A 70 anni dalla morte si apre l’«anno gramsciano»
di Luca Domenichini *
Si è dato il via alla ricorrenza dell’«anno gramsciano». Con una novità: a organizzare le celebrazioni per i settant’anni della morte di Antonio Gramsci, avvenuta a Roma il 27 aprile 1937, è stato nominato per l’occasione il "Comitato per l’anno gramsciano" , presieduto da Renato Zangheri, su iniziativa del segretario dei Ds Piero Fassino. La ricorrenza non è nuova ma, in vista del settantesimo anniversario della morte del padre fondatore del Pci, il Comitato che si è insediato a Roma ha allestito un programma «ricco e ampio», come spiega Piero Fassino durante l’apertura del gruppo che coordinerà le iniziative in Italia e nel mondo. Dice Fassino: «Investirà i "luoghi" gramsciani: dalla Sardegna a Torino, da Ustica a Turi, oltre alle principali città italiane».
Ecco le date: il 27 aprile a Cagliari, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sarà presentato il primo volume della Edizione Nazionale degli scritti di Antonio Gramsci. Il 27 e 28 aprile a Roma si svolgerà il Convegno Internazionale "Gramsci, la cultura e il mondo"con la presenza di storici e politologi europei, statuntensi, latinoamericani, cinesi, indiani e del mondo arabo. Il 13 e 15 dicembre a Turi, in Puglia, si rifletterà sul tema "Gramsci nel suo tempo". Mentre è prevista per novembre, al Teatro Stabile di Torino, una tavola rotonda con alcuni esponenti delle nuove generazioni di studiosi all’interno di un programma di letture gramsciane. Di più, nel corso delle iniziative per il settantesimo anniversario della morte sono previste anche celebrazioni che avranno dimensione internazionale con eventi e manifestazioni culturali promossi dall’Istituto Gramsci a Berkeley, Pechino, Mosca, Buenos Aires.
Il Comitato, presieduto da Zangheri, ha lo scopo di favorire e coordinare le iniziative «che sono di tre tipi - come spiega il presidente dell’Istituto Gramsci, Giuseppe Vacca - con appuntamenti promossi sia dai Centri gramsciani presenti sul territorio come quelli di Roma, Firenze e Bari, sia dal partito all’interno delle sezioni e in sede istituzionale». Del comitato fanno parte Piero Fassino, Massimo D’Alema, Alfredo Reichlin, Giovanni Berlinguer, Giglia Tedesco, Giorgio Ruffolo; storici e politologi tra cui Aldo Agosti, Pietro Scoppola, Adolfo Pepe, Giuliano Procacci, Michele Ciliberto, Claudia Mancina, Emma Fattorini, Tullio De Mauro, Lucio Villari, Francesca Izzo, Marisa Mangoni; il presidente e il direttore dell’Istituto Gramsci Beppe Vacca e Silvio Pons e i presidenti degli Istituti di Torino, Cagliari, Firenze, trieste, Bologna, Bari, Ancona e Palermo.
* l’Unità, Pubblicato il: 28.02.07, Modificato il: 01.03.07 alle ore 16.37
Per altre iniziative, si cfr.: GRAMSCI 2007
Gramsci, l’umanità di un politico integrale
Le «Lettere dal carcere», riproposte nei Millenni Einaudi con dodici testi inediti, sono una testimonianza di dignità dell’uomo «che ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali» (Emilio Gentile,13.10.2020).
PER GRAMSCI (COME PER KANT), TUTTO DA RIVEDERE. L’infinita scoperta di Gramsci. Un saggio di Angelo D’Orsi - con una premessa
il saggio di Angelo d’Orsi è contenuto nel volume "Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra" di Francesca Chiarotto (...)
FLS
Classici rivisitati
Gramsci, ora di te ci fidiamo
Attraverso l’utilizzo dei migliori strumenti filologici, la nuova edizione dei «Quaderni» ridisegna e completa il profilo del pensatore
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.12.2017)
È ormai un dato di fatto acquisito: Antonio Gramsci, insieme a Croce e Gentile, è la figura più rilevante del pensiero italiano del XX secolo, ed è oggi l’autore italiano più conosciuto e più tradotto nel mondo: in Europa come in Asia, negli Stati Uniti e specialmente nell’America del Sud, dove da tempo la sua opera conosce una fortuna straordinaria .
Tanto più diventa necessario disporre di una edizione affidabile dei suoi testi, di tutti i suoi testi - di quelli precedenti il carcere e di quelli carcerari, anche per cogliere le diverse fasi della riflessione di Gramsci e i mutamenti, talvolta assai rilevanti, che connotano lo sviluppo del suo pensiero - mutamenti che si possono cogliere anche a livello linguistico, nelle trasformazioni del lessico di Gramsci su punti centrali della sua ricerca - a cominciare dalla interpretazione del pensiero di Marx.
Non è facile però allestire una edizione affidabile e rigorosa degli scritti gramsciani per una serie di motivi, connessi anche alla loro gestazione e alla loro complessa “fortuna” : redatti in carcere fra il 1929 e il 1935, vengono messi in circolazione molti anni dopo, nella seconda metà degli anni quaranta . Il primo testo di Gramsci pubblicato in Italia furono Lettere dal carcere, stampato dall’editore Einaudi, e ad esse, sempre presso Einaudi, seguirono i volumi organizzati nella cosiddetta edizione tematica, impiantata sui “quaderni speciali”, anche per gli obiettivi che si proponeva l’edizione.
L’opera di Gramsci è entrata dunque in circolazione in una situazione profondamente diversa da quella in cui furono scritti , quando tutti i punti di riferimento di Gramsci erano cambiati, e questo rendeva, ovviamente, più complessa una loro adeguata, ed esauriente, decifrazione. Ma a complicare la situazione si aggiungevano le particolari traversie politiche dei Quaderni, salvati grazie alla accortezza di Palmiro Togliatti, il quale riuscì a custodirli e a farli arrivare in Italia e, di fatto, a gestirne la prima edizione italiana, quella tematica uscita presso Einaudi sopra ricordata.
Come dimostra l’organizzazione del materiale, si trattava di una sapiente operazione politica, che mirava a collocare Gramsci nel pieno della battaglia politica e culturale in corso in Italia in quegli anni, facendone l’avversario principale, anzi il demolitore, della figura e dell’opera di Benedetto Croce, considerato ancora, a quel momento, la personalità più influente della cultura borghese nel nostro Paese. I Quaderni, nell’edizione tematica, sono organizzati in modo da poter rappresentare un punto di vista alternativo, anzi opposto a quello di Croce, in tutti i campi: letterario, estetico, politico, storiografico....
Di questa edizione sono stati mostrati poi i limiti, le carenze, le omissioni (comprese le importanti Note autobiografiche del quaderno 15), che certo ci sono, e si spiegano - anche se non si giustificano - con la funzione politica che Togliatti intendeva far svolgere a Gramsci, quale fondatore del Partito Comunista Italiano e ideatore della strategia culturale e politica seguita nel dopoguerra. In ogni caso, fu in questo modo che Gramsci venne fatto conoscere a nuove generazioni di italiani , trasformandolo in un momento centrale della loro formazione etico-politica .
Fu però lo stesso Togliatti a comprendere che Gramsci era altro, e di più , e che il suo pensiero travalicava gli orizzonti di un partito per configurarsi come uno dei vertici del pensiero italiano; a capire, insomma, che Gramsci era un classico e che in questi termini andava proposto e decifrato.
È da questa temperie, alla quale Togliatti diede un contributo decisivo avviando anche una nuova riflessione sulla storia delle origini del PCI sulla base di nuovi documenti, che nacque il progetto di una nuova edizione dei Quaderni, allestita da Valentino Gerratana, pubblicata nel 1975 dall’editore Einaudi.
Un’opera, va detto subito, di eccezionale rilievo, che pose su basi moderne lo studio di Gramsci , pubblicando i Quaderni nella loro integrità; proponendone una datazione e numerandoli secondo la data di avvio, ipotizzata o accertata; mostrando, anche attraverso soluzioni grafiche, come i testi di Gramsci fossero da distinguere almeno in due tipologie: quelli di cui esisteva una doppia redazione e quelli in unica redazione, mentre l’edizione tematica aveva escluso le annotazioni di prima stesura dei Miscellanei .
È da questa edizione che sono scaturiti i lavori degli anni successivi, imperniati su un saldo intreccio di filologia e filosofia, con un’attenzione alle “varianti” gramsciane che ha contribuito a mutare in modo sostanziale l’immagine tradizionale di Gramsci .
Con l’edizione di Gerratana il profilo di Gramsci quale classico che andava studiato, decifrato e interpretato come si studiano i classici era ,in buona parte, acquisito. Ma, come accade in testi così complessi e stratificati - anche per i modi e le situazioni in cui furono scritti -, molti problemi restavano ancora aperti, a cominciare dalla datazione dei Quaderni, dei tempi e dei modi in cui essi erano venuti alla luce ; problema che, a sua volta, ne implicava un altro, pregiudiziale, non ancora messo a fuoco in maniera adeguata: come lavorava Gramsci in carcere, in che modo ,e con quali criteri, aveva utilizzato, i quaderni. -Ed è proprio su questi problemi che si è lungamente impegnato Gianni Francioni nelle sue ricerche e raccogliendo intorno a sè una equipe di studiosi che stanno ora lavorando con lui alla nuova edizione dei Quaderni, di cui è ora uscito, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, il tomo che inizia la pubblicazione dei dodici quaderni miscellanei - dieci per intero - redatti da Gramsci tra il febbraio del 1929 e il giugno del 1935.
Merito di questo lavoro - che rientra nella nuova edizione nazionale degli scritti di Gramsci istituita dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, su iniziativa della Fondazione Gramsci - é, in primo luogo, quello di essere imperniato su una nuova datazione dei Quaderni sulla base di una tesi ben sostenuta ed argomentata: Gramsci lavorava contemporaneamente a diversi Quaderni; i quaderni
“misti“, così li definisce Francioni, erano utilizzati per lavori differenti.
E questo significa che la successione esterna dei Quaderni non corrisponde allo svolgimento effettivo del lavoro di Gramsci, che quindi deve essere decifrato, e periodizzato, tenendo conto di come egli effettivamente lavorava quando redigeva le note che compongono i Quaderni: dalla primavera del ’32 fino al giugno del ’35, Gramsci si impegna, ad esempio, nella sistemazione dei quaderni monografici, ma continuando a lavorare nei miscellanei. Una ricerca complessa e difficile che ha consentito di entrare nell’officina di Gramsci, utilizzando gli strumenti della migliore tradizione filologica italiana: quella che, in una parola, fa capo a Gianfranco Contini e ai suoi “esercizi di lettura”- a cominciare da quello su “come lavorava l’Ariosto.
Una nuova edizione; una nuova periodizzazione; e quindi una nuova interpretazione del pensiero di Gramsci, perché, si sa, periodizzare è interpretare , come conferma l’Introduzione al volume . Si tratta di un’opera importante e significativa, e non solo per gli studi gramsciani, e lo dimostra il ricchissimo apparato di note che correda il volume. E fa piacere che essa, come tutti gli altri volumi dell’edizione già usciti, appaia per i tipi dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, la sede più indicata e più prestigiosa per ribadire la classicità dell’opera di Gramsci . In questo caso il tempo - che divora ogni cosa - ha restituito a Gramsci quello che gli era dovuto .
L’autore è Professore di Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Scuola Normale Superiore
IMMAGINARIO E POLITICA. ALLE ORIGINI DEL SUPERUOMO DI MASSA E DELL’ITALIA COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DI UN UOMO SUPREMO
Antonio Gramsci fan delle avanguardie
di Simona Maggiorelli *
Quella di Gramsci fu certamente una visione d’avanguardia. Nei contenuti e per il metodo di pensiero. Libero, laico, antidogmatico. Ma anche per quel suo legare strettamente politica e cultura nell’idea di egemonia, come capacità di reagire all’oppressione, ingaggiando una lotta senza armi, avendo il coraggio di schierarsi contro il nazifascismo. Dai suoi scritti traluce una idea alta di cultura, intesa come l’espressione più profonda della realtà umana. Va di pari passo con il suo interesse per l’arte come linguaggio universale e per la ricerca di forme innovative capaci di esprimere progetti rivoluzionari. Non stupisce dunque che l’avanguardia artistica l’abbia sempre attratto in tutte le sue manifestazioni.
Fin dai tempi in cui era giovane critico teatrale de L’Avanti, come testimoniano le sue recensioni, pubblicate trent’anni fa da Einaudi e più di recente riproposte in un nuovo volume da Aragno con prefazione di Davico Bonino. Un libro prezioso perché riporta in primo piano il suo avventurarsi solitario fra le innumerevoli facce e i fermenti del teatro di allora, diviso tra intrattenimento e sperimentazione, tra Niccodemi e Pirandello o Rosso di San Secondo, tra vaudeville e futurismo, senza tuttavia trascurare, autori «sociali» oggi difficili di digerire come Andreev. Con piglio corrosivo Gramsci si scagliava contro la degenerazione trombonesca del “grande attore” e smascherava le «ditte» che per ragioni commerciali puntavano al ribasso qualitativo dell’offerta. Da socialista non perdeva mai di vista l’educazione e l’emancipazione delle classi lavoratrici ma era anche sensibile alle questioni estetiche che non giudicava fine a stesse. Così fu il primo a lanciare Luigi Pirandello riconoscendogli quella sua speciale capacità drammaturgica di far vivere i personaggi sotto i nostri occhi. Anche se poi ebbe a dire che Pensaci, Giacomino! era un testo appesantito da «abitudini retoriche» e Il giuoco delle parti da un «verbalismo pseudo filosofico».
L’ idea gramsciana di letteratura era lontana dall’idealismo astratto ed estetizzante di Croce, quanto dal realismo socialista. La rivoluzione doveva darsi modi nuovi anche di espressione artistica. In Machiavellismo e marxismo Gramsci scriveva, «lottiamo per la nuova cultura. In un certo senso quindi è anche critica artistica, perché dalla nuova cultura nascerà una nuova arte...». Dunque fu molto incuriosito, soprattutto nelle prime fasi, dal futurismo, che cercava vie diverse per raccontare le trasformazioni della modernità. -Quando uscì il primo manifesto il 20 febbraio del 1909, l’avvento del fascismo era ancora lontano. Allora appariva come un movimento magmatico, in cui accanto a Filippo Tommaso Marinetti, che pericolosamente inneggiava alla «guerra sola igiene del mondo», si muovevano personalità le più diverse. Fortissima all’interno del movimento era l’ala anarco-sindacalista. Il futurismo anarcoide fu un torrente rivoluzionario negli anni Dieci, tanto che, ancora nel 1921, Gramsci definiva quel filone «nettamente rivoluzionario, assolutamente marxista». Ma quel gruppo non divenne mai egemone. A prevalere, come è noto, fu l’ala futurista che diventò organica al regime.
Con la morte di Umberto Boccioni che si era arruolato volontario, il futurismo perse il suo miglior talento. Da tempo non c’era più quella volontà totalizzante di “rifondare” il mondo: di «ricostruire l’universo» come predicava il Manifesto del 1915 di Balla e Depero, che si erano dati inizialmente l’obiettivo di creare un’arte nuova, in sintonia con il mondo moderno, ridisegnando ogni aspetto del vivere: dall’ambiente, delle case, agli abiti, passando dalla scrittura, alla musica, al teatro, dal cinema, alla fotografia. Il sipario si era squarciato e i futuristi - specie quelli della seconda ondata - divennero picchiatori fascisti. Già nel 1920 Antonio Gramsci li accusava di essere solo una manica di irresponsabili scappati da un collegio di gesuiti: «sono solo degli scolaretti che hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti dalla ferula sotto la guardia campestre».
Molte cose erano cambiate da quando, nel 1913, ancora studente, era intervenuto sul Corriere Universitario di Torino in difesa dei futuristi attaccati dalla rivista bolognese San Giorgio, organo di gruppi cattolici integralisti e reazionari. Come ha scritto Umberto Carpi - autore di Bolscevico immaginista (1981) e molti altri studi sul rapporto fra socialismo rivoluzionario e movimenti d’avanguardia - per Gramsci il fenomeno futurista andava letto nel quadro della rivoluzione formale operata in quegli anni dalle avanguardie artistiche europee. Non di bizzarrie si trattava, ma di un radicalismo formale ricercato e consapevole, che voleva rifondare il discorso artistico nell’ottica di una modernità vissuta come rivoluzionaria.
Giovanissimo e brillante intellettuale, Gramsci era impegnato in uno sforzo di comprensione di quella Torino operaia, città-fabbrica, simbolo della modernità e del macchinismo, tematizzato seppur in maniera ambigua dai futuristi. I pochi di sinistra, fra loro, facevano capo all’anarco-bolscevismo e al raggismo russo e a loro si rivolgeva cogliendone il rapporto con lo specifico della realtà industriale, come luogo del mutamento permanente, perché nella metropoli si realizzava il processo di distruzione del passato in un’ottica di incessante rinnovamento. Ed è lì che devono operare i rivoluzionari: su questa visione strategica ordinovisti e futuristi furono in assoluta sintonia. Ad Antonio Gramsci, poi, non sfuggiva l’importanza non secondaria della questione “culturale” nella battaglia per l’egemonia e la questione delle alleanze; per questo lavorava per indirizzare in senso progressista il ribellismo anti borghese delle frange intellettuali futuriste.
Dall’osservatorio speciale di Torino capiva che non confrontarsi con i futuristi significava abbandonarli al richiamo forte dell’attivismo fascista. In questo contesto nasce nel 1921 l’Istituto di cultura proletaria (Proletkultur) con lo scopo dichiarato di rendere i “produttori” protagonisti anche della battaglia di rinnovamento rivoluzionario dell’arte e della cultura. Un progetto che trovò sponde nel gruppo dirigente dell’Internazionale comunista di cui era esponente Lunačarskij che era stato in Italia fra il 1905 e il 1912 e sapeva di Marinetti e del movimento da lui avviato.
Un tentativo di dialogo che si tradusse in un episodio alquanto “singolare”: la partecipazione di una folta delegazione di operai ordinovisti alla esposizione futurista torinese del 1922, guidati dallo stesso Marinetti che raccontava una cronaca su L’Ordine nuovo, «si prodigò a spiegare il significato pittorico dei singoli quadri e il valore del futurismo in genere».
Questo per dire quanto fosse confuso e complesso il quadro a pochi mesi dalla marcia su Roma del 28 ottobre del 1922. E la situazione ben presto precipitò, anche per Antonio Gramsci dal punto di vista personale. Nel giugno del 1922 giunse a Mosca la delegazione del Partito comunista d’Italia per partecipare all’esecutivo della Terza Internazionale. E nel novembre del 1923 il dirigente del Pcd’I Antonio Gramsci si trasferisce da Mosca a Vienna, nel maggio 1924 torna in Italia e l’8 novembre 1924 viene arrestato.
Ma torniamo ancora per un attimo al suo arrivo in Russia. Nel 1922 era noto a Mosca e apprezzato da Lenin come ideatore del movimento dei consigli di fabbrica e fondatore de L’Ordine nuovo e da tempo si interessava all’arte di avanguardia. Lo ricorda Noemi Ghetti in un denso paragrafo “Il comunismo e gli artisti” nel suo libro Gramsci nel cieco carcere degli eretici (L’Asino d’oro, 2014, l’autrice ne parla in un incontro con gli studenti a Latina il 28 aprile), ricostruendo le prime vicende del futurismo russo che aveva avuto un fulminante avvio con Schiaffo al gusto corrente di Chlebnikov e Majakovskij. La svolta di Kandinskij verso l’astrattismo era già iniziata nel 1905 come splendidamente racconta la mostra milanese Kandinskij, il cavaliere errante al Mudec (aperta fino al 9 luglio, vedi Left n.12).
Il gruppo cubo-futurista o Gileja conquistò presto la ribalta moscovita. «Sorta qualche anno dopo quella europea, l’avanguardia russa non conosce i confini che in Occidente dividono una corrente e una forma di espressione artistica dall’altra», annota Guido Carpi nella sua Storia della letteratura russa (Carocci, 2016). «Elementi desunti dal fauvismo e dal cubismo si fondono con elementi dell’espressionismo tedesco e del futurismo italiano. Il tutto in un contesto ancora ben memore del panteismo simbolista e delle concezioni teurgiche dell’arte nel 1910». Con la prima mostra del Fante di quadri la scena artistica russa fu scossa da una profondo terremoto anti-accademico. Dominava la scomposizione dei volumi, fiorivano forme e colori squillanti, immagini deformate segnate da violente linee nere, annota Guido Carpi, parlando dell’arte di Burljuk, Larionov, Gončarova, Ekster, Kandinskij, Lentulov, Koncalovskij, Tatlin. «Da questo gruppo ben presto si sarebbero separati Majakovskiij e Burljuk, i due più di sinistra», fa notare il professore di russo dell’ Università Orientale di Napoli.
Intanto Larionov aveva dato vita al raggismo (cosiddetto per i fasci di raggi irradiati), era «il primo esperimento di pittura non oggettuale in Russia. Un ideale condiviso di arte sintetica e dinamica portò alla collaborazione fra poeti e pittori. Il costruttivismo di Tatlin e il suprematismo di Malevič incontravano fortemente gli ideali della rivoluzione, alla quale Gramsci dedicò molti e approfonditi interventi (ora riproposti in Antonio Gramsci Come alla volontà piace, Castelvecchi).
In quel cruciale 1922, a Mosca, non frequentava solo il centralissimo Hotel Lux dove alloggiavano i dirigenti del Comintern e il sanatorio di Serebriani Bor, scrive Noemi Ghetti ne La cartolina di Gramsci (Donzelli, 2016). Ricordando che in quel periodo Gramsci incoraggiava Giulia a tradurre in italiano il romanzo politico-fantascientifico La stella rossa di Aleksandr Bogdanov, che nella Seconda Internazionale su ribattezzato la bestia nera di Lenin. Ancora una volta Gramsci si rivolgeva alla sperimentazione letteraria e cercava di tenere aperto il raggio dei rapporti per difendersi dal più rigido apparato.
Potremmo dire in conclusione che l’interesse per le forme sperimentali di arte non abbandonò mai Gramsci, nonostante le numerose delusioni? «Se il primo rapporto con il futurismo risale al 1913, si consolidò nel periodo de L’Ordine nuovo (1920-21). Si inseriva nel tentativo compiuto dal gruppo torinese di replicare in Italia quelle esperienze di originale “cultura proletaria” che in Russia avevano dato vita all’imponente movimento del Proletkul’t», risponde Guido Carpi, autore di Russia 1917, un anno rivoluzionario, appena uscito per Carocci. «Alle idee e alla pratica del proletkultismo, Gramsci era stato introdotto dal Commissario del popolo alla Cultura Anatolij Lunačarskij, da sempre convinto, sulle orme del filosofo marxista “eretico” Aleksandr Bogdanov, che la cultura sia esperienza collettiva organizzata e che debba mirare alla trasformazione del mondo e al superamento della cultura borghese, individualistica, passiva e sterilmente compensatoria».
In questa prospettiva, conclude il docente dell’Orientale, «l’apporto fondamentale del futurismo era per Gramsci non certo il gusto per la provocazione fine a se stessa, ma il tentativo di elaborare l’alfabeto di un’arte legata indissolubilmente ai luoghi e ai ritmi della produzione industriale e della società di massa: esperimenti che in Russia portavano Majakovskij, Rodčenko e Šklovskij a fondare il movimento costruttivista, con la straordinaria “appendice” dei laboratori sperimentali Vchutemas. L’influenza di Bogdanov e Lunačarskij del resto, non si limitò a questo: l’idea che la classe operaia dovesse fungere da baricentro organizzativo per una trasformazione universale della cultura e, in prospettiva, della vita sociale, portò Gramsci a elaborare la concezione di “egemonia”».
* LEFT, 24 APRILE 2017 (ripresa parziale).
Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista
Raccolti in un volume appena pubblicato con la prefazione di Canfora e la postfazione di Frasca Polara. Un vero e proprio manuale della professione e le battaglie su molte testate. Fino all’Unità, della quale racconta la genesi del nome.
di GIOVANNI CEDRONE (la Repubblica, 06 aprile 2017)
Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista
"Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale". Queste parole, contenute in una lettera a sua cognata Tatiana Schucht dell’ottobre 1931, forse meglio di altre testimoniamo l’indomito spirito con cui Antonio Gramsci si è dedicato al giornalismo. Le parole sono contenute nell’ultimo volume dedicato al fondatore del Partito comunista "Il Giornalismo, Il Giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore dell’Unità" a cura di Gian Luca Corradi (edito da Tessere).
A 80 anni dalla sua morte, avvenuta il 27 aprile 1937, Corradi ha raccolto alcuni fra gli oltre 1.500 articoli che Gramsci pubblicò su varie testate (prima di essere recluso nel 1927) e alcune lettere, antecedenti e successive alla carcerazione, nelle quali tocca l’argomento della stampa periodica. L’ideatore del concetto di egemonia si conferma un pensatore aperto e non dogmatico e le sue intuizioni sul giornalismo stupiscono per l’attualità e la lungimiranza. Come sottolinea Giorgio Frasca Polara nella postfazione, "Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia".
Non bisogna dimenticare che il contributo di Gramsci al giornalismo italiano è stato enorme: oltre ad aver fondato "L’Ordine Nuovo" e "L’Unità", Gramsci scrisse per almeno una decina di giornali, tra cui "La Città futura", numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese e "Energie nove", quindicinale diretto da Piero Gobetti. Luciano Canfora ricorda nell’introduzione le parole contenute nel verbale d’interrogatorio di Antonio Gramsci nel carcere giudiziario di Milano, datato 9 febbraio 1927, con cui lo stesso pensatore comunista dichiara di essere "pubblicista" prima ancora che "ex deputato al Parlamento". Sui "Quaderni" il fondatore dell’Unità traccia quasi un manuale del buon giornalista: parla di giornalismo "integrale", cioè quello che non solo intende soddisfare tutti i bisogni del suo pubblico, ma intende creare e sviluppare questi bisogni, rimarca poi la necessità per i giornalisti di "seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese".
Un sano realismo lo porta a considerare i lettori da due punti di vista, sia come elementi "ideologici, trasformabili filosoficamente", sia come elementi "economici, capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri". Sottolinea come il contenuto ideologico di un giornale non sia sufficiente a garantire le vendite: conta anche la forma in cui viene presentato. Interviene su quella che chiama "l’arte dei titoli" in cui influisce l’atteggiamento del giornale verso il suo pubblico che può essere "demagogico-commerciale" o "educativo-didattico".
Le riflessioni teoriche di Gramsci si riflettono nella sua attività di pubblicista. Il fondatore del Pci non si occupava solo di politica, ma anche di costume, società, teatro, musica e storia. In una pagina del marzo 1916 di "Sotto la Mole", Gramsci contesta, ad esempio, l’assunto che la malavita organizzata sia solo al sud, un discorso che a 100 anni di distanza risuona quanto mai attuale.
Nel maggio 1916 difende il maestro Toscanini per aver scelto una sinfonia di Wagner in un concerto al Teatro Regio di Torino, scelta che, con l’Italia entrata in guerra contro gli Imperi centrali, aveva provocato i fischi del pubblico. Scrive di teatro e in particolare la sua attenzione cade su Pirandello che per lui aveva il merito di creare "delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione".
Ragiona poi sul "carattere" degli italiani improntato, secondo lui, all’ipocrisia in tutte le forme della vita: nella vita familiare, nella vita politica, negli affari. "La sfiducia reciproca, il sottinteso sleale - sottolinea Gramsci - corrodono nel nostro paese tutte le forme di rapporti: i rapporti tra singolo e singolo, i rapporti tra singolo e collettività. L’ipocrisia del carattere italiano è in dipendenza assoluta con la mancanza di libertà".
Da un punto di vista storico, le pagine più interessanti sono nelle lettere, soprattutto quelle dal carcere, con il racconto della sua detenzione e le riflessioni sul giornalismo che occupano una parte importante della sua corrispondenza. In una missiva al Comitato esecutivo del Pcd’I del settembre 1923 svela perché fu scelto il nome "l’Unità" per il giornale da lui fondato. Aveva un duplice significato: innanzitutto richiamava all’unità tra operai e contadini, non soltanto nell’ambito del rapporto tra le classi, ma anche nel più generale tema della questione nazionale, "unità" tra nord e sud, tra città e campagna.
Nella lettera a Vincenzo Bianco del marzo 1924 emerge il Gramsci "maestro di giornalismo", una pagina che forse qualsiasi giornalista alle prime armi dovrebbe sempre tenere a portata di mano. Prima di iniziare a scrivere - afferma Gramsci - bisogna predisporre uno schema e domandarsi cosa sia veramente importante. Consiglia poi di leggere "Il Manifesto dei Comunisti" che definisce "un capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica". Infine invita alla brevità ricordando l’esempio di Andrea Viglongo, suo collaboratore, che allenava a scrivere articoli di al massimo una colonna e mezzo.
La raccolta di scritti ha il grande merito di tracciare con chiarezza un aspetto del profilo di Gramsci forse meno noto, quello del Gramsci giornalista. Un aspetto che conferma, come giustamente sottolinea Canfora, quanto Gramsci sia davvero appartenuto alla cultura italiana di quegli anni molto più che ad una cultura di partito. Pensatore mai banale, marxista irregolare, oggi icona pop e studiato nelle università di mezzo mondo, Gramsci fu anche "maestro di giornalismo" i cui insegnamenti, a distanza di 80 anni, restano più che mai validi.
Gramsci vittima della sua strategia
Giorgio Fabre, «Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato», da Sellerio.
di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 01.11.2015)
A partire dai primi studi di Spriano, la vicenda dei tentativi falliti di liberare Gramsci ha conosciuto una fortuna storiografica che ne ha fatto un tema sempre più ricorrente, e anche ineludibile nella discussione sul comunismo italiano, per le implicazioni che conteneva attorno al contrasto tra il «capo» dei comunisti e i suoi compagni che dall’estero tenevano in vita le stentate fortune di quel partito. Nel tempo si è trasformato, anche, in un «genere letterario» aperto a scorribande complottistiche, a processi sommari basati su brandelli di documenti decontestualizzati.
Oggi con il libro di Giorgio Fabre (Lo scambio Come Gramsci non fu liberato, Sellerio «La diagonale», pp. 536, euro 24,00) si esce decisamente dal complottismo o dalla reticenza (che è stata a esso speculare), e la vicenda viene riportata alla sua dimensione storica effettiva, dentro la quale però si annida anche un grumo di pensieri, di cose non dette e solo accennate o adombrate, e che tali inevitabilmente resteranno.
È un quadro molto ampio e frastagliato, di cui è impossibile rendere conto in dettaglio. Forse non tutto è egualmente significativo, e non è detto che dietro a ogni singolo gesto, supposizione od omissione debba nascondersi parte di un disegno o di molti disegni che si intersecano.
