ANTICHITÀ
Morto in Francia a 93 anni il grande studioso del mondo classico. Si è occupato di mitologia, religione, politica. Fu attivo nella Resistenza
Vernant, il ’900 e la Grecia
di Gian Maria Vian (Avvenire, 11.01.2007)
Con la morte di Jean-Pierre Vernant la ricerca storica perde uno degli studiosi più brillanti e influenti del Novecento. Scomparso l’altra sera nella sua casa di Sevres, in Francia, quasi novantatreenne, lo studioso francese era infatti uno dei maggiori conoscitori del mondo greco antico. Autore di numerose opere importanti (quasi tutte tradotte in molte lingue), Vernant ha saputo studiare in modo innovativo l’eredità culturale e religiosa dei greci rendendola più comprensibile anche ai non specialisti.
Marxista e intellettuale appassionatamente partecipe e testimone delle tragedie del Novecento, il grande storico che aveva preso parte alla Resistenza abbandonò il partito comunista nel 1969, dopo trentasei anni di militanza attiva, in seguito alla repressione della primavera di Praga, coerente con un’apertura mentale che resta forse la sua caratteristica principale.
Nato nel 1914, Vernant aveva studiato per divenire professore di filosofia, ma la cesura della guerra segnerà indelebilmente la sua vita, come raccontò in una lunga intervista raccolta da Jérôme-Alexandre Nielsberg e pubblicata su "l’Humanité" del 6 aprile 2005.
Mentre il conflitto mondiale bruciava l’Europa, decisivi furono l’incontro e l’amicizia con uno dei professori conosciuti alla Sorbona, Ignace Meyerson (1888-1983), che da giovane in Polonia aveva aderito ai movimenti rivoluzionari antizaristi e, rifugiato in Francia, era entrato dopo l’invasione tedesca nelle file della Resistenza contro gli occupanti. Ma la guerra non riuscì a distogliere Meyerson dalla prediletta psicologia storica: tra i partigiani si formò così un piccolo gruppo di studiosi appassionati che nella Francia meridionale arrivò anche a organizzare conferenze, e persino un convegno a cui presero parte Marc Bloch e Marcel Mauss.
Alla fine della guerra, considerata conclusa la sua esperienza militare, Vernant pensava infatti di tornare alla vita civile cominciando appunto a insegnare, ma furono proprio Meyerson e un altro grande studioso - Louis Gernet (1882-1962), filologo, storico e sociologo - a convincere l’intellettuale partigiano che doveva entrare al Cnrs, il Centro nazionale della ricerca scientifica dove, pur non avendo pubblicato nulla e senza avere nemmeno una tesi in corso, il mancato filosofo entrò nel 1948.
Da allora, e fino all’entrata nella prestigiosa École des hautes études, fu una lunga stagione straordinaria. «Tutti i giorni - ricordava con nostalgia - ero alla Biblioteca Nazionale. Imparare, capire, comparare i testi: dieci anni di letture». E poi le lezioni di Gernet: «Era meraviglioso: arrivava con le mani in tasca, con la sua cravatta alla Blum e ci parlava sia di filologia, sia di studi comparati giuridici, greci, indiani, cinesi, sia di antropologia storica».
Proprio grazie a questo sguardo largo e attento ai diversi aspetti dell’esperienza umana Vernant ha potuto scrivere opere fondamentali. Nel 1993 le ha introdotte una puntuale nota di Riccardo Di Donato - che certo è il migliore conoscitore italiano dello studioso francese - nel limpido Mito e religione in Grecia antica (Donzelli), che Vernant aveva pubblicato nel 1987 per l’Encyclopedia of Religion di Mircea Eliade, mentre la fittissima bibliografia del grande storico dell’antichità (completa fino al 1994) è in appendice ai saggi (raccolti dallo stesso Di Donato) nei due volumi di Passé et présent (Edizioni di Storia e Letteratura).
La prima opera di Vernant, Les origines de la pensée grecque, uscì nel 1962 ed ebbe un successo straordinario. A precederla era stata però una nutrita serie di articoli, raccolti in Mythe et pensée chez les Grecs (1965), seguito da molte altre opere, fino all’ultimo libro, Entre mythe et politique, pubblicato nel 2004.
