San Francesco di Paola
di Lodewijk Toeput - Ludovico Pozzoserrato (1654-1726).
Scheda di lettura
del Museo Diocesano di Treviso *
Il dipinto è particolare, perchè la figura del Santo, rappresentato come un vecchio in abiti francescani, è contornato da dieci scene che raffigurano altrettanti fatti prodigiosi a lui attribuiti. Nella mano tiene un bastone al quale si appoggia pesantemente, sormontato da quello che diverrà il suo motto CHA: charitas.
Secondo la tradizione, un angelo, forse l’arcangelo Michele, gli apparve mentre pregava, tenendo fra le mani uno scudo luminoso su cui si leggeva la parola Charitas e porgendoglielo disse: “Questo sarà lo stemma del tuo Ordine”.
La sua vita fu uno stupore continuo sin dalla nascita, nel 1416 a Paola, cittadina calabrese sul Mar Tirreno in provincia di Cosenza, da una coppia di genitori già avanti negli anni, che si rivolsero in preghiera a San Francesco di Assisi, affinché intercedesse per loro. La madre fece poi un voto al Santo, di tenere il figlio in un convento di Frati Minori per un intero anno, vestendolo dell’abito proprio dei Francescani (il voto dell’abito è usanza ancora esistente nell’Italia Meridionale) se avesse salvato la vista che il bimbo stava perdendo da un occhio, a causa di un ascesso. Dopo qualche giorno l’ascesso scomparve completamente.
In quel anno l’adolescente rivelò subito doti eccezionali; stupiva i frati dormendo per terra, con continui digiuni e preghiera intensa e già si cominciava a raccontare di prodigi straordinari, come quando assorto in preghiera in chiesa, si era dimenticato di accendere il fuoco sotto la pentola dei legumi per il pranzo dei frati, allora tutto confuso corse in cucina, dove con un segno di croce accese il fuoco di legna e dopo pochi istanti i legumi risultavano già cotti. Un’altra volta dimenticò di mettere le carbonelle accese nel turibolo dell’incenso; ai richiami del sacrestano andò a prenderle ma senza un recipiente adatto. Allora le depose nel lembo della tonaca senza che la stoffa si bruciasse.
Trascorso l’anno del voto, Francesco volle tornare a Paola fra il dispiacere dei frati e con i genitori intraprese un pellegrinaggio ad Assisi alla tomba di S. Francesco, era convinto che quel viaggio gli avrebbe permesso d’individuare la strada da seguire nel futuro. Tornato a Paola, appena tredicenne, si ritirò a vita eremitica in un campo che apparteneva al padre, a quasi un chilometro dal paese. Era il 1429. Si riparò prima in una capanna di frasche e poi si spostò in una grotta, che egli stesso allargò scavando il tufo con una zappa; questa grotta è oggi conservata all’interno del Santuario di Paola.
Dopo poco tempo alcuni giovani, gli chiesero di poter vivere come lui nella preghiera e solitudine. Si costituì il primo nucleo del futuro Ordine dei Minimi. La piccola Comunità si chiamò Eremiti di frate Francesco.
Durante i lavori di costruzione dell’eremo, Francesco operò altri prodigi: un grosso masso che stava rotolando sugli edifici venne fermato con un gesto del santo e ancora oggi esiste sotto la strada del Santuario; Francesco entrò nella fornace per la calce a ripararne il tetto, passando fra le fiamme e rimanendo illeso (episodio illustrato nel nostro quadro); inoltre fece sgorgare una fonte con un tocco del bastone, per dissetare gli operai, oggi è chiamata l’acqua della cucchiarella, perché i pellegrini usano attingerne con un cucchiaio.
Ormai la fama di taumaturgo si estendeva sempre più e il papa Paolo II (1464-1471), inviò nel 1470 un prelato a verificare; giunto a Paola fu accolto da Francesco che aveva fatto portare un braciere per scaldare l’ambiente; il prelato lo rimproverò per l’eccessivo rigore che professava insieme ai suoi seguaci e allora Francesco prese dal braciere con le mani nude i carboni accesi senza scottarsi, volendo così significare che, se con l’aiuto di Dio si poteva fare ciò, tanto più si poteva accettare il rigore di vita.
La fama di questo monaco dalla grossa corporatura, con barba e capelli lunghi che non tagliava mai, si diffondeva in tutto il Sud, per cui fu costretto a muoversi da Paola per fondare altri conventi in varie località della Calabria. Gli fu chiesto di avviare una comunità anche a Milazzo in Sicilia, pertanto con due confratelli si accinse ad attraversare lo Stretto di Messina, qui chiese ad un pescatore se per amor di Dio l’avesse traghettato all’altra sponda, ma questi rifiutò visto che non potevano pagarlo. Senza scomporsi Francesco legò un bordo del mantello al bastone, vi salì sopra con i due frati e attraversò lo Stretto con quella barca a vela improvvisata. Il miracolo, fra i più clamorosi di quelli operati da Francesco, fu in seguito confermato da testimoni oculari, compreso il pescatore Pietro Colosa di Catona, piccolo porto della costa calabra, che si rammaricava e non si dava pace per il suo rifiuto.
Risanava gli infermi, aiutava i bisognosi, ‘risuscitò’ suo nipote Nicola, giovane figlio della sorella Brigida. Anche suo padre Giacomo Alessio, rimasto vedovo, entrò a far parte degli eremiti, diventando discepolo di suo figlio fino alla morte. Francesco alzava spesso la voce contro i potenti in favore degli oppressi, le sue prediche e invettive erano violente, per cui fu ritenuto pericoloso e sovversivo dal re di Napoli Ferdinando I d’Aragona (detto Ferrante), che mandò i suoi soldati per farlo zittire, ma essi non poterono fare niente, perché il santo eremita si rendeva invisibile ai loro occhi; il re alla fine si calmò, diede disposizione che Francesco potesse aprire quanti conventi avrebbe voluto. Intanto si approssimava una grande, non desiderata svolta della sua vita.
Un mercante italiano, di passaggio a Plessis-les-Tours in Francia, dove risiedeva in quel periodo il re Luigi XI (1423-1482), gravemente ammalato, parlò di Francesco ad uno scudiero reale, che informò il sovrano. Il re inviò subito un suo maggiordomo in Calabria ad invitare il santo eremita, affinché si recasse in Francia per aiutarlo, ma Francesco rifiutò, nonostante che anche il re di Napoli Ferrante appoggiasse la richiesta.
Il re francese si rivolse allora al papa Sisto IV, il quale per motivi politici ed economici, non voleva scontentare il sovrano, ordinò all’eremita di partire per la Francia, con grande sgomento e dolore di Francesco perchè costretto a lasciare la sua terra e i suoi eremiti ad un’età avanzata, aveva 67 anni, e malandato in salute.
Nella sua tappa a Napoli, fu ricevuto con tutti gli onori da re Ferrante I, incuriosito di conoscere quel frate che aveva osato opporsi a lui; il sovrano assisté non visto ad una levitazione da terra di Francesco, assorto in preghiera nella sua stanza; poi cercò di conquistarne l’amicizia offrendogli un piatto di monete d’oro, da utilizzare per la costruzione di un convento a Napoli.
Si narra che Francesco ne prese una, la spezzò e ne uscì del sangue, quindi rivolto al re disse: “Sire questo è il sangue dei tuoi sudditi che opprimi e che grida vendetta al cospetto di Dio”. Predisse anche la fine della monarchia aragonese, che avvenne puntualmente nei primi anni del 1500.
Nel suo passaggio in terra francese il frate liberò Bormes e Frejus da un’epidemia. Nel maggio 1482 Francesco arrivò al castello dove risiedeva ammalato il re Luigi XI. A corte fu accolto con grande rispetto. Col re ebbe numerosi colloqui, per lo più miranti a far accettare al sovrano l’ineluttabilità della condizione umana, uguale per tutti e per quante insistenze facesse il re di fare qualcosa per guarirlo, Francesco rimase coerentemente sulla sua posizione, giungendo alla fine a convincerlo ad accettare la morte imminente, che avvenne in quello stesso anno.
Dopo la morte di Luigi XI, il frate, che viveva in una misera cella, chiese di poter ritornare in Calabria, ma la reggente Anna di Beaujeu e poi anche il re Carlo VIII si opposero, considerandolo loro consigliere e direttore spirituale. Giocoforza dovette accettare quest’ultimo sacrificio di vivere il resto della sua vita in Francia.
Francesco morì il 2 aprile 1507 a Plessis-les-Tours, vicino Tours dove fu sepolto, era un Venerdì Santo ed aveva 91 anni e sei giorni. Le sue reliquie subirono varie profanazioni e divisioni, furono poi riunite e dal 1935 si trovano nel Santuario di Paola; dopo quasi cinque secoli il santo eremita è ritornato nella sua Calabria di cui è patrono, come lo è di Paola e Cosenza. Nel 1943 papa Pio XII, in memoria della traversata dello Stretto, lo nominò protettore della gente di mare italiana.
* Museo diocesano di Treviso:
Il paliotto dorato si apre con la figura di Maria assisa in trono, tra angeli
www.diocesitv.it/irc/2009-03.../Museo_Diocesano_Tv_(parte_2).doc - [29.11.2011, fls].
La canonizzazione di san Francesco di Paola
di Daniele Macris, Giuseppe Tallarico
(Editore Pubblisfera, San Giovanni in Fiore 2012):
1512 - Giulio II, il 13 maggio, emana un breve con cui ordina di iniziare le indagini canoniche intorno alla vita, alle virtù e ai miracoli di frate Francesco [di Paola] per la sua canonizzazione.
1513 - Leone X, il 7 luglio, eleva Francesco all’onore dei beati. I frati possono ora celebrare la festa il 2 aprile.
1519 - Leone X, il 1° maggio, canonizza Francesco, iscrivendolo nel "Catalogo dei Santi Confessori", e stabilendo la celebrazione della festa in tutta la "Chiesa universale il giorno 2 aprile" (cfr.: Daniele Macris, Giuseppe Tallarico, La canonizzazione di san Francesco di Paola, Editore Pubblisfera, San Giovanni in Fiore, 2012, p. 31).
FRANCESCO DI PAOLA (1416-1507) |
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
Federico La Sala
ERBORISTERIA ANTICA E MODERNA: BOTANICA #FILOLOGIA, #ANTROPOLOGIA, STORIA, E #TEOLOGIA...
"LE ERBE DI SAN FRANCESCO DI PAOLA". Una nota a margine della presentazione del libro di Carmine Lupia, Giancarlo Statti (*)
CONSIDERATO CHE LA VITA E LE OPERE DI FRANCESCO DI PAOLA SONO "SCRITTE" DENTRO IL SUO "CUORE" E SUL SUO PETTO (NELLA TRADIZIONE ICONOGRAFICA), NELLA PAROLA "CHARITAS",
FORSE,
E’ OPPORTUNO E NECESSARIO PRECISARE CHE "DIMENTICARE" L’ #ACCA ("H") SI PERDE (COME E’ SUCCESSO) LA #MEMORIA STESSA DELL’ESSENZIALE, E L’#ASSENZA DI UN ELEMENTO, UNA "LETTERA", PRODUCE EFFETTI "ATOMICI", COSTA #CARO, MOLTO CARO: IL #PREZZO SALE E LA "BUONA" ("#EU") CARESTIA ("CARITAS") ANCHE, FINO A DESERTIFICARE TUTTO.
ALLA LUCE DI QUESTA BREVE PREMESSA FILO-#LOGICA, C’E’ DA AUGURARSI CHE II LIBRO SULLE "ERBE DI SAN FRANCESCO DI PAOLA" (Rubbettino Editore) POSSA ESSERE (O DIVENTARE) UNA BELLA OPPORTUNITÀ PER RIFLETTERE
SULLA GRANDE IMPORTANZA TEORICA E PRATICA DELL’ INSEGNARE E DELL’IMPARARE A SAPER #ACCOGLIERE BENE LE "DIFFERENZE" TRA LE VARIE "ERBE" E, CONSEGUENTEMENTE,
SULL’ USARE CON ATTENZIONE E RESPONSABILITÀ #PAROLE #CHIARE NELL’INDICARLE, SENZA PERDERE UN’ ACCA (UNA "H") E SENZA RENDERE CARO, TROPPO #CARO, IL #PREZZO ("#CARITAS") DEI PRODOTTI
DONO DI MADRE #TERRA E FRUTTO DELL’ INTELLIGENTE E ACCURATO #LAVORO DI #RICERCA DEGLI ESSERI UMANI SU TUTTO IL PIANETA
(E, POSSIBILMENTE, NON FARE DELLA "CARITÀ", CIOE’ DELLA "CARITAS", ADDIRITTURA LA "DEA" O, MEGLIO, IL "#DEUS EX #MACHINA" DEL #MERCATO PLANETARIO).
NOTE:
SANTI E BEATI *
San Pasquale Baylon Religioso dei Frati Minori
17 maggio
Torre Hermosa, Spagna, 16 maggio 1540 - Villarreal, Spagna, 17 maggio 1592
Nacque il 16 maggio 1540, nel giorno di Pentecoste, a Torre Hermosa, in Aragona. Di umili origini, sin da piccolo venne avviato al pascolo delle greggi. Durante il lavoro si isolava spesso per pregare. A 18 anni chiese di essere ammesso nel convento dei francescani Alcantarini di Santa Maria di Loreto, da cui venne respinto, forse per la giovane età. Tuttavia non si perse d’animo, venendo ammesso al noviziato il 2 febbraio 1564. L’anno successivo, emise la solenne professione come «fratello laico» non sentendosi degno del sacerdozio. Nel 1576 il ministro provinciale gli affidò il compito, estremamente pericoloso, di portare documenti importanti a Parigi, rischiando di essere ucciso dai calvinisti. L’impegno venne comunque assolto in modo proficuo. Tutta la sua vita fu caratterizzata da un profondo amore per l’Eucaristia che gli valse il titolo di «teologo dell’Eucaristia». Fu anche autore di un libro sulla reale presenza di Cristo nel pane e nel vino. Morì nel convento di Villa Real, presso Valencia il 17 maggio 1592, domenica di Pentecoste. Fu canonizzato da Alessandro VIII nel 1690. Nel 1897 Leone XIII lo proclamò patrono dei Congressi eucaristici. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Villa Real presso Valencia in Spagna, san Pasquale Baylon, religioso dell’Ordine dei Frati Minori, che, mostrandosi sempre premuroso e benevolo verso tutti, venerò costantemente con fervido amore il mistero della Santissima Eucaristia.
Infanzia e primi anni
Cominciamo col dire che il nome Pasquale è di origine cristiana ed è molto usato anche nel femminile Pasqualina. Veniva dato ai bambini nati il giorno di Pasqua, ma le sue lontane origini sono ebraiche (Pesah = passaggio) volendo indicare il passaggio del popolo ebraico del Mar Rosso e il passaggio dell’angelo del Signore che salvò, segnandone le case con il sangue dell’agnello, i primogeniti ebrei per distinguerli da quelli egiziani destinati alla morte nell’ultima piaga d’Egitto.
Non è tuttavia il caso di Pasquale Baylón, che nacque il 16 maggio 1540, giorno di Pentecoste (che è detta anche “Pasqua rosata” o, in spagnolo, “Pascua de Pentecostés”), a Torre Hermosa in Aragona, Spagna, da Martín Baylón e da Isabel Jubera. Fin da bambino dimostrò una spiccata devozione verso l’Eucaristia, che sarà poi la caratteristica di tutta la sua vita religiosa.
Fu pastore prima del gregge della famiglia, poi a servizio di altri padroni. La solitudine dei campi favorì la meditazione, il suo desiderio di spiritualità, la continua preghiera; prese anche a mortificare il suo giovane corpo con lunghi digiuni e flagellazioni dolorose.
Vocazione francescana
A 18 anni chiese di essere accolto nel convento di Santa Maria di Loreto, dei Francescani Riformati detti Alcantarini da san Pietro d’Alcantara, riformatore dell’Ordine; non fu accettato, forse per la giovane età.
Pur di rimanere nei dintorni del convento, entrò al servizio, sempre come pastore, del ricchissimo possidente Martín García. Ammirato da questo suo giovane dipendente, gli propose di adottarlo così da poter diventare suo erede universale, ma lui oppose un deciso rifiuto, perché più che mai era deciso ad entrare tra i frati di san Francesco.
Dopo due anni, nel 1560, venne ammesso nel convento di S. Maria di Loreto, dove fece la sua professione religiosa il 2 febbraio 1564. Non volle mai ascendere al sacerdozio, nonostante il parere favorevole dei superiori, perché non si sentiva degno: si accontentò di rimanere un semplice fratello laico.
Frate portinaio dotato di scienza infusa
Fu per anni addetto ai vari servizi del convento, specialmente come portinaio, compito che espletò sempre con grande bontà, anche nei conventi di Jatíva e Valencia. Sebbene così giovane, si acquistò una certa fama di santità per le virtù cristiane e morali, ma anche per fatti prodigiosi che gli vennero attribuiti.
Fu davvero “pentecostale”, cioè favorito dagli straordinari doni dello Spirito Santo, tra cui quello della sapienza infusa: sapeva leggere e scrivere, ma non era molto colto. Eppure, era costantemente richiesto per consiglio da tanti illustri personaggi.
In missione tra i calvinisti
Anche il Padre Provinciale degli Alcantarini di Spagna, nel 1576, dovendo comunicare con urgenza col Padre Generale risiedente a Parigi, pensò di mandare fra Pasquale con la missiva, ben sapendo le gravi difficoltà del viaggio per l’attraversamento di alcune province francesi, che in quell’epoca erano dominate dai calvinisti.
Infatti il frate fu fatto oggetto di continue derisioni, insulti, percosse. A Orléans fu anche in pericolo di morte per lapidazione: aveva tenuto una serrata disputa sull’Eucaristia, tenendo testa agli oppositori e rintuzzando le loro false argomentazioni.
Serafino dell’Eucaristia
Al ritorno della sua delicata e pericolosa missione, fra Pasquale compose un piccolo libro di definizioni e sentenze sulla reale presenza di Gesù nell’Eucaristia e sul potere divino trasmesso al pontefice romano. A testimonianza di questa grande devozione, per cui venne soprannominato “Serafino dell’Eucaristia”, ci sono pervenuti i suoi pensieri personali e preghiere, che aggiungeva alle raccolte di scritti su temi eucaristici che trascriveva in un suo scartafaccio.
La morte
Per il suo desiderio di maggior perfezione, si sottoponeva a continue e pesanti mortificazioni e a penitenze sempre più numerose, al punto che la sua salute era ormai compromessa.Fu sorpreso dalla morte il 17 maggio 1592, il giorno dopo il suo cinquantaduesimo compleanno, presso il convento del Rosario a Villarreal, vicino Valencia. Come era accaduto il giorno della sua nascita, anche allora era Pentecoste.
I funerali videro la partecipazione di una folla di fedeli, che volle fare omaggio di una sentita venerazione alla salma dell’umile fratello laico francescano, la cui santità, per i miracoli che avvennero, fu conosciuta in tutto il mondo cattolico.
Culto e iconografia
Fu particolarmente venerato a Napoli, soggetta alla dominazione spagnola. Il culto si concentrò in due grandi e celebri conventi francescani,un tempo degli Alcantarini, ma ancora esistenti: San Pasquale a Chiaia e San Pasquale al Granatello, quest’ultimo nella città di Portici. Il suo nome fu dato a generazioni di bambini, come del resto in tutto il Sud Italia.
Fu beatificato 26 anni dopo la morte, il 29 ottobre 1618, da papa Paolo V e proclamato santo il 16 ottobre 1690 da papa Alessandro VIII. I suoi resti, che si veneravano con grande devozione a Villarreal, furono profanati e dispersi durante la guerra civile spagnola; in parte furono successivamente recuperati e restituiti alla città nel 1952.
La sua appassionata devozione per l’Eucaristia ha ispirato nei secoli i tanti artisti che l’hanno raffigurato: nelle opere d’arte, come nelle immaginette devozionali, compare sempre nell’atto di adorare il Santissimo Sacramento nell’ostensorio.
Patronati ufficiali e tradizionali
Papa Leone XIII, il 28 novembre 1897, lo proclamò patrono delle opere eucaristiche e dei congressi eucaristici. Popolarmente è considerato patrono anche dei cuochi e dei pasticcieri, in base ai suoi umili servizi svolti nel convento; secondo una tradizione, sarebbe l’inventore dello zabaione, il cui nome deriva evidentemente dal suo. Probabilmente per un’assonanza con il suo cognome (“San Pasquale Baylonne, protettore delle donne”), viene infine invocato dalle nubili in cerca di marito e dalle donne in generale.
*
Autore: Antonio Borrelli
* Fonte: Santi e Beati.
TRADUZIONE E DISTRUTTIVITA’ SEMANTICA. UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga ... *
Letteratura.
Quando tradurre diventa creatività semantica
In un saggio Arduini interviene su una polemica antica relativa alla trasposizione dei libri in altra lingua. Dalle Scritture al caso Amanda Gorman
di Alberto Fraccacreta (Avvenire, martedì 13 aprile 2021)
La traduzione è un problema? Lo sono i traduttori. È quello che sta succedendo in Europa particolarmente, in Paesi Bassi e Spagna - per la versione del nuovo libro (in uscita a fine marzo) di Amanda Gorman, la ventitrenne poetessa afroamericana resa celebre dalla lettura di The Hill We Climb durante la cerimonia di insediamento del presidente Biden. La polemica si può sintetizzare in questi termini: i bianchi non possono comprendere a fondo (e quindi tradurre) testi afroamericani specificamente dedicati a questioni razziali. Al di là di accese diatribe, certo è che il processo di traduzione non coincide soltanto con un trasferimento di figure e immagini in una lingua differente, ma ha la capacità di entrare nel cuore delle idee e modificarle.
