A Milano
sono in esposizione di
L’Adorazione dei pastori
e
San Giuseppe falegname
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Gerges de la Tour, Le noveau-né |
IMPARARE A CONTARE! "UNO. IL BATTITO INVISIBILE". Note a margine del libro di Giulio Busi *
RICOMINCIARE DA CAPO, DALLA COSTITUZIONE: UNO NON EQUIVALE UNO (=1), MA RENDE POSSIBILE E FONDA OGNI - UNO (= 1). IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS, NON UN LOGO! TRACCE PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA....
NONOSTANTE GIOACCHINO DA FIORE, NONOSTANTE DANTE ALIGHIERI (E LA DIVINA COMMEDIA) , NONOSTANTE GIOVANNI BOCCACCIO (E LA MEMORIA DI MELCHISEDEC E DEI TRE ANELLI), NONOSTANTE MICHELANGELO (E IL SUO TONDO DONI), NONOSTANTE LESSING (E IL SUO ELOGIO DEL SAGGIO NATHAN), NONOSTANTE FREUD E NONOSTANTE EINSTEIN ....
...SI VIVE ANCORA NEL REGIME DELL’UNO (= 1) E DELLA "DOTTA IGNORANZA" (1440) E DELLA COSMOTEANDRIA PLATONICA?!
"Dio non gioca a dadi" ma, dopo la lezione di Georges de La Tour (cfr. Giulio Busi, "Uno. Il battito invisibile": [...] A Preston Hall, nella grande serra in vetro e ferro trasformata in museo, i "Giocatori di Dadi" di Georges de la Tour accolgono i visitatori con il loro sorprendente mistero. Tre lanci, un unico risultato... I tre lanci hanno dato lo stesso risultato. Uno [...]"), l’Uno è ancora il più sfuggente e misterioso tra i numeri? Ogni essereu mano è un uno, ma ancora non si sa chi è l’Uno? Ma a che gioco giochiamo?! La storia è sempre e solo fatta da Uno (=1) solo? E i tre moschettieri lavorano ancora per il solito Uno (=1)?!
UNO. IL BATTITO INVISIBILE: "L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra #comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la #ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo.
Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri" (G. Busi, "Uno. Il battito invisibile", Il Mulino).
QUATTRO PROFETI (1+1+1+1) O DUE PROFETI + DUE SIBILLE?! Nella cornice del Tondo Doni di Michelangelo, secondo gli esperti della Galleria degli Uffizi, "Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti" (https://www.uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni)? Non è bene, forse, rianalizzare il quadro e la cornice e ri-verificare la situazione, data la strettissima connesione anche con il lavoro portato avanti nella Cappella Sistina?!
... IMPARARE A CONTARE E USCIRE da interi millenni di labirinto (Nietzsche) e riprendere la diritta via (Dante2021), comporta un globale capovolgimento del puntodivista e, con Freud, l’aprire gli occhi (tutti e due) e guardare finalmente "da dove veniamo"... e lo straordinario sorgere della Terra, come è apparso ai primi esploratori del cosmo ...
DANTE2021, QUESTIONE ANTROPOLOGICA (ECCE HOMO) E
GIOCO DELLA TUNICA:
QUATTRO SOLDATI, TRE GIOCATORI DI DADI E PROBLEMA DELL’UNO.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! Ancora al Grand Tour della cosmoteandria?
FLS
DISUGUAGLIANZA, INTOLLERANZA, E PACE PERPETUA...
FINE DELLA STORIA: NON COMPRESA LA LEZIONE DI DANTE ALIGHIERI SUI DUE SOLI E DI GIORDANO BRUNO (17 febbraio1600) SULLE TRE CORONE, DUE CORONE IN TERRA E UNA IN CIELO (“Ultima coelo manet)”, SI VA ANCORA AVANTI CON LE REGOLE DEL GIOCO DELLE TRE CARTE (questa è quella che vince, questa quella che perde, ecc...) e l’espulsione (lo spaccio) dal campo da gioco della BESTIA TRIONFANTE continua ad essere rinviata... USCIRE DAL LETARGO. La Regola, il Logos, non è un "Logo"!
CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA COSMOTEANDRIA. Non sapendo affrontare e non volendo risolvere il problema di Jean Jacques Rousseau (Discorso sull’origine della disuguaglianza: "Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile") come quello di Sigmund Freud (Il disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comuni tà critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori"), non ci resta che lavorare ... "PER LA PACEPERPETUA" (KANT, 1795)!!!
FLS
Georges de La Tour, L’educazione della Vergine
di Luigi Grazioli *
Suonatori ciechi di ghironda, mangiatori di piselli, ubriachi che litigano; zerbinotti gabbati da bari e donne di mondo che si scambiano maliziosi sguardi d’intesa; soldataglie che giocano ai dadi in una taverna; santi che sembrano contadini, dalle mani grasse, le dita nodose e sporche, che impugnano come armi, o falci o randelli gli emblemi che dovrebbero farli riconoscere; donne con infanti sul grembo o in compagnia di bambine o che deridono il vecchio marito, e altre, che al lume di candela, scarmigliate, con specchi, teschi e grossi libri accanto, sembrano meditare su “trascorsi che non sarà bello tacere”, per dirla con Gozzano.
Questi i principali soggetti delle opere di Georges de La Tour, ora di nuovo visibili nella mostra di Milano a Palazzo reale, finalmente riaperta e prorogata fino al 27 settembre. De La Tour in Francia è una vera e propria gloria nazionale, oggi ormai ammirato ovunque come lo era in vita, dopo la riscoperta iniziata nella prima metà del 900 che ha fatto seguito a un oblio totale di tre secoli, ma ancora per vari aspetti sconosciuto. Nonostante i ritrovamenti di alcuni documenti e i molti studi e relative scoperte e ipotesi, permangono infatti riguardo la sua vita e la sua formazione ampie zone oscure, come nei suoi quadri: quali sono stati i suoi maestri? a parte uno attestato a Parigi, quali viaggi ha fatto, con che altri artisti si è confrontato? ha compiuto quello canonico in Italia come altri lorenesi suoi conterranei e avuto esperienza diretta del Caravaggio o almeno delle sue opere romane e dei suoi seguaci che tanto sembrano aver influito sulla sua opera?