Vernant ha spiegato che lo specialista di una determinata cultura - per esempio, quella greca da lui studiata per tutta la vita - ha la tendenza ad assolutizzare il suo sguardo, a pensare che non ce ne possano essere altre. Ma questo sguardo viene ridimensionato se si comparano altre culture, come quelle dell’India o del mondo assiro-babilonese, e in questo modo lo sguardo iniziale viene profondamente modificato.
Il metodo comparativo allora «non consiste soltanto a guardare ciò che è comune e ciò che è diverso, in società multiple, sia nello spazio, sia nel tempo, ma consiste anche, attraverso questo lavoro a modificare completamente l’avvicinamento alla cultura oggetto del proprio studio».
Ma questo sguardo comprensivo e largo Vernant ha saputo esercitarlo anche nella vita, quando lui, educato nell’ateismo anticlericale, durante la Resistenza si trovò fianco a fianco con dei giovani cattolici, «molto ferventi, molto praticanti», e scoprì che non erano né trogloditi né nemici, e imparò così a «cercare di comprendere la dimensione attraverso la quale erano cattolici, credenti, e in che cosa questa differenza con me, questo scarto poteva essere nello stesso tempo un ponte che mi permetteva pure di capire, forse, certe cose in me che avevo messo da parte».
Vernant/Dopo la primavera di Praga nel ’68 ruppe con il comunismo
Impegnato nella Resistenza e poi militante del Pcf, dopo la «primavera» di Dubcek Jean-Pierre Vernant ruppe col comunismo. A distanza di quasi quarant’anni, Vernant rievocava, in un articolo pubblicato da «Avvenire» il 18 ottobre 2005 le disillusioni di un’intera generazione. «Conservo nel cuore il ricordo degli anni Trenta, all’epoca della mia giovinezza e dei miei studi, quando seguivo, pieno di orrore e di vergogna, il dramma del vostro Paese e la viltà del mio. Gli accordi di Monaco, che vi consegnarono al Terzo Reich con la benedizione degli inglesi e dei francesi, mi hanno segnato per sempre...». Umiliazione che rivive quando le bandiere naziste sfilano per gli Champs-Elysées nel 1940... Fu questo a spingerlo verso il comunismo. «Speravo, mi immaginavo che nell’Europa dell’Est, e in particolare in Cecoslovacchia, avrebbe prosperato uno Stato operaio democratico». Ma di lì a poco ancora una delusione, la conferma delle derive totalitarie staliniane e il rimorso per averne in qualche modo condiviso l’esperienza.
«Dopo il fallimento della "primavera di Praga", quando per soffocare ogni libero pensiero è stato ricollocato al suo posto il pesante coperchio della stupidità, del fanatismo e della repressione poliziesca, non appena è apparso possibile aiutare gli intellettuali perseguitati e costretti al silenzio, ho preso l’occasione al volo... Sono stato il primo francese a recarsi a Praga, nell’aprile o nel maggio del 1981... Praga era nel massimo splendore della sua bellezza, piena di sole, di fiori, di lillà».
Forse fu proprio lo studio dell’antica Grecia a fargli comprendere l’errore comunista: «Ho studiato la Grecia antica per più di mezzo secolo... ho cercato di farmi greco interiormente. Che lezioni ne ho tratto? Anzitutto l’esigenza di una totale libertà di spirito. Poi, che il carattere umano dell’uomo è legato alla sua condizione di cittadino, alla sua partecipazione attiva a una comunità di eguali in cui nessuno può esercitare alcun potere di dominio su un altro...»
Le opere tradotte in italiano dello storico francese
Tutte le principali opere dello storico francese Jean-Pierre Vernant, segno di una realizzata influenza intellettuale, sono state tradotte in italiano. Tra queste: «Mito e religione in Grecia antica» (Donzelli); «Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica», scritto con Francoise Frontisi (Donzelli); «Mito e tragedia, due. Da Edipo a Dioniso», con Pierre Vidal-Naquet (Einaudi); «L’individuo, la morte, l’amore» (Cortina Raffaello); «Mito e pensiero presso i greci» (Einaudi); «Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia», con Marcel Detienne (Laterza); «La morte negli occhi. Figure dell’altro nell’antica Grecia» (Il Mulino); «La cucina del sacrificio in terra greca», con Marcel Detienne (Bollati Boringhieri); «Mito e tragedia nell’antica Grecia. La tragedia come fenomeno sociale estetico e psicologico», con Pierre Vidal-Naquet (Einaudi).