La trattazione segue le tre fasi che si succedono: una prima collegata a una sperata mediazione vaticana tra potere fascista e governo sovietico (scambio con vescovi) che si rivela inconsistente. Poi quello che Gramsci definisce il «tentativo grande», fase più lunga, che interviene mentre i rapporti fra Italia fascista e Urss conoscono un momento di incontro e collaborazione (Patto di amicizia del settembre 1933), che non dà vita neppure stavolta allo scambio auspicato ma che si conclude comunque con la concessione della «libertà condizionale» presso le cliniche di Formia e poi di Roma. Libertà che diviene però ben presto molto condizionata e sorvegliata e non si traduce nella concessione dell’espatrio in Russia per ricongiungersi alla famiglia, che è l’ultimo tentativo di un Gramsci ormai piegato e destinato a spegnersi il 27 aprile del 1937.
Posto che la mancata liberazione di Gramsci dipese in ultima istanza dalla volontà di Mussolini di mantenere uno stretto controllo sulla sua persona, la discussione che si apre riguarda il ruolo dei sovietici e, soprattutto, dei comunisti italiani.
Qui si possono cogliere molte novità. Intanto, contrariamente a quanto molti avevano adombrato, si può dire che non viene mai meno l’impegno dei sovietici per ottenere la liberazione di un loro uomo, malgrado le critiche del 1926, rivolte non tanto alla maggioranza staliniana quanto alle modalità di esercizio del suo predominio. Più complicato e dolente è il quadro dei rapporti con i compagni italiani. Lasciando da parte dissensi e dissapori sulle scelte dell’Internazionale, che pure agiscono sullo sfondo, la questione si pone sui pochi e spesso male improvvisati interventi nella questione.
Alla fine, si può anche convenire con l’autore che «gli italiani non facevano una gran bella figura» nella vicenda, sia perché «era difficile trovare qualche episodio che li vedesse positivamente coinvolti nei tentativi di liberazione del loro leader», sia perché alcuni interventi furono controproducenti e tali vennero severamente giudicati da Gramsci. Imbarazzo e reticenza che accompagneranno tale memoria e che impediranno fino all’ultimo una ricostruzione veritiera della vicenda. Ma qui è giusto ricordare che i comunisti italiani si mossero sotto un condizionamento difficilissimo tanto da ignorare quanto da accettare pienamente.
Infatti la novità più rilevante del libro è quella di porre al centro di tutta la vicenda Gramsci stesso, non solo in quanto oggetto di iniziative altrui ma soprattutto in quanto regista e stratega delle tortuose strade che avrebbero dovuto condurre alla sua liberazione. Una strategia largamente fallimentare, bisogna pur dire. Fin dall’inizio, con una fiducia immotivata nella disponibilità vaticana a trattare il suo scambio. Ma soprattutto con una strategia processuale debolissima e che si sarebbe rivelata all’origine di tutti i contrasti e di tutte le amarezze vissute nel rapporto con i compagni italiani.
Volontà di Gramsci era che gli italiani si tenessero fuori da ogni aspetto di quella trattativa, interamente demandata all’impulso sovietico. Una pesante intromissione era stata considerata la «famigerata» lettera di Grieco del 1928, sulla quale molto si è scritto, e che procurò in Gramsci un’irritazione destinata a riaffiorare nel tempo, mentre non suscitò reazioni simili in Terracini e Scoccimarro, che erano gli altri destinatari della missiva.
Al riguardo, bisognerebbe cominciare pure a chiedersi se davvero una polizia efficientissima come quella fascista avesse bisogno della lettera di Grieco per «scoprire» che Gramsci era uno dei massimi dirigenti del partito comunista. Ma tutta la strategia prescelta puntava ad attenuare e porre in dubbio l’esercizio di quel ruolo dirigente: il che comportava anche la raccomandazione di evitare campagne propagandistiche volte a rivendicare la sua liberazione.
A questo era particolarmente difficile attenersi, per un partito clandestino in patria e che aveva un compito naturale di mobilitazione di coscienze sul piano internazionale. Tanto più diverrà difficile col passare del tempo, quando, ad esempio, col patto di unità d’azione siglato con i socialisti nel 1934 il nome di Sandro Pertini verrà stabilmente ad associarsi a quello di Terracini tra le vittime del carcere fascista di cui si chiedeva la liberazione.
Al riguardo, è singolare che in questa letteratura non si sia mai tenuto conto della lettera di Togliatti a Turati del 30 ottobre 1930, nella quale venivano segnalate le gravi condizioni di salute di Pertini nel carcere di Santo Stefano, si invitava a una mobilitazione unitaria e si suggeriva di inoltrare la richiesta di trasferimento a un carcere più idoneo: come poi avvenne, nel carcere-sanatorio di Turi nel quale era recluso anche Gramsci (Sandro Pertini combattente per la libertà, a cura di S. Caretti e M. Degl’Innocenti, Lacaita 2006, pp. 70-71). La vicenda, tanto più significativa perché avvenuta in piena epoca di «socialfascismo», fa comprendere come da parte comunista si tenessero unite le dimensioni dell’agitazione politica e dell’esperire le vie «legali» consentite dai regolamenti.
Se si eccettuano cadute approssimative e dilettantesche (il modo in cui Azione popolare del 29 dicembre 1934, diretta da Teresa Noce, diede conto della scarcerazione di Gramsci, irrigidendo la posizione di Mussolini e dando luogo a quello che ancora nel 1969 Sraffa definiva un «disastro» rispetto alle speranze di Gramsci), la posizione del gruppo dirigente comunista fu nel complesso di accettazione della richiesta di Gramsci, se pure non condivisa e ritenuta sicuramente onerosa sul piano politico. Anche il ruolo di Togliatti emerge come particolarmente rispettoso della personalità dell’amico e vòlto a salvaguardarne la memoria, attribuendogli perfino colorite espressioni contro Trotskij nel momento in cui Grieco, Di Vittorio e altri sollecitavano un processo postumo contro Gramsci, che riuscì a bloccare. A Togliatti si deve in larga misura anche l’invenzione della frase eroica pronunciata di fronte al Tribunale speciale, dibattimento che invece si svolse in forma timida e stentata.
Quando all’inizio del 1934 Dimitrov venne espulso dalla Germania, dopo avere trionfato contro il Tribunale nazista, Gramsci dovette probabilmente porsi delle questioni e venire assalito da dubbi. Perché la strategia seguita dall’«eroe di Lipsia» era stata esattamente opposta a quella che Gramsci aveva prescelto: politicizzare al massimo il dibattimento, dare a esso la massima pubblicità, convogliare l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica internazionale. Gli ultimi anni di Gramsci furono amarissimi, segnati da delusione e scoramento, da sensazioni di abbandono e tradimento. Un esito di cui fu certamente vittima, ma che in qualche misura contribuì anche a determinare.
Liberare Gramsci: i tentativi sovietici e tutti gli errori del Partito comunista.
Colpe. I compagni italiani dimostrarono in questa vicenda leggerezza e cinismo
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 20.10.2015)
È uscito un libro che dice finalmente come andarono le cose quando si tentò di tirar fuori Antonio Gramsci dal carcere. Si tratta di un volume edito nei giorni scorsi da Sellerio, intitolato Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato , di uno storico italiano tra i più esperti di ricerche in archivio, Giorgio Fabre, curiosamente escluso dal mondo universitario, ad opera di docenti non di rado quasi digiuni della ricerca archivistica. D’altra parte è noto che ormai molte forze intellettuali valide non si trovano dentro l’istituzione universitaria, ma fuori.
Ma veniamo a questo libro per tanti versi decisivo. È talmente ricco che è difficile darne una descrizione completa. Proverò a darne il senso. Il risultato della ricerca è il seguente: il governo dell’Unione Sovietica e l’ambasciata sovietica a Roma operarono a più riprese per tirar fuori Gramsci dalla galera. Dapprima indirettamente (tramite il Vaticano: e su ciò Fabre porta molte novità), poi compiendo passi presso il governo italiano e direttamente presso Mussolini, col quale l’Unione Sovietica nel settembre 1933 aveva stretto un patto di amicizia e collaborazione che vigoreggiò fino alla rottura determinata dalla guerra d’Etiopia.
Alcuni episodi restano ancora passibili di progressi nell’indagine. Ad esempio, molti anni fa fu pubblicato il verbale di un incontro tra l’ambasciatore Potëmkin e Mussolini: verbale del quale inizialmente si disse che non era una cosa seria. In realtà l’incontro comunque ci fu e molto probabilmente (l’autore su questo punto è prudente), il tema Gramsci venne fuori nel dialogo tra l’ambasciatore sovietico e Mussolini. Sta di fatto che l’azione retroscenica dell’interlocutore sovietico, coordinata - nonostante tutto - con l’iniziativa acuta ed efficace dello stesso Gramsci, condusse alla concessione della libertà condizionale, con conseguente ricovero di Gramsci in clinica già alla fine del 1934.
Quello che era rimasto in ombra è che i compagni ostili a Gramsci, in particolare Athos Lisa, suo accusatore politico in carcere e dopo, continuarono a godere della piena fiducia del Centro estero del Pcd’I (almeno fino al momento in cui Mussolini poté, morto Gramsci, utilizzare su «Il Popolo d’Italia» un ignobile articolo del doppiogiochista Taddei che chiamava in causa a proprio sostegno Athos Lisa).
Gli interventi giornalistici promossi dal Centro estero del Pcd’I, in particolare su «Azione popolare» del 29 dicembre 1934 (a titoli cubitali: Gramsci è stato scarcerato) determinarono l’irrigidimento del governo italiano e l’arenarsi di ulteriori possibilità, ivi compresa quella di consentire a Gramsci di ricongiungersi alla famiglia in Russia. La notizia «sparata» da «Azione popolare» e presentata come effetto della campagna per la liberazione di Gramsci (cosa non vera) fu poi ripresa dal quotidiano del Pcf «L’Humanité».
Non aveva torto Piero Sraffa quando, scrivendo a Paolo Spriano nel 1969, parlò di vero e proprio «disastro», alludendo chiaramente a questa vicenda. Purtroppo Spriano, per motivi di opportunità partitica, non rese mai pienamente chiaro il senso di queste parole; e perciò nei suoi libri gramsciani l’episodio è sbiadito.
Cade con ciò la tesi che ha avuto tanta fortuna nella pubblicistica degli anni Novanta, soprattutto a destra, secondo cui vendicativamente i sovietici volevano mantenere Gramsci in carcere a causa della sua presa di posizione dell’ottobre 1926, in merito allo scontro in atto nel Partito comunista russo. Da parte dei compagni italiani ci furono leggerezza e cinismo: si volle sfruttare la vicenda Gramsci per fini agitatorii, giungendo a sostenere una tesi completamente falsa, che cioè Mussolini avesse ceduto di fronte alle pressioni della propaganda antifascista all’estero.
Nel volume del Fabre ci sono moltissime altre novità, a partire dalla prima edizione veramente completa dei documenti che Gorbaciov donò ad Alessandro Natta, riguardanti il primo tentativo sovietico - compiuto attraverso il Vaticano - di liberare Gramsci a ridosso dell’arresto. Anche in questa vicenda l’attenta rilettura, che Fabre fornisce, dei documenti e delle strane cancellature che li sfigurano si è rivelata molto istruttiva. Siamo di fronte ad un contributo che segna un punto fermo nella ricostruzione biografica su Gramsci.
Il nuovo saggio di Fabre ricostruisce le trattative “vaticane” per far uscire dal carcere il leader comunista
Quando Gramsci non fu liberato
storia politica di un fallimento
Nell’Archivio Andreotti i documenti sullo “scambio”
Mussolini fu irremovibile e influenzò il processo
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 02.10.2015)
Uno dice: Antonio Gramsci. E quel nome gli apre agli occhi della mente un grande paesaggio, come accade con pochi altri nomi dell’intera storia civile e vita intellettuale italiana. Di Gramsci si legge e su Gramsci si riflette nel mondo intero. E c’è almeno una cosa che tutti sanno di lui: che, chiuso in una prigione fascista e impedito di agire nella lotta politica e nei conflitti sociali del ‘900 europeo di cui era uno dei protagonisti, si dedicò a un’opera di pensiero
destinata al futuro: fece insomma, si direbbe coi versi di Dante che Benedetto Croce dedicò a Palmiro Togliatti, «come quei che va di notte che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte».
Di quell’opera si impadronì un esecutore testamentario, il Partito comunista di Togliatti, che ebbe il merito di conservarla ma ne fece un uso strumentale più o meno simile a quello che fece della figura dell’autore. C’è un rivolo di devozione che ha veicolato l’immagine di quel giovane uomo occhialuto con la grande testa incassata nelle spalle aureolandola della corona del martirio. Immagine adatta a un «santo leader morto in carcere», come scrive con amara ironia Giorgio Fabre nel suo nuovo e densissimolibro Lo scambio.
Come Gramsci non fu liberato (Sellerio editore); un’opera importante che affronta con decisione e con robusta ricerca un tema da tempo presente nelle discussioni intorno alla vita e all’opera di Gramsci: i tentativi di liberarlo dal carcere.
La vicenda fece la sua comparsa notevolmente tardi arrivando non proprio dal centro degli studi gramsciani legati al Pci: fu nel 1966 che un bel libro di Giuseppe Fiori raccontò del tentativo di Gramsci di ottenere la liberazione elaborando il piano di uno scambio di prigionieri e affidandolo alla mediazione della Chiesa cattolica.
Ci vollero altri undici anni perché una storiografia di partito in cauteloso avvicinamento alle regole della pratica storiografica accademica e agli angoli oscuri del proprio passato partorisse il libro di Paolo Spriano su Gramsci in carcere e il partito. Da allora si è aperta una discussione spesso vivacemente polemica che ha investito in modo speciale il nodo dei rapporti tra il partito comunista e il suo leader. Allora non si diceva “leader” ma “capo”: una parola molto più forte, osserva giustamente Giorgio Fabre. È una precisazione che nasce dallo scrupolo di aderire alla verità delle fonti frenando quel «furibondo cavallo ideologico» (come diceva Delio Cantimori) che nel campo degli studi su Gramsci e il Partito comunista ha avuto molte occasioni per far avvertire il suo furioso scalpitio.
Giorgio Fabre dichiara subito in apertura di libro la passione che lo lega al suo tema. Il suo è un forte sentimento d’ammirazione per l’uomo Gramsci, per il modo in cui riuscì a «bucare le pareti del suo carcere» e a guardare a ciò che si faceva e si pensava nel mondo intorno allo scontro politico in atto in Europa, col risultato di dare ai suoi Quaderni quel respiro di straordinaria curiosità e libertà intellettuale che tutti conoscono.
Ma chi fu che gli permise di conoscere e di sapere? Forse non ne sappiamo abbastanza: e Giorgio Fabre suggerisce piste e nomi per altre ricerche segnalando ad esempio il rapporto che si instaurò a un certo punto tra Gramsci e il presidente della Cassazione Mariano D’Amelio. Dunque questo libro non intende chiudere la ricerca, semmai per certi aspetti la riapre.
Forse la più importante novità sulla questione dello scambio riguarda il rapporto tra Gramsci e la Chiesa. Questa pista si apre con una esplorazione tra le carte dell’archivio Andreotti. Qui si conservano le copie di documenti provenienti da due diversissime direzioni e relativi alla questione della proposta di scambio tra Gramsci ed ecclesiastici cattolici prigionieri in Unione Sovietica: ci sono quelli tratti dagli archivi russi che Alessandro Natta, segretario del Pci, riportò dalla sua visita a Mosca del 1988 e quelli di origine vaticana che Andreotti, dietro richiesta di Paolo Spriano, si fece riprodurre pubblicandone poi una parte.
La proposta dello scambio era stata avanzata dall’incaricato d’affari sovietico a Berlino Stefan Bratman-Brodowski al nunzio vaticano a Berlino Eugenio Pacelli il 1° ottobre 1927. Giorgio Fabre ha approfondito questa pista con ottimi frutti e ha potuto raccontare per intero l’andamento e l’esito fallimentare di quel tentativo. Si approfondisce così come nel gioco della trattativa intervenissero diversi personaggi: tra gli altri il gesuita Pietro Tacchi Venturi, allora il tramite del papato con Mussolini. E si capisce come e perché la trattativa si chiudesse in maniera doppiamente negativa per Gramsci. Di fatto il Vaticano decise di lasciar cadere l’offerta in ragione di un diverso orientamento della sua politica verso l’Unione Sovietica. Ma intanto l’occhio attento del carceriere di Gramsci, Benito Mussolini, colse l’occasione per imprimere una svolta al processo in corso che aggravò le imputazioni a carico di Gramsci e ne chiuse a doppia mandata le porte del carcere.
Il giudizio di Fabre è che qui si coglie un primo errore di Gramsci: un errore legato in qualche modo a quella sua speciale considerazione della Chiesa di Roma che ha lasciato tracce anche nei Quaderni . Altri errori sono rilevati nella sua strategia successiva, soprattutto nel tentativo “grande”, quello del 1933 per ottenere la libertà condizionale. E ci furono anche le iniziative - non richieste né desiderate - del gruppo dirigente del Pci che mandarono a vuoto i progetti di un Gramsci sempre più sospettoso dopo la celebre vicenda della lettera di Ruggero Grieco, fino a fargli nascere il dubbio che i compagni avessero deciso di sacrificarlo. Molte le verità amare che Giorgio Fabre racconta in questo libro, molti e tenaci i silenzi, le mezze verità e le deformazioni del gruppo dirigente del Partito comunista.
Va detto tuttavia, a scanso di equivoci, che questa non è la rancorosa revisione di una vicenda interna a un partito. Le limpide e robuste pagine di Fabre non mandano mai i rancidi sapori del reducismo. La storia che qui emerge ha le robuste fondamenta di nuove conoscenze documentarie ma anche l’ampiezza di respiro che si conviene a una vicenda di dimensioni pienamente europee. Un solo esempio: per capire quello che avvenne col primo tentativo di scambio del 1927 Fabre ricostruisce l’intero quadro della situazione religiosa della Russia sovietica e della conseguente strategia vaticana in materia: il che ci permette di situare nel contesto grande la strategia di Gramsci e di capire quante e quali contraddizioni ne ostacolassero il successo. È una bella lezione di quale dovrebbe essere la pratica della ricerca storica sull’età contemporanea.
Al centro del libro resta lui, l’uomo Gramsci, il suo stile intellettuale e politico. L’indagine sui pensieri e comportamenti suoi in questi tentativi ne rivela le doti straordinarie: di pazienza, di lettura del mondo, di conoscenza degli uomini. E da parte dello storico c’è anche, inutile dirlo, un sentimento di perdita, un rimpianto di quello che la storia avrebbe potuto essere e non è stata: la possibile storia di un Gramsci che lascia l’Italia da uomo libero e in Italia torna con la Liberazione da grande e riconosciuto capo della sinistra comunista per agire nella nuova realtà del nostro paese. Una storia che non c’è stata, una perdita di cui noi italiani siamo stati tutti vittime.
Rileggere Gramsci come antidoto all’indifferenza
di Claudio Gallo (La Stampa, 10.02.2015)
Antonio Gramsci, chi è costui? Abbandonando l’imperfetto della citazione manzoniana, Diego Fusaro spiega in un agile testo di Feltrinelli (Antonio Gramsci, pp 175, €14) perché il pensatore sardo merita di essere riletto al presente.
Fusaro accoglie amorevolmente Gramsci nel proprio orizzonte di pensiero. Ne nasce una visione stimolante, che farà balzare dalla sedia i più tradizionalisti. La questione del rapporto dell’autore dei Quaderni dal carcere con il Partito comunista di Palmiro Togliatti, periferica alle intenzioni dell’opera, è appena affrontata. Abbastanza, però, per capire che l’autore si schiera con chi ritiene il Pci colpevole di aver volontariamente lasciato languire Gramsci in prigione, per liberarsi di un critico scomodo. Salvo poi innalzarlo agli onori museali, tra gli dei oziosi del comunismo italiano.
Perché, allora, rileggere l’Ordine Nuovo o i Quaderni? Nel discorso che dialetticamente si compone attraverso quelle opere, Fusaro vede un potente antidoto al Pensiero Unico, la società imbalsamata nel presente, senza possibilità di alternative future, che il filosofo torinese ha più volte tratteggiato come l’ideologia (totalitaria) del capitalismo avanzato.
Fin dall’editoriale del numero unico della rivista La città futura, dell’11 febbraio 1917, intitolato Odio gli indifferenti, Gramsci si schiera appassionatamente contro chi cede al fatalismo e al cinismo di fronte a una realtà percepita come ingiusta, per disperazione o convenienza. Scrive Fusaro: «Se come Gramsci ama ripetere in questo scritto del ‘17 (e si tratta di un modus operandi a cui sempre resterà fedele) “vivere vuol dire essere partigiani”, allora non può esservi spazio per passioni tristi come l’indifferenza e la rassegnazione, il cinismo e il disincanto: amore e odio e “fantasia concreta’” devono diventare le tonalità emotive dominanti dell’essere al mondo dell’uomo».
Parole che acquistano il loro senso forte in questa epoca anestetizzata e impotente, senza speranze al di fuori del cerchio angusto dell’individualità. Senza alternative soprattutto. Se si torna più indietro però, tutto diventa più complicato: è stata proprio l’alternativa amico/nemico infatti a insanguinare il Novecento. Ma questo è un altro discorso.
Secondo Fusaro, la genialità ancora attuale di Gramsci sta nell’aver corretto con la sua filosofia della prassi, in grande anticipo sulla storia, le interpretazioni positivistiche e deterministiche di Marx. Sintesi di volontarismo e dialettica storica, la praxis gramsciana, permette una sorprendente equazione: Hegel sta a Marx, come Gentile sta a Gramsci. In questa linea di pensiero, che lascerà a bocca aperta i marxisti classici per l’accostamento dei «due grandi italiani», sta la maggiore originalità del saggio.
D’Orsi sfata il mito di un Gramsci quasi liberale
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 30.12.2014)
Non da oggi, qui da noi, la storia delle dottrine politiche è anche un campo di battaglia che sconfina spesso nell’attualità. E, a volte, si colora pure di tinte gialle o noir. Ecco perché Antonio Gramsci, sul quale si appuntano inesauribili polemiche e querelle, e pure «misteri», sparizioni e «oggetti smarriti», val bene una nuova seria ricognizione che preferisce nettamente la storia documentaria a quella indiziaria (e nulla vuole spartire con una sorta di detective story).
Angelo d’Orsi, profondo conoscitore del pensiero del padre teorico del comunismo italiano, ha curato un’esaustiva Inchiesta su Gramsci (Accademia University Press, pp. 219, €18), raccogliendo i testi di 26 specialisti, per cercare di mettere alcuni punti fermi nel dibattito storiografico. Che è complesso - innanzitutto per la natura plurima e «problematica» dei testi gramsciani (articoli per la stampa, materiale carcerario e documenti di partito, per di più spesso non integralmente suoi) - ma da cui andrebbero rigorosamente espunti i «corpi estranei» del revisionismo e dell’opinionismo, responsabili della diffusione di una sequela di «leggende metropolitane» (tra le quali gli studiosi coinvolti indicano quella di un Gramsci sulfureo cattivo maestro, il sospetto intorno a un Piero Sraffa agente sotto copertura del Comintern, se non direttamente di Stalin, e la dicotomia tra un Gramsci buono e un Togliatti malvagio).
L’obiettivo del volume collettaneo - in cui tutto il corpus gramsciano è passato sotto la lente di ingrandimento (dalle interpretazioni postmoderniste alla larghissima ricezione internazionale, sino alla linguistica) - è anche quello di rigettare ai mittenti il tentativo, reputato inaccettabile, di un’ermeneutica liberale del marxista eterodosso Gramsci, che mirerebbe a svuotarne la carica irriducibilmente critica e alternativa.
Come pure quello di sgombrare il campo dalla tesi del Quaderno o dei (due) Quaderni di «fuoriuscita dal comunismo» fatti sparire, anche se a Franco Lo Piparo, suo principale alfiere, pur nel dissenso fermo e totale, viene concesso l’onore intellettuale delle armi (e un intervento all’interno del libro).
Anche Silone tradì Gramsci
Rivelò il suo ruolo ai fascisti. E Togliatti ne usurpò le idee
di Dino Messina (Corriere della Sera, 18.11.2013)
Che cosa rende unica, nella storia del comunismo, la vicenda umana, politica e intellettuale di Antonio Gramsci? L’aver costruito un sistema di pensiero considerato ancora oggi vitale per l’interpretazione della cultura e della politica italiana e occidentale. Un’impresa ancor più importante se si tiene conto che il grande pensatore la realizzò nella solitudine del carcere fascista, tra l’incomprensione e l’ostilità del mondo comunista che avrebbe dovuto essergli amico.
È questo il giudizio che si ricava dalla lettura del nuovo saggio dello storico Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata , appena edito da Marsilio (pagine 257, e 19,50). Canali, studioso noto per la sua dimestichezza con gli archivi, di cui ha dato prova per esempio nelle opere Il delitto Matteotti e Le spie del regime (edite entrambe dal Mulino), mette tutta la sua sapienza documentaria e passione per svelare definitivamente le falsificazioni di cui è stato oggetto il pensatore sardo. Un «santino», nella mitografia costruita da Togliatti, utile per illustrare una storia lineare e senza conflitti del gruppo dirigente del comunismo italiano.
Naturalmente, come si racconta da qualche anno, le cose stanno in maniera diversa, e Canali ha il merito di mettere assieme tutti i tasselli anche sulla base di nuove acquisizioni documentali. Innanzitutto lo studioso smonta la linea di continuità fra Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, che già dall’ottobre 1926, poco prima dell’arresto del leader sardo, interpretavano due linee diverse e due modi opposti di intendere il lavoro politico.
Canali cita in particolare due lettere a Togliatti in cui Gramsci prende le distanze da un modo di agire burocratico e opportunista e soprattutto esprime una concezione del «centralismo democratico» opposta a quella interpretata da Stalin e dal gruppo dirigente dell’Internazionale comunista.
Gramsci è per l’inclusione delle opposizioni, a cominciare da Trockij, e per la costruzione del socialismo che non esclude un passaggio attraverso la «democrazia borghese», gli altri sono per il muro contro muro e l’eliminazione dei dissidenti. È questa l’origine di una divergenza che si acuirà con gli anni, fino a toccare il suo acme con la nota vicenda della lettera di Ruggero Grieco del 29 febbraio 1928, che fece infuriare il leader sardo, ormai prigioniero da un anno e mezzo.
Mentre era ancora aperta l’istruttoria per il processo che avrebbe portato a una condanna di oltre vent’anni ed erano in corso trattative (anche con la mediazione vaticana) per uno scambio di prigionieri tra l’Urss e l’Italia, Grieco mandava una lettera (partita da Vienna per Mosca e da qui spedita in Italia) che non poteva non mettere in allarme il sistema di sorveglianza fascista. Tanto che, nel dicembre 1932, Gramsci arrivò a confidare alla cognata Tania: «Può darsi che chi scrive fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». L’allusione, come viene confermato da documenti e testimonianze successive, è a Togliatti. È questi, secondo Gramsci, il personaggio «meno stupido» che lo aveva danneggiato. Il giudice istruttore Macis, che evidentemente aveva letto anche le lettere inviate da Grieco ad altri dirigenti del Pcd’I in carcere, aveva avvertito il capo comunista che c’era qualcuno fra i suoi amici che aveva interesse a tenerlo dentro.
Nell’intricata vicenda Gramsci, Canali analizza il ruolo avuto dalla famiglia della moglie, Giulia Schucht, ma anche quello dell’economista Piero Sraffa, di cui posticipa di circa un decennio l’adesione al comunismo attribuita dalla vulgata, e la responsabilità di Ignazio Silone nell’arresto di Gramsci. Fu Secondino Tranquilli, alias Ignazio Silone, alias «Silvestri», responsabile della propaganda del Pcd’I e informatore del funzionario di polizia Guido Bellone, a indicare a questi con precisione il ruolo di leader ricoperto da Antonio Gramsci. Il processo si basò fondamentalmente sulle accuse di Bellone. Ma il filo conduttore del racconto rimane l’ambiguo atteggiamento tenuto verso Gramsci da Togliatti, il quale, in una breve storia dei primi anni di vita del Pcd’I scritta nel 1932 ad uso del Comintern, rievocando il periodo 1923-1926, omise il nome di Gramsci, che era invece in quel periodo il leader riconosciuto del partito.
Dopo la morte del pensatore comunista, avvenuta il 27 aprile 1937, la cognata Tatiana tornò a Mosca con l’intenzione di fare i conti con Togliatti. Il Comintern in effetti istruì un’inchiesta (condotta da Stella Blagoeva) che nel 1940 portò all’allontanamento del «compagno Ercoli» dalle cariche direttive. La sconfitta del fascismo e la necessità di ricostruire il partito in Italia furono la salvezza per Togliatti.
Nel dopoguerra cominciò la gestione dell’eredità intellettuale di Gramsci, che passò attraverso la pubblicazione, con omissioni e destrutturazioni, dell’opera, base preziosa per la teoria della via italiana al socialismo. Un corpus di saggi e testimonianze usato e manipolato anche per costruire la leggenda di «Togliatti erede di Gramsci».
di Gabriella Gallozzi (l’Unità, 09.07.2013)
STAVOLTA NON È IL GIALLO DEL «QUADERNO» SCOMPARSO. O L’ULTIMA DISPUTA INTERPRETATIVA TRA STORICI. STAVOLTA, ANZI, PIÙ CHE UNA «SCOMPARSA» È UN RITROVAMENTO. A distanza di quasi quarant’anni e dall’altra parte dell’oceano. Capita così che Antonio Gramsci, i giorni del carcere di Lino Del Fra e Cecilia Mangini, vincitore del Pardo d’oro a Locarno 1977 e affidato all’oblio in Italia, sia «ricomparso» in Brasile, risalendo poi l’intero continente latino americano, dove è diventato una sorta di bandiera, di testo sacro su cui si stanno formando accademici e nuovi movimenti. A cominciare dagli ormai storici Sem terra, proseguendo con gli studenti universitari, e i responsabili delle più diverse associazioni. Tanto da essere finito, il film, in diffusione straordinaria allegato a un quotidiano brasiliano.
Come è avvenuta l’insolita transoceanica? A dire il vero la storia è già diventata leggenda. E ci piace raccontarla come tale, consapevoli, però, del potere di «attrazione» che il pensiero di Gramsci gode da anni soprattutto a certe latitudini. Se pensate, del resto, che nel cuore del Bronx appena qualche settimana fa è comparso un murales con gli occhiali rotondi e i folti capelli a contorno... Figuratevi come è di casa in quell’America Latina diventata di fatto il vero laboratorio sociale di quella sinistra, così mal concia, invece, nel vecchio continente. Tutto parte da qui, infatti. Da quel grande seminario dedicato al fondatore del partito comunista che si è tenuto a San Paolo nel 2009. Una fiumana composta da delegazioni provenienti da tutti gli angoli del globo.