Nato nel 1593, un precoce viaggio a Roma non sarebbe impossibile. Alcuni documenti sembrano descriverlo come persona cinica e feroce, ma una loro diversa lettura attenuerebbe di molto il giudizio, soprattutto alla luce dei tempi, quelli sì ferocissimi, tra distruzioni, conflitti, carestie, saccheggi e incendi (l’inizio del Seicento e soprattutto la Guerra dei Trent’anni: basta dare un’occhiata alle incisioni che le ha dedicato Callot), con una famiglia di dieci figli da mantenere, 7 dei quali morti per le ricorrenti epidemie, come poi la moglie e l’artista stesso nel 1652. La presenza di tanti bambini, a differenza per esempio di Vermeer che pure ne aveva avuti numerosi, sempre rappresentati con tenerezza rattenuta, senza smancerie, indurrebbe a pensare a una certa affettuosità (si veda il magnifico San Giuseppe falegname), per quanto l’amore paterno e la sua esternazione non fossero a quei tempi scontati, e all’importanza attribuita alla vita famigliare. Anche i suoi tratti ci sono ignoti, a dispetto del tentativo, peraltro iconologicamente non peregrino se raffrontato con altri autoritratti di pittori del tempo, di riconoscere il suo volto nel giovane Baro con l’asso di fiori dall’aria maliziosa nell’omonimo quadro del museo di Fort Worth.
Sono poche anche le opere giunte fino a noi, una cinquantina, delle quali un terzo, tutte di pregio, quelle presenti nella mostra di Milano, arricchita da opere anche di altri autori, come Trophime Bigot, Franz Hals, Paulus Bor e vari maestri italiani, che aiutano a comprendere il contesto artistico storico e, in parte, il personale percorso del pittore, che per il resto permane in buona misura misterioso come la sua figura, cosa che non nuoce al fascino che esercita. Le opere da sole, a quanto pare, non bastano al marketing dell’arte, per quanto numerosi siano i quadri che per vari motivi non possono lasciare indifferente anche lo spettatore odierno: alcuni per il loro realismo, per la rappresentazione di figure del popolo come raramente se ne erano viste prima: scene crude, non derisorie, feroci nella rappresentazione e nella stessa pennellata eppure in qualche modo liriche; altri per la natura enigmatica delle scene rappresentate o per il virtuosismo con cui sono dipinte le ombre e le loro fonti luminose (le candele dei vari interni e delle sue notissime, splendide Maddalene, lampade ad olio, fiaccole...), di cui il pittore francese è stato maestro al pari di Caravaggio o di Gherard van Honthorst (Gherardo delle notti), presente in mostra con due opere notevoli, ma in modi del tutto suoi peculiari; altri per i caratteri più propriamente stilistici, come la semplificazione e quasi l’idealizzazione delle forme e delle figure, o come le ampie stesure di colore che nelle ultime opere caratterizzano gli ambienti e che dotano di una consistenza e tattilità straordinaria i tessuti e insieme sembrano dar luogo a frammenti quasi astratti (per esempio le due gonne o piuttosto grembiuli della moglie che deride Giobbe e di Donna anziana), a seconda che lo si veda, come dice Anna Ottani Cavina in Una panchina a Manhattan, come “un pittore realista o un formalista supremo”.
Tra tutte quelle presenti in mostra però, le opere che mi hanno suscitato le emozioni più intense sono stati un San Sebastiano curato da Irene, di cui ho già parlato qui, e una tela con una donna e una bambina che regge una candela: una scena semplice, spoglia, tutta concentrata sui due personaggi e i pochi oggetti, la candela, una cesta, un libro, i panni morbidi ma dalla linee semplici degli abiti, le due fasce che li ornano: una scena chiara e insieme di difficile interpretazione, al di là di quella letterale, ma di successo, a giudicare dalle numerose versioni in nessuna delle quali è rintracciabile l’originale (il che nulla toglie all’alta qualità di alcune, come quella del Louvre, e di gran parte di quella in mostra, proveniente dalla Frick Collection di New York, dove viene presentata, ovviamente, come del tutto autografa).
Una bambina sta in piedi con in mano una candela che scherma con l’altra, davanti a una donna seduta con un libro aperto in grembo. Nient’altro. Cosa stanno facendo? È un momento di vita domestica. La donna ha smesso da poco di leggere (per sé o anche per la bambina?), e ora, presumibilmente, sta pensando a quello che ha letto. Il suo sguardo non si fissa su nulla, va lontano, forse senza vedere niente. O viceversa è rivolto all’interno, a scrutare ciò che di confuso, di incomprensibile, si muove al fondo di sé. Immagina, o riflette: quello che ha letto la fa sognare oppure le ha suscitato apprensioni, sul presente o sul futuro, o le ricorda qualcosa di passato, non si sa. Non si capisce nemmeno di che tipo sia il libro, come gli altri che ritroviamo in molte altre opere dell’autore e che oltre a caratterizzare la scena e il loro possessore (molti sono aperti, ma raramente letti, a differenza dei volumoni che nello stesso periodo leggono alcune figure di Rembrandt o quella in mostra del suo amico e sodale della giovinezza Jan Lievens) servono anche a esibire la maestria del pittore, la sua abilità nel rappresentare, negli angoli, tra o sulle pagine appena aperte o, come qui, spalancate, le sfumature della luce morbida, dai toni caldi, le piccole ombreggiature dipinte sovrapponendo numerose velature alla maniera dei fiamminghi. La bambina è concentrata su ciò che sta facendo. “Stai lì buona”, le ha detto la donna, probabilmente la mamma. “Attenta a non far spegnere la candela e a non scottarti! E soprattutto non sporcare con la cera fusa il vestitino!” Sono entrambe ben vestite, senza lusso ma con buone stoffe; sono ben coperte, e quindi in casa caldo non fa: non sembra di essere in un paese mediterraneo, o forse è inverno: oltre alle due figure non ci viene detto niente dell’ambiente, a parte un cesto in vimini che proietta la sua ombra sul muro... Non si può dedurre molto altro. Con sicurezza, niente.
Poi però mi accosto al pannello illustrativo e leggo che la scena rappresenta l’Educazione della Vergine, anche se nulla nel quadro permette di decidere in questo senso, tanto più se si confronta la resa del soggetto con altre opere del 600 e 700 quando il tema acquistò una certa notorietà (Rubens, Jouvenet, Reni, Velásquez, Maratti, Tiepolo). Tuttavia è innegabile che qualcosa di incantato, o di sacrale, ne promani. Come per Caravaggio, “una delle caratteristiche più sorprendenti di La Tour - scrive Gail Feigenbaum nel catalogo - è la capacità di rimanere in equilibrio tra il sacro e il profano”. Se accettiamo questo titolo, cambia tutto, o quasi. Ci sono altri quadri che mostrano scene di interni, e intime, che potrebbero essere rappresentazioni realistiche ma la cui lettura religiosa è autorizzata da qualche indizio, come la cosiddetta Adorazione dei pastori, bellissima, e quindi anche per quest’opera la lettura non è del tutto arbitraria nonostante l’assenza di indizi espliciti.