È l’ipotesi affascinante che emerge dal saggio di Stefano Arduini, Con gli occhi dell’altro. Tradurre (Jaca Book, pagine 216, euro 18), ruotante attorno a dieci nuclei tematici (tra cui ’verità’, ’bellezza’, ’intraducibile’) intessuti di citazioni e rimandi dall’Antico e Nuovo Testamento, con uno sguardo ai Padri della Chiesa e alle versioni dei primi secoli del cristianesimo. «Se la traduzione riscrive le nostre configurazioni di conoscenze - commenta Arduini, ordinario di Linguistica all’università Lcu di Roma -, non può essere intesa come qualcosa che ripete il già detto in modo diverso, ma come un’operazione cognitiva che crea nuovi concetti ». Il tradurre diviene così un’«esperienza intellettuale » a livello estremamente creativo. Esempio lampante è il concetto di altro, transitato attraverso un estenuante tourbillon di variazioni semantiche: i termini greci hèteros e allos, i latini alter e alius, ma anche le nozioni di ospitalità nell’indoeuropeo segnalate da Benveniste e poi riformulate alla luce della filosofia di Ricoeur (la reciprocità e la sollecitudine), Lévinas (l’invocazione), Florenskij (la sophia e la costruzione del soggetto fuori da sé) e Meschonnic (la signifiance).
Tradurre vuol dire mettere in gioco costantemente l’identità e l’alterità, instaurare un’amicizia che pervade l’io nel rapporto col tu. Evitando di annettere a sé una cultura diversa, Arduini scrive: «Dobbiamo stare in silenziosa attesa di fronte all’alterità e in qualche modo rispettarla, accettare quello spazio vuoto». Solo così il traduttore, «figura emblematica della nostra contemporaneità multiculturale», può assolvere al compito di cogliere le diversità e accoglierle. Qui ci soccorre di nuovo Ricoeur col mirag- gio dell’«ospitalità linguistica »: «abitare la lingua dell’altro», guardare le cose con i suoi occhi, nel solco di quell’incontro a cui la traduzione ci educa.
L’indagine si sposta sul Prologo del Vangelo di Giovanni e in particolare su logos, divenuto verbum nella Vulgata. La sostanziale polisemia del sostantivo greco rende ardua un’adeguata trasposizione, ma ciò che più importa è che, sul piano linguistico e teologico, le speculazioni sorte attorno all’incipit giovanneo hanno modificato di fatto il corso della ricezione storica, configurandosi come «nuovi concetti per nuovi mondi».
Lo stesso accade in Esodo 3,14 con la notissima espressione «Io sono colui che sono» (dall’ebraico ehyeh asher ehyeh). Siamo di fronte a un passo nei limiti del traducibile perché la posizione aspettuale del predicato nella lingua d’origine tecnicamente si tratta di un imperfettivo - pone alcune insanabili ambiguità. Ecco le possibili traduzioni: «Io ero quello che ero, Io sarò quello che sarò, Io ero quello che sarò, Io sarò quello che ero». (E tuttavia non ne esce scalfita l’immutabilità di Dio.) Aquila, Filone, Origene e poi Agostino, Girolamo e Tommaso: l’innesto del pensiero greco e latino nel sostrato ebraico fa scintille e la catena di rivolgimenti aggiunge e perde qualcosa, generando però un’identità completamente inedita. Gli slittamenti semantici del termine parresia (dire tutto) sembrano invece riscrivere un’intera ’enciclopedia culturale’: dibattito e libertà di parola nel greco precristiano, apertura del cuore e trasparenza dell’anima in Dio sul versante veterotestamentario, rivelazione di Gesù e presenza dello Spirito in ambito neotestamentario. Ma nei primi secoli dopo Cristo - come suggerisce Michel Foucault - parresia diviene coraggio della verità, coraggio dei martiri nel testimoniare la fede.
Universi concettuali affini o distanti sorgono anche nelle traduzioni dei presocratici e nelle variazioni dell’amore dall’ebraico ’ahavahfino alla diade inconciliabile di eros e agape, quest’ultimo forse non voce indoeuropea ma più probabilmente prestito di area semitica.
Sulla scia di Cicerone, Girolamo traduce agape in caritas e attua così un’importante svolta nella conformazione del pensiero occidentale: nasce «qualcosa di nuovo che è stato creato dal movimento del linguaggio». Cognitivista di lunga data, esponente di spicco della traduzione biblica e dei Translation Studies, Arduini ci conduce nelle arcane radici delle lingue antiche (si pensi ai termini che in ebraico indicano bellezza, Jafeh, bello esteriore, e Tôb, lo spazio del bene della Genesi) lasciandoci, con la ’moltiplicazione degli sguardi’ data dal mito di Babele, alle soglie dell’Intraducibile. Il traducibile all’infinito.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Federico La Sala
Cei. Alla scuola della Buona Notizia. “Il Nuovo Testamento greco-latino-italiano”
“Il Nuovo Testamento greco-latino-italiano” pubblicato dalla Cei, strumento al servizio della Parola
Nell’opera il testo neotestamentario greco è presentato con a fronte quelli latino e italiano nelle loro edizioni autorevoli più recenti
di Riccardo Maccioni *
Nel segno dello studio, della conoscenza, del dialogo. Soprattutto nel segno della Parola, che diventa preghiera, vita spirituale, servizio, faro della comunità. La pubblicazione de “Il Nuovo Testamento greco latino italiano” non riguarda infatti solo gli specialisti ma, nella ricerca di una sempre maggiore fedeltà alle fonti, si propone anche come sostegno a un cammino di fede maturo.
Per tutti. Dal parroco che prepara l’omelia domenicale, al credente forse un po’ più preparato della media e desideroso di approfondire la Buona Notizia. Il volume (1854 pagine su carta Bibbia avoriata, 80 euro) è pubblicato dalla “Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena” della Conferenza episcopale italiana. A curarlo il cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze e Valdo Bertalot già segretario generale della Società Biblica in Italia.
Un’opera importante che riporta il testo del Nuovo Testamento greco con a fronte quelli latino e italiano nelle loro edizioni autorevoli più recenti: The Greek New Testament-5th Revised edition/GNT (Deutsche Bibelgesellschaft DBG, 2014, con relativo apparato critico-testuale), Nova Vulgata-Bibliorum Sacrorum Editio, Editio typica altera/NV (Libreria Editrice Vaticana 1986 con relative note), La Sacra Bibbia-Versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana/Cei 2008 con relative note.
Il nostro lavoro - spiega Bertalot - si caratterizza per alcune significative novità. Sotto il profilo editoriale «rappresenta, fatta eccezione per quella della DBG, l’unica pubblicazione che riporta il testo greco insieme all’intero apparato di critica testuale del GNT frutto di un comitato editoriale internazionale e interconfessionale». Inoltre «è la prima volta che una Conferenza episcopale nazionale presenta ufficialmente il GNT e la propria versione ufficiale della Bibbia arricchita dal testo con valore normativo della Nova Vulgata». C’è poi da sottolineare l’aspetto più prettamente ecumenico del lavoro, nel solco di un percorso iniziato con la stagione conciliare. Una dimensione - prosegue Bertalot - che «investe pienamente la collaborazione fra le diverse confessioni cristiane per lo studio della Bibbia, per la sua traduzione e trasmissione nell’opera missionaria di annuncio della Parola di Dio». Ma c’è un altro aspetto da sottolineare, quantomeno da non sottovalutare, e riguarda il dato per così dire “temporale” della pubblicazione. Il Nuovo Testamento trilingue esce infatti in parallelo alla Lettera apostolica “Scripturae Sacrae affectus” scritta da papa Francesco per il XVI centenario della morte di san Girolamo cui si deve la celebre, fulminante espressione: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est». L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo.
Un “monito” ricordato dal cardinale Betori durante la presentazione, il 29 ottobre scorso, dell’opera al Papa, nella speranza «che possa essere uno strumento per far crescere la conoscenza di Cristo, perché, come da lei auspicato, ciascuno diventi capace di aprire il libro sacro e di trarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita».
IL PADRE NOSTRO (Matteo 6,8-13)
9 Voi dunque pregate cosi: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,
10 venga il tuo regno, sia fatta la tua volonta, come in cielo cosi in terra.
11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
12 e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
13 e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.
9 Sic ergo vos orabitis: Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum,
10 adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua, sicut in caelo, et in terra.
11 Panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie;
12 et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris;
13 et ne inducas nos in tentationem, sed libera nos a Malo.
PIÙ GRANDE E’ LA CARITÀ
(1 Corinzi 13, 1-6)
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
2 E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
3 E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
4 La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio,
5 non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,
6 non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità.
7 Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Si linguis hominum loquar et angelorum, caritatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens.
2 Et si habuero prophetiam et noverim mysteria omnia et omnem scientiam, et si habuero omnem fidem, ita ut montes transferam, caritatem autem non habuero, nihil sum.
3 Et si distribuero in cibos omnes facultates meas et si tradidero corpus meum, ut glorier, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest.
4 Caritas patiens est, benigna est caritas, non aemulatur, non agit superbe, non inflatur,
5 non est ambitiosa, non quaerit, quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum,
6 non gaudet super iniquitatem, congaudet autem veritati;
7 omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet.
DA SAPERE Lo scorso 29 ottobre la consegna al Papa
Il “Nuovo Testamento greco latino italiano”, è pubblicato dalla Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena della Conferenza episcopale italiana. Si tratta di un ampio volume (1854 pagine su carta avoriata) che presenta il testo greco con a fronte quello italiano e latino nelle recenti autorevoli edizioni: “The Greek New Testament-5th Revised edition” (Deutsche Bibelgesellschaft o DBG 2014), Nova Vulgata-Bibliorum Sacrorum Editio, Editio typica altera (Libreria editrice vaticana 1986), La Sacra Bibbia versione ufficiale della Cei (Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena 2008)). La pubblicazione si apre con una ricca presentazione di A. Kurschus, praeses della Chiesa evangelica della Westfalia e presidente della DBG, del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura e del cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze, quest’ultimo curatore dell’opera insieme a Valdo Bertalot, già segretario generale della Società Biblica in Italia che firma invece la prefazione.
A completare il libro anche introduzioni specifiche per ogni lingua del testo, sei diversi indici e quattro carte geografiche sul mondo biblico. Il Nuovo Testamento trilingue è stato consegnato il 29 ottobre scorso al Papa di cui richiama, nella presentazione, la Lettera apostolica “Scripturae Sacrae affectus” dedicata, nel XVI centenario della morte, a san Girolamo, definito dal Pontefice «infaticabile studioso, traduttore, esegeta, profondo conoscitore e appassionato divulgatore della Sacra Scrittura». Un amore alla Bibbia che Francesco sottolinea attraverso l’immagine spesso associata al santo di “Biblioteca di Cristo. Una biblioteca perenne - spiega Francesco - che continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Gesù, «indissociabile dall’incontro con la sua Parola». La distribuzione dell’opera è curata direttamente dalla Libreria Editrice Vaticana (Via della Posta, 00120 Città del Vaticano; email: commerciale.lev@spc.va; sito: https://www.libreriaeditricevaticana.va/it/).
* Avvenire, sabato 9 gennaio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
Vaticano.
Il Papa a Moneyval: impedire ai mercanti di speculare nel tempio dell’umanità
L’incontro con gli esperti del Comitato del Consiglio d’Europa, giunti in Vaticano per la valutazione periodica delle misure contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 8 ottobre 2020)
Il Papa ha incontrato il Comitato Moneyval e li ha ringraziati per il loro servizio "a tutela di una finanza pulita, nell’ambito della quale ai ’mercanti’ è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore".
"Il lavoro che voi svolgete in relazione a questo duplice obiettivo mi sta particolarmente a cuore", ha detto il Papa sottolineando la necessità di "una finanza che non opprima i più deboli e i bisognosi". "Ritengo necessario ripensare al nostro rapporto col denaro", ha ribadito il Papa.
“Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza”, ha ricordato Francesco, secondo il quale “quando l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune,il denaro deve servire e non governare!”. E proprio per attuare tali principi, ha sottolineato il Papa, “l’Ordinamento vaticano ha intrapreso, anche recentemente, alcune misure sulla trasparenza nella gestione del denaro e per contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo”. Il 1° giugno scorso, infatti, è stato promulgato un Motu Proprio per una più efficace gestione delle risorse e per favorire la trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, mentre i 19 agosto scorso, una ordinanza del presidente del Governatorato ha sottoposto le organizzazioni di volontariato e le persone giuridiche dello Stato della Città del Vaticano all’obbligo di segnalazione di attività sospette all’Autorità di Informazione Finanziaria.
Le politiche di antiriciclaggio e di contrasto al terrorismo costituiscono "uno strumento per monitorare i flussi finanziari, consentendo di intervenire laddove emergano tali attività irregolari o, addirittura, criminali. Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti - ha detto Papa Francesco nell’udienza a Moneyval - e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza. Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale il denaro deve servire e non governare".
Operare per una “finanza pulita”, nell’ambito della quale “ai mercanti è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore”, l’appello finale.
Dante Alighieri e il suo ‘Grand Tour’ in Calabria.
Intervista a Giulio Ferroni sui luoghi ‘profetici’ di un’ultima terra del Sud
Ha attraversato l’Italia di Dante per scoprire tanti volti dell’Italia di oggi, le ultime tracce comtemporanee di un’Italia di persistente bellezza ma anche nelle sue contraddizioni attuali. Un viaggio tra i fasti e resti di luoghi d’Italia, tutti citati nella commedia dantesca, nato da un’idea coltivata da (di F.ca Barresi). che ora si è fatta libro, "L’Italia di Dante.Viaggio nel paese della Commedia", La nave di Teseo, in cui si ritrovano anche tanti luoghi di Calabria.
di Francesca Barresi *
Certo, mi risponde online, in collegamento dall’Irlanda dove si è svolta la seconda edizione della Dublin Dante Summer School, nell’arco di quattro giornate tra lezioni, workshop e conversazioni (live e preregistrate) con artisti e dantisti di fama internazionale, coordinati da Trinity College Dublin, University College Dublin e Istituto Italiano di Cultura.
Anzi, il professor Ferroni, già ordinario di letteratura italiana a ‘La Sapienza’ di Roma e che fu tra i docenti ’pionieri dell’Università della Calabria dove insegnò nel 1975, cogliendo la palla al balzo, aggiunge oltre e di più con compiaciuto entusiasmo, per mettere chiarezza in vaghezza, completando e integrando, veri e propri percorsi turistico-culturali del Dante in Calabria, tra conoscenza immaginaria del Sommo e realtà geografica calabrese:
Dante e la Calabria, dunque, un viaggio all’insegna del profetico Gioacchino...
Affiorano ricordi, tra passato e presente, relitti di una storia politica molto vicina e dolorosa?
Un grande onore per il frate calabrese finire in Paradiso, non crede?
Invece mi pare di capire che una volta sul posto si è trovato in ben altra scena sociale e spirituale...
Praticamente per ritrovare le ‘reliquie’ di Dante nel paesaggio attuale, almeno in Calabria, bisogna scavare dentro una consistente profondità stratigrafica di abbandono, incuria, deturpazioni, una storia nella storia degli insediamenti umani?
Incredibile e affascinante il suo arrivo a Catona... quartiere storico, estremo, di Reggio Calabria, alla caccia di ‘ quel corno d’Ausonia che s’imborga”...
Ci racconti ancora di Francesco da Paola e dei suoi miracoli post-danteschi...
* FONTE: http://www.cn24tv.it/
SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino" ! O no?! *Federico La Sala
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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LA FIGURA DI PILATO E IL "PELLEGRINAGGIO" CHE PORTA DANTE A DIVENTARE UN ALTRO CRISTO, A RINASCERE E A RITROVARE L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE... *
Il gran rifiuto (Inf. III 59-60)
di Romano Manescalchi (Independent Scholar),
Princeton.edu, 8 April 2014.
L’intervento di Lanza sul «gran rifiuto» riapre con grande determinazione la discussione riguardo il personaggio cui Dante si sarebbe riferito, discussione ultimamente sopita generalmente in favore di Celestino V.[1] In buona sostanza, ma in una sintesi necessariamente riduttiva, il Lanza evidenzia che l’atto di Celestino V non apparve riprovevole, se non a pochi estremisti, gli spirituali, che con Ubertino da Casale non ritennero valida l’abdicazione di Celestino, mentre generalmente apparve un atto di responsabilità, tanto che la Chiesa lo fece santo. Dante dagli spirituali rimarcò sempre le distanze;[2] ed aggiungerei che, per contro, Dante si trovò a lodare chi è capace di rinunciare ad un incarico per non sentirsi all’altezza, favorendo i meritevoli: «Molti rifiutan lo comune incarco» (Purg. vi 133); e a condannare quanti son sempre pronti a dire, irresponsabilmente, senza un minimo esame di coscienza «I’ mi sobarco» (ivi, 135).
Ma non intendo riassumere qui le sostanziose ragioni con le quali viene riproposta dal Lanza la candidatura di Ponzio Pilato e confutate le ragioni in favore di altri (Esaù, Celestino V soprattutto, Vieri de Cerchi, Giano della Bella, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo ecc.), né ci sarebbe qui lo spazio per farlo. Qui vorrei solo aggiungere alcune mie considerazioni che vanno nella stessa direzione.
Innanzitutto una considerazione grammaticale e stilistica: «il gran rifiuto» può intendersi, su base grammaticale, in due modi: «quel gran rifiuto, che tutti conosciamo per averlo direttamente constatato», con «il» semplicemente indicativo; e la mente, in questo caso, va ad avvenimenti e personaggi recenti: Vieri di Cerchi, Giano della Bella, Celestino V ecc. Ma può intendersi anche «quel gran rifiuto di cui nessun altro è maggiore, il “gran rifiuto” per eccellenza, per definizione, per antonomasia»;[3] ed alla mente non può ricorrere se non Ponzio Pilato, con «il» che viene ad avere un valore superlativo, “antonomasico”. Ed ora il procedimento di Dante è questo: egli sostituisce i personaggi astratti del poema classico allegorico, semplici e unidimensionali personificazioni - vedi la Psicomachia di Prudenzio - con personaggi tratti dal mondo reale, indifferentemente della storia passata e del mito, o della cronaca dei suoi tempi. E la regola è questa: si sceglie il personaggio che meglio possa rappresentare quel peccato o vizio o virtù, che quel peccato o vizio o virtù lo rappresenti nel modo più eccellente, ne sia quasi la personificazione.
E da questo punto di vista Ponzio Pilato non ha rivali nell’indicare chi non si vuol compromettere, chi si ritira da un suo specifico dovere per viltà. Appartiene alle viscere del nostro linguaggio, da cui continuamente riemerge, il dire: «Ti comporti come Ponzio Pilato. Sei un Ponzio Pilato», come si dice «Sei un Giuda», frasi quasi altrettanto comuni come l’altra parallela del «lavarsene le mani», che comunque è ancor più ricorrente nel comune quotidiano parlare e rafforza in pari grado, o forse di più, le nostre argomentazioni. Dante avrebbe potuto trarre il personaggio esemplare dell’ignavo anche dalla cronaca quotidiana, come fa in tanti altri casi, riempiendo tra l’altro l’inferno con i suoi concittadini. Poteva quindi benissimo ricorrere a Celestino V, come a Vieri dei Cerchi o altri. Ma nessuno di questi personaggi può insidiare minimamente la candidatura di Ponzio Pilato, senz’altro il personaggio più rispondente, più adatto, ad incarnare il prototipo dell’ignavo, come gli riconosce senza obiezione alcuna tutta la nostra cultura, a cominciare, come detto, dal quotidiano parlare.
Vediamo ora il problema nell’economia della Commedia, nella cattedrale che anche è la Commedia, sintesi della storia universale dell’umanità in versione biblico-cristiana. Questa storia universale ha il suo punto centrale nella Redenzione della Croce, nella Crocifissione di Gesù. Non conosco racconto della storia della Crocifissione tante volte fatto dai pittori nelle cattedrali appunto, in cui manchino, accanto a Gesù, Pilato e Giuda. Ed ora Dante riconosce ed esalta i “meriti” di Giuda, dedicandogli a perpetua memoria - addirittura “eterna memoria” nel suo caso - un settore dell’inferno, la Giudecca, che appunto prende da lui il nome, dove anche grandeggia la sua statua vivente in una delle bocche di Lucifero (Inf. xxxiv vv. 61-63). Né è un settore qualunque quello a lui dedicato, bensì il più importante, dove è la reggia del sovrano infernale: diciamo che la Giudecca è la city della città infernale. Non penso proprio che Giuda si possa lamentare del trattamento che Dante gli ha riservato.
Ma lamentare si dovrebbe Pilato di cui non ci sarebbe nella Commedia, se gli togliamo di essere l’innominato di Inf. iii 59-60, niente altro che un fuggevole richiamo a Purg. xx 91 e solo per designare con il paragone con lui il sovrano di Francia Filippo IV. Davvero troppo poco. E se così fosse, dopo il tanto da lui fatto con il suo non far nulla, avrebbe ben motivo di rivoltarsi nella tomba contro un Dante tanto ingrato, dal momento che anche grazie a lui il poeta può fare questo pellegrinaggio[4] di redenzione che è la Commedia e guadagnarsi lui stesso il paradiso, grazie proprio a lui che in compenso del bene fatto (col non far nulla) come allo stesso poeta così a tutti i cristiani, dovrà subire pene eterne nell’inferno, pene che il poeta fiorentino non gli avrebbe nemmeno voluto determinare! E se non è troppo questo!