Studiosi, militanti, professori universitari, esponenti di movimenti della lotta per la casa, per la terra, gli «intellettuali organici» insomma. Ed è proprio nello zainetto di uno dei rappresentanti della delegazione italiana che viene trasportato un dvd di Antonio Gramsci, i giorni del carcere. Uscito da lì, è un attimo: il film diventa subito uno dei materiali di studio della scuola di formazione quadri di San Paolo, per poi proseguire il viaggio ovunque di Gramsci si parli. Questa la leggenda, perché come ci riporta un testimone oculare, Aimone Spinola, esperto in comunicazione sul versante socio culturale con trascorsi e presente a San Paolo, consulente del consolato venezuelano -, in realtà gli organizzatori dello storico seminario, non solo avevano già la copia del Gramsci, ma addirittura l’avevano sottotitolata in spagnolo e portoghese!
Con Riccardo Cucciolla nei panni del grande pensatore sardo, il film di Lino Del Fra e Cecilia Mangini, esemplari autori di quel cinema militante centrato sull’analisi critica della realtà e del suo essere, non si limita al racconto della reclusione. Come l’altro loro straordinario lavoro, Allarmi siam fascisti, non si limita al Ventennio ma alla denuncia del fascismo che permea il nostro dna. Così questo film, travalicando il chiuso del carcere di Turi, porta fuori lo stesso pensiero gramsciano.
Compiendo su esso una lucida analisi, di pari passo con la stesura dei Quaderni e la ricostruzione del suo impegno politico, stralci della vita privata e «verità rivoluzionare» come pugni in faccia. La critica all’involuzione autoritaria dell’Urss, le posizioni anti Stalin, il conflitto con Togliatti e quindi con gli stessi «compagni» reclusi con lui, la solitudine e l’isolamento. «Nel film c’è tutto aggiunge Spinola è un toccare con mano il pensiero di Gramsci. Si capisce quindi la sua enorme diffusione in un paese dove ormai sono gli ex alunni di Carlos Nelson Coutinho, il primo ad aver tradotto i Quaderni, ad essere diventati degli espertissimi ed autorevoli gramscisti. Qui non si tratta solo di studi, come in Italia, ma di vera e propria prassi grasciana. L’enorme egemonia del movimento contadino, diventato negli ultimi trent’anni la punta avanzata della resistenza alla globalizzazione, non sarebbe potuto essere senza Gramsci».
«Tutti i semi sono falliti eccettuato uno che non so ancora cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un’erbaccia» chiosa il film con le parole di Gramsci. Quel fiore, si vede, deve essere sbocciato dall’altra parte dell’Oceano. E che sia il cinema, proprio quello che di semi ha tentato di piantarne sempre, è un bel segnale di speranza. Nell’attesa che un giorno, ci sia anche il suo «ritorno come è stato per Cristoforo Colombo», dice Cecilia Mangini. E noi le crediamo.
Un artista svizzero ha avuto l’idea e la gente del quartiere newyorkese l’ha trasformata in una festa di strada. Da oggi per tutta l’estate l’happening culturale tra murales con il volto, la storia e le frasi dell’intellettuale italiano
Gramsci park. Un monumento nel Bronx “Il comunista meglio dei rapper”
di Massimo Vincenzi (la Repubblica, 01.07.2013)
NEW YORK Arrampicato su una scala, c’è un ragazzo che disegna un murales: la faccia è quella di Antonio Gramsci. «Antonio? Sarà spagnolo?», chiede a quello che gli sta vicino. L’amico gli risponde tutto d’un fiato, come uno che ha appena studiato: «No, è italiano. Un filosofo morto in prigione ».
Bisogna procedere senza troppa logica per raccontare questa storia che sembra una leggenda metropolitana: un artista che viene dall’Europa costruisce un monumento nel cuore del Bronx dedicato ad uno dei padri del movimento operaio e fondatore del partito comunista, così lo presenta la Cbs. Ma è la verità. Il monumento è qui, in questo cortile di erba e cemento al centro di un gruppo di grattacieli dai mattoni rossi. Il posto si chiama Forest Houses, negli anni Novanta ci arrivava solo la polizia con le pistole spianate a contrastare una delle tante lotte tra spacciatori di crack. Adesso va meglio, anche se la violenza c’è ancora e Manhattan è lontana come un altro pianeta. Proprio per questo, la strana creazione sta qui, “lontana dal centro e dalle altre gallerie”.
A vederla, sembra qualcosa che sta a metà tra una casa sugli alberi, icastelli per bambini nei parchi e una cabina da spiaggia. Oppure sembra una nave, come suggerisce Tim Rollins, pittore che insegna in un college vicino. È qui per vedere il lavoro del collega e perché ama Gramsci. Guarda i muri chiari, piegando un po’ la testa per abbracciare tutta la visuale: «La prua verso l’orizzonte, per navigare e portare il messaggio a quanta più gente è possibile». Costruita in legno compensato, plexiglass e tanto nastro adesivo, sta per essere completata in questa domenica umida di pioggia.
Una decina di persone dà gli ultimi ritocchi: oggi ci sarà l’inaugurazione, ma non è la parola giusta, meglio dire: oggi aprirà. Perché per quasi due mesi e mezzo sarà il centro pulsante del quartiere, un po’ happening culturale, un po’ festa di paese: ci saranno reading, lezioni difilosofi, corsi per bambini di tutte le età. Baby sitter e insegnanti a cui affidare i piccoli. E poi ancora concerti di musica classica e rock, spettacoli teatrali. Seminari sull’arte e sulla cucina. Una radio e un giornale che verranno animati da chi abita le case qui attorno. E un bar dove ogni sera verrà servito l’happy hour dalle sei alle sette.
Thomas Hirschhorn è l’artista,di solito veste di nero e ha gli occhiali spessi. Ha 56 anni, è svizzero e nel suo ambiente è piuttosto famoso: se lo contendono le migliori gallerie. Ma lui pensa che i confini vadano allargati, che i musei vadano portati per le strade. Questo progetto è il quarto nel suo genere, il primo in America: gli altri sono ad Amsterdam dedicato a Spinoza, poi Gilles Deleuze ad Avignone eGeorge Bataille a Kassel, in Germania. Due anni fa, sceglie New York, inizia a girare per i quartieri periferici cercando persone con cui condividere il suo progetto: «All’inizio mi vedono e pensano che io sia un prete o un ricco eccentrico, poi capiscono che faccio sul serio e da lì in poi è tutto facile».
A capirlo per primo è Eric Farmer che guida l’associazione residenti di Forest Hou-ses. Immobilizzato dopo un incidente d’auto al college, gira per il cortile su una sedia a rotelle a motore. Lui Gramsci non lo conosceva, sì certo sapeva chi era ma non l’aveva mai letto. Si è fatto dare i libri da Thomas e dopo pochi giorni gli dice: «Mi sembra un’ottima idea. Lo spirito è quello giusto, costruiamo noi la tua cosa». Vengono assunti 15 residenti a 12 dollari all’ora per duemesi (la paga media in città è 7,5) e “il condominio di Gramsci” inizia a crescere. Alle pareti ci sono le sue massime, le citazioni delle lettere, il suo pensiero: “Tutti gli uomini sono intellettuali”. Appeso alla finestra di un grattacielo c’è un grande lenzuolo bianco con scritto: “Sono un pessimista a causa dell’intelligenza, ma un ottimista per diritto”. A settembre l’opera non verrà imballata ma regalata alla gente di qui, che si contenderà i vari pezzi in una lotteria: sarà la festa di fine estate.
Myma Alvarez tiene il figlio in braccio. Guarda gli uomini al lavoro con un sorriso e chiede loro se hanno bisogno di qualcosa: «È una bellissima idea, fantastica. Qui nonc’era niente e adesso avremmo questa casa tutta nostra dove passare il tempo insieme». In un’intervista al New York Times Thomas spiega: «Io non voglio cambiare le loro vite, le mie ragioni sono artistiche. Gramsci credeva nel valore della cultura e dell’insegnamento per liberare gli oppressi. Ecco, se riesco a far riflettere sulla potenza dell’arte e della letteratura, io sono felice. Ho ottenuto quel che volevo ».
Myma passa davanti al murales. Il ragazzo l’ha quasi finito, si fuma una sigaretta appoggiato al muretto. I due si conoscono da sempre. Lei lo prende in giro: «Ma sai chi è? È un rapper?». Lui serio: «No, è Antonio: un poeta italiano che è morto dentro una cella». Dice poeta e la nave può togliere l’ancora.
Concetti sempre efficaci
Gramsci, un pensiero diventato mondo
di Razmig Keucheyan
Le Monde Diplomatique, luglio 2012, pag 3
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Perché quello che è stato possibile in Russia nel 1917, vale a dire una rivoluzione operaia, altrove è fallito dappertutto? Come mai è accaduto che all’epoca il movimento è stato sconfitto negli altri Paesi europei - in Germania, Ungheria, ma anche nell’Italia delle «assemblee di Torino», quando gli operai del Nord del Paese, negli anni 1919-1920, occuparono le loro fabbriche durante molti mesi?
Questa domanda è il punto di partenza dei celebri Quaderni dal carcere (1) di Antonio Gramsci, che, giovane rivoluzionario, era alle prime armi al tempo dell’esperienza torinese. Redatti qualche anno dopo il riflusso di quel progetto, questa opera politica del XX secolo, di fondamentale importanza, fornisce una profonda riflessione sull’insuccesso delle rivoluzioni in Europa e sul modo di superare la sconfitta del movimento operaio degli anni 1920 e 1930. Tre quarti di secolo dopo la morte di Gramsci essa continua a parlare a tutti coloro che non hanno rinunciato a trovare le vie verso un altro mondo possibile.
Stranamente, essa parla anche a quelli che si accaniscono per impedire che questo altro mondo si realizzi. «In fondo, ho fatto mia l’analisi di Gramsci: il potere si ottiene con le idee. È la prima volta che un uomo di destra fa propria quella battaglia», così dichiarava Nicolas Sarkozy qualche giorno prima del primo turno delle elezioni presidenziali del 2007 (2).
Il ricupero dell’autore dei Quaderni dal carcere da parte dell’estrema destra, dalla quale provenivano alcuni consiglieri di Sarkozy - in particolare Patrick Buisson - è in realtà un caso vecchio. Così essi sono un riferimento centrale per la «nuova destra», quando il suo principale teorico, Alain de Benoist, qualifica la sua strategia di «guerra culturale» di «gramscismo di destra» (3). Questa appropriazione indebita tuttavia non ha impedito che, lungo il secolo XX, Gramsci fosse oggetto di stimolanti reinterpretazioni da parte delle correnti rivoluzionarie nel mondo intero.
Che la rivoluzione sia stata possibile in Russia ma non nell’Europa occidentale è dovuto, secondo Gramsci, alla natura dello Stato e della società civile. Nella Russia zarista l’essenza del potere era concentrata nelle meni dello Stato; la società civile - partiti, sindacati, imprese, stampa, associazioni... - era poco sviluppata. Prendere il potere in queste condizioni, come l’hanno fatto i bolscevichi, presuppone innanzitutto impadronirsi dell’apparato dello Stato: esercito, amministrazione, polizia, giustizia... Poiché la società civile era allo stato embrionale, chiunque detiene il potere dello Stato è in grado di assoggettarla. Beninteso, una volta preso lo Stato, cominciano i problemi: guerra civile, rilancio dell’apparato produttivo, delicati rapporti fra la classe operaia e quella contadina...
Nell’Europa dell’Ovest, al contrario, la società civile è corposa e autonoma. Sotto l’effetto della rivoluzione industriale essa si costituisce progressivamente come sede della produzione. Detiene una parte importante della somma totale del potere, a tal punto che non basta impadronirsi dello Stato: occorre ancora dominare nella società civile, poiché il problema è che non la si conquista nello stesso modo. Ciò presuppone che il cambiamento sociale prenda forme distinte da quelle del caso russo. Non è che le rivoluzioni nell’Europa occidentale siano diventate impossibili, tutt’altro, ma esse dovranno inserirsi in una «guerra di posizione» di lungo corso.
Dal peronismo ai «subaltern studies»
Gramsci vuole essere fedele alla rivoluzione russa - è un ammiratore di Lenin, al quale nei Quaderni dal carcere non cessa di rendere omaggio. Ma ha anche compreso che questa fedeltà implicava, in pratica, di cambiare il modo di fare le rivoluzioni. La sua teoria dell’«egemonia» trova il suo punto di partenza in questa constatazione. La lotta delle classi, dice Gramsci, deve ormai includere una dimensione culturale, deve porsi la questione del consenso delle classi subalterne alla rivoluzione. La forza e il consenso sono i due fondamenti della conduzione degli Stati moderni, i due pilastri di una egemonia. Quando il consenso viene a mancare - come fu il caso, per esempio, nel 2011 nel mondo arabo - si creano le condizioni per il rovesciamento del potere esistente.
La prima edizione dei Quaderni dal carcere esce alla fine degli anni ’40. È messa sotto la responsabilità di Palmiro Togliatti, il segretario generale del Partito comunista italiano (PCI), che fino all’inizio degli anni ’60 manterrà il dominio sulla messa in circolazione degli scritti del suo compagno defunto. Da quest’epoca in poi l’opera di Gramsci serve come punto di incontro a tutti coloro che, nel mondo, cercano di combinare fedeltà alla rivoluzione d’Ottobre e volontà di adattare il processo a contesti sociopolitici talvolta lontani dal caso russo. Questo è ciò che spiega la rapida diffusione internazionale delle tesi di Gramsci e la costituzione di correnti gramsciane in tutto il globo. Dei Quaderni dal carcere si può così dire che si tratta di una delle prime teorie critiche a livello mondiale.
Tre casi molto diversi gli uni dagli altri illustrano questa circolazione delle sue idee. Dalla metà del XX secolo l’Argentina diventa il centro di un’importante tradizione gramsciana, prima che altri Paesi del Continente, come il Brasile, il Messico o il Cile, si immergano anch’essi nello studio dei Quaderni dal carcere. La rapidità e l’ampiezza dell’accoglienza di Gramsci in Argentina si spiega con l’importanza dell’immigrazione italiana. Esse sono ugualmente dovute al fatto che i suoi concetti principali - «egemonia» ma anche «cesarismo» o «rivoluzione passiva» - vi sono messi a contributo per comprendere questo fenomeno politico tipicamente argentino che è il peronismo.
Più in generale essi servono allora per analizzare i regimi militari «progressisti» o «espansionisti dello sviluppo» - oltre a Juan Domingo Perón in Argentina, Lázaro Cárdenas in Messico o Getúlio Vargas in Brasile - che fanno la loro comparsa nella regione. Questi poteri mettono in opera forme di «modernizzazione conservatrice», né rivoluzione né restaurazione, frequenti durante il secolo XX nei Paesi del terzo Mondo, che si modernizzano garantendosi che le ineguaglianze di classe non siano fondamentalmente rimesse in discussione.
Il concetto di «rivoluzione passiva, che Gramsci forgia nei Quaderni dal carcere quando esamina la formazione dello Stato nazionale italiano nel XIX secolo, descrive precisamente questo tipo di processo politico ambivalente. Talvolta queste rivoluzioni sono condotte da un «cesare» - da qui l’idea di «cesarismo» -, cioè da un capo carismatico che stabilisce un legame immediato con le masse, i cui esempi, anche qui, non mancano nell’America Latina dei secoli passati e presente.
Fra gli altri, pensatori come José Aricó, Juan Carlos Portantiero, Carlos Nelson Coutinho o Ernesto Laclau producono in quel tempo letture innovatrici dei Quaderni dal carcere, la cui influenza si estende molto al di là dell’America Latina (4). Sull’esempio dello stesso Gramsci molti dei loro interpreti più importanti sono impegnati nella lotta rivoluzionaria che dilagò sul Continente negli anni ’60 e ’70.
Il partito degli oppressi
All’altro capo del Pianeta le idee dell’intellettuale italiano raggiungono l’India a partire dagli anni ’60. Gramsci è un grande punto di riferimento degli studi postcoloniali (postcolonial studies). Il principale fondatore di questa corrente di pensiero, il palestinese Edward Said, vi ha fatto ricorso per formulare la sua critica dell’orientalismo, vale a dire delle rappresentazioni di «Oriente in auge nel mondo occidentale (5)». Sotto l’influsso di Said, ma anche degli storici marxisti britannici Eric Hobsbawm e E. P. Thompson, emerge negli anni ’70 un settore specifico indiano di studi postcoloniali: gli studi subalterni (subaltern studies).
Questa corrente, rappresentata particolarmente da Ranajit Guha, Partha Chatterjee (6) e Dipesh Chakrabarty, prende il suo nome direttamente da Gramsci. L’espressione «subalternes» si trova effettivamente nel titolo del Quaderno dal carcere n° 25, il cui titolo esatto è «Ai margini della storia. Storiografia dei gruppi subalterni». I «margini della storia» vogliono significare i gruppi sociali assenti dalle storie «ufficiali», ma suscettibili, quando entrano in attività, di sconvolgere l’ordine sociale.
La circolazione dei concetti gramsciani dall’Italia dell’inizio del XX secolo all’India degli anni ’70, si spiega con la prossimità delle strutture sociali di questi Paesi e in particolare con la presenza in entrambi di una classe contadina rilevante. Nel testo che scrive nel 1926, proprio prima della sua incarcerazione, «Qualche tema della questione meridionale», Gramsci preconizza un’alleanza fra la classe operaia del Nord d’Italia, numericamente minoritaria, ma economicamente e politicamente in ascesa, e quella contadina del Sud, a quell’epoca ancora numerosa. I «subalternisti» indiani presagirono il medesimo tipo di strategia nel loro Paese.
Una terza corrente si è dedicata a pensare la geopolitica con l’ausilio dei concetti proposti dall’autore dei Quaderni dal carcere. Essa si presenta sotto il nome di teoria «neogramsciana» delle relazioni internazionali. Il suo fondatore è il canadese Robert Cox, un marxista innovatore che ha anche svolto funzioni direttive presso l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) a Ginevra. Kees Van der Pijl, Henk Overbeek e Stephen Gill, fra gli altri, s’iscrivono in questa orbita. Questi autori hanno analizzato in particolare la costruzione europea, della quale cercano di comprendere l’attuale crisi (7). Da una parte, essa si spiega ai loro occhi con l’incapacità del progetto europeo di ottenere il consenso attivo delle popolazioni continentali. Ora, perché un’egemonia si stabilisca durevolmente, a livello di un Paese o di un Continente, i dominanti devono convincere i dominati che essa serve almeno in parte ai loro interessi.
D’altronde, dall’inizio del XX secolo, si assiste a un’interpenetrazione crescente fra le élite europee e americane. Questo spiega perché la costruzione europea sia stata molto sovente subordinata agli interessi dell’impero americano e non sia pervenuta a dotarsi di un progetto politico autonomo.
Gramsci non cesserà di contribuire alla costruzione del «partito degli oppressi», su scala sia italiana che mondiale, tramite le sue attività nella III Internazionale. Egli collegava quindi la teoria con la pratica, ciò che si rivela essere - purtroppo - un caso raro fra gli intellettuali critici attuali.
Al servizio della rivoluzione - Una breve biografia
Nato in Sardegna nel 1891, Antonio Gramsci cresce in una famiglia relativamente povera. Dopo aver ottenuto nel 1911 una borsa di studio che gli permette di proseguire gli studi di filologia a Torino, conosce Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini. Insieme essi militeranno dapprima nel Partito Socialista Italiano (PSI), prima di creare nel 1919 il mitico giornale operaio L’Ordine Nuovo. Al momento della fondazione del Partito Comunista Italiano (PCI), nel 1921, Gramsci diviene membro del Comitato centrale; è nominato segretario generale nel 1924. In aprile dello stesso anno è eletto deputato al Parlamento nazionale. Si racconta che, quando Gramsci prendeva la parola nell’emiciclo con la sua voce esile, Benito Mussolini tendeva l’orecchio per non mancare una parola del discorso di questo irriducibile oppositore.
Arrestato in novembre 1926 a Roma, Gramsci è condannato nel 1928 a vent’anni di prigione. «Noi dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare per vent’anni», dirà il Procuratore fascista prima che la sentenza sia emessa, cosciente della minaccia che un simile avversario rappresentava per il potere in carica. Nel 1929 Gramsci ottiene il diritto di scrivere in carcere, diritto che esercita fino al 1935, al momento in cui la sua salute si degrada irrimediabilmente. Egli muore il 27 aprile del 1937 per un’emorragia cerebrale, dopo dieci anni di calvario nelle prigioni mussoliniane, lasciando un insieme di quaderni incompiuti che sconvolgeranno il marxismo della seconda metà del XX secolo.
(1) Antonio Gramsci, Cahiers de prison, Gallimard, coll. « Bibliothèque de philosophie », Paris, 19781992, 5 tomes.
(2) Le Figaro, Paris, 17 avril 2007.
(3) Cf Pierre-André Taguieff, «Origines et métamorphoses de la nouvelle droite », Vingtième Siècle, n° 40, Paris, 1993.
(4) Cf. Raúl Burgos, Los gramscianos argentinos, Siglo XXI, Buenos Aires, 2004.
(5) Edward Said, L’Orientalisme. L’Orient créé par l’Occident, Seuil, coll. «La couleur des idées», Paris, 2005 (l" éd. : 1978).
(6) Lire Partha Chatterjee, « Controverses en Inde autour de l’histoire coloniale», Le Monde diplomatique, février 2006.
(7) Cf par exemple Henk Overbeek et Bastiaan Van Apeldoorn (sous la dir. de), Neoliberalism in Crisis, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2012.
Antonio Gramsci e le sue tre donne
Le sorelle Schuct con cui si lega a staffetta, centrali nel libro di Vacca
Le novità storiografiche esaltano i ruoli di Eugenia, Tatiana e Giulia.
Sono tre protagoniste indispensabili per comprendere idee, dilemmi, misteri della sua sopravvivenza in carcere
Le idee non sono staccate dai corpi, questa è una intuizione politica delle donne e questo libro finalmente ne da conto
di Cristina Comencini (l’Unità, 01.10.2012)
LA VITA E I PENSIERI DI ANTONIO GRAMSCI, DAGLI ANNI IMMEDIATAMENTE PRECEDENTI L’ARRESTO E PER I DIECI DELLA SUA DETENZIONE, FURONO INTRECCIATI INTIMAMENTE E POLITICAMENTE ALL’ESISTENZA DI TRE DONNE RUSSE. Non figure secondarie a servizio di un uomo grande, chiuso in cella e separato dal suo destino politico, ma tre caratteri femminili fondamentali, tre sorelle, che a staffetta corrispondono, si legano, interagiscono, amano e odiano anche l’italiano geniale che la comune passione politica porta nella loro famiglia. Il libro di Giuseppe Vacca (Vita e pensieri di Antonio Gramsci. 1926-1937) vuole tenerle al centro della vicenda umana e politica di Gramsci. Eugenia, Tatiana e Giulia Schuct diventano nel libro di Vacca tre protagoniste indispensabili alla comprensione delle idee, dei dilemmi, dei misteri, della sopravvivenza intellettuale, fisica e affettiva di Gramsci.
Nella famiglia delle tre sorelle Schuct circolano idee rivoluzionarie dalla fine dell’Ottocento. Sia il padre che la madre si sono appassionati agli ideali rivoluzionari, sono amici del fratello maggiore di Lenin e poi di Lenin stesso e della Krupskaja. Le figlie di Apollon Schuct sono convinte sostenitrici della rivoluzione: Eugenia partecipa attivamente alla guerra civile, Giulia lavora negli organi di sicurezza interna. Rivoluzione e musica sono le passioni delle sorelle, e anche l’Italia perché negli spostamenti continui della famiglia, vivono e studiano arte e musica a Roma. Per nessuna delle tre, come per Gramsci, i sentimenti privati e famigliari saranno divisi dall’impegno politico che sta cambiando il mondo.
Come scrive anche Gramsci di sé: «Io non sono molto sentimentale e non sono le questioni sentimentali che mi tormentano. Anche le questioni sentimentali mi si presentano, le vivo, in combinazione con altri elementi (ideologici, filosofici, politici) così che non saprei dire fin dove arriva il sentimento e dove incomincia invece uno degli altri elementi, non saprei dire forse neppure di quale di tutti questi elementi precisamente si tratti tanto essi sono unificati in un tutto inscindibile e una vita unica». La storia personale e la Storia grande è una vita unica e questo libro ci restituisce questo intreccio, attraverso le lettere, i codici, i silenzi tra i protagonisti che svelano, come in un romanzo, più delle parole scambiate.
SI PARTE DALLA CLINICA RUSSA
Il libro parte non a caso dall’incontro con Eugenia nel 1922, nella clinica russa dove Gramsci si era ricoverato dopo i lavori del Komintern. La sorella più forte, più preparata politicamente, lo interessa molto e lei probabilmente si innamora di lui. Così quando poco tempo dopo appare sulla scena la sorella minore, Giulia, la più bella, la violinista, si consuma tra i tre un tradimento che alimenterà molte incomprensioni, drammi e sofferenze. In una notte passata insieme nella clinica, di nascosto alla sorella maggiore, Antonio e Giulia parlano di gufi sulla veranda e di Dante: «... poi parlammo di tante cose generali, ma specialmente di un verso di Dante che dice “Amor che a nullo amato, amar perdona”, poi dovevamo dormire e c’era un letto solo e allora io ti feci piangere, cinicamente. Ti feci piangere, proprio apposta, perché ero proprio cattivo; ti volevo molto bene e ti avrei voluto baciare gli occhi, ma non credevo che tu potessi volermi bene e allora ti volevo far del male, perché ero molto cattivo».
Che meraviglia e che coraggio citare una lettera così, far parlare con queste parole il nostro grande pensatore politico! Le idee non sono staccate dai corpi, questa è una intuizione politica delle donne, e questo libro finalmente ne da conto. Giulia e Antonio si desiderano fisicamente, tradendo la sorella maggiore, come Paolo e Francesca tradiscono il fratello di lui. Il loro amore ha una forte componente erotica alla quale nessuno dei due è preparato. Lei piange, lui la fa piangere, lui ha paura di non essere amato ma la vuole. Nel carcere, tutti questi sentimenti torneranno ad accompagnare l’isolamento politico e umano di Gramsci. Amore e rivoluzione, come il titolo del libro di Adele Cambria, si alterneranno nell’anno e mezzo in cui gli amanti riusciranno a strappare alla politica delle ore per loro stessi, per procreare il loro primo bambino in Russia, il loro secondo in Italia. Gramsci vuole assolutamente avere figli, come fosse una traccia concreta, corporea di un amore che non può avere futuro.
L’arresto di Gramsci spezza la vita dei due, fa ammalare Giulia e chiude l’attività politica sul campo di un capo che era nato per questo, che non ha mai disgiunto il pensiero dall’azione. Amputati, lui, lei, lontani. Lei in Unione Sovietica dove i due schieramenti lottano per il potere dopo la morte di Lenin, e nelle mani della sorella tradita, ostile a Gramsci e molto più forte di lei. Lui chiuso in carcere subito dopo aver mandato una lettera «inopportuna» al Komintern, come la giudica Togliatti, in cui sostiene la maggioranza capeggiata da Stalin ma lo fa criticamente.
I termini della partita tragica ma anche molto prolifica che si giocherà nei dieci anni del carcere sono già presenti al momento dell’arresto: ricerca di nuove strade da parte di Gramsci per costruire consenso e vittoria del socialismo, disaccordo serpeggiante con Togliatti e con la sua adesione obbligata alle posizione del Komintern, sospetti di tradimento da parte del suo partito, di boicottaggio della sua liberazione, che investiranno, nel punto più alto della tragedia, anche la moglie lontana. Nel carcere, lontano dal mondo, Gramsci regalerà alle generazioni future categorie nuove di pensiero politico e culturale, capirà meglio di chi sta fuori i momenti che si preparano, dissentirà su questo con i compagni dentro e fuori dal carcere, non avrà per ragionarci che se stesso.
Ma tra lui e Giulia, esuli che incarnano la segregazione stessa delle idee che avevano sconvolto il mondo, appare la terza donna, la sorella rimasta in Italia, meno impegnata politicamente e che, come succede nella Storia, sarà quella a cui noi tutti dobbiamo la sopravvivenza di Gramsci e del suo pensiero. Tania è il messaggero tra Gramsci, Sraffa e il partito, il messaggero d’amore e di disamore tra lui e Giulia. Di nuovo i termini privati si intrecceranno in questa fase al lavoro politico fuori e dentro il carcere, nell’Italia fascista, in Unione Sovietica, nella Francia degli esuli. Tra i silenzi di Giulia che lui prenderà per abbandono, delle lettere non pervenute, delle risposte non conosciute, nella lontananza dei figli, nella costruzione di codici per sfuggire alla censura, quella fascista e quella sovietica, nei tentativi di liberazione falliti, si svolge la seconda parte del libro, fino alla morte.
Tania si attacca a Gramsci non solo per fedeltà alla causa, e neanche solo perché è il compagno della sorella lontana e il padre dei suoi nipoti, si lega a lui seguendo un destino femminile di amore e protezione per un uomo fuori dal comune, difficile, solo, diffidente, brusco che cerca disperatamente di continuare a pensare e a fare politica. «Andavo ogni settimana a trovarlo, eppure il tempo mi pareva sempre interminabile tra una mia visita e l’altra, poi egli riceveva da me due volte al giorno il soccorso, col mio scritto, metteva la sua firma e un saluto sulla distinta, era come una comunione tra lui e i suoi cari».
NELL’AMBASCIATA SOVIETICA
Tania lavora all’ambasciata sovietica, questo le garantisce l’extraterritorialità e una possibilità di comunicazione rapida con i famigliari ma anche con il partito russo. Anche qui le missive private, i sentimenti di dolore per la lontananza dei figli e di Giulia, sono annodati alle nuove elaborazioni politiche dal carcere, alle analisi che Gramsci fa della situazione politica italiana e internazionale. Tania copia le lettere di Sraffa frutto dei colloqui con Togliatti e il partito, inoltra relazioni sullo stato di Gramsci, sulle sue condizioni di salute, sulle sue esigenze, trasmette le lettere di Giulia. Qualche volta decide di non inoltrare lettere di Gramsci a Giulia e viceversa, quando la lontananza, i sospetti di lui e il clima di paura in cui vive Giulia in Unione Sovietica, rendono quelle lettere particolarmente indecifrabili per l’uno o per l’altra. Gramsci si irrita con Tatiana di alcuni toni delle sue lettere che potrebbero lasciare pensare a Mussolini che lui sia pronto a chiedere la grazia.
