno attivo della personale ricerca”.
“Possiamo considerare San Girolamo un servitore della Parola, fedele e laborioso, consacrato interamente a favorire nei suoi fratelli di fede una più adeguata comprensione del ‘deposito’ sacro loro affidato”.
Ma Girolamo è una guida per gli studiosi di oggi, "perché (...) conduce ogni lettore al mistero di Gesù, sia perché assume responsabilmente e sistematicamente le mediazioni esegetiche e culturali necessarie per una corretta e proficua lettura delle Sacre Scritture”.
Per questo il Papa addita l’attività di San Girolamo quanto mai importante anche nella Chiesa di oggi ed evidenzia quanto sia “indispensabile che l’atto interpretativo della Bibbia sia sorretto da specifiche competenze”, citando poi i centri di eccellenza della ricerca biblica: il Pontificio Istituto Biblico e l’Istituto Patristico Augustinianum a Roma, e a Gerusalemme l’École Biblique e lo Studium Biblicum Franciscanum ed esortando ogni Facoltà di Teologia ad “impegnarsi affinché l’insegnamento della Sacra Scrittura sia programmato in modo da assicurare agli studenti una competente capacità interpretativa, sia nell’esegesi dei testi, sia nelle sintesi di teologia biblica”.
Per Francesco va anche promossa “una formazione estesa a tutti i cristiani, perché ciascuno diventi capace di aprire il libro sacro e di trarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita”, per questo ricorda il motivo che l’ha spinto ad istituire la Domenica della Parola di Dio, iniziativa che deve “incoraggiare la lettura orante della Bibbia e la familiarità con la Parola di Dio”.
Il lavoro più noto di Girolamo è senza dubbio la traduzione dell’Antico Testamento in latino a partire dall’originale ebraico, la cosiddetta Vulgata. Ai tempi di Girolamo, spiega il Papa, “i cristiani dell’impero romano potevano leggere integralmente la Bibbia solo in greco”, per i lettori di lingua latina non vi era una versione completa della Bibbia bensì solo alcune traduzioni, parziali e incomplete, a partire dal greco. “A Girolamo, e dopo di lui ai suoi continuatori, spetta il merito di aver intrapreso una revisione e una nuova traduzione di tutta la Scrittura - si legge nella Lettera Apostolica -. Iniziata a Roma la revisione dei Vangeli e dei Salmi, con l’incoraggiamento di Papa Damaso, Girolamo diede poi inizio nel suo ritiro di Betlemme alla traduzione di tutti i libri anticotestamentari, direttamente dall’ebraico: un’opera protrattasi per anni”.
“Il risultato è un vero monumento che ha segnato la storia culturale dell’Occidente, modellandone il linguaggio teologico” ed è possibile affermare che “l’Europa del medioevo ha imparato a leggere, a pregare e a ragionare sulle pagine della Bibbia tradotta da Girolamo”.
Con la Vulgata, scrive ancora il Papa “Girolamo è riuscito a ‘inculturare’ la Bibbia nella lingua e nella cultura latina e questa sua operazione è diventata un paradigma permanente per l’azione missionaria della Chiesa”. Per il Papa “la Bibbia ha bisogno di essere costantemente tradotta nelle categorie linguistiche e mentali di ogni cultura e di ogni generazione, anche nella cultura secolarizzata globale del nostro tempo”.
Quindi Francesco avverte “senza traduzione, le differenti comunità linguistiche sarebbero nell’impossibilità di comunicare tra loro; noi chiuderemmo gli uni agli altri le porte della storia e negheremmo la possibilità di costruire una cultura dell’incontro. Senza traduzione, in effetti, non si dà ospitalità, e anzi si rafforzano le pratiche di ostilità”. E invece “il traduttore è un costruttore di ponti”.
La celebrazione del centenario della morte di San Girolamo porta a guardare “alla straordinaria vitalità missionaria espressa dalla traduzione della Parola di Dio in più di tremila lingue”, e ai tanti “missionari ai quali si deve la preziosa opera di pubblicazione di grammatiche, dizionari e altri strumenti linguistici che offrono i fondamenti alla comunicazione umana e sono un veicolo per il ‘sogno missionario di arrivare a tutti’. Da qui l’invito a “valorizzare tutto questo lavoro e investire su di esso, contribuendo al superamento delle frontiere della incomunicabilità e del mancato incontro”.
Infine, un invito ai giovani: “Specialmente ai giovani voglio lanciare una sfida - conclude Francesco - partite alla ricerca della vostra eredità. Il cristianesimo vi rende eredi di un insuperabile patrimonio culturale di cui dovete prendere possesso. Appassionatevi di questa storia, che è vostra. Osate fissare lo sguardo su quell’inquieto giovane Girolamo che, come il personaggio della parabola di Gesù, vendette tutto quanto possedeva per acquistare ‘la perla di grande valore’”.
“Girolamo è la ‘Biblioteca di Cristo’ - nota il Papa - una biblioteca perenne che sedici secoli più tardi continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Cristo, amore che è indissociabile dall’incontro con la sua Parola. Per questo l’attuale centenario rappresenta una chiamata ad amare ciò che Girolamo amò, riscoprendo i suoi scritti e lasciandoci toccare dall’impatto di una spiritualità che può essere descritta, nel suo nucleo più vitale, come il desiderio inquieto e appassionato di una conoscenza più grande del Dio della Rivelazione”. E con le parole di Girolamo Francesco raccomanda: “Leggi spesso le Divine Scritture; anzi le tue mani non depongano mai il libro sacro”.
Bruno Forte: “Nuova versione Cei del Padre Nostro in uso dal 29 novembre"
L’arcivescovo di Chieti-Vasto e teologo annuncia le date dell’uscita del nuovo messale con la preghiera modificata e spiega le motivazioni che hanno spinto i vescovi italiani a cambiare il ‘non indurci in tentazione’: “Dio ci ama, non ci tende trappole per cadere nel peccato”
Federico Piana - Città del Vaticano *
E’ monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, presidente della Conferenza abruzzese-molisana e noto teologo, ad annunciare in anteprima che “il Messale con la nuova versione del Padre Nostro voluta dalla Conferenza Episcopale Italiana uscirà qualche giorno dopo la prossima Pasqua”. Nella preghiera, l’invocazione a Dio ‘non indurci in tentazione’ è stata modificata con una traduzione ritenuta più appropriata: ‘non abbandonarci alla tentazione’. “L’uso liturgico sarà introdotto a partire dalle Messe del 29 novembre di quest’anno, prima domenica d’Avvento”.
Monsignor Forte, perché i vescovi italiani hanno deciso la modifica di una delle più antiche e conosciute preghiere cristiane?
R. - Per una fedeltà alle intenzioni espresse dalla preghiera di Gesù e all’originale greco. In realtà l’originale greco usa un verbo che significa letteralmente ‘portarci, condurci’. La traduzione latina ‘inducere’ poteva richiamare l’omologo greco. Però, in italiano ‘indurre’ vuol dire ‘spingere a..’ in sostanza, far sì che ciò avvenga. E risulta strano che si possa dire a Dio ‘non spingerci a cadere in tentazione’. Insomma, la traduzione con ‘non indurci in...’ non risultava fedele.
E allora i vescovi italiani hanno pensato di trovare una traduzione migliore...
R. - Un interrogativo che si sono posti anche episcopati di tutto il mondo. Ad esempio, in spagnolo, lingua più parlata dai cattolici nel pianeta, si dice ‘fa che noi non cadiamo nella tentazione’. In francese, dopo molti travagli, si è passati da una traduzione che era ‘non sottometterci alla tentazione’ alla formula attuale che è ‘non lasciarci entrare in tentazione’. Dunque, l’idea da esprimere è questa: il nostro Dio, che è un Dio buono e grande nell’amore, fa in modo che noi non cadiamo in tentazione. La mia personale proposta è stata che si traducesse in ‘fa che non cadiamo in tentazione’ però dato che nella bibbia Cei la traduzione scelta è stata ‘non abbandonarci alla tentazione’ alla fine i vescovi per rispettare la corrispondenza tra il testo biblico ufficiale e la liturgia hanno preferito quest’ultima versione.
Molti teologi e pastori hanno fatto notare che la vecchia espressione ‘non ci indurre in tentazione’ facesse riferimento alle prove che Dio permette nella nostra vita...
R. - Una cosa è la prova, in generale, ma il termine che si trova nella preghiera del Padre Nostro è lo stesso che viene usato nel Vangelo di Luca nel riferimento alle tentazioni di Gesù, che sono vere tentazioni. Allora, non si tratta semplicemente di una qualunque prova della vita ma di vere tentazioni. Qualcosa o qualcuno che ci induce a fare il male o ci vuole separare dalla comunione con Dio. Ecco perché l’espressione ‘tentazione’ è corretta ed il verbo che le corrisponde deve essere un verbo che faccia comprendere che il nostro è un Dio che ci soccorre, che ci aiuta a non cadere in tentazione. Non un Dio che in qualunque modo ci tende una trappola. Questa è un’idea assolutamente inaccettabile.
Questo cambiamento provocherà qualche problema ai fedeli abituati alla vecchia versione?
R. - Sostanzialmente, la modifica è molto limitata. Non credo che dovrebbero esserci grossi problemi. Dobbiamo aiutare le persone a capire che non si tratta di voler un cambiamento fine a se stesso ma di cambiare per pregare in maniera ancora più consapevole e vicina a quelle che sono state le intenzioni di Gesù.
* Fonte: Vatican News, 28.01.2020.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VENTICINQUE SECOLI DI LETARGO ... *
Il libro di tutti i libri di Roberto Calasso
di Emanuele Zoppellari Perale (il Tascabile, 26.11.2019)
Due anni fa Roberto Calasso diagnosticò la condizione che viviamo come “l’innominabile attuale”, predominio del pensiero secolare e dei suoi limiti a scapito del sacro. Il libro di tutti i libri si muove, in direzione contraria, verso le storie che compongono l’Antico Testamento.
Già ne L’innominabile attuale l’autore sembrava voler parlare “a chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione - o, più precisamente, la superstizione - della società”. Ora, in un continente di templi vuoti e storie deboli, Calasso torna a quelle storie forti che per millenni hanno riempito i templi. Muovendosi da questa prospettiva, Il libro di tutti i libri segue con coerenza i fili del discorso che il suo autore è andato intessendo da quasi quarant’anni: il mito ( Le nozze di Cadmo e Armonia ; Ka), il sacrificio (L’ardore), l’elezione (K.), il passaggio dalla dieta frugivora all’imitazione dei carnivori (Il cacciatore celeste).
Ma il suo campo d’indagine, questa volta, è tra i più enigmatici. La Bibbia, ineguagliata per clamorose omissioni e contraddizioni inspiegabili, resta infinita, tuttora ineludibile e sconvolgente. Di fronte alle sue storie, i “secoli contati” che E.M. Cioran attribuiva al cristianesimo e al religioso in generale parrebbero ancora lontani. Non a torto Goethe lo definì, appunto, “il libro di tutti i libri”, da cui qualsiasi altro parte per poi tornarvi, e nella cui lettura, dedalo iniziatico, invitava a perdersi e ritrovarsi di continuo.
Le nozze di Cadmo e Armonia si apre con una frase di Sallustio, “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”, valida anche in questo caso. Lo sguardo di Calasso non è insensibile alla filologia - come altrimenti affrontare un libro composto da una collezione di testi ebraici arrivataci passando tramite il greco dei Settanta al latino della Vulgata fino al volgare in cui la leggiamo? - e ciononostante evita di rimanere invischiato nella pedante miopia di erudizione e accademismo. Tiene conto, altresì, del dato storico: gli Ebrei rientrati a Canaan dall’Egitto non sconfissero davvero Gerico - dicono gli archeologi - ma la trovarono già distrutta, e la vicenda di Mosè non ha riscontro in fonti esterne alla Bibbia, tanto da metterne in dubbio l’esistenza stessa. Importa poco: non si tratta di una ricostruzione storica di fatti accertati. Qui è il racconto a parlare, ed è al sapore massimo di ogni sua parola che si rivolge l’attenzione come metodo critico - persino e soprattutto nei suoi interstizi, nei suoi punti di rottura, nelle pieghe del testo e in ciò che implicano o presuppongono, in ciò che la narrazione omette, o ripete ossessivamente.
La lettura della Bibbia secondo Calasso è a sua volta un invito a rileggere la Bibbia al di là o a prescindere dalle sue innumeri interpretazioni, seguendone il mŷthos e considerandola un intreccio favoloso e unitario (la “fiaba delle fiabe” di Cristina Campo), una biblioteca sterminata ma essenzialmente coesa in cui tutte le storie sono “sinottiche e simultanee” e tutti i versetti collegati a ciascun altro versetto, perché ogni cosa è sullo stesso piano.
Si pensi che di frequente nel testo ebraico i periodi si aprono con la congiunzione vav, spesso tradotta “così”, che meglio corrisponderebbe al nostro “e”. È il potere della paratassi: permette di dire, non di spiegare. E la Bibbia, più che spiegare, capire o consolare, vuole raccontare.
E che cosa racconta questa storia, che secondo una tradizione ebraica il suo autore, il Dio Iahvè, avrebbe avuto come figlia unica e amatissima all’alba di ogni tempo, e che avrebbe dondolato sulle ginocchia, prima di donarla a Mosè e al suo popolo, purché questo non dimenticasse mai di riservargli uno spazio? Ebbene, racconta principalmente di eletti.
L’elezione è un avvenimento innaturale, un sovvertimento dell’ordine delle cose. La storia che Dio vuole scrivere supera, ribalta e nega la legge naturale di necessità con cui si svolgono ordinariamente le cose - legge che, tuttavia, Dio stesso ha creato. È un paradosso che la Bibbia enuncia in più punti, ma a cui saggiamente non intende fornire una spiegazione.
Innanzitutto, coloro che Iahvè sceglie, coloro che riempie di grazia, non sono necessariamente - anzi, non sono pressoché mai - scelti per merito. Il caso del patriarca Abramo è paradigmatico: in 75 anni, scrive Calasso,
non aveva fatto altro che seguire il padre. Nulla lo distingueva, se non aver sposato una donna molto bella, senza averne avuto figli. E ancora viveva al seguito del padre [...] Abramo non era re né sacerdote [né] capofamiglia. E non si faceva notare neppure per devozione. Ma soltanto Abramo fu scelto da Iahvè.
O si prenda suo nipote Giacobbe. Aveva raggirato il fratello Esaù, aveva ingannato il padre Isacco per ottenere la sua benedizione, aveva truffato e mentito per avere ciò che desiderava da chiunque avesse incontrato e se l’era sempre cavata, col sotterfugio o con la fuga. Eppure è l’unico, in tutta la Bibbia, a cui si spalancano le porte dell’invisibile, nella forma di una scala che sale ai cieli.
Né Abele, né Isacco, né Giacobbe, né Giuseppe, né Salomone furono primogeniti, mentre nel loro mondo la primogenitura - fatto naturale e indelebile - garantiva un vantaggio e un onore perpetui. Iahvè stesso volle per Sé i primogeniti, per esempio quando li reclamò con l’ultima piaga d’Egitto, la più letale. E ciononostante, i Suoi protagonisti non sono primogeniti, anzi, scavalcano il diritto naturale stabilito dalla primogenitura. La legge a cui obbediscono, o meglio, la legge che li ha scelti, si beffa della legge di necessità che vincola questo mondo. La loro legge è di quell’altro, ed è la grazia. Gli ultimi saranno i primi, si è detto in seguito.
Non la legge di natura, dunque, ma nemmeno l’ordine stabilito da opere e meriti. Qual è infatti il merito di Abele, che sacrificò gli animali, rispetto al demerito di Caino, che sacrificò i frutti della terra? Quale il merito di Sem, figlio di Noè e progenitore degli Ebrei, rispetto al demerito di suo fratello Iafeth, presumibilmente un giusto, che tuttavia non fu scelto? Regna soltanto il puro arbitrio di Dio, cui Abramo dovette obbedire quando gli venne chiesto di sacrificare il figlio Isacco, benché gli fosse stato promesso che proprio tramite Isacco sarebbe passata la sua infinita stirpe. Qui sta la “differenza irriducibile” della Bibbia: è una storia che, prima di ogni altra cosa, non segue leggi a noi comprensibili.
Per questo essere ‘scelti’ è quanto di più terrificante possa avvenire, poiché l’elezione determina l’esclusione dell’ordine naturale delle cose e l’appartenenza esclusiva all’invisibile. La Bibbia parla di “terrore dell’elezione”. Essere scelti significa che la propria storia non è più soltanto propria: è essenzialmente di Dio, e tramite essa passa una storia più grande, insondabile, i cui limiti si estendono oltre il tempo e lo spazio, oltre qualsiasi nostra capacità di pensare una storia.