Torniamo allora alla scena adattandola a questo titolo. Le due figure si stagliano in uno spazio quasi o nulla definito, affinché niente possa sviare l’attenzione, la concentrazione assoluta dello spettatore, simile a quella della bambina, e la sua meditazione, come quella della donna (forse sua madre, Sant’Anna, che però avrebbe dovuto essere molto più anziana): nessuno sfarzo, nessun artificio, se non quello supremo che nasconde se stesso. L’ambiente stesso è quasi sparito, a parte il basso bracciolo di una sedia (o è solo il bordo?), la cesta posata su un tavolo di cui si scorge il profilo sul margine sinistro dietro la bambina, e la sua ombra proiettata sul muro (l’unica ombra disegnata, a parte quelle del panneggio e del libro e quella dell’abito di Anna, se è lei, che si apre sul grembo che a Maria ha dato vita e che ora assolve a un compito insieme gravoso e glorioso, educare chi è più di te, la cui nascita è già un miracolo, la cui presenza dà un senso a tutto ciò che sei stata, anche alla pena, alla vergogna di non aver partorito se non in tardissima età, e già ti giustifica e redime.
Se la paragoniamo alle altre versioni della stessa scena, questa di La Tour si distingue, come per quasi tutte le sue altre opere di oggetto religioso, per l’assenza di qualsiasi tratto ultramondano o numinoso e di ornamenti sfarzosi, e soprattutto per l’essenzialità non inficiata da nessun aneddoto (come sarà in Vermeer), tanto che sembra colta in un tempo sospeso, quasi assoluto, un tempo fuori dal tempo.
Lo sguardo dello spettatore è focalizzato sulla due figure in primo piano, che occupano tutta le tela, e sulla loro relazione, con un procedimento tipico di Caravaggio, che l’ha reso noto e ne ha dato la versione più pregnante e di maggiore impatto, se non l’ha proprio inventato: la “drammatizzazione del primo piano”, come l’ha chiamata Irving Lavin nel suo Caravaggio e La Tour. In questa versione, la donna, che è la stessa dell’Adorazione dei pastori e di Sant’Anna con Gesù bambino di Toronto, con quel viso tondo e un accenno di doppio mento, si direbbe ipertiroideo, ha uno sguardo mite, sereno, un po’ ebete; mentre nella versione del Louvre (figura 3) gli occhi appena socchiusi che negano di vedere il suo sguardo sembrano proiettare sulla postura intera una grande tristezza, ma serena, composta, quasi che la donna fosse in preda a una lunga stanchezza che finalmente può manifestarsi ed essere così alleviata, o come se viceversa presagisse eventi futuri tragici, un destino grandioso e terribile da cui lei sarebbe però esclusa.
È il momento dopo la lettura, l’interruzione. Quello in cui a volte subentra come una dolce spossatezza, o il sollievo dell’abbandono.
Mi piacerebbe leggere la pagina aperta. Qualcuno ha decifrato le scritte? Non credo sia possibile. Si può solo immaginarle, sognarle, come faccio io ora che interrompo un attimo di scrivere, dando la forma dell’alfabeto delle mie fantasie ai segni tracciati sulla sua chiara superficie, che possono essere solo quelli del pennello e della materia, traducendo in parole ciò che è solo intraducibile pittura, e riempiendo di altre figure il riquadro nel basso della pagina, al cui interno forse un’immagine c’è, una miniatura, ma indecifrabile, affondata nel bianco. Non potendo leggerla, la scrivo.
La bambina è di profilo al pari di tanti altri bambini nelle opere del maestro lorenese, ha un viso tondo, le labbra piene e disegnate come con un rossetto, lunghi capelli lisci, percorsi solo da un riflesso della candela, un abitino viola, pure liscio, ravvivato da una fusciacca rossa. La mano che regge la candela, la sinistra, è del suo stesso colore, o pallore, come quello del viso, a parte la punta del pollice, scura, forse sporca, come due unghie di quella, traslucida, quasi alabastrina, che scherma la fiamma (come quelle di Gesù bambino in San Giuseppe falegname, che peraltro le somiglia molto). Il viso è immobile, inespressivo nel complesso, senza un tratto che lo caratterizzi al di là della linea di contorno che risalta netta, disegnata solo dal contrasto con lo sfondo scuro che è quello, appena velato, della preparazione della tela; niente intacca la pelle luminosa, l’incarnato liscio, uniforme, idealizzato, lontano da ogni preoccupazione realistica come molti altri dell’opera più tarda del pittore, e come molti abiti del resto, dai panneggi ridotti all’essenziale, spesso privi, per la scelta di materiali lisci e rigidi, come il cuoio, il ferro delle corazze, o panni di lana morbidi ma pesanti, che cadono verso terra senza assecondare le forme dei corpi quasi irrigidendoli in posture immobilizzate anche se in genere il panno è dipinto con una tattilità che vien voglia di carezzare.
La postura della bambina, della Vergine bambina, è ferma ma non rigida: composta, giudiziosa. L’unica tensione è quella dell’anulare della sinistra, mentre il resto del corpo sembra quasi rilassato, anche la mano che si curva morbidamente a schermare la candela e a proteggere la fiamma senza bruciarsi evitando che si spenga, come se quel compito la assorbisse tutta e la identificasse: ipotesi peraltro ragionevole se si considera che sarà lei a portare la luce della salvezza nel mondo, dando appunto alla luce il Salvatore.
È solo alla candela che sembra rivolgersi il suo sguardo, ma forse, mentre guarda la fiamma nella sua testolina si stanno agitando le parole che ha appena ascoltato. Chissà cosa ha capito, così piccola. Eppure qualcosa le deve essere arrivato, forse la semplice storia, o un pensiero ancora non formato, una certezza oscura, dai confini indefiniti, per darle quell’aria che ora, a ben guardare, sembra compunta, pensosa. La lettura non è ancora finita, se nessun movimento sembra annunciarsi. La luce illumina la cesta, che probabilmente allude a un’altra parte fondamentale dell’educazione che le viene impartita, il cucito, che non a caso sostituisce il libro in un’altra versione di questo tema, ora a Venezia, di proprietà dell’Ordine di Malta. Lei però è la candela che continua a fissare, da cui tutta la luce si irradia.