Sul significato di "EU-ROPEUO", nel sito, cfr.:
Per la rinascita dell’Europa, e dell’Italia. La buona-indicazione del Brasile.
L’uomo greco che è in noi
Il percorso esistenziale di Vernant lo portò a incrociare la sua attività di studioso dell’antichità classica alla militanza politica, che inaugurò durante la Resistenza per poi iscriversi alle file del partito comunista francese. Morto martedì a novantatré anni Jean-Pierre Vernant ha rivoluzionato lo studio delle origini del pensiero greco, dando un contributo fondamentale alla psicologia della storia
di Marco Pacioni (il manifesto, 11.01.2007)
Scomparso ieri a Sèvres, all’età di novantatré anni, Jean-Pierre Vernant era uno dei più grandi studiosi del mondo greco antico, che sapeva animare di imprevedibili contrasti interpretandolo attraverso concetti capaci di contraddire la vulgata relativa alla perfezione idealizzante, quella delle raffigurazioni artistiche compassate e monocrome del neoclassicismo. Il punto di vista della comparazione rendeva sfaccettato il suo campo d’indagine: quelli che venivano presi in considerazione non erano più soltanto i grandi distillati concettuali della cultura greca, secondo un’ottica tipicamente classicistica, ma i singoli elementi che portarono alla loro nascita.
Il metodo di Vernant non procedeva tanto a una storia delle idee assunte come se esse fossero «naturalmente» infuse dentro quella grande astrazione che chiamiamo «civiltà greca», e che sviluppandosi secondo una supposta linea di continuità avrebbero raggiunto noi contemporanei. Piuttosto, cercava di restituire il contesto che aveva dato origine a quelle idee e, attraverso di esso, provava a misurare l’inevitabile distanza dell’«uomo greco» rispetto a noi, suoi supposti eredi.
Un progetto ambizioso che mirava, come disse lo stesso Vernant, non a costruire una storia evenemenziale, bensì una «storia interiore dell’uomo greco». Sin dall’inizio degli anni sessanta definiva il suo progetto con queste parole: «Che si tratti di fatti religiosi (miti, rituali, rappresentazioni figurali), di scienza, di arte, di istituzioni sociali, di fatti tecnici ed economici, noi li consideriamo sempre quali opere create dall’uomo, espressione di un’attività mentale organizzata. Attraverso queste opere noi cerchiamo che cosa è stato l’uomo greco in sé, quest’uomo greco inseparabile dal quadro sociale e culturale di cui egli è insieme l’artefice e il prodotto».
Negli anni successivi, Vernant continuò a sottoscrivere le linee della sua ricerca pur informandole di una maggior moderazione, senza tuttavia arrivare mai a contraddire le sue più remote convinzioni. Vennero eliminati dai suoi studi i residui più scopertamente classicistici che caratterizzavano la sua impostazione iniziale. Del resto, essi suonavano all’apparenza simili a quelli contenuti nel progetto di studio, divergente quanto all’ impostazione, dello studioso tedesco Max Pohlenz, di cui nel 1962 era stato pubblicato L’uomo greco (trad. italiana, 1986, La Nuova Italia) e nel quale così esordiva: «Al di là di tutte le differenze c’è un unico uomo greco ed è lui che noi vogliamo cogliere nella sua vera essenza: compito, questo che non ha un significato esclusivamente storico. Infatti, solo qualora riusciamo a comprendere realmente l’uomo greco, potremo rispondere alla domanda se la grecità ha ancora un valore attuale per i popoli civili della nostra epoca»; e concludeva: «Gli Elleni sono il popolo che nel periodo del suo massimo splendore, proprio attraverso lo sviluppo della sua natura, ha portato le più nobili energie del genere umano a dispiegarsi così armoniosamente come, nella storia, non avvenne mai più. Per questo ancora oggi gli Elleni possono indicarci una via e valere come un modello di vita».