“Se la grazia agisse soltanto come favore e non come condanna” - si legge nel libro -, se non persistesse inspiegato “il mistero della fortuna dei malvagi e delle sofferenze dei giusti”, vivremmo un mondo
La Bibbia di Calasso racconta precisamente quest’altra macchina, che ci lascia nello sconcerto come un roveto che arde senza consumarsi, e di fronte alla quale il mondo secolare e scientifico impallidisce.
Saul, per esempio, sapeva bene che essere eletti non significa avere il favore di Iahvè. Un giorno suo padre l’aveva mandato a cercare due asine smarrite. Persosi lungo la strada, aveva incontrato Samuele, un “veggente”. Questi certo poteva mostrargli la via di casa, e invece scelse di rivelargli che era destinato a diventare il primo re d’Israele. “Il caso e il destino stavano per sovrapporsi in lui” commenta Calasso. “Opprimente saldatura. Non avrebbe più respirato senza pensare a niente, come quando camminava per sentieri sconosciuti alla ricerca delle asine del padre, annoiato, distratto. [...] Ormai nulla di simile sarebbe accaduto nella sua vita”. La sua storia non era più la sua. Serviva a una storia più grande, in cui lui doveva addirittura interpretare una parte negativa.
La Bibbia non tace che sia una sensazione tremenda, e afferma inoltre che vivere come eletti sotto lo sguardo perenne di Dio sia la massima oppressione. È la condanna e il privilegio del popolo ebraico, ed è ciò che più di tutto lamenta Giobbe, a cui l’incessante attenzione divina toglie il fiato. Kafka una volta
Anche ciò che è sacro oscilla tra ciò che deve essere preservato e ciò che viene allontanato o, come suggerisce la parola stessa, sacrificato. L’essere sacro è l’essere eletto, auratico e inestimabile (“The temple is holy” dice il Canto XCVII di Ezra Pound “because it is not for sale”). “Comune a tutti i significati della consacrazione è che un essere vivente o un oggetto vengono sottratti all’uso e alla vita comune. L’invisibile li investe [...] non appartengono più a se stessi, perdono ogni pretesa di autosufficienza. È il contrario di ciò che accade nel mondo secolare”. Dopotutto, se non si riconosce l’invisibile, nulla più può essere fatto sacro.
Questa storia di eletti che Iahvè scrive nel mondo si serve di due meccanismi: il divieto e la sua infrazione. E il primo a infrangere i divieti divini è Iahvè stesso. Il più grande nemico di idoli e tentativi di rappresentare il divino creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, come il primo di tutti gli idoli. A Davide non perdonò mai di aver mandato Uria a morire in guerra per prendere sua moglie Betsabea, eppure è da Betsabea che nacque Salomone, ed è da Salomone che passa la genealogia da cui venne, un giorno, Gesù. Dio proibisce e condanna, ma la storia che vuole raccontare necessita del male e della trasgressione, e questo, dalla nostra prospettiva, pare inaccettabile.
Perché Dio dovrebbe operare contro Se stesso e la propria parola? Forse perché, su questa via né regolare né “aequa” (così nella Vulgata), non potevano esserci “una necessità, un calcolo, una misura, che escludessero i suoi interventi fulminei e devastanti - o altrimenti salvifici - sulla terra. Non potevano esserci storie, ma una storia: la storia”, racconto che viola le regole umane e persino le regole divine accessibili all’essere umano.
Sta qui il nesso per comprendere quello che è forse il passaggio più sconvolgente della Bibbia, ossia, tra Antico e Nuovo Testamento, il superamento dell’ordine sacrificale col sacrifico unico di Dio a Dio stesso. In precedenza, nel Tempio di Gerusalemme e prima ancora, il sacrificio riscattava la vita con la vita. “Ciò che faceva [...] di quei quadrupedi l’unico oggetto regolare delle offerte era [il fatto che erano] vivi. Se il debito era la vita, non poteva essere saldato se non con altra vita. Sempre insufficiente, certo. Perciò gli olocausti andavano ripetuti”.
Poi, secondo il racconto, qualcosa avvenne per cui non sarebbe più stato necessario sacrificare, e il sangue di un unico eletto, questa volta un “essere divino”, sarebbe bastato per l’eternità. Ma così facendo la salvezza contraddiceva o quantomeno abrogava le ancestrali leggi della Tōrāh sulla necessità del sacrificio. E ancor più sconvolgente è il fatto, ben compreso da Simone Weil, che l’“Agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?”. Nell’allusione al Nuovo Testamento, che rimane distante, oggetto - forse - di un’opera futura, Il libro di tutti libri si muove all’ombra di questa domanda impervia e scandalosa, la domanda delle domande, incapace di risposta e per questo in grado di far tremare l’innominabile attuale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Profezia è storia / 6.
Il Nome che si deve imparare
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 6 luglio 2019)
La tentazione di tutti i costruttori di templi è il desiderio di catturare Dio nella dimora che gli hanno edificato. Perché il rischio di ogni teoria e prassi del sacro è la trasformazione della divinità in un bene di consumo. La Bibbia ci ricorda che la presenza di Dio nei templi e sulla terra è una presenza assente, dentro la quale si può compiere l’umile esercizio della fede. Il sacro biblico è un sacro parziale, il tempio è luogo religioso imperfetto. Questa necessaria "castità religiosa", che lascia sempre indigenti e desiderosi del "Dio del non-ancora" mentre se ne sperimenta una certa presenza vera e imperfetta, è stata custodita e coltivata gelosamente dalla Bibbia; e un giorno ha consentito agli ebrei di continuare la loro esperienza di fede anche con il tempio distrutto. La povertà di dover stare in un tempio meno luminoso di quelli degli altri popoli, generò la ricchezza di una religione liberata dal luogo sacro e quindi possibile anche negli esili. Solo gli idoli sono abbastanza piccoli da essere contenuti dai loro santuari. Il Dio biblico è l’Altissimo perché infinitamente più alto di ogni tetto di tempio che gli possiamo costruire.
La dedicazione del tempio avviene durante una grande assemblea di tutto Israele. La liturgia inizia con il trasporto nel tempio dell’arca dell’alleanza, prelevandola dalla tenda dove l’aveva posta Davide: «Il re Salomone e tutta la comunità d’Israele, convenuta presso di lui, immolavano davanti all’arca pecore e giovenchi, che non si potevano contare né si potevano calcolare per la quantità» (1 Re 8,5). L’arca dell’alleanza (che, come ricorda il testo, conteneva "soltanto" le tavole della Legge di Mosè) è sacramento del tempo nomade dell’esodo e del Sinai, è il legame tra passato, presente e futuro. Un altro filo d’oro che unisce il nuovo tempio alla storia antica d’Israele è la presenza della nube: «Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nube riempì il tempio del Signore, e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il tempio» (8,10-11). La nube, infatti, aveva già riempito la "tenda del convegno" quando Mosè ne ebbe completato la costruzione: «Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la Dimora»; neanche «Mosè poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora» (Esodo 40,34-35).
Il tempio inizia la sua vita pubblica sotto il segno di una radicale ambivalenza. Esso è la nuova tenda del convegno, la nuova dimora dell’Arca e delle tavole della Legge, la casa che custodisce le radici e il Patto. Al tempo stesso, la nube scura dice che il tempio ospita una presenza che pur essendo vera è meno vera dell’assenza del Dio, che è signore del tempio perché non è costretto ad abitarvi. La nube è simbolo della presenza della "gloria di YHWH" e dell’oscurità della nostra capacità di vederlo e di comprenderlo. E così Salomone, in quello che è forse il verso più bello e il senso profondo di tutto questo grande capitolo, può (e deve) esclamare: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito!» (8,27). E così Salomone, nel giorno stesso della dedicazione del tempio, il suo capolavoro religioso e politico, ripete più volte che la "dimora" vera di Dio non è il suo tempio meraviglioso. È questa capacità di continua auto-sovversione che rende la Bibbia viva e capace di sorprenderci sempre.
Un’altra strategia narrativo-teologica per esprimere l’assenza-presenza di Dio è la distinzione tra YHWH e il suo nome. Il nome nella Bibbia dice molte cose, e tutte importanti (la Bibbia è anche una storia di nomi dati e cambiati, detti e taciuti). YHWH, il nome che Dio rivela a Mosè sul Sinai, è rivelazione perché svela e subito ricopre (ri-velare). È un nome/non-nome ("Io sono colui che sono"), che non si lascia manipolare né pronunciare se non nel tempio in speciali occasioni. Il nome svolge allora la stessa funzione della nube: svela e rivela, dice e tace, illumina e abbuia. Ogni volta che un ebreo entrava nel tempio doveva rivivere qualcosa dell’incontro di Mosè con il roveto: un dialogo con qualcuno che arde senza consumarsi, che parla senza esserci: «Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa, verso il luogo di cui hai detto: "Lì porrò il mio nome!"» (8,29). Nel tempio c’è il nome di Dio per ricordarci che il Dio del nome non è lì, perché se ci fosse non sarebbe Dio. E se il tempio non contiene Dio, ma solo il suo nome, è possibile pregare e incontrare YHWH ovunque.
La fede biblica ha fatto di tutto per salvaguardare la co-essenzialità della presenza e assenza di Dio. Tutte le deviazioni idolatriche che ha conosciuto lungo la sua lunga storia sono state l’esito dell’uscita della nube dal tempio e dell’illusione che il nome di YHWH fosse YHWH stesso. Quando la nube del mistero si dirada e scompare riusciamo finalmente a vedere gli dèi in una luce chiarissima solo perché sono diventati idoli. Il prezzo del vedere senza la nube è vedere qualcosa di diverso - che ci piace tanto, ma che non è Dio. Finché riusciamo a restare indigenti di fronte a una nube che avvolge il mistero e ad un nome che svela e rivela, possiamo sperare in modo non vano che oltre quella nube e quel nome ci possa essere una presenza viva; quando invece, per vedere meglio, non accettiamo più questa povertà religiosa, quando scacciamo la nube e vogliamo vedere Dio faccia a faccia, quando pronunciando il nome di Dio pensiamo di conoscerlo perfettamente, lì finisce la fede biblica e inizia l’idolatria.
La fede vive nello spazio che si crea tra la nostra sincera esperienza soggettiva di Dio e la realtà di Dio in sé: quando questo spazio si riduce con esso si riduce la fede; quando si annulla, è la fede che si annulla. La pronuncia del nome di Dio ci salva finché teniamo viva la coscienza che tra quel nome e Dio c’è una nube di mistero che non riduce la fede ma la rende umanissima e vera. Sotto il sole l’unica esperienza di Dio che possiamo fare è dentro una nube densa, e il nome al quale Dio risponde è un non-nome che riesce a chiamarlo e svegliarlo finché sa di chiamarlo con un nome imperfetto e imparziale e quindi vero. E poi, se come dice l’Apocalisse, «porteranno il suo nome sulla fronte» (22,4), allora il nome di Dio ce lo rivela l’altro mentre ci guarda in volto - e noi lo riveliamo a lui.
Dentro questo orizzonte di luce e d’ombra, di vicinanza e di distanza, possiamo entrare nella grande preghiera di Salomone nel suo tempio. È una preghiera solenne, abbraccia l’intera storia della salvezza che dall’Egitto arriva fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme e all’esilio, e forse oltre. È un canto individuale e collettivo; è ringraziamento, memoria e supplica, con incastonate alcune autentiche perle. Il suo centro è ancora l’esperienza dell’esilio: «Se nella terra in cui saranno deportati, rientrando in se stessi, torneranno a te supplicandoti nella terra della loro prigionia, dicendo: "Abbiamo peccato, siamo colpevoli, siamo stati malvagi", se torneranno a te con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima nella terra dei nemici che li avranno deportati ... tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, la loro preghiera e la loro supplica e rendi loro giustizia» (8,47-49).
È meravigliosa questa preghiera detta da Salomone e scritta da scribi deportati in Babilonia che stavano imparando una lezione essenziale: ci si salva nell’esilio "rientrando in se stessi" e "tornando a te [Dio]". Sono questi i due movimenti primi negli esili, che sono molto più radicali e decisivi del "ritornare a casa". Perché senza il "mi alzerò e andrò da mio padre" (Lc 15, 18), nessun ritorno è ritorno di salvezza - nella Bibbia e nella vita non è sufficiente tornare a casa perché terminino gli esili, come ci ha raccontato anche il Terzo Isaia.
L’esperienza dell’esilio ispira anche l’altra splendida preghiera di Salomone per lo straniero: «Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, se viene ... a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, e fa’ tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero» (8,41-43). Se la dimora di Dio è "il cielo" (ritornello costante) allora ogni uomo sotto il sole lo può pregare, perché questo Dio non è più imprigionato dai confini nazionali e il suo regno è la terra intera. Sono questi brani ispirati da una religiosità universalistica e inclusiva, scritti da un popolo che stava ricostruendo attorno al suo Dio diverso la sua identità nazionale ferita mortalmente, che fanno della Bibbia qualcosa a sua volta diverso da un libro che narra le vicende storiche e teologiche di un singolo popolo. Queste frasi, queste preghiere, potevano e dovevano non esserci in questi libri storici; e invece ci sono, come "fiori del male" generati lungo i fiumi di Babilonia. Solo un popolo che aveva conosciuto l’umiliazione di sentirsi straniero in un grande impero dai grandi dèi, poté capire che se c’è un Dio vero e se la terra non è solo popolata di idoli, allora questo deve ascoltare la preghiera di ogni persona; perché se il mio Dio non ascolta lo straniero allora non ha orecchie capaci di ascoltare neanche me, perché, semplicemente, è un banale idolo che sa operare solo dentro il suo finto recinto sacro. La fede biblica degli esiliati comprese che il suo Dio era diverso perché stava diventando il Dio di tutti.
L’umanesimo biblico e il cristianesimo ci hanno detto e ridetto che se c’è un Dio vero, deve essere il Dio di tutti. Lo sapevamo, ma lo abbiamo imparato veramente durante le guerre, le deportazioni, i campi di prigionia, nei soldati "nemici" nascosti dentro le nostre case, quando abbiamo saputo leggere, nel grande dolore, il "nome di Dio" sulla fronte di chi bussava alla nostra porta, di chi arrivava ai nostri confini e nei nostri porti. I nostri nonni e i nostri genitori lo avevano imparato, e su questa lezione della carne e del sangue hanno costruito e ricostruito l’Europa. Noi lo abbiamo dimenticato. Ma forse nel lungo esilio dell’umano che stiamo attraversando potremo ancora reimparare quel Nome.
Sul tma, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
La filologia al servizio delle nazioni. Storia, crisi e prospettive della filologia romanza
di Stefano Rapisarda *
«Se un giorno la filologia morisse, la critica morirebbe con lei, la barbarie rinascerebbe, la credulità sarebbe di nuovo padrona del mondo». Così Ernest Renan ne "L’avenir de la science" (1890) tesseva un altissimo elogio della filologia, una delle scienze regine del XIX secolo.
Oggi, al tempo delle fake news e della post-verità, quelle parole ci ricordano che la filologia può essere ancora argine alla barbarie. E ci ricordano che la filologia, quella con aggettivi e quella senza, è intrinsecamente politica. Non è utile o interessante in sé: lo è quando è schierata, militante, "calda", quando tocca interessi, quando serve interessi. Quando è "al servizio" di un Principe o di un partito o di uno Stato o di una visione del mondo.
Ci ricordano insomma che la filologia è anche politica, come sapevano Lorenzo Valla e Baruch Spinoza, Ernest Renan e Ulrich Wilamowitz-Möllendorff, Gaston Paris e Paul Meyer, Eduard Koschwitz e Joseph Bédier, Ernst Robert Curtius e Erich Auerbach, Cesare Segre e Edward Said.
Eppure la filologia, con o senza aggettivi, oggi sa di polvere e di noia. Ciò sollecita varie domande: perché questa antica "scienza del testo" si è ridotta al margine della cultura di oggi? Può tornare al centro dei bisogni intellettuali dell’uomo contemporaneo? Quale tipo di filologia può ancora servire il mondo e servire al mondo?
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SCHEDA - Academia.Edu
La rabbia e l’orgoglio dei filologi. A proposito di "La filologia al servizio delle nazioni" di Stefano Rapisarda
di Claudio Giunta ("Le parole e le cose", 24.10.2018) *
Chissà se i medici dubitano della medicina, gli ingegneri dell’ingegneria, i parrucchieri della parruccheria con lo stesso zelo con cui gli umanisti di oggi dubitano dell’umanesimo? Probabilmente no: ci saranno sempre tumori da curare, ponti da costruire, capelli da tagliare, sarà sempre abbastanza facile, per loro, rispondere alla domanda «Sì, ma a che cosa servite?». Le discipline umanistiche sono sempre state un po’ meno necessarie, ma c’è la diffusa impressione che il loro credito sia andato diminuendo in fretta negli ultimi decenni, per l’indebolirsi delle culture nazionali, l’impoverimento degli Stati che pagano i professori di ‘umanità’, il prevalere del sapere tecnico-scientifico, internet e le solite altre cose. In questo quadro non roseo, in La filologia al servizio delle nazioni Stefano Rapisarda riflette sulla sorte - anch’essa parrebbe non rosea - di una delle discipline in cui si articola lo studio della letteratura: la filologia, appunto, e la filologia romanza in particolare.