L’insistenza sulle candele nelle opere di La Tour e di alcuni suoi contemporanei non deve meravigliare in un’epoca in cui nelle case, specie quelle dei poveri, il buio regnava sovrano. Ci sarebbe semmai da riflettere sul fatto che fosse così scarsa nella pittura precedente, ma non poi tanto, se si tiene conto che la luce vi giocava un altro ruolo, formale e simbolico. Anche qui per il pittore è importante, più che per il richiamo realistico, per la luminosità incerta e variabile che diffonde, per le ombre che proietta, per i dettagli che permette di mettere in rilievo o di fare affiorare, e insieme per ciò che nasconde, e che a volte possiamo intuire o immaginare, ma per il resto è confinato nel buio, che pian piano ineluttabilmente si estenderà, perché mentre la candela illumina, la cera si consuma; più fa luce, più l’ombra avanza e il buio si avvicina. E però, penso poi, se l’ombra nasconde, custodisce anche, e protegge, come San Giuseppe, “ombra” di Dio Padre, il Figlio non suo.
Allora mi distolgo dalle figure e guardo il buio da cui emergono, le sfumature dell’ombra, in cui mi allontano anch’io e relego tutte le ipotesi che si affacciano alla mia fantasia e offuscano il mio sguardo, la teologia, i simboli, le storie dell’infanzia di Maria e tutto il loro superbo corteo, e tornato al quadro vedo solo una donna stanca, e una bambina intenta al suo compito elementare, attenta a fare bene quello che le è stato chiesto, solo quello, che non è poco, e però basta; che è niente, e però è tutto.
La Tour. L’Europa della luce, Palazzo Reale, Milano, apertura prorogata fino al 27 settembre 2020, a cura di Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon, che hanno curato anche il sontuoso catalogo, edito da Skira, con numerosi saggi e belle schede per ogni opera in mostra, a cui sono debitore di gran parte di ciò che ho scritto.
* Doppiozero, 19 giugno 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
L’Europa della luce
Luogo: Palazzo Reale
Indirizzo: piazza Duomo 12
Curatori: Francesca Cappelletti
Considerato unanimemente come uno dei più celebri artisti del Seicento, Georges de La Tour non esisterebbe se non esistesse la storia dell’arte. Sconosciuto per più di due secoli, fu riscoperto nel 1915, anno in cui il tedesco Hermann Voss pubblicò un articolo rivelatore sulla sua opera. Una storia segnata da un totale oblio e da una tarda ma efficace riscoperta. La sua pittura è caratterizzata da un profondo contrasto tra i temi "diurni", crudamente realistici, che ci mostrano un’esistenza senza filtri, con volti segnati dalla povertà e dall’inesorabile trascorrere del tempo e i temi "notturni" con splendide figure illuminate dalla luce di una candela: modelli assorti, silenziosi, commoventi. Un potente contrasto tra il mondo senza pietà dei diurni e la compassionevole rappresentazione delle scene notturne. Dipinti che conservano il segreto della loro origine e della loro destinazione. Come rimane un mistero la formazione del pittore, compresa la possibilità o meno di un suo viaggio italiano.
Per saperne di più:
Un nuovo debutto per Georges de la Tour
A dispetto del carattere difficile, nel Seicento Georges de La Tour era annoverato tra i migliori pittori viventi: enigmatico maestro della luce, sembrava muoversi con naturalezza su un filo sospeso, destreggiandosi tra spiritualità e realismo, delicatezza e brutalità.
La prima mostra in Italia dedicata a Georges de La Tour,
attraverso dei mirati confronti tra i capolavori del Maestro francese e quelli di altri grandi del suo tempo
Gerrit van Honthorst, Paulus Bor, Trophime Bigot, Hendrick ter Brugghen e altri -,
vuole portare una nuova riflessione sulla pittura dal naturale e sulle sperimentazioni luministiche, per affrontare i profondi interrogativi che ancora avvolgono l’opera di questo misterioso artista.
La mostra a Palazzo Reale e gli studi del catalogo riflettono dunque sulle immagini straordinarie, potenti e liriche, di santi e mendicanti, sulle scene di gioco e di rissa, sulla raffigurazione sofisticata della notte, soggetti usuali di La Tour e degli altri “pittori della realtà” con cui la mostra lo confronta.
Più di 30 le opere all’interno del percorso espositivo, provenienti dalle più importanti istituzioni americane quali la National Gallery of Art di Washington D.C., il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, la Frick Collection di New York e dalle istituzioni museali francesi come il Musée des Beaux-Arts di Nantes, Musée du Mont-du-Piété di Bergues, Musée départemental d’Art ancien et contemporain di Epinal, Museée des Beaux-Arts di Digione, Musée Toulouse-Lautrec di Albi, Musée départemental Georges de La Tour di Vic-sur-Seille. Un evento imperdibile, considerando la difficoltà di ottenere i prestiti di questi capolavori, nessuno dei quali è custodito in Italia e di cui difficilmente le istituzioni museali riescono a privarsi.
Per saperne di più:
Georges de la Tour: il meteorite della pittura barocca
Un artista dalle diverse personalità, capace di prendere le distanze da Caravaggio e di elaborare linguaggi autonomi. E’ questa la lettura della retrospettiva che offre uno spunto di riflessione più generale sulla pittura dal naturale e sulle sperimentazioni luministiche.
* Fonte: Arte.it (ripresa parziale).
Ai Magi preferisce i pecorai: è l’etica della Controriforma
di Chiara Vanzetto (Corriere della Sera, 3.12.2015)
Ogni volta una sorpresa, una storia da raccontare, un incontro nuovo: come da tradizione decembrina anche quest’anno Palazzo Marino apre le porte ad un grande capolavoro d’arte, che arriva da lontano e rimane più di un mese a libera disposizione della città. Un’operazione promossa per l’edizione 2015 da Comune di Milano-Cultura, partner istituzionale Intesa Sanpaolo e sostegno di La Rinascente, e realizzata da Palazzo Reale con Città di Fermo - Pinacoteca Civica in collaborazione con Gallerie d’Italia di Piazza Scala.
Dopo Leonardo e Caravaggio, Tiziano e De La Tour, Raffaello e Canova, l’autore prescelto è Pieter Paul Rubens, massimo maestro del Seicento fiammingo. Ma non si tratta di un’opera che viene dal Nord. La sua folgorante Adorazione dei pastori, esposta in Sala Alessi con un allestimento che evoca un altare barocco, arriva da Fermo, nelle Marche: perché dal 1600 al 1608 Rubens, umanista oltre che pittore, ha vissuto qui, in Italia, imbevendosi della nostra cultura. Uno splendido dipinto, sempre rimasto nella sua collocazione originaria, dove è stato ritrovato e riconosciuto nel 1927 dal geniale connaisseur Roberto Longhi. A testimoniare che il nostro Paese è un immenso museo diffuso, dove anche i centri storici meno frequentati conservano tesori nascosti.