Dante darebbe a Pilato maggior rilievo a Mon. II xii 5-6: «Si ergo sub ordinario iudice Christus passus non fuisset, illa pena punitio non fuisset. Et iudex ordinarius esse non poterat nisi supra totum humanum genus iurisdictionem habens, cum totum humanum genus in carne illa Christi “portantis dolores nostros”, ut ait Propheta, puniretur. Et supra totum humanum genus Tiberius Cesar, cuius vicarius erat Pilatus, jurisdictionem non habuisset, nisi Romanum Imperium de iure fuisset. Hinc est quod Herodes, quamvis ignorans quid faceret, sicut et Cayphas cum verum dixit de celesti decreto, Christum Pilato remisit ad iudicandum... », dove il ruolo, comunque ragguardevole, avuto da Pilato è riconosciuto a chiare lettere, come anche a Mon. III xv 5 e ad Ep. V 28.
E dunque tanta importanza, quanto a mio avviso gli spetta, Dante dà a Pilato nella Monarchia, l’opera dantesca più vicina, per tematica e mole, alla Commedia, tanta in una lettera, comunque di molto peso come l’Ep. V indirizzata ai reggenti d’Italia, anche se di dimensioni indiscutibilmente minori; e non nominerebbe mai Pilato, direttamente, nella Commedia? A me pare molto, troppo, strano. Il personaggio è onnipresente nell’iconografia cristiana della Crocifissione e sarebbe assente nella Commedia, che è indiscutibilmente il massimo monumento laico della cristianità! È tanto inaccettabile quanto incomprensibile.
Da qualche parte Pilato deve essere anche nella Commedia e se non qui, a Inf. iii 59-60, dove? Nella storia universale della Chiesa (e dell’umanità) - da intendere in chiave biblico-cristiana - il personaggio di Pilato ha un grande rilievo come gli riconosce tutta l’iconografia e, come anche detto, il linguaggio spicciolo quotidiano. Celestino V e gli altri in questa prospettiva sono irrilevanti. Nel quadro specifico poi della Crocifissione, l’elemento centrale di quella storia universale in versione cristiana ed elemento centrale della Commedia che quella storia universale ha per suo sfondo e, direi, addirittura per suo oggetto, Pilato è un elemento addirittura indispensabile come lo è Giuda. Da qualche parte Dante deve averlo messo e il luogo più giusto è senz’altro tra gli ignavi. E se è tra gli ignavi nessuno gli può togliere - sarebbe una vera usurpazione - il diritto di rappresentare la categoria, che riconosce in lui, per il consenso di tutte le genti (cristiane), il suo massimo rappresentante.
Ci sarebbe anche un parallelismo: l’episodio della Crocifissione inizia con Pilato che, pur riconoscendo Cristo innocente, non fa il suo dovere, piegato dalla pressione della folla. E con Pilato posto nell’Antinferno comincerebbe la “crocifissione” di Dante, che ad una “crocifissione” del proprio ego lo porta il suo “pellegrinaggio” al santuario del Paradiso.[5]
Non mi sfugge che Inf. iii 59 - «vidi e conobbi» - crea delle difficoltà. Osserverei che si deve distinguere tra il “riconoscere” del v. 58, immediatamente precedente ed il “conoscere” del v. 59, volendo certo il poeta distinguere «quelli riconosciuti direttamente e quello che gli fu fatto conoscere da Virgilio» (Lanza, op. cit., p. 85) . Prosegue il Lanza: «Se si vuole un chiaro esempio di conobbi in questo senso, si veda il v. 122 del canto iv (ibidem), ovvero «tra quai conobbi Ettòr ed Enea». Vedi anche «sopra “riconosce”, qui “conosce”, vede in faccia» D. Mattalia, ad locum.
[1] Cfr. A. Lanza, Uno specchietto per allodole non previsto da Dante: Celestino V (Inf. iii 59-60, SD, lxxviii, 2013, pp. 45-100.
[2] Vd.: «ma non fia da Casal né d’Acquasparta» (Par. xii 124).
[3] L’espressione «per antonomasia» viene usata anche dal Lanza, op. cit. p. 93, ma riferita a Pilato e non all’espressione «gran rifiuto».
[4] Uso il termine “pellegrinaggio” soprattutto in onore di Vincenzo Barelli, il quale ha dato l’avvio alla interpretazione moderna delle tre fiere come «le tre disposizion che il ciel non vuole», ed è oggi totalmente dimenticato, indegnamente dimenticato visto che la sua scrittura è di alto spessore; vd. L’allegoria della Divina Commedia di Dante Alighieri / esposta da Vincenzo Barelli, Firenze, Galileiana, 1864, p. 64.
[5] Per questo concetto di “crocifissione” dantesca si tenga presente: «Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam» ( Matth. XVI 24); «Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, cum vitiis et concupiscentiis» (Ad Galatas v 24); «Ego enim per legem, legi mortuus sum, ut Deo vivam; Christo confixus sum cruci. Vivo autem jam non ego; vivit vero in me Christus» (Ibidem ii 19-20). È questo il traguardo che Dante deve raggiungere con la Commedia.
* Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura. della DIVINA COMMEDIA"
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
LINGUA GRECA E CRISTIANESIMO: LO STRUMENTO ELETTO E L’EU-CARESTIA... *
GIORNATA MONDIALE DELLA LINGUA GRECA
ΣΚΕΥΟΣ ΕΚΛΟΓΗΣ • VAS ELECTIONIS
Il ruolo della lingua greca nella diffusione del pensiero cristiano
Sabato 8 febbraio 2020, ore 10
Sala conferenze - Palazzo Reale, Piazza Duomo 14, Milano
Interventi
Sua Eminenza Gennadios - Arcivescovo d’Italia e Malta
L’educazione e la cultura sono la via per la pace
Stefano Martinelli Tempesta - Università degli Studi, Milano
Fede cristiana e tradizione classica nei codici della Biblioteca Ambrosiana
Alberto Barzanò - Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
La lingua greca: strumento e veicolo di comunicazione tra primo cristianesimo e Impero romano
Emanuela Fogliadini - Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano
Eikōn, “icona”: somiglianza, rappresentazione, rivelazione del prototipo
Gilda Tentorio - Università degli Studi, Milano L’anima senza tempo dell’Athos: scrittori e impressioni di viaggio
Marco Roncalli - Saggista e scrittore
Patristica greca, ortodossia orientale ed ecumenismo in san Giovanni XXIII
Massimo Cazzulo - Presidente Società Filellenica Lombarda
Il lessico liturgico della poesia neogreca del Novecento: l’esempio di To ʼΆξιoν ἐστί di Odisseas Elitis
L’inizio dei lavori sarà preceduto dai saluti delle Autorità di
Filippo Del Corno Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Nikolaos Sakkaris Console onorario della Repubblica di Grecia a Milano,
Dimitri Fessas Presidente della Federazione delle comunità e delle confraternite greche di Italia, Sofia Zafiropoulou Presidente della Comunità ellenica di Milano
* FONTE: LICEO CLASSICO STATALE "TITO LIVIO" - MILANO (27 gennaio 2020)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO"
EU-ANGELO, EU-ROPA .... E "SCRITTURA ED EU-CARESTIA"?! LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
Federico La Sala
L’AMORE ("CHARITAS") NON E’ LO ZIMBELLO NE’ DEL TEMPO NE’ DELLA FILOLOGIA. ESISTE UNA MISURA NELLE COSE ("Est modus in rebus") ... *
L’analisi.
Sanremo, il camaleonte tatuato e il bene non più negoziabile
Basta un rapido sguardo ai testi delle canzoni del Festival e si nota un bisogno profondo di senso, la voglia di imparare resistendo al degrado, di resilienza umana
di Antonio Staglianò (Avvenire, mercoledì 5 febbraio 2020)
Codice etico cercasi, anche in musica: valore educativo (e no) delle canzoni popolari. Uno sguardo veloce ai testi delle nuove canzoni di Sanremo e si nota subito un bisogno profondo di senso, la voglia di imparare resistendo al degrado, desiderio di resilienza umana, come in 8 Marzo della giovanissima Tecla: «Ci vuole forza e coraggio, lo sto imparando vivendo ogni giorno questa vita; comunque dal dolore si può trarre una lezione; e la violenza non ha giustificazione». E la bella canzone sul bullismo di Marco Sentieri, Billy blu che dice al bullo - salvandogli la vita - no ma quale odio, no nessun odio, eri tu quello più debole, tu dentro stavi male». Si giunge perfino a punte mistiche, con Matteo Faustini in Nel bene e nel male: «perché dentro quel rancore si può ancora perdonare ».
Frasi estrapolate? No, testi con una certa coerenza, alla ricerca di un codice etico capace di rilanciare i giovani in un futuro in cui l’essere umano cresca con l’uomo - «nonostante che a volte uomo non vuol dire essere umano per tutto il sangue che è stato versato» (Tecla). Tante proposte e tanti messaggi positivi sull’amore universale che pur essendo tale non è aleatorio, ma sempre incarnato dentro drammi umani ed esperienze di persone speciali, magari ai margini o sopra le righe: «Ti prego insisto, fatti il segno della croce e poi rinuncia a Mefisto siamo chiese aperte a tarda sera, siamo noi; siamo l’amen di una preghiera, siamo noi» (Levante).
E poi c’è Junior Cally (rapper noto al pubblico per il suo linguaggio sessista e violento contro le donne). Ed è subito polemica. Di mezzo c’è un diffuso senso di scandalo: questa volta non è la frangia ’religiosa’ della popolazione (facilmente criticata di ’beghinismo’ e bigotteria), ma quella espressione di organizzazioni sociali e di istituzioni politiche. Gruppi organizzati a chiedere l’esclusione dal palco di Sanremo di Junior Cally: un giovane che, anche nella foto-immagine di ’Sorrisi e canzoni’ in prima fila è ritratto con la sua maschera. Il suo volto è la sua maschera o le tante maschera che indossa. Perché, a quanto pare, vuole presentarsi ’fuori da ogni identità’, senza una riconoscibilità che lo inquadri.
Con il brano che presenterà a Sanremo - No grazie - intende essere un «antipopulista e folle », dice: «sono un ragazzo semplicissimo che ha un sogno nel cassetto e va a prenderselo ». Una identità ce l’ha: Antonio Signore ha 28 anni. Tanto basta per capire che non è un ragazzino e sa bene quello che fa e che scrive. Non ci sta e dice ’no grazie’ a quanto lo possa omologare a destra o a sinistra o al centro: politicamente corretto? No grazie; puntare il dito contro e fare il populista? No grazie; «non fare niente tutto il giorno e proclamarmi artista? No no no-no grazie». È fuori da tutto, dalle righe e dalle rime e se la gente ’fa buon viso a cattivo gioco’, Junior il mascherato fa l’opposto: »faccio cattivo viso a buon gioco». Al suo rap (forse troppo violento, per lui «parlare di eccesso non è eccessivo») non vuole ri- nunciare e dice «no grazie» anche a chi gli consiglia di smetterla con questa storia del rap per incanalare la sua creativa fantasia a scrivere canzoni d’amore per la sua ex, oppure «trovarmi un lavoro serio e diventare yes man, insultare tutti sì, ma solo nel web».
No grazie è una canzone di un mascherato che vuole comunque dire qualcosa di sé, farsi conoscere, presentarsi: «sono il fuori programma televisivo». Addirittura «spero che si capisca che odio il razzista » e nel passaggio è possibile intravedere un affondo ’politico’, perché non sta con Salvini (e la sua Lega) - che sarebbe «il raz- zista che pensa al paese ma è meglio il mojito », come anche l’altro Matteo, «il liberista di centro sinistra che perde partite e rifonda il partito». E se qualcuno si chiedesse - ’questo da dov’è uscito?’ - la risposta è semplice: «dal terzo millennio col terzo dito ».
Si, Junior Cally appartiene alla generazione dei ’nati liquidi’, di quelli che per quanto ’fuori’ vivono una certa smania affannosa di «notorizzare la propria individualità ». Con l’abbigliamento manifesta la propria disponibilità a rinunciare ai simboli dell’identità comune e la voglia di incarnare identità diverse e plurali in ogni cangiante istante. Il camaleonte è la metafora giusta per capire la direzione. Eppure, la contraddizione emerge lampante nei segni del corpo, stracarico di tatuaggi, magari indelebili e quindi portatori di un impegno duraturo e serio della propria identità (non solo di un momentaneo capriccio): «il tatuaggio, miracolo dei miracoli, segnala al contempo l’intenzionale stabilità (forse anche irreversibilità) dell’impegno e la libertà di scelta che contraddistingue l’idea di diritto all’autodefinizione e al suo esercizio » (Zygmunt Bauman, in Nati liquidi).
Nella condizione liquida giovanile delle società liquide e del pensiero liquido e gassoso, è difficile stabilire, però, cosa va bene e cosa non va. Chi stabilisce i ’limiti’, i ’paletti’ del buon gusto, del pudore? Est modus in rebus , si diceva in un latino che tutti capiscono. Un tempo la censura era una sorta di competenza della religione (e della Chiesa cattolica in Italia). Ora è tutto cambiato, ovviamente. La democrazia - ma in verità è la democrazia ridotta a procedure e vuota di ogni riferimento valoriale, a tal punto che democraticamente non si può nemmeno giungere a stabilire cosa sia un valore condivisibile per tutti, nell’attuale dittatura del relativismo e del (non) pensiero unico - sembra incapace di garantire una protezione valoriale agli stessi simboli religiosi, spesso vilipesi e ridicolizzati in nome della liberà di pensiero, di espressione e del diritto all’ironia. Le libertà individuali - si fa per dire che siano poi davvero ’libertà’ - sono esaltate senza ’limiti’, mentre è ormai perduto il riferimento all’appartenenza comunitaria e a un quadro valoriale di riferimento che debba imporsi a chiunque voglia condurre una convivenza pacificata tra esseri umani.
Ora, però, la cosa è diversa, perché nonostante il trend liquido della cultura, un quadro normativo tende a emergere come l’araba fenice dalle ceneri della distruzione libertaria dei processi culturali degli ultimi trent’anni. Così, il cambiamento climatico porta i nostri giovani sulle piazze a gridare la loro volontà di vivere respirando ’aria pura’ e questo diventa un ’valore non più negoziabile’, come anche i diritti delle donne a non essere violentate dalle tante forme di bullismo sociale e di femminicidio.
In verità, è doveroso anche riferire la giustificazione del rapper il quale ha precisato - ovviamente da grande intellettuale ed ermeneuta contemporaneo (!) - che il rap, come genere letterario e stile musicale, «fa grande uso di elementi narrativi di finzione e immaginazione che non rappresentano il pensiero dell’artista» e, pertanto, non sarebbe possibile ascrivergli l’idea della violenza contro le donne: idea che egli stesso troverebbe insopportabile. Forse ci troviamo davanti a un filosofo incompreso! A un nuovo Nietzsche che diagnostica dove sta andando la cultura e l’umanità? Tuttavia, il punto dolente riguarda ciò che è stato da molti sottolineato: il potere di grande influenza che un musicista ha sulle nuove generazioni (specie sulle giovanissime). Quale messaggio arriverà ai più piccoli? Quale insegnamento si darà ai nostri figli se passasse l’idea (già oltremodo sdoganata e diffusa) che gli atteggiamenti più sono turpi e più portano al successo.
Resta comunque una sintesi che deve dare a pensare. Le canzoni pop non sono innocue. Hanno un valore educativo o diseducativo potente e performante che non può essere disatteso nell’annuncio del Vangelo ai giovani. Perciò, una buona teologia popolare - una pop-Theology - è attesa come servizio alla ’carità intellettuale’ (Antonio Rosmini) di cui oggi c’è bisogno più del pane nelle nostre comunità parrocchiali. Allora, al lavoro, al lavoro, per risorgere!
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
* LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
Il Papa a Greccio.
Quella notte con il presepe, la novità sconvolgente di san Francesco
Questa domenica Francesco sarà a Greccio dove firmerà una Lettera apostolica dedicata all’invenzione francescana del Natale 1223
di Nazareno Boncompagni, Rieti (Avvenire, sabato 30 novembre 2019)
Quella che san Francesco fece a Greccio, quella notte di Natale del 1223, fu una novità sconvolgente. Lo dice senza mezzi termini lo storico Marco Bartoli, tra i maggiori francescanisti italiani. «Si pensa che fece una specie di sacra rappresentazione, un qualcosa di teatrale... Non è così: fece celebrare una Messa dentro una stalla».
Cosa impensabile in quei tempi: un’Eucaristia tra il fieno, un asino e un bue. Eppure le fonti parlano chiaro, ribadisce il professor Bartoli, docente di Storia medievale alla Lumsa e di Storia del francescanesimo all’Antonianum: «Il primo biografo, Tommaso da Celano, riferisce come Francesco volle “fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme, e in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato; come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”» cioè rendere presente un evento vivo: un bambino che nasce in mezzo alle bestie.
Nulla di eretico, perché il Poverello di Assisi non fa altro che sottolineare «come Dio ha accettato di farsi bambino, di spogliarsi, di farsi piccolo, in mezzo alla povertà, alla piccolezza umana».
È da sottolineare, per Bartoli, questa insistenza sul “bambino”: «Non usa il termine latino puer, ma proprio la parola “bambino”. Questo ci fa pensare che Francesco predicò in volgare, usando questa parola nuova che nel latino non c’era. Anche foneticamente, la parola “bambino” ci richiama il belato delle pecore. Un termine nato nel volgare medievale, come un balbettio degli stessi bimbi...».
A Greccio, da cui oggi il primo Pontefice della storia che ha scelto di chiamarsi col nome del santo di Assisi lancia il richiamo spirituale al valore del presepio, c’è tutta l’autenticità dell’intuizione di frate Francesco: la nuda semplicità della Natività rievocata. Ne nascerà una tradizione che poi si vestirà di altro, come quella del presepio napoletano. Per Bartoli «anche questa ha la sua importanza, con lo sviluppo che si esprime nella tradizione napoletana tra Cinquecento e Seicento, perché pone la nascita di Gesù in mezzo alla vita di quell’epoca, e dunque il concetto è sempre che Cristo nasce nella vita comune».
Ma lo spirito originario dell’intuizione francescana del presepio è proprio quello di «un bambino che nasce povero, in mezzo a tanti disagi». Un’attenzione che è anch’essa una novità, spiega il professore, «poiché nel Medioevo non esisteva questa centralità dei bambini cui oggi siamo abituati: i bambini erano poco considerati», eppure Francesco sceglie di dar vita a una tradizione grande, che si esprimerà poi nella «grande devozione dei francescani verso Gesù Bambino (si pensi al Bambino dell’Ara Cœli): ma quel Bambino di Betlemme riassume in sé i disagi e le sofferenze di tanti bambini di ogni tempo e di ogni luogo».
Un mettere in evidenza la logica dell’incarnazione, di un Dio che si fa vicino all’uomo, che emerge anche da un altro particolare che Bartoli tiene a ricordare: «Francesco, componendo dei salmi che attingevano a diversi versetti salmici della Bibbia, elaborò un proprio Ufficio di preghiere, che si aggiungevano a quelle canoniche, a partire dalla Settimana Santa, e quindi anche un Ufficio per il Natale. Ebbene, in esso ci tiene a dire come il Signore nacque “in via”, cioè sulla strada: dunque nella vita di ogni giorno, nelle sue sofferenze e quotidianità».
Al professore, impegnato anche nella Comunità di Sant’Egidio, non esitiamo allora a chiedere un commento su una certa tendenza a brandire il presepio come un simbolo identitario, quasi in senso “sovranista”: "È esattamente il contrario del senso evangelico del presepio che a Francesco stava a cuore: Cristo è in ogni bambino che soffre da profugo, da perseguitato, da rifiutato". Magari su un barcone.
La giornata di domenica 1 dicembre
Una visita breve quella del Papa a Greccio, ma dal significato profondo. Francesco decolla in elicottero oggi alle 15.15 in Vaticano per arrivare mezz’ora più tardi nel Santuario del Reatino dove sarà accolto dal vescovo di Rieti monsignor Domenico Pompili e dal frate guardiano del santuario padre Francesco Rossi. Il programma prevede un momento di preghiera, la firma della Lettera sul presepio e, alle 17, l’Eucaristia. Quindi il Papa farà rientro in Vaticano.
Come si ricorderà è stato lo stesso Bergoglio ad annunciare la visita, mercoledì scorso al termine dell’udienza generale. «Domenica prossima - sono le parole del Pontefice - mi recherò a Greccio per pregare nel posto del primo presepio che ha fatto San Francesco d’Assisi e per inviare a tutto il popolo credente una lettera per capire il significato del presepio». Papa Francesco si è già recato a Greccio il 4 gennaio 2016 dove, prima di raggiungere il santuario, aveva incontrato i giovani partecipanti a un meeting diocesabio sulla Laudato si’.
DUE CRISTIANESIMI: COSA RESTA?! IL CRISTIANESIMO DEL "DEUS CHARITAS EST" O IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO DEL "DEUS CARITAS EST"?! O nessuno dei due?!
INNANZITUTTO UN GRAN PLAUSO al prof. Armando Polito per il coraggioso intervento chiarificatorio sul tema (cfr. "Mesagne: Luca Antonio Resta, il vescovo e l’Affumicato", Fondazione Terra d’Otranto, 08/11/2017) e, al contempo, un modesto invito a riconsiderare i termini di una questione filologica e teologica di rilevantisima portata che ha il suo luogo di riferimento innanzitutto nei testi dell’evangelista Giovanni e poi nel famoso "INNO ALLA CARITÀ" di Paolo di Tarso, il romano persecutore dei cristiani (cfr.: MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA. GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") O IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ?!!)