Il libro ha tre parti. Nella prima, Rapisarda constata la crisi degli studi filologici: crisi che non dipende dalla diminuita qualità dei prodotti (anzi, soprattutto in Italia i prodotti di questi studi continuano ad essere eccellenti, e nel novero vanno inclusi quelli dello stesso Rapisarda, che è un medievista insigne) bensì da una sorta di fine del mandato sociale che i filologi un tempo detenevano, non solo nel campo della cultura ma anche in quello, più ristretto, dello studio universitario della letteratura: delle ricerche e dei pareri dei filologi non ci si cura più granché.
Nella seconda parte Rapisarda racconta la storia della filologia romanza negli ultimi due secoli isolando una serie di ‘paradigmi’, cioè di modelli che hanno informato lo studio delle letterature neolatine del Medioevo: un paradigma nazionalistico sviluppatosi soprattutto in Germania e in Francia, vigorosissimo per tutto l’Ottocento e il primo Novecento; un paradigma Curtius, che mira invece al superamento delle moderne frontiere nazionali e cerca l’unità culturale là dove si erano cercati soprattutto i documenti delle distinte identità nazionali; un paradigma della ‘semiotica filologica’, che prova a far dialogare la filologia con lo strutturalismo e le altre scienze umane e sociali (non credo di forzare il pensiero dell’autore se dico che i frutti di questo dialogo gli paiono, come paiono anche a me, praticamente nulli); un paradigma della ‘filologia materiale’, che in vario modo valorizza la materialità dei testimoni manoscritti.
Nella terza parte Rapisarda si domanda «Che fare?», e risponde - più o meno - che la disciplina va reimpostata in chiave davvero comparatistica come Weltphilologie, allargando lo sguardo alle linee di confine, in particolare studiando meglio di come si sia fatto sinora i rapporti tra Europa continentale e Mediterraneo (filologia euro-mediterranea) e i rapporti tra Europa e Oriente (filologia euro-asiatica). Orizzonti tanto vasti non incoraggeranno il dilettantismo? E di fronte alla globalizzazione imposta dall’economia e dai media la missione delle discipline umanistiche, e della filologia in ispecie, non dovrebbe essere proprio quella di distinguere con pazienza, badando alle differenze anziché alle analogie superficiali? Rapisarda oscilla. Da un lato, è un filologo troppo esperto per non vedere che questa neo-Weltphilologie produce spesso studi fragili, velleitari, ideologici in senso deteriore («Atene nera» di Bernal? Davvero?); dall’altro, prova una certa nostalgia per l’Età dell’Impegno, e pur prendendo le distanze dagli eccessi comparatistici, elogia il fatto che anziché di minuzie che non interessano nessuno si parli di cose: «Sotto il profilo probatorio [European Modernity and the Arab Mediterranean di Karla Mallette] è un libro discutibile, e infatti se ne discute e io stesso ne ho discusso. Ma almeno c’è vita, passione, entusiasmo, ardimento intellettuale. Ciò che da molto manca all’algido tecnicismo della filologia europea». Non mi unirei all’elogio.
A unificare le tre parti, infine, un’idea fissa, un motivo ricorrente che è poi anche la tesi fondamentale del libro, e che potremmo definire come un sobrio appello alla militanza: «La filologia non è utile o interessante in assoluto, lo è quando si applica ai temi ideologicamente caldi intorno ai quali è nata [...]. L’auspicio è che le filologie si ridefiniscano intorno ai ‘temi caldi’ di un’epoca, alle passioni politico-ideologiche, ai Grandi Libri sui quali ogni civiltà è costruita, e che esse riannodino i legami con la comunità di cui sono espressione». Vasto programma.
Sono d’accordo su molte delle opinioni che Rapisarda sviluppa nel suo libro, sottoscriverei quasi ogni pagina, anche se quasi nessuna pagina avrei saputo scrivere: perché sono ben lontano dall’avere l’ampiezza d’informazione e di visione che ha lui (ma credo che ben pochi tra gli studiosi in attività sappiano padroneggiare un campo di studi così ampio, che va dai poeti federiciani alla narratologia, dalle ricerche sul folklore alla Postcolonial Theory).
Sono meno d’accordo sulla sua tesi principale, quella che ispira anche il titolo del libro, e cioè che gli studi filologici, per prosperare, abbiano bisogno di ritagliarsi un ruolo nella battaglia delle idee, di diventare armi da adoperare nel conflitto politico. C’è del vero, ovviamente, in questa opinione, c’è storicamente del vero, e Rapisarda lo documenta bene, ma lo stesso si potrebbe dire della storia, della geografia, della linguistica, della storia letteraria, e insomma di ogni disciplina che - semplifico - faccia centro non sull’oggettività delle cose (da quante carte è formato il tal manoscritto?) ma sulla loro interpretazione (in quale lingua è scritto quel dato documento? Quale popolo si è insediato per primo su quel dato territorio?): cioè appunto quasi tutte le discipline umanistiche.
Personalmente (ma credo di poter parlare a nome di molti), il mio interesse per la filologia nasce soprattutto dalla sua avalutatività, cioè dal suo tenersi a dati oggettivi - che ci sono: non è tutto interpretazione - sui quali possono convergere studiosi e lettori di indole disparata: il luogo dell’intesa, non quello del conflitto (e basta vedere che cosa è successo negli ultimi decenni in Catalogna, un caso che Rapisarda infatti menziona un po’ di sfuggita, ma su cui conveniva forse indugiare di più: ecco una situazione nella quale le humanities sono state mobilitate per avallare ipotesi storiche quantomeno peregrine; a me non pare una strada da seguire).
Qui però sta il problema, che è in fondo anche il problema che ha indotto Rapisarda a scrivere questo libro. Ha ancora senso, oggi, reclutare giovani studiosi e metterli a lavorare per anni, per decenni, alla mappa di un mondo culturale (il Medioevo romanzo) che, oltre ad essere in buona misura già stato mappato, appare così lontano dagli interessi odierni, dalla vita odierna? Può durare, è giusto far durare, finanziandola, la disciplina che produce contributi come «Appunti sulle maiuscole del cod. Hamilton 90», «Tradizioni regionali e tassonomie editoriali dei canzonieri antico-francesi», «Sinalefe e dialefe: appunti per una tipologia degli incontri vocalici interverbali nella versificazione occitana» (gli esempi sono di Rapisarda, che è questa rara avis: un filologo spiritoso)?
Mi pare che le ragioni dell’odierna ‘crisi delle humanities’ - e della più seria e fondativa delle humanities, la filologia - vadano cercate meno nella loro contingente irrilevanza per la battaglia delle idee (così Rapisarda) che nella loro radicale estraneità all’aria del tempo presente. L’epoca eroica delle filologie è il secolo che va dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento. Prima prevale l’empiria. Dopo, nel tempo presente appunto, cominciano ad affiorare i dubbi, le esitazioni di fronte alla domanda «Sì, ma a che serve?». Anche per questo, in questa età argentea, la filologia e la critica sono state anche troppo propense a salire sul carro del vincitore di turno: il marxismo, Bachtin, lo strutturalismo, gli studi postcoloniali eccetera - tutto il nuovo cemento col quale i filologi hanno sperato di puntellare le proprie rovine.
Il libro di Rapisarda è, tra le altre cose, un utile promemoria sulle tante scemenze che gli studiosi di letteratura, e purtroppo anche i filologi, hanno preso sul serio nel tentativo di mostrarsi à la page. Qualcuno continua ancora adesso, imperterrito; ma i più hanno capito: le cose vanno meglio oggi che trenta o quarant’anni fa; anche se parliamo continuamente di crisi, la disciplina è in piena salute.
Perché questo nervosismo, allora? Non è tutto semplice? I filologi devono fare bene il loro mestiere: studiare la storia e la tradizione dei testi, allestirne l’edizione, commentarli con erudizione e intelligenza. Solo che è una semplicità difficile a farsi. Nelle università italiana ci sono ancora molte persone, e molti giovani, che fanno esattamente questo, tenendo vivo un habitus che sembra essersi già perso in quasi tutte le altre nazioni occidentali.
Ma - Rapisarda ha ragione - questo sembra non bastare più: da un lato per la spinta anti-filologica che sempre più forte si avverte all’interno dell’università (parliamo di idee, di diritti, di conflitti, non di varianti manoscritte!); dall’altro per il disinteresse che il vasto mondo che sta al di fuori dell’università sembra nutrire per un sapere umanistico che non sia direttamente spendibile nel dibattito (meglio le scienze sociali di quelle storiche filologiche) o sul mercato culturale (meglio la storia dell’arte, col suo indotto di mostre, della paleografia, che di mostre quasi non ne produce). Perché allora darsi da fare per acquisire un habitus che richiede molto tempo e infinita dedizione, una dedizione tale da escludere quasi qualsiasi altro interesse culturale nonché di vita, se poi la voce di coloro che hanno acquisito questo habitus, i filologi, è così flebile? -Questo poteva non essere un problema un tempo, quando la cultura era un prodotto o un’emanazione della scuola e dell’università; ma è un problema oggi, quando quella cultura non solo è travolta dall’infinita produzione d’idee e di opere d’arte che ignorano il filtro scolastico ma sembra addirittura inadatta a ‘preparare alla vita’, per come la vita è diventata (per non lasciare il discorso nel vago: in tanta concentrazione sui libri del passato, sempre più incombe il rischio di non saper capire quel che succede nel presente, o di voler applicare al presente, sventatamente, i principi di Tucidide o di Dante Alighieri: che è un altro nome della stupidità).
Tutto sommato, perciò, sono un po’ più pessimista di Rapisarda. La politica cambia in fretta, le ideologie anche, e alla stasi di un decennio può seguire un’epoca di conflitti (non è quella che viviamo oggi?), un’epoca che potrà essere, per ipotesi, più congeniale a quella seria, metodica critica del passato che è la filologia. Ma l’aria del tempo sfugge alla volontà degli uomini, si orienta verso ciò che è utile più che verso ciò che è giusto; e dura a lungo. Che fare, dunque, da cultori di discipline umanistiche? Andare contro l’aria del tempo, è ovvio.
* Già pubblicato in una versione più breve sul Domenicale del Sole 24 ore del 21 ottobre 2018
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice “Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
*
Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”.
LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali”
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
Federico La Sala
NEL NOME DI DIO "MAMMONA" ("DEUS CARITAS EST", 2006)!!! UNA VULGATA DEI MERCANTI DEL TERZO MILLENNIO "PRIMA DELA NASCITA DI CRISTO"..... *
Corte Strasburgo: Gesù e Maria possono essere testimonial pubblicità
Bocciato stop giustizia lituana a campagna che ne usava immagini
Roma, 30 gen. (askanews) - Utilizzare i nomi e le immagini di Gesù e Maria in una campagna pubblicitaria è lecito: lo ha stabilito la Corte europea per i diritti umani, definendo “ingiustificabile” il provvedimento con cui la giustizia lituana era intervenuta a bloccare l’iniziativa in quanto contraria alla pubblica morale.
Come riporta il sito di The Baltic Course la campagna (lanciata dal designer di abbigliamento Robert Kalinkin) risale al 2012, e impiegava due modelli, un giovane dai capellim lunghi e una donna con un vestito bianco, e le legende “Gesù, che pantaloni”, “Maria cara, che vestito” e simili.
L’ente statale per la commercializzazione dei prodotti non alimentari aveva imposto una multa agli organizzatori dopo aver ricevuto delle lamentele da parte di alcuni consumatori, prima che la magistratura ordinasse la sospensione della campagna.
Per la Corte tuttavia “la campagna non appariva gratuitamente offensiva o blasfema, né incitava all’odio religioso o attaccava la religione in maniera abusiva o ingiustificata”: non era possibile “dare per certo che qualunque fedele cristiano ritenesse necessariamente offensiva la pubblicità, e il governo lituano non ha presentato alcuna prova in contrario; ma anche se la maggioranza della popolazione lituana fosse stata di questo avviso, l’esercizio dei diritti della Convenzione da parte di una minoranza non può essere condizionato al volere della maggioranza”.
Gesù e Maria? Perfetti per vendere
di Marino Niola (la Repubblica, 30.01.2018)
Gesù e Maria testimonial del dio mercato? È cosa buona e giusta. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha legittimato l’uso dei simboli religiosi in pubblicità e condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 aveva usato le immagini di Cristo e della Vergine per una campagna promozionale. Lui in jeans attillatissimi, tatuaggi al punto giusto, un po’ hippie un po’ hipster. Lei, coronata di fiori, con un candido vestitino bon ton, un rosario fra le mani mentre fissa l’obiettivo con incanto virginale. Gli slogan, in verità, suonano più scemi che blasfemi. “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!”. Per finire con “Gesù e Maria, cosa indossate!”. Una giaculatoria commerciale per far desiderare un jeans da dio e un abito della Madonna.
La pubblicità aveva suscitato proteste, coinvolgendo anche la Conferenza episcopale lituana e l’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori. Che aveva condannato l’azienda a 580 euro di multa per violazione della morale pubblica e offesa alla religione.
Ma il verdetto della Repubblica baltica ieri è stato ribaltato dalla Corte europea. I giudici di Strasburgo hanno sentenziato che le immagini dei sacri testimonial «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane». Né incitano all’odio.
E ancor meno sono contrarie alla morale pubblica. I togati della Comunità hanno criticato le autorità di Vilnius per aver affermato che le pubblicità «promuovevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa». Ma, in realtà, non hanno spiegato in cosa consista questo stile di vita. Né dove sia l’incompatibilità con i principi dell’homo religiosus.
Un profilo peraltro difficile da definire.
E qui i giurati europei hanno affondato il colpo, rilevando che il solo gruppo religioso consultato per dire la sua sul caso è stato quello cattolico. Trasformato così nel paradigma unico per definire l’ortodossia, pubblicitaria e non.
La questione è solo apparentemente frivola. Perché in realtà non si tratta solo di fashion. In fondo per l’azienda sarebbe stato più facile pagare quella bazzecola di ammenda. Invece in difesa del designer Kalinkin è sceso in campo lo Human rights monitoring institute. Che ne ha fatto una questione di principio per affermare la libertà di espressione. Dimostrando che abiti e abitudini sono fatti della stessa stoffa. Sia gli uni che le altre, infatti, sono la forma materiale di un habitus mentale.
E proprio per questo sono destinati a cambiare foggia e disegno, peso e misura di pari passo con il cambiamento dei valori sociali, delle sensibilità morali, delle istanze culturali. Esattamente quel che successe negli anni Settanta, quando il manifesto pubblicitario dei jeans Jesus, ideato da quel genio della provocazione che risponde al nome di Oliviero Toscani fece drizzare i capelli ai benpensanti e scatenò un’autentica guerra di religione.
Mobilitando liturgia e ideologia.
L’immagine resta insuperata. Un lato B provocante con una scritta evangelicamente irriverente. “Chi mi ama mi segua”. Era un cortocircuito incendiario tra religione e trasgressione che compendiava lo spirito dissacrante di quegli anni pieni di adrenalina. Quando il referendum sul divorzio, il femminismo e la liberazione sessuale agitavano le intelligenze e le coscienze. Certo la bomba di Toscani era di gran lunga più devastante. Ma in compenso questi Gesù e Maria griffati fanno giurisprudenza. Perché le libertà all’inizio si scrivono sui corpi. E poi si trascrivono sui Codici.
Marino Niola è antropologo della contemporaneità. Insegna all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il suo libro più recente è “Il presente in poche parole” (Bompiani, 2016)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Enciclica "mammonica"!!!
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
PAPA FRANCESCO, IL "PADRE NOSTRO", E INTERI MILLENNI DI LABIRINTO
DIVENTÒ UN DIO, IL "PADRE NOSTRO", IL CAPITALE ... *
A FURIA DI MERCANTEGGIARE SU TUTTO abbiamo PERSO LA TESTA, fatto del CAPITALE un DIO, il "Padre nostro", e ci siamo fatti allegramente tradurre e "indurre in tentazione"! PER MILLENNI.
CHE BELLO!!! TUTTO è diventato "carissimo", non solo ciò che si produce e si vende (il feticismo delle merci) ma anche noi, gli animali, e l’intera terra con il suo cielo più alto: la CARESTIA si è diffusa su tutta la terra ed è diventa terribile e, come, al solito, i MERCANTI hanno fatto I loro affari e ancora oggi continuano ad accumulare TESORI per i loro "carissimi" eredi, dappertutto, non solo nelle loro case, ma anche nelle Banche e nei Templi (sul tema, cfr. i miei commenti all’art. di Marcello Gaballo, "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò", Fondazione Terra d’Otranto, 38.08.2017). E, ogni giorno, celebrano la LORO benedetta carissima "EU-carestia", la loro "BUONA-carestia" - per conservarla, per tutti i secoli dei secoli.