«Perché scegliere Rubens? Sicuramente per dare al pubblico un’anticipazione della grande mostra che Palazzo Reale gli dedicherà nell’ottobre 2016 - chiarisce il curatore Anna Lo Bianco, storico dell’arte -. Ma soprattutto perché la sua pittura è straordinaria: un universo complesso e immediato, maestoso e umanissimo al tempo stesso. In particolare questa pala è un’opera cardine nell’itinerario rubensiano: riassume tutte le sue esperienze italiane e contiene in nuce gli sviluppi della sua maniera».
Un’opera anche ben documentata grazie al carteggio tra i committenti, i Padri della Confraternita degli Oratoriani, colti e aperti alle novità: da questa fonte sappiamo che Rubens, lasciato libero di esprimersi, la esegue di getto e in breve tempo, tra marzo e giugno del 1608, poco prima di ritornare ad Anversa. «Ha vissuto a Mantova, Genova, Venezia, Roma.
Si è immerso nell’arte italiana dall’antichità romana al contemporaneo, che all’epoca era rappresentato da Caravaggio - spiega Stefano Zuffi, autore di uno dei saggi in catalogo come Giovanni Morale e Cecilia Paolini -. L’intenso notturno dell’Adorazione è ispirato a Correggio e al naturalismo lombardo, alcune pose si rifanno a modelli classici, la stesura pittorica risente del cromatismo di Tiziano, atmosfera e luci sono d’impronta caravaggesca. Ma poi il risultato è attuale e personalissimo: siamo di fronte alla prima pala di gusto barocco concepita in Italia, caratterizzata da contrasti, dinamismi, teatralità, pathos, stupore».
Uno stile e un’iconografia del tutto innovativi. Che però ben si accordano col clima religioso della tarda Controriforma, nota Zuffi, quando al soggetto aristocratico e signorile dell’Adorazione dei Magi si preferisce la devozione più schietta e popolare dell’Adorazione dei pastori. Una scelta tematica significativa anche oggi, per confermare con pacatezza e serenità le nostre radici cristiane e permettere a tutti di conoscerne le tradizioni. «Tradizioni che si collegano direttamente alla storia e alla ritualità ambrosiana - commenta Giovanni Morale - in cui si sottolinea l’importanza dell’Avvento e del Natale come momento d’incontro tra divinità e umanità». Come ogni anno, il pubblico sarà accompagnato nella visione del capolavoro da un filmato realizzato per l’occasione e dalle esperte guide di Civita, che ha collaborato all’organizzazione della mostra.
Artista e consigliere di corte unì genio, fortuna e generosità in un’esistenza votata al bello
Diverso dal rude (ed ammirato) Caravaggio seppe destreggiarsi tra nobili e colleghi
Ed anche da ricco non volle rinunciare alla pittura
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 3.12.2015)
All’inizio di giugno del 1608 Pieter Paul Rubens terminava di dipingere a Roma l’Adorazione dei pastori per la chiesa di San Filippo Neri di Fermo. Caravaggio era fuggito dalla città eterna esattamente due anni prima, inseguito da una condanna a morte per omicidio e dalla fama di pittore più geniale del tempo. Tutti i giovani imitavano la sua maniera e anche Rubens, che aveva solo sei anni meno di lui, ne era rimasto sedotto, come si vede nei forti contrasti di luce del dipinto marchigiano. L’anno prima si era anche battuto affinché il duca di Mantova, al cui servizio il fiammingo lavorava, comprasse la grande tela con la Morte della Vergine dipinta da Caravaggio e rimossa da Santa Maria della Scala perché si diceva che nei panni della Madonna fosse ritratta una prostituta annegata nel Tevere.
Quando dopo due mesi di trattative Rubens riuscì a ottenere l’opera, allestì un’esposizione pubblica nel palazzo dell’ambasciatore di Vincenzo Gonzaga, Giovanni Magni, e tale fu la folla di coloro che accorsero a vederla, che si dovette tenere aperta la casa per un’intera settimana.
Rubens era fatto così: generoso, immune dalla meschinità e dalle invidie che affliggevano gli altri pittori. Era uno spirito gentile, sereno e positivo. L’opposto del violento Caravaggio. La mano di carte fortunate che la vita gli aveva riservato comprendeva anche un bell’aspetto.
Quando arrivò a Venezia nel giugno del 1600, a 23 anni, portava i capelli lunghi fino alle spalle, i baffi arricciati, e con le sue maniere da gentiluomo affascinò il duca di Mantova. Vincenzo Gonzaga era uno splendido dissipatore di ricchezze, dedito alle avventure galanti, alle cacce, ai banchetti, al gioco d’azzardo e a quello della guerra (ci andava vestito con abiti tempestati di gemme, accompagnato da buffoni e musici guidati da Claudio Monteverdi). Invitò subito Rubens alla sua corte, ma essendo sempre a corto di liquidi lo lasciò libero di dipingere per altri committenti. Lo inviò anche in missioni diplomatiche grazie alle quali Rubens fece incontri straordinari come quello con Diego Velázquez che il re di Spagna Filippo IV teneva recluso a corte, al suo esclusivo servizio.
Velázquez aveva 22 anni esatti meno di Rubens e sebbene sotto gli occhi, a Madrid, avesse a disposizione i migliori Tiziano del mondo, quelli collezionati da Carlo V, sognava di andare in Italia. Fu Rubens a convincere Filippo IV a concedere a Velázquez un viaggio a Roma: nessuno quanto lui stesso poteva capire quel desiderio. Roma era la grande passione del fiammingo, anche se fama e ricchezza erano decollate a Genova grazie agli straordinari ritratti delle ricche mogli dei mercanti genovesi. Corteggiato e a suo agio fra quei borghesi che prestavano i soldi agli uomini più potenti d’Europa, divenne amico di Nicolò Pallavicino, banchiere di Vincenzo Gonzaga e ancora a distanza di molti anni i due erano così legati che il pittore chiese al banchiere di fare da padrino al suo secondo figlio.
Un’altra missione diplomatica, a Firenze per accompagnare il Gonzaga alle nozze per procura di Maria de’ Medici con Enrico IV, fruttò a Rubens vent’anni dopo uno dei contratti meglio pagati: quello per le tele della galleria del Lussemburgo, a Parigi. La vita, insomma, rovesciò su Rubens tutti i suoi doni: talento, gloria, amicizie, ricchezza, intelligenza, una grande casa all’italiana nella sua Anversa, e due mogli adorate: Isabella e, dopo la morte di questa, la giovane Hélène. La sposò a 54 anni, al ritorno dall’Inghilterra: lei aveva 16 anni e veniva da una famiglia borghese.