A parziale rettifica di quanto aveva affermato all’inizio degli anni sessanta, nel volume collettivo da lui curato e che porta lo stesso titolo del libro di Pohlenz L’uomo greco (Laterza, 1991) Vernant scriveva: «Tralascio i risultati - certamente parziali e provvisori, come sempre per qualsiasi studio storico - della ricerca da me condotta in merito ai mutamenti che che nell’uomo greco, tra l’VIII e il IV secolo a.C. hanno investito l’intero quadro delle attività e delle funzioni psicologiche: rappresentazioni dello spazio, forme della temporalità, memoria, immaginazione, volontà, persona, pratiche simboliche e utilizzazione dei segni, modi di ragionamento, strumenti intellettuali. Vorrei collocare invece il profilo di cui tento di definire i lineamenti sotto il segno non dell’uomo greco, ma dell’uomo greco in noi. Non il greco qual è stato in sé, impresa impossibile perché l’idea stessa è priva di significato, ma il greco quale a noi oggi appare al termine di un percorso che, in mancanza di un dialogo diretto, procede secondo un incessante andare e venire, da noi a lui, da lui a noi, coniugando assieme analisi obiettiva e volontà di simpatica; giocando sulla distanza e sulla vicinanza; allontanandoci per farci più vicini senza il rischio della confusione e accostandoci per meglio cogliere le distanze e insieme le affinità».
In queste parole, che vogliono anche segnare il bilancio di un’attività di studio e di metodo, si percepisce l’intensificarsi della problematicità, nel passare degli anni, con la quale l’umanesimo di Vernant si metteva in relazione al mondo antico. E si legge, tra quelle righe, anche la conferma dell’orientamento comparativo e la volontà di ritrovare la vicinanza di noi moderni con la cultura greca soltanto dopo aver tenuto presenti tutte le diversità che nessun salto ideologico ha il diritto di colmare idealmente.
Un orientamento, questo, che suona più che mai importante ricordare in questo momento storico nel quale i processi di appropriazione, ad uso politico, dei fattori identitari di civiltà diverse dalla nostra prescindono completamente dal rilievo delle loro specificità. Una parte della cultura che propaganda la difesa dell’occidente sembra infatti assumere da un lato la custodia della civiltà greca antica e la riattualizzazione forzata di alcuni suoi portati che si pretenderebbero senza cesure; e d’altro canto non risparmia alcun facile sincretismo a fronte di diversità troppo pronunciate per essere trascurate, per esempio per quel che riguarda il rapporto con il cristianesimo.
Per parte sua, proprio a proposito della cesura del nostro mondo occidentale con le sue origini, Vernant era intervenuto, osservando quanto fosse illegittima una tendenza alla attualizzazione della cultura greca. E così scriveva: «Nella nostra epoca l’uomo espresso dalla tragedia greca ha più che mai rilievo: voglio dire l’uomo enigmatico, l’uomo preso in un flusso che lo supera, l’uomo che calcola, decide e giudica, che esita tra due vie, posto nei bivi dell’azione, che sceglie consapevolmente - e che poi alla fine si accorge di aver scelto in realtà il contrario di quel che lui credeva fosse il bene. Questo sentimento ’tragico’ è oggi più forte perché molte cose che sembravano certe sono oggi in crisi... Ci si è infatti accorti che lo sforzo per programmare il futuro, lo sforzo per inscrivere in anticipo nella storia i fini ultimi dell’uomo, è qualcosa di incredibilmente incerto. In questo caso l’uomo - proprio come gli eroi tragici antichi - volendo costruire un mondo veramente ideale può fare il contrario di quel che credeva di fare».
Il curriculum di Vernant ha seguito una strada complessa: dopo gli studi secondari nei licei Carnot e Louis-le-Grand di Parigi e quelli universitari alla Sorbonne, aveva ottenuto l’agrégation in filosofia nel 1937. Richiamato sotto le armi allo scoppio della seconda guerra mondiale, dopo la smobilitazione delle forze armate francesi nel 1940, era entrato nella resistenza assumendovi ruoli di primaria importanza. Durante la sua attività clandestina aveva assunto lo pseudonimo di «colonnello Berthier». Intanto, ufficialmente, insegnava filosofia in un liceo di Tolosa, inaugurando un doppio binario esistenziale che, nel dopoguerra, sarebbe proseguito affiancando la professione di studioso-insegnante alla militanza politica.