Tatiana è testimone del crescere dei sospetti del prigioniero, che si sente abbandonato e tradito da Togliatti e dal partito, soprattutto dopo la lettera di Grieco che gli sembra affermare la volontà dei suoi compagni di tenerlo in carcere. Gramsci non può concepire la verità: è soprattutto l’Unione Sovietica, l’unica che avrebbe forse la possibilità di liberarlo, a non intraprendere nessun passo serio e vincente, per le sue posizioni politiche eterodosse, in contrasto con la linea del Komintern. Ma per Gramsci al contrario l’Unione Sovietica resta la meta da raggiungere una volta liberato, per lui è ancora la patria del comunismo e il Paese dove vivono Giulia e i due figli.
La tragedia politica si rispecchia fino alla fine nella tragedia personale. Così scrive Tatiana a Giulia: «Tu vivi la vita di un grande paese, che sta costruendo il futuro di tutto il mondo, tu sarai per lui una risorsa unica, ma non pensare che questa sua convinzione si basi sul fatto che si aspetti da te delle relazioni scientifiche, no, non è questo, brama solo di sentire il pulsare della vita dello Stato bolscevico, durante semplici e infinite conversazioni con te. Vive di questo».
Tatiana raccoglie fino all’ultimo respiro, nella clinica romana dove Gramsci sta morendo, liberato infine ma mai libero, gli assilli del prigioniero: le accuse ai compagni, il lascito dei Quaderni che Antonio vuole nelle mani fidate delle donne della sua vita. Le tre sorelle, ricongiunte in Unione Sovietica, tenteranno invano, scrivendo direttamente a Stalin, di toglierli dalle mani del nuovo capo del Partito italiano a cui saranno invece affidate proprio da Stalin stesso.
Nelle parole finali del suo libro, Vacca nomina a questo proposito la eterogenesi dei fini, che potrebbe essere usata anche per interpretare il senso profondo del suo libro, non nel senso manzoniano dell’inutilità delle azioni umane a produrre gli effetti voluti, ma nell’idea che spetta alla Storia portare alla luce il disegno complesso, contraddittorio, le conseguenze non intenzionali delle azioni degli uomini e delle donne, i cui legami e sentimenti sono spesso sottovalutati e lasciati nell’ombra.
Il miracolo di Sant’Antonio (Gramsci)
Un saggio ripercorre la storia avventurosa dell’egemonia culturale della sinistra, per merito del marxista meno dogmatico del Novecento
di Elisabetta Ambrosi (il Fatto, 25.05.2011)
Una sera d’estate, profumo di resina e mare, il sollievo di una guerra mondiale alle spalle. Voci di intellettuali, discussioni non troppo animate (sul vincitore sono quasi tutti d’accordo), per assegnare il primo premio Viareggio del dopoguerra. Siamo nel 1947, e il presidente Leonida Répaci annuncia il titolo vincente, Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Un’eccezione alla regola: non si tratta di un’opera letteraria e l’autore è scomparso da dieci anni. Eppure il filosofo sardo sembra quasi materializzarsi come “una presenza invisibile al nostro tavolo”. Con conseguente generale commozione, “che supera le contrapposizioni ideologiche dei vari membri della giuria”. Un po’ come San Gennaro, Antonio Gramsci, quel giorno come nei decenni a venire, sembra compiere il miracolo di sciogliere le divergenze e aggregare idealmente sulla sua figura il partito comunista italiano. È un miracolo “pilotato”, però, dal segretario Palmiro Togliatti. Che decide di usare la figura moralmente irreprensibile dell’autore dei Quaderni dal carcere come il perno su cui far ruotare il partito.
“Operazione Gramsci”: così definisce la strategia di Togliatti Francesca Chiarotto, nel saggio dall’omonimo titolo Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, uscito per Bruno Mondadori (pp. 240, euro 20). Un’operazione riuscita secondo l’autrice, perché, partendo dall’assegnazione del Premio Viareggio - secondo alcuni manovrata proprio dal segretario - approda nel porto del più grande partito comunista d’occidente.
Le tappe di questa felice via crucis ideologica, al termine della quale si crea l’“icona Gramsci”, sono i sei volumi dei Quaderni, usciti tra il 1948 e il 1951, divisi volutamente per temi. Anche qui, sostiene Chiarotto, non tanto per ragioni di censura, quanto per facilitarne la lettura e la diffusione. Acuta anche la scelta della casa editrice: sotto l’ombra dello struzzo Einaudi, l’operazione ideologica su Gramsci acquista legittimità culturale, senza assumere le sembianze di un’operazione platealmente politica.
LA MESSA IN PRATICA di una “paziente ricostruzione di un’egemonia culturale”, condotta capillarmente sul territorio anche attraverso case di cultura, biblioteche popolari, organizzazioni di massa consente al Pci di dialogare con la società italiana di quei decenni. In questo abile lavoro di soft power, la figura di Gramsci diventa fondamentale quando si tratta di non restare travolti dai fatti del 1956. L’autore dei Quaderni svolge poi anche un’altra funzione: quella di terreno ideologico, ma non direttamente politico, su cui dialogare con altre culture, quella liberale e cattolica.
La storia iniziata col premio Viareggio si interrompe con la caduta del Muro. Anzi, ancor prima con l’avvento degli anni Ottanta. Quando, mentre Gramsci impazzava all’estero , dai paesi arabi al Giappone, nell’Italia del craxismo e dell’edonismo reganiano in salsa nostrana, “l’agorà, in ogni sua possibile versione, era dimenticata a vantaggio del salotto di casa o, peggio, della discoteca”, come scrive nel saggio introduttivo Angelo d’Orsi. Il silenzio si interrompe negli anni Novanta e Duemila, quando però ritroviamo non più un Gramsci “martire, nazionale e popolare”, il “fratello maggiore di Togliatti”, ma un Gramsci neutralizzato sul piano politico, forzato fino a diventare liberale e ad uso del grande pubblico deideologizzato. Tanto che la nota invettiva contro gli indifferenti finisce prima sul palco di San Remo e poi in volumetto per Chiare Lettere, che diventa un successo editoriale. D’Orsi spiega così i motivi del revival: “Gramsci ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che non sia più la presa del Palazzo d’Inverno ma nasca da un lungo processo di preparazione culturale”.
QUELLO CHE è meno chiaro per i due autori è come mai, mentre ritorna come icona pop, il filosofo sardo sia diventato invece un personaggio scomodo per la sinistra. Tanto che, alla nascita del Pd, nel pantheon democratico si dà la preferenza a Don Milani, Kennedy o Popper. Come dimostra un imbarazzato Veltroni nel 2000, quando, nel corso di un convegno gramsciano, si schiera a favore di Rosselli “dimostrando con ciò di non conoscere né l’uno né l’altro”. In fondo, chiosa Chiarotto, “Rosselli è quello che ha preso il fucile per andare in Spagna a combattere con i repubblicani”. Gramsci diventa specchio della confusione ideologica dell’oggi.
Mentre il dogmatismo ideologico di ieri almeno una cosa l’aveva capita: che la politica senza intellettuali di massa, tra l’altro spariti da un pezzo, è destinata a morte certa. Insomma, cari giurati dei premi letterari, se squilla il telefono potete stare tranquilli. Ma anche no.
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Operazione Gramsci FRANCESCA CHIAROTTO, BRUNO MONDADORI, 233 PAGINE, 20 EURO
Tutti pazzi per Gramsci
di Angelo d’Orsi (il Fatto, 27.04.2012)
The Gramscian Moment è il titolo di un recente libro del britannico Peter Thomas vincitore del Premio internazionale Sormani. E di autentico “momento gramsciano” si deve parlare, gettando lo sguardo ben oltre le frontiere. Ma sarebbe un errore ritenere che questo momento sia cominciato tra il 2011 e i primi mesi del 2012, quando un’autentica profluvie di libri, richiamati più o meno correttamente dai media, si è abbattuta nelle librerie italiane, e l’alluvione continua.
La Gramsci-Renaissance data dal 2007, quando si celebrarono, in una misura e con una intensità mai viste, i 70 anni dalla morte. Fu un anno eccezionale, con convegni che cominciarono in Australia e percorsero il globo, toccando decine di Paesi. E, mentre cominciavano a uscire a stampa i primi volumi dell’Edizione Nazionale degli Scritti, si presentava, anche grazie al lavoro nel-l’ambito di quella impresa gigantesca, e a quello svolto per la Bibliografia Gramsciana Ragionata (BGR) e per il Dizionario Gramsciano, una nuova generazione di studiosi, che a Gramsci guardava con occhi freschi, non condizionata dai dibattiti del passato. Qualcuno disse: finalmente si potrà semplicemente leggere Gramsci come “un classico”. Ma così non è e così in fondo non può essere. Antonio Gramsci fu e rimase un rivoluzionario e un comunista fino all’ultimo suo giorno - che cadde esattamente 75 anni or sono, in una clinica romana dopo un decennio di detenzione e patimenti inenarrabili - il 27 aprile 1937. Ma fu anche un pensatore, sicuramente il più profondo e originale pensatore dell’Italia del Novecento; ma anche uno dei più stimolanti analisti del “moderno”: storico e storiografo, filosofo e pedagogista, teorico della lingua e della letteratura, scienziato politico. E, last but not least, uno scrittore impareggiabile, che nelle sue lettere ha toccato altissimi vertici di umanità e di multiforme capacità letteraria.
SONO QUESTE le ragioni della rinascita di attenzione a Gramsci, oggi uno degli autori italiani di ogni epoca più tradotti e studiati nel mondo? Indubbiamente. Ma come testimoniano le polemiche ricorrenti, scatenate da sedicenti nuove interpretazioni o pretese “rivelazioni”, non si discute solo in merito al teorico e lo scrittore, ma sempre comunque sui connotati politici della sua opera teorica e pratica: dei risultati che ebbe quando egli era un giovane giornalista del Partito socialista, o quando divenne direttore del settimanale poi quotidiano L’Ordine Nuovo, colonna del Partito comunista, fondatore de l’Unità, fino a quando giunse, dopo un’aspra battaglia interna, a prendere la guida del Partito, poco prima dell’arresto nel novembre ’26. Di quei tempi fu la rottura con Togliatti, su cui poi tanta speculazione si fece. Il dissenso nasceva dalla differente valutazione, positiva per Togliatti, critica e preoccupata per Gramsci, delle lotte interne al Partito sovietico.
È la vicenda della lettera da Gramsci scritta per i compagni russi e affidata a Togliatti, che, d’accordo con Bucharin non la consegnò, suscitando l’aspra reprimenda di Gramsci e una greve risposta di Togliatti. Fu quello, dell’ottobre ’26, l’ultimo contatto fra i due, che non ebbero più modo di parlarsi. Del resto mentre Gramsci cominciava il suo calvario, Togliatti vestì i panni di dirigente dell’Internazionale Comunista, condividendone responsabilità, anche se non fu mai un piatto esecutore degli ordini di Stalin, spesso anzi cercando di portare avanti una linea di riserva. Ma certo fu completamente dentro quella storia, da cui Gramsci invece fu escluso. E non come qualcuno ha scritto, scioccamente, perché “per sua fortuna” era in carcere, ma perché il suo comunismo, su cui continuò a riflettere, era oggettivamente diverso. E lo era stato fin dal suo affacciarsi alla Torino industriale, dove conobbe gli operai, “uomini di carne ed ossa”, quando mise l’accento sul fattore umano e quello culturale.
E cominciò a elaborare un socialismo che ne tenesse conto. Doveva essere un movimento di liberazione il socialismo, di uomini (e donne: la sua attenzione all’altra metà del cielo fu costante), non sostituire un’oppressione ad un’altra. Quel socialismo era umanistico, e tale rimase anche dopo la trasformazione in comunismo. Ma l’umanesimo gli giungeva non solo dal contatto diretto con i proletari, ma dalla stessa attenzione alla cultura. E anche quando, nei primi anni Venti, la bolscevizzazione toccò tanto il Pcd’I, quanto lo stesso Gramsci, egli non perse lo zoccolo duro, umanistico e insieme critico, della propria concezione di comunismo. Perciò, quando crollò il Muro, nel 1989, trascinando sotto le macerie la quasi totalità della tradizione marxista, Gramsci non solo si salvò, ma ne emerse come un trionfatore.
ERA IL PORTATORE di un altro socialismo possibile. Sconfitto politicamente, in una determinata fase storica, ma non filosoficamente ed eticamente. Dunque, il momento gramsciano, sia nel livello alto degli studi, sia in quello basso, talora infimo, e persino volgare, di polemiche spicciole, e infondate, magari ammantate di scientificità, non accenna a finire: perché dietro l’analista acuto e sofferto della sconfitta della rivoluzione in Occidente, nella lunga meditazione carceraria, emerge il teorico di un’altra rivoluzione possibile, magari attraverso gli strumenti culturali, capaci di sostituire al dominio fondato sulla coercizione l’egemonia basata sul consenso. E il suo motto fondamentale rimane pur sempre il primo dei tre che campeggiano sulla testata de L’Ordine Nuovo: “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”
Ritorni.
La prefazione di Michela Murgia alla nuova edizione delle «Lettere dal carcere» (Einaudi)
Un testo che lo riavvicina ai contemporanei: no, non dev’essere soltanto un monumento nazionale
Gramsci non è solo un’icona pop
Restituiamolo ai ventenni di oggi
Un po’ come il Che...il volto di Gramsci è ormai un’icona. Eppure il suo pensiero rischia di essere come sterilizzato dalla sua stessa importanza. Ecco perché è cruciale, oggi, leggere (o rileggere) le «Lettere»...
di Michela Murgia (l’Unità, 05.04.2011)
Il volto di Antonio Gramsci è un’icona pop con livelli di riconoscibilità pari o di poco inferiori a quelli di Che Guevara, di Marilyn Monroe e di Martin Luther King. Nessun altro filosofo al mondo, eccetto Marx, ha esercitato lo stesso fascino di lingua in lingua, seducendo quattro generazioni con il suo pensiero innovativo e con la forza di una dialettica cosí tagliente da aver colonizzato il linguaggio ben oltre l’area ideologica a cui voleva dare riferimenti. Espressioni come «intellettuale organico», «egemonia culturale» e «ottimismo della volontà» - anche se non sempre usate propriamente rispetto al senso originario - fanno parte da tempo del linguaggio comune, giornalistico e televisivo. Eppure proprio questa sua progressiva trasformazione in monumento intellettuale rischia di rendere Nino Gramsci inavvicinabile alla passione di una ventenne o di un ventenne di oggi.
Troppo ingombrante per approcciarlo senza timori reverenziali, il pensiero gramsciano finisce per essere sterilizzato dalla sua stessa importanza, il che danneggia Gramsci stesso, ridotto a santino laico tanto citato quanto poco letto, e contraddice l’umiltà rigorosa che lo portava a credersi «semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde e che non le baratta per niente al mondo». Ma soprattutto danneggia i ventenni, privati ingiustamente dell’incontro con la teoria di un maestro robusto e con la vita di un clamoroso testimone civile.
Queste lettere personali, quanto di piú lontano dall’accademia filosofica si possa immaginare, sono un ottimo modo per fare la pace con l’uomo Gramsci, conoscerne la vivacità di spirito, la piacevolissima prosa, la rettitudine morale e l’esperienza sofferta di perseguitato politico. Mentre i parenti lo piangevano carcerato e il regime fascista lo credeva politicamente neutralizzato, Gramsci rivendicava il senso della sua prigionia come atto di lotta, rivelandosi capace di generare formidabili chiavi di lettura del mondo proprio dal luogo in cui il mondo lo voleva muto e monco. Con orgoglio lo ripete alla cognata che nelle lettere lo compativa: «Io non sono un afflitto che debba essere consolato, e non lo diverrò mai». La vicenda biografica del carcere di Gramsci commuove, indigna e conquista al punto che, dopo questo approccio, avvicinarsi al suo pensiero piú strutturato sembrerà il naturale proseguo di un’amicizia spontanea con un uomo speciale.
LA FEDINA PENALE
Per avere una prospettiva completa sugli scritti personali di Gramsci in carcere bisognerebbe essere cosí fortunati da avere a disposizione due strumenti: il primo sono le lettere vere e proprie, l’altro è la sua fedina penale, perché il percorso intimo e quello burocratico carcerario si intrecciano in maniera cosí dissonante che solo accettando di stare dentro la loro contraddizione si può intuire davvero la complessità dell’uomo Gramsci e del tempo che ha vissuto.
Di solito i documenti giudiziari sono freddi e poco esplicativi, ma dalla lettura di quella preziosa fedina penale si capiscono invece molte cose, prima tra tutte che il regime fascista era un sistema ipocrita al punto da non poter fare a meno della messa in scena di una qualche forma di legalità: per combattere gli avversari politici non si limitava a imprigionarli, ma cercava di legittimare il proprio arbitrio costruendo intorno a loro un impianto formale fatto di reati inventati che attribuissero l’apparenza del danno sociale al moto di dissenso che si voleva soffocare.
Per mettere a tacere Nino Gramsci di reati ne furono inventati ben sei: cospirazione, incitamento ai militari per disobbedienza alle leggi, offese al capo del governo, incitamento alla guerra civile, incitamento alla insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo e infine incitamento all’odio di classe e alla disobbedienza delle leggi a mezzo stampa. Poiché però per reati fittizi non si possono chiamare in causa giudici veri, a decretare la condanna di Gramsci non era stata la magistratura ordinaria, ma una corte fascista, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato in Roma, di fatto una magistratura parallela che si occupava dei nemici politici del regime. Persino la sentenza risentiva dell’ipocrisia del contesto: vent’anni di reclusione, seimiladuecento lire di multa, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e due anni di vigilanza speciale erano solo apparentemente una detenzione; a tutti gli effetti costituivano una condanna a morte, la traduzione formale della richiesta del pubblico ministero Michele Isgrò, un uomo talmente complessato dall’autorevolezza intellettuale dell’imputato da concludere la sua requisitoria con la famosa frase: «Dobbiamo impedire a questo cervello di pensare per vent’anni». Quel tribunale gli comminò dunque l’annullamento civile e quello politico, ma anche quello meramente fisico, perché nove anni dopo, quando il regime rilasciò Gramsci a causa delle sue disperate condizioni di salute, egli morí in meno di una settimana.
Nell’avvicinarsi a queste lettere non bisogna dimenticare che sono il testamento intimo di un uomo innocente finito in carcere a causa di quello che pensava, un uomo giovane che non si godrà il suo amore, che non vedrà crescere i suoi figli, la cui anziana madre morirà a sua insaputa e la cui salute declinerà gravemente di prigione in prigione, fino alla morte avvenuta a meno di cinquant’anni. Se non si ricorda questo, sarà facile farsi sedurre dallo spirito eccezionalmente vivace di Gramsci - quello che lui stesso definiva come «un certo spiritello ironico e pieno di umore che mi accompagna sempre» - che permea il carteggio al punto che egli quasi riesce nel miracolo di far dimenticare da dove e in che condizioni scrive.
Tenerlo a mente serve non solo a mantenere un corretto approccio ermeneutico ai testi, ma anche - ed è la cosa piú appassionante per un lettore che non abbia solo intenti accademici - a capire la misura morale di un uomo la cui libertà di spirito aumentava in proporzione inversa al peggioramento delle sue condizioni detentive.
In questo carteggio multiforme appaiono scorci splendidi della i prefazione sua natura umana: ricordi vividi dell’infanzia in Sardegna, l’amore per gli animali che Gramsci coltivava anche in cella addestrando passeri e altre creature che riuscivano a passare le sbarre, il rapporto via via sempre piú teso con la moglie e quello parallelo, tenerissimo e confidenziale, con la cognata, a tutti gli effetti una consorte vicaria.
UMORISMO E TENEREZZA
Ci si sbalordisce per la sua straordinaria passione per lo studio, che lo portava a leggere un libro al giorno delle materie piú svariate e in piú lingue, arrivando a mandarne a memoria alcune parti nei frequenti periodi in cui gli veniva impedito di avere a disposizione carta e penna per gli appunti. Si scopre in lui anche l’inatteso talento inventivo, proprio di un narratore naturale, che lo spingeva a costruire piccoli racconti per il diletto della cognata, spesso conditi da un irresistibile senso dell’umorismo.
Commuove la sua tenerezza di padre, quando completamente debilitato scrive ai figli piccoli gli ultimi brevi biglietti di saluto e istruzione, nei quali mai traspare la progressiva certezza di non rivederli piú. Conquistano persino certi cedimenti allo sconforto, alla rabbia, al senso di abbandono quando le lettere si diradano o si perdono, portandolo a lamentarsi vivacemente. Questo piccolo, stortignaccolo uomo in carcere giganteggia davanti al lettore in ogni riga e senso possibile, e a centovent’anni dalla nascita continua a prendersi gioco della sua stessa fama, esattamente come fece con quel compagno di carcere a Palermo che, incredulo di trovarsi davanti al vero Antonio Gramsci, lo apostrofò dicendo: «Non può essere. Antonio Gramsci dev’essere un gigante, e non un uomo cosí piccolo». Il galeotto non gli rivolse piú la parola, deluso della distanza tra la proiezione e l’originale. Non saprà mai cosa si è perso.
Le idee che hanno emancipato l’uomo
Le lettere di Gramsci dal carcere
di Ranieri Polese (Corriere della Sera, 06.04.2011)
Alla loro uscita, nel 1947 da Einaudi, le Lettere dal carcere furono subito un successo. Era il primo volume delle opere di Antonio Gramsci (i Quaderni, pubblicati sempre da Einaudi, uscirono tra il 1948 e il 1951), che dovevano restituire alla cultura le riflessioni di uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento, e dare così libera circolazione a un pensiero rimasto sequestrato dai lunghi anni della prigionia. Con le Lettere si intendeva fornire il ritratto di un politico, un pensatore, un uomo praticamente sconosciuto ai più. C’era, sì, l’impegno del Pci a ricordare il suo segretario, ma della sua vicenda umana e, ancora di più, del suo lavoro teorico non si conosceva quasi niente. Già nella primavera del ’ 47, si erano vendute circa 12 mila copie delle Lettere dal carcere. E Leonida Repaci, fondatore del Premio Viareggio, volle fortemente che il premio di quell’anno fosse assegnato a quel libro, in deroga al regolamento che prevedeva solo opere di autori viventi.
Su giornali e riviste, intanto, erano uscite recensioni a firma dei più importanti protagonisti della cultura, da Croce a Debenedetti a Gatto, Emanuelli, Calvino. Non risulta che qualcuno abbia mosso l’obiezione di un riconoscimento dedicato a romanzi e racconti e invece assegnato a una raccolta di lettere. E non solo per la bellissima prosa, lo stile piano senza retorica, i pregi letterari.
Ma forse perché fu subito colto il carattere di un testo che si libera dal carattere occasionale dello scambio di corrispondenza per diventare il racconto di una storia umana e intellettuale sullo sfondo di un periodo «in cui - scrive Alfonso Gatto- si andava facendo il deserto».
Memorie, autobiografia, romanzo. È il punto che a Italo Calvino preme affermare quando scrive: «Questa raccolta di lettere familiari resterà nella cultura italiana con il valore di un libro organicamente scritto e sarà letto dalle nuove generazioni come un libro di memorie. E del libro di memorie e del grande romanzo ha l’ampiezza, l’intrecciarsi di mondi e di filoni» . Del resto, lo stesso Gramsci, scrivendo nel dicembre 1930 alla cognata Tania Schucht, si poneva la domanda sul senso delle sue lettere. Lamentandosi del fatto che la moglie Julia, a Mosca con i due figli Delio e Giuliano, rispondesse raramente e a intervalli troppo lunghi, scriveva: «Non mi piace tirar sassi nel buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto; anche nei rapporti familiari voglio fare dei dialoghi. Altrimenti mi sembra di scrivere un romanzo in forma epistolare, che so io, di fare della cattiva letteratura» .
Certo, tanti motivi spiegano la difficoltà del dialogo: i ritardi burocratici, la censura, i silenzi sul ricovero di Julia in una casa di cura per malattie nervose, le domande che Gramsci si pone sulla condotta del partito nei suoi confronti (più volte torna sulla «strana lettera» di Ruggero Grieco ricevuta nel carcere di Milano nel 1928), la cautela con cui il prigioniero fa conoscere le sue condizioni di salute e la prudenza che raccomanda, tramite Tania e l’amico Piero Sraffa, ai compagni all’estero nelle iniziative per la sua liberazione.
Però, nel febbraio del 1933, sempre a Tania, Gramsci scrive: «Ciò che è scritto, acquista un valore "morale"e pratico che trascende di molto il solo fatto di essere scritto, che pure è una cosa puramente materiale» . Quindi, niente cattiva letteratura, semmai pagine che hanno un valore morale e pratico, che raccontano la storia di un uomo incarcerato per le sue idee politiche. E, insieme, raccontano la storia, nel suo farsi, di un pensiero che affronta i nodi cruciali della politica e della storia italiana.
La raccolta si apre il 20 novembre 1926, subito dopo l’arresto, dal carcere di Regina Coeli a Roma, e si chiude nel dicembre 1936, dalla clinica Quisisana di Roma, dove Gramsci era arrivato nell’agosto 1935, dopo due anni passati nella clinica Cusumano di Formia. La prima e l’ultima lettera sono indirizzate alla moglie Julia, seguono poi otto lettere senza data ai due figli. Attraverso la corrispondenza si seguono gli spostamenti del detenuto, da Roma al confino di Ustica, poi Milano, da qui Roma per il processo davanti al Tribunale speciale (nel 1928 Gramsci viene condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione), quindi Turi di Bari. Descrive, Gramsci, con ricchezza di dettagli i diversi luoghi di pena e, insieme, le sue condizioni fisiche e psichiche. Il 20 novembre 1926 Gramsci scrive alla madre, esortandola a essere «forte e paziente nella sofferenza» . E aggiunge: «Di’ a tutti che non devono vergognarsi di me» .
Il tema del carcere come vergogna tornerà più volte nelle lettere alla madre, che ricordava bene un altro carcere, quello del marito Francesco, condannato per peculato e concussione nel 1898: Francesco perse il lavoro e la famiglia numerosa visse in grandi ristrettezze. Così, più volte, continuerà a dire alla madre e alla sorella Teresina che la sua prigionia «è un episodio della lotta politica che si combatteva e si continuerà a combattere non solo in Italia, ma in tutto il mondo, per chissà quanto tempo ancora» (20 febbraio 1928).
E poco dopo, alla madre (12 marzo 1928), dicendole che è «la posizione morale» che dà «la forza e la dignità» , aggiunge: «Il carcere è una bruttissima cosa; ma per me sarebbe anche peggiore il disonore per debolezza morale e per vigliaccheria» . Si apre qui l’altro grande motivo-guida: il rifiuto a inoltrare domande di grazia. Così, nel gennaio del 1930, cita Silvio Spaventa, recluso nelle carceri borboniche dopo il fallimento del 1848 napoletano: «Egli fu dei pochi - una sessantina - che dei più che seicento condannati nel ’ 48 non volle mai fare domande di grazia al re di Napoli» . Più tardi (maggio 1932) ricorda l’episodio di Federico Confalonieri, prigioniero allo Spielberg con Pellico, che «ridotto al massimo grado di avvilimento e di abbiezione» inoltra suppliche all’imperatore per essere liberato. Sono, ovviamente, messaggi trasversali per i compagni di fuori, ma è anche il consapevole riconoscimento di una comunità di destino con tutti gli intellettuali imprigionati per le loro idee. A cui la scelta di non piegarsi, di non abiurare le proprie convinzioni, dette la forza di resistere.
Dal 1931 in poi Gramsci conosce gravi crisi fisiche e un progressivo degrado delle sue forze. L’isolamento e la difficoltà di comunicazione con l’esterno turbano i lunghi giorni della prigionia e lo vediamo sempre più assillato da domande a cui non trova risposte: sui rapporti con Julia e la famiglia Schucht a Mosca, sui rapporti con il partito e con l’Internazionale comunista. Eppure non vuole venir meno all’impegno di studio che si è proposto fino dal 1927, quando scrive alla cognata «che bisognerebbe far qualcosa für ewig» e fa un primo elenco dei temi dei Quaderni. E soprattutto non vuole cedere.
In una delle ultime lettere alla moglie (25 gennaio 1936) scrive: «Io mi trovo in questa situazione (di coercizione, ndr) da molti anni, forse dallo stesso 1926, subito dopo il mio arresto, da quando la mia esistenza è stata, bruscamente e con non poca brutalità, costretta in una direzione data da forze esterne e i limiti della mia libertà sono stati ristretti alla vita interiore e la volontà è diventata solo volontà di resistere» .
Presentata dinanzi al capo dello Stato la nuova edizione nazionale delle opere gramsciane
Gramsci, tutti quei pensieri per sognare una riscossa
Tre idee dei «Quaderni». Dopo quella togliattiana e quella di Gerratana arriva la terza versione
Un lavoro monumentale il cuore del quale sono i «Quaderni del carcere», capolavoro scritto dietro le sbarre e che viene risistemato non più in ordine cronologico ma secondo il progetto teorico gramsciano.
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 20.01.2011)
Fa uno strano effetto una cerimonia su Gramsci nei giorni in cui campeggiano gli scandali che investono l’esecutivo. E nel cuore del Palazzo della politica per eccellenza: Montecitorio. Abissi di anni luce, tra la dignità dell’eroico Gramsci e il vaudeville di Berlusconi. Tra il carcere e i pensieri del primo, e il cinepanettone di oggi. Eppure era proprio di Gramsci che si parlava ieri alla Sala della Lupa, alla presenza di Napolitano, Fini, Violante, Castagnetti e poi Bersani, con D’Alema, Livia Turco e tanti altri, studiosi, pubblico, politici. A sentire Giuliano Amato, Antonello Arru, Giuseppe Vacca e Gianni Francioni. Tema: la nuova edizione nazionale delle opere di Gramsci di cui nel 2007 sono usciti già due volumi, e di cui oggi esce un primo volume dell’epistolario (parte integrante delle Opere).
Evento non piccolo, che si inquadra nelle iniziative per i 90 anni del Pci nella storia d’Italia, a cura di Fondazione Gramsci e Cespe, e in quelle dei 150 anni dell’unità d’Italia (a nome delle quali ha parlato Amato, presidente del comitato ad hoc, nonchè vicepresidente dell’Enciclopedia italiana che edita oggi Gramsci). Intanto in via preliminare va spiegata la nuova Opera Nazionale, che sotto il patrocinio della Presidenza della Repubblica includerà qualcosa come 16 volumi. Solo di Epistolario se ne prevedono 9, altri quattro di scritti giornalistici dal 1910 al 1926, e poi il cuore teorico gramsciano: I Quaderni del Carcere, oggi esposti «dal vivo» in via straordinaria nella mostra sul Pci alla casa dell’Architettura di Roma (fino al 6 febbraio in Via Manfredo Fanti).