Come sappiamo da sempre, non si possono servire "due padroni", la Verità e la Menzogna contemporaneamente, "Dio Amore" e Dio Mammona" nello stesso tempo!!! Ciò che è in gioco è la questione delle questioni, quella stessa dell "ragione" e della "fede" unitamente, a tutti i livelli.
"CHARITAS" o "CARITAS"? COSA RESTA?!
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER: "DEUS CARITAS EST"!!! FINE DEL CRISTIANESIMO: TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO; E CERCHI DI SAPERE "CHI" SIAMO NOI IN REALTÀ.
Federico La Sala
Un santo degli umili e dei potenti
di AURELIO MUSI *
Il senso più pieno del volume di Giuseppe Caridi, Francesco di Paola (Salerno ed., Roma 2016) è nel sottotitolo: “Santo europeo degli umili e dei potenti”. Italiano nella prima parte della sua vita e francese negli ultimi anni, Francesco ebbe fortuna europea per più motivi: per la diffusione e il successo dell’Ordine da lui fondato, quello dei Minimi; per la devozione internazionale che lo coinvolse; per la mitografia del personaggio che interessò la musica, la pittura, la letteratura. Eremita, “santo vivo” popolare, taumaturgo, Francesco fu anche assai legato ai poteri locali e svolse importanti funzioni di mediatore diplomatico.
C’è più di una ragione, dunque, che rende di straordinario interesse la biografia del santo, che Caridi ricostruisce con scrupolo e meticolosità, attraverso un’indagine quasi giudiziaria tra agiografia e storiografia, l’attenzione critica alle fonti e al contesto generale del tempo.
Già a sedici anni Francesco diede i segni premonitori di santità e nel 1430 fondò il primo romitorio a Paola. La “rinascenza eremitica” si diffuse poi dalla Calabria alla Sicilia e giunse il riconoscimento papale della congregazione. La fama del “santo vivo”, capace cioè di creare intorno alla sua figura già in vita, attraverso la condotta e le virtù taumaturgiche, l’aura di santità, si diffuse immediatamente.
Ma, al tempo stesso, emerse anche l’altra componente della personalità di Francesco: il legame con i potenti. Ebbe un rapporto tormentato con Ferrante d’Aragona, passato dalla simpatia alla diffidenza, tornato infine alla ricostruzione di una relazione più positiva.
Ma fu soprattutto la malattia di Luigi XI e la fama taumaturgica dell’eremita di Paola a spostare il centro di gravitazione della vita del personaggio verso la Francia. Francesco fu spinto da papa Sisto IV ad andare alla corte francese per due motivi fondamentali: per sollecitare la guarigione del re, certo, ma soprattutto per svolgere una mediazione diplomatica tesa a tutelare gli interessi della S. Sede.
Dal 1483 al 1507 Francesco visse nell’orbita di tre sovrani francesi: Luigi XI, Carlo VIII, Luigi XII. A corte si percepì la doppia fisionomia dell’eremita, “sant’uomo” e diplomatico. In realtà l’obiettivo prioritario e fondamentale di Francesco era il riconoscimento dell’Ordine dei Minimi che finalmente arrivò nel 1493 ad opera di papa Alessandro VI Borgia. L’Ordine si diffuse in Francia, Spagna, Germania e Italia. Le ragioni della straordinaria fortuna furono sostanzialmente due: la risposta alla crisi religiosa del tardo Quattrocento; il favore delle gerarchie politiche ed ecclesiastiche.
Il processo di canonizzazione di Francesco fu assai travagliato. Non furono poche le pressioni tese a rinviarne di un secolo la realizzazione, perché l’immagine di Francesco era assai differente dal modello tradizionale di santità. Ma in realtà essa arrivò abbastanza presto, a dodici anni dalla morte, nel 1519. Erano passati solo due anni dall’affissione presso la porta del castello di Wittemberg delle 95 tesi di Lutero.
La canonizzazione di Francesco fu dunque in primo luogo una reazione della Chiesa all’eresia luterana e un’ulteriore risposta alla crisi religiosa del Cinquecento. Ma fu anche, ancora una volta, il risultato della forte spinta alla canonizzazione e alla sua accelerazione voluta dal re francese Francesco I.
Dalla biografia di Caridi emergono con chiarezza tutti i tratti della personalità di Francesco. Ma fu veramente pacifista, come sostiene l’autore? Si batté certo a favore dell’equilibrio degli Stati italiani e per la loro unità contro il pericolo turco. Ma sostenne l’invasione di Carlo VIII nel Regno di Napoli che ne provocò la fine dell’indipendenza. Una contraddizione tra le tante di questo “santo vivo”? In realtà egli ebbe un solo, esclusivo e costante interesse: il riconoscimento e la diffusione della sua creatura, l’Ordine dei Minimi.
* AURELIO MUSI - L’Acropoli, 02 Aprile 2016
Il chiostro di S. Francesco di Paola a Grottaglie e il pittore Bernardino Greco da Copertino
IL CICLO BIOGRAFICO DI S. FRANCESCO DI PAOLA NELLE LUNETTE DEL CHIOSTRO DEI PAOLOTTI DI GROTTAGLIE
di Rosario Quaranta *
Il chiostro dei Paolotti non è l’unico in Grottaglie; altri ve ne sono, infatti, nei diversi complessi conventuali dei Carmelitani, dei Cappuccini e delle Monache di S. Chiara. Di questi però solo quello annesso al maestoso convento del Carmine risulta degno di particolare nota, sia per la struttura che per le interessanti pitture e decorazioni. Quello dei Cappuccini, molto semplice e di modeste dimensioni, è ormai irriconoscibile come quasi tutta l’imponente struttura conventuale sita, peraltro, in un sito altamente suggestivo sullo spalto nord della storica gravina del Fullonese, da tempo abbandonata allo scempio e alla distruzione ed ora in fase di recupero e restauro. Il minuscolo chiostro delle Clarisse, in aderenza alla peculiare severità ed estrema semplicità del monastero, non presenta interesse artistico o architettonico.
Il chiostro del Carmine appartenente strutturalmente al secolo XVI e completato nelle decorazioni nel secolo XVIII, rappresenta sicuramente un elemento di notevole interesse artistico e architettonico del territorio. Nonostante le modeste dimensioni, si presenta all’occhio del visitatore snello, elegante e ricco, come quello dei Paolotti, di un ciclo pittorico di tutto rilievo.
Il chiostro di S. Francesco di Paola, annesso alla chiesa e al grandioso convento dei Frati Minimi, qui introdotti nel 1536 dal grottagliese P. Girolamo Sammarco. è di sicuro il più importante di Grottaglie, e tra i più interessanti e significativi dell’Ordine dei Minimi, sia per la struttura che per il richiamo del ciclo pittorico quasi completo della vita del taumaturgo calabrese. La struttura architettonica risale, perciò alla seconda metà del secolo XVI, mentre le lunette vennero completate nel 1723, con fresca e originale vena popolaresca, dal pittore salentino Bernardino Greco da Copertino, il quale per le varie scene si ispirò abbastanza fedelmente a una serie di incisioni di Alessandro Baratta stampate con didascalie poetiche a Napoli nel 1622: La vita e miracoli del gloriosissimo Padre Santo Francesco di Paola, con le rime di Don Oratio Nardino Cosentino, dato in luce per Ottavio Verrio genovese, Napoli 1622 (altra edizione a Napoli nel1627 a cura di Giovanni Orlandi).
1723 FIRMA DELL’AUTORE BERNARDINO GRECO DA COPERTINO
Nelle lunette di Grottaglie vengono proposti, senza un vero e proprio ordine, episodi della vita miracolosa del santo di Paola, insieme con figure e personaggi legati alla storia dell’Ordine dei Minimi. Ogni scena è illustrata da una didascalia poetica (quattro quartine sono del celebre letterato minimo del Seicento Francesco Fulvio Frugoni) e riporta i nomi e gli stemmi delle famiglie grottagliesi che commissionarono l’opera, tra le quali quella dei feudatari principi Cicinelli.
Il chiostro, in parte restaurato, è un monumento studiato e giustamente decantato in diverse pubblicazioni da P. Francesco Stea; in particolare nel suo Un monumento barocco (Fasano, 1979): Ecco come ne parla: “Al centro del convento si allarga il chiostro: costruzione ad ampio respiro, quadrilatero perfetto, che si articola in venti arcate a tutto sesto, rette da colonne doricheggianti di carparo locale. Su tre lati - sud, est, ovest - esse sono quadrate e sormontate da brevi capitelli; a nord sono ottagonali a diretto sostegno dell’arco. A somiglianza del tempio dorico, poggiano, senza base, sullo stilobate, «come albero che spunta direttamente dal terreno»; la loro base è un unico rialzo perimetrale, con due cuscinetti accennati a doppio ripiano; il fusto è senza scanalature, assottigliato, per accentuare l’energia di tensione verso l’alto. Il capitello si compone d’un cuscinetto a linea curva - echino - e di un parallelepipedo - abaco - sul quale poggia un semicatino con foglie ai lati; un’ampia cornice a più ripiani, inizia il pie’dell’arco. Nella parte superiore del lato nord, i pilastri ripetono motivi analoghi a quelli del piano inferiore: echino ed abaco più evidenziati e fregi ai quattro lati. Corre sull’orlatura la “sima” con le docce per l’acqua piovana; il tetto, infine, è a terrazze lastricate. Le volte sono a vela; al centro una pigna, di forma quasi sempre diversa, fa da chiave di volta. Sei ampi finestroni luminosi del corridoio di soggiorno soprastante l’atrio si affacciano sul lato nord, in proiezione prospettica, conferendo eleganza e sontuosità (...) Oltre all’equilibrio architettonico e alla simmetria dell’intero corpo di fabbrica, pur nel continuo variare dei diversi elementi, in mirabile armonia tra loro ad accrescere fascino e bellezza concorrono gli affreschi sotto le vele. Sono trentadue le lunette, comprese quattro dell’ ingresso, di cui una è andata completamente perduta, l’altra è visibile solo per metà. Di fronte, nel vestibolo, si apre l’albero genealogico dell’Ordine; le altre si snodano come in un interessante diorama storico: la vita del Santo Fondatore dei Minimi e la sua azione prodigiosa, lungo tutto l’arco dei suoi novantuno anni. Tra l’una e l’altra, dove si allarga l’angolo della vela, sono inseriti dei medaglioni di illustri personalità: re, regine, duchi, arcivescovi, vescovi, benefattori insigni, terziari dell’Ordine con i loro stemmi e blasoni: venti in tutto (...) Ove meglio le pitture si conservano, è sul lato nord, a ridosso di tramontana; qui non hanno perduto niente della loro primitiva freschezza, come la canonizzazione del Santo, affollatissima di alti dignitari pontifici ed ecclesiastici di ogni rango. In un’altra, il Santo appare circonfuso di fulgore nella gloria della sua apoteosi, con i lembi della tonaca che sembrano toccare terra, come per assicurare i suoi devoti, dal cielo, che egli continua a guardarli e proteggerli. Importanti, per l’araldica grottagliese e di qualche famiglia di paesi forestieri, i nomi di chi ne ordinò l’esecuzione; alcuni sono tuttora esistenti: Marra, Lo Monaco, Serio, Ciracì, Lillo, Finto, Maranò, Caforio, Bucci. Di ventisei lunette conosciamo il committente, degli altri il nome non è riapparso dopo i restauri; sei della famiglia Pinto; sei del Principe di Cursi e Duca di Grottaglie; sei di sacerdoti grottagliesi; una del Viceduca Antonio Damiano; una del Barone Tommaso Basta di Monteparano; le rimanenti di altri devoti. Pitture fatte eseguire senza finalità specifiche o particolari riferimenti ai soggetti raffigurati: alcuni committenti avevano il nome “Francesco”, evidente la devozione al Santo; i sacerdoti erano quasi tutti del locale Capitolo Collegiale; anch’essi vollero in tal modo manifestare l’attaccamento al Paolano, oltre che all’Ordine dei Minimi, orgogliosi del decoro e del lustro che il monumento conferiva al paese. I versi, quartine e terzine rimate, risentono del gusto del tempo e s’intonano perfettamente al soggetto rappresentato. Essi, oltre che deteriorati, non sono stati, in parte, riprodotti con fedeltà. Alcune strofe non prive di pregio denotano spontaneità e scioltezza (...) Negli affreschi domina sovrana la figura del Santo, attorniato da alcuni suoi religiosi o seguito da ammiratori e devoti. Gli spazi sono pieni, qualche volta, di immagini senza vita e movimento, che balzano all’occhio dell’osservatore, non senza un fascino alla luce del giorno, suggestiva e piena di mistero nella penombra della sera. Le scene conferiscono una sacralità a tutto il chiostro, e non pochi sono coloro, che, entrando, in ore vespertine, vengono presi da religioso rispetto e timore: sembra che il Taumaturgo di Paola, dipinto nelle lunette, abbia, operato qui, tali prodigi. La storia, così varia, di oltre quattro secoli, svoltasi sotto queste arcate e nell’intricato dedalo dei lunghi corridoi del convento, la severità e la ieraticità di tanti personaggi dicono che «ora, veramente, questo luogo è santo», specie se si considera il forzato abbandono da parte dei religiosi, quando, tristi e foschi episodi ne hanno profanato la sacralità.”
L’Autore delle pitture murali: Bernardino Greco
Per quanto riguarda l’autore, gli unici dati certi derivano dalla sottoscrizione e dalla data che si possono ancora leggere, inserite in un cartiglio nel vestibolo del convento: “Bernardino Greco di Copertino dipingeva nell’anno del Signore1723”. Di sicuro sappiamo che egli dipinse pure il ciclo pittorico sul santo di Paola del convento di Monopoli (Bari): 20 lunette corredate, come a Grottaglie, da didascalie, ritratti di personaggi illustri, stemmi nobiliari e decorazioni. Si tratta di una serie di episodi dipinti con una vena leggermente più sommaria e semplificata.
Il pittore copertinese, di certo su indicazioni dei religiosi grottagliesi, dipinse gli episodi della vita del santo su 28 lunette del chiostro e su tre lunette del vestibolo; sull’intera quarta parete del vestibolo, ed esattamente quella posta di fronte all’ingresso, raffigurò l’albero dell’Ordine dei Minimi (Arbor Religionis Minimorum). Quindi in tutto 31 episodi biografici, dei quali, però, quello raffigurante probabilmente la morte del Santo è andato completamente perduto, e altri tre sono cancellati per oltre la metà (Il Santo che ripara la fornace ardente, l’asinello restituisce gli zoccoli all’avaro maniscalco e l’episodio dei pesci arrostiti fatti tornare in vita). Diversi altri, poi, versano in uno stato di progressivo deterioramento che nel volgere di pochi anni ne rovinano vistosamente i tratti; è il caso degli episodi riguardanti il passaggio dello stretto di Messina, il miracolo dell’uomo assiderato da tre giorni e tornato in vita, del guerriero miscredente e dello stesso Albero della Religione del vestibolo ormai irriconoscibile per oltre la metà. Una vera iattura da fronteggiare al più presto se si vuole salvare questa testimonianza di religiosità e di cultura.
Per buona fortuna, ad eccezione della lunetta del tutto perduta, siamo in grado di identificare e riconoscere tutti gli altri episodi grazie al modello che il pittore tenne presente abbastanza fedelmente, tratto, come si è detto, dalla serie delle tavole realizzate nel primo Seicento dal pittore-incisore Alessandro Baratta.
Il lavoro del pittore si protrasse per un certo tempo prima di concludersi nel 1723 che, evidentemente, è la data di conclusione dei lavori fissata nel cartiglio del vestibolo; una prova di ciò si può intravvedere nella mancanza di un preciso ordine nella sequenza degli episodi e dei medaglioni dei personaggi. Probabilmente si dovette procedere in base agli interventi finanziari di coloro che commissionarono le pitture con gli episodi miracolosi scelti da loro stessi tra quelli che maggiormente li avevano colpito e corredandoli con didascalie poetiche e con la raffigurazione dei propri stemmi o blasoni nobiliari. Spiega ancora P. Stea: “I versi, quartine e terzine rimate, risentono del gusto del tempo e s’intonano perfettamente al soggetto rappresentato. Essi, oltre che deteriorati, non sono stati, in parte, riprodotti con fedeltà. Alcune strofe non prive di pregio denotano spontaneità e scioltezza: evidente il fine di magnificare ed esaltare la potenza taumaturgica del Santo.
Ecco l’oro del cor fatto assassino
Spander punito i sanguinosi umori;
Perché succhiò le vene a tanti cori
Rende il sangue rubato il ladro fino.
Nella reggia di Napoli, dove Ferdinando d’Aragona non si fa scrupolo d’angariare e di vessare le popolazioni, l’Eremita di Paola tuona con la forza del suo animo contro i soprusi che immiserivano la povera gente.
A stupir qui, natura, Egli t’invita
Informe volto a disegnar s’accinge;
Ad immagine sua qual Dio, lo pinge,
Sputo è il color, e son pennel le dita.
Pittura e poesia si fondono mirabilmente: non sappiamo dove l’una cominci e l’altra finisca. La fresca vena popolare, è componente unica nella cornice architettonica di colore.
Questo sincronismo ci induce a ritenere il chiostro un’opera degna di nota tra le altre della nostra regione; giudicarlo diversamente sarebbe voler obliare ogni espressione d’arte minore e limitarsi alle maggiori.”
Gli episodi della vita del Santo
La biografia del Paolano viene perciò efficacemente illustrata con una sequenza consistente di episodi che così si possono riordinare:
Un bagliore nel cielo di Paola nella notte in cui nacque il Santo
Nascita del Santo (27 marzo 1416)
Il giovane Francesco si consacra a Dio coi i 4 voti (ubbidienza, povertà, castità e vita quaresimale)
Il giovane Francesco riceve dagli angeli le insegne dell’Ordine (il cappuccio e lo stemma CHARITAS)
Un capriolo scampa ai cacciatori rifugiandosi presso il Santo
Con l’applicazione di erbe il Santo guarisce il barone di Tarsia da una cancrena alla gamba
Il Santo accetta una generosa offerta da un nobile cosentino per la costruzione di un convento
S. Francesco entra nella calcara ardente per ripararla (nel vestibolo, in alto, sul portone)
Risana un religioso che si era tagliato il piede nel fare legna nel bosco
Richiama in vita dalla fornace ardente l’agnellino divorato dagli operai
Fa tornare in vita un morto assiderato nella neve da tre giorni
I soldati inviati dal re non riescono a catturare il Santo
E’ sorpreso in estasi davanti alla Trinità con una triplice corona sul capo
Guarisce un lebbroso
Ordina all’asinello di restituire gli zoccoli al maniscalco avaro (vestibolo, in altro a destra)
Guarigione di forsennati e furiosi
Ridona sembianze umane a un bambino deforme servendosi delle dita come un pennello
Risuscita il nipote Nicola D’Alessio che poi diventerà frate
Passa miracolosamente lo stretto di Messina
Consegna ai soldati del conte d’Arena la candela benedetta per la guerra contro i Turchi
Un soldato rifiuta la candela benedetta dal Santo; per questo egli non fece ritorno dalla guerra contro i Turchi
S. Francesco di Paola spezza le monete d’oro davanti a Re Ferrante d’Aragona a Napoli
Ridona la vita ai pesci arrostiti che il re gli aveva fatto portare (rovinata)
Il Santo è ricevuto a Roma dal Papa Sisto IV. In alto a destra egli profetizza il pontificato a Giovanni dei Medici che poi lo canonizzerà nel 1519 (Leone X).
La nave che aveva portato il Santo in Francia, al ritorno, scampa al naufragio grazie agli zoccoli del santo gettati in mare
Il re di Francia Luigi XI accoglie il Santo
Profetizza a Luigia di Savoia la nascita di un figlio.
Luigia di Savoia presenta al Santo il figlio avuto per sua intercessione (Francesco I di Francia).
(Perduta: probabilmente raffigurava la morte del Santo)
Canonizzazione del Santo in S. Pietro (1 maggio 1519)
Il Santo Taumaturgo guarisce i malati di ogni sorta (vestibolo, in alto a sinistra)
Albero dell’Ordine dei Minimi (vestibolo, di fronte)
Il vestibolo del convento appare oggi molto diverso da come si presentava nei secoli scorsi. L’incuria degli uomini e lo scorrere inesorabile del tempo ne hanno irrimediabilmente compromessa la bellezza: la parete che si trova di fronte all’ingresso, una volta interamente ricoperta dalla pittura murale raffigurante l’Arbor Religionis, oggi conserva solo una parte di questo interessante soggetto iconografico e per giunta in condizioni pietose. Delle tre lunette sovrastanti, solo una (e cioè l’azione taumaturgica del Santo) si può ancora osservare nella sua interezza, mentre le altre due (e cioè l’episodio della fornace ardente e l’asinello che restituisce gli zoccoli all’avaro maniscalco) risultano perdute per oltre la metà. Anche la volta, interamente decorata, è molto rovinata; nonostante tutto è ancora possibile leggere sui due cartigli il nome dell’Autore e la data di realizzazione:
BERNADINUS GRAECUS [CO]PERTINENSIS [PINGE]BAT
[............................................. ] A. D. MDCCXXIII
Il significato allegorico dell’albero che, partendo alla base dal corpo del Fondatore, si innalza maestoso nella storia della Chiesa e che porta i suoi buoni frutti di virtù e di santità, viene espresso in maniera alquanto diversa e semplificata rispetto a una nota incisione del 1622.