Si iscrisse al Pcf, e collaborò alla rivista «Action» curando una rubrica di politica estera, che lo vide in prima fila fra i contestatori delle guerre d’Indocina e d’Algeria. Nella sua carriera di studioso, il 1948 segnò una svolta decisiva: entrò nel Cnrs e, influenzato da Louis Gernet e da Ignace Meyerson, volse decisamente i suoi studi sulla cultura del mondo antico verso l’antropologia e la psicologia. Nel 1957 diventò direttore dell’École Pratique des Hautes Études e mantenne l’incarico fino al 1975. Erano passati due anni dalla pubblicazione del suo primo libro importante, Le origini del pensiero greco, che apparve nella collana «Miti e religioni» diretta da Georges Dumézil, quando fondò il Centro di Ricerche Comparate sulle Società Antiche: era il 1964. Membro di diverse accademie, ricoprì la cattedra di studi comparati delle religioni antiche al Collège de France fino ai suoi ultimi giorni.
La sua organizzazione dell’universo simbolico
Lo sforzo per inscrivere in anticipo nella storia i fini ultimi dell’uomo è qualcosa di incredibilmente incerto. Jean-Pierre Vernant
di Massimo Stella (il manifesto, 11.01.2007)
Sono dello stesso Jean-Pierre Vernant le parole che meglio chiariscono il senso del tanto lavoro critico e scientifico da lui svolto in più di mezzo secolo d’attività. Citando polemicamente - nella prefazione all’edizione francese dell’ Antropologia della Grecia antica di Louis Gernet - il Foucault delle Parole e le cose, allora uscito da solo un anno, così scriveva: «Nel momento in cui si è arrivati a intravedere la scomparsa dell’uomo come oggetto di scienza e si è scritto che ’ai nostri giorni non possiamo pensare che dentro il vuoto dell’uomo scomparso’, la ricerca di Gernet assume ai nostri occhi valore esemplare».
L’annuncio provocatorio di Foucault circa la «scomparsa dell’uomo» aveva evidentemente turbato e irritato la coscienza di un intellettuale che fu e restò, sostanzialmente per tutta la vita, un umanista. Un comunista umanista. È in questa prospettiva che si deve guardare complessivamente all’opera di Jean-Pierre Vernant e specialmente a quella formula da lui adottata nell’introduzione al suo libro chiave e più rappresentativo, Mito e pensiero presso i Greci, nota come «psicologia storica». Presentandosi dunque come uno psicologo della storia e al contempo come uno storico della psicologia umana, Vernant dichiarava: «cerchiamo che cosa sia stato l’uomo stesso, l’uomo greco antico», precisando da convinto marxista «che non si può separare dal contesto sociale e culturale di cui è il creatore e insieme il prodotto».
È facile oggi, forse troppo facile, e persino malevolo liquidare questa prospettiva come ingenua. Perché è altrettanto evidente, oggi, che del metodo praticato da Vernant e dagli studiosi che accanto e intorno a lui hanno scritto e pensato, raccogliendosi al Centro Louis Gernet da lui fondato, si è nutrita in un modo o nell’altro, fedelmente o infedelmente, dichiaratamente o dissimulatamente, l’intera comunità scientifica degli antichisti, sul suolo europeo e, anche se in misura minore, d’oltreoceano. Importante, invece, è capire che cosa ci fosse di così tenacemente vitale nella psicologia storica di Jean-Pierre Vernant da colonizzare e di fatto rivoluzionare in senso veramente copernicano gli studi di Scienze dell’Antichità. Lo si vede bene proprio nel suo Mito e pensiero presso i Greci.