Prima novità, l’Opera che succede a quella Einaudi (ferma a 15 volumi) avrà dentro di sé a cura di Chiara Daniele tutta la corrispondenza che ruota attorno a Gramsci, in primis quella di Tatiana, Sraffa, Togliatti, la famiglia, i compagni. Il che consentirà di chiarire i nessi del «caso Gramsci», caso teorico e politico negli anni del fascismo e dello stalinismo. Poi i Quaderni. Includono anche gli esercizi di traduzione di Gramsci. E non sono più disposti in ordine cronologico, come nell’edizione Gerratana del 1975 (cioè Einaudi) che prese il posto di quella togliattiana e tematica tra il 1948 e il 1951.
Stavolta i Quaderni curati da Gianni Francioni (ve ne parlammo più volte negli anni addietro) saranno disposti con un criterio totalmente diverso: concettuale e logico. Cioè a dire, si smontano e rimontanto i 33 Quaderni, sulla base del progetto sotteso alla loro stesura, quello tracciato dallo stesso Gramsci. Che mentre suddivideva le sue note tra il 1928 e il 1934 in Quaderni «miscellanei, misti e speciali», al contempo rieleborava e pensava in avanti progetti di Opere (progetti però, tanto che Vacca ha ricordato che di scritti si tratta, più che di opere). Gramsci insomma pensava, rielaborava e progettava. Specie sul marxismo di Bucharin, su Croce e anti-Croce, su Machiavelli, sul Partito, sugli intellettuali nel’Italia municipale e cosmopolita, sull’America e il fordismo. Come prima sulla Quistione meridionale, precarceraria. E lo faceva in prigione, dovendo riconsegnare matite, libri e quaderni.
Di questo hanno parlato tutti in vario modo ieri, descrivendo il pensiero asistematico ma sistematizzante di un sardo che nella sua biografia, come nel suo meditare, svolge la particolarità (isolana) a consapevolezza globale: a pensiero-mondo. Ecco allora «l’egemonia», che è direzione pensata e guidata dei processi politici, categoria storiografica che indica le inter-dipendenze. E il rapporto dominanti-dominati. Nelle istituzioni, nelle forme simboliche, fin dentro le coscienze. Ecco ancora la «rivoluzione passiva»: trasformazione indotta dai processi mondiali esterni, come il Risorgimento a guida moderata. Ecco i concetti di blocco storico, alleanze, sovversivismo dall’alto (e «popolo delle scimmie») con cui Gramsci pensava il fascismo, e i «rimedi». Che sia tutto scritto lì? Non tutto, ma molto. Almeno per capire e per reagire.
Odio gli indifferenti
di Antonio Gramsci (il Fatto, 19.02.2011)
Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. (...) I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti.
Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo. (...) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
Così Gramsci disobbedì a Marx
Contro le sue indicazioni, applicò il «cesarismo» a Napoleone III, Mussolini e forse anche Stalin
di Luciano Canfora *
È un bel regalo per i filologi l’edizione anastatica dei 29 Quaderni del carcere (e tre di traduzioni) di Antonio Gramsci. L’iniziativa è realizzata congiuntamente da «L’Unione Sarda», quotidiano che quest’anno compie 120 anni, e dall’Istituto della Enciclopedia Italiana, che ha già dato avvio - coi Quaderni di traduzioni - alla finalmente critica «edizione nazionale» dell’intera opera gramsciana. L’ideale sarebbe stata l’edizione fac-simile dei Quaderni , che invece sono raggruppati, nell’edizione anastatica, in diciotto tomi, il quattordicesimo dei quali rispecchia - opportunamente - il formato grande (da registro) dei Quaderni 10, 12, 13 e 18. L’edizione fac-simile avrebbe permesso di poter studiare anche quei dettagli paleografici (colore dell’inchiostro, struttura fisica del manoscritto etc.) che sono fondamentali per qualunque analisi filologica seria.
Il cammino percorso, da quando Togliatti al San Carlo di Napoli (29 aprile 1944) annunciò l’esistenza dei Quaderni , è stato lungo e accidentato. In principio ci fu l’edizione cosiddetta «tematica », pilotata da Togliatti (e Giulio Einaudi) politicamente fondamentale ma filologicamente pazzesca. Poi, dopo un quarto di secolo (1975), la cosiddetta «edizione critica» di Valentino Gerratana, che per lo meno restituiva l’integrità del testo ma non comprendeva né metteva a frutto il dato primario del modo di scrivere, e quindi di comporre, cui Gramsci era costretto dalla situazione pratica in cui si trovò. Poi vennero gli studi di Gianni Francioni: L’officina gramsciana (Bibliopolis) è del 1984. Francioni mise al centro della ricerca sui Quaderni il dato fondamentale: «Il problema cruciale dei Quaderni del carcere - come egli scrive - è quello della loro cronologia». (La cosiddetta «edizione critica» suggeriva, a torto, l’idea che la successione numerica dei Quaderni da 1 a 29 fosse anche cronologica. Invece quella numerazione non è d’autore ed è almeno in parte casuale). Francioni, guardando direttamente gli autografi, mise alla base della ricostruzione la dinamica compositiva di Gramsci, determinata dalla regola carceraria di non poter disporre in cella di più di due quaderni contemporaneamente. Egli «incominciava » il medesimo quaderno in più punti diversi; e inoltre stabiliva raccordi tra di essi. E, soprattutto, aveva creato un gruppo a parte di Quaderni «speciali» in cui far confluire la rielaborazione più matura di parti - anche ampie - già scritte.
Questi Quaderni speciali sono importanti non solo perché racchiudono, sistematicamente, seconde redazioni d’autore le quali, raffrontate con le prime stesure, fanno comprendere lo sviluppo di un pensiero (e spesso si tratta di tematiche capitali), ma perché sono più vicine alla forma-libro verso cui la miriade di riflessioni avviate da Gramsci soprattutto nei «Miscellanei» doveva convogliarsi. Beninteso, anche queste per Gramsci erano stesure provvisorie, ma è evidente a noi lettori che rappresentano uno stadio avanzato. Severamente egli avverte al principio del Quaderno 11 ( Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura ), «il maggiormente elaborato e organizzato tra tutti i monografici » (così Francioni): «Le note contenute in questo quaderno, come negli altri, sono state scritte a penna corrente, per segnare un rapido promemoria. Esse sono tutte da rivedere e controllare minutamente, perché contengono certamente inesattezze, falsi accostamenti, anacronismi. Scritte senza aver presenti i libri cui si accenna, è possibile che, dopo il controllo, debbano essere radicalmente corrette proprio perché il contrario di ciò che è scritto risulta vero». (Anche nella trascrizione di questa avvertenza si nota l’utilità dell’anastatica. L’autografo rivela infatti che è scritto «risulta» e non l’insensato «risulti», come trascrisse Gerratana.
L’autografo mostra chiaramente che Gramsci scrive normalmente la «t» come una «l» tagliata donde l’illusione che sulla piccolissima lettera finale della parola ci sia un puntino!). L’anastatica è corredata da eccellenti prefazioni paleografiche e critiche, quaderno per quaderno, redatte da Francioni. Il quale, in certo senso, ci dà oggi - grazie a questa edizione - un’idea concreta del grande lavoro che sta preparando per l’edizione nazionale dei Quaderni. Ma veniamo ai vantaggi filologici dell’anastatica. Gramsci, come abbiamo visto, dice di aver scritto «a penna corrente» ( currenti calamo ) « per segnare un rapido promemoria». La sua grafia non solo è estremamente posata e regolare, ma quasi sempre priva di correzioni e ripensamenti stilistici. Poiché siamo certi che non v’è «alle spalle » di questi quaderni una «brutta copia» andata persa, è di immediata evidenza - ora che abbiamo davanti l’autografo - che Gramsci componeva direttamente in forma stilisticamente già compiuta le sue pagine. Solo l’autografo poteva consentirci questa considerazione, che è rilevante rispetto al quesito (che invero è d’obbligo di fronte ad ogni significativo autore): come componeva, e quindi come scriveva, Gramsci? Il suo costante addestramento linguistico (traduzioni dai fratelli Grimm, da Goethe, dal saggio di Finck sui ceppi linguistici, da numerosi narratori russi, esercizi di lingua inglese: tutto questo è nei Quaderni A, B, C, ma traduzioni appaiono anche in altri quaderni), l’interesse suo costante per la «questione della lingua in Italia», sono tra i fattori che aiutano a comprendere lo straordinario fenomeno di una scrittura così spontaneamente matura.
Ma c’è anche il lunghissimo suo tirocinio giornalistico, palestra straordinariamente efficace al fine di imporre allo scrivente il costume di dire direttamente, e senza contorsioni stilistiche o ornamenti professorali, ciò che intende dire. Per valutare la sua prosa l’autografo è dunque la base primaria. C’è poi l’altro aspetto: la rielaborazione e l’ampliamento di parti già scritte. Anche qui regna l’essenzialità: e la scarsa disponibilità di carta dovuta alle stupide restrizioni carcerarie ha avuto la sua parte. Ma bisognerebbe avviare un’indagine sistematica sulle sue varianti d’autore. Si capirebbe molto di più in profondità quello che avvenne nel suo instancabile laboratorio mentale. Vorrei fare solo qualche esempio. Un tema di straordinaria importanza, teorica e politica, è per lui il fenomeno del «cesarismo ». È già di per sé significativo che egli lo assuma e gli dia quel rilievo di categoria sommamente utile alla comprensione della storia otto-novecentesca. Marx, nella prefazione alla seconda edizione del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte ( giugno 1869) aveva perentoriamente «vietato» l’uso di cesarismo fuori dello studio della storia antica. Gramsci «disobbedisce» senza alcun problema, anzi ingigantisce, giustamente, quella categoria, divenuta - con la guerra e le rivoluzioni del dopoguerra - uno strumento ermeneutico prezioso. La prima stesura del paragrafo cesarismo è nel «miscellaneo» Quaderno 9, la seconda, quasi raddoppiata, è nello «speciale» Quaderno 13.
Il fenomeno che si coglie raffrontando le varianti è l’attenuazione della polarità tra il cesarismo «progressivo » e «regressivo»: polarità che, pure, costituisce il punto di partenza della riflessione. Nel secondo capoverso della stesura A (Quaderno 9) Napoleone III, in opposizione al I, costituisce il prototipo del «cesarismo regressivo». Invece nel lunghissimo nuovo capoverso aggiunto nella stesura B (Quaderno 13) si dice di Napoleone III che «il suo Cesarismo (...) è obbiettivamente progressivo sebbene non come quello di Cesare e Napoleone I», perché «la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo etc.». La riflessione non è oziosamente classificatoria né meramente storiografica. Basti pensare che con l’esemplificazione Gramsci si spinge fino al presente: fino al governo Mac Donald (un laburista che guida un ministero di conservatori) ed al governo di Mussolini: «Così in Italia nell’ottobre ’22, fino al distacco dei popolari e poi gradatamente fino al 3 gennaio ’25 e ancora fino all’8 novembre ’26 si ebbe un moto politico-storico in cui diverse gradazioni di cesarismo si succedettero fino a una forma più pura e permanente, sebbene anch’essa non immobile e statica». Il grande assente, il non detto, di questa pagina è Stalin (siamo nel 1934), anch’egli emerso vincente da un aspro conflitto di classi (operai, contadini, «nep-men»). Orbene, se si considera che la premessa da cui Gramsci parte è che il cesarismo «esprime sempre la soluzione arbitrale, affidata ad una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica» (di forze cioè che «si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca») la riflessione ha delle implicazioni molto attuali. In queste pagine - nella prima e soprattutto nella seconda stesura - è racchiuso un giudizio meditato sia sull’esperienza del fascismo che - probabilmente - su quella dello stalinismo, considerati non già con l’occhio e il tono agitatorio di chi è immerso nella lotta e ne è parte, ma assunti in una razionalità della storia di cui la categoria del «cesarismo» è la chiave. Ed è forse una chiave primaria per intendere l’intero corpus gramsciano carcerario, cioè successivo alla sconfitta ed al progressivo affermarsi del «Cesare».
Luciano Canfora
* Corriere della sera, 28 agosto 2009
L’individualista è un partigiano della malavita
di Antonio Gramsci *
Si osserva da alcuni con compiacimento, da altri con sfiducia e pessimismo, che il popolo italiano è «individualista»: alcuni dicono «dannosamente», altri «fortunatamente». Questo «individualismo», per essere valutato esattamente, dovrebbe essere analizzato, poiché esistono forme diverse di «individualismo», più progressive, meno progressive, corrispondenti a diversi tipi di civiltà e di vita culturale. Individualismo arretrato, corrispondente a una forma di «apoliticismo» che corrisponde oggi all’antico «anazionalismo»: si diceva una volta «Venga Francia, venga Spagna, purché se magna», come oggi si è indifferenti alla vita statale, alla vita politica dei partiti.
Ma questo «individualismo» è proprio tale? Non partecipare attivamente alla vita collettiva, cioè alla vita statale (e ciò significa solo non partecipare a questa vita attraverso l’adesione ai partiti politici «regolari») significa forse non essere «partigiani», non appartenere a nessun gruppo costituito? Significa lo «splendido isolamento» del singolo individuo, che conta solo su se stesso per creare la sua vita economica e morale? Niente affatto. Significa che al partito politico e al sindacato economico «moderni», come cioè sono stati elaborati dallo sviluppo delle forze produttive più progressive, si «preferiscono» forme organizzative di altro tipo, e precisamente del tipo «malavita», quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari, sia legate alle classi alte.
* l’Unità, , 12 febbraio 2009
Oggi il popolo della sinistra discute sull’esigenza assoluta di ripristinare il senso morale e riproporre, se non si vuole assistere allo sfascio del movimento riformista, una svolta radicale del comportamento e di tutto il programma. Per questo cambiamento, ci racconta Fo, si ricordano Gramsci e Berlinguer...
La memoria di una vita bruciata giorno per giorno dentro le carceri ingoiata dall’oblio
Noi e la voce di Gramsci
Una lettera del ’29: «I libri, le riviste, danno solo idee generali, abbozzi di correnti non definite della vita del mondo giacché è difficile riescano a dare l’impressione immediata, diretta, viva della vita di Pietro, Paolo o Giovanni, cioè di singole persone reali, senza capire i quali non si possono neanche capire i loro comportamenti... e quindi ciò che è generalizzato»
di Dario Fo (l’Unità, 21.12.2008)
Oggi tutto il popolo della sinistra discute sull’esigenza assoluta di ripristinare il senso morale e riproporre, se non vogliamo assistere al totale sfascio del movimento riformista, una svolta radicale del comportamento e di tutto il nostro programma sia organizzativo che culturale. Ed è proprio in conseguenza a questo impellente cambiamento che si fa il nome di due grandi dirigenti della sinistra storica: Berlinguer e Gramsci.
Ed era tempo che ci si riferisse al loro esempio e agli insegnamenti proposti sia con lo scritto che con l’azione diretta; in particolare mi capita spesso, dialogando con studenti anche impegnati nella politica, di parlare di Gramsci e mi devo render conto che essi della vita e delle lotte affrontate da questo grande personaggio caposaldo della nostra storia sociale e civile sono quasi completamente all’oscuro. Un uomo di enorme valore intellettuale e morale i cui testi sulla storia degli intellettuali, le sue Lettere e i Quaderni dal carcere sono stati tradotti in tutte le lingue del pianeta e studiati in ogni università di prestigio, dimenticato.
Come è possibile? La memoria di una vita bruciata giorno per giorno dentro le carceri e nelle isole penitenziarie, ingoiata dalla polvere dell’oblio! Tanto per cominciare a Milano, capitale della regione più attiva e produttiva d’Italia, Antonio Gramsci è un estraneo ricordato solo dai vecchi operai scaricati nella più anonima periferia mentre i giovani quasi lo ignorano, eppure varrebbe la pena almeno ricordarlo se non altro per aver fondato in questa città nel 1924 il quotidiano più famoso del Partito comunista, l’Unità.
Il suo approccio intenso seppur drammatico con Milano lo realizza nel 1926, anno in cui viene arrestato a Roma e dopo una breve permanenza a Regina Cœli viene trasportato a Ustica per qualche settimana, quindi sempre nello stesso anno raggiunge Milano accolto nelle carceri di San Vittore, un penitenziario davvero monumentale a pianta centrale e struttura stellare con le celle disposte su tre piani a vista.
Michel Foucault, in uno studio sulle carceri del 900 indica questa di San Vittore come una delle opere di costrizione strutturalmente più moderne. Per Antonio Gramsci è forse l’unico incontro con la cultura architettonica della metropoli lombarda. Ci rimane tre anni durante i quali imposta uno studio sui maggiori protagonisti della cultura italiana. Di qui viene tradotto nella colonia penale di Turi, presso Bari, pare per motivi di salute: evidentemente il clima e l’ambiente carcerario di Milano non gli erano molto propizi. Queste sono le uniche notizie di cui disponiamo riguardo il rapporto con la capitale lombarda.
Tutti sappiamo che Gramsci è nato in un piccolo paese della Sardegna meridionale: nel 1902 consegue la licenza elementare, quindi nel 1908 frequenta il liceo classico a Cagliari e si appassiona allo studio delle lettere, della storia e della matematica. Quest’ultimo è un particolare poco conosciuto. In un suo breve scritto dal carcere commenta questa sua "attenzione" verso la matematica (da non confondere con l’aritmetica che è altra cosa) e la abbina alla geometria analitica e proiettiva: si tratta di una scienza che costringe a scoprire la logica e a superare il concetto di «terminato», cioè concluso. In analisi logica geometrica nulla è definitivo: tutto ha un suo svolgimento che spesso capovolge il primo aspetto geometrico per cui un punto nello spazio se appena sposti la tua posizione, o meglio punto di vista, puoi renderti conto che in verità si tratta di una retta tagliata in sezione. E questo è il presupposto della logica e della dialettica.
Quasi appresso c’è un altro commento di Gramsci a proposito di geometria e matematica: si tratta del metodo davvero geniale impiegato da Eratostene di Cirene nel III a.c. per analizzare i fenomeni astronomici. Il giovane studioso greco arrivò a misurare la circonferenza della Terra servendosi di due aste di un braccio e mezzo l’una: una conficcata alla periferia di Siene, l’altra in un prato presso Alessandria. In quel momento a Siene il Sole si trovava allo zenit, quindi proiettava i propri raggi perfettamente in verticale quindi il bastone infisso non produceva ombra alcuna, mentre nello stesso giorno l’altro bastone conficcato nel prato di Alessandria produceva un’ombra di mezzo palmo. Grazie a queste due misure il giovane Eratostene riuscì a calcolare appunto la circonferenza della Terra in termini quasi esatti e perfino la distanza dalla Terra al Sole. E qui Gramsci fa notare che a chi conosce il metodo dell’analisi proiettata è sufficiente una breve asta per calcolare distanze immense o addirittura infinite.
Più tardi trovandosi egli in carcere, grazie a una lettera del novembre del 1929 alla moglie Giulia, possiamo cogliere il modo del tutto inconsueto con cui Gramsci pensa di proporre uno studio sulla «storia degli intellettuali», quale testimonianza di un popolo e di una nazione. Antonio Gramsci dichiara esplicitamente: «I libri, le riviste, danno solo idee generali, abbozzi di correnti non definite della vita del mondo giacché è difficile riescano dare l’impressione immediata, diretta, viva della vita di Pietro, Paolo o Giovanni, cioè di singole persone reali, senza capire i quali non si possono neanche capire i loro comportamenti quotidiani e da cosa siano determinati e quindi di ciò che è universalizzato e generalizzato».
La città del Nord Italia che ha veramente segnato la formazione umana e culturale di Gramsci non è quindi Milano, ma Torino. Egli giunse in quella città grazie a una borsa di studio che lo introduceva nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università del centro industriale più importante d’Italia. Il capoluogo piemontese in quel periodo viveva in pieno il boom economico e industriale. La Fiat e la Lancia con i loro stabilimenti hanno chiamato dal Sud più di sessantamila immigrati in cerca di lavoro. È il tempo in cui gli operai organizzano imponenti lotte di fabbrica e nascono le prime associazioni sindacali, è il tempo in cui gli operai riescono a imporre la loro presenza nelle decisioni fondamentali del lavoro insieme ai rappresentanti dei padroni. In questo periodo della sua vita, Gramsci studiando i processi produttivi nelle fabbriche, si impegna per far acquisire alla classe lavoratrice «la coscienza e l’orgoglio di produttori».
Collabora con alcuni giornali quali il Grido del popolo, foglio comunista di Torino e più tardi con l’Avanti!. Scrive su argomenti di lotta e di prassi politica, ma si appassiona anche al mondo dello spettacolo fino a diventare critico teatrale. E’ uno dei primi a capire che il dividere in categorie distinte la tragedia e la commedia, la farsa e il dramma è un errore che produce un concetto del tutto conservatore se non addirittura reazionario. «L’umorismo e il senso del grottesco - sostiene - sono espressioni di altissimo valore e solo una cultura ottusa e bassamente classista può pensare di catalogare a livelli inferiori tutto ciò che produca riso e divertimento - anzi dichiara - Il primo valore di un’opera teatrale è l’attenzione che sa suscitare e il divertimento è l’aggancio più efficace perché si produca l’ascolto e l’attenzione». Sappiamo che per lungo tempo Gramsci tenne in gran considerazione il teatro e le novelle di Pirandello. Oltretutto, lo dichiara esplicitamente, la sua origine culturale nasce dallo studio di Benedetto Croce, ma questo suo modo di giudicare e considerare il valore del filosofo e del commediografo siciliano subiranno una sterzata a capovolta in conseguenza della sua terribile esperienza dentro le carceri del fascismo.
Un primo importante effetto lo acquisì presso l’isola di Ustica grazie al rapporto con i carcerati, alcuni politici, ma altri condannati per crimini comuni coi quali ebbe subito un rapporto particolare. Sapendolo colto e disponibile, i detenuti politici gli chiesero di organizzare una serie di lezioni alle quali avrebbero potuto partecipare anche i cosiddetti comuni. La richiesta di partecipazione fu superiore al previsto cosicché si decise di dividere i corsi a livelli diversi secondo il grado di preparazione degli allievi.
Gramsci ha scritto alcuni commenti a proposito di questa esperienza rendendosi conto che durante quelle sedute spesso si trovava ad apprendere più che a procurare insegnamenti. Scoprì che alcuni di quei carcerati conoscevano canti popolari della loro più antica tradizione che ripetevano forme poetiche con ritmi e cadenze che Gramsci aveva appreso studiando i novellatori medievali e del Rinascimento. A questo proposito accenna ad una ballata che propone lo stesso andamento di doppio settenario o endecasillabo con un novenario nel mezzo dei canti prodotti nella corte di Federico II di Svevia.
Credo di aver indovinato di che strambotto si tratti: un canto in cui l’innamorato fa l’elogio della sua donna alla maniera dei poeti arabi che operavano nell’VIII secolo in Sicilia. Il cantore popolare a sua volta ci presenta la sua bella che si sta affacciando al balcone: la ragazza splende come la luna ed i suoi occhi sono due stelle della sera. Più o meno il canto dovrebbe essere questo:
A na fenestra se spontao la luna
intrammezza a du stidde Diana:
su tanti li baliori che me duna,
pari lu lampu de la tramontana.
Cioè:
A una finestra è spuntata la luna
con intrammezzo due stelle Diana:
son tali i bagliori che mi dona,
pare il lampo della tramontana.
Gramsci a questo proposito ricorda la definizione di Benedetto Croce davanti ai canti popolari: «Si tratta - dichiara il filologo - di ripetizioni meccaniche di poemi della cultura superiore e - ribadisce - la cultura dominante è sempre espressione della classe dominante». Ma ecco che Gramsci si rende conto forse per la prima volta che questa definizione è del tutto falsa giacché quel canto in volgare siculo certamente è di origine più antica delle ballate prodotte dai poeti di corte di Federico imperatore e quindi anche la metrica e i ritmi espressi dal popolo nascono qualche secolo prima di quelli che ritroviamo sui libri di testo della poesia aulica del Duecento, testi che ci hanno sempre insegnato essere all’origine della poesia italica. Ma l’emozione più alta Gramsci la prova assistendo sempre ad Ustica, forse nell’ora d’aria, quindi nel campo interno al carcere, ad un’esibizione di due carcerati originari delle valli montane della Calabria, molto probabilmente dediti alla pastorizia. Essi armati ciascuno di un bastone si producono in un duello feroce e nello stesso tempo di un’eleganza straordinaria: più che lottare con l’intento di colpirsi, i due contendenti si producono in danze fatte di scatti agilissimi nei quali fanno roteare i bastoni cozzando l’un contro l’altro i legni a velocità inaudita. Muovono rovesciando il corpo e passando i bastoni da una all’altra mano compiendo vere giravolte con le quali sfuggono a botti tremendi seguiti da grida secche e cantate quasi a sfottò.
Egli commenta: «Non era di certo quella un’esibizione fine a se stessa: la bravura dei due contendenti non era tanto espressa dal tentativo di colpire duramente l’avversario, quanto piuttosto quello di riuscire non colpirsi l’un l’altro dando al contrario l’impressione di volersi massacrare a vicenda. Ad un certo punto ho intuito che quella pantomima era parte di un rito molto antico prodotto con lo scopo di allenamento ad un conflitto vero dove il nemico non era solo da considerarsi un essere umano, ma poteva tradursi in orso o lupo o addirittura in branco di lupi. Quel roteare vorticoso del bastone e quello sfuggire con salti e affondi rovesciati era certo il prodotto di un agire per cercare di sopravvivere ad attacchi di morte». Tutto il popolo di sinistra è di certo a conoscenza delle diatribe e dei conflitti che allontanarono definitivamente Palmiro Togliatti da Gramsci ed è quindi quasi paradossale scoprire che il primo a credere nel valore universale delle opere del più importante intellettuale del Partito comunista si sia rivelato proprio Togliatti. Egli mirava a fare di questo suo antagonista il teorico di una «riforma intellettuale e morale» in continuità con il Risorgimento. Il punto massimo dell’assurdo di questa operazione sta nel fatto che Togliatti intendesse realizzare un’azione di politica culturale «finalizzata ad attenuare la vocazione proletaria del Pci» e per far questo aveva pensato di servirsi del maggior sostenitore del valore inarrivabile della cultura popolare.
Un paradosso, appunto, iacché è risaputo che il contenzioso che determinò l’irrisolvibile diverbio furono proprio le idee «costituzionali» di Gramsci - il suo cosiddetto «comunismo liberale» -, ritenute fortemente eretiche in quanto oltretutto in contrasto con la linea cosiddetta del «social-fascismo» imposta da Mosca, e fu proprio quella drastica censura a produrre quell’isolamento in carcere che gli causò la fine d’ogni contatto umano: una situazione che lo portò alla più dolorosa delle condizioni. «Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo, - scrive in una lettera alla cognata Tania nel 1930 - non potevo preventivare che dei colpi mi sarebbero arrivati anche da altre parti, da dove meno potevo aspettarli».
Ad ingigantire questa situazione giunge in carcere una serie di lettere inviate a tutti i detenuti politici in attesa di processo: in queste missive a firma di Ruggero Grieco, lo scrivente compie una gaffe madornale poiché indica Gramsci, Terracini e Scoccimarro come i massimi capi del partito. Insomma, si tratta di una autentica delazione, uno sgambetto mortale. Gramsci si sente tradito, messo con le spalle al muro. Di certo è un tale colpo basso che gli crea una vera e propria débacle fisica e morale: la sua salute peggiora a vista d’occhio. Inoltre possiamo ben dire che questa trappola infame allontanò per sempre Gramsci dal partito, proprio lui che con tanta forza aveva lottato per farlo nascere.
Dalla Russia
Archivi Nuove prove sull’opera falsificatrice dell’Ovra.
Ma resta aperta la questione del conflitto tra il leader prigioniero e Togliatti
Gramsci e l’enigma della «lettera criminale»
Luciano Canfora: manipolata dalla polizia fascista la missiva che lo indusse a sospettare del Pci
di Aurelio Lepre (Corriere della Sera, 4.12.2008)
Nel 1944-1945 il Pci fu ricostruito sul binomio Gramsci-Togliatti, il fondatore e il costruttore, modellato su quello sovietico Lenin-Stalin. Negli anni successivi Togliatti lo consolidò, grazie a un attento controllo esercitato sulla pubblicazione degli scritti di Gramsci. Le cose cominciarono a cambiare dopo il 1964, l’anno della morte di Togliatti. Furono allora i nuovi dirigenti e gli storici che militavano nel Partito comunista a gestire politicamente la revisione di quel rapporto, sulla base della nuova documentazione che lentamente veniva alla luce, mano a mano che il Pci respingeva la parte più compromettente dell’eredità di Togliatti, cercando però di conservare intera quella di Gramsci.
È da qui che bisogna partire per capire l’importanza assunta sul piano storiografico dalla questione di una lettera che un dirigente del partito, Ruggero Grieco, inviò a Gramsci nel febbraio 1928, oltre un anno dopo il suo arresto, e che il prigioniero definì in un primo momento «strana» e successivamente «criminale». Il giudice istruttore Enrico Macis, che gliela aveva mostrata, aveva ipotizzato che i suoi compagni volessero danneggiarlo, perché la lettera conteneva dettagliate, anche se confuse, informazioni sulla situazione politica, tali da mostrare che Gramsci anche dal carcere continuava ad avere un ruolo attivo nel partito. Lo stesso Gramsci scrisse che l’invio fu dovuto a «imperizia, negligenza o volontà perversa».
Come si vede, c’è materia sufficiente per un giallo politico, con molti indizi ma senza una prova definitiva, e se ne cerca da tempo la soluzione. Quali erano le vere intenzioni di Grieco? Era stata una sua iniziativa o c’era stato un misterioso suggeritore, che aveva voluto compromettere Gramsci per lasciarlo in galera? Era forse lo stesso Togliatti, che già due anni prima si era scontrato con lui per divergenze sull’atteggiamento da assumere verso Stalin? Questa ipotesi, formulata soprattutto sul piano politico e giornalistico, ha dato luogo a interminabili discussioni e ha rappresentato un aspetto importante della polemica contro Togliatti e il Pci.
Nel 1989 Luciano Canfora sostenne, con dei buoni argomenti, che la lettera era stata falsificata dalla polizia fascista. La discussione però è continuata e ora Canfora cerca di chiuderla svolgendo una nuova, più ampia e approfondita inchiesta, molto minuziosa ( La storia falsa, Rizzoli, pp. 322, e 17), condotta con i metodi sia dell’indagine poliziesca sia dell’analisi filologica, in cui, come sappiamo, è un maestro e che applica alla storia contemporanea con la stesso successo con cui esamina documenti della storia greco- romana. Canfora si muove con sicurezza e perizia in un aggrovigliato mondo di rivoluzionari, poliziotti, infiltrati e traditori e il risultato appare persuasivo: la lettera di Grieco a Gramsci nella stesura che gli fu consegnata sembra (come altre due che erano state indirizzate contemporaneamente a Terracini e a Scoccimarro) il frutto di una falsificazione nemmeno tanto abile.