PER tutti i POVERI "CRISTI", che c’è da augurare?! Che il Natale "sia meno commerciale" e l’anno che viene "meno dozzinale"?!
Dopo duemila anni Papa Francesco finalmente ne ha preso atto:"Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione".
Era ora!
BUON NATALE, BUON ANNO, BUON 2018
Federico La Sala
* Cfr. Armando Polito, "Natale e Capodanno: che non siano solo belle parole", "Fondazione Terra d’Otranto", 24,12,2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, il "Logo" del Grande Mercante!!!
Cultura
La moneta sonante delle promesse
Saggi. La filosofia del linguaggio usata per leggere la crisi. Un sentiero di lettura a partire dal rapporto tra la teoria degli atti enunciativi e i prodotti derivati messo a fuoco ne «Scommettere sulle parole» di Arjun Appadurai (Raffaello Cortina). Mentre la natura linguistica del denaro analizzata da Ferruccio Rossi-Landi è vista come una bussola per orientarsi nel capitalismo postfordista
di Christian Marazzi (il manifesto, 15.12.2016)
Ancora non si è insediato alla Casa Bianca e già le parole di Donald Trump su come intende make America great again stanno modificando radicalmente gli equilibri monetari e finanziari globali che in qualche modo si erano venuti normalizzando nel corso degli ultimi anni. Parole enunciate in forma di promessa, come in qualsiasi campagna elettorale, ma parole basate sul nulla che, nel momento stesso in cui Trump ha vinto le elezioni, hanno assunto legittimità e potere, a tal punto da invertire le scelte degli investitori, modificando la grammatica finanziaria che d’ora in poi plasmerà il mondo.
Per rilanciare la crescita economica americana,Trump ha promesso un forte stimolo fiscale con la riduzione delle imposte sugli alti redditi e sul capitale e con l’aumento della spesa pubblica per investimenti infrastrutturali. Queste due misure portano diritti all’aumento dei deficit pubblici e di conseguenza all’aumento dei tassi di interesse. In tale prospettiva, gli investitori si precipitano a vendere i titoli a reddito fisso, in particolare i Buoni del Tesoro, i cui tassi d’interesse, cioè i rendimenti, sono inversamente proporzionali al loro prezzo. E infatti i rendimenti dei bonds, dei titoli obbligazionari americani, inglesi e giapponesi, sono subito aumentati.
IN PROSPETTIVA di una crescita più robusta e di politiche monetarie restrittive, il dollaro si sta rivalutando rispetto a tulle le altre monete, a quelle dei paesi emergenti in particolare. Se così sarà, saranno i settori industriali orientati all’esportazione che verranno penalizzati. La pressione per aumentare le tariffe alle importazioni, promesse da Trump, non mancherà di farsi sentire.
E non è detto che a trarne vantaggio saranno i ceti medi e bassi, dato che il potere d’acquisto dei loro redditi è aumentato in questi anni proprio grazie ai beni low cost importati da paesi come la Cina. Il settore più esposto alla globalizzazione, quello tecnologico, è quello che più rischia dalla rivalutazione del dollaro. I profitti statunitensi realizzati all’estero diminuirebbero, vanificando i vantaggi derivanti dagli sgravi fiscali.
Molti vedono una ripetizione di quel che accadde nel corso dei primi quattro anni di presidenza di Ronald Reagan, dato che allora l’aumento del debito federale e gli alti tassi d’interesse provocarono una tale rivalutazione del dollaro e una tale pressione per erigere barriere tariffarie, che solo il Plaza Accord del 1985 per indebolire il dollaro riuscì a bloccare.
Nell’economia globalizzata di oggi, con le tensioni geopolitiche che l’attraversano, è poco probabile che una rivalutazione del dollaro potrà essere domata con la stipulazione di accordi internazionali. Porterà, piuttosto, all’acuirsi dei conflitti tra la pluralità di aree economiche che in questi decenni si sono consolidate.
IL DENARO torna così ad essere la spia di cambiamenti economici e sociali destinati a durare nel tempo, un campo di battaglia in cui si gioca la possibilità stessa di costruire lotte e resistenze contro gli effetti del ripiegamento sulla sovranità monetaria nazionale. Ma si tratta di un denaro che in questi decenni è mutato nella sua stessa natura, un denaro in cui la dimensione linguistica ha assunto una centralità inedita.
Del divenire linguistico del denaro, del fatto, come ebbe a dire Ben Bernanke, già presidente della Federal Reserve, che «La politica monetaria è per il 98% parole e per il 2% azione», parlano due libri recenti: Gli oracoli della moneta. L’arte della parola nel linguaggio dei banchieri centrali, di Alberto Orioli (il Mulino, pp. 248, euro 16) e Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza, di Arjun Appadurai (Raffaello Cortina Editore, pp. 197, euro 21).
Per Orioli, nelle politiche monetarie degli ultimi due decenni gli «atti di parole», gli speech acts, riflettono un cambiamento radicale nella gestione delle informazioni, il fatto che la parola è ormai diventata azione. Quando denaro e linguaggio coincidono si ha a che fare con la teoria degli enunciati performativi del filosofo del linguaggio John Austin, di cui il titolo dell’opera fondamentale, Fare cose con le parole, è di per sé alquanto significativo. Si tratta di enunciati in cui il solo dire qualcosa rende vero questo qualcosa. Esemplare a questo proposito è il whatever it takes, quel «qualunque cosa necessaria» pronunciato da Mario Draghi nel 2012 per rassicurare i mercati finanziari e, come di fatto accadde, salvare l’Euro dal tracollo.
PIÙ IN GENERALE, con le politiche di quantitative easing e, prima ancora, di forward guidance, le Banche centrali dichiarano quel che si farà e si continuerà a fare, aggiustando in corso d’opera la durata e l’entità delle politiche di emissione monetaria per stimolare la domanda aggregata e la crescita in generale, come sta facendo in questi giorni la Bce. Col rischio, come nel caso della trappola della liquidità quando si inceppano i meccanismi di trasmissione della politica monetaria, che si incorra nell’altra trappola, quella verbale. La qual cosa è pericolosa, perché le spalle dei banchieri centrali «possono sopportare solo ciò che la fiducia concede alle loro parole».
ANCHE APPADURAI - figura intellettuale rilevante nel campo dei postcolonial studies e autore dei rilevanti Modernità in polvere e Il futuro come fatto culturale, entrambi riproposta da Raffello Cortina - parte dal ruolo nuovo che il linguaggio ha assunto nei mercati monetari e finanziari. La sua analisi si concentra però sui prodotti derivati: «Un prodotto derivato si può definire come un asset il cui valore dipende da quello di un altro asset sottostante, il quale può essere a sua volta un prodotto derivato. In questa catena di collaterali che la finanza dei nostri giorni ha prolungato all’infinito un prodotto derivato finisce per costituire fondamentalmente un fenomeno di tipo linguistico».
La catena degli scambi di questi prodotti finanziari, e i contratti che sulla loro base vengono stipulati, si basano sulla promessa relativa a valori futuri fondamentalmente ignoti. E’ così che «La dispersione e disseminazione all’infinito delle promesse, unita alla monetizzazione dell’intera serie, ha indotto una clamorosa incongruenza tra l’idea e la realtà del sistema di compravendita di derivati». Da cui la tesi di Appadurai: il crollo finanziario del 2007-2008, a partire dall’esplosione dei derivati legati all’evoluzione del mercato immobiliare statunitense, va inteso in primo luogo come un «crollo linguistico».
BENCHÉ SUGGESTIVA, l’interpretazione della natura linguistica del denaro e dello sviluppo dei prodotti derivati lascia in ombra il fatto che, all’origine degli atti di parole monetari, risiede in primo luogo la svolta linguistica del lavoro, il fatto che nel capitalismo postfordista si lavora comunicando, si producono merci a mezzo di linguaggio. Il denaro è, in altre parole, forma del valore di merci linguisticamente prodotte.
L’insegnamento di Ferruccio Rossi-Landi, oggi riproposto con la pubblicazione di Linguistica ed economia (Mimesis, Milano-Udine), andrebbe tenuto presente per cogliere appieno le implicazioni della crisi monetaria e finanziaria odierna.
Con una precisazione, e cioè che le merci e le parole sono sì entrambi artefatti secondo la teoria del valore-lavoro, come dimostrato da Rossi-Landi, ma non sono ormai più distinguibili in due sfere separate, quella della produzione e quella della circolazione.
La crisi linguistica e monetaria rimandano ad una nuova fase dello scontro sociale in cui ogni promessa non mantenuta sarà pagata cara.
La Bibbia si fa in quattro
La Sacra Scrittura in ebraico masoretico e l’antica versione greca dei Settanta, accompagnate dall’italiano
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23.10.2016)
Forse esagerava ma non aveva del tutto torto Karl Kraus quando nei suoi Detti e contraddetti affermava che «il linguaggio è la madre, non l’ancella del pensiero». E continuava: «Il linguaggio dev’essere la bacchetta del rabdomante che scopre sorgenti di pensiero». Proprio per questo lo studio di una lingua permette di leggere un testo - anche (e soprattutto) sacro - nella sua matrice originaria tematica e culturale, impedendo che - attraverso la versione - accada quello che Cervantes segnalava per ogni traduzione: «è come contemplare un arazzo dal retro». Si spiega, così, il moltiplicarsi di strumenti che favoriscono l’approccio diretto al testo originale, anche attraverso i supporti informatici. Ad esempio, la società texana Silver Mountain Software già dal 1999 ha approntato le Bible Windows che si affacciano su tre orizzonti: l’analisi grammaticale dell’ebraico e del greco biblico; il dizionario ebraico-inglese e greco-inglese; la concordanza dei termini con un filtro grammaticale.
Se, invece, vogliamo fermarci alla carta stampata e a strumenti più “testuali” diretti, dobbiamo segnalare l’impresa messa in cantiere dalle edizioni Dehoniane di Bologna in una collana destinata a coprire tutti i 73 libri di cui si compone la Bibbia e intitolata suggestivamente “Doppio verso”, anche perché si hanno due copertine con testi rispettivamente capovolti. L’uno è riservato all’originale ebraico o greco di un libro biblico nel quale ogni parola ha la sua versione italiana interlineare quasi a ricalco letterale; l’altra sezione del volume offre, invece, una traduzione dello stesso libro biblico in modo continuo secondo la versione della Conferenza Episcopale Italiana (2008), accompagnata dall’apparato di introduzioni e di note desunte dalla ormai famosa “Bibbia di Gerusalemme”. Ad eseguire con pazienza certosina questa impresa è Roberto Reggi, un teologo che ha consacrato anni a questa operazione di fedeltà alla Parola sacra espressa nelle parole umane.
Ora, ha messo in cantiere un nuovo modulo analitico intitolato “La Bibbia quadriforme” e l’ha applicato a due libri biblici tra i più usati nella storia giudaica e cristiana, cioè la Genesi e i Salmi. La tetralogia che regge le doppie pagine di questa opera è facilmente comprensibile: al testo ebraico masoretico (cioè approntato dalla tradizione rabbinica con la vocalizzazione e altri segni di lettura), accompagnato sempre dall’interlineare italiano, si appaia l’antica versione greca detta dei “Settanta”, anch’essa sostenuta dall’interlineare italiano; infine, in calce si offrono la versione latina dei Salmi - secondo la cosiddetta Neovulgata, elaborata sulla base della celebre Vulgata di s. Girolamo, dopo il Concilio Vaticano II - e naturalmente la citata traduzione CEI.
In sintesi, nei bifogli vivono in armonia e, in alcuni casi in contrappunto, i testi ebraico, greco, latino, italiano. È questa una via per venir incontro al desiderio di molti di avere un approccio diretto alle Scritture, scoprendone le matrici primigenie in modo accurato e filologico, un desiderio - e lo affermo per esperienza personale - che sboccia anche in molti “laici” che, pur non considerando la Bibbia un testo “ispirato” da Dio, sono consapevoli della sua realtà di “grande codice” della cultura occidentale.
Ovviamente questi sussidi linguistici sono fondamentali per la teologia e, attraverso essi, si spera di superare quel vuoto indotto da una scuola superiore sempre più incline a soffocare le radici umanistiche classiche, un vuoto che, conseguentemente, si ripercuote sulle stesse scuole teologiche i cui alunni sono spesso estranei al contatto coi testi originali sacri ed ecclesiali. La giovanissima carmelitana s. Teresa di Lisieux (1873-97), in un’epoca in cui gli studi teologici erano preclusi al mondo femminile, confessava: «Se io fossi stata prete, avrei studiato a fondo l’ebraico e il greco così da conoscere il pensiero divino come Dio si degnò di esprimerlo nel nostro linguaggio umano».
Per fortuna ora c’è un manipolo molto fitto e qualificato di teologhe ed esegete che possono, ad esempio, elaborare quel commentario ai quattro Vangeli pubblicato dall’editrice Ancora di Milano lo scorso anno (del quale abbiamo dato conto su queste pagine), accompagnandolo con la battuta “Le donne prendono la Parola” con evidente doppio senso... Inoltre si deve segnalare che paradossalmente questa fedeltà paziente e amorosa alla lettera è un antidoto al fondamentalismo letteralista, quello che san Paolo bollava con la frase lapidaria: «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2 Corinzi 3,6).
Infatti, l’accurata definizione delle singole parole svela non solo la necessità di coordinarle in un contesto, ma ne mostra anche la molteplicità delle iridescenze semantiche che le versioni cercano di recuperare e, quindi, suggeriscono la necessità dell’interpretazione. Questo processo è ignorato dai movimenti fondamentalistici di ogni religione che usano le parole sacre come pietre avulse dal contesto e dalla loro complessità strutturale e le scagliano come aeroliti sacrali contro gli altri (talora anche in senso fisico e non solo metaforico).
Proprio per questo la collana “Doppio verso”, dopo aver puntato l’obiettivo sulle singole parole vedendole come cellule viventi di un textus, cioè di un tessuto di significati specifici che si aprono a un significato globale, propone la versione unitaria commentata, cioè interpretata nella sua totalità. Aveva ragione Victor Hugo quando dichiarava che le mot est un être vivant, una realtà vivente che non può essere scarnificata dal corpo in cui è inserita e non può essere isolata dalla vitalità che sparge attorno a sé. Infine, per stare ancora nell’orizzonte della letteratura francese, dobbiamo riconoscere che on a boulversé la terre avec des mots, come scriveva Alfred de Musset. Sì, attraverso le parole è stata ed è spesso sconvolta la terra e insanguinata la storia, come purtroppo sperimentiamo nella cronaca odierna; ma con la potenza delle parole si è anche trasformata, fecondata, trasfigurata la vicenda di tanti uomini, donne e popoli.
Bibbia e «Lectio Divina»
Oggi Papa Francesco è in visita alla Sinagoga di Roma. Le Sacre scritture ebraico-cristiane testimoniano la vivacità del dialogo interreligioso
di Gianfranco Ravasii, cardinale (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.01.2016)
In questa domenica in cui - sulla scia di s. Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI - papa Francesco è accolto nella Sinagoga di Roma dalla comunità ebraica romana, e alle soglie della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, torniamo a parlare di Bibbia. Se dovessi tener conto di tutti i libri di esegesi, di teologia, di commento e di spiritualità biblica pubblicati dagli editori italiani, sarei costretto a proporre continuamente semplici sillogi con qualche nota, tanto è fitto questo genere di produzione bibliografica.
Eppure ci fu un tempo in cui si introduceva in Italia la Bibbia clandestinamente, come accadeva fino a pochi decenni fa col regime sovietico. Certo, si trattava di edizioni protestanti che partivano da Londra o dalle basi inglesi di Malta e Gibilterra. A capo di questa operazione furtiva c’era la londinese British and Foreign Bible Society , fondata nel 1804. Questa operazione aveva allertato soprattutto lo Stato pontificio che aveva fatto piovere su di essa le sue condanne, a partire dal 1824 fino a un intervento solenne attraverso l’enciclica Inter praecipuas machinationes (e il titolo è emblematico) emanata nel 1844 da papa Gregorio XVI Cappellari, a cui si aggiunse nel 1846 anche Pio IX con un suo divieto.
Questa premessa, che potrebbe essere cronologicamente ben più ampia e che però meriterebbe una corretta contestualizzazione storico-ermeneutica, ci fa comprendere quanto sia significativo il fatto che ora vogliamo presentare. Certo, dopo Porta Pia e il 1870, anche la citata Bible Society era entrata in Italia divenendo, prima la Società Biblica Italiana e poi la Società Biblica Britannica e Forestiera, sostenuta dalla chiesa valdese.