Vernant ha saputo rinnovare, nella seconda metà del ’900, la fecondità di alcune straordinarie ricerche del secolo che lo precedono, tra la metà avanzata dell’800 e la prima del ’900, ricerche quali quelle di Bachofen, di Frazer, di Rohde, di Cornford, di Murray, di Jane Hellen Harrison, di Benveniste, di Gernet, di Mauss, perché in questi nomi, nei loro metodi e nei loro percorsi, stanno le radici del pensiero di Vernant. E di questa vera e propria genealogia di studiosi Vernant è stato fino ad oggi, di fatto, l’ultimo strenuo rappresentante, forse anche fuori tempo (come dimostra la sua reazione negativa alle Parole e le cose, uno dei libri che più tempestivamente hanno colto l’animo del secondo ’900) ma senz’altro dotato di un dinamismo e di una carica intellettuale che ha convinto e si è guadagnata un enorme successo.
La psicologia storica di Vernant funziona come un dizionario della cultura umana. Quando non ha firmato con altri, ha sostanzialmente sempre lavorato per «voci» (articoli), raccogliendole poi sapientemente in volume. I capitoli di Mito e pensiero sono come «nomi» di una enciclopedia: «Aspetti mitici della memoria e del tempo», «L’organizzazione dello spazio», «Il lavoro e il pensiero tecnico», «La categoria psicologica del doppio», «La persona nella religione», «Dal mito alla ragione», a loro volta rubricati in sotto-voci che illustrano a titolo di esempio e di «caso» la voce principale.
Nel leggere Vernant si rimane impressionati dalla eccezionale vastità di questo effetto enciclopedico e dalla sua efficacia, dalla sua indubitabile tenuta complessiva. Tanto più perché oggi tutti noi abbiamo la sensazione che manchino grandi libri, libri magistrali, quelli che ci fanno accostare con l’interesse caldo dello scopritore e non con il freddo tecnicismo del compilatore di bibliografie. Sicché, quando ci troviamo a leggere o a rileggere Mito e pensiero o Mito e società che sulla falsa riga del primo è costruito, abbiamo l’impressione di imparare qualcosa di fondamentale sulla formazione e la produzione del pensiero.
Se è vero che Vernant ha rivoluzionato gli studi di Scienze dell’Antichità nella seconda metà del ’900, non ne ha, tuttavia, rinnovato il pensiero, né c’era da attenderselo. Come un certo tipo di grandi libri, i libri di Vernant non contengono sostanzialmente nessuna rivelazione e nessuna provocazione. Di fatto ripercorrono una via antica: organizzare, visitare e rivisitare l’ipotetico «universo simbolico» dell’uomo: in questo è consistito il suo lavoro di psicologo della storia. In quali termini, poi, si possa parlare di «universo simbolico» e di «uomo» è cosa che Vernant non ha, sapientemente, voluto chiedersi.
MAURIZIO BETTINI RICORDA JEAN-PIERRE VERNANT [Dal quotidiano "La repubblica" dell’11 gennaio 2007...] *
Sali’ sulla pedana dove stava la cattedra, tiro’ a se’ la sedia, ma non si sedette. Il pubblico senese - numerosissimo: come si poteva mancare a una conferenza del grande Jean-Pierre Vernant? - lo guardava con ammirazione, ma anche con un po’ di sconcerto. Perche’ restava in piedi? Indugio’ ancora qualche secondo, poi scosse la testa e finalmente si sedette. Vernant parlava malvolentieri da seduto. Forse fu per questo che, prima di iniziare la sua conferenza, volle almeno togliersi la giacca; ma non avendo dove appoggiarla, la lascio’ scivolare tranquillamente a terra, davanti a tutti. Poi comincio’ a parlare, a braccio, come sempre faceva.
A mia conoscenza, Vernant e’ stato l’unico ellenista che, quando parlava, pareva veramente ispirato da una musa, come l’aedo omerico. Salvo che poteva lasciar scivolare la giacca per terra con una semplicita’ inaudita. Beniamino Placido, che assisteva alla conferenza, il giorno dopo scrisse che quel gesto gli aveva ricordato un film con Jean Gabin.