Ma resta aperto un grosso problema. Gramsci ripensò spesso a quella lettera, ponendosi tormentose domande: come mai non sospettò, se non, forse, in un primo momento, quando si limitò a definirla «strana», che potesse trattarsi, almeno parzialmente, di un falso? Proprio a causa di quella lettera tutta la sua vita carceraria fu lacerata dal dubbio di essere stato tradito, di essere stato condannato da un tribunale più vasto di quello fascista, di cui facevano parte anche alcuni suoi compagni. E quel dubbio contribuì a mettere a dura prova la vita del prigioniero, provocando in lui una «trasformazione molecolare» di cui parla in una delle sue più belle e drammatiche pagine - concordo in pieno con l’opinione di Canfora che Gramsci la riferisca a se stesso. Di essa non sono ancora chiare tutte le implicazioni, ma rivela comunque che l’uomo e il politico erano cambiati al momento in cui uscì dal carcere rispetto a quello in cui vi era entrato.
Luciano Canfora naviga con accortezza tra Scilla e Cariddi, tra l’ipotesi di una semplice leggerezza commessa da Grieco e quella di un’iniziativa «criminale», che avrebbe portato alla rottura di Gramsci con Togliatti. In realtà, non ci fu rottura ma solo un rapporto difficile, come testimoniano anche le lettere che il prigioniero inviava alla cognata Tania e che alla fine, attraverso Piero Sraffa, pervenivano a Togliatti. Ed è solo decifrando il linguaggio non sempre chiaro di quelle lettere che può essere ricostruita la storia completa dei rapporti tra Gramsci e Togliatti.
Ricordi e testimonianze dei parenti del pensatore comunista
Dialogo con un padre mai visto
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 4.12.2008)
Grande leader politico e pensatore universalmente apprezzato, anche in ambienti molto lontani dalle sue idee (si pensi al cosiddetto «gramscismo di destra»). Ma uomo malato nel corpo e ferito nell’anima, forzatamente separato dalla moglie e dai figli, ossessionato dall’idea di essere stato abbandonato dai suoi compagni di lotta. Nella figura di Antonio Gramsci convivono questi due aspetti, che rendono doppiamente eccezionale, e per molti versi commovente, la sua vita.
Tragica fu la sua detenzione, segnata non solo dai disagi del carcere fascista, particolarmente pesanti per un individuo debilitato, ma anche da sospetti e conflitti sotterranei con il Pci, di cui era stato a capo, e con l’Urss di Stalin. Si aggiungevano i travagli familiari: la moglie russa Julia Schucht, a Mosca, colpita da una grave malattia nervosa e i due figli piccoli, Delio e Giuliano, affidati alle cure della cognata Eugenia, mentre l’altra cognata Tania, in Italia, era il principale appoggio del leader detenuto. E proprio sul versante familiare abbiamo oggi nuovi contributi, offerti da due diversi libri.
Nel volume Papà Gramsci. Il cuore nelle lettere (Gabrielli Editori, pp. 116, € 14), con prefazione di Walter Veltroni, Anna Maria Sgarbi ha raccolto le missive indirizzate idealmente ad Antonio Gramsci dal figlio Giuliano, scomparso lo scorso anno (l’altro fratello, Delio, era morto nel 1982). Non è solo «un documento storico di notevole importanza », come scrive lo studioso Marco Clementi nella postfazione, ma anche una confessione a cuore aperto, in cui i ricordi ingenui dell’infanzia si fondono felicemente con le riflessioni malinconiche della vecchiaia. Uno spaccato dell’Urss negli anni bui, quando nessuno era al sicuro dagli artigli del potere.
La prima moglie di Giuliano Gramsci, Margarita, e la loro figlia Olga hanno invece affidato i loro ricordi a Giancarlo Lehner, che li ha inclusi nel libro La famiglia Gramsci in Russia (Mondadori, pp. 366, € 20). In questo caso le testimonianze riguardano il periodo successivo al disgelo kruscioviano, perché Margarita e Giuliano si sposarono nel 1956, però riflettono ugualmente un’atmosfera plumbea: non più quella di una tirannide sanguinaria, bensì quella di un regime in lento disfacimento, ma ancora ottuso e oppressivo. Entrambi utili sotto il profilo documentario, i due libri si differenziano per impostazione. Anna Maria Sgarbi è attenta soprattutto all’aspetto umano, alla vicenda di un figlio su cui gravavano il peso di portare un cognome illustre, ma in odor di eresia, e il dolore di non aver mai potuto abbracciare il proprio padre. Lehner, saggista appassionato e polemico, allestisce un processo in piena regola al gruppo dirigente del Pci, in primo luogo a Palmiro Togliatti, per aver isolato ed emarginato Gramsci, per averne ostacolato la liberazione dal carcere, per essersi impadronito indebitamente della sua eredità letteraria. Sullo sfondo l’idea che al vertice del Cremlino Gramsci fosse considerato un personaggio infido, «sospetto di trotzkismo».
Sono accuse che l’atteggiamento delle sorelle Schucht accredita, ma solo in parte. Esse si mostrarono ostili a Togliatti, tanto che chiesero a Stalin d’impedire che gli scritti del loro congiunto fossero consegnati al Pci. Ma bisogna aggiungere che, se i vertici del potere sovietico avessero visto in Gramsci un «traditore», come ritiene Lehner, ben difficilmente le Schucht si sarebbero rivolte al supremo despota per tutelarne l’eredità intellettuale. Parliamo di una vicenda densa di ombre, davvero ardua da scandagliare fino in fondo.
Il caso. L’arcivescovo Luigi De Magistris rivela: «Prima di morire chiese i conforti religiosi»
La storia. Ma i documenti attestano tutt’altro: il tentativo d’indurlo ad abbracciare la fede fallì
Antonio Gramsci si convertì?
No, ci provarono ma lui rifiutò
Una vicenda non nuova esplosa già nel 1977 e già chiarita a sufficienza da lettere, documenti e testimonianze
che allo stato attuale fanno escludere recisamente la presunta conversione e anzi la smentiscono.
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità 26.11.2008)
Gramsci convertito in punto di morte? Addirittura con i sacramenti? Ad affermarlo è stato l’arcivescovo Luigi De Magistris, penitenziere emerito della Santa Sede, alla presentazione del primo catalogo internazionale dei «Santini». Che ha aggiunto alla «rivelazione» precisi dettagli. La presenza nella stanza alla Quisisana di Roma dell’immagine di Santa Teresa del Bambin Gesù. E le suore della clinica, che avrebbero portato da baciare a Gramsci l’immagine di Gesù Bambino, su esplicita richiesta: «Perché non me l’avete portato?». L’infermo avrebbe così baciato il Bambino, «tornando alla fede della sua infanzia».
Peccato però che la rivelazione non regga. Ma sia del tutto infondata e priva di riscontri al momento. Anzi, a leggere bene le carte di cui disponiamo, la verità fu un’altra e di tenore del tutto opposto. Cominciamo da una domanda: quando avvenne materialmente la conversione? Gramsci entrò in coma il 25 e spirò per un ictus il giorno 27 aprile 1937. Fu cremato con pratica non consacrata e con molte difficoltà, grazie al fratello Carlo (il regime temeva la concomitanza con il primo maggio), e poi le ceneri furono trasferite dal Verano al Cimitero degli Inglesi nel dopoguerra. Bene, non c’è traccia di conversione né nella lettera di Tatiana Schucht a Sraffa, né in quella alla sorella Giulia, entrambe scritte post-mortem e piene di particolari sugli ultimi istanti di Antonio. E ancora.
Il caso esplose nel 1977
Il caso della «conversione di Gramsci» esplose già nel 1977, quando il gesuita padre Della Vedova sbandierò la notizia sulla rivista Studi Sociali (n. 10). Ne nacque una polemica a seguito della quale il professor Arnaldo Nesti, sociologo a Firenze, raccontò di essersi recato 10 anni prima a Ingebohl in Svizzera, sede della casa generalizia a cui appartenevano le suore della Quisisana (cfr. Paese Sera del 21-4-77 e 8-6-77). Lì aveva incontrato i testimoni delle ultime ore di Gramsci. Il cappellano Don Giuseppe Furrer, Suor Linda, Suor Maria Ausilia e Suor Palmira. Furrer racconta delle sue «dispute» al capezzale di Gramsci, il quale polemizzava contro i sacerdoti, «incapaci di capire l’animo umano». Quanto alle suore, che esortavano l’infermo ad andare in cappella, riferirono che egli disse loro: «Non è che non voglio, non posso!».
Solo una volta Gramsci cedette alle pressioni, e consentì che dei bambini entrassero nella sua stanza con la statuina del bambin Gesù. Ma era il Natale 1936, e l’ammalato si limitò in quel caso ad accontentare i bambini, con il bacio di rito all’effigie. Dunque è qui la radice della leggenda oggi riciclata, trent’anni dopo la sua prima diffusione. Laddove i fatti appurati parlano di tutt’altra situazione. Nella quale con fermezza e coraggio - e in quelle condizioni! - Antonio Gramsci respingeva ogni pressione del capellano e delle suore per convertirlo. Alternando, gentilezza, ironia, fermezza e argomenti razionali. Il tutto nella preoccupazione della cognata Tatiana, timorosa di strumentalizzazioni politiche. E alla quale non sfuggiva il tramestio attorno al letto del malato, per indurlo ad accettare i conforti religiosi.
Come che sia il 25 aprile Gramsci entrò in coma, furono preparati il secchiello d’acqua santa e l’olivo e fu appoggiata sul letto la stola violacea, secondo il rito cattolico. Furrer narra di non ricordare di aver amministrato o meno l’assoluzione «sotto condizione». Fatto sta che Gramsci era ormai assente e immobile, e non rinvenne più, sino al decesso. Non solo. Secondo una testimonianza di Alfonso Leonetti (resagli proprio da Carlo Gramsci), Gramsci rivelò al fratello che un frate aveva cercato fino all’ultimo di indurlo «a compiere un atto di conversione». Tentativo fallito, perché il malato si voltò contro il muro, invitando il frate a lasciarlo in pace. E la testimonianza di Carlo è inoppugnabile, visto che assistette Antonio fino agli ultimi istanti. In conclusione, cercarono di convertire Gramsci, che tenne duro. Fino a prova contraria.
Vaticano: "A Gramsci i sacramenti prima di morire". Lo storico: "Non ci sono prove"
Il fondatore del Partito Comunista italiano "ha voluto baciare un santino di Gesù". Il presidente della Fondazione a lui dedicata: "Non risulta da alcun documento" Arriva il primo catalogo delle immagini sacre
ultimo aggiornamento: 25 novembre, ore 18:45
Città del Vaticano, 25 nov. (Ign) - Il fondatore del Partito Comunista italiano, Antonio Gramsci, ha ricevuto i sacramenti in punto di morte. L’arcivescovo Luigi De Magistris, penitenziere emerito della Santa Sede, lo ha rivelato oggi durante la presentazione del ’Primo catalogo internazionale dei Santini’. "Il mio conterraneo, Gramsci -ha detto De Magistris- aveva nella sua stanza l’immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù".
Racconta poi un altro episodio relativo ai suoi ultimi anni di vita."Durante la sua ultima malattia, le suore della clinica dove era ricoverato portavano ai malati l’immagine di Gesù Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: ’Perché non me l’avete portato?’ Gli portarono allora l’immagine di Gesù Bambino e Gramsci la baciò. Gramsci - ha concluso l’arcivescovo - è morto con i sacramenti, è tornato alla fede della sua infanzia. La misericordia di Dio santamente ci ’perseguita’. Il Signore non si rassegna a perderci".
Per il presidente della Fondazione Giuseppe Vacca ’’non risulta da alcun documento disponibile’’ che Antonio Gramsci ricevette i sacramenti in punto di morte. ’’I documenti che abbiamo a disposizione non consentono di affermare o suffragare la tesi di una conversione tardiva. Al contrario -prosegue Giuseppe Vacca- esiste una documentazione, abbastanza cospicua, sulle ultime ore di Gramsci, in cui non si fa il minimo accenno a questa circostanza. C’è una lunga lettera di Tania, la cognata, che lo aveva assistito, in cui viene raccontata la morte di Gramsci eppure non si parla di questa cosa. Nessun riferimento a conversione o sacramenti neanche nella documentazione di polizia’’.’’Naturalmente -precisa il presidente della Fondazione Istituto Gramsci- ciò non esclude che la cosa possa risultare da altri documenti. Se qualcuno ha recuperato un atto in questo senso, lo valuteremo come del resto facciamo con tutti i documenti disponibili’’.
"Gramsci trovò la fede in punto di morte e ricevette i sacramenti cristiani"
Lo ha rivelato l’arcivescovo Luigi De Magistris, propenitenziere emerito del Vaticano e conterraneo del fondatore del Pci stamane a Roma per presentare un catalogo di santini e immagini sacre
di GIACOMO GALEAZZI *
Antonio Gramsci, fondatore del Partito Comunista Italiano, trovò la fede in punto di morte e ricevette i sacramenti cristiani. Lo ha affermato oggi mons. Luigi De Magistris, propenitenziere emerito del Vaticano e conterraneo di Gramsci, in una conferenza stampa stamane a Roma per presentare un catalogo di santini e immagini sacre.
C’è chi colleziona santini e ne ha fatto quasi una professione, e chi li ha ricevuti in eredità dalla nonna e li custodisce in un cassetto da anni, con il dubbio di avere tra le mani un piccolo tesoro. Infine c’è anche chi non se ne separa mai. Per tutti gli appassionati e per chi vuole saperne di più, anzi vuole sapere tutto, su queste piccole rappresentazioni che hanno una storia affascinante e antica, è arrivato il ’Primo catalogo internazionale dei santini’, un volume a colori di 512 pagine che contiene oltre due mila immagini sacre.
Dalle preziose xilografie del Cinquecento alle ricercatissime incisioni fiamminghe del XVII secolo fino alle preziose ’Perlè, disegnate su stoffa, oro e traforati di pizzo. Un catalogo, ma anche una guida completa, per collezionare, restaurare e conoscere il valore segreto di questi piccoli capolavori del passato. «Questo volume - spiega a IGN, testata on line del gruppo ADNKRONOS, l’editore Paolo Deambrosi- può servire per capire se si ha in casa un piccolo tesoro. Queste immaginette possono valere da un minimo di tre euro ai 3.300 euro dell’Ecce Homo che è l’esemplare più costoso».
Tra i mercati più floridi c’è quello del Nord America. «Sono molto ricercati dagli Stati Uniti -spiega l’autore della raccolta, Graziano Toni- i canivet del Settecento, prodotti dalle suore di clausura, e incisi con tecniche particolari che le rendono simili a piccoli quadri in miniatura». Da vedere, inoltre, i ’santini con sorpresà. «Sono opere francesi dell’Ottocento -spiega Toni-, lavorate su pizzo, con due sportellini. Una volta aperti appare l’immagine del Santo diciamo così ’a sorpresà». Difficile dire se vale di più la litografia di San Lorenzo o una Madonna con Bambino, dipinta a mano, così come non è semplice tracciare un profilo del ’collezionista di Santinì. Una passione trasversale che, complici i prezzi non troppo elevati, coinvolge l’operaio e il professionista, l’impiegato e il dirigente d’impresa, il parroco di campagna e l’alto prelato.
Ma anche tra i politici queste opere hanno un innegabile successo. Monsignor Luigi De Magistris racconta di «un suo conterraneo», il fondatore del Partito Comunista Italiano Antonio Gramsci che avrebbe custodito nella sua stanza «l’immaginetta di Santa Teresa del Bambin Gesù». Il monsignore descrive poi un episodio che l’ha molto colpito. «Durante la sua ultima malattia -ricorda-, le suore della clinica, dove era ricoverato portavano ai malati l’immagine di Gesù Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: »Perchè non me l’avete portato?« Gli portarono allora l’immagine di Gesù Bambino e Gramsci la baciò. Gramsci è morto con i Sacramenti, è tornato alla fede della sua infanzia».
Antonio junior a Mosca ha rinvenuto un pacco di missive dal carcere mai recapitate
Il nipote di Gramsci e le lettere ritrovate
"Quante bugie anticomuniste sul nonno"
Presentato il libro sull’album familiare del fondatore dell’Unità
di Umberto Rosso (la Repubblica, 12.11.2008)
ROMA - Però non ha ancora detto una parola su Berlusconi... «Politica italiana? Mica ne so tanto. Posso dire solo che in Russia la battuta su Obama abbronzato è piaciuta molto, soprattutto alle signore, ha fatto proprio divertire». Per uno che di nome fa Antonio, e di cognome Gramsci, sia pure accompagnando il tutto con un pudico junior, non è male. Come a dire: a Gramsci Berlusconi fa ridere. Giunto all’età di 43 anni, nella sua Mosca, sopraffatto alla fine da cotanta storia familiare, ha deciso che era giunto il momento di mettersi di persona a rovistare nei cassetti e nei bauli del nonno, «quante carte, ma un pacco là, uno qua, che disordine».
Dopo un anno, "junior" è riemerso con un fascio di lettere inedite e un giallo: missive scritte in carcere da nonno Antonio, alla fine degli anni Venti, e mai arrivate nelle mani dell’adorata destinataria, e cioè la moglie Giulia Schucht che da Mosca combatteva contro il fascismo ma anche coi fantasmi della sua malattia. Bloccate a metà strada dalla gelosia della sorella Tatiana? Intercettate dalla rabbia dell’altra sorella, Eugenia? O invece dirottate da qualche manona politica (dal Comintern a Togliatti, all’epoca ampia scelta) piuttosto che dai triangoli amorosi?
Gramsci junior promette di scriverci un secondo libro sul mistero delle lettere mai recapitate, per il momento ce n’è un assaggio in questo suo primo che ruota invece sulla saga di una dinastia borghese e comunista. «La Russia di mio nonno. L’album familiare degli Schucht», edito dalla Fondazione Gramsci, in vendita anche con L’Unità, presentato a Roma insieme ad Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, «il partito che in Italia sta dalle parte delle masse operaie, e scusate se parlo che sembro Breznev», ride il piccolo Antonio incespicando un poco nel suo italiano. Gramsci junior, figlio di Giuliano (il secondogenito di Antonio), e come il padre musicista, con il comunismo non ha rotto: in tasca la tessera del partito di Zuganov, e molta poca simpatia per Putin: «Nella Russia contemporanea del capitalismo selvaggio, comincio a comprendere meglio le speranze rivoluzionarie dei miei familiari».
Architrave, conseguente, del libro: quante bugie anti-comuniste su mio nonno. Falso che sia stato abbandonato al suo destino dall’Urss, «l’hanno sempre sostenuto economicamente, attraverso la zia Tatiana, pagando anche i costosi ricoveri alla clinica Quisisana a Roma». Falso che sia morto avvelenato, come ha scritto anche la sorellastra Olga, che vive in Svezia, «sempre a caccia di falsi scoop». Falso che nonna Giulia fosse una spia di Stalin, «come ha perfino riportato Bruno Vespa». Falso che il bisnonno Apollon lamentasse l’occhiuto controllo del regime sovietico, «una frase estrapolata ad arte, io ho recuperato il testo originale».
E la feroce polemica della sua famiglia contro Togliatti, gli appelli, le inascoltate suppliche a Stalin perché non finissero sul tavolo del Migliore tutte le carte del nonno? «Faccio il biologo, oltre che il musicista. Perciò, come uno scienziato ho cercato di costruire il libro. Senza schierarmi da una parte o dall’altra». Pausa. «Certo che però...». Però? «Come politico fece bene, Togliatti, ad accentrare tutti gli scritti di nonno. Ma quante sofferenze provocate in famiglia. Come quella volta che senza permesso fece rovistare nell’archivio a Roma di zia Tatiana. Più gentile, poteva esserlo».
La saga, con tutta la sua coda infinita di polemiche storiche, può continuare. Con una sola eccezione. Basta con gli Antonio o le Giulia. «Mio figlio l’ho chiamato Tarquinio. Mia figlia Galatea. Perché? Ho una passione sfrenata per gli etruschi».
l’Unità 7.11.2008
La lettera inedita
Gramsci, 1926.
E Tatiana scrisse: «Lo libereremo»
Miei cari,
ho ricevuto la lettera della mamma e di Julia e la cartolina di Asja. Meno male che da voi le cose stanno migliorando, speriamo che tutto finisca bene e i bambini tornino a casa. Penso che Julia abbia già ricevuto la lettera di Nedolja (?) nella quale comunicava alcune cose sugli avvenimenti politici di qui. Per ora non si sa nulla di quale sarà l’accusa per i deputati arrestati. Antonio non è riuscito a partire per un caso sfortunato. Era partito per Milano la sera del giorno dell’attentato a Mussolini a Bologna. Non ne avevamo avuto notizia perché il fatto era accaduto di domenica, inoltre i redattori dei giornali di opposizione già da qualche tempo erano stati esclusi dalla sala stampa. Di giorno Antonio aveva pranzato da me, come al solito, dato che negli ultimi giorni l’aria non era del tutto tranquilla e non volevo che egli andasse in giro per la città; poi passò ancora da me prima della partenza e uscì così presto che, come mi ha raccontato in seguito, per mezz’ora camminò con un compagno accanto alla stazione e non sentì dire niente sull’attentato, altrimenti non sarebbe certo partito. E così, all’arrivo a Milano, alla stazione, gli fu comunicato che doveva o tornare a Roma o presentarsi alla Questura.
Lo fecero tornare a Roma; voi avete certamente sentito parlare delle scelleratezze che si sono compiute qui per diversi giorni; Antonio per otto giorni non è andato in nessun posto, pranzava e cenava da me, anche il giorno in cui lo arrestarono era stato da me fino alle dieci e un quarto, uscendo disse l’ora. Lo stavano già aspettando nell’appartamento, sicché s’imbatté direttamente negli amici. Noi lo abbiamo saputo la mattina del giorno dopo. Io naturalmente mi sono preoccupata di fargli avere del cibo, lo ha portato Marietta. Caffè, zucchero, frutta, uova, una gallina.
Da ieri abbiamo deciso di ordinare per lui il pranzo al ristorante e di mandarglielo nelle ore di ricevimento. Così sarà meglio come precauzione. Speriamo che l’avvocato riceva finalmente il permesso di vedere i detenuti e allora gli trasmetterò le notizie di casa sulla guarigione di Delio, ecc. Può anche darsi che li rilascino prima che siano trascorsi i 15 giorni richiesti per presentare l’accusa, e forse quando l’avvocato avrà il diritto di vederli. Forse il loro arresto rientra nella definizione di «fermo», li hanno presi alla vigilia dell’apertura del Parlamento.
Penso che Antonio si senta forte e vivace perché capisce perfettamente la situazione e aveva previsto la possibilità dell’arresto e della perquisizione. Nel corso di tutta la settimana si era «ripulito» ed era riuscito a portar via le ultime cose prima dell’arresto. Avevano organizzato l’aiuto materiale per tutti, sicché non debbono mancare di nulla. Non appena saranno liberi, ve lo comunicheremo. Da noi, in vista delle paure diffuse, non c’è quasi lavoro, e mi hanno detto che forse io non ne avrò per niente tra un paio di settimane. Io non mi preoccupo particolarmente perché spero di organizzare qualcosa non so se qui stesso o in qualche altro modo.
Dicono che per il posto di plenipotenziario debba venire Kamenev e che sua moglie è una persona molto interessante che forse si occuperà della questione dell’Istituto internazionale. Naturalmente io ho ancora del denaro, solo permettetemi di non mandarvi nulla per questo mese, poiché avendo la riserva della mamma mi sentirò più tranquilla e non mi agiterò inutilmente, ma forse tutto si sistemerà ancora bene.
Se Antonio fosse libero potrei lavorare per lui, ma non ho neppure avuto il tempo di comunicargli la mia conversazione con i capi, avvenuta proprio la mattina del giorno in cui siamo venuti a conoscenza del suo arresto. Ho già il passaporto e da noi è tutto tranquillo, in casa non ci sono state seccature. Quanto al denaro vi prego di avere pazienza perché naturalmente ho dovuto spendere parecchio anche per Antonio e versare sul suo conto in prigione in modo che abbia la possibilità di comprarsi qualcosa; ripeto, il partito si interessa di loro e penserà a loro anche in seguito in senso materiale e in altri modi sicché può darsi che vi vediate presto. E così, se questo non vi crea troppi problemi per ora terrei qui il denaro, invece di mandarvelo. Io, come sapete, spendo molto poco e se per qualche tempo resterò senza lavoro, questo non mi turberà molto dato che ho una piccola scorta.
Ma naturalmente spero di sistemarmi presto e forse avrò anche qualche lavoro subito. Allora vi manderò immediatamente il denaro. Da noi, dopo la tua partenza, lavorava ancora la Glebova. Lei è già stata licenziata, come pure Janson Stefan è partito per Mosca, Abram partirà presto e tra circa tre mesi partirà anche la dattilografa. Per le traduzioni può farmi concorrenza solo Chusik. Non so cosa faranno i dirigenti: daranno il lavoro a lui o a me? Beh, sono sciocchezze, in un modo o nell’altro me la caverò. Peccato che a voi, miei cari, invece di incontrare già adesso Antonio a Mosca, sia toccato apprendere notizie non molto allegre, ma anche questo passerà; si preoccupano di tutto, per esempio, non permetteranno che i suoi libri vadano perduti, li porteranno da noi in modo che siano al sicuro. Su, Julka, fatti coraggio ricorda che mandiamo ad Antonio il cibo che gli piace e io ho anche deciso di mandargli una medicina, il glicerofosfato, non gli farà certo male. Ma speriamo anche che lo possano rilasciare in qualsiasi momento, come hanno già rilasciato molti compagni, di quelli che erano stati arrestati nello stesso periodo.
Deljulka, sei diventato moscovita? E Juliancik chi è? Scrivimi se ti ricordi della ricotta, adesso si trova, e Tatan’ka qualche volta l’ha comprata. E dimmi un po’, dove sono i tuoi ricci? Cantami a chi sono toccati i ricci, i biondi ricci. E che fa il tuo cavalluccio con le mele? E dimmi anche che cosa guardi adesso, e che cosa non guardi? E li ricordi i piccioni e le barchette nere. Ne hai parlato a mamma Lula? E le zanzare le ricordi? Come le acchiappavamo, e battevamo sul muro con la scarpa, e accendevamo dei bastoncini che le facevano addormentare.
Ti bacio forte. T.
Bacio forte mammina e papino.
Una missiva che cancella le leggende su un presunto ruolo dei compagni di partito nella vicenda della reclusione
di Giuseppe Vacca (l’Unità, 7.11.2008)
La lettera di Tania Schucht che qui si pubblica è stata ritrovata di recente da Antonio Gramsci jr. nell’archivio della famiglia. È scritta in russo e la sua traduzione è opera di Rossana Platone. Indirizzata ai familiari, in realtà è rivolta a Giulia, salvo le ultime espressioni dedicate a Delio, il figlio maggiore di Gramsci, al quale Tania ricorda le emozioni della recente visita a Venezia, compiuta insieme a lei e all’altra zia, Eugenia Schucht, poco tempo prima del loro ritorno a Mosca nel settembre del 1926. Tania scrive da Roma nei giorni successivi all’arresto di Gramsci, avvenuto nella notte fra l’8 e il 9 novembre. La sua lettera costituisce un documento importante perché contiene notizie inedite sulla vita di Gramsci nei giorni immediatamente precedenti l’arresto e sulla reazione del partito alla sua cattura; perché illumina aspetti a noi ignoti della vita di Tania e del suo rapporto con Gramsci fra il 1925 e il 1926.
Finora l’unico documento noto sui giorni precedenti la cattura e sull’arresto di Gramsci era la lunga lettera di Camilla Ravera a Togliatti del 16 novembre 1926, pubblicata da Franco Ferri su Rinascita il 5 dicembre 1964. Quella che qui si pubblica è la prima lettera di Tania ai familiari in cui si parli degli stessi argomenti. La lettera è senza data, ma dal suo contenuto si evince che fu scritta pochi giorni dopo l’arresto di Gramsci. Essa ci consente di precisare innanzi tutto la ragione per cui, malgrado il terrore squadrista scatenatosi immediatamente dopo l’attentato di Anteo Zamboni a Mussolini, Gramsci partì ugualmente da Roma, alla volta di Milano, per recarsi alla riunione clandestina del Comitato Centrale del Partito indetta per il 1° novembre nei pressi di Genova: il giorno dell’attentato, il 31 ottobre, era domenica e, scrive Tania, «i redattori dei giornali di opposizione già da qualche tempo erano stati esclusi dalla sala stampa» di Montecitorio. Gramsci quindi partì per Milano «la sera» del 31 perché non era informato dell’attentato, avvenuto poche ore prima, «altrimenti non sarebbe certo partito». Subito dopo Tania scrive che «all’arrivo a Milano, alla stazione gli fu comunicato (evidentemente dai questurini) che doveva o tornare a Roma o presentarsi alla questura». I compagni che lo attendevano «lo fecero tornare a Roma», e qui, data la situazione, «Antonio per otto giorni non è andato in nessun posto, pranzava e cenava da me».
Le informazioni di Tania sono evidentemente attinte da Gramsci e quindi costituiscono la fonte più diretta sugli eventi che gli impedirono di partecipare alla riunione della Valpolcevera (in quella riunione si decise la posizione del Pci sulla lotta in corso nel partito russo fra la maggioranza guidata da Stalin e le opposizioni capeggiate da Trockij) e condussero al suo arresto. Sono informazioni di notevole valore sia perché fanno chiarezza su un episodio su cui le versioni tramandateci non sono del tutto collimanti, sia perché confutano alla radice ricostruzioni fantasiose come quella contenuta nella più recente biografia di Gramsci (Antonio Gramsci. Storia e mito, di Luigi Nieddu, Marsilio 2004), nella quale si insinua che il suo rientro a Roma sarebbe stato orchestrato dai compagni dell’Esecutivo del partito per impedirgli di partecipare alla riunione del Comitato centrale in quanto la sua presenza era sgradita a Stalin, e si sostiene che, nei giorni seguenti, gli stessi compagni (Grieco, Scoccimarro e la Ravera) avrebbero deliberatamente favorito il suo arresto.