Dopo la nomina a cavaliere concessagli da Carlo I per i servizi resi in favore della pace fra Inghilterra e Spagna, tutti si aspettavano che il pittore avrebbe scelto una dama a corte. Invece, finalmente liberato dagli impegni diplomatici, Rubens tornò a dilettarsi con la pittura. L’ultima cosa di cui aveva bisogno, ormai straricco e padrone del suo tempo, era una moglie aristocratica, che sarebbe magari arrossita a vederlo prendere i pennelli in mano. Lui non era come Caravaggio, che sfidava la vita. A Rubens piaceva gustarla. Con la naturalezza e la calma di chi sa di poter dire «tout vient chez moi».
Rubens, il Barocco e l’Italia
Dal 26 ottobre oltre 70 opere al Palazzo Reale di Milano
di Nicoletta Castagni (Roma,Ansa, 08 ottobre 2016)
PALAZZO REALE (MILANO) - I capolavori di Pieter Paul Rubens, provenienti dai piu’ importanti musei internazionali, saranno in mostra a Milano, negli spazi di Palazzo Reale, dal 26 ottobre al 26 febbraio per raccontare il profondo legame che ha unito il genio fiammingo all’arte italiana del XVII secolo. Esposte 75 opere, di cui ben 40 realizzate dal celebre pittore, che con il suo stile inconfondibile ha concordemente contribuito alla nascita del Barocco.
La rassegna, che si intitola appunto ’Pietro Paolo Rubens e la nascita del Barocco’, e’ stata realizzata grazie alla collaborazione tra il comune di Milano Cultura, Palazzo Reale e Civita, mentre la curatela e’ stata affidata ad Anna Lo Bianco, supportata da un prestigioso comitato scientifico composto da Eloisa Dodero, David Jaffe’, Johann Kraeftner, Cecilia Paolini e Alejandro Vergara. Insieme hanno selezionato un rilevante nucleo di opere capitali sia di Rubens sia di alcuni grandi protagonisti del ’500 e dei primi decenni del ’600, proprio per illustrare la vicendevole influenza tra la sua pittura e quella fiorita in Italia in quel periodo.
Ecco quindi un corpus straordinario di capolavori riuniti a Palazzo Reale grazie a prestigiosi prestiti concessi da alcune delle maggiori collezioni del mondo come quelle del Prado, dell’Ermitage, della Gemaldegalerie e del Principe del Liechtenstein.Numerose anche le tele provenienti dalle raccolte italiane, tra cui figurano quelle della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, dei Musei Capitolini, della Galleria Borghese, degli Uffizi e della Galleria Palatina, di Palazzo Ducale di Mantova, della Galleria di Palazzo Spinola di Genova e del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Un simile sforzo critico e’ del resto comprensibile, se si pensa che questo artista, di centrale importanza per la storia dell’arte europea, e’ ancora solo parzialmente conosciuto in Italia, nonostante vi avesse a lungo soggiornato (dal 1600 al 1608), lasciando un segno indelebile nella sua pittura, rimasto vitale in tutta la sua vasta produzione artistica.
L’Italia e’ stata dunque fondamentale peR Rubens, cosi’ come Rubens per l’Italia. A lui sono riconducibili i primi segnali della nascita del Barocco, diffusosi felicemente in espressioni altissime in ogni regione. Un influsso riconosciutogli da tutta la critica novecentesca, al punto che Bernard Berenson arrivo’ a definirlo "un pittore italiano".
I suoi rapporti con Genova, Mantova, Venezia, nonche’ la vicenda romana, permettono cosi’ di ricostruire il filo che lo lega tanto profondamente alla cultura italiana, tale da restare il tratto d’identita’ per tutta la sua produzione successiva. A testimoniare tale processo, il percorso espositivo della mostra milanese che consentira’ di mettere in evidenza i rapporti di Rubens con l’arte antica e la statuaria classica e la sua attenzione verso i grandi maestri della Rinascenza quali Tintoretto, Correggio.
E soprattutto far conoscere la straordinaria influenza esercitata dal maestro fiammingo sugli artisti italiani piu’ giovani, protagonisti del Barocco, come Pietro da Cortona, Bernini, Lanfranco, fino a Luca Giordano.
Un suggestivo allestimento, curato dall’architetto Corrado Anselmi, valorizzera’ la ricchezza e grandezza delle opere, alcune di dimensioni monumentali come la tela scelta quale icona della rassegna di Palazzo Reale dal titolo ’La scoperta di Erittonio fanciullo’. Tra le altre opere esposte, lo strepitoso ’Ritratto della figlia Clara Serena’, ’Saturno che divora uno dei suoi figli’, ’Seneca morente’, ’San Gregorio con santa Domitilla, san Mauro e san Papiano’.
Ma anche la splendida ’Adorazione dei Pastori’, custodita al Museo Civico di Fermo, che lo scorso dicembre l’ha concessa in prestito al comune di Milano. Presentata a Palazzo Marino, ben 120.000 persone hanno fatto la fila per poterla ammirare.
Georges e il Neonato misterioso
di Tomaso Montanari (il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2013)
A volte ci dimentichiamo i grandi artisti del passato: ma poi li ritroviamo. È un po’ come quando una nonna perde gli occhiali in casa. E così la nostra storia dell’arte è da sempre piena di “riscoperte”. In certi momenti nessuno sapeva più quasi chi fosse mai stato Caravaggio, e in altri perfino Michelangelo era un po’ dimenticato. Per non parlare di Vermeer, riscoperto solo molti secoli dopo la sua morte.
Ecco, la riscoperta - quasi la resurrezione - di Georges de La Tour è uno dei miracoli della storia dell’arte moderna. Ci si era completamente dimenticati della figura di questo tranquillo pittore nato e cresciuto nella Lorena (una regione della Francia) di quattrocento anni fa. Ma il modo in cui dipingeva sembra fatto apposta per far innamorare gli uomini del Novecento: e questo amore, ad un certo punto, è scoppiato davvero.
Niente permette di credere che La Tour abbia mai viaggiato fino in Italia, o in Olanda, eppure, per le cose che dipinge, per la luce che usa e soprattutto per il modo in cui vede il mondo e i rapporti umani, la sua pittura - pur così francese - non ci sarebbe mai stata senza una conoscenza, diretta o indiretta, della rivoluzione di Caravaggio: che come un nuovo Giotto, o un nuovo Masaccio, aveva rimesso la pittura in contatto con il mondo reale.