Comunque , si può ancora vedere in alto, “ il Fondatore S. Francesco di Paola; sul suo capola SS.ma Trinità; intorno, un coro di angeli festanti e uno stuolo di venerabili martiri, confessori, dottori e vergini, re, regine, personalità illustri, alti dignitari, ecclesiastici, religiosi del primo Ordine, suore e terziari d’ambo i sessi; sotto, si diramano maestosi e folti i rami di questo albero secolare, che «diede fiori e frutti santi», al dir di Dante.”
Il progressivo deterioramento sta gradualmente cancellando dal basso verso l’alto, numerosi personaggi al punto che alcuni di questi già riportati nella monografia di P. Stea, sono ormai scomparsi. La stessa sorte sta interessando purtroppo molte altre lunette.
Recentemente sono state restaurate le due lunette relative al fausto presagio della notte in cui nacque il santo e al miracolo della nave in tempesta, salvata per intercessione del santo. Si attende anche per le altre un intervento sollecito per salvare questo significativo monumento di spiritualità di arte e di cultura del nostro territorio.
* FONTE.
Fondazione Terra d’Otranto, Pubblicato il 30/09/2012 da Marcello Gaballo (- RIPRESA PARZIALE, SENZA IMMAGINI).
27 Marzo 2016: Santa Pasqua e 600 anni dalla nascita di San Francesco da Paola
di Aldo Domenico Ficara (La tecnica della scuola, Venerdì, 25 Marzo 2016)
Nasceva il 27 Marzo 1416 il più grande taumaturgo della storia cristiana, il calabrese San Francesco da Paola, il cui VI Centenario dalla sua nascita ricorre il prossimo 27 Marzo 2016, Giorno della Pasqua del Signore.
Con questo giorno speciale per l’intera Comunità dei Calabresi e per la fede cristiana, continua la missione dell’Ordine dei Minimi che coincide spiritualmente con il Giubileo della Misericordia. “Le Celebrazioni consistono in un lungo percorso spirituale che affronta i temi della Misericordia e della Carità in linea con il Giubileo indetto da Papa Francesco e con la regola dei Minimi voluta da San Francesco da Paola per dare idea di cosa sarà il VI Centenario.
Le Celebrazioni non prevedono sfarzi ma si svolgeranno in un contesto di austerità molto ricca, invece, del significato delle molteplici indicazioni offerte alla Comunità dalla Lettera pastorale dei Vescovi calabresi promossa per l’occasione del VI Centenario della nascita di S. Francesco da Paola (1416 - 27 marzo - 2016).
Il documento, infatti, indagando la vita e la profondità spirituale di San Francesco da Paola, offre molti spunti per un ritorno alla centralità dell’Essere Umano, orizzonte indispensabile per una riappropriazione responsabile del vero significato dell’esistenza. Le Celebrazioni sono sostenute dalla Regione Calabria e rappresentano un’occasione di centralità per la Città di Paola nella quale, tra gli altri Beni Culturali perfettamente ripristinati, è possibile visitare la casa natale del santo.
LA TEOLOGIA-POLITICA DELLA CARITA’ POMPOSA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA, LA CARESTIA, E LA SEMANTICA DELLA "EUCHARISTIA-CHARITAS" CRISTIANA!!! E LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA!!!
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PROCESSIONE? NO, GRAZIE!
di don Aldo Antonelli *
Alla fine della messa di ieri sera ho congedato i miei parrocchiani con queste parole (in riferimento a quanto detto nell’Omelia sull’Eucarestia): “Andate in pace ed arricchite il mondo spezzandovi per esso e dando voi stessi da mangiare, invece di impoverirlo con le rapine”.
Questa notte, poi, pensando alla giornata di oggi, Corpus Domini, mi sono venute delle domande impertinenti (o pertinenti?).
Se i preti credessero veramente alla presenza reale di Gesù nell’Eucarestia, lo prenderebbero e lo porterebbero in giro per le strade come fosse una reliquia?
E non sono una bestemmia queste processioni con tanto di infiorate, baldacchini, riverenze e genuflessioni nelle nostre città dove i veri, poveri cristi in carne ed ossa sono costretti a dormire sotto i ponti, nei corridoi delle stazioni, negli angoli bui delle strade, come fossero sacchi d’immondizia?
Il grande teologo Jean Cardonnel soleva gridare: "Non abbiamo il diritto di celebrare la condivisione del pane in un mondo che l’accumula"!
E mi fa specie questo scialo di messe che invece di provocare e di scuotere e di mettere in crisi, accarezzano narcisismo, coltivano campanilismi, consacrano razzismi.
E non dite che sono impietoso, sono semplicemente sincero.
Ricordo che anche i Vescovi Italiani, nel documento “Evangelizzazione e testimonianza della carità” scrivevano testualmente: “Il culto si riveste di ipocrisia e contraddice nei fatti a quella comunione che l’ Eucarestia significa e realizza”.
Non sono il solo.
Dom Helder Camara diceva: “E’ facile adorare il Cristo presente nell’ostia della messa. Ma a che serve se non si riconosce la presenza di Cristo nei fratelli abbandonati e vittime della povertà ingiusta della nostra società?".
Ed anche don Tonino Bello scriveva: “Le nostre Messe dovrebbero smascherare i nuovi volti dell’idolatria. Dovrebbero metterci in crisi ogni volta. Per cui per evitare le crisi bisognerebbe ridurle il più possibile...Tante volte anche noi, presi da una fede flaccida, svenevole, abbiamo fatto dell’Eucarestia un momento di dilettazioni piacevoli, morose, di compiacimenti estenuanti che hanno snervato proprio la forza d’urto dell’Eucarestia e ci hanno impedito di udire il grido dei poveri Lazzari che stanno fuori la porta del nostro banchetto".
Chiudo con la denuncia del grande liturgista Pelagio Visentin: «Purtroppo intorno alla presenza reale eucaristica abbiamo costruito cattedrali di teologia, di arte e di sfarzo liturgico-rituale, mentre intorno al fratello bisognoso, sacramento di un altro incontro con Cristo, ci siamo accontentati di qualche pia esortazione dal tono moralistico rivolta alla buona volontà dei fedeli. La scissione Eucarestia-Carità a livello teologico e nella prassi liturgica è una delle più grandi disavventure capitate alla Chiesa» ( AA.VV: Diaconia della carità nella pastorale, ed Gregoriana,1986, pg.284).
Aldo
* Testo inviato via mail. Evidenziazioni mie (fls)
Papa: "Come vorrei una Chiesa povera"
E spiega perché ha scelto il nome Francesco
Il pontefice racconta la sua elezione e la scelta del nome ai giornalisti.
Sarà a Castel Gandolfo da Ratzinger sabato prossimo. Domani il primo Angelus *
CITTA’ DEL VATICANO - "Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri". Ha scelto di rivolgere la sua attenzione ai più deboli, ’agli ultimi’, il Papa nell’incontro con i giornalisti, spiegando di aver scelto il nome di Francesco perché "è l’uomo della povertà e della pace". Molti si sono chiesti se fosse Francesco Saverio o Francesco di Sales, ma la decisione è stata ispirata al santo di Assisi. "Avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il Clero, Claudio Hummes, un grande amico", ha raccontato il pontefice. "Quando la cosa è divenuta un po’ pericolosa - ha proseguito - lui mi confortava, e quando i voti sono saliti a due terzi, momento in cui viene l’applauso consueto perché è stato eletto il Papa, lui mi ha abbracciato, mi ha baciato, e mi ha detto: non ti dimenticare dei poveri". "Quella parola è entrata qui - ha aggiunto il Pontefice toccandosi il capo -, i poveri, i poveri". "Poi subito, in relazione ai poveri, ho pensato a Francesco d’Assisi". "Molti mi hanno detto ti dovevi chiamare Adriano per essere un vero riformatore, oppure Clemente per vendicarsi di Clemente XIV che abolì la Compagnia di Gesù", ha aggiunto.
Nel primo incontro con la stampa il papa ha rivolto "un ringraziamento speciale" ai giornalisti "per il qualificato servizio dei giorni sorsi". Poi ha esclamato con un sorriso: "Avete lavorato!", salutato da un applauso degli operatori dei media. Sono queste le prime parole che il pontefice ha rivolto ai giornalisti, incontrandoli. "Il vostro ruolo è indispensabile per raccontare la realtà contemporanea".
Tra i giornalisti salutati da Papa Francesco al termine dell’udienza nell’Aula Paolo VI, Giovanna Chirri, che per prima diede al mondo la notizia delle dimissioni di papa Benedetto XVI. Con emozione Giovanna ha stretto la mano al Pontefice, sorridendo.
Intanto è arrivata la notizia che l’atteso incontro tra il Papa emerito e il nuovo pontefice si terrà il 23 marzo, la settimana prossima. Papa Francesco andrà in elicottero a Castel Gandolfo per incontrare Benedetto XVI. Il pontefice e il Papa emerito saranno insieme a pranzo. "Rivolgo un pensiero colmo di grande affetto al mio predecessore, che ha rinvigorito la Chiesa con il suo magistero, la sua umiltà e la sua mitezza", ha detto oggi Papa Francesco, incontrando i cardinali in Sala Clementina. Papa Francesco presiederà poi domenica 24 marzo la processione e la messa delle Palme in piazza San Pietro.
Oggi sulle polemiche del ruolo del Papa durante la dittatura in Argentina si è espresso il premio Nobel la pace Adolfo Perez Esquivel, argentino. "Bergoglio non appoggiò mai la dittatura e le accuse nei suoi confronti sono false", ha detto Esquivel, a margine della manifestazione organizzata da Libera in ricordo delle vittime di mafia. "Molti vescovi - ha detto Esquivel - chiedevano il rilascio dei prigionieri, ma i militari facevano quello che volevano e non quello che dovevano". Ai giornalisti, il Nobel argentino ha aggiunto, parlando di Papa Francesco: "Mi piace, con lui finisce l’eurocentrismo e un Papa latinoamericano è un segno di speranza forte per tutti".
* la Repubblica, 16.03.2013
In Australia i calabresi accolgono
il mantello di san Francesco di Paola
La festa annuale della comunità calabrese di Melbourne è stata solennizzata dall’arrivo della sacra reliquia, nel 50° anniversario della proclamazione del santo a patrono della Calabria *
Sono entrati nel vivo al Melbourne, in Australia, gli annuali festeggiamenti in onore di san Francesco di Paola. E’ toccato, infatti, alla comunità calabrese, in rappresentanza delle altre comunità sparse nel mondo, organizzare i festeggiamenti nella ricorrenza del 50° anniversario del patronato del Santo sulla Calabria. Per la straordinarietà dell’evento, è giunta da Paola la reliquisa del sacro mantello utilizzato da san Francesco per attraversare lo Stretto di Messina che, per la prima volta, ha toccato il suolo australiano. Ad accompagnare la reliquia è il padre provinciale e rettore del convento di Paola, padre Rocco Benvenuto, che è stato ricevuto dall’arcivescovo di Melbourne, Denis Hart, mentre nel pomeriggio di giovedì ha presieduto in cattedrale la solenne concelebrazione.
Sabato il sacro mantello sarà imbarcato sulla nave Victoria Star e portato in processione alla foce del fiume Yara, dove sarà recitata la preghiera del marinaio e lanciata la corona per i caduti. Dopo gli attentati dell’11 settembre è la prima volta che il sacro mantello lascia il santuario di Paola per andare fuori Europa.
* Il Quotidiano della Calabria, 03/03/2012
Spari su casa-famiglia avviso a don Panizza
di Giovanni Maria Mira (Avvenire, 28 febbraio 0212)
Nuova grave intimidazione contro la Comunità ’Progetto Sud’ di Lamezia Terme, guidata da don Giacomo Panizza, direttore della Caritas diocesana. Un colpo di pistola 7,65 è stato sparato nella notte tra sabato e domenica contro l’edificio confiscato alla cosca dei Torcasio, ribattezzato ’Pensieri e parole’. Una casa di tre piani che ospita il ’dopo di noi’ per disabili non autosufficienti - e che le famiglie non possono più seguire - e una casa famiglia per immigrati minorenni. La stessa casa contro la quale la sera dello scorso Natale era stata fatta esplodere una bomba. Ora il proiettile - sembra sparato da molto lontano - che ha colpito e sfondato la finestra della cucina del ’dopo di noi’. Ma questa volta c’è qualcosa di più. «Questa volta è stata un’azione proprio contro di noi», riflette don Giacomo. Per domani, infatti, ’Progetto Sud’ e tutte le associazioni del volontariato cittadino, cattoliche e laiche, col sostegno della diocesi e del comune, hanno organizzato una giornata di mobilitazione dal titolo ’Il giorno che non c’è io ci sarò’, che prende spunto sia dalla data (29 febbraio) ma anche dalla speranza che presto si possa dire «il giorno che non c’è...più la ’ndrangheta». Anche perché a Lamezia, invece, qualcuno continua a dire che «la mafia non c’è». Una giornata che prevede incontri nelle scuole e nel tardo pomeriggio una marcia che si concluderà con gli interventi del vescovo, Luigi Antonio Cantafora, del procuratore, Salvatore Vitello e del sindaco, Gianni Speranza.
Un’iniziativa che parte dal basso per reagire a una clima pesantissimo che si è creato nel quartiere Capizzaglie, feudo storico della cosche lametine, dove nel mese di dicembre ci sono stati ben 20 attentati contro esercizi commerciali e tre agguati con ferimenti, culminati con l’ordigno contro ’Pensieri e parole’. Azioni anche in pieno giorno, tra la gente, per fare paura, riaffermare il controllo del territorio o per occuparlo da parte di gruppi mafiosi esterni. Forse per mettere le mani su importanti appalti pubblici previsti nella zona. Il risultato è che gli abitanti non girano più e le vendite dei negozi sono crollate (il quartiere è famoso soprattutto per la produzione del pane e venivano a comprarlo anche da fuori città).
«Dopo tutti questi episodi di violenza - commenta don Giacomo - ci stiamo preparando più che convinti che la città si debba rimettere in marcia, sulla strada giusta. Lamezia è da cambiare. Il 29 febbraio, alla luce di quanto avvenuto, abbiamo dei motivi in più per manifestare». Un’iniziativa che evidentemente disturba. Una settimana fa, infatti, è stata devastata da un terribile raid vandalico la scuola ’Saverio Gatti’ da cui partirà la marcia, sempre nel quartiere di Capizzaglie. Due giorni fa lo sparo contro ’Pensieri a parole’, una delle tappe della marcia.
«È chiaro che ce l’hanno con noi. Vogliono ostacolare il nostro lavoro. Sono contro la cultura della legalità e dei diritti che noi perseguiamo da anni - dice anche Nunzia Coppedè, presidente calabrese della Fish che ha sede nell’edificio e animatrice di ’Progetto Sud’ -. Comunque tutto ciò non ferma la nostra volontà ad andare avanti». E don Giacomo insiste. «Le pallottole non ci fermeranno. È il momento di resistere tutti insieme per traghettare un’altra Calabria».
Gratuità nel ministero
di Luisito Bianchi
in “Il Regno” - Attualità - n. 20 del 15 novembre 2006
Se la sapienza ama giocare con gli uomini (cf. Pr 8,31), può darsi che anche il giorno scelto dal potere religioso in Italia per decretare l’entrata in vigore di una legge concordataria faccia parte di tale gioco. Come può essere capitato per il 25 gennaio 1987.
Dicono che da mille anni questa data è consacrata alla memoria liturgica della Conversione di san Paolo. Ma conversio ad quid? Sappiamo che cosa avvenne sulla via che portava a Damasco. E fu in quel bagliore accecante che l’intransigente difensore della legge rimase per sempre travolto dalla piena della gratuità che proveniva dal corpo di Gesù, crocifisso e risorto, unica salvezza.
Accadde in quel momento il definitivo convergere di Paolo (la conversione appunto) sulla gratuità della salvezza, che viene non dalla legge ma da Gesù, come dono assoluto, senza contraccambio. Per tutta la sua vita, Paolo altro non fece che raccontare questa gratuità, operare perché altri si convertissero a questo Evangelo che è la buona notizia della salvezza come dono gratuito, non soggetto a pentimento. E tutto questo spinto dalla «necessità», cui è impossibile sottrarsi, di trasmettere quanto è stato ricevuto, una tradizione fondata sul ricevere e dare gratuitamente.
Da qui la sua assoluta intransigente gratuità nel trasmettere l’accaduto che gli rivelò la gratuità di Dio, al punto da preferire la morte (cf. 1Cor 9, 15) piuttosto che avvalersi perfino della facoltà di sedersi a mensa (eppure «l’operaio è degno del suo nutrimento», come da Mt 10,10) riconosciuta al rabbi nella cultura ebraica, perché non fosse sottoposto il suo annuncio di gratuità («economia della gratuità» di Ef 3,2ss) anche solo al sospetto d’una strumentalizzazione per risolvere il problema del vivere. Di qui la necessità di lavorare con le proprie mani per trarne il sostentamento ed essere assolutamente gratuito nella predicazione.
«Lavorai giorno e notte» dice in diversi luoghi delle sue lettere, e non tanto iperbolicamente se teniamo conto delle cinque motivazioni del lavoro stesso, come riporta il discorso di Paolo agli anziani di Efeso (cf. At 20,33ss), fra le quali il sostentamento anche dei suoi collaboratori che non avevano la possibilità di lavorare per provvedervi da soli, sempre in viaggio a tenere i contatti fra le giovani Chiese e lo stesso Paolo. Anche loro, quindi, essendo suoi collaboratori, non dovevano far dipendere il loro sostentamento dal Vangelo. Quando poi Paolo, infermo o in prigione, non potrà sostentarsi col lavoro, solo allora accetterà l’aiuto dalla Chiesa di Filippi, ma non perché apostolo (anche da altre Chiese avrebbe dovuto pertanto accettarlo) bensì per amicizia (si ricordi la dolce violenza che gli fece Lidia in At 16,15, dove il verbo scelto da Luca per indicare l’irresistibile pressione di Lidia è lo stesso che usa per i due discepoli di Emmaus quando insistono perché lo sconosciuto entri in casa!).
Lavoro in primo luogo e amicizia poi sono, per Paolo, le due difese della gratuità dell’annuncio. Si raggiunge, così, attraverso l’esperienza di Damasco, il cuore della missione, come l’aveva indicato lo stesso Gesù: «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
All’inizio, dunque, delle Chiese d’Occidente (non si dimentichi che anche Barnaba, a detta dello stesso Paolo - cf. 1Cor 9,6 - era del medesimo sentire) sta questa scelta di gratuità assoluta che viene indicata come esempio da imitare (cf. At 20,35; 1Ts 1,6-7; Fil 3,17; e, soprattutto, 2Ts 3,9). Come mai, allora, si arrivò a dichiarare impossibile la gratuità dell’annuncio dopo poco meno di 20 secoli di storia di tale gratuità, scaturita impetuosa dal cuore di Cristo, fatta da Paolo un tutt’uno con la propria vita, e continuata come fiume più o meno abbondante, fluente o in secca, ma sempre presente, per lunghi anni magari alla maniera d’un fiume carsico, che all’improvviso riappare con freschissime acque? Giacché, volere o no, è un fatto innegabile che dal 25 gennaio 1987 il sacerdote, nel momento in cui è ordinato (ordo ad) alla celebrazione della Parola e dell’eucaristiaentra necessariamente nell’istituto del sostentamento del clero e gli viene quindi praticamente chiusa e sigillata la porta alla gratuità in quanto è sottoposto al gesto del do ut des che è il contrario del gesto gratuito, indipendentemente dall’uso che può fare di tale retribuzione.
Questi sono fatti oggettivi, dai quali è facilissimo scivolare via. Che l’illazione poi che ne traggo sia altrettanto oggettiva, bisognerebbe che lo si chiedesse a san Paolo. «Io non Enea, io non Paulo sono: me degno a ciò né io né altri ’l crede» (D. Alighieri, Divina Commedia, Inferno, II, 32-33). Non so se ci sia stato o ci sia un vescovo che, accettando quanto avvenne il 25 gennaio 1987, abbia pensato alla possibilità che qualche prete, avendo già gustato la gioia liberante della gratuità che fu di Paolo e del filone che ne discende e attraversa tutta la storia della Chiesa, si trovasse sconcertato e perdesse la ragione del vivere dopo che, praticamente, i suoi vescovi gli avevano dichiarato illusoria, senza fondamento, la gioia liberante che durava da due decenni e che lo faceva sentire immerso nella tradizione della sua Chiesa, non ai margini. È vero che la storia di un prete fra migliaia è solo una storia; ed è pur sempre vero che la morte di uno vale la salvezza di tutti. Ma qui entra in gioco quella gioia liberante che è un bene di tutti, che tutti dovrebbero avere la possibilità di sperimentare, i miei confratelli intendo.
La mia storia non interessa, io fui un graziato perché continuai a beneficiare di tale gioia: e sono altri vent’anni che debbo aggiungere a quelli di prima. E tuttavia non sarei onesto se dovessi tacere l’interrogativo che mi posi quando mi fu chiaro che in quel 25 gennaio 1987 l’istituzione ecclesiastica aveva fatto una ben altra conversio di quella di Paolo. E l’interrogativo è questo: se nel 1950, anno in cui fui ordinato prete, al posto del «non datevi pensiero (...) di quello che mangerete (...) guardate i gigli» (Lc 12,22.27) o dell’invio sine baculo, sine pera, sine calceamentis (cf. Lc 10,4), mi si fosse imposta una congrua retribuzione mensile, sarei diventato prete? Non so. Forse sì, forse sarei stato addirittura contento di queste viscere materne della mia Chiesa che si preoccupava, al mio posto, di quello che avrei mangiato; o forse no se qualcuno, col cuore di don Mazzolari, m’avesse parlato della gioia liberante della gratuità del ministero seguendo le orme di san Paolo, e non solo della povertà.