Molto importanti sono poi le notizie riguardanti l’azione del partito subito prima e subito dopo l’arresto di Gramsci. Per quanto riguarda i giorni precedenti l’arresto, Tania scrive che Antonio l’aveva previsto e aveva previsto anche la perquisizione, per cui «nel corso di tutta la settimana si era “ripulito” ed era riuscito a portar via le ultime cose prima dell’arresto». Fra queste c’era anche il manoscritto dell’articolo sulla «questione meridionale», non ancora pubblicato, che Grieco fece richiedere a Tania tramite Camilla Ravera pochi giorni dopo l’arresto di Gramsci.
Dal seguito della lettera si deve ritenere che le carte di cui Gramsci s’era «ripulito» fossero state portate nell’ambasciata sovietica. Ma ancora più importanti sono gli accenni alla possibilità che Gramsci venisse liberato subito, grazie all’intervento del governo sovietico. Come è noto, nei giorni precedenti il suo arresto Gramsci aveva programmato di recarsi a Mosca per prendere parte ai lavori del VII Plenum dell’Internazionale comunista, convocato per il 22 novembre, e ne aveva avvertito sua moglie. Com’è noto il partito italiano, d’intesa col governo sovietico, aveva predisposto che, dopo la partecipazione al VII Plenum, Gramsci si trattenesse in Russia perché in Italia la situazione era divenuta troppo pericolosa. Quindi il viaggio a Mosca equivaleva al suo espatrio. Tania mostra di ritenere che, sebbene Gramsci sia stato arrestato, tale possibilità non fosse venuta meno: innanzi tutto perché aveva notizie, sia pur vaghe, che fosse solo in stato di «fermo», in secondo luogo perché riteneva che potesse essere rilasciato con il semplice intervento degli avvocati del partito, ma soprattutto perché i compagni (tanto il Pci, quanto l’ambasciata sovietica) «si preoccupavano di tutto». In particolare, parlando dell’azione svolta dal partito in favore degli arrestati, Tania scrive: «Il partito si interessa di loro e penserà a loro anche in seguito in senso materiale e in altri modi, sicché può darsi che vi vediate presto». Ci sembra fondato dedurne che Tania alluda ad una iniziativa del partito, forse al momento solo adombrata, volta ad ottenere la liberazione di Gramsci attraverso un intervento del governo sovietico su Mussolini.
La sua lettera aggiunge quindi un tassello importante al puzzle dei tentativi di liberazione di Gramsci che, com’è noto, si susseguirono per l’intero decennio della sua detenzione. In base alla lettera di Tania possiamo ritenere che le iniziative volte a ottenere la liberazione e l’espatrio di Gramsci a Mosca cominciarono subito dopo l’arresto e l’intera vicenda della sua liberazione costituì un problema sempre aperto e non una possibilità originata di volta in volta da circostanze ritenute favorevoli dal partito o da Gramsci stesso.
Il secondo ordine di motivi per cui questa lettera costituisce un documento importante riguarda la situazione di Tania e il suo rapporto con Gramsci al momento dell’arresto. Dai brani finora citati risulta inequivocabilmente che Tania lavorava da tempo presso l’ambasciata sovietica ed era già stata inserita nel suo apparato politico. Noi sappiamo che Tania fu accolta nelle file del partito bolscevico solo nel 1927 mentre, quando Gramsci era riuscito a incontrarla, nel febbraio del 1925, simpatizzava per i Socialisti rivoluzionari e non aveva alcuna affiliazione partitica. Altri documenti conservati all’Istituto Gramsci dimostrano che nel corso del 1925 Tania, che si sostentava dando lezioni all’Istituto Crandon, aveva allacciato con Gramsci un rapporto tanto stretto da collaborare, per esempio, alla traduzione di alcuni capitoli del Manuale di Bucharin che dovevano probabilmente servire per le dispense della scuola di partito.
Evidentemente Tania aveva cominciato a lavorare presso l’ambasciata sovietica grazie a Gramsci e, al momento del suo arresto, era temporaneamente senza lavoro perché, come risulta anche da questa lettera, l’ambasciata stava riducendo sensibilmente i suoi organici a causa della inclinazione sempre più invasiva del regime di Mussolini. Ma gli elementi più significativi della lettera, per quanto riguarda Tania, sono sia la notizia che, perduto il lavoro all’ambasciata, avrebbe potuto lavorare per Gramsci e per il partito italiano, sia la prova evidente che dalla conoscenza di Gramsci erano scaturite una frequentazione quotidiana e una totale fiducia politica. Sotto questo aspetto la lettera costituisce il documento più rilevante, a nostra conoscenza, delle ragioni per cui, dopo l’arresto di Gramsci, Tania ne divenne il tramite naturale con il mondo esterno: il mondo politico, e quello affettivo e familiare.
LA SCOMPARSA
Addio al massimo studioso Usa del pensatore sardo. Interprete e divulgatore eccezionale delle «Lettere» e dei «Quaderni», fu artefice degli studi gramsciani in tutto il mondo
Cammett, la fortuna di Gramsci in America
di Maria Luisa Righi (l’Unità, 01.8.08)
John Cammett è scomparso mercoledì scorso nella sua casa di New York. Nato nel 1927 era uno dei maggiori studiosi di Antonio Gramsci ed era stato un pioniere degli studi gramsciani nel mondo anglosassone. Quando pubblicò il suo primo articolo su Gramsci, cinquant’anni fa, dovette firmarlo con uno pseudonimo (Fred Hallett) per salvaguardare l’avvio della sua carriera accademica dagli strascichi del maccartismo. Il suo interesse per Gramsci era nato a Roma.
Come raccontò lui stesso, agli inizi degli anni cinquanta, era stato licenziato per la sua attività sindacale nella fabbrica automobilistica di Detroit, dove aveva scelto di impiegarsi per svolgere lavoro politico. Aveva quindi ripreso gli studi sul Rinascimento italiano ed era venuto a Roma per approfondire le sue ricerche. Passando dalle Botteghe Oscure, rimase impressionato dall’imponenza della sede del partito comunista, situata oltre tutto in pieno centro e proprio alle spalle della Dc. «Negli Stati Uniti, - si disse - i comunisti sono pressoché clandestini, e qui in Italia riescono ad avere una sede così prestigiosa! Questo Pci deve avere qualcosa di particolare. Così mi misi a leggere gli scritti di Togliatti e ben presto incontrai Gramsci». Quando tornò negli Stati Uniti, chiese di cambiare la sua tesi di laurea, per affrontare il tema «Antonio Gramsci e il movimento dell’Ordine nuovo», grazie anche a un professore, come lo definiva lui, «veramente liberale», Shepard B. Clough, che lo incoraggiò «a perseguire una linea di ricerca che a quei tempi non era certo di moda».
La tesi discussa nel 1959 gli procurò, nel 1960, anche il premio per il miglior inedito dell’anno da parte della Society for Italian Historical Studies, istituzione di cui fu anche segretario. Grazie a una borsa di studio, Cammett tornò in Italia nel 1964. Era un anno cruciale per gli studi gramsciani: nei suoi ultimi anni di vita, Togliatti stesso aveva incoraggiato una «rivoluzione storiografica», favorendo la ricerca e la pubblicazione di nuova documentazione sulla storia del partito, e proprio nel 1964, uscirono l’antologia di Giansiro Ferrata e Niccolò Gallo, 2000 pagine di Gramsci (comprensiva di molti inediti, tra cui la famosa lettera del ‘26 al Cc del partito comunista russo), il rapporto di Athos Lisa del ’33 (apparso su Rinascita a cura di Franco Ferri), e si stava completando la nuova edizione delle Lettere dal carcere, che reintegrava i passi omessi nel 1947 e comprendeva 119 nuove lettere, (uscita l’anno successivo per Einaudi, a cura di Elsa Fubini e Sergio Caprioglio. Cammett frequentando assiduamente l’Istituto Gramsci poté accedere alla documentazione che veniva via via scoperta e ordinata, e ciò lo portò a «riscrivere per intero il manoscritto originale». Nel 1967, finalmente vide la luce il suo Antonio Gramsci and the Origins of Italian Communism, per i tipi della Stanford University Press. La ricerca si segnalava, non solo per essere il primo lavoro di ampio respiro sulla biografia del dirigente comunista in lingua inglese, ma anche per aver introdotto «non pochi elementi nuovi nel dibattito gramsciano», seguendo «con puntualità critica quella linea continua fra pensiero e azione» che caratterizzava l’esperienza politica e ideologica di Gramsci - come scrisse Domenico Zucàro, introducendo la traduzione italiana: Antonio Gramsci e le origini del comunismo italiano, (Mursia, 1974).
Oggi Cammett è universalmente noto nel mondo degli studi gramsciani per aver dato il via, negli anni ’80, alla Bibliografia gramsciana, comprendente tutti gli scritti di e soprattutto su Gramsci. Propose infatti alla Fondazione Gramsci di occuparsi egli stesso di una nuova bibliografia, potendosi avvalere anche delle nuove risorse messe a disposizione dall’informatica, sia per la creazione di una banca dati che per l’accesso ai cataloghi elettronici delle biblioteche. Ma fondamentale furono anche i rapporti epistolari che John riuscì a intrattenere con studiosi di tutto il mondo, che condividendo l’amore per Gramsci, si sobbarcarono il compito di stilare bibliografie nazionali. Proposta accolta da Giuseppe Vacca, divenuto nel frattempo direttore dell’Istituto. Il risultato fu una prima bozza relativa agli anni 1922-1987, presentata per la prima volta al pubblico al convegno internazionale Gramsci nel mondo (Formia, 25-28 ottobre 1989). Il convegno, cui parteciparono studiosi, editori e traduttori di Gramsci provenienti da vari paesi europei, dagli Stati Uniti, dall’America Latina, dal mondo arabo, dalla Cina, dal Giappone, dal Sudafrica, fornì anche a Cammett l’occasione per trovare nuovi collaboratori per la bibliografia. La rete dei suoi corrispondenti già prefigurava quella International Gramsci Society, che Cammett propose di fondare proprio a Formia, insieme a Joseph A. Buttigieg e Frank Rosengarten, curatori delle edizioni statunitensi, rispettivamente, dei Quaderni e delle Lettere.
La mole di dati presentati contava solo di studi su Gramsci 6000 titoli, in 26 lingue, e destò grande meraviglia anche tra gli specialisti. L’elaborazione elettronica dei dati aveva consentito per la prima volta di compiere un’analisi quantitativa della fortuna di Gramsci per periodi, per tipologie di scritti, per lingue. La versione a stampa, relativa al periodo 1922-1988, uscita nel 1991, come «Annali della Fondazione Istituto Gramsci» contava già mille titoli in più e 28 lingue. Dopo quell’immane fatica, John era convinto di potersi limitare a pubblicare solo periodici aggiornamenti, ma non tenne conto della potenza della rete. Man mano che si facevano più numerose le banche dati, anche al di fuori dell’area statunitense, crescevano anche le informazioni su libri e saggi mai rilevati alle precedenti ricerche. Inoltre, dai primi anni Novanta, si registrò una ripresa significativa degli studi gramsciani, sia negli Stati Uniti, dopo l’avvio della traduzione dei Quaderni per la Columbia University Press, sia in Italia, stimolata dalle ricerche su Tatiana Schucht, dal recupero di nuova documentazione proveniente dagli archivi di Mosca, nonché dalla progettata Edizione nazionale degli scritti.
Così in pochi anni la mole di titoli cresceva a ritmi geometrici, e si dovette pubblicare un secondo volume, la Bibliografia gramsciana. Supplement updated to 1993, che raccoglieva 3428 nuovi titoli. Oggi, la Bibliografia gramsciana è un’opera aperta consultabile on line sul sito della Fondazione Istituto Gramsci (www.fondazionegramsci.org). Conta oramai oltre 17 mila titoli, in 40 lingue l’afrikaans, il bengalese, l’estone, il macedone, il Malayalam, l’occitano, l’albanese), e si pone come un riferimento imprescindibile per gli studiosi di Gramsci, che dobbiamo alla tenacia, alla passione e all’entusiasmo di un grande studioso. Grazie John.
"Io sono qui, oggi, per un compito che va ben al di là della mia antica e intima consuetudine personale con gli insegnamenti di Gramsci. Sono qui per rinnovare l’omaggio della Repubblica a una grande figura di antagonista e di martire del fascismo, e di combattente privato della libertà e sottoposto a una feroce persecuzione carceraria, che divenne il simbolo di straordinaria capacità di resistenza morale e stoica operosità in condizioni fisiche disperate". Con queste parole il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricordato la figura di Antonio Gramsci a Ghilarza, in provincia di Oristano, nel corso di una cerimonia commemorativa in occasione del 70° anniversario dalla morte dell’intellettuale.
"Nello stesso tempo l’Italia - ha continuato il Capo dello Stato - rende omaggio, in Gramsci, a una delle più alte espressioni della sua storia intellettuale. Venne da lui un contributo di pensiero che, per la ricchezza e profondità dei suoi presupposti e per la modernità dei suoi svolgimenti e delle sue anticipazioni, è giunto a trascendere non solo ogni limite di parte, ma i confini della stessa vicenda storica di cui era figlio: la vicenda del comunismo internazionale".
Il 70° Anniversario della morte di Antonio Gramsci *
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, partecipa alle celebrazioni per il 70° Anniversario della morte di Antonio Gramsci, lunedì 30 aprile in Sardegna.
Il primo impegno del Capo dello Stato è a Ghilarza, davanti a Casa Gramsci, dove, nel corso di una cerimonia commemorativa, viene scoperta una targa ricordo dedicata all’illustre uomo politico.
Successivamente, il Presidente Napolitano interviene, al teatro comunale "Garau" di Oristano, alla presentazione dell’edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci.
Nel corso della cerimonia saranno illustrati i primi due volumi "Quaderni di traduzioni. 1929 - 1932", a cura di Giuseppe Cospito e Gianni Francioni, che raccolgono le traduzioni dal tedesco e dal russo e gli esercizi sulla lingua inglese eseguiti da Gramsci in carcere, dell’opera promossa dalla Fondazione Istituto Gramsci ed edita dall’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, con la collaborazione della Fondazione Banco di Sardegna.
Settanta anni dopo, su l’Unità «il nostro Gramsci»
di Bruno Gravagnuolo *
Alle 4 e 10 del 27 aprile 1937 moriva Antonio Gramsci, nella clinica Quisisana di Roma, dopo esservi giunto a fine agosto del 1935, da una clinica di Formia e già in condizioni fisiche disperate. Si concludeva così tragicamente una vicenda esistenziale e politica straordinaria. Quella di un prigioniero del fascismo e da poco in regime di libertà condizionale, che era stato uno dei massimi ispiratori teorici e pratici del Pcd’I nato nel 1921, nonché l’artefice del suo nuovo gruppo dirigente a partire dal 1923-24. Con la liquidazione dell’estremismo di Bordiga, la fondazione de l’Unità e la sua ascesa a segretario di quel partito.
Dunque, un «combattente» e un costruttore di politica, ma insieme un grande intellettuale e un’eccezionale figura morale. La cui grandezza avevano compreso da visuali opposte Piero Gobetti e il «carceriere» Mussolini, entrambi capaci di registrare l’enorme energia costruttiva dei suoi pensieri, l’uno per elogiarla, l’altro per controllarla e alfine spegnerla. Senza Gramsci, il Pci così come lo abbiamo conosciuto non vi sarebbe stato, e nemmeno la storia d’Italia sarebbe stata quella che abbiamo conosciuta. Perciò Gramsci è nostro, indubitabilmente. Di chi militò sotto le bandiere del Pci anche decenni dopo. Della sinistra tutta, «post» o meno. E dell’Italia intera, persino di chi militò sotto opposte bandiere, e che magari cerca di «recuperarlo» a modo suo.
Dove sta la grandezza di questo nostro Gramsci? Lo si diceva: nei pensieri. E nella forza di una personalità. Nell’eccezionale forza di un «carattere» che fu l’involucro di quei pensieri, la corazza etica in grado di impedirne la dispersione, di là delle di vulgate e leggende esegetiche. Senza nulla toglire ai meriti di Togliatti, che salvò e trapiantò in Italia quei pensieri, Gramsci «eccede» e travalica ogni lettura addomesticata. Riuscì infatti a pensare e a esprimersi al futuro nel buio della prigionia, in tempi di ferro e di fuoco «tra Mussolini e Stalin», come suona il titolo di un saggio in arrivo di Angelo Antonio Rossi e Giuseppe Vacca (Fazi). E senza piegare la testa, testimoniando in prima persona, malgrado l’isolamento politico e affettivo, qual era l’universale liberazione umana a cui mirava. E come essa potesse e dovesse incontrarsi col corso terribile del mondo così come era.
Cosa ci lascia Gramsci oltre la forza di un esempio eroico nel paese del «trasformismo»? Un arsenale inesauribile di idee, consegnate a una stenografia asistematica ma limpida. Che era un crittogramma del mondo, e in parte ancora lo è. Prima di tutto la diagnosi della crisi mondiale dopo la prima guerra. Cioè il conflitto irrisolto tra cosmopolitismo e stato nazionale, dal cui scontro senza universalismo mediatore scaturisce guerra. È dentro quel conflitto che Gramsci vide l’Ottobre 1917, i fascismi, il New Deal. Con il collasso della società liberale in Europa. E sempre in quello scenario scorse l’emancipazione «primitiva» incarnata dal bolscevismo, e i relativi contraccolpi planetari. Per questo il fascismo italiano, nonché figlio di tutta l’arretratezza italiana «senza nazione», gli apparve come una moderna «rivoluzione passiva». Indotta dall’interdipendenza internazionale, ma agita da classi dirigenti che inglobano l’attiva adesione dei ceti subalterni.
Due sfide quindi in Gramsci. Pensare la modernità del mondo, dove il «fordismo» Usa, che allarga il mercato, si rivela egemone rispetto al dispotismo sovietico. E attivare la coscienza dei dominati al livello dell’«economia-mondo», dentro e fuori le singole nazioni. Un cammino lunghissimo, che Gramsci chiamava «guerra di posizione». E una grande gincana della liberazione di massa, attraverso la «società civile», le sue forme simboliche, le sue «fortezze» e «casematte». Politica e filosofia egemoniche senza fine quelle di Gramsci, verso nuovi equilibri di potere. Dove il «mito» non estingue il dissenso e l’autonomia del soggetto. Idee-forza laiche, libere. Nostre.
* l’Unità, Pubblicato il: 14.04.07, Modificato il: 15.04.07 alle ore 20.17
L’uomo che ha afferrato il fulmine a mani nude
Il pianeta Gramsci sottratto alla linea culturale nazional-popolare che da De Sanctis arriva a Labriola e Croce. Pubblichiamo l’intervento tenuto da Mario Tronti ieri alla Camera dei Deputati
di Mario Tronti (il manifesto, 18.04.2007)
Ho riflettuto a lungo sul perché, pensando a Antonio Gramsci, scatti in me, subito, per istinto, un titolo: la figura del grande italiano. Sarà che questo nostro paese continua a metterci di fronte una sostanziale ambiguità: da un lato la debolezza politica della storia italiana, dall’altro lato il paese forse più politico del mondo, in tutte le sue componenti sociali e popolari. Noi abbiamo inventato la politica per la modernità. Ne abbiamo fatto una forma, privilegiata, e un’espressione, intensa, di pensiero umano. Perché Gramsci ha così a lungo pensato su Machiavelli? Intanto: il grande italiano è l’uomo del Rinascimento. Dietro c’era la stagione magica che, fra Trecento e Quattrocento, aveva visto svolgersi quella contraddizione lancinante, fondativa della nostra successiva natura, la contraddizione tra una storia d’Italia, ancora molto lontana dal presentarsi come tale, e una poesia, una letteratura, un’arte, una filosofia, già italiane, in forme dispiegate e mature, con, in più, una naturale vocazione universalistica. Recitavamo, per l’intero mondo, l’Oratio de hominis digitate. Quello che Pico diceva, Piero raffigurava. Ecco, Machiavelli viene fuori da qui. L’invenzione della politica moderna viene fuori da qui: dal contesto storico tra Umanesimo e Rinascimento. Di qui, la nobiltà del suo codice genetico.
Il moderno Principe
Uno di quei volumi Einaudi, dalla copertina grigio-scura, che presentavano, per la prima volta, i Quaderni del carcere di Gramsci, portava per titolo: Note su Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno. Era il 1953. Come Machiavelli aveva chiosato la prima decade di Tito Livio, così Gramsci chiosa Il Principe. Geniale la sua interpretazione del partito politico come moderno principe. Credo, ancora di una sconvolgente attualità. «Il moderno principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva, riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico; la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali». Non è il caso di nascondere le ombre che il tempo storico allunga su questa luce di pensiero. Non è un’orazione apologetica che ci interessa: il distacco critico dagli autori, tanto più dai propri autori, è un obbligo intellettuale. Quell’aggettivo «totali» fa riflettere. La storia del partito politico nel Novecento ha messo in campo progetti universalizzanti ma ha anche raccolto risultati totalizzanti. Marx e Machiavelli vuol dire «il partito non come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato»: fondare lo Stato, non farsi Stato.
Non è questo però il punto centrale dell’argomentazione gramsciana. Gramsci aveva profeticamente previsto le possibili degenerazioni del partito che si fa Stato, cioè della parte che si fa tutto. E ne aveva sofferto, in carcere, non solo intellettualmente. Il suo problema politico era già allora, nella temperie terribile di quegli anni Trenta, come sfuggire alla trasformazione, non più incombente ma in atto, delle masse in folle manovrate e delle élites in oligarchie ristrette. Il problema originalmente comunista di Gramsci - vorrei dire, se questo non disturba troppo, l’originale leninismo di Gramsci - è la costruzione di un rapporto virtuoso tra classe dirigente e classe sociale. Il mito - usa lui questa parola e voglio usarla anch’io - del partito-principe è l’organizzazione di una volontà collettiva, «elemento di società complesso», come l’unica forza in grado di contrastare l’avvento della personalità autoritaria.
Anche qui de nobis fabula narratur . Io penso che oggi noi dovremmo rideclinare le analisi dei francofortesi intorno alla personalità autoritaria sulla misura di un nuovo soggetto, che definirei personalità democratica. Si sta intrecciando qui un nodo di problemi strategicamente rilevanti per i sistemi politici contemporanei. Attenzione: questa invocazione del leader forte non nasconde pericoli autoritari - la liberale bilancia dei poteri funziona ancora - piuttosto fa vedere il pericolo di una delega diretta, immediatistica, al decisore politico, questa volta un individuo e non un organismo, da parte di una moltitudine formata da una cosiddetta gente, dai forti umori antipolitici.
Nato per l’azione
Antonio Gramsci - da mettere in una ideale galleria di grandi italiani del Novecento politico, di tradizione cattolica e liberale, da Sturzo a Dossetti a Einaudi - questi uomini postumi per le loro virtù, servono, vanno fatti servire, come vaccino contro le malattie contagiose delle democrazie contemporanee: l’antipolitica, il populismo, il plebiscitarismo. La personalità democratica come personalità non carismatica e tuttavia demagogica, eterodiretta dalla sua immagine, in sudditanza rispetto alla dittatura della comunicazione, onnipresente come figura, inconsistente come persona.
A questo punto vorrei non dare l’impressione di edulcorare il personaggio Gramsci, iscrivendolo nel ruolo non esaltante di Padre della Patria. Non si può parlare di Gramsci restando neutrali. Scrisse di sé, dal fondo del carcere fascista: «Io sono un combattente, che non ha avuto fortuna nella lotta pratica». Non era un’anima bella. Nato per l’azione, circostanze esterne lo costringono a diventare uomo di studio. Se dovessi riassumere in una definizione l’insegnamento che Gramsci ci lascia, direi così: come un uomo di parte possa diventare risorsa della nazione, senza dismettere la propria appartenenza, ma agendola nell’interesse di tutti. Gramsci ci dice che, machiavellianamente, la politica non ha bisogno dell’etica per nobilitarsi. Si nobilita da sé, sollevandosi a progetto altamente umano.
Gramsci non è solo i Quaderni del carcere. C’è un Gramsci giovane che si fa amare, se possibile, ancora di più. Lo scoprimmo nei magici anni Sessanta, quando fummo forse ingenerosamente ostili alla sua linea culturale «nazionale-popolare», la famosa linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci, a cui rivolgevamo l’accusa di aver oscurato la grande cultura novecentesca mitteleuropea, che fummo costretti a scoprire per altre vie. Ci bevevamo gli articoli scritti per la rubrica «Sotto la mole» per l’edizione piemontese dell’Avanti! O sulla Città futura numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese. Qui quell’articolo (febbraio 1917) che comincia con le parole: «Odio gli indifferenti»: «Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo». O gli articoli su Il grido del popolo, quello famoso e scandaloso: «La rivoluzione contro il Capitale». La rivoluzione dei bolscevichi contro Il Capitale di Carlo Marx. Se si potessero rileggere, oggi, senza il velo delle ideologie dominanti, quelle righe in Individualismo e collettivismo! «All’individuo capitalista si contrappone l’individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività». E soprattutto gli articoli de L’ordine nuovo, settimanale di cultura socialista, che Gramsci fonda il 1 maggio 1919 e che poi diventerà quotidiano. Lì si organizza il gruppo che darà vita al Partito comunista d’Italia, che come si vede non subito ma fin dalle tesi di Lione del 1926, nascerà non solo contro i riformisti ma anche contro i massimalisti.
Gramsci nasce, politicamente e intellettualmente, a Torino. Davanti a lui, il biennio rosso, l’occupazione operaia delle fabbriche, l’esperienza dei consigli operai. La vera università: la grande scuola della classe operaia. Del resto, ormai lo sappiamo: o si parte da lì, o si raggiungono solo quelli che oggi si chiamano non-luoghi. L’ordine Nuovo, settembre 1920: «L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell’uomo, più grande dello schiavo o dell’artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera». Già Togliatti, nel ricordo che scriveva, nel 1937, appena dopo la morte di Gramsci, diceva: «Il legame di Antonio Gramsci con gli operai di Torino non fu soltanto un legame politico, ma un legame personale, fisico, diretto, multiforme».
Tra direzione e comando
Non ci sono due Gramsci. L’operazione di valutare il Gramsci studioso e di svalutare il Gramsci politico è senso comune intellettuale corrente, e come tale va abbandonato a se stesso. Specialista + politico è formula gramsciana risolutiva. Dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e di qui alla concezione umanistica-storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il modo di essere del nuovo intellettuale sta nel mescolarsi attivamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore, non puro oratore. Quindi, per Gramsci, l’equivalente di politico è dirigente, armato però di cultura tecnica, scientifica, umanistica. Qui c’è la preziosa distinzione gramsciana tra direzione e comando, tra guidare e imporre. Questo vale per il gruppo dirigente nei confronti del partito, vale per il partito nei confronti dello Stato, vale per lo Stato nei confronti della società.
Egemonia non è solo cosa diversa, è cosa opposta a dittatura. Sul concetto di egemonia pesa ancora un’incomprensione di fondo e una falsificazione di fatto. Non c’è pratica di egemonia senza espressione di cultura. Praticare egemonia è una cosa molto complessa, direi raffinata: vuol dire guidare seguendo, essere alla testa di un corso storico già in movimento, e che fa movimento anche in virtù delle idee, idee-guida, idee-forza che tu ci metti dentro. Una politica senza cultura politica, non cercatela in Gramsci. Scriveva nei Quaderni: «Il grande politico non può che essere ’coltissimo’, cioè deve ’conoscere’ il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non ’librescamente’, come ’erudizione’, ma in modo ’vivente’, come sostanza concreta di ’intuizione’ politica». Tuttavia - aggiungeva - perché in lui diventino sostanza vivente occorrerà apprenderli anche librescamente.
Ho sempre pensato che le due culture non sono, come si dice, la cultura scientifica e la cultura umanistica. Sono la cultura del popolo e la cultura degli intellettuali. Due cose diverse: non si identificano, non si sommano, non si confondono. Eppure un ponte di dialogo e di scambio tra queste due esperienze culturali, deve esserci e devi trovarlo. C’è una cultura materializzata nel lavoro, interiorizzata nel lavoratore: un orizzonte che, per un intellettuale di parte, è come la bussola per il marinaio, ti indica la rotta dove devi andare a cercare, a capire, a scoprire. È difficile comunicare la tranquilla forza di pensiero che ti conferisce l’essere, il sentirsi, radicato in questa parte di mondo. L’unico luogo sicuro e libero da quella nevrosi narcisistica che è la maledizione del lavoro intellettuale. La figura gramsciana dell’intellettuale organico, al partito e alla classe, può essere oggi demonizzata e derisa solo da chi non sarebbe mai stato capace di esserlo.
Il braccio e la mente
Ebbene, quel ponte tra le due culture lo ha costruito quella figura storica, quel soggetto politico della modernità che si chiama movimento operaio. E lo ha fatto, generando coscienza e organizzazione delle masse e al tempo stesso creando pensiero, teoria, cultura alta. Analisi scientifica delle leggi di movimento dei meccanismi di produzione e riproduzione sociale e insieme progetti di liberazione politica.
Mi sento di esprimere una convinzione profonda: più andremo avanti, più il tempo si frapporrà tra noi e il passato, più ci accorgeremo che tutte le derive negative, anche tragicamente negative, non bastano per cancellare la grandezza del tentativo. Penso che, come soggetti politici di consistenza storica, dovremmo affrettare il momento di poter tornare a parlare, ognuno di sé, con onestà: in realtà, non sappiamo con chi e con che cosa sostituire quelle componenti popolari, di matrice cattolica, socialista, comunista, più quelle élites di ispirazione social-liberale, che, tutte insieme, hanno fatto la storia recente di questo paese: perché esse non erano società civile, erano società reale.
Concludo così: abbiamo individuato alcuni punti di attualità dell’opera di Gramsci. E alcuni dei presenti qui potrebbero suggerirne altri. Ma quando ripensiamo alla vita, anzi all’esistenza, dell’uomo, proprio in quanto uomo politico, allora dobbiamo far ricorso al criterio nietzscheano dell’inattuale. Qualcosa, o qualcuno, che non si può oggi riproporre e proprio per questo, in sé, vale.
Ho letto, in questi giorni, questo libretto di George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (Garzanti editore, n.d.r.). Una delle ragioni, fonte di melanconia, è l’inadattabilità oggi del grande pensiero agli ideali di giustizia sociale. Scrive Steiner: «Non c’è democrazia per il genio, solo una terribile ingiustizia e un fardello che può essere mortale». Poi «ci sono quei pochi, come diceva Hölderlin, che sono costretti ad afferrare il fulmine a mani nude». Ecco, è tra quei pochi che dobbiamo «cercare ancora» Gramsci.