Il Neonato è forse il quadro in cui tutto questo appare più evidente. È un’opera molto strana fin dal suo titolo: che cosa vuol dire il “Neonato”? È un bambino qualunque, o è un bambino “speciale”?
In altre parole, i protagonisti che vediamo sulla scena sono un neonato della Lorena nato intorno 1645, sua madre e sua nonna, o sono invece Gesù, Maria e Sant’Anna, ritratti come se fossero persone del tempo di La Tour, come appunto faceva Caravaggio?
L’importanza della scena, la luce (naturalissima: viene da una candela che la donna sulla sinistra ci nasconde col palmo della mano), la dignità dei personaggi e la centralità del bambino hanno indotto a pensare che si tratti davvero di Gesù: ma la cosa veramente importante è il fatto stesso che non possiamo esserne sicuri. In fondo il messaggio di La Tour è: Gesù è stato un bambino come tutti, tutti i bambini sono importanti come Gesù.
Anche questo quadro parla direttamente allo spettatore, che si sente partecipe di una scena intima, come se fosse un terzo personaggio adulto: o un fratellino o una sorellina più grandi. Ed è un quadro delicato: perché ci parla sussurrando alla sua coscienza, alle nostre emozioni, ai nostri ricordi più segreti
CHE SUCCESSO, QUANTI SOLDI CON I DIRITTI DI AUTORE!!!
Il benvenuto alla “Ratzinger Academy”. Una nota di Philippe Clanché ("Témoignage chrétien")
Il maestro dipingeva la luce, i suoi seguaci le candele
Alla National Gallery di Londra una mostra con capolavori da collezioni inglesi analizza la rivoluzione del Merisi e la sua influenza sulla pittura europea
di Rocco Moliterni (La Stampa, 15.10.2016)
Caravaggio non ha mai dipinto in tutti i suoi capolavori una candela. Eppure i suoi seguaci, ossia i caravaggeschi di tutta Europa, sembrano dar vita a una sorta di «valzer delle candele», nel senso che nelle loro tele per inseguire gli straordinari effetti luministici del maestro dipingono candele a gogò. E una delle tante curiosità legate alla mostra «Beyond Caravaggio» (Oltre Caravaggio) che si è aperta martedì scorso alla National Gallery di Londra. La mostra è curata da Letizia Treves e vede la collaborazione della National Gallery irlandese e di quella scozzese. Le opere in mostra, sia di Caravaggio, al secolo Michelangelo Merisi, sia dei suoi seguaci provengono da istituzioni pubbliche e private di area anglosassone.
«La National Gallery di Londra è molto fortunata »spiega la curatrice »ad avere nella sua collezione tre opere di Caravaggio significative di altrettanti momenti cruciali della sua carriera». Si tratta della Cena di Emmaus, acquisita nel 1839, di Salomè che riceve la testa di Giovanni Battista, che arriva a Londra circa un secolo più tardi grazie alla tenacia del grande critico Denis Mahon e infine il Ragazzo morso da un ramarro, opera giovanile acquisita da un collezionista americano dopo averne impedito l’esportazione nel 1986. «Solitamente - prosegue la Treves » nelle nostre gallerie non siamo in grado di mostrare queste opere in un contesto. L’ispirazione di questa mostra deriva dal voler esporre questi dipinti insieme ad altri dei seguaci di Caravaggio e di dimostrare la portata e la rilevanza della sua influenza su un’intera generazione di pittori».
Per farlo intorno a un pugno di capolavori del maestro la mostra propone oltre 40 dipinti di caravaggeschi, scanditi in sette sale. Il viaggio si apre con la sala dedicata ai primi anni romani di Caravaggio, quando a sostenerlo c’erano il cardinale Del Monte e il marchese Giustiniani. «A Roma »scrive Giovanni Pietro Bellori nel 1672 »i pittori erano totalmente attratti dalla novità e i più giovani, in particolare accorrevano per venerarlo come l’unico vero imitatore della natura, considerando le sue opere come miracoli». Abbiamo qui Il ragazzo morso da un ramarro.
La rivoluzione «naturalistica» del pittore lombardo che porta la vita di tutti i giorni nei suoi quadri affascinerà in tempi a venire anche artisti come George de La Tour (due le sue opere in mostra). In questa sala ci sono giocatori di carte, giovani musicisti e zingare lestofanti ad opera di Cecco del Caravaggio, Antiveduto Gramatica e Bartolomeo Manfredi (realizzate peraltro nel 1615, quando il maestro è già morto, non ancora quarantenne, da quasi un lustro).
Il pezzo forte della seconda sala, dedicata agli anni del successo romano, è la parte che accosta la Cena di Emmaus (1601) e la Cattura di Cristo (1602), dalla National Gallery di Dublino, dove Caravaggio si fa uno dei vari selfie della sua carriera, nelle sembianze del portatore di lampada. Opere come queste influenzeranno tra gli altri Bartolomeo Manfredi, che nel 1613 dipinge la sua Cattura di Cristo. Spicca in questa sala anche il Davide e Golia di Orazio Gentileschi, dove l’influenza del maestro è soprattutto nella drammaticità della situazione.
Se la sala con le influenze in Italia sfodera tra l’altro un Guido Reni (Lot e le sue figlie) e un’Artemisia Gentileschi (Susanna e i vecchioni) assolutamente da non perdere è la sala «napoletana», dove oltre alla Salomè di Caravaggio ci sono dei Ribera e dei Mattia Preti. Il tutto a rendere la cupezza dell’ultima stagione del maestro. Poi c’è la sala dei caravaggeschi europei, con il valzer delle candele di autori come Adam De Coster, Willem Van der Vliet, Gerrti Van Hopntorst (Gherardo delle notti).
Ma quale è oggi l’eredità di Caravaggio, che ricordiamolo, dopo la fama e il seguito che ebbe negli anni successivi alla morte, è stato «riscoperto» da Longhi nel ’900 dopo alcuni secoli di oblio. «Quattro secoli dopo» dice Gabriele Finaldi, direttore della National Gallery» l’arte di Caravaggio mantiene il potere di ispirare, stupire e soprendere. L’esposizione mostra come i suoi dipinti rivoluzionari, lodati e criticati allo stesso tempo dai suoi contemporanei, ebbero un impatto profondo su dozzine di artisti da tutta Europa, dando luogo a un vero e proprio fenomeno internazionale». Da aggiungere, per noi italiani che Caravaggio ce l’abbiamo in casa, che la mostra londinese permette di vedere alcune opere mai viste prima.