Intanto, però, si celebrava il Concilio Vaticano II e un pastore valdese di grande apertura ecumenica e finezza culturale, Renzo Bertalot (1929?2015) gettava un ponte di collaborazione tra la Società Biblica e la Chiesa cattolica. Così, essa - oltre a pubblicare la famosa Bibbia tradotta dal protestante Giovanni Diodati nel Seicento e rivista da Giovanni Luzzi per adattarla al nuovo linguaggio - proponeva di concerto con l’editrice salesiana Elledici una suggestiva Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente dal successo folgorante.
Ma rimaneva sempre una certa distanza tra le due Chiese, la valdese e la cattolica, per quanto riguardava il testo biblico ufficiale: come è noto, infatti, la Conferenza Episcopale Italiana (Cei) aveva pubblicato dal 1974 una sua Sacra Bibbia, rielaborata accuratamente nel 2002 e definitivamente proposta in una nuova edizione nel 2007.
Ebbene, ora la Società Biblica Britannica e Forestiera che ha sede a Roma ha deciso di proporre essa stessa proprio questa versione ufficiale della Cei in un volume raffinato ma anche maneggevole e funzionale, accogliendo perciò anche quei sette libri biblici anticotestamentari detti “deuterocanonici” dai cattolici e considerati “apocrifi” dai protestanti.
Si tratta, quindi, di un atto ecumenico molto incisivo perché ribadisce che il cuore dell’incontro tra le diverse confessioni cristiane deve alimentarsi proprio col sangue vivo della Parola divina. Perciò quei cattolici o protestanti, non ancora in possesso di un’edizione della Bibbia che non sia da scaffale ma da tenere tra le mani per la lettura, hanno ora una nuova possibilità comune.
Ma c’è qualcosa di più. Oltre all’integrale testuale a cui opra accennavamo (cioè con l’aggiunta dei sette libri “deuterocanonici” Tobia, Giuditta 1 e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc) e all’apparato di introduzioni e note, è stata offerta in finale una componente sorprendente, per di più sostenuta da una citazione di papa Francesco. Si tratta di una guida a un particolare approccio alla S. Scrittura, codificato nel Medioevo monastico e caro al mondo cattolico. È la così detta Lectio divina, in pratica una lettura spirituale ed esistenziale della Bibbia.
A elaborarne il metodo fu un monaco del XII secolo, Guigo il Certosino, che lo articolò in quattro tappe o scansioni. Innanzitutto si ha la Lectio vera e propria, cioè la lettura con l’identificazione corretta del messaggio del testo sacro secondo i canoni dell’esegesi. Segue la meditatio, ossia l’incarnazione dell’oggi della parola divina per la vita del credente. Se la prima tappa risponde alla domanda: «Che cosa dice il testo in sé?», nella seconda ci si interroga: «Che cosa dice il testo a noi?». Subentra, così, l’oratio, a cui corrisponde la domanda: «Che cosa dire a Dio», dopo averlo ascoltato? È il momento della risposta orante, personale e comunitaria. Infine, si entra nella contemplatio che è il vertice dell’intero itinerario, in cui si riassume l’esperienza vissuta, intuendo così un nuovo volto di Dio e un nuovo nostro volto interiore. Questo livello potrebbe essere descritto con un passo degli Atti degli apostoli che introducono l’ultima domanda.
Dopo aver ascoltato il discorso di Pentecoste tenuto da s. Pietro, i presenti «si sentirono trafiggere il cuore e dissero: Che cosa dobbiamo fare?» (2,37). Quattro momenti, dunque, segnati da altrettanti interrogativi che rivelano una particolare ermeneutica della Bibbia di natura performativa, destinata cioè a transitare dalla ragione al cuore, dall’ascolto all’agire, dal testo alla vita, dalle parole umane alla Parola divina.
La vasta appendice offerta da questa edizione della Bibbia applica la tetralogia sopra evocata a tutti i 73 libri che compongono le S. Scritture ebraico-cristiane, con indubbia creatività ed efficacia, permettendo così alle comunità cattoliche, protestanti e ortodosse di ritrovarsi insieme in quel crocevia della loro fede che è la Bibbia. In esergo si è, infatti, posta una frase folgorante del libro di Giosuè, il sesto delle S. Scrittura: «Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, per osservare e mettere in pratica tutto quanto vi è scritto; così porterai a buon fine il tuo cammino e avrai successo» (1,8).
Accanto a questa importante operazione editoriale ed ecumenica, che ben s’adatta a celebrare i 50 anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II e che s’innesta nella fervida atmosfera di dialogo introdotta da papa Francesco, evochiamo un’esperienza analoga anche se differente sempre di taglio biblico.
La Fondazione Ramon Pané, fondata nel 1994 in ricordo del primo catechista dell’America Latina e con sede a Tegucigalpa (Honduras) e Miami (Usa), ha cercato di rispondere a un quesito che affiora frequentemente: se la Bibbia è composta di più opere, pur essendo ormai compattata in un unico libro, la si può affrontare con una lectio continua, come si faceva in passato, seguendone l’attuale successione canonica, oppure è possibile procedere secondo una trama più libera e coerente con la storia e i temi in essa proposti?
Ebbene, questa Fondazione ha suggerito un inedito e curioso piano di lettura del Nuovo Testamento partendo dalla vicenda germinale di Cristo e della Chiesa narrata da Luca nel suo Vangelo e negli Atti degli apostoli, per proseguire con l’apostolo Paolo che entra con le sue Lettere nelle varie città dell’impero romano e nelle relative comunità cristiane di matrice pagana. Si passa poi alla cristianità di origine giudaica col Vangelo di Matteo, la Lettera agli Ebrei e quella di Giacomo, per rivolgersi poi all’orizzonte della predicazione di s. Pietro col Vangelo di Marco e le due Lettere di Pietro e, così, approdare al corpus giovanneo composto dal Vangelo, dalle Lettere e dall’Apocalisse.
Un copione interessante, reso trasparente e agevole nella lettura anche dall’abolizione della numerazione dei capitoli e dei versetti (una scansione per altro tardiva, perché introdotta solo nel 1528 da Sante Pagnini in una Bibbia pubblicata a Lione). Si offre così, un percorso testuale quasi narrativo continuato, affidato al dettato molto limpido e immediato della citata Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente.
Il nuovo Messale in inglese e l’eredità del Concilio
di Massimo Faggioli
in “popoli” dell’ottobre 2011
Nella prima domenica di Avvento (27 novembre) la Chiesa cattolica degli Stati uniti - al pari di quelle di Gran Bretagna, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda - inizierà a usare la nuova traduzione inglese del Messale romano.
Il cambiamento avviene dopo un lungo iter in cui non sono mancate tensioni tra Roma e la Chiesa statunitense, né divisioni all’interno di quest’ultima. È utile dunque ricostruire brevemente le tappe di una vicenda che, seppure estremamente importante per il mondo cattolico, ha avuto scarsa eco in Italia. Dopo l’approvazione, durante il Concilio Vaticano II, della Costituzione sulla Sacra liturgia Sacrosanctum Concilium (1963), avvenuta anche grazie all’appoggio decisivo dei vescovi americani, nel 1973 fu approvata da Roma e iniziò a essere usata nelle chiese statunitensi la prima traduzione del Messale dal latino all’inglese realizzata da Icel (International Commission on English in the Liturgy), commissione fondata proprio durante il Concilio dalle Conferenze episcopali anglofone.
Tra 1994 e 1998 la Congregazione per il culto divino iniziò a manifestare obiezioni nei confronti delle nuove traduzioni in lingua inglese dei testi liturgici fatte secondo il principio della «equivalenza dinamica».
Nel 1999 il cardinale Medina escluse l’«equivalenza dinamica» come metodo accettabile. Il passo successivo fu l’istruzione vaticana Liturgiam authenticam del 2001, tuttora in vigore e valida per tutte le Chiese, secondo la quale le nuove traduzioni devono seguire il principio di «equivalenza formale»: ogni parola latina deve avere un corrispondente nella traduzione, e sintassi, punteggiatura e vocabolario della lingua latina devono essere riprodotti fedelmente.
Nel 2002 iniziò l’emarginazione di Icel come luogo di elaborazione dei testi liturgici in lingua inglese, a favore di un nuovo organismo di creazione vaticana, Vox Clara, che dipende dalla Congregazione per il culto divino; Icel fu riorganizzata in modo da non rispondere più ai vescovi ma al Vaticano. Iniziò in quel periodo il lavoro per una nuova traduzione inglese del Messale.
Nel 2008 la nuova traduzione preparata da Icel fu presentata e subito subissata di critiche da parte di molti teologi e liturgisti anglofoni quanto alla qualità della traduzione; il testo fu comunque inviato a Roma per l’approvazione. Vox Clara introdusse a questo testo circa 10mila modifiche, il Vaticano approvò e inviò il nuovo Messale ai vescovi perché venisse introdotto all’inizio dell’anno liturgico 2011-2012.
Nel corso degli ultimi due anni il dibattito si è acceso in ogni Paese anglofono toccato dalla nuova traduzione del Messale. Negli Stati Uniti esso è stato particolarmente intenso non solo per la consistenza numerica della Chiesa cattolica (67 milioni di fedeli, circa il 23% dei cittadini adulti), ma anche per il ruolo decisivo giocato, tra Icel e Vox Clara, dal cardinale Francis George, arcivescovo di Chicago e fino alla fine del 2010 presidente della Conferenza episcopale Usa (Usccb), la quale è stata teatro di numerose e palesi irregolarità procedurali finalizzate a far passare il testo «romano» senza possibilità di intervento da parte dei vescovi.
Dall’assemblea della Usccb del novembre 2009 buona parte dei liturgisti americani ha cercato di rimettere in discussione il nuovo Messale. Fino all’inizio del 2011 i vescovi e teologi americani erano ancora divisi sulla sua accettabilità; negli ultimi mesi, però, i critici hanno pubblicamente rinunciato a portare avanti la loro «resistenza» in nome dell’unità della Chiesa americana. Noti liturgisti che avevano contestato la qualità linguistica e teologica del nuovo Messale si sono messi a disposizione dei vescovi, al fine di limitare i danni nel corso del delicato processo di recezione.
Anche tra il laicato statunitense le critiche sono proseguite (si veda, per esempio, il sito www.whatifwejustsaidwait.org) fino all’inizio del 2011, quando anche i più convinti oppositorihanno dichiarato la loro disponibilità a lavorare per una migliore recezione del nuovo Messale, al fine di non lacerare la comunione ecclesiale.
Ma quali sono le principali critiche rivolte al nuovo Messale? C’è anzitutto un problema di chiarezza del testo: la nuova traduzione, che ha dovuto mantenere la struttura della frase latina, è ricca di espressioni complesse non facilmente comprensibili da un anglofono medio.
C’è poi un problema di lunghezza delle frasi: per esempio, la lunghezza delle frasi delle preghiere eucaristiche del nuovo Messale (aumentate mediamente del 78% rispetto al precedente) fa diventare quei testi totalmente estranei al ritmo della lingua inglese.
Infine, ci sono rilevanti cambiamenti di formule ormai entrate a far parte della lingua liturgica dopo il Concilio. Un esempio: quando il sacerdote dice «Il Signore sia con voi», ora anche gli anglofoni, come facciamo noi italiani, risponderanno «And with your spirit» («E con il tuo spirito»), formula certo più aderente al latino, ma ben diversa dall’espressione colloquiale, «And also with you» («E anche con te»), a cui erano abituati. Ancora: durante la consacrazione del vino, al posto di «cup» ci sarà l’arcaico «chalice».
E l’espressione «For you and for all» («Per voi e per tutti») sarà sostituita da «For you and for many» («Per voi e per molti»): in quest’ultimo caso, tra l’altro, è evidente che con la nuova traduzione si è voluto trasmettere un contenuto teologico particolare, una questione che va al di là della maggiore o minore vicinanza ai testi latini.
Del resto tutta la vicenda dell’elaborazione del nuovo Messale ha significati più profondi di una semplice controversia linguistica. Colpiscono due aspetti, collegati tra loro. In primo luogo, chi vive in America sa che la qualità liturgica nelle chiese cattoliche è notoriamente molto alta: dal punto di vista della solennità, della musica, della cura delle letture e degli arredi sacri, ecc.
I motivi sono molti, specialmente per quanto riguarda la musica (tra cui un interessante fenomeno di migrazione verso la cultura cattolica di una tradizione liturgica congregazionale-protestante), ma in particolare vi è il successo del processo di recezione della riforma liturgica del Concilio negli Usa, come ha evidenziato il recente studio di Mark Massa, The American Catholic Revolution: How the ’60s Changed the Church Forever (New York, Oxford University Press, 2010).
Al contrario di altri casi additati dai nostalgici, la riforma liturgica conciliare in America non ha dato luogo ad «abusi» né alla distruzione di un patrimonio rituale - molto cattolico e molto americano - che è ancora forte e sentito. Dunque, delle tante riforme di cui gli anti-conciliari o i cattolici conservatori americani potrebbero sentire il bisogno, quella della liturgia è percepita come la meno urgente.
In secondo luogo, è evidente che al cuore delle tensioni tra Roma e le Chiese anglofone, e all’interno di queste, vi è la consapevolezza che la riforma liturgica del Concilio è «il» simbolo del Vaticano II e in qualche modo il custode della sua ecclesiologia. Quanti attaccano la riforma liturgica sanno bene che il Vaticano II è ancora sulla strada di una sua «canonizzazione», ovvero di una sua stabilizzazione culturale come nuova forma espressiva della fede cattolica.
Modificare la liturgia del Concilio (e in questo caso, latinizzarne la lingua) può essere letto come un sottinteso appello a rimettere in discussione tutto il resto del Vaticano II.
La nuova traduzione in inglese del Messale appare dunque un terreno di confronto circa l’interpretazione del Concilio: un confronto particolarmente delicato e dall’esito incerto per un cattolicesimo, come quello anglofono, culturalmente poco attaccato alle nostalgie dell’età tridentina.
DIO ("CHARITAS") E I DUE ’LIBRI’: IL LIBRO DELLA NATURA E IL LIBRO DELLA SACRA SCRITTURA ....
LA SCIENZA HA CAPITO E CERCA DI CAPIRE "COME VA IL CIELO", LA CHIESA CATTOLICA NON SOLO NON HA ANCORA CAPITO "COME VA IL CIELO" MA NEMMENO "COME SI VA IN CIELO" E CONTINUA A PROPORRE LA SUA IDEOLOGIA DELLA TERRA E DEL SANGUE (il "geocentrismo").
SOLO OGGI (2010) SI E’ DECISA A SMETTERLA DI MALEDIRE COPERNICO (l’"eliocentrismo")!!! MA DEL FATTO CHE DEL MESSAGGIO EVANGELICO HA FATTO UN ABILE "PUZZLE" - UN Organismo Gerarchicamente Modificato - E LO HA CHIAMATO "VANGELO" ( Il "messaggio" del "Deus caritas") ANCORA NON HA IL CORAGGIO DI AMMETTERLO!!!
"SAPERE AUDE!". NON E’ MAI TROPPO TARDI APRIRE LE PORTE E LE FINESTRE DEL VATICANO ALLA LUCE DEL SOLE!!! E DARE IL VIA A UNA NUOVA, SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA.
Federico La Sala
ATTUALITA’
Internet, autogrill, versetti in rap
"Così la Bibbia entrerà in ogni casa"
L’iniziativa di "Famiglia Cristiana". In distribuzione un milione di copie in formato tascabile con alcuni fra i più famosi brani dell’Antico e Nuovo testamento che si potranno ascoltare alla radio e sul web
di ORAZIO LA ROCCA *
CITTÀ DEL VATICANO - La Bibbia in rap. Non tutta la Bibbia. Ma solo alcuni tra i più famosi brani dell’Antico e del Nuovo Testamento che - su iniziativa del settimanale dei Paolini, Famiglia Cristiana - si potranno sentire nelle radio e via internet in una singolarissima versione rap dal titolo Paroladidio per il lancio della Bibbia Pocket, l’edizione tascabile del Libro dei Libri, che da giovedì prossimo, al prezzo di 7,90 euro, si potrà acquistare col settimanale in edicola. Ma la mini Bibbia (570 grammi appena) si troverà anche nelle librerie (sia laiche che religiose), nei supermercati, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, negli autogrill, grazie ad una mega distribuzione che punterà a diffondere entro Natale oltre un milione di Bibbie.
AUDIO - ASCOLTA LA BIBBIA RAP
Una grande operazione editorial-commerciale ideata per celebrare i 50 anni di una analoga iniziativa fatta nel 1960 dal fondatore della Congregazione dei Paolini, il beato Giacomo Alberione, il quale per la prima volta promosse la diffusione del testo sacro con "La Bibbia a 1000 lire" allegata al settimanale. Dopo mezzo secolo l’operazione si ripete, spiega don Vito Fracchiolla, amministratore delegato del Gruppo editoriale San Paolo, ma con mezzi e modi assai diversi, a partire dall’uso di Internet, dagli spot radiofonici e dal "provocatorio" rap composto ed eseguito da anonimi professionisti in ossequio agli altrettanto anonimi autori delle Sacre Scritture.