Anche in questo momento mi torna l’interrogativo, e anche ora do la stessa risposta del primo momento: la mia storia non è fondata sui «se», ma mi assicura che da cinquantasei anni sono prete e che da quarant’anni gusto la gioia liberante dell’essere gratuito nell’annunciare il gratuito. Come si può calcolare da questi numeri, io sono giunto ormai al termine della mia corsa. E se ho un testimone da trasmettere alla nuova staffetta che sta per iniziare la sua corsa per tradere a sua volta, eccolo: guardate alla radice dei termini che, nel Nuovo Testamento, indicano gratuità e gioia; è la stessa, char: char-is per gratuità, charà per gioia.
Chissà se posso, senza suscitare diffidenze o malintesi, ma lo dico ugualmente (tanto nessuno può strapparmi questa radice che dà senso ai miei quattro palmi di terra): Fratelli vescovi, introducete fra le materie di studio dell’ultimo anno di teologia la storia della gratuità nel ministero nei venti secoli della Chiesa, e fate voi stessi l’esame finale con la domanda sul significato che racchiude la festa del 25 gennaio, Conversione di san Paolo. Ad quid? chiedete ai vostri giovani candidati, o anche vecchi. E dalla loro risposta capirete se dovete chiudere l’esame con una seconda domanda: «E tu?».
Posso sognare che qualcuno risponderà: sì, eccellenza, proprio ad modum sancti Pauli, e che voi avrete la magnanimità di dargli fiducia e studierete con lui il modo di sostentarsi nell’immane libertà e gioia di non far dipendere il sostentamento dall’annuncio evangelico?
Posso sognare che questa utopia (il non-luogo) diventi una charis-topia (il luogo della gratuità) per qualcuno? Ma fosse anche nessuno, che sia però nella libertà di scegliere, avendo ben presenti i rischi dell’una e dell’altra risposta. È tutt’altra cosa scegliere liberamente l’assegno mensile che il doverlo «subire» ope legis.
L’importante è che anche in circostanze simili, uno, nessuno o centomila si diano onore e gloria all’Unico che nel suo stesso corpo crocifisso e risorto ha fatto dell’u-topia una charis-topia, come unica salvezza. Non è una conclusione consolatoria. Non c’è consolazione né nel ricevere né nel non ricevere l’assegno mensile per il fatto che si è preti. La sola consolazione è il potermi affidare, nel buio, a questo corpo che siede sul trono della gratuità, egli stesso il solo gratuito, «per ricevere misericordia (...) ed essere aiutati nel momento opportuno» (Eb 4, 16).
Non ho comunque difficoltà ad ammettere che queste «parolette brevi» (Paradiso, I, 95) abbiano tutta l’aria d’un monologo, con i fantasmi che tale termine suscita, più che di una dimostrazione attraverso venti secoli di storia della gratuità ministeriale, e, per giunta, un monologo partigiano. Luisito Bianchi*
* Don Luisito Bianchi è noto per la sua esperienza di prete operaio prima e di scrittore poi (La messa dell’uomo disarmato, Come un atomo sulla bilancia, Monologo partigiano sulla gratuità ecc.).
Ritrovata in mare Statua San Francesco di Paola La scultura in bronzo era scomparsa il 28 dicembre 2011
(ANSA) - CETRARO (COSENZA), 18 GEN - La capitaneria di porto di Cetraro ha ritrovato la statua di san Francesco di Paola, scomparsa il 28 dicembre scorso. Secondo quanto si e’ appreso la scultura bronzea si trovava sott’acqua a duecento metri circa dal luogo originario in cui era stata posta. Il ritrovamento e’ avvenuto grazie anche al lavoro svolto dal gruppo sub paolano, che in questi giorni ha piu’ volte setacciato i fondali del mare di Paola. (ANSA).
* ANSA, 18 gennaio 2012, 18:35:
http://www.ansa.it/web/notizie/regioni/calabria/2012/01/18/visualizza_new.html_46193739.html
Paola, ritrovata in mare la statua di San Francesco
E’ stato il sub Piero Greco a ritrovare la statua a circa 200 metri da dove era stata posta. Il sindaco di Paola lo ringrazia *
19/01/2012 E’ stato Piero Greco, a ritrovare la statua scomparsa; lui insieme ai suoi sub, dai primi giorni di gennaio ha lavorato per scandagliare lo specchio d’acqua del tratto di costa. Qualche settimana fa sempre Greco (nel riquadro) aveva vissuto la falsa emozione di aver ritrovato il monumento nel tratto di mare di Fuscaldo, prima di intravedere nell’acqua torbida il pezzo di un’antica imbarcazione. Ma ieri pomeriggio finalmente il ritrovamento ad una profondità batimetrica di 32 metri. La statua si presentava poggiata sul fondale con la base del piedistallo, lievemente inclinato, con il viso rivolto verso la città. Attorno qualche residuo di rete, ma tutto sommato in buone condizioni. Purtroppo gli manca il braccio con cui reggeva il bastone, di cui al momento non si ha traccia. L’ipotesi più accreditata della rimozione a fine dicembre, da parte di un peschereccio che effettuava in maniera fraudolenta la pesca a strascico sottocosta, ha trovato ieri la conferma.
La scultura era stata abbandonata dopo poco tempo a 200 metri circa in direzione nord ovest dal luogo dove rimossa, a un chilometro dalla foce del torrente Isca e ad una profondità di 29 metri. Determinante ieri l’individuazione della sua boa da parte della capitaneria di porto, che inizialmente era stata risucchiata sott’acqua e riaffiorata dopo che la sua catena si era sgrovigliata per effetto delle correnti sottomarine dalla imponente scultura bronzea e il suo piedistallo. La guardia costiera ha così prontamente allertato ieri pomeriggio Piero Greco, che giunto sul posto si è immerso e costatato che sotto c’era davvero il San Francesco.
IL SINDACO PERROTTA RINGRAZIA
«Con grande emozione ho accolto la notizia del ritrovamento di una statua che era diventata simbolo per tante persone che guardavano al mare anche attraverso la sua presenza. Pertanto esprimo un nuovo ringraziamento alla magistratura, alla capitaneria di porto, a tutti i pescatori e la gente di mare che si è prodigata in ogni momento e con uno sforzo anche economico per ritrovarla.
Un ringraziamento ancora più particolare al Gruppo subacqueo di Piero Greco -- ha sottolineato il sindaco Roberto Perrotta a nome dei devoti paolani - che forse più degli altri ha patito questo evento e che oggi si rallegra per il buon esito. A Piero che mi ha tenuto costantemente informato il plauso della nostra città, perché attraverso la sua opera meritoria ancora una volta ci ha fatto sentire partecipi di una bellissima avventura». Perrotta pensa ad organizzare qualcosa per ricordare questo lieto evento e farlo coincidere con una data significativa dal punto di vista religioso: «Speriamo adesso di poter accogliere al più presto la statua e di fare festa insieme a tutte le persone di buona volontà che guardano al nostro Santo con affetto e con trasporto. Sarebbe bello magari festeggiare in occasione del 7 febbraio, una delle date nelle quali Paola ricorda l’alto patronato di San Francesco».
Il sindaco spera nell’aiuto di tutti anche per trovare di nuovo le condizioni per poter allocare nel fondale del mare di Paola il San Francesco degli Abissi. Inoltre, la capitaneria di Porto dovrebbe avere individuato la nave che ha provocato il danno in maniera colposa, sradicando dal fondale la statua con le sue grosse reti e portandola alla distanza dove ritrovata e lasciata cadere giù. Si tratta di un illecito non perseguibile penalmente, che comporterà ovviamente un risarcimento. La Procura della Repubblica di Paola, pertanto, archivierà presto l’inchiesta penale.
L’idea di collocare la maestosa opera in bronzo nelle acque antistanti il litorale paolano partì da un ragazzino non vedente, durante uno dei numerosi raduni promossi dal centro Subacqueo paolano, per far vivere ai diversamente abili le bellezze del mare. Il bambino, toccando la statua sul lungomare di Paola, espresse il desiderio di toccarne una nel fondale. Da qui l’idea di realizzare l’opera in bronzo, alta due metri, condivisa dal centro Subacqueo di Piero Greco e sposata dall’amministrazione comunale, che venne posizionata sul fondale nel novembre del 2007.
* IL QUOTIDIANO DELLA CALABRIA, 19.01.2012
La legge del mare
di Enrico Peyretti *
Noi abitiamo la terra. La terra è rotonda, perciò ogni mia via incontra la tua. Ogni vivente è prossimo all’altro vivente, sulla sua stessa strada. Nessuno vive se non vive l’altro, tutto il tempo che gli è dato, nello spazio sufficiente a respirare, a volgere i passi e lo sguardo. Dicono anche che la tua morte è necessaria alla mia vita, ma chi fa questo toglie vita e aggiunge morte.
Dicevamo, la terra. Per la più gran parte, la terra è mare. La Genesi canta la separazione dell’acqua dalla terra, così che noi, a piedi asciutti, abbiamo visto fiorire la vita sulla terra nostra. Anche nell’acqua è vita, ma è una specie cugina, non è la nostra specie. Non è la nostra casa. Anche il mare abbiamo percorso, a rischio e coraggio, da sempre. Perché il mare separa ma anche congiunge le nostre terre. Il mare non conserva i segni dei passaggi, è immemore, non come la terra, ricca di infinite orme animali e umane.
Ma noi del mare abbiamo fatto una immensa via comune. È la via di tutti, da terra a terra, da riva a riva, da popolo a popolo, da lingua a lingua. Non la torre di Babele, a sfida del cielo, ma la grande piazza d’acqua, aperta in tutte le direzioni, e pochi e rari sono i mari chiusi, specchi di cielo e spazi entro le terre.
Il mare si lascia percorrere, la sua pelle è scorrevole, animata dal vento. Talora, però, si rifiuta, agitato scuote via i nostri gusci, li inghiotte. Là non si respira. Il mare entrato nel petto ci ferma il cuore. Non la terra soltanto ci è tomba, ma spesso il mare. Tanto che alcuni popoli, più che cercarlo, lo hanno temuto, fuggito, visto come bocca d’inferno vorace, simbolo del male, nemico della vita. Perciò gli umani, sul mare, forse più che sulla terra, hanno fatto tra loro alleanza. Se sulla tua via, che la mia incrocia, tu affondi, io ti devo salvare. Sul mare ogni vita vale una vita. Se accade che si veda «uomo in mare», ogni viaggio si ferma, ogni direzione si devia: l’uomo va tolto dalla bocca del mare.
È la legge del mare. L’umana legge del mare. Per questa legge l’uomo trova l’uomo, cioè trova se stesso. Trova che l’uomo vale più del commercio, della conquista, dell’avventura e della guerra. Anche il nemico devi salvare dal mare. Anche lo straniero. Anche l’immigrato. Devi salvare l’uomo dal mare, per essere tu uomo.
Abbiamo violato la legge del mare. Abbiamo violato l’unica umanità. Abbiamo stabilito che chi per noi non ha diritto di venire a noi può anche morire in bocca al mare.
E poi, per godimento ed esibita ricchezza, abbiamo sfidato il mare costruendovi sopra torri di Babele fragili quanto enormi. Abbiamo giocato con la nostra grandezza ridicola, davanti alla grandezza del mare. Dal Titanic alla Concordia il mare ci avverte: «Vi posso condurre da terra a terra, da riva a riva, se ricordate che non siete Titani ma umani, e se vivete in concordia e non in sfida vanitosa, anche sfidando me, la mia pelle procellosa e i miei seni misteriosi, ridendo delle mie forze. Siate saggi, uomini di terra, e io vi sarò come aperta via, che congiunge tutte le terre, simbolo, se vorrete, della pace comune, nella bellezza dei miei larghi orizzonti».
* www.finesettimana.org, 17 gennaio 2012
Ferrovie, protesta a Paola contro i tagli di Trenitalia
Alla manifestazione contro il taglio dei treni dal sud verso il resto dell’Italia partecipano numerosi sindaci e il parlamentare del Pd, Franco Laratta
16/01/2012 I binari della stazione di Paola, sul tirreno cosentino, sono stati occupati per alcuni minuti da numerosi sindaci e dal parlamentare del Pd, Franco Laratta, nel corso di una manifestazione organizzata contro il taglio dei treni dal sud verso il reso d’Italia. La protesta non ha provocato disagi alla circolazione ferroviaria: «Abbiamo deciso di occupare - ha detto Laratta - in modo simbolico i binari senza creare disagi alla circolazione. Con il taglio attuato da Trenitalia l’Italia è spezzata in due, e questo accade proprio nell’anno in cui abbiamo festeggiato i 150 anni dell’Unità nazionale».
All’iniziativa stanno partecipando venticinque sindaci dei comuni cosentini, rappresentanti della Provincia di Cosenza, il parlamentare del Pd, Franco Laratta, e numerosi viaggiatori. Dopo l’occupazione simbolica dei binari la manifestazione si è spostata nella stazione dove sono state illustrate le motivazioni della protesta.
«Trenitalia - ha proseguito Laratta - ha attuato una politica scellerata cancellando tutti i treni a lunga percorrenza. Sono stati eliminati i treni che viaggiavano durante la notte ed ora ci troviamo nelle condizioni che non esiste più un collegamento diretto con il nord dell’Italia. E’ una situazione intollerabile alla quale non escludiamo di poter rispondere anche con una class action. La nostra è una battaglia in favore di un diritto costituzionale che è quello della libertà di movimento».
* IL QUOTIDIANO DELLA CALABRIA, 16/O1/2012.
BENEDETTO XVI
La preghiera di Gesù nell’Ultima Cena *
Cari fratelli e sorelle,
nel nostro cammino di riflessione sulla preghiera di Gesù, presentata nei Vangeli, vorrei meditare oggi sul momento, particolarmente solenne, della sua preghiera nell’Ultima Cena.
[...] le tradizioni neotestamentarie dell’istituzione dell’Eucaristia (cfr 1 Cor 11,23-25; Lc 22, 14-20; Mc 14,22-25; Mt 26,26-29), indicando la preghiera che introduce i gesti e le parole di Gesù sul pane e sul vino, usano due verbi paralleli e complementari. Paolo e Luca parlano di eucaristia/ringraziamento: «prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro» (Lc 22,19). Marco e Matteo, invece, sottolineano l’aspetto di eulogia/benedizione: «prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (Mc 14,22). Ambedue i termini greci eucaristeìn e eulogeìn rimandano alla berakha ebraica, cioè alla grande preghiera di ringraziamento e di benedizione della tradizione d’Israele che inaugurava i grandi conviti. Le due diverse parole greche indicano le due direzioni intrinseche e complementari di questa preghiera. La berakha, infatti, è anzitutto ringraziamento e lode che sale a Dio per il dono ricevuto: nell’Ultima Cena di Gesù, si tratta del pane - lavorato dal frumento che Dio fa germogliare e crescere dalla terra - e del vino prodotto dal frutto maturato sulle viti. Questa preghiera di lode e ringraziamento, che si innalza verso Dio, ritorna come benedizione, che scende da Dio sul dono e lo arricchisce. Il ringraziare, lodare Dio diventa così benedizione, e l’offerta donata a Dio ritorna all’uomo benedetta dall’Onnipotente. Le parole dell’istituzione dell’Eucaristia si collocano in questo contesto di preghiera; in esse la lode e la benedizione della berakha diventano benedizione e trasformazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Gesù [...]
Lettera alle teologhe e ai teologi italiani di alcuni presbiteri e teologi
in “Adista” n. 1 del 7 gennaio 2012 *
«Dove stai tu quando si soffrono cambiamenti climatici e cambiamenti di umore? Dove stai tu mentre il nostro pianeta va al collasso e le multinazionali e le banche, vendute al dio profitto e al dio denaro, governano il mondo? Dove stai tu quando si deve decidere se intervenire per sostenere un intervento armato della Nato nella terra degli altri? Dove stai tu quando si riducono tutte le spese per il sociale, la sanità e la scuola, mentre continuano ad aumentare i bilanci della difesa e si spendono cifre folli per le armi? Dove stai tu quando la gente dei Sud del mondo si sospinge fino alle spiagge di Lampedusa e viene ricacciata indietro o chiusa nei Cie, colpevoli soltanto di immigrazione? Dove stai tu quando qualcuno dice che l’ex primo ministro è meglio che un politico dichiarato gay, perché il primo è “secondo natura”? Dove stai tu quando il bilancio familiare è insufficiente e si vive una precarietà che riduce a brandelli sogni e progetti? Dove stai tu quando gli indignados scendono in piazza o fanno rete virtuale su internet?
E ancora... perché accettiamo solamente che qualcuno tenga le chiavi del Regno e decida chi farci entrare? Forse tu ci sei? E se ci sei, ci sei clandestinamente perché la tua teologia non appartiene a questi ambiti?
Quando il profeta Gioele (3,1-2) dice che tutti diventeranno profeti e gli anziani faranno sogni e i giovani avranno visioni, a chi si rivolge? Forse non parla a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo? E allora, se fare sogni e interpretarli e diventare profeti è proprio della teologia, non è forse vero che tutti i credenti sono teologi? E perché non glielo diciamo più?».
Alessandro Santoro (prete della Comunità delle Piagge di Firenze),
Antonietta Potente (teologa domenicana),
Andrea Bigalli (prete di S. Andrea in Percussina, Firenze),
Pasquale Gentili (parroco di Sorrivoli, Cesena),
Benito Fusco (frate dei Servi di Maria),
Pier Luigi Di Piazza del Centro Balducci di Zugliano (Udine),
Paolo Tofani (parroco di Agliana, Pistoia)
Éric Jaffrain: «La fede non è un prodotto come gli altri»
intervista a Éric Jaffrain, a cura di Nadia Henni-Moulaï
in “www.temoignagechretien.fr” del 28 dicembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Lei parla della Chiesa come un “prodotto”. Che cosa significa?
Da diversi anni, la Chiesa (cattolica) presenta la religione come si presenta un prodotto di consumo, usando l’approccio nato dal marketing commerciale. A mio avviso, si tratta di un errore strategico fondamentale: la Chiesa non deve vendere se stessa, ma il suo prodotto centrale. Non si vende la fede come uno spazzolino da denti.
La Chiesa sarebbe quindi un’azienda...
Assolutamente! Ma che manca di chiarezza nella sua visione, nella sua missione e nei suoi prodotti. La sua strategia d’impresa è troppo legata alla propria marca, in quanto cerca di venderla come prodotto centrale. Oggi, la Chiesa difende più la propria azienda che Dio, nel senso che il packaging (riti, forme di devozione, atmosfera, gerarchia) diventa il modo di consumo inaggirabile. In questo, l’istituzione si è sostituita alla figura divina: prima di tutto, non siete credenti, ma cattolici.
Perché?
Perché il pensiero collettivo viene prima della devozione personale. Se un prete, ad esempio, desidera esprimersi in maniera diversa dalle procedure stabilite, la sua iniziativa verrà limitata, se non bloccata dalla gerarchizzazione. Ogni dignitario cattolico dipende dai suoi “superiori”, così come l’individuo membro di questo movimento.
Ma possiamo dire che anch’essa ha avuto i suoi “indignati” fin dagli anni ’80, con il movimento carismatico (le Renouveau), che ha obbligato a maggiore libertà, come molti secoli prima hanno fatto i gesuiti o i domenicani. Questi ultimi, recuperati dall’istituzione, hanno rafforzato il suo potere dirigenziale.
Questo marketing molto speciale non è alla base di una forma di proselitismo?
Ad un certo livello sì. I numeri recenti lo indicano. Nel mondo, il cattolicesimo mostra una tendenza alla diminuzione, contrariamente al protestantesimo e all’islam. Tutta la strategia marketing consiste nel riconquistare “le parti di mercato” perdute, con il sostegno di campagne di comunicazione, per dare un’immagine giovanile e new look dell’istituzione. Da qui deriva una vera strategia di marketing dispiegata nei confronti degli individui. Una religione che vuole conservare le sue parti di mercato adotta una linea di conquista, come le aziende concorrenti.
Quindi si parla di modo di consumo e di religione...
Questo è il rischio. La Chiesa, come ogni altra religione, che vende se stessa piuttosto che rendere la spiritualità accessibile, prende il posto di Dio. Anche se non si parla direttamente di marketing commerciale, i metodi sono estremamente simili: la religione, per mantenere la sua leadership moltiplicherà i modi di consumo: quasi inevitabilmente arriverà a proporre dei prodotti di richiamo, populisti, che attraggono o che obbligano, per valorizzare l’istituzione a scapito del consumo del prodotto centrale, cioè della fede.
Ma forse le cose stanno mutando, e obbligheranno le religioni al cambiamento: il cittadino cerca di allontanarsi dall’istituzione per essere più vicino a un Dio che rivendica essere il suo prima di essere quello dell’istituzione. Il prodotto reclamato non è più la Chiesa, ma la fede, Dio, Gesù. La società civile si appropria del religioso, che diventa “ecologico”.
Non dimentichiamo che il valore di un prodotto è dato da colui che lo consuma e non da colui che lo vende. Un prodotto è “buono” solo se, consumato, migliora l’opinione o il benessere del consumatore. Lo stesso vale per la religione: non è lei che cambia interiormente l’essere umano, ma ciò che viene dall’alto. Se la religione non è un “buon prodotto dall’alto”, ha solo legittimità per se stessa; di fatto, la si rifiuterà e con essa tutta la spiritualità.
E l’islam in tutto questo?