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Vernant se n’e’ andato all’eta’ di novantadue anni, ma avremmo voluto averlo con noi ancora a lungo. Nel mondo degli studi classici Jipe’, come lo chiamavano i suoi amici, costituiva una presenza fondamentale, il vuoto che lascia non potra’ essere colmato da nessuno. L’oratore dalla meravigliosa semplicita’, l’aedo omerico che sapeva raccontare il mito greco anche ai suoi nipoti e bisnipoti (come ha fatto in due libri pubblicati in Italia da Einaudi), il saggista elegante, dallo stile trasparente come il cristallo, al mondo greco in realta’ non c’era arrivato lungo la via della letteratura.
La sua "agregation" l’aveva infatti ottenuta in filosofia, nel lontano 1937, e i suoi primi studi furono dedicati a Diderot. Nel 1940 c’era stato poi l’incontro con Ignace Meyerson, che lo aveva coinvolto nel suo appassionante progetto di psicologia storica, e nel 1948 quello, altrettanto fondamentale, con Louis Gernet, grande studioso di diritto greco e fondatore dell’antropologia storica. Ma qualsiasi autobiografia intellettuale di Vernant, anche la piu’ sintetica, non puo’ ignorare l’altra grande componente, o per meglio dire passione, della sua vita: la politica.
Iscritto al Pcf dal 1932 al 1970, il giovane Vernant aveva svolto un ruolo rilevante nella Resistenza antinazista a Toulouse, e la politica ha continuato ad appassionarlo lungo l’intera esistenza.
Ci si accorge cosi’ che lo studioso il quale, a partire dagli anni Sessanta, ha in qualche modo rivoluzionato il mondo degli studi classici, e di quelli greci in particolare, era in realta’ un filosofo che aveva attraversato le scienze sociali, e un "resistente" innamorato della politica. Alla Grecia Vernant ci era arrivato per una scelta piu’ che matura, ecco perche’, probabilmente, e’ stato capace di cambiarne l’immagine. Il fatto e’ che Jipe’ ha trascorso la sua vita ad "attraversare le frontiere", come suona il titolo del suo ultimo libro. Ha insegnato a farlo anche a molti di noi e, ci auguriamo, anche a tanti giovani che debbono ancora affacciarsi all’orizzonte degli studi classici.
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Guardo la pila dei suoi libri, ammucchiati sulla scrivania. Li ho messi li’ per aiutare la memoria, certo, ma anche per un ultimo omaggio a un uomo che abbiamo molto amato. Non e’ stato forse lui ad insegnarci che, per i greci, l’impalpabile psyche’ -l’anima del defunto che continua ad aleggiare nell’Ade - corrisponde a cio’ che essi chiamavano kolossos, la rigida stele di pietra che garantisce il passaggio fra i due mondi, quello di sopra e quello di sotto? Di lui ci resta un kolossos di libri, uno piu’ bello dell’altro. Mito e pensiero presso i greci, Le origini del pensiero greco...
Da studenti li leggevamo quasi di nascosto, nelle Universita’ di allora Vernant era considerato abbastanza eretico, e soprattutto poco attendibile. Non e’ un grecista! si sussurrava, e a volte questo veniva perfino gridato ad alta voce. Un po’ come Noam Chomsky che non sapeva, dicevano alcuni, se non l’inglese, e per questo non poteva essere un buon linguista. Ma noi i libri di Vernant li leggevamo lo stesso. A volte penso che i giovani abbiano un dio (naturalmente greco) che li aiuta a scegliere i libri giusti, e che questo dio non possa che essere Eros, pungente dio della passione e dell’amore: quello a cui Vernant ha dedicato uno dei suoi saggi piu’ belli.
Guardo ancora il kolossos dei suoi libri. La morte negli occhi, Mito e tragedia... Altri li ha scritti assieme a compagni di strada come Marcel Detienne e Pierre Vidal-Naquet, ad allievi diventati nel tempo amici e collaboratori, come Francoise Frontisi. A questo punto, quando i libri ricominciano a farsi persone, ad assumere volti e voci, qualsiasi classicista non puo’ fare a meno di pensare ad un luogo, quello in cui molti si sono recati, nel corso del tempo, come per un pellegrinaggio o un rito di passaggio.