La Bibbia, dunque, torna a proporsi al grande pubblico ad appena 2 anni dal successo centrato dalla "Lettura della Bibbia giorno e notte", ideata dallo storico vaticanista del Tg1 Giuseppe De Carli, recentemente scomparso, e trasmessa in diretta dalla Rai con l’intervento di Benedetto XVI lettore del primo libro della Genesi. Con la Bibbia rap non si prevedono benedizioni papali, ma - assicurano in Vaticano - l’operazione viene vista con "interesse e simpatia" con la speranza che l’iniziativa, oltre a coinvolgere le famiglie italiane, serva ad avvicinare in particolare i giovani, magari tramite proprio quel pezzo rappeggiante che, a prima vista, potrebbe far storcere la bocca a tradizionalisti e benpensanti. Eppure - assicura don Fracchiolla - "tutta l’operazione è stata fatta con scrupolo e serietà col preciso scopo di contribuire a diffondere un testo tanto importante, non solo per i credenti, come è la Bibbia".
Scrupolo e serietà con cui - giurano alla San Paolo - è stato fatto anche il pezzo rap che in apertura presenta il famoso incipit del Libro dell’Esodo "Io sono colui che sono/Questo è il mio nome per sempre/e questo è il mio ricordo...". Seguito da uno dei versi più poetici della Bibbia, il Salmo 64: "Hanno bocca e non parlano/hanno occhi e non vedono...". Non potevano mancare citazioni notissime e comunemente considerate in sintonia proprio con i ritmi rappeggianti come "Chi mi offende distrugge se stesso/tutti coloro che mi amano, amano la morte!" (Libro dei Proverbi), "O vanità immensa, o vanità immensa/tutto è vanità./ Una generazione va e una generazione viene....(Ecclesiaste). Per passare dal Prologo del Vangelo di Giovanni "La vita era la luce degli uomini, e le tenebre non la compresero". Testi biblici, in passato, ampiamente usati anche da grandi esponenti della musica pop come Bob Dylan, Bruce Springsteen, Bono degli U2, più volte ricordati dal ministro della Cultura del Vaticano, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, nell’incontro di papa Ratzinger con gli artisti del 2009.
Settanta radici ebraiche del cristianesimo
Gli interrogativi aperti sulla composizione e la trasmissione della versione greca del testo biblico, che divenne l’Antico Testamento
di MASSIMO GIULIANI (Avvenire, 09.10.2010)
S i pensa e si dice spesso che ebrei e cristiani hanno in comune il testo biblico (inteso come Antico Testamento), e che a dividerli sia l’interpretazione della figura di Gesù. Queste affermazioni sono solo parzialmente vere. All’inizio della loro storia i cristiani adottarono sì la Bibbia degli ebrei, ma già in una versione tradotta in greco. Adottarono quella che si suol chiamare la Settanta, in latino Septuaginta (LXX), una traduzione in greco della Torà, dei libri profetici e di altri testi sapienziali, ma aumentata di altri ’libri’ che non facevano parte del Tanakh o Bibbia ebraica e che non entrarono mai a far parte del canone rabbinico, il quale si chiuse, per così dire, solo alla fine del I secolo d.C.
In sintesi, le due religioni, l’ebraica e la cristiana, fin dall’inizio si riferirono a due corpi scritturali non identici, diversi nella lingua e parzialmente nella composizione dei testi. La Septuaginta era certamente una Bibbia tradotta da ebrei per gli ebrei di Alessandria che non parlavano più ebraico bensì greco (tradotta precisamente da chi, è ancora tema di discussione tra gli studiosi), ma con il declinare di quella comunità venne abbandonata proprio mentre, a poco a poco, diventava la Bibbia adottata dalla nuova religione, quella cristiana, e mentre il giudaismo rabbinico fissava il suo canone e la sua versione in ebraico tradizionale, ossia masoretico.
La storia di questo testo greco, di fatto la Bibbia più antica che si ’conosca’, e gli infiniti problemi della sua composizione, ricezione, trasmissione, nonché delle molteplici correzioni che subì nei primi secoli dell’era cristiana, sono presentati ora in un volume di alta divulgazione scientifica, Septuaginta. La Bibbia di ebrei e cristiani, scritto da Natalio Fernàndez Marcos, uno dei massimi esperti della Settanta e delle origini ebraiche del cristianesimo.
La pubblicazione riflette il crescente interesse che da una ventina d’anni si registra verso questa fonte autorevolissima della cultura occidentale, senza la quale risultano incomprensibili sia il Nuovo Testamento sia i Padri della Chiesa. Due esempi: dal 1995 il Dipartimento di Scienze Religiose dell’Università Cattolica promuove a scadenza biennale una giornata di studi dedicata alla Settanta (e ne pubblica gli atti nei suoi Annali, ora editi da Brepols), mentre la prossima assemblea dell’Aisg (Associazione italiana per lo studio del giudaismo) ospiterà una sessione di lavoro su tale testo e sull’impatto che la scoperta dei rotoli del Mar Morto ha avuto sugli studi della Settanta.
L’introduzione di Fernàndez Marcos è sintetica ma rigorosa, e offre molti punti fermi in un ambito in cui a prevalere sono, tra mitologia e apologetica, i punti interrogativi. All’epoca di Gesù e di Paolo, ad essere plurale non era solo il cosiddetto ’medio giudaismo’ ma plurali erano anzitutto le sue Scritture, non ancora ben codificate né canonizzate, almeno fuori dalla terra di Israele. E il cristianesimo nascente, in tale pluralismo di giudaismi e di testi sacri ebraici, seguì la strada tracciata dal giudaismo ellenistico.
La conclusione dello studioso spagnolo è condivisibile: nell’impossibilità di risalire al testo ebraico originario, che sta cioè alla base della traduzione detta dei Settanta, «si devono rispettare ambedue le tradizioni, quella ebraica e quella greca, senza tentare di ridurre o di adattare l’una all’altra».
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Natalio Fernàndez Marcos
SEPTUAGINTA. LA BIBBIA DI EBREI E CRISTIANI
Morcelliana. Pagine 108. Euro 12 ,00
La Bibbia in classe. Corso alle superiori nelle ore di italiano
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 18 maggio 2010)
Come l’Eneide, l’Iliade, L’Odissea anche la Bibbia entra nelle scuole. È stato firmato il protocollo d’intesa tra Ministero dell’Istruzione e Biblia (associazione laica e aconfessionale che da anni lavora al progetto) e una commissione mista è all’opera per predisporre proposte e materiali da inviare a tutti gli istituti dopo l’estate. L’innovazione è di portata storica. Si promuoverà infatti la conoscenza della Bibbia all’interno delle diverse materie e in percorsi interdisciplinari. Verranno offerti strumenti didattici e persone competenti per mostrare ai ragazzi come il testo sacro ha permeato opere letterarie, filosofia, arte, storia ed è vivo in esse. Da un punto di vista tecnico non verrà introdotta una nuova materia, né sarà toccata l’ora di religione; di fatto si creeranno le condizioni per aggiornare contenuti e svolgimento dei programmi. Secondo una prima ipotesi ministeriale l’esperienza pilota dovrebbe essere riservata al biennio delle superiori all’interno delle ore di italiano.
Il proposito, insomma, è far ritrovare le radici spirituali del pensiero e delle espressioni poetiche, risalire alla fonte originale là dove i geni dell’umanità hanno tratto materia e ispirazione, creare nessi e scoprire risonanze. Dar spazio alla Bibbia è un modo per destare curiosità negli studenti, dare spessore a insegnamenti che spesso sembrano lontani dalle domande di senso dei giovani. E son tante: anche se loro possono essere goffi o smodati nell’esprimerle, così da creare negli adulti alibi all’incapacità di stare ad ascoltarle e, soprattutto, a comprenderle. Gli effetti di questa moderna rivoluzione pedagogica sono destinati a coinvolgere i nostri figli, certo; ma possono investire imodi della convivenza oggi. In un’epoca in cui pare prevalente la logica del conflitto, proporre la Bibbia nella scuola è porre le premesse per ristabilire una verità spesso in ombra: Ebrei, Cristiani, Musulmani vengono da lì; dal Libro per antonomasia tutti traggono valori religiosi e umani insieme.
Attraverso i riferimenti al testo sacro si possono certo ricostruire diversità, vicende di tensioni e di scontri, ma la frequentazione della pagina ispirata da Dio, il misurarsi con l’attualità del suo messaggio, è anche l’occasione per stare assieme, ritrovarsi, dialogare, individuare riferimenti e progetti comuni. L’esperienza insegna come l’approccio diretto alla Parola divina, il silenzio e il clima di preghiera da essa suscitati avvicinano nel profondo. Sono le teologie, invece, ad indossare spesso l’elmetto, a creare le condizioni per cercar di tirare Dio dalla propria parte, appropriarsene e mettergli una casacca, autocandidarsi ad essere unici interpreti autentici.
Portare la Bibbia nella scuola, senza creare una nuova ora, né pensare a concorrenze con l’insegnamento confessionale della religione cattolica può costituire un’opportunità preziosa per diffondere un messaggio di cittadinanza condivisa, di ricerca pacifica in un destino comune, se l’approccio sarà quello giusto, fatto di grande competenza e di libertà. Sul primo termine del binomio sembra non vi siano dubbi. Alle spalle del movimento promosso da Biblia stanno personalità quali mons. Gianfranco Ravasi, Giuseppe De Rita, Claudio Magris, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Amos Luzzatto, Margherita Hack, Tullia Zevi, per citare solo alcune delle oltre diecimila firme apposte al primo appello a sostegno dell’iniziativa. Ma anche il riferimento alla libertà sembra garantito.
I due protagonisti, il Ministero e gli esperti di Biblia, metteranno a disposizione materiali e anche una qualche risorsa, ma saranno poi i singoli istituti, in omaggio all’autonomia didattica, a decidere di recepire l’invito e di fare proprio il nuovo corso. Presidi e insegnanti, certo, ma anche genitori, famiglie, associazioni che in qualche modo si muovono intorno al mondo della scuola dovranno dimostrare di crederci. E chissà mai che non siano forse gli studenti stessi per primi a chiedere che l’occasione sia colta al volo. Ricambiando la fiducia che viene riposta in loro.
CdV, 15:36
PAPA: MONS. BETORI, SI VUOLE STACCARE LA GENTE DAI PASTORI
’Non bisogna cedere alla strategia di chi vuole staccare il popolo dai pastori, perche’ il tentativo e’ chiaramente questo’. Lo afferma l’arcivescovo Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze in merito alle accuse del NYT al Papa. Il movente di questo attacco, per Betori, e’ altrettanto chiaro: ’quello che da’ fastidio - spiega - e’ che la Chiesa sia un soggetto, come agenzia educativa, riconosciuto dalla gente per la sua autorevolezza. Questo da’ fastidio a chi vorrebbe invece spadroneggiare in queste nostre societa’ occidentali, senza alcuna remora e alcun riferimento etico’. Quanto alle vicende nelle quali si tenta di coinvolgere la figura del Pontefice, per Betori, si tratta di speculazioni .
* la Repubblica, 26 marzo 2010.
o E- MAIL DI SOLIDARIETA’ PER DON ALESSANDRO SANTORO ALL’ARCIVESCOVO DI FIRENZE
o http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4502
Inviato: venerdì 30 ottobre 2009 18.32 A: ’info@diocesifirenze.it’
CARO ARCIVESCOVO ...
MA CHE FA IL DIRETTORE DI BANCA?!
SI È MESSO AD ACCUMULARE SANTO ORO E A VENDERE
L’ “EU-CHARIS-STIA” A “CARO PREZZO” (BENEDETTO XVI, DEUS CARITAS EST, SCV 2006)!?!
NON È IL CASO DI FINIRLA CON IL “LATINORUM”?!
“CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST” (1Gv., 4., 1-8).
M. CORDIALI SALUTI, FEDERICO LA SALA
Allegato:
http://www.youtube.com/watch?v=gkrnK0igAP0&NR=1 [da L’oro di Napoli - una ’poesia’ di Eduardo]
Federico La Sala
LA VERGOGNA DI PARLARE SENZA VERGOGNA
di Tullio De Mauro (l’Unità, 03.01.2010)
Nella simpatica trasmissione di Corrado Augias, gli ospiti finiscono col parlare delle cose più varie. Nella puntata più recente Umberto Galimberti, già valente studioso di psicologia, è apparso ancora su un terreno suo quando ha cominciato a parlare di vergogna. In effetti si legge ancora utilmente l’articolo “vergogna” che scrisse molti anni fa nel suo bel «Dizionario di psicologia». C’è ancora il sentimento della vergogna? Conduttore e ospite sono scivolati verso la sociologia d’arrembaggio e hanno detto concordi che quel sentimento va scomparendo.
Del vero ci deve essere se in questi anni il francese ha avuto fortuna una nuova parola, riecheggiata in altre lingue: “extimitè”, il contrario di “intimità”, per indicare la propensione a esibire sfacciatamente momenti e atti della propria intimità fisica e sentimentale. E tuttavia vien fatto di osservare che l’esibizione sfacciata ha senso solo perché sfida un persistente senso comune di discrezione. Se l’intero pubblico fosse fatto da svergognati abituali non avrebbero audience trasmissioni che illustrano le recondite fattezze e assai private movenze di qualche grande fratello o sorella (i ladri, diceva Chesterton, sono i più convinti assertori del diritto di proprietà). E colpisce che personalità inclini all’esibizione del loro privato si segnalino per la loro abitudine, quasi un tic irrefrenabile, di gridare ripetutamente in pubblico fino allo spasimo «Vergogna! Vergogna! Vergogna» a interlocutori con cui non concordino. Dunque anche per loro il senso della vergogna non è ancora morto.
Nella trasmissione di Augias lo psicologo e ora filosofo della storia si è avventurato a dire con aria grave: «Del resto, l’etimologia della parola vergogna è “vereo gognam”, temo la gogna». E qui le cose da ricordare sono parecchie.
La prima, nota anche a studenti di latino diligenti, è che in latino si dice “vereor” e non “vereo” (il verbo è cioè un “deponente”).
La seconda è che “gogna” non è parola latina, ma italiana moderna.
La terza osservazione è che “vergogna” (diversamente da “gogna”) appartiene alle parole di più sicura etimologia ed è la continuazione popolare del vocabolo “verecundia”, un sostantivo latino tratto da “vereri” (come “facundia” era tratto da “fari”, parlare).
Queste sono cose che si dicono con (appunto) un po’ di vergogna a causa della ovvietà che hanno per chiunque tenga a portata di mano, non diciamo un vocabolario etimologico (chiaro, accessibile, aggiornato è quello di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli), ma un qualsiasi buon vocabolario italiano. Sono cose banali e non è un peccato mortale ignorarle. Ma forse è una piccola vergogna, se si impiega e si dissipa l’autorità guadagnata in altri campi per spacciare notizie etimologiche senza fondamento.
Perché non piacciono gli studi sul cristianesimo
Se la Chiesa ha paura
Gesù diviso tra fede e storia
Il Sinodo dei vescovi dedicato alla Bibbia si è aperto con una messa in guardia contro le "analisi unilaterali" cioè contro il metodo storico-critico
La parola d’ordine è il ritorno all’interpretazione spirituale che evita nodi irrisolti
L’inchiesta di Corrado Augias e Remo Cacitti è stata sottoposta a feroci attacchi
di Marco Politi (la Repubblica, 22.10.2008)
Città del Vaticano. Il Sinodo dei vescovi, dedicato alla Bibbia e la missione della Chiesa, si è aperto con una messa in guardia. Va rifiutata, ha detto William Levada prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, ogni interpretazione soggettiva o «frutto di un’analisi unilaterale». Un clima di tensione spesso malsano, ha incalzato il relatore ufficiale cardinale Marc Ouellet del Quebec, si è instaurato tra la teologia universitaria e il magistero ecclesiale. Le scoperte storiche, filosofiche e scientifiche, ha soggiunto, hanno attizzato polemiche. Colpa suprema degli studiosi è l’aver «aumentato il divario tra il Gesù della storia e il Cristo della fede». Dalle battute iniziali del Sinodo in corso si è compreso che il pontificato ratzingeriano è deciso a dare un giro di vite a oltre un secolo di ricerca teologica basata sul metodo storico-critico.
Perché, più proseguono gli studi più cresce il gap tra l’immagine di Gesù dei catechismi tradizionali e la realtà complessa degli eventi relativi alla sua predicazione e alla sua eredità. Lo stesso terremoto ha investito l’Antico Testamento. Si sa ormai che la Terra Promessa non è mai stata conquistata da Giosuè così com’è descritto nella Bibbia né gli ebrei sono stati monoteisti dall’inizio.