Anche se l’islam non ha una gerarchia come la Chiesa cattolica, certi movimenti musulmani, o lacultura islamica di certi paesi, hanno la stessa tendenza a vendere la loro ideologia come elemento centrale, inaggirabile, per il cittadino, il che dà la sensazione che anche l’islam difenda il proprio ambito d’influenza. E come in Francia prima del 1905 (data della separazione della Chiesa e dello Stato) sembra voler dettare le regole dei cittadini secondo le proprie regole.
Da qui derivano le polemiche che l’islam suscita in Francia e in Europa. La paura di veder sorgere uno Stato religioso spiega gli irrigidimenti nei confronti di questa religione. Se una ideologia politica, una religione, o perfino una certa economia, tenta di imporsi nella società civile, creerà o conflitti o diffidenza. Il religioso, o più “ecologicamente”, lo spirituale, è necessario alla società, come la laicità. E anche se verticale e orizzontale non hanno gli stessi fondamenti, possono incrociarsi. L’islam ha forse questo approccio, ma l’Europa non l’ha inteso così. Allora questa religione deve rassicurare e affermare che le libertà sono rispettate.
In questo, penso che l’islam potrebbe fare un vero marketing. In compenso, certi movimenti o eventi islamici mi fanno pensare agli stessi comportamenti cattolici, che assumono un marketing di conquista, piuttosto che un marketing del dono.
Molte persone deplorano l’aspetto unicamente commerciale del Natale. Lei è d’accordo?
Sì, Natale è diventato un business prima di essere una festa religiosa; e questo per due ragioni. Innanzitutto, la Chiesa è responsabile di questo stato di fatto. Come ho già spiegato precedentemente, poiché la Chiesa non è più legittima, non lo sono più neanche i suoi prodotti, tra cui il Natale. Inoltre, essendo il Natale un riferimento storico e culturale molto popolare, è stato conservato dalla religione... commerciale, che cerca di aumentare il suo giro d’affari. Oggi la gente vive questa festa senza veramente metterla in relazione a Cristo. Eppure, la ricerca di spiritualità diventa una tendenza pesante: si cerca Dio, ma non in chiesa.
Sì, ma i credenti hanno comunque il loro libero arbitrio...
Infatti, è per questa ragione che è ingiusto sentire la Chiesa dire al mondo secolare: “Voi avete buttato fuori Gesù.” Perché la Chiesa ha protetto il suo ambito d’influenza, rendendo inaccessibile la figura di Cristo e la fede. Poiché tutti i consumi devono passare dall’istituzione, questo sopprime la libertà di credere. Accettando Natale come una festa commerciale, il cittadino non manifesta necessariamente un rifiuto a credere, ma una reazione a un potere.
Il marketing religioso è quindi a servizio di interessi non spirituali?
In effetti può esserlo. È una delle ragioni per cui il mio concetto di marketing è fondato sul dono, e non sul profitto né sulla performance. Lo spirituale, come il secolare, può essere legittimato ad andarsene dal momento che non contribuisce all’economia totalitaria che abbiamo attualmente. Gli industriali hanno imposto al grande pubblico un modo di acquistare e di consumare. L’obsolescenza programmata dei prodotti ne è un buon esempio. Tutto è fatto per spingerci al consumo: il cittadino, prima di essere un umano, deve essere un consumatore e un oggetto di risorsa per l’impresa.
Pur usando parole diverse, la religione può comportarsi nello stesso modo: reclutare dei praticanti della sua ideologia, e non rispondere alla ricerca di spiritualità, di libertà e di felicità. La società è in grave crisi e si cerca. Ha bisogno di guarigione per i suoi cittadini in maniera olistica, cioè nelle sue quattro componenti: quella fisiologica, quella sociale, quella emozionale e quella spirituale. E la componente religiosa può essere di aiuto, in quanto lavora alla riconciliazione dell’uomo con se stesso, con l’altro e con il divino.
(articolo pubblicato anche sul n° 33 di Salamnews, dicembre 2011)
* Consulente in marketing non commerciale, ha creato il concetto di “gift economy”, l’economia del dono. Autore di La Guérison de l’économie (Éd. Jouvence), che sarà pubblicato nel 2012.
Wikipedia e il cardinale
di Gianni Barbacetto (il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2011)
Può il Vaticano far cambiare una voce di Wikipedia? Sì, può farlo. È successo per la voce su Angelo Scola, il nuovo cardinale arcivescovo di Milano, proveniente dal movimento di Cl. Tutto è nato da un articolo del Fatto Quotidiano, pubblicato il 19 giugno 2011: “Alla vigilia dell’ordinazione, il rettore Attilio Nicora decide di ‘fermare’ il giovane Scola. Il seminario milanese ha una tradizione antica e prestigiosa, che risale a San Carlo Borromeo: non può tollerare che alcuni seminaristi vivano tra i chiostri silenziosi di Venegono come fossero un corpo separato, senza riconoscere davvero l’autorità dei superiori, dei professori, dei teologi, del padre spirituale, perché hanno i loro maestri, i loro superiori, i loro teologi, i loro padri spirituali. Monsignor Nicora spiega ai ciellini che vogliono farsi ordinare preti che non possono usare il seminario ambrosiano come fosse un taxi”. Dunque l’attuale arcivescovo di Milano è stato, da giovane, di fatto espulso dal seminario milanese.
La vicenda finisce su Wikipedia, che cita la fonte: l’articolo del Fatto. A questo punto, però, si muove padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana. Contatta, con estrema cortesia, il sottoscritto, chiedendogli se è in grado d’indicargli la via per far cambiare la voce di Wikipedia, poiché questa mette in grave imbarazzo un altro cardinale, monsignor Attilio Nicora, il quale nega di aver “fermato” Scola: questi viene ordinato sacerdote nel luglio 1970, mentre Nicora diventa rettore del seminario milanese soltanto nell’ottobre successivo. Chi scrive non sa dare al gentilissimo padre Lombardi alcuna indicazione utile su come cambiare una voce di Wikipedia. Ma passano alcune settimane e accade il miracolo.
Dall’enciclopedia on line scompare la notizia di Scola “fermato” per “settarismo”, sostituita da una nota che dice così: “Gianni Barbacetto, nel suo articolo ‘Scola a Milano, la rivincita del vescovo di Cl’, sostenne che ‘alla vigilia dell’ordinazione il rettore Attilio Nicora decide di fermare il giovane Scola’, perché aderente al movimento di Cl. Questa vicenda non trova conferma nella realtà, in quanto Scola fu ordinato nel luglio 1970 e Attilio Nicora divenne rettore del seminario solo il 7 ottobre 1970. Lo spostamento di Scola a Teramo fu motivato dalla decisione dei suoi superiori a Venegono di attendere 18 mesi di ferma militare prima della sua ordinazione; Scola preferì invece essere ordinato subito”.
Ammettiamo allora che non sia vera la vox populi che attribuisce proprio a Nicora - non ancora rettore, ma già autorevole professore a Venegono - la decisione di “fermare” il ciellino candidato al sacerdozio. La decisione formale è quindi del rettore precedente, l’indimenticato monsignor Bernardo Citterio. Ma la sostanza resta immutata: la diocesi di Milano sceglie di non procedere neppure all’ordinazione diaconale di Scola, che gli avrebbe evitato il servizio militare. È di fatto un’espulsione.
Vecchie storie degli anni Settanta, in cui le passioni ideologiche erano forti, a destra, a sinistra e anche nella Chiesa. Nei decenni successivi, Scola non ha mancato di dimostrare libertà di pensiero e autonomia anche dal movimento in cui è cresciuto. Ma i fatti restano fatti: Wikipedia ora cambierà di nuovo la voce su Scola, cardinale arcivescovo di Milano e, chissà, possibile futuro papa?
ITALIA.
NATALE 2008 DOPO LA NASCITA DEL MESSIA... *
Per il generale e comune mondo accademico (laico e religioso), la parola "Cristo" (in greco) traduce la parola "Messia" (in ebraico), che viene fatta derivare dalla parola mashìach (משיח, "unto") ...
SEMBRA TUTTO CHIARO - COME L’ACQUA. Ma qui si parla di "unto" e, quindi, di "olio". E la cosa non è affatto chiara. E la "Vox populi", fosse anche la "voce" del popolo dotto e dei dottori, non è coincisa mai con la voce di Dio (Vox Dei). E’ stata sempre e solo uno strumento e uno slogan di manipolazione del popolo-massa da parte dei vari Signori della Terra e della Guerra.
IL MESSIA NON E’ AFFATTO UN "UNTO", UN MESSO DI DIO. A rigor di logica e di testi evangelici, la differenza è abissale, come tra il messaggio dell’Imperatore (ricordiamo la lezione di Kafka) portato da un com-messo - un funzionario, e il figlio dell’Imperatore, inviato dall’Imperatore stesso, che è uno con il Padre ed è il messaggio in persona - in carne ossa e spirito.
Per risalire la corrente e, come un pesce salomonico ("Ichthus"), ritrovare la sorgente d’acqua viva, dobbiamo quanto meno ripensare al "perch’io te sovra te corono e mitria" di Virgilio a Dante (Purg.; XXVII, 142) a Lutero (sacerdozio universale) e a don Milani (sovranità universale) e ricordarci di Melchisedech.
Il MESSIA è CHI sa CHI è, CHI sa CHI lo manda, e che sa CHE COSA vuole e CHE COSA viene a fare. Non è un servo - e non è "unto" (come un pesce morto, pronto da friggere)! Porta la "spada" come Salomone, e porta la "luce", il "fuoco" che non brucia, e illumina le tenebre! Egli sa da dove viene e dove va: al di qua e al di là di Mosè e di Elia, egli è il Principio e la Fine, l’Alfa e l’Omega.
IL MESSIA E’ IL FIGLIO DI DIO, E DEL DIO AMORE ("DEUS CHARITAS EST", 1 Gv., 4, 1-16). Con il Padre e insieme al Padre, lo Spirito Santo ("Deus charitas est"), Egli è il Messaggio e il Messaggero! La Verità, tutta intera, di fronte a Pilato: Gesù, "Dio salva". E’ la Persona che è la via la verità e la vita, per tutti gli esseri umani per procedere verso la Salvezza, la Terra Promessa - il Regno di Dio (Charitas - Amore).
QUESTO E’ IL MESSIA. E questo Messia è già venuto - ed è il figlio del Dio di Giuseppe e di Maria!!!. La luce splende nelle tenebre: è nato il Messia, è nato Gesù ("Dio salva") , oggi - e per l’eternità.
La tragedia è finita. Il buon-messaggio è arrivato sulla Terra: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli esseri umani di buona volontà...
ORA TUTTO CAMBIA ED E’ TUTTO CAMBIATO. "ORA", NOI, tutti gli esseri umani, SIAMO DIVENTATI PER NOI STESSI UN GRANDE PROBLEMA!!!
DA AGOSTINO, A ROUSSEAU, A NIETZSCHE, A WITTGENSTEIN, SEMPRE LO STESSO INTERROGATIVO. La questione antropologica antica ("che cosa è l’uomo?") diventa un’altra. Ora - dopo la venuta del Messia, dopo la venuta di "Cristo", siamo sollecitati e costretti a interrogarci diversamente, con più profondità e con più altezza: "CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?"(Nietzsche). "L’Io, l’IO, è il mistero profondo - e non in senso psicologico"(Wittgenstein).
"QUI E ORA", TOCCA A NOI DECIDERE. Siamo noi, tutti gli esseri umani, il Messia che deve venire sulla Terra.... ed è "qui e ora" che siamo chiamati a svegliarci e a decidere. Continuare ad essere servi, olive da schiacciare e farne olio dei vari Signori di Mammona di turno (come il teologo della "Dominus Jesus" e della "Deus caritas est" dell’af-faraonismo vaticano) per ungere il loro inviato di turno o, diversamente, diventare fratelli e compagni di viaggio di Gesù e quindi figli e figlie dello Spirito del Dio (Charitas)dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti.... decisi, finalmente, a vivere e a operare in Spirito di Giustizia e Pace?!
SAPERE AUDE! IL MOTTO DELL’ILLUMINISMO KANT LO RIPRENDE VIENE DAL LATINO DI ORAZIO E NON SIGNIFICA SOLO AVER IL CORAGGIO INTELLETTUALE DI SAPERE. Richiama l’esperienza e la sensibilità: significa anche avere il coraggio di as-saggiare.
Nella Lingua d’Amore (Charitas) della Buona Novella (Eu-angelo) e della Buona-Grazia (Eu-Charistia), significa accogliere l’invito alla tavola della Sapienza del Messia (e non di qualche Cannibale unto dal Signore del posto) ed essere accolti a nostra volta come Messia: Prendete, questo è il mio corpo... questo è il mio sangue....
E’ una rinascita e una risurrezione, non la morte e la devastazione senza fine. Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). E’ l’inizio di un’amicizia infinita - non di una guerra, e di un dialogo nuovo - nella Lingua d’Amore.
La tragedia è finita. Inizia la Commedia. E Dante è sempre qui a ricordarcelo...
Il Messia è nato.
Che il Messia che deve venire, venga finalmente...
Moltissimi, moltissimi Auguri...
BUON NATALE
Federico La Sala (18.12.2008)
Crisi: donna in chiesa grida d’ aver fame. Prete, ora basta
A Palermo fedeli immobili *
(ANSA) - PALERMO, 8 DIC - Fedeli immobili, stamane a Palermo, mentre il sacerdote della chiesa di San Giuseppe dei Teatini celebra la messa e una donna che assiste alla funzione grida: ’’Dov’e’ la carita? Guardate come sono ridotta’’. La donna avanza verso l’altare, mentre il prete continua la sua omelia, e grida ancora: ’’Sono qui, senza niente. Non ho soldi e mi hanno sfrattata. E dove per ora dormo il frigorifero e’ vuoto e io muoio di fame’’. Una signora e poi un sagrestano tentano di calmarla, ma la donna insiste: ’’Ho fame e il mio frigorifero e’ vuoto’’. A questo punto il sacerdote interrompe l’omelia e le dice: ’’Signora, basta’’.(ANSA).
http://www.ansa.it/web/notizie/regioni/sicilia/2011/12/08/visualizza_new.html_8294091.html
IL NATALE CRISTIANO: L’ARCA DELL’ALLEANZA, IL PRESEPE, E L’AMORE ("CHARITAS") CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE. Una nota
AI DUE CHERUBINI E AI DUE COLOMBI ... A MARIA E GIUSEPPE - E GESU’!!!
COME DA ARCA DELL’ALLEANZA ... COME DAL "GLORIA A DIO NEL PIU’ ALTO DEI CIELI", COME DALLA LEZIONE DEL PRESEPE DI SAN FRANCESCO ("Va’, ripara la mia casa") - E DI DANTE:
DEUS CHARITAS EST (1 Gv.: 4.8)
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", Così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!!
Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri".
L’Amore ("Charitas") muove il Sole e le altre stelle ... e non la Ricchezza ("caritas") del "santo-padre" del cattolicesimo-costantiniano.
In principio era il Logos - non il "Logo" della tradizione vaticana del "Latinorum"!!!
Buon Natale!!!
Federico La Sala
Nelle Fiandre sono 6 500 i sottoscrittori del Manifesto per la riforma della Chiesa
di JA - die neue Kirchenzeitung
in “www.ja-kirchenzeitung.at” n° 50 dell’11 dicembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il Manifesto per la riforma della Chiesa pubblicato in Belgio da 50 preti e laici fiamminghi incontra ampio consenso. Al 3 dicembre è stato sottoscritto da 6500 credenti, di cui 250 preti, 35 diaconi, 60 religiose e 100 “Pastores”. Questi ultimi sono dei laici che svolgono attività pastorale in parrocchie, associazioni o ospedali cattolici. Diverse centinaia di sottoscrittori sono o erano insegnanti in scuole cattoliche. Molti firmatari svolgono attività nelle parrocchie con incarichi onorifici. Il gruppo di iniziativa “Kerkenwerk” (lavoro per la Chiesa) si riunirà venerdì 9 dicembre per decidere in quali modo procedere in futuro, come ha comunicato Mark Deweerdt. L’iniziativa è limitata alle Fiandre, cioè alla parte settentrionale del Belgio, con 6,3 milioni di abitanti.
SANT’AMBROGIO - AMBROSIUS, In Epistolam Beati Pauli Ad Corinthios Primam, Caput XIII, Vers. 4-8.
La Chiesa non fa sacrifici
Esenzione dell’Ici, otto per mille, insegnanti di Religione diventati statali, fondi alle scuole cattoliche e altri privilegi che il Vaticano non vuole toccare: dov’è la sobrietà invocata dal cardinale Scola?
di Marco Politi (il Fatto, 07.12.2011)
La Chiesa si autoesenta, sacrifici mai. Resta attaccata ai suoi privilegi, ma è prodiga di consigli sull’equità della manovra. È da agosto che l’opinione pubblica aspetta dalla Cei un segnale di disponibilità ad aiutare lo Stato a ripianare il suo debito colossale. In tempi passati i vescovi fondevano l’oro dei sacri calici per sostenere la difesa di un regno invaso. Ora che il nemico finanziario è molto più subdolo e spietato, non succede nulla. Dalla gerarchia non è giunto il più piccolo segnale di “rinuncia”. Solo la dichiarazione del Segretario di Stato Vaticano, Tarcisio Bertone, che ha affermato: “Il problema dell’Ici è un problema particolare, da studiare e approfondire”. Eppure quello che pensano gli italiani è chiarissimo. Sono contrari all’esenzione dell’I-ci, sono contrari a spolpare le casse dello Stato ai danni della scuola pubblica, perché credono al principio costituzionale che chi fonda una scuola privata la paga con i propri soldi. Soprattutto gli italiani sono convinti a grande maggioranza che la Chiesa predica bene e razzola male. Vedere per credere l’indagine del professor Garelli sulla “Religione all’italiana”.
QUANDO si parla di soldi, la gerarchia ecclesiastica si rifugia subito nel vittimismo, accusa complotti da parte dei nemici della Chiesa, si attacca a errori di conteggio sbagliati per qualche dettaglio o di chi mette sullo stesso piano la Cei (organismo nazionale) e il Vaticano, realtà internazionale. Nessuno trascura l’aiuto sistematico che è venuto in questi anni alle fasce più povere da parrocchie, episcopato e organizzazioni come la Caritas o Sant’Egidio. Ma ora è il momento di gesti straordinari e di uno sfoltimento di privilegi come avviene in tutto il Paese. Ci sono fatti molto precisi su cui la gerarchia non ha mai dato risposta e che costituiscono privilegi inaccettabili specialmente nella drammatica situazione economica attraversata dal Paese.
Ne elenchiamo alcuni, che indignano egualmente credenti e diversamente credenti. Non limitare l’esenzione Ici agli edifici strettamente di culto è un’evasione fiscale legalizzata. L’attuale sistema di conteggio dell’8 per mille è truffaldino perché non tiene conto del fatto che quasi due terzi dei contribuenti - non mettendo la crocetta sulla dichiarazione delle tasse - intendono lasciare i soldi allo Stato. In Spagna, dove è stato a suo tempo copiato il sistema italiano, si conteggiano giustamente soltanto i “voti espressi”. In Germania il finanziamento alle chiese luterana e cattolica avviene con una “tassa ecclesiastica” che grava direttamente sul cittadino. Se il contribuente non vuole, si cancella. L’attuale sistema dell’8 per mille è uscito fuori controllo. Doveva garantire una somma più o meno equivalente alla vecchia congrua data dallo Stato ai sacerdoti, ma essendo agganciata all’Irpef la somma che il bilancio statale passa alla Cei è cresciuta a dismisura. Nel 1989 la Chiesa prendeva 406 miliardi di lire all’anno, oggi il miliardo di euro che incassa equivale a quasi 2.000 miliardi di lire. Cinque volte di più!
L’8 per mille è stato pensato (ed è approvato come principio dalla maggioranza degli italiani) per finanziare il clero in cura d’anime e l’edilizia di culto in primo luogo. Ciò nonostante la Chiesa si fa pagare ancora una volta a parte i cappellani nelle forze armate, nella polizia, negli ospedali, nelle carceri, persino nei cimiteri. Si tratta di decine di milioni di euro. Nessuno ignora quanti splendidi preti siano impegnati specialmente nelle prigioni, ma è il sistema del pagamento aggiuntivo che non è accettabile. Lo stesso vale per le decine di milioni aggiuntivi versati dallo Stato, dalle regioni e dai comuni per l’edilizia di culto, che è già coperta dall’8 per mille.
PER NON PARLARE dei milioni di euro elargiti ogni anno attraverso la famigerata “Legge mancia”. Invitando a uno stile di vita più sobrio per la festa di san-t’Ambrogio in Milano, il cardinale Scola afferma che con gli anni si è stravolto il concetto di “diritti”. In un clima di benessere e “senza fare i conti con le risorse veramente disponibili si sono avanzate pretese eccessive in termini di diritti nei confronti dello Stato”. Verissimo. C’è da aggiungere che anche la Chiesa ha partecipato alla gara. Non è bastato che gli insegnanti di Religione venissero stipendiati dallo Stato, si è preteso che da personale extra-ruolo venissero anche statalizzati. Contemporaneamente si è iniziato a mungere le casse statali per finanziare le scuole cattoliche. Altrove in Europa lo fanno, ma non c’è l’8 per mille. È l’ingordigia nel ricorso ai fondi statali che spaventa.