Erano poche stanze in Rue Monsieur Le Prince, a Parigi, dove Vernant aveva fondato il ’Centre des recherches comparees sur le societes anciennes". Un istituto diventato rapidamente celebre, un punto di riferimento. A chi si meravigliava della sproporzione fra la semplicita’ dei locali, e la fama raggiunta dal "Centre", veniva risposto che, al piano di sopra, abitava nientemeno che il grande Greimas. Dopo di che non restava che allargare le braccia, rassegnati. La vera grandezza si raggiunge nei luoghi semplici, oltre che nei gesti semplici: come una giacca scivolata a terra.
EVA CANTARELLA RICORDA JEAN-PIERRE VERNANT [Dal "Corriere della Sera" dell’11 gennaio 2007...] *
E’ impossibile, in poche righe, dire quel che si vorrebbe di Jean-Pierre Vernant, nell’apprendere la sua scomparsa a Parigi. Impossibile rendere almeno in parte giustizia alla grandezza di un uomo che non e’ stato solo uno dei piu’ grandi intellettuali del nostro tempo. Bastava sentirlo parlare una sola volta per capire che non si trattava solo di uno dei grecisti piu’ originali del secolo ventesimo, ma anche una persona straordinaria per gentilezza, modestia e un perdurante, appassionato interesse alla vita.
Negli anni tra il ’43 e il ’45, l’impegno politico lo aveva portato (giovane militante comunista, poi fortemente critico nei confronti del Pcf) a militare nella Resistenza francese. E a chi gli domandava come potesse conciliare ricerca e politica raccontava di quando, nel corso di un dibattito, un giovane gli aveva chiesto se esistesse un nesso tra la sua lettura di Omero e la sua attivita’ nella Resistenza. In un primo momento la domanda lo aveva scandalizzato: poi si era reso conto dei legami che avevano tessuto una sorta di rete invisibile di corrispondenze tra il suo passato e la sua interpretazione dei poemi omerici. L’esperienza di combattente aveva orientato la sua ricerca "erudita", facendogli privilegiare determinati aspetti della poesia epica: l’ideale eroico, la vita breve dell’eroe, la sua "bella morte", l’oltraggio al cadavere, la gloria imperitura, vero onore al di la’ della morte, la memoria del canto poetico. * La politica e la Grecia, dunque. Una Grecia diversa, nuova, che Vernant ci ha aiutato a scoprire nel 1965, anno di pubblicazione di Mito e pensiero presso i Greci. Un libro fondamentale, per chi era, allora, un giovane studioso. Riprendendo la parola d’ordine lanciata pochi anni prima da Zebedei Barbu, Vernant invitava a tornare ai greci. Non i greci "del miracolo" beninteso. Bisogna cercare, diceva Vernant, quell’uomo greco antico che non puo’ essere separato dal quadro sociale e intellettuale di cui e’ al tempo stesso creatore e prodotto. Bisogna scrivere una storia dell’uomo interiore solidale a quella delle civilta’.
L’invito a tornare ai greci venne accolto con entusiasmo dagli antichisti che sentivano la necessita’ di un approccio nuovo, che ridesse un senso agli studi classici. I greci che Vernant invitava a riscoprire erano al tempo stesso prossimi e "altri". Su versanti diversi, l’"alterita’" dei greci divenne oggetto di ricerche fondamentali. I greci non erano piu’ gli stessi, si era aperta la via allo studio delle condotte eterodosse che le sette raccomandavano per contestare la regola civica, venivano alla ribalta gli esclusi dalla citta’, i marginali, gli schiavi, le donne.
*
Ogni libro di Vernant offriva un nuovo spunto, ed erano tanti, da Mito e tragedia nell’antica Grecia a Le origini del pensiero greco, da Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia a Nascita di immagini. E ancora: La morte negli occhi, Mito e tragedia due, Senza Frontiere. Memoria mito e politica. Direttore alla "Ecole des hautes etudes" dal 1958, fondatore del Centre Gernet, dal 1975 al 1984 al College de France, quindi all’Academie Francaise, Vernant ha ricevuto innumerevoli premi e riconoscimenti. A dargli la sopravvivenza (quella che gli eroi omerici cercavano con la "bella morte") saranno le sue opere, che hanno dato ai classici un nuovo futuro.
* Fonte:
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino", Numero 102 dell’11 marzo 2007(ripresa parziale).