La Chiesa ha paura. E’ allarmata che sotto l’influsso dei mass media entrino in circolazione acquisizioni che per decenni sono rimaste limitate ai circoli accademici. Tutti gli addetti ai lavori sanno che la famosa frase, che campeggia sotto la cupola della basilica vaticana «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa», è una frase tardiva e comunque non preannuncia né il papato onnipotente e teocratico come si è strutturato da Gregorio VII e Innocenzo III in poi né tantomeno prefigura la Chiesa-istituzione formatasi secoli dopo la crocifissione. Chi setaccia le opere degli specialisti tutto questo tra le pieghe lo trova, ma un conto è dirlo al riparo di volumi ponderosi un conto è portarlo in pubblico. C’è voluto Giovanni Paolo II per informare ufficialmente i fedeli che Natale non è affatto il giorno di nascita di Gesù, ma nell’antica Roma era il «giorno natale del Sole». E sempre Wojtyla ha spiegato con delicatezza che la tradizione ortodossa della Dormizione di Maria era legittima. Senza bisogno - si può aggiungere - di immaginarsi un’Assunzione come se la Madonna salisse in cielo su un immaginario ascensore. «La Chiesa si è spaventata degli studi esegetici di carattere storico - commenta il professor Mauro Pesce, che con Corrado Augias ha pubblicato nel 2006 il bestseller Inchiesta su Gesù - e teme che mettano in pericolo la fede della gente». Al Sinodo la parola d’ordine è il ritorno all’interpretazione «spirituale».
Certo un approccio possibile e anche giusto dal punto di vista religioso, ma che non può rimuovere i nodi che la ricerca storica ha portato alla luce. I nodi stanno lì. Aggrovigliati. Difficili a sciogliersi. E sono almeno cinque. Il parto verginale di Maria ha un sapore mitologico: lo sapeva bene Joseph Ratzinger quando era ancora un teologo senza porpora cardinalizia e scriveva nel suo libro Introduzione al cristianesimo (pubblicato in Italia dalla Queriniana nel 1969) che «la dottrina affermante la divinità di Gesù non verrebbe minimamente inficiata, quand’anche Gesù fosse nato da un normale matrimonio umano. No, perché la filiazione divina di cui parla la fede, non è un fatto biologico bensì ontologico». E se i Vangeli riferiscono dei fratelli di Gesù ed è stiracchiato voler piegare la parola a «cugini».
Gesù non ha mai predicato la sua divinità. Si è sentito umano sino in fondo come emerge dal grido disperato sulla croce «Dio mio, perché mi hai abbandonato». Gesù, inserito nel clima apocalittico dell’ebraismo a lui contemporaneo, ha preannunciato un suo «ritorno» imminente che non è avvenuto. La Trinità è un’elaborazione teologica del cristianesimo, inconcepibile per l’ebraismo in cui è nato Cristo. La Chiesa non era sin dall’inizio nella mente di Cristo, ma è il prodotto di trasformazioni storiche. Affascinanti, straordinarie, ma umane.
Tutto ciò che la storia ha portato alla luce, demitizzando, in realtà non incrina quell’impulso indescrivibile che è il rapporto con il Mistero-oltre-l’uomo e oltre la realtà tangibile: chiamiamola fede. Ma può mettere in crisi l’istituzione e le autorità che si ritengono infallibilmente preposte ad annunciare la Verità. Il problema alla fine è l’origine trascendente dell’istituzione ecclesiastica. «Gesù mette in crisi l’assetto della Chiesa attuale, ma succede sempre così quando si va direttamente alla Bibbia», soggiunge lo storico Pesce. Per l’istituzione ecclesiastica è difficile spiegare l’evoluzione da Gesù al cristianesimo antico fino alla Chiesa attuale. Con lo storico Remo Cacitti, Corrado Augias ha pubblicato recentemente un altro libro Inchiesta sul cristianesimo, sottotitolato provocatoriamente «Come si costruisce una religione». L’Avvenire, il giornale dei vescovi, lo ha criticato.
Ma c’è stato un risvolto curioso. Una prima volta è stata pubblicata una recensione di normale critica. Appena il libro ha avuto successo, l’Avvenire è tornato sull’argomento con una pagina di feroce attacco. Il problema, naturalmente, non è Augias che viene difeso dai lettori che comprano i suoi libri. La questione è la virulenza della reazione, appena una serie di dati storici viene portata in pubblico. «Con papa Ratzinger - ne è convinto lo storico Giovanni Filoramo - stiamo assistendo ad un ritorno alla tradizione, lo si vede anche dal suo discorso su Pio XII. Già prima dell’elezione papale Ratzinger contestava l’esegesi storico-critica. La domanda è se, come ha fatto nel suo libro su Gesù, si limiti a proporre un’interpretazione alternativa o se la sua linea mette in discussione la libertà di coscienza e di ricerca degli studiosi cattolici». Nelle facoltà pontificie, continua Filoramo, si avverte la difficoltà degli esegeti ad esprimersi con piena libertà. Una prima risposta viene direttamente da Benedetto XVI.
Intervenendo a braccio al Sinodo, il Papa ha reso omaggio al metodo storico-critico per i suoi contributi di «altissimo livello», che aiutano a capire che il «testo sacro non è mitologia». Ma poi ha evocato i rischi di un’interpretazione positivista o secolarista, che non offre spazio all’apparizione del divino nella storia. Al Sinodo il pontefice è già stato invitato a scrivere un’enciclica sull’interpretazione biblica. Con gli esiti che si possono immaginare. «La grande preoccupazione della Chiesa - dice il professor Cacitti - è di mantenere il controllo sulla ricerca scientifica per paura che vi siano esiti difformi dal dogma».
Pesce ricorda un episodio molto istruttivo. «Paolo VI aveva chiesto alla Commissione biblica di fare uno studio per vedere se nelle Scritture c’erano ostacoli al sacerdozio delle donne». La conclusione delle ricerche? «La Commissione affermò che non c’erano argomenti di carattere biblico che facessero da impedimento al sacerdozio femminile. Il testo non fu pubblicato. Paolo VI escluse poi ufficialmente ogni possibilità».
Che vi siano stati dei veri e propri salti nella costruzione della Chiesa lo dimostra la vicenda del grande scrittore cristiano Lattanzio. Prima dell’editto di Costantino Lattanzio è violentemente anti-imperiale e totalmente contrario al servizio militare. Appena il cristianesimo diventa religione ufficiale, cambia linea e scrive che la guerra per la patria romana «bonum est».
Cinque giorni di studio al cuore delle Scritture
Fabris, Pisano e Manicardi apriranno i lavori. La prima tavola rotonda con Forte e Cacciari
La XL Settimana biblica nazionale promossa dall’Associazione biblica italiana (Abi) si terrà dall’8 al 12 settembre a Roma nella sede del Pontificio Istituto biblico, luogo «simbolo» degli studi di esegesi per tutti gli studiosi cattolici. «Processo esegetico ed ermeneutica credente: una polarità intrinseca alla Bibbia» è il tema dell’incontro, che si tiene nell’anno in cui l’Abi festeggia i 60 anni di attività.
Lunedì alle 17 i lavori saranno aperti dall’intervento del presidente dell’Abi, monsignor Rinaldo Fabris, e del rettore del Pontificio istituto biblico, padre Stephen Pisano. Sarà poi monsignor Ermenegildo Manicardi, coordinatore della Settimana, docente all’Università Gregoriana di Roma e rettore dell’Almo Collegio Capranica di Roma, a introdurre il tema dell’incontro. Seguirà la tavola rotonda inaugurale su «Ragione e fede nell’interpretazione di testi biblici» con gli interventi dell’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, e di Massimo Cacciari.
La seconda giornata sarà dedicata al tema «Esegesi delle Scritture ed ermeneutica credente nella storia d’Israele». Dopo il primo momento alle 9 con la relazione su «Il rapporto di Geremia con i suoi predecessori», il biblista milanese don Gianantonio Borgonovo interverrà alle 11 su «L’attualizzazione sapienziale della Torah - Memoria fondatrice e (ri)scrittura delle tradizioni d’Israele», cui seguirà la «reazione» del biblista siciliano don Angelo Passaro. Alle 16 una sessione dedicata al tema «Parlare di Dio in greco» mentre alle 17,30 è prevista l’Assemblea associativa e un momento celebrativo dei 60 anni dell’Abi.
«Esegesi delle scritture ed ermeneutica credente nei gruppi cristiani» sarà il tema della giornata di mercoledì: alle 9 «Gesù di Nazaret e le Scritture: tecniche esegetiche e ’carisma’ personale» sarà il tema della relazione di monsignor Rinaldo Fabris e della «reazione» di padre Rosario Pistone (Palermo). Alle 11 «Risurrezione di Gesù e lettura cristiana dei testi d’Israele» sarà il tema del dialogo tra don Giuseppe Ghiberti (Torino) e don Maurizio Marcheselli (Bologna).
Giovedì, dopo una relazione sulla Lettera agli Ebrei, ci sarà alle 11 la seconda tavola rotonda sul tema «Ricerca esegetica e cammino della comunità credente» con gli interventi di padre Pietro Bovati (Roma) e Franco Giulio Brambilla, vescovo ausiliare di Milano. Nel pomeriggio altre due sessioni. L’incontro si chiuderà venerdì con una relazione alle 9 «Le ’pastorali paoline’: la posizione delle donne nella comunità cristiana» e, alle 10,30, la tavola rotonda conclusiva.
Matteo Liut
LE PAROLE E LA PAROLA
La polarità tra il lavoro di analisi scientifica sui testi sacri e l’impegno dell’ermeneutica al centro del convegno, che si pone nell’orizzonte della prossima Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi
Bibbia, saggezza da condividere
Si aprirà lunedì a Roma la XL Settimana biblica dedicata al legame tra esegeti e comunità dei credenti. Un evento che celebrerà i 60 anni di attività dell’Abi
DI MATTEO LIUT (Avvenire, 06.09.2008)
Esperti nel lavoro di analisi e interpretazione del testo sacro ma anche «ministri » di una sapienza cui partecipano tutti i credenti e che appartiene all’intera comunità cristiana. È nel sentiero che collega queste due dimensioni del lavoro degli esegeti che si colloca la XL Settimana biblica promossa dall’Associazione biblica italiana (Abi). Un evento consueto che quest’anno però si arricchisce di uno speciale anniversario: l’incontro che si aprirà lunedì, infatti, sarà l’occasione per festeggiare anche i 60 anni dalla nascita della stessa Abi.
Ecco perché al centro della riflessione di questa edizione sta l’approfondimento del legame tra compito degli esegeti e loro appartenenza ecclesiale. «Processo esegetico ed ermeneutica credente: una polarità intrinseca alla Bibbia» è il tema che guiderà i lavori dei partecipanti al convegno. Cinque giorni intensi che verranno aperti dal saluto del presidente dell’Abi, monsignor Rinaldo Fabris, cui spetterà riflettere, mercoledì mattina, sull’«accelerazione ermeneutica data dall’avvenimento di Gesù» con una relazione dal titolo «Gesù di Nazareth e le Scritture: tecniche esegetiche e ’carisma’ personale ». Uno spunto che si colloca al centro della questione affrontata dal convegno, come spiega anche monsignor Ermenegildo Manicardi, coordinatore della Settimana biblica 2008 e rettore dell’Almo collegio Capranica di Roma, la cui relazione, lunedì pomeriggio, introdurrà il tema dell’incontro nazionale.
«Si tratta di un tema molto ambizioso - sottolinea Manicardi -. È necessario ricordare agli studiosi che, assolutamente senza fare sconti dal punto di vista della serietà scientifica, non devono perdere il rapporto con la comunità credente e con la normalità della gente. I biblisti non devono dimenticare che se loro sono i responsabili del ’processo esegetico’ esiste anche ’un’ermeneutica credente’ che entra nel processo complessivo della comprensione concreta delle Scritture. Fare soltanto esegesi dei versetti - spiega ancora lo studioso - significherebbe al massimo preparare, ma non ancora giungere al vero dialogo che il Dio vivente cerca con l’uomo anche di oggi».
Una riflessione che si pone nell’orizzonte della prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, che sarà dedicata alla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa: «L’Abi - specifica Manicardi -, in un certo senso, sarà direttamente presente al Sinodo. Alcuni dei vescovi italiani, ad esempio, sono nostri associati». Attraverso di questi, quindi, ciò che emergerà dalla Settimana biblica verrà «offerto a tutta la Chiesa mondiale».
L’incontro della prossima settimana, infine, sarà l’occasione per fare il punto sul cammino di questi 60 anni dell’Abi. «L’Associazione biblica italiana oggi è formata da soci che sono ordinari o aggregati - dice Manicardi -: attualmente i primi (docenti di sacra Scrittura nelle Università pontificie o di materie attinenti alla Bibbia che operano nelle Università statali) sono circa 750, tra i quali diversi vescovi. In media ogni anno aderiscono all’Abi da quindici a venti nuovi soci ordinari. I soci aggregati sono circa 150 e operano nel campo della pastorale biblica». Positivo anche il bilancio sul ruolo dell’esegesi nella Chiesa e nella società italiana: «Nelle strutture accademiche laiche del nostro Paese - conclude Manicardi - l’apporto del biblista è richiesto molto spesso ed è rispettato ». Un segnale positivo, quindi, che spinge a custodire e far crescere anche in questo campo «l’insegnamento del Vaticano II».
Tutti ai piedi di Bertone
di Massimo Calandri e Marco Preve
Amicizie e "aiuti", il cardinale è il più gettonato
Riprendiamo l’articolo dal sito: http://genova.repubblica.it/dettaglio/Tutti-ai-piedi-di-Bertone/1463330 *
Una raccomandazione per la Sacra Rota, un aiuto per diventare presidente dell’ospedale di Padre Pio. Sarà stato per quei suoi modi gioviali, per quelle passioni popolari come il calcio e quelle piccole vanità come trasformarsi in telecronista. Fatto sta che alla porta del cardinale Tarcisio Bertone, ex vescovo del capoluogo ligure e oggi potente segretario di stato del Vaticano, hanno bussato tanti genovesi. Per favori piccoli e grandi. L’inchiesta sugli appalti per le mense ha svelato che su di lui contava l’imprenditore Roberto Alessio per fare un favore ad un magistrato, e ottenere da questi l’aiuto decisivo per una causa da 15 milioni di euro.
Ma c’è una seconda indagine, di pochi mesi fa, che racconta di un altro favore, o presunto tale, perché in tutti questi casi, sia chiaro parlano gli indagati e ognuno di loro potrebbe aver millantato l’interessamento dell’alto prelato. E’ Giovanni Novi, ex presidente dell’Autorità Portuale coinvolto nella bufera giudiziaria sulla spartizione del Multipurpose, a raccontare al telefono di aver chiesto e ottenuto un aiuto per il Tribunale della Santa Sede.
Il 25 novembre, Novi, intercettato, spiega all’avvocato Sergio Maria Carbone di essere stato a Roma da Bagnasco in occasione della sua nomina a cardinale: «ero invitato solamente la mattina... perché se no non facevo a tempo ad andare da Bertone che ci tenevo... eh sì che tra l’altro gli ho parlato della pratica di mia figlia, è stato gentilissimo guarda... si, si ha detto che lui ha dato una... ha dato un’accelerata al processo, che è 10 anni che dura non è possibile, che l’ha data e difatti ne abbiamo avuto riscontro e poi mi ha detto mi informo di come vanno le cose, quindi...».
Se Novi non si è inventato tutto, quello ricevuto è stato un "aiutino", un’"accelerata" appena. Nella vicenda di mensopoli, invece, il segretario di stato vaticano viene tirato in ballo per una vicenda ben più importante. Roberto Alessio, attraverso il costruttore Paolo Ambrosini - anche lui indagato - promette a Mario D’Antino, presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti della Liguria un canale preferenziale per diventare presidente della Casa Sollievo della Sofferenza, cioè il policlinico intitolato a Padre Pio di San Giovanni Rotondo. In cambio, D’Antino, che per ora non è indagato, fa da consulente ad Alessio e - così sostiene lo stesso magistrato nelle telefonate intercettate - si attiva, presso un giudice suo amico del Consiglio di Stato, per intercedere a favore dell’azienda di Vercelli. La causa andrà a sentenza nel gennaio 2009.
Ambrosini e Alessio al telefono scherzano chiamandosi "barone " e Principe". Alessio però spiega a Casagrande che Bertone «con Ambrosini sia molto diciamo, ci sia un rapporto diretto, perché loro si scrivono tramite il Ca... il segretario, però... il segretario personale che è don Lec, una volta alla settimana loro si scrivono via mail, però... per essere chiari, è che... ormai Sua Eminenza è a un livello tale che neanche noi ci sentiamo di... cioè, andiamo quando ci chiama come si dice, nel senso che anche noi ci sentiamo di pressarlo più di tanto... diciamo che Ambrosini riesce ad essere ricevuto generalmente in... in quin... nel giro di venti giorni, cosa che altri ci vogliono sei mesi.. cioè...».