Quanto al Vaticano, i Trattati lateranensi garantiscono ad esempio un adeguato fornimento d’acqua al territorio papale. Non è prepotenza il rifiuto di contribuire allo smaltimento delle acque sporche? Costa all’Italia 4 milioni di euro l’anno. Cifra su cifra ci sono centinaia di milioni che possono essere risparmiati. Il premier Monti può fare tre cose subito. Decretare che, come accade in Germania e altri Paesi, i finanziamenti statali vanno solo a enti che pubblicano il bilancio integrale di patrimoni e redditi: così gli italiani e lo Stato conosceranno il patrimonio delle diocesi. Limitare l’esenzione dell’I-ci esclusivamente agli edifici di culto. Attivare la commissione paritetica prevista dall’art. 49 della legge istitutiva dell’8 per mille per rivedere la somma del gettito. Sarebbe molto europeo.
A MEMORIA FUTURA. Una nota
Dal 2006, sul Vaticano, in Piazza san Pietro, sventola il "Logo" del Grande Mercante e del Grande Capitale: Benedetto XVI, "Deus caritas est" (2006) .... ma nessuno ancora se ne è accorto!!! Si continua a parlare e a confondere "eu-charitas" con "eu-caritas", "eu-charistia" con "eu-carestia" ... così va la Chiesa e il mondo - dentro il capitale!!!
"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1Gv., 4, 1-8).
Eppure Giovanni Paolo II aveva detto: "Se sbalio, mi coriggerete"!!!
Ma nessuno, nessuno, si è alzato e ha avuto il coraggio di prendere la parola - la Parola ...
Dal 2996 a oggi, tutti e tutte - cardinali, vescovi, preti, accademie pontificie, teologi e teologhe, filosofi e filosofe, - hanno taciuto e ... acconsentito - divinamente o, che è lo stesso, capitalistica-mente al ’nuovo’ corso!!! E tacciono ancora - ovviamente!!!
A maggior gloria della menzogna filologica, teologica, e antropologica ... del cattolicesimo-costantiniano e del capitalismo (vecchio e ’nuovo’)!!!
Qui di seguito, per non dimenticare, alcune variazioni sul tema - nel sito:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est") E AL GOVERNO DELL’ **ITALIA** UN PRESIDENTE DI UN PARTITO (che si camuffa da "Presidente della Repubblica"), che canta "Forza Italia" con il suo "Popolo della libertà" (1994-2011). Questo è il nodo da sciogliere (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3811)
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! Ha dimenticato l’esortazione di Papa Wojtyla ("Se mi sbalio, mi coriggerete")?! (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3699)
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!! (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/breve.php3?id_breve=294)
SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO. (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4089)
Federico La Sala
Ma perché il Vaticano non paga l’Ici?
di Pino Corrias (il Fatto, 12.06.2011)
NON AVENDO Ruby da farsi perdonare, né lo spergiuro sulla testa dei figli, né tanto meno le vacanze con Previti, Gheddafi e Putin, ci chiedevamo cosa diavolo avesse Mario Monti da farsi perdonare per avere messo in salvo anche questa volta il Vaticano dalla nuova fucilazione di tasse che a quanto pare dovrebbe salvarci la pelle, bucherellandocela. Tra le ragioni azzardavamo pure la santità di Corrado Passera che per di più risulta un poco ottenebrata dal recente divorzio e perciò ancora più sensibile ai soffici ammonimenti della virtuosa gerarchia.
Ci chiedevamo (dunque) come mai venisse di nuovo tassata la prima casa di tutti i cristiani, tranne quella dei padri della cristianità. E insomma, perché mai le grasse casse di Ratzinger che già ci aspirano l’8 per mille non dovessero almeno restituirci i 600 milioni di Ici non versati ogni anno. È a quel punto della giornata che si è fatto vivo monsignor Giancarlo Bregantini, responsabile della Cei per i problemi sociali, che ha detto: “La manovra poteva essere più equa. Specialmente coi redditi alti”. Tipo i patrimoni Vaticani? Ma questo monsignor Bregantini che oggi parla di corda in casa dell’impiccato, ci è o cristianamente ci fa?
Per i Vescovi la manovra di Monti doveva essere più equa. Secondo monsignor Bregantini, dalla presentazione della manovra si ricava l’impressione che “si poteva fare di più sui redditi alti con l’Irpef” mentre, aggiunge, “bisogna essere molto attenti sulle pensioni e forse le misure andavano presentate in contemporanea con quelle per la ripresa. Sarebbe stato forse più opportuno mettere tutte e due le mani insieme, la mano sul fisco e sulla crescita”. “A questo punto - prosegue il responsabile Cei - si deve puntare sulla seconda fase organizzando molto bene l’aspetto della ripresa”, essendo “propositivi”. “Il mondo sindacale guarda con preoccupazione” alle mosse del governo, osserva ancora l’arcivescovo, “ma sarebbe opportuno dialogare per poter arrivare a delle proposte precise soprattutto nel settore dove tutti facciamo fatica, quello della precarietà giovanile”.
Bregantini auspica inoltre nuove misure a favore della famiglia e il sostegno della politica al governo Monti. Ma i Radicali protestano perché la Chiesa, ancora una volta, pur protestando, resta immune dai sacrifici degli italiani. ’’Ha davvero una gran faccia tosta la Cei a obiettare che la manovra avrebbe potuto essere più equa - dice Mario Staderini, segretario nazionale - Purché a pagare siano gli altri e non la Chiesa, evidentemente . Tanto per cominciare, infatti, sarebbe stata più equa se avesse abolito l’esenzione dell’Ici anche per le attività commerciali degli enti ecclesiastici e similari, piuttosto che fare cassa sulle prime case degli italiani”. “Da un primo esame delle misure risulta ancora troppo timido il ridimensionamento della spesa pubblica, che - conclude Staderini - avrebbe dovuto costituire il nucleo centrale dell’intervento di emergenza e che invece vede ancora prevalere le nuove tassazioni”.
* il Fatto, 12.06.2011
CARO CASA. Il viceministro Grilli afferma che l’imposta immobiliare la dovranno pagare tutti, anche le imprese. Intanto, sui beni gestiti dal Vaticano, il premier glissa: «È una questione che non ci siamo posti ancora».
Sarà Ici anche per le società di comodo
Ma per la Chiesa è sempre esenzione
Oggi solo il 10 per cento circa delle proprietà della Chiesa paga l’imposta. Il mancato gettito annuale è stimato in 400-600 milioni di euro.
di Gianmaria Pica (il Riformista, 06.12.2011)
Basta trucchetti fiscali. Se la villa, l’appartamento, o il capannone industriale sono intestati a società, il titolare dell’impresa non potrà più sfuggire e dovrà versare all’erario l’imposta Ici (oggi super-Imu) anche su questi beni immobiliari. Così, come ha spiegato il viceministro Grilli, saranno chiamate a pagare tutte le imprese, anche le società di comodo e i trust. Il trust è un istituto giuridico attraverso cui è possibile creare in maniera piuttosto flessibile un rapporto fiduciario tra un primo soggetto che mette a disposizione i beni e un secondo soggetto che gestirà il patrimonio conferito nel trust.
La società di comodo (o società non operativa), invece, si costituisce al solo fine di amministrare i patrimoni personali dei soci, anziché esercitare un’effettiva attività commerciale. Un esempio concreto? Il patrimonio di Silvio Berlusconi non è costituito solo di televisioni ed editoria. Anche le case sono nel cuore del Cavaliere-imprenditore. Così, anche Berlusconi custodisce i suoi gioielli immobiliari in una cassaforte del mattone: si tratta della Immobiliare Idra (controllata dalla Dolcedrago che appartiere al 99,5 per cento allo stesso Berlusconi).
L’Immobiliare Idra ha in pancia una settantina di proprietà, tra cui le rimanenze di Milano 2, alcune case e ville a Roma e i beni più preziosi: Villa La Certosa (residenza estiva dell’ex premier), Villa San Martino (la dimora berlusconiana ad Arcore), e Villa Belvedere Visconti di Modrone a Macherio (castello ottocentesco, residenza dell’ex moglie Veronica Lario). Insomma, adesso anche Berlusconi sarà chiamato a pagare la super-Ici sui beni custoditi nell’Immobiliare Idra-Dolcedrago, un impero che vale centinaia di milioni di euro.
Ma a quale sacrificio economico saranno chiamati gli italiani? La manovra correttiva approvata domenica dal Consiglio dei ministri prevede che l’Imu sostituisca la vecchia Ici. Dunque, l’Imu si pagherà anche sulla prima casa con un’aliquota dello 0,4 percento (con una detrazione di 200 euro), rispetto allo 0,76 per cento dell’aliquota ordinaria per la seconda casa. È prevista anche una rivalutazione degli estimi catastali del 60 per cento, che toccherà anche gli uffici.
In sostanza, il decreto Monti prevede una rivalutazione dei valori catastali che passa da 50 a 80 per gli uffici (più 60 per cento), mentre non è ancora chiaro quale sarà l’incremento per gli immobili commerciali. Al di là dei tecnicismi, il Tesoro quantifica in 10-12 miliardi le entrate da Imu. Naturalmente, l’impatto del ritorno dell’Ici (previsto dal primo gennaio 2012) sarà molto forte sulle famiglie, il cui costo medio sarà pari a 1.680 euro l’anno. Equivalente all’8 per cento del reddito medio di una famiglia del Mezzogiorno e al 4 per cento del reddito annuo di una famiglia del Centro-Nord.
Ma ci sono sempre i soliti noti che non pagheranno un euro di Imu. Ieri, il presidente del Consiglio Mario Monti sulla questione Ici-Chiesa ha glissato: «È una questione che non ci siamo posti ancora». Per comprendere meglio il paradosso di quest’esenzione dobbiamo fare un salto indietro nel tempo. Nel 1992 il governo Amato stabilisce alcune esenzioni per le proprietà della Chiesa. La questione su quale tipo di edifici e proprietà dovessero essere esentati ha portato negli anni a diversi procedimenti giudiziari, fino al 2004 quando la norma viene in parte bocciata dalla Consulta che elimina le agevolazioni fiscali per gli immobili a scopo di lucro. L’esenzione, però, viene reintrodotta nel 2005 dal governo Berlusconi III che cambia la vecchia normativa, includendo gli immobili destinati ad attività commerciali tra quelli compresi nel diritto all’esenzione. Nel 2006, l’allora governo Prodi, modifica nuovamente la legislazione. Tuttavia un emendamento alla legge permise di mantenere l’esenzione per le sedi di attività che abbiano fini «non esclusivamente commerciali».
Una buona notizia per oggi!
di Raymond Gravel
“www.lesreflexionsderaymondgravel.org” del 2 dicembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
2a domenica d’Avvento Anno B
La settimana scorsa abbiamo visto che l’Avvento è sempre attuale: questo tempo di attesa, questo tempo di vigilanza, non consiste nell’aspettare qualcuno che non è ancora arrivato o che tarda a venire, o attendere un evento che non si è ancora verificato... No! Questo tempo consiste nello scoprire qualcuno che è già qui e a riconoscerlo negli eventi che sono i nostri, attraverso le donne e gli uomini di oggi... Che cosa dobbiamo mettere a fuoco dei testi della Parola di oggi?
1. Inizio. “Inizio della Buona Notizia di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). In una frase, l’evangelista Marco, che scrive a dei pagani convertiti, dà tutto il senso del suo vangelo, della sua Buona Notizia. Non lo dice come se si trattasse di una Buona Notizia annunciata un tempo e che gli tocca ripetere per il suo tempo. No! È “l’inizio”, “il principio”, quindi una Buona Notizia che è sempre nuova, che deve adattarsi ed attualizzarsi al tempo in cui è pronunciata e proclamata. È l’inizio, non di un testo, ma di un’azione di Dio, importante quanto l’inizio del mondo: “In principio, Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1) o l’inizio del vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio” (Gv 1,1).
E per annunciare la sua Buona Notizia, Marco non esita a citare l’Antico Testamento, ma lo fa liberamente, senza preoccuparsi dell’esattezza delle citazioni: “Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada” (Mc 1,2b). Marco ci dice che è scritto nel libro del profeta Isaia (Mc 1,2a), anche se questa citazione viene da una mescolanza tratta dal libro dell’Esodo, versione greca (Es 23,20) e del profeta Malachia (Ml 3,1). E il resto: “Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Mc 1,3) ci viene dal profeta Isaia nella versione greca, dei Settanta.
La Buona Notizia che Marco annuncia riguarda, non Gesù di Nazareth, che lui non conosce, ma Gesù Cristo, Figlio di Dio, quello che la Pasqua gli ha rivelato. Siccome Gesù Cristo è vivo, si incarna nei cristiani di tutti i tempi. Questo significa che si incarna anche oggi: tocca a noi riconoscerlo... Per questo motivo, nel 2011, è ancora l’inizio di una Buona Notizia di Gesù Cristo, Figlio di Dio, che vive oggi, in mezzo a noi.
2. Il deserto. “E si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati” (Mc 1,4). Ma attenzione! Nel vangelo la parola peccato non ha la connotazione che le diamo oggi. La parola peccato traduce la condizione umana in tutta la sua fragilità... condizione che fa sì che ci si allontani dal Dio dell’Alleanza e che si abbia bisogno di conversione per ritornarvi. E questo avviene nel deserto, perché il deserto è il luogo del vuoto, del silenzio, della pace, della serenità che permette gli inizi. È lì che tutto comincia: la presa di coscienza di ciò che siamo, il nostro bisogno di conversione, il nostro desiderio di cambiare la realtà e la necessità di parteciparvi. È lì, nel deserto, che possono rinascere tutte le speranze. È lì che Giovanni Battista dà il suo battesimo d’acqua per indicare la conversione del cuore, e questo battesimo si rivolge a tutti senza eccezione: ai ricchi come ai poveri, ai capi come al popolo, ai religiosi come agli esclusi.
Il deserto è anche l’esperienza del popolo di Dio in esilio a Babilonia, cui fa eco la prima lettura di oggi. Per tornare da Babilonia a Gerusalemme, il popolo deve inventare dei cammini di libertà:“Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio” (Is 40,3). Quindi non c’è una pista già tracciata. Dio non procede mai su itinerari già tracciati. Perché? Perché la vita non torna mai sui suoi passi: si inventa man mano, continuamente. Ad ogni modo, nonostante l’insicurezza della strada da fare: “Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata” (Is 40,4). Dio promette di accompagnare coloro che preparano la via e coloro che la percorrono (Is 40,11).
Nel suo vangelo, Marco recupera il battesimo di Giovanni Battista per annunciare un altro battesimo: il battesimo cristiano, il battesimo nello Spirito Santo, che ci fa diventare figli e figlie di Dio, fratelli e sorelle del Cristo di Pasqua: “Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo” (Mc 1,8). Nella sua avventura cristiana, neanche la Chiesa può procedere su itinerari già tracciati. Anche oggi, la strada è da inventare. Malgrado l’insicurezza che ci assilla, dobbiamo aprire nuovi sentieri, e non dobbiamo aver paura: Cristo ci accompagna.
3. La giustizia. Il primo valore di tutta la Bibbia, è la Giustizia. Viene addirittura prima dell’Amore, perché, come si può amare qualcuno se si è ingiusti verso di lui? Il Salmo 84 di questa domenica lo dice esplicitamente: “Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo. Certo, il Signore donerà il suo bene e la nostra terra darà il suo frutto; giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino”. Il che significa che sui cammini che inventiamo nella nostra avventura cristiana, Cristo ci accompagna; ci precede, ma, allo stesso tempo, la Giustizia cammina davanti a lui, ecco l’importanza di lavorare per restaurarla.
Oggi, a che cosa dobbiamo convertirci? La più grande conversione che è richiesta alla Chiesa, ai suoi capi e a tutti i suoi membri, è di accogliere, di accettare, di aprirsi alle realtà nuove delle donne e degli uomini del nostro tempo. È attraverso queste realtà che Cristo vive e che può portare un messaggio di speranza in questo mondo nuovo cominciato più di 2000 anni fa. Abbiamo tutte e tutti per missione di lavorare a questo. Il mondo attuale e le sue bellezze, i suoi progressi, ma anche le sue involuzioni, i suoi limiti e le sue fragilità. Che la Chiesa riconosca le bellezze del mondo e che dia prova di compassione, di indulgenza e di perdono, per i suoi limiti e le sue povertà. È il solo modo di far nascere la speranza oggi.
È talmente vero che agli interrogativi delle prime comunità cristiane sul ritorno di Cristo, l’autore della seconda lettera di Pietro, scritta verso l’anno 125, di cui leggiamo oggi un brano, tenta di rassicurarci. Quando ci si interroga sul nostro futuro e ci si domanda quando questo mondo di sofferenze, di intolleranze, di divisioni, di guerre e di morte finirà, l’autore di questa lettera di Pietro ci dice di non fare come i fondamentalisti biblici che cercano una risposta al quando, ma piuttosto una risposta al Che fare nell’attesa? Scrive: “Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9).
E aggiunge: “Davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno (2Pt 3,8). Che vuol dire: smettete di cercare la data della fine del mondo o del ritorno di Cristo; rimboccatevi le maniche e lavorate nell’attesa, perché la fine dipende da noi. La salvezza non è solo personale o individuale: è anche collettiva e comunitaria. Da qui deriva l’importanza di impegnarci a fare del nostro mondo un mondo più giusto e più fraterno: “secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia” (2Pt 3,13). Tocca a noi farle realizzare.
Terminando, vorrei citarvi l’esegeta francese Edouard Cothenet che ci dice che non si possono fare promesse si non ci si impegna per realizzarle: “Per favore, non fate promesse! Non promettete niente a coloro che sono esiliati sotto lo sguardo vile delle nazioni rifugiate dietro il dovere di non ingerenza, né a coloro che rinsecchiscono per la fame sulle loro terre aride di morte, né a coloro che non vedono nessuna ragione di sperare ancora, né a coloro che tendono il cuore per mendicare briciole d’amore, né a coloro che si sentono definitivamente stretti nella morsa della miseria, né a coloro che sono stati esclusi dalla comunità... Non promettete niente o, allora, mettetevi al lavoro con Colui che è andato avanti per tutta la sua vita e pagando col suo sangue per mantenere la Promessa che aveva fatto: Vengo per salvarvi. Le promesse hanno senso solo se le si realizza!”.
SENZA GRAZIA ("CHARIS") E SENZA AMORE ("CHARITAS"), L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI BENEDETTO XVI:
Benedetto XVI ha incontrato oggi responsabili e ospiti dei seminari regionali di Umbria, Campania e Calabria *
26/01/2012 Benedetto XVI ha incontrato oggi in Vaticano i superiori e i seminaristi del Pontificio seminario umbro Pio XI, di Assisi, del Pontificio seminario regionale San Pio X, di Catanzaro, e del Pontificio seminario campano interregionale, di Napoli, in occasione del centenario di fondazione. Nel corso del suo intervento ha parlato della vocazione al sacerdozio per la quale occorre «prestare molta attenzione alla dimensione umana della formazione dei candidati al sacerdozio». «E’ nella nostra umanità - ha spiegato il Pontefice - che ci presentiamo davanti a Dio, per essere davanti ai nostri fratelli degli autentici uomini di Dio», e di certo «chi vuole diventare sacerdote dev’essere soprattutto un uomo di Dio, come lo descrive san Paolo».
Per il Papa, altrettanto essenziale per la formazione dei futuri sacerdoti è una solida preparazione culturale: «Il contesto culturale di oggi - infatti - esige una solida preparazione filosofico-teologica dei futuri presbiteri». «E’ indispensabile l’armoniosa integrazione tra il ministero con le sue molteplici attività e la vita spirituale del presbitero». «Per il sacerdote - ha concluso Benedetto XVI - il quale dovrà accompagnare altri lungo il cammino della vita e fino alla porta della morte, è importante che egli stesso abbia messo in giusto equilibrio cuore e intelletto, ragione e sentimento, corpo e anima, e che sia umanamente integro». A tal proposito, Benedetto XVI ha citato la Lettera ai Seminaristi scritta a conclusione dell’Anno Sacerdotale, che raccomanda ai futuri preti «non soltanto di imparare le cose evidentemente utili, ma di conoscere e comprendere la struttura interna della fede nella sua totalità, così che essa diventi risposta alle domande degli uomini, i quali cambiano, dal punto di vista esteriore, di generazione in generazione, e tuttavia restano in fondo gli stessi».
Secondo il Pontefice, però, «lo studio della teologia deve avere sempre un legame intenso con la vita di preghiera». Dunque, «è importante che il seminarista comprenda bene che, mentre si applica a questo oggetto, è in realtà un ’Soggetto’ che lo interpella, quel Signore che gli ha fatto sentire la sua voce invitandolo a spendere la vita a servizio di Dio e dei fratelli. Così potrà realizzarsi nel seminarista oggi, e nel presbitero domani, quella unità di vita auspicata dal Concilio Vaticano II».
Anche la grave crisi culturale e sociale del sud è stata al centro del suo discorso: «In Campania e in Calabria la testimonianza delle comunità ecclesiali deve fare i conti con forti emergenze sociali e culturali, come la mancanza di lavoro, soprattutto per i giovani, o il fenomeno della criminalità organizzata». «Le vostre Regioni - ha osservato il Papa - sono ricche di grandi patrimoni spirituali e culturali, mentre vivono non poche difficoltà sociali». Per quanto riguarda l’Umbria, in particolare, Benedetto XVI ha rilevato come la patria di San Francesco e di San Benedetto sia «impregnata di spiritualità», ma «soffre come e più di altre la sfavorevole congiuntura economica». Infine, papa Ratzinger ha esortato le chiese locali a «evitare il rischio del particolarismo» mentre ne ha sottolineato «la valida mediazione tra le linee della Chiesa universale e le esigenze delle realtà locali».
* IL QUOTIDIANO DELLA CALABRIA, 26.01.2012