Londra
Caravaggio, che fortuna! *
Spettacolare rassegna alla National Gallery dedicata al Merisi e alla sua influenza nella pittura italiana ed europea del ’600
di Marco Carminati (Il Sole-24 Ore, Domenica, 16.10.2016)
Ci troviamo di fronte a una superba sequenza di bellissimi dipinti del primo Seicento europeo. Questa è la prima impressione che si ha visitando la mostra Beyond Caravaggio allestita alla National Gallery di Londra fino al 15 gennaio 2017. La seconda constatazione è che la mostra si possa godere e comprendere semplicemente osservando i quadri, senza quasi leggere pannelli e cartellini, tanto è chiaro il tema e netto il percorso: la rassegna racconta la fortuna di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio nell’Europa della prima metà del Seicento e il successo della sua “invenzione”, quel mix formidabile di naturalismo intenso e luminismo drammatico che lasciò estasiati (ma talvota scandalizzò) pittori e collezionisti del suo tempo.
Curata da Letizia Treves e sostenuta dal contribuito di Credit Suisse, la mostra londinese vanta alcuni singolari primati. Se noi italiani siamo leggermente sazi di rassegne su Caravaggio, questa della National Gallery è invece la prima grande mostra dedicata al maestro italiano e alla sua fortuna allestita nel Regno Unito. Quindi, vista la fama universale del pittore, si prevede un notevolissimo afflusso di pubblico. Di contro, se gli inglesi verranno qui a cercare un “caravaggesco” nato nella loro isola resteranno a bocca asciutta. Italiani, francesi, fiamminghi, olandesi e spagnoli vennero investiti e irradiati dalla luce di Caravaggio. Gli inglesi no.
Eppure, prima ancora del recupero critico e storico artistico del grande maestro lombardo (che come è noto venne riportato in auge ai primi del Novecento dopo tre secoli di totale oblio) furono proprio i grandi collezionisti inglesi dell’Ottocento ad acquisire per primi alcuni superbi capolavori di Caravaggio e del caravaggismo europeo. Ne consegue che oggi musei, chiese, dimore, castelli e collezioni private del Regno Unito si trovano a essere particolarmente ricchi di capolavori di questa scuola. E la mostra di Londra ne fa davvero uno sfoggio spettacolare.
La National Gallery (oggi diretta da Gabriele Finaldi) ha la fortuna di possedere ben tre opere di Caravaggio in grado di documentare tutte le fasi creative del maestro: il Ragazzo morso dal ramarro dipinto agli esordi del soggiorno romano (1594 circa), la Cena in Emmaus risalente al periodo d’oro dell’affermazione del maestro a Roma (1601), e la Salomè con la testa del Battista dipinta a Napoli nell’ultima drammatica fase della vita del pittore (1609-1610). Accanto ai capolavori “di casa”, la National Gallery ha ottenuto in prestito il Fanciullo che monda un frutto dalla regina Elisabetta II, la spettacolare Cattura di Cristo dalla Galleria Nazionale di Dublino e la grande tela con il San Giovanni Battista in meditazione dal Museo Nelson-Atkins di Kansas City. Attorno agli originali caravaggeschi è stato costruito un percorso in sette tappe che racconta con lineare semplicità l’irradiazione in Europa del naturalismo e della luce di Caravaggio.
La prima tappa è Roma, dove Caravaggio approda ventenne attorno al 1592 e dove si mette a dipingere quadri di natura e scene di genere. Sono giovanetti di strada (come il Ragazzo che monda un frutto e il Ragazzo morso dal ramarro), musicisti, giocatori di carte e zingare cartomanti, soggetti che verranno imitati e riproposti da pittori coetanei come Cecco del Caravaggio, Bartolomeo Manfredi e Antiveduto Gramatica, e che ispirarono anche maestri di generazioni più giovani come il lorenese Georges de la Tour.
Entrando nella seconda sala letteralmente si barcolla: la sezione è quella dedicata agli anni del successo e delle grandi committenze di Caravaggio. Sulla parete di destra sono appese in sequenza quattro tele mozzafiato facenti parte tutte della collezione romana di Ciriaco e Asdrubal e Mattei, famiglia di grandi patroni di Caravaggio. Al centro si stagliano le superbe tele del Merisi con la Cattura di Cristo di Dublino e la Cena in Emmaus di Londra; ai lati ci sono Il tributo della moneta di Giovanni Serodine (prestato dalla Galleria di Edimburgo) e il Cristo tra i dottori di Antiveduto Gramatica (anch’esso proveniente da Edimburgo): francamente questo “quartetto” varrebbe da solo il viaggio a Londra.
Ma altre emozioni ci aspettano nelle sale a seguire. La terza e la quarta sezione sono dedicate all’irradiamento del caravaggismo in Italia, offrendoci una sequenza di autentici capolavori di Cecco del Caravaggio, Bartolomeo Manfredi, Carlo Saraceni, Pensionante del Saraceni, Giovanni Antonio Galli detto Lo Spadarino, Orazio e Artemisia Gentileschi, Guido Reni, Rutilio Manetti e Jusepe de Ribera. Qui si comprende bene che per molti di questi artisti il caravaggismo non fu solo un modello da imitare ma un’ispirazione di partenza per sviluppare stili nuovi e individuali. Anche in questo caso, se non fossero enormi, si vorrebbe uscire dalle sale con alcune tele sottobraccio: una fra tutte è l’impressionante Riposo dalla fuga in Egitto di Orazio Gentileschi, proveniente da Birmingham.
Ai soggiorni di Caravaggio a Napoli è dedicata la sezione successiva, con la presenza della Salomè con la testa del Battista del Merisi circondata da capolavori di Jusepe de Ribera, Mattia Preti e del misterioso (e sublime) Maestro dell’Annuncio di Pastori.
Alla fortuna europea del maestro sono invece dedicate le ultime due sale della rassegna: attorno al San Giovanni Battista in meditazione di Caravaggio proveniente da Kansas City si dispiegano le tele degli olandesi (Dirck van Baburen, Gerrit van Honthorst, Hendrick ter Brugghen, Matthias Stom) e dei francesi (George de la Tour, Nicolas Regnier, Valentine de Boulogne e Nicolas Tournier) che si “abbeverarono” avidamente alla luce di Caravaggio.
* Beyond Caravaggio, Londra, National Gallery, fino al 15 gennaio 2017. Poi a Dublino, National Gallery of Ireland (11 febbraio- 14 maggio 2017) e Edimbungo, Scottish National Gallery (17 giugno-24 settembre 2017). Catalogo National Gallery Company