Paolo Ambrosini, per Roberto Alessio, è il trait d’union con le alte sfere della curia. L’imprenditore di Vercelli è bipartisan, anzi il suo intento è quello di creare un orizzonte comune per la "Casagrande band" come chiama il gruppo di politici di sinistra capitanati da Massimo Casagrande, e per l’ala "curiale". In questa ultima categoria, almeno secondo l’impostazione della procura, si trova sicuramente Giuseppe Profiti, il presidente dell’ospedale Bambin Gesù di Roma, che da ieri è difeso anche da Franco Coppi, uno dei migliori penalisti italiani.
Una scelta che sembra essere anche un segnale di vicinanza della Santa Sede al suo manager. E un’altra figura che compare spesso nelle intercettazioni e alla quale viene riconosciuto un ruolo importante nel collegamento con le autorità religiose romane è Carlo Boccotti,, commercialista genovese che qualche anno fa venne coinvolto in un’inchiesta in cui una tossicodipendente era stata ingaggiata come prestanome per una presunta società di comodo, e che nel tempo ha avuto ruoli e partecipazioni in numerose società operanti in vari settori.
La Bibbia alfabeto della civiltà
di Enzo Bianchi (La Stampa, 17 gennaio 2010)
E’ innegabile che nell’ultimo secolo si sia verificato un mutamento radicale riguardo al posto delle Sante Scritture nella vita della Chiesa cattolica, una rinnovata sensibilità che ha lasciato la sua testimonianza più forte e autorevole nella Dei Verbum, la costituzione conciliare sulla Parola di Dio. Così la Bibbia, da testo tenuto ai margini dell’insegnamento e della catechesi cattolica, ignoto alla maggior parte dei battezzati, è divenuto sempre più familiare, raggiungendo anche in Italia dati di diffusione un tempo impensabili.
Eppure, nonostante questa feconda riscoperta, quanti credenti leggono regolarmente la Bibbia, quanti cristiani considerano il Vangelo come testo normativo della loro esistenza e delle scelte quotidiane? Secondo le indagini demoscopiche, solo un numero ridotto, anche rispetto ai soli cattolici «praticanti». Né sono mancati in questi ultimi anni gli appelli ad affrontare il problema dell’assenza della Bibbia nella scuola italiana e più in generale nel tessuto culturale del paese: un’assenza che indebolisce la memoria storica del «grande codice» della cultura occidentale e la possibilità di incontro con un testo ancora oggi tra i più ricchi e stimolanti, non solo sul piano religioso ma su quello storico, letterario, artistico e filosofico.
Il nuovo spazio radiofonico che la trasmissione Uomini e profeti inaugura oggi (alle 10) sulla terza rete della radio pubblica si inserisce in questa duplice consapevolezza: l’importanza della conoscenza della Scrittura e la scarsa dimestichezza con essa che permane in larghi strati della popolazione.
«Leggere la Bibbia» in modo corale, con un approccio attento alle voci diversificate in ambito ebraico, cristiano, musulmano, storico, filosofico può costituire un prezioso servizio non solo all’approfondimento del fenomeno religioso, ma anche alla qualità della convivenza civile.
Scavare nella storia del testo biblico, indagare sulla sua formazione e le infinite interpretazioni cui ha dato luogo, rileggerlo alla luce degli eventi che segnano le vicende quotidiane e le grandi svolte epocali fornisce elementi di migliore conoscenza di se stessi e degli altri, di più attenta comprensione del senso delle nostre esistenze e di risposta alle domande fondamentali che ci accomunano come esseri umani: da dove veniamo, dove stiamo andando, che senso ha la nostra vita e l’evolversi del creato e della storia, cosa ci attende dopo la morte? È questa un’esigenza che emerge sempre più forte nella nostra società, abitata da uomini e donne di diversa matrice religiosa o che si considerano estranei a qualunque appartenenza confessionale.
Leggere la Bibbia «insieme», cioè tenendo conto della presenza dell’altro, è allora una sfida e nel contempo un’enorme potenzialità: avvia infatti un percorso orientato al senso dell’esistenza, uno sforzo per ritrovare una grammatica comune, un tentativo di riscoprire le autentiche radici di tanti nostri comportamenti e di ridare vivacità di voci e tonalità a quell’affascinante raccolta di testi redatti nell’arco di quasi un millennio che Chagall amava definire il grande «alfabeto colorato» della civiltà occidentale.
Perché non dire: “Aspettate”?
Per una revisione dalla base del nuovo Messale Romano
di Michael G. Ryan ("America” del 14 dicembre 2009 - traduzione: www.finesettimana.org)
Sono ora 45 anni da quando il Concilio Vaticano Secondo promulgò l’innovativo e liberante documento sulla sacra liturgia, Sacrosantum Concilium. A quel tempo, da zelante ed entusiasta seminarista del Pontificio Collegio Americano del Nord, ero in Piazza S. Pietro nel giorno di dicembre del 1963 in cui Papa Paolo VI, con i vescovi del mondo, presentò quella grande Magna Carta alla chiesa. Il documento conciliare trascendeva le politiche ecclesiali. Non era solo il progetto favorito di una parte, ma lo schiacciante consenso dei vescovi del mondo. La sua adozione passò con una maggioranza schiacciante: 2147 a 4.
Mai avrei pensato, nemmeno nei miei sogni più folli, di arrivare nella mia vita ad assistere a ciò che appare sempre di più come il sistematico smantellamento della grande visione del decreto conciliare. Ma ci sono arrivato. Noi cattolici ci siamo arrivati.
A dimostrazione di ciò, è sufficiente guardare alle recenti istruzioni della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che hanno elevato il rubricismo a una forma d’arte, oppure il sostegno, persino l’incoraggiamento, alla cosiddetta Messa Tridentina. È divenuto dolorosamente chiaro che la liturgia, la preghiera del popolo, viene usata come uno strumento - qualcuno direbbe persino come un’arma - per portare avanti determinate agende. Ed ora all’orizzonte sono le nuove traduzioni del Messale Romano che presto raggiungeranno gli stadi finali di approvazione da parte della Santa Sede. Fra non molto ai preti di questa nazione sarà detto di portare le nuove traduzioni alla loro gente per mezzo di un programma di formazione attentamente orchestrato che tenterà di dare un’apparenza positiva a qualcosa che chiaramente non la merita.
Ai veterani, che da giovani preti nei passati anni Sessanta hanno entusiasticamente dedicato le proprie migliori energie creative per far accettare le riforme del concilio ai parrocchiani, sarà chiesto di fare lo stesso riguardo alle nuove traduzioni. Tuttavia saremo in difficoltà nel fare questo. Alcuni colleghi nel ministero potranno forse apprezzare l’opportunità, ma non quelli di noi che furono catturati dalla grande visione del Vaticano II, che conoscevano di prima mano la Messa Tridentina ed la amavano per quello che era, ma che accolsero positivamente il suo tramontare per ciò che una piena, consapevole e attiva partecipazione avrebbe significato per il nostro popolo. Possiamo vedere il momento presente solo come un ulteriore assalto al concilio e, tristemente, un ulteriore colpo alla collegialità episcopale. È stato infatti il concilio a dare alle conferenze episcopali l’autorità di di produrre le proprie traduzioni (S.C., n° 36, 40), che devono essere approvate, certamente, dalla Santa Sede, ma su cui essa, presumibilmente, non dovrebbe avere l’iniziativa né il controllo fin nei minimi dettagli. Inoltre, il concilio ha saggiamente previsto tempi di sperimentazione e valutazione (S.C., n° 40) - qualcosa che è evidentemente mancato nel presente caso.
Questo mi porta a porre una domanda ai miei fratelli preti: perché non aprire gli occhi sul fatto che questi testi non sono né pastorali né pronti per le nostre parrocchie? Perché non dire semplicemente: “Aspettate”?
Preghiera e buon senso
So che parlare in questo modo potrebbe apparire come insubordinazione, ma potrebbe essere anche una manifestazione di lealtà e semplice buon senso - lealtà non ad un’agenda ideologica, ma al nostro popolo, la cui preghiera le nuove traduzioni si proporrebbero di migliorare, e buon senso per chiunque si fermi a riflettere su qual è la posta in gioco qui.
Quello che è in gioco, mi sembra, è nientemeno che la credibilità della chiesa. È vero che la chiesa potrebbe guadagnare in credibilità fornendoci traduzioni più belle, ma goffo non equivale a bello, e ricercato non significa adatto alla preghiera. Durante una recente conversazione a cena con amici, la questione delle nuove traduzioni è venuta fuori. Due dei commensali erano ben consapevoli - e piuttosto indignati - delle imminenti modifiche; due non lo erano. Quando i non informati hanno sentito qualche esempio1, la loro reazione è stata fra l’incredulità e l’indignazione.
Uno dei convitati ha azzardato l’opinione che con tutto quello che la chiesa ha sul suo piatto oggi - sfide globali rispetto alla giustizia, la pace, l’ambiente; continui scandali; una grave mancanza di preti; la crescente disillusione di molte donne; una seria diminuzione della frequenza ai riti - sembra quasi assurdo continuare a portare avanti un’agenda che sembra nel migliore dei casi insignificante e nel peggiore completamente scollegata dalla realtà.
La reazione dei miei amici non dovrebbe sorprendere chiunque abbia avuto l’opportunità di esaminare le nuove traduzioni. Alcune di esse hanno dei pregi, ma molte, troppe, non ne hanno. Recentemente l’Arcidiocesi di Seattle ha promosso un seminario sulle nuove traduzioni rivolto agli incaricati laici e al clero. Sia il prete che conduceva il seminario (un valido teologo liturgista) sia i partecipanti si erano ivi riuniti in buona fede. Quando alcuni passaggi dalle nuove proposte traduzioni sono stati letti ad alta voce, con tono serio, dall’oratore (ricordo in particolare la frase dalla prima preghiera eucaristica che attualmente dice “Giuseppe, suo marito”, ma che nella nuova traduzione diventa “Giuseppe, coniuge della stessa vergine”2), si è sentito chiaramente ridere nella stanza. Mi sono trovato a pensare che l’idea che questo avvenga durante la sacra liturgia non è un problema di riso, ma qualcosa che dovrebbe farci tutti tremare.
C’è di più: l’agghiacciante accoglienza che il popolo delle diocesi del Sud Africa ha dato alle nuove traduzioni. Con una straordinaria svista, i vescovi di quella nazione hanno mal interpretato le istruzioni da Roma e, dopo un attento programma di catechesi nelle parrocchie, hanno presentato le nuove traduzioni alla loro gente alcuni mesi fa. Le traduzioni hanno incontrato quasi ovunque un’opposizione al limite dell’oltraggio.
Non è mia intenzione qui discutere in dettaglio gli scorretti principi di traduzione che stanno dietro a questa operazione o le traduzioni deboli e inconsistenti che ne sono risultate. Altri lo hanno già fatto abilmente. Né voglio insistere sul fatto che coloro che hanno predisposto le traduzioni sembrano essere più versati in latino che in inglese. No, la mia preoccupazione è per il passo che sta davanti a noi: la prospettiva di rendere effettive le nuove traduzioni. Questo mi riporta alla mia domanda: perché non dire semplicemente: “Aspettate”?
Perché noi, i parroci di questa nazione che avranno l’onere della messa in pratica, non ritroviamo la nostra voce e diciamo ai nostri vescovi che vogliamo aiutarli ad evitare un fallimento quasi certo? Perché non diciamo loro che pensiamo che non sia saggio rendere effettive queste modifiche fino a quando i membri del nostro popolo non siano stati consultati in una maniera adulta che veramente onori la loro intelligenza e il loro essere battezzati? Perché non dire semplicemente: “Aspettate, non fino a quando il nostro popolo sia pronto per le nuove traduzioni, ma fino a quando le traduzioni non siano pronte per il nostro popolo”?
Ascoltare i nostri istinti pastorali
I vescovi hanno fatto del loro meglio, ma fino ad ora non hanno avuto successo. Alcuni di essi, guidati dal coraggioso e franco ex-presidente della Commissione Episcopale sulla Liturgia, il vescovo Donald Trautman di Erie, Pennsylvania, hanno provato a fermare il treno delle nuove traduzioni, ma inutilmente. La conferenza episcopale, messa ai margini e sfiancata dalle battaglie, ha permesso a se stessa lentamente ma stabilmente di essere logorata. Dopo un po’ la voglia di
combattere semplicemente non c’era più. L’acquiescenza ha preso piede fino al punto che minuscoli miglioramenti (una parola qui, una virgola là) fossero visti come importanti vittorie. Senza nemmeno volerlo, i vescovi hanno abbandonato i loro migliori istinti pastorali e così facendo hanno rinunciato ai migliori interessi del loro popolo. Così sorge la domanda: anche noi preti abbiamo intenzione di rinunciare? Anche noi abbiamo intenzione di adeguarci? Certamente noi dobbiamo ai nostri vescovi l’obbedienza e il rispetto a cui ci siamo impegnati il giorno della nostra ordinazione, ma obbedienza significa complicità con qualcosa che percepiamo come sbagliato - o, nel migliore dei casi, irrazionale? Obbedienza significa andare contro i nostri migliori istinti pastorali al fine di promuovere qualcosa che crediamo, alla fine, porterà discredito alla chiesa e ulteriore disillusione al popolo? Penso di no. E il rispetto implica un’adesione solo formale a qualcosa verso cui la nostra reazione più istintiva è di definirla temeraria? Di nuovo, penso di no.
Ecco le mie modeste proposte.
Perché i pastori, i consigli pastorali, le commissioni liturgiche e i consigli presbiterali non si appellano ai loro vescovi chiedendo un tempo di riflessione e consultazione sulle traduzioni e sul processo attraverso il quale saranno date al popolo? È ironico, a dire il meno, che impieghiamo ore per la consultazione quando si progetta di ristrutturare una chiesa o una sala parrocchiale, ma poco o nessun tempo quando si vuole “ristrutturare” la stessa lingua della liturgia.
Perché, prima di rendere effettive le nuove traduzioni, non facciamo alcuni “esperimenti di mercato”? Perché in ciascuna regione ecclesiastica non si scelgono alcuni posti per sperimentare le nuove traduzioni: parrocchie urbane e parrocchie rurali, parrocchie ricche e parrocchie povere, parrocchie grandi e multiculturali e parrocchie piccole, comunità religiose e campus universitari? Perché non utilizzare in queste prescelte comunità, per il tempo di un intero anno liturgico, le nuove traduzioni, con una catechesi attentamente progettata e una valutazione approfondita e onesta? Un tale esperimento non fornirebbe preziose informazioni sia per i traduttori che per i vescovi? E un tale esperimento non renderebbe molto più facile la messa in opera delle nuove traduzioni una volta pronte?
In breve, perché non dovremmo fidarci dei nostri migliori istinti e difendere il nostro popolo da questo mal concepito sconvolgimento della sua vita di preghiera? Perché la collegialità, il dialogo e una realistica consapevolezza dei bisogni pastorali del nostro popolo non dovrebbero essere introdotti in questa fase finale della partita? È impossibile pensare che potremmo aiutare la chiesa che amiamo a evitare un fallimento o persino un disastro? Ed è impossibile pensare che le voci nella chiesa che hanno deciso che la latinità è più importante della lucidità potrebbero finire per ascoltare il popolo e rivedere la loro posizione, e che le frasi prolisse, sgraziate e goffe potrebbero essere ridotte, lasciando posto a traduzioni nobili, persino poetiche di testi bellissimi e antichi che sarebbero veramente degni della nostra più grande preghiera, degni della nostra lingua e degni del santo popolo di Dio di cui questa preghiera è? (Se pensate che la precedente frase sia sgraziata, aspettate di vedere alcune delle nuove traduzioni del Messale. Potrebbero essere leggibili, ma al limite dell’impronunciabile!)
“Perché non dire semplicemente di no?” era il mio titolo di lavoro per questo articolo. “Perché non
dire semplicemente: “Aspettate”?” sembra preferibile. Il dialogo è meglio della diatriba, come il
Concilio Vaticano Secondo ha ampiamente dimostrato. Che dunque il dialogo cominci. Perché non
permettere ai preti che sono in prima linea e ai laici che pagano i conti (compresi i salari di preti e
vescovi) di esprimersi su come dovrebbero pregare? Se pensate che questa idea abbia valore, vi
invito a visitare il sito www.whatifwejustsaidwait.org e a far sentire la vostra voce. Se i nostri vescovi
conosceranno la profondità della nostra preoccupazione, forse non si sentiranno così soli.
—
Il rev. Michael G. Ryan è pastore della Cattedrale di S. Giacomo a Seattle dal 1988 e membro del comitato direttivo della Conferenza nazionale dei Ministri di Cattedrali
1 N.d.t.: qui il testo originale inserisce fra parentesi alcuni esempi (“and with your spirit”; “consubstantial with the
Father”; “incarnate of the Virgin Mary”; “oblation of our service”; “send down your Spirit like the dewfall”; “He took
the precious chalice”; “serene and kindly countenance”) che non traduciamo.
2 N.d.t.: letteralmente, “Joseph, her husband” e “Joseph, spouse of the same virgin”.