Gramsci
di Rossana Rossanda (il manifesto, 01.05.2007)
Settanta anni fa moriva in una clinica Antonio Gramsci. Al funerale non andò nessuno, fuorché la cognata Tatiana e la polizia. Era stato arrestato nel 1926 ed era libero da poche settimane, sfinito dalla malattia e non solo da essa. Se morire comporta un qualche assenso, deve averlo propiziato il rendersi conto che non era desiderato da nessuna parte - non a Mosca, dove erano la moglie e i figli e i compagni, non a Ghilarza, dove era la sua famiglia d’origine. Di questo nulla ha detto all’amorevole non amata Tatiana, e se lo ha confidato a Piero Sraffa, Piero Sraffa non ce ne ha lasciato testimonianza. Eppure, di quel che era successo al mondo dal ’26 al ’37 i due, in una clinica finalmente senza polizia, devono avere parlato a lungo, e Gramsci molto deve avere saputo di quel che aveva potuto intravvedere o adombrare. Nell’Urss la collettivizzazione delle terre, poi l’assassinio di Kirov e l’inizio della liquidazione del comitato centrale eletto nel 1934, e nel 1936, giusto un anno prima, il primo dei grandi processi. Fuori dell’Urss la crisi del 1929, l’ascesa del nazismo in Germania nel 1932, l’aggressione italiana all’Abissinia nel 1935 e nel 1936, il Fronte popolare in Francia ma l’attacco di Franco alla repubblica spagnola.
Che ne ha pensato? Che poteva attendersi dal ritorno alla libertà? Difficile immaginare un’esistenza più sofferente per le miserie del corpo, per la sconfitta, per la solitudine, per la lucidità. Non mi pare che in Italia sia ricordato con qualche calore. Forse solo da Mario Tronti alla Camera. Noi stessi ce la siamo cavata discutendo di un confronto con Edward Said - due teste, due culture, due epoche, due terreni - tutto diverso.Meno che mai poteva essere rievocato dal partito di cui Togliatti aveva detto che lui, Gramsci, era il fondatore, e che è stato interrato a Firenze la settimana scorsa. Per il defunto Pci era stato - alquanto depurato e deproblematizzato - la carta vincente nell’orizzonte dell’Italia del dopoguerra, prova di un’autonomia dall’ortodossia sovietica. Era un martire del fascismo, dunque da onorare e, spento, non avrebbe più perturbato la quiete dell’esecutivo della Internazionale comunista e del suo proprio partito.
Dopo il 1956, il suo ritratto sostituì quello di Stalin sulle pareti di via Botteghe Oscure. Ma era stato a lungo passato sotto silenzio che nel 1926, poco prima dell’arresto, aveva scritto all’esecutivo dell’Ic contro la decisione staliniana di tagliar fuori Trotzki, non perché fosse d’accordo con Trotzki ma perché trovava irresponsabile spaccare, nel fallimento delle rivoluzioni in Europa, l’unità del gruppo dirigente del 1917 o di quel che ne restava. E che tre anni dopo i compagni in carcere avevano condannato le sue tesi opposte alla linea del 1929, e lo avevano isolato. Ne aveva tratto l’amarissmo dubbio che Togliatti non solo nulla facesse per tirarlo fuori, ma lo desiderasse dentro. E se aveva conservato la speranza che la Ic fosse meno meschina del Pcdi, il sapere nel 1937 cheMosca gli era preclusa, gliela aveva tolta tutta.
Anche di questo non può non avere parlato con Sraffa, ma Sraffa rifiutò di discuterne con Tatiana e nulla ci ha lasciato detto.
Negli anni Sessanta Rinascita avrebbe pubblicato tutto, la lettera all’esecutivo dell’Ic di cui era stata negata l’autenticità, lo scontro con Togliatti, il rapporto di Athos Lisa sulla rottura in carcere. E sarebbe uscita l’edizione completa delle Lettere. E Paolo Spriano cercava di andare più a fondo, nell’ostilità di Amendola. Ma era tardi. Nessuno se ne infiammò nel partito, né fuori. Pochi anni dopo, ogni passione spenta, il Pci pareva vincente sulla scena elettorale e la generazione del 1968 non lo avrebbe neppure sfogliato, Gramsci. Aveva fretta, pensava a scadenze veloci e vittoriose e Gramsci era il pensatore della sconfitta delle rivoluzioni in Europa. In quegli anni lo si studiò più all’estero, nell’indifferenza degli ortodossi e delle nuove sinistre. In Italia è diventato oggetto di studiosi valenti più o meno separati dalla politica. Anche le sue ceneri restano deposte a parte, nel piccolo cimitero degli acattolici che i romani chiamano degli inglesi, vicino alla Piramide Cestia. L’uso che di Gramsci aveva fatto il Pci contribuì alla diffidenza del 1968 e seguaci. Dico uso e non abuso, perché non c’è stata in senso proprio una falsificazione - tanto che l’interpretazione corrente è rimasta quel che era anche dopo la pubblicazione rigorosa dei Quaderni fatta da Valentino Gerratana. C’è stata un’accentuazione degli elementi che andavano in direzione della linea del Pci dopo la guerra. Il cardine ne furono soprattutto i frammenti su guerra di posizione e guerra di movimento. Su questo punto le note hanno nei Quaderni uno sviluppo disuguale e vengono datate attorno al 1930. Il nocciolo è in sostanza questo: dove il potere della classe dominante poggia non solo sullo stato ma su una società civile avanzata e complessa, il movimento rivoluzionario non può vincere con un attacco al vertice dell’apparato statale (guerra di movimento) ma in quanto abbia conquistato le «casematte» della società civile (guerra di posizione). Soltanto dove è lo stato a detenere tutto il potere rispetto a una società civile debole e poco strutturata, può avvenire il contrario. Sotto l’occhio della censura Gramsci usa un linguaggio mascherato e «militare» - ne nota egli stesso il limite - ma la trasposizione non è difficile. Guerra di movimento è una rivoluzione che, anche se si impadronisse con una rapida mossa del vertice statuale, non reggerebbe alla resistenza d’una forte società civile, che occorre perciò penetrare, postazione per postazione, con una tenace guerra di posizione.
Esempi: l’occidente presenta società civili robuste, l’Est società fragili. Gramsci non lo può scrivere in termini espliciti, ma è una ragione per cui le rivoluzioni del primo dopoguerra in Euopa sono fallite, nell’Urss invece l’Ottobre ha vinto.
Qui si aprono una serie di problemi. Parrebbe preliminare la definizione, l’uno rispetto all’altra, di stato e società civile. Nei Quaderni i confini variano e a volte si intersecano e confondono, come nel caso del regime fascista. Tuttavia la tesi è chiara: il potere del capitale non sta tutto e solo negli apparati repressivi dello stato, e non solo perché - tema anche inMarx parzialmente equivoco - la «struttura» determinante è quella del modo di produzione che l’ideologia borghese vorrebbe distinta dalle istituzioni dello stato,ma perché anche come «comitato d’affari della borghesia» lo stato ha una sua sfera di autonomia, che peraltro è andata precisandosi e ridefinendosi nei decenni successivi. Soprattutto nei regimi che Arendt chiama «totalitari », sia quelli fascisti sia quelli detti comunisti (che non hanno estinto lo stato affatto). Non so se nei primissimi ’30 Gramsci fosse in grado di pensarlo; certo non di scriverlo. Tuttavia la distinzione fa problema tuttora, né si può cavarsela con un ricorso alla dialettica fra i duemomenti, che è (anche in Gramsci) più un sofisma che una spiegazione. Sta di fatto che all’epoca nessun comunista pensava che si potesse fare ameno di una rottura dell’apparato dello stato e nulla permette di credere che per Gramsci la guerra di posizione fosse altro che preliminare alla rivoluzione politica. Insomma, condizione necessaria ma non sufficiente. Era il distinguo dei comunisti rispetto alla socialdemocrazia e al parlamentarismo. E lo resta a lungo. Nel 1956, con il VIII congresso, il Pci accenna al salto teorico: forse della rottura rivoluzionaria dello stato si può fare a meno - ma non lo esplicita apertis verbis, e non è questa la sede per dirimere se, per via dei rapporti di forza, o per prudenza su una radicale svolta nei principi.
Certo la pratica politica sulla quale il Pci è cresciuto è stata un perpetuo richiamo al Gramsci della guerra di posizione, unito all’inclinazione a accusare di avventurismo chi avrebbe voluto andar oltre, in Italia e nel mondo. Il caso del 1968 è solo il più indicativo: dopo una certa esitazione, il Pci non ha neppure compreso che se a quella spinta non si dava uno sbocco, essa sarebbe degenerata in forme estreme e perdenti, come in Italia e in Germania è avvenuto negli anni successivi. Ma in linea teorica il discorso si limitava alla tattica - non era mai il momento, non ci si trovava mai di fronte a una «crisi generale»; nessun documento del Pci è giunto a negare l’esistenza di un conflitto di fondo fra le classi. A cancellarne il concetto non sono bastati neppure la svolta del 1989 e il sempre più frequente uso negativo, sulla base del Gramsci giovanile, della categoria di «giacobinismo». E’ perfino divertente - ammesso che ci sia una qualche ironia nella storia - che si debba approdare allo scioglimento dei Ds nel 2007 perché Walter Veltroni dichiari priva di ragione, e quindi da cancellare (o reprimere), la guerra di classe, anzi - il termine guerra essendo lasciato agli stati e alle loro imprese «umanitarie » - il conflitto.
Nel suo saggio del 1976 nella New Left Review, Perry Anderson esclude che di questa deriva del Pci vada imputatoGramsci, che ritiene essere rimasto alla tesi marxiana della necessità d’una rottura della legalità statale; da parte sua, insiste ancora nel difenderne il carattere «militare» (Trotzki) perché nessuna conquista della società civile (della quale non nega la necessità) può incidere sul monopolio statale della violenza e sull’essere il solo a detenerne i mezzi con la polizia, l’esercito, e la tecnologia avanzata delle armi.
In verità con gli occhi del 2007 la questione si ricolloca in tutti i suoi termini: nessuna rivoluzione socialista è avvenuta senza una rottura politica e, sia pur in diversa misura, violenta; ma tutte le rivoluzioni dette socialiste o comuniste sono fallite o degenerate o implose, il caso dell’Urss essendo soltanto il più imponente. Se ne può se mai dedurre, contrariamente da Anderson, che i frammenti di Gramsci non si riferirebbero soltanto all’occidente, ma tradirebbero una preoccupazione sull’evolversi della rivoluzione russa, dove una preliminare egemonia sulla società civile non aveva avuto luogo. Certo questo avrebbe comportato delle conseguenze sul grado di maturità o immaturità di una rivoluzione, cui nessuno in quel tempo, e poi di nuovo negli anni ’70, sarebbe arrivato, pena trovarsi collocato molti passi indietro perfino rispetto a Bernstein. Resta il fatto che il lavoro di Gramsci rappresenta la prima sortita dalle categorie sommarie in cui sono stati pensati nel Novecento non solo la rivoluzione ma la natura della società e il rapporto fra istituzioni dello stato e società civile. Oggi, quando con la cosiddetta globalizzazione il potere su scala mondiale sembra poggiare assai più sulla rete dei capitali che sugli stati nazionali, pur restando nel monopolio di questi l’uso della violenza, l’elaborazione gramsciana dei primi anni ’30 sarebbe più che mai da riprendere e aggiornare. Sempre che, naturalmente, non siano gettati alle ortiche sia il concetto di modo capitalistico di produzione, sia quello di libertà - abitudine peraltro diffusa nelle ex vecchia e nuova sinistra.
Per la prima volta tradotte integralmente in cinese i "Quaderni dal carcere"
Alla Cina piace Gramsci
Dal pensatore italiano ispirazioni per Pechino
di FRANCESCO SISCI (La Stampa, 1/5/2007)
Poche ore prima della celebrazione del 1 maggio, quando la Cina onora i lavoratori di tutto il mondo chiudendo i battenti degli uffici pubblici per una settimana e più, Pechino ha per la prima volta solennemente pubblicato l’edizione completa dei Quaderni dal Carcere di Antonio Gramsci.
L’Accademia Cinese delle Scienze sociali, che ha curato la traduzione, ha ricordato che era il 70° anniversario della morte del pensatore, tralasciando il fatto che fosse comunista. In questo sembrava avere preso la linea dal presidente Giorgio Napoletano che sempre per il suo anniversario consacrava Gramsci come una figura che trascende i limiti di parte.
Per la Cina però Gramsci ha un’utilità quasi pratica. Alla scuola centrale del partito, massimo centro di strategia politica, i massimi teorici del Paese avevano scovato tra i suoi studi su Machiavelli l’ispirazione per l’idea dei “tre rappresentanti”.
Dalla fine degli anni ’90 l’allora presidente Jiang Zemin propose una teoria rivoluzionaria secondo cui il partito comunista doveva rappresentare le forze produttive, scientifiche e intellettuali più avanzate. Questa era una teoria ponte per traghettare il PC cinese fuori dall’alveo marxista. Secondo questa teoria si poteva dire che ieri queste tre forze erano incarnate dal proletariato, oggi invece ci possono essere altre forze sociali. Il compito del partito era quello di individuare questi “tre rappresentanti” e non fissarsi su una classe sociale, spiegava l’ex presidente Jiang.
Un’operazione simile era stata compiuta da Gramsci nella sua lettura del partito come moderno Principe. Come il Principe di Niccolò Machiavelli incarnava il vento nuovo della storia, così il partito che guidava il proletariato.
Da questo i cinesi traggono anche altre lezioni. Machiavelli e il suo realismo politico tracciano un filo di continuità con il realismo politico cinese che parte con il filosofo del 3° secolo a.C. Hanfei zi e arriva fino a Mao Zedong.
Inoltre tra le pagine di Gramsci, padre di quel PC italiano che accettò la dialettica democratica parlamentare dopo la seconda guerra mondiale, si potrebbero forse anche trovare elementi di ispirazione per il PC cinese. Quest’ultimo oggi è alle prese con un difficilissimo processo di riforma politica che dovrebbe concludersi con una qualche forma di democratizzazione.
Gramsci, oltre la politica c’è moltissima cultura
di Davide Madeddu *
La politica e la cultura prima di tutto. Ma anche la moda e l’arte. Eppoi la rete che divulga e diffonde in maniera velocissima. E’ la nuova esistenza che Antonio Gramsci vive settant’anni dopo la sua scomparsa. Perché, se è vero che i fascisti e i giudici del tribunale speciale volevano che «quel piccolo uomo» potesse continuare a pensare è anche vero che il pensiero del fondatore del Partito comunista e del quotidiano l’Unità continua ad essere il punto di riferimento per la politica e la cultura. Che parte dalla Sardegna, la terra dove Antonio è nato per fare poi il giro del mondo.
Lo sanno bene anche personaggi come Eric Hobsbawm Edoardo Sanguineti, Joseph Buttigieg che hanno partecipato e presenziato alle numerose iniziative organizzate sia in Sardegna sia nel resto della penisola per rendere omaggio al «grande rivoluzionario il cui pensiero è ancora attuale e continua a fare il giro del mondo». Merito anche della rete che trasporta e veicola il pensiero di Gramsci. E basta poi indicare il nome Gramsci su Google per averne una conferma.
Ma a Gramsci non sono dedicate solamente pagine web scritte in italiano, tedesco, russo, giapponese. Il presidente della regione Sardegna ha voluto dedicare la festa per la cacciata dei piemontesi dall’Isola proprio al pensatore nato ad Ales e cresciuto tra Ghilarza e Torino. Perché «aveva ragione Gramsci a dire che bisogna istruirsi, giacché l’istruzione serve per la vita».
Antonio Marras, lo stilista che firma pure per Kenzo, ha sfidato il conformismo e i luoghi comuni stampando sulle felpe e le maglie della collezione uomo del 2004 il brano «Odio gli indifferenti. Credo che vivere vuol dire essere partigiani. Indifferenza è abulia, è fanatismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti». Il tutto accompagnato dal disegno stilizzato del ritratto di Gramsci. «Omaggio a un grande uomo - spiega Marras - tenace e duro ma forte nelle convinzioni e nella volontà. Un grande che non può essere dimenticato». Moda, magari controcorrente che però riesce a trascinare tanto il popolo degli artisti quanto quello dei fotografi e decoratori. Non a caso si assiste molto spesso all’allestimento di mostre ed esposizioni di quadri o fotografie ritoccate e rielaborate dedicate proprio a Gramsci. Eppoi c’è l’arte che attorno alla figura di Nino riunisce artisti come Maria Lai, il regista Gianfranco Cabiddu, Dario Fo, Franca Rame, Caetano Veloso. Oppure la Compagnia teatrale Artevox che ha allestito lo spettacolo teatrale “Nino, appunti su Antonio Gramsci” andato in scena a Milano. Per gli amanti della rete ci sono poi anche le altre iniziative che si possono trovare anche sul sito internet www.gramsci2007.it Per non dimenticare.
* l’Unità, Pubblicato il: 06.05.07, Modificato il: 07.05.07 alle ore 11.35
Gramsci rispunta da destra
di LUCIA ANNUNZIATA (La Stampa, 12/6/2008)
Caduto in penombra a sinistra, Antonio Gramsci sta ritornando alla ribalta come uno dei riferimenti intellettuali del centrodestra al governo. Due giorni fa, nella sua audizione alla Camera lo ha citato il ministro dell’Istruzione, Gelmini. Qualche settimana fa, una citazione (delle molte) di Gramsci fatta dal ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi ha scatenato una tempesta dentro il centrodestra. È un puro caso, una pura arte del travestimento il fatto che proprio i due ministeri che nel Berlusconi IV gestiscono arte e istruzione citino questo filosofo di sinistra per eccellenza, il fondatore di quella concezione «moderna» della presa del potere che ha fornito alla sinistra italiana il suo specifico tratto non-sovietico? Può essere. Ma può anche essere che questa adozione di Antonio Gramsci sia lo specchio credibile di una nuova attitudine al potere che il governo attuale intende sviluppare.
La prima cosa da ricordare è che la natura non schematica del pensiero di Gramsci, uomo dai molti interessi, dagli approcci sfaccettati e non ideologici, l’ha spesso reso interessante anche a letture non di sinistra. Nel 2007 il settantennio della sua morte ha mostrato quanto complessa è la penetrazione del gramscismo. E qualcuno ha persino detto, in quell’occasione, che oggi è proprio la destra l’erede vera del gramscismo. Frase che in Italia sa di provocazione. Ma non negli Stati Uniti, se guardiamo ai neocon americani, ad esempio al Project for the New American Century, che da Gramsci prende la convinzione che l’agire politico è nella diffusione di idee nella società civile, e che solo dopo viene il successo nella politica istituzionale. O se guardiamo alla Francia di Nicolas Sarkozy, che in un’intervista a Le Figaro, ripresa in Italia da il Giornale, ha detto: «La mia lotta non è politica, ma ideologica. In fondo mi sono appropriato dell’analisi di Gramsci: il potere si conquista con le idee».
È la destra che da anni cerca di reinventarsi e che in questo processo cerca d’includere anche le lezioni imparate dalla cultura «di sinistra». Di tutte queste lezioni, quella di Gramsci è certo la più moderna, perché la sostituzione di egemonia a presa del potere è l’anticipazione di una società in cui classi e media, alleanze e simboli fondano un consenso molto più forte di qualunque coercizione. Del resto gli americani sanno bene che il loro impero si è costruito sull’entusiasmo suscitato nel mondo dal loro modello culturale.
Per questi rami è arrivato anche in Italia (e da abbastanza tempo) il gramscismo di destra. La settimana dopo la sconfitta del 2006 il Domenicale, edito dal senatore Dell’Utri e diretto dal giovane Angelo Crespi, titolava «Gramscismo Liberale» per invitare a una nuova riflessione. È in quel periodo post-elettorale in effetti che rinasce nel centrodestra l’attenzione sui meccanismi del potere. Gli intellettuali, i blog, i giornali elitari del centrodestra, dal Domenicale a Ideazione, a Socci, a Veneziani, al Foglio, cominciano a fare severe autocritiche sui limiti del lavoro del governo: abbiamo occupato con gli uomini ma non abbiamo avuto idee forti, non abbiamo saputo contrastare con una nostra cultura quella della sinistra. Paradossalmente, dopo cinque anni di grande potere, una parte del centrodestra spiega allora la sua sconfitta rievocando lo spauracchio della dominazione culturale del centro sinistra: nel mondo della canzone, del cinema, della Rai, dei giornalisti, delle case editrici. Ma le teste più avvertite capiscono che si possono fare «epurazioni» (traduzione del famoso «non faremo prigionieri») ma che il consenso è qualcosa di molto più difficile da ottenere.
È nata lì la riflessione sul potere con cui Berlusconi si ripresenta ora sulla scena, con parole come: memoria condivisa, fine della guerra ideologica, dialogo. La sua proposta è quella di costruire una sorta di meticciato politico, che fonde le varie idee e le rimacina. Il campione del processo è Tremonti, uscito liberista e tornato al governo protezionista (come sempre la sinistra). Ma a meglio svelare i nuovi toni, non a caso, sono i due ministeri che gestiscono la cultura. Sandro Bondi, il più affezionato degli uomini del Cavaliere, tra i suoi primi passi da ministro si rifà all’egemonia gramsciana e va a lodare a Cannes la vittoria di due film «di sinistra», e a dire che il cinema italiano (quello considerato tipico frutto del centrosinistra fino ad ora) non sta affatto morendo; sceglie di colloquiare sull’Unità con uno dei padri nobili dell’opposizione, Alfredo Reichlin, e di scrivere su il Foglio una recensione omaggio al libro dell’altro padre nobile, Eugenio Scalfari. E di annunciare infine, domenica scorsa, il suo programma, sempre a il Domenicale, parlando di superare concezioni di parte a favore dell’identità nazionale. Così anche la Gelmini, che cita Gramsci e recupera altre idee della sinistra: più soldi agli insegnanti e il riconoscimento che la scuola non è un disastro.
Non tutti sono d’accordo, a destra. Ideazione scriveva in maggio di un «complesso di inferiorità» del centro destra «che fatalmente spinge i rappresentanti della parte largamente maggioritaria del Paese a riconoscere la capacità di elaborazione e controllo intellettuale degli avversari, tanto porgendole apertamente omaggio quanto - più spesso - criticandola e insieme mostrandosi impazienti di sostituirsi ad essa». Ma queste divisioni sono una ulteriore prova che a destra è in corso un tentativo consapevole di trasformazione; che il dialogo non è solo un gioco di parole.
Magari non funzionerà. Ma anche solo un modesto meticciato potrebbe essere efficace nello svuotare quel che è rimasto della tradizione di sinistra. In particolare in un momento in cui questa sinistra già di per sé sente di essersi persa.
Sul tema, nel sito, si cfr.: LA FILOSOFIA DELLA "COPIA" (CASO GALIMBERTI) COME "COPIA" DELLA POLITICA DELLA PAROLA "COPIATA" (BERLUSCONISMO). Una nota (del 2004) sulla catastrofe politica e culturale italiana
Horror: Bondi vuole Gramsci
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 25.06.2008)
Siamo al ridicolo. E ci mancava pure questa: Bondi e Cicchitto «rivendicano» Gramsci. Sì, lo hanno scoperto, e lo vogliono tra i loro maestri! Ma come nasce questa sciocchezza? Nasce da una battuta di Lucia Annunziata, che ha parlato su La Stampa di «gramscismo di centrodestra», in riferimento alle velleità e alle carenze di «egemonia culturale» a destra, e all’imprescindibilità di questo tema. Perciò Bondi e Cicchitto ci si fiondano. Alla carlona ovviamente. In chiave pedestre da Bignami. E con un po’ di demonologia «machiavellica». Ecco il Bignami di Cicchitto, «raffinato esegeta di Gramsci»(sic!) secondo Bondi: egemonia come «battaglia delle idee» e «consenso», però «senza totalitarismo». Geniale! Benché detta così valga anche per S. Luigi Gonzaga o per S. Filippo Neri, e per ogni curato di campagna. E la demonologia? Eccola dispiegata in Bondi: Gramsci serve per capire i giudici comunisti di tangentopoli, annidati in società e negli apparati. Così, con una fava, i nostri due magnifici «intellettuali organici» di Arcore prendono i loro due bravi piccioni: scippo e plagio a buon mercato di pensiero (che non hanno). E consueta propaganda contro i giudici e il Pci, che ancora li inquietano nel sonno. Certo, c’è del buono nel «plagio». Rivela che dentro sono nudi e sotto la loro cultura c’è il niente. Niente mimetico. E lo sanno. Ma il tentativo non ha nulla di «egemonico» o insidioso. È solo una gherminella piccola piccola. E si vede.
La hit che piace al Secolo Già, il Secolo d’Italia, sbarazzino e buonista. Ormai non si fa mancare nulla. Infatti i post-post fascisti plaudono con Luciano Lanna alla «hit» di nuovi filosofi sbandierata da Style, magazine del Corsera. Roger Scruton «pensatore della bellezza», Stefano Zecchi, Francesco Tomatis, e un Giulio Giorello definito dai «post-post» «disneyan-poundiano». Tomatis esalta «l’alpinismo», «lo straordinario nel marginale», e invoca «meno libri». E il Secolo freme di gioia: «Bene, basta con i pensatori ultradialettici dal look sfigato!». Capito? Eccola la loro «egemonia culturale»! E allora perché non hanno proposto ai Beni culturali la «nero-trendy» Santanché invece di Bondi? Il Secolo «post-post» aveva tutte le carte in regola per esigerlo.
SAGGI
La «rivoluzione passiva» di Antonio Gramsci
La chiave di accesso che svela il presente
di Alberto Burgio (il manifesto, 07.07.2009)
Sarà un caso, ma è significativo che si moltiplichino le riflessioni e gli approfondimenti analitici sull’idea di «rivoluzione passiva». L’addensarsi di un interesse non puramente archeologico sembra dimostrare l’importanza di questo concetto gramsciano ai fini di una ricostruzione pertinente - e politicamente feconda - del trentennio che abbiamo alle spalle. E che ha raggiunto un degno coronamento (temiamo soltanto interlocutorio) con il naufragio della sinistra italiana nel crudele aprile di quest’anno.
Con questo suo saggio su Gramsci Pasquale Voza fornisce alla discussione sulla rivoluzione passiva un contributo importante. I quattro capitoli del libro sono tenuti saldamente insieme dal filo rosso di alcune domande. Non solo: che cos’è una rivoluzione passiva? Ma anche: dove e quando si è verificata? E quindi: quali indicazioni pratiche occorre saperne trarre?
Tra conservazione e innovazione
Sulla prima questione, Voza lascia parlare i Quaderni, riprendendo le pagine più esplicite nell’affermare la ricorrenza delle rivoluzioni passive e quindi la portata euristica del concetto, che Gramsci finisce col considerare un «principio generale di scienza e di arte politica».
Com’è noto, i Quaderni vedono rivoluzioni passive tanto nei processi di modernizzazione (nella costituzione degli Stati nazionali) in gran parte dell’Europa (a cominciare dal Risorgimento italiano e dalla Germania bismarckiana, con la fondamentale eccezione della Francia), quanto nelle risposte novecentesche alla «crisi organica» del capitalismo (fascismo e fordismo), accomunate dalla tensione verso assetti stabili e regolati. La domanda che sorge immediata dinanzi all’assimilazione di fenomeni storici così diversi riguarda le loro affinità. Che cosa li accomuna, agli occhi di Gramsci?
I Quaderni rispondono: la debolezza delle forze popolari (i democratici di Mazzini, Garibaldi e Pisacane nel Risorgimento; il movimento operaio all’indomani della Grande guerra) sullo sfondo (ma ciò è meno evidente nel caso degli Stati Uniti) di una generale arretratezza strutturale. È il mix tra l’assenza di una «antitesi vigorosa» e la fragilità dello «sviluppo economico locale» a consentire alle classi dominanti di governare riformisticamente il mutamento, calibrando in dosi omeopatiche conservazione e innovazione, e accogliendo (questo è un punto decisivo) «una qualche parte delle esigenze popolari».
I Quaderni arricchiscono questo schema con molteplici corollari di rilievo: la funzione degli intellettuali moderati (Gioberti, quindi Croce) che tendono a concepirsi come protagonisti e come classe a se stante, fungendo da battistrada del processo; il nesso rivoluzione passiva/«guerra di posizione»/economie di piano; la questione del trasformismo (per Gramsci una costante della storia politica italiana dal 1848 in poi).
Voza tesse una fitta trama di riferimenti, restituendo la complessità l’ordito teorico che scaturisce dall’intreccio di queste problematiche; illuminando anche nodi poco indagati (come il giudizio di Gramsci sulla figura e l’opera di Verdi); e soffermandosi sulle tappe dell’itinerario gramsciano di Pasolini. Ma è soprattutto sui riflessi politici della questione che egli concentra l’attenzione. Se una rivoluzione passiva suppone la debolezza dell’antagonista, allora il problema-chiave è: come produrre una forte antitesi, come riequilibrare il rapporto di forza? Tradotto nella fulminante lingua dei Quaderni: come dare corpo al soggetto, come dare vita e respiro al «movimento storico sulla base della struttura»?
Una scommessa da giocare
La ricerca su questo terreno apre alla più classica sequenza: la produzione del soggetto suppone l’elaborazione e il radicamento della coscienza critica; impone di tematizzare il rapporto tra «spontaneità» e «direzione consapevole»; chiama in causa la questione dell’egemonia: quindi il ruolo «connettivo e organizzativo» dell’intellettualità critica (antidoto alla «passivizzazione» e alla «standardizzazione» della massa) e la funzione del partito operaio, anticipazione della «nuova società» e dello Stato «di tipo nuovo». L’intento è trasparente e non si limita a un bilancio retrospettivo. L’indagine verte anche sul presente, nella convinzione che lo schema della rivoluzione passiva serva a decifrare anche gli avvenimenti di quest’ultimo trentennio e aiuti, se non altro, ad avviare una riflessione seria sulle ragioni della sconfitta storica del movimento di classe e sugli errori che lo hanno condotto, in Italia e in tutta Europa, all’odierno disastro.
Così Voza si inserisce autorevolmente in una discussione che registra già diverse voci, dal contributo di Buci-Glucksmann e Therborn sul «compromesso socialdemocratico» e dalle analisi di Franco De Felice sul Quaderno 22 sino alle riflessioni di Giuseppe Chiarante sull’Italia degli anni Sessanta e Settanta e alla recente indagine di Carlos Nelson Coutinho su rivoluzione passiva e «controriforma». È una discussione che deve continuare proprio per la sua marcata valenza politica. E che dimostra la fecondità di una cultura critica - quella che Croce chiamò, intendendo pronunciarne l’epitaffio, «comunismo teorico» - che sarebbe semplicemente sciagurato considerare obsoleta.
GRAMSCI E LA «CONTINUA CRISI»
DI PASQUALE VOZA,
CAROCCI,
PP. 115, EURO 10,80
A proposito del fondatore de «l’Unità», oggetto di un dibattito a Firenze tra il ministro Bondi e Vincenzo Cerami. Perché ci serve
Gramsci non è un santino, ma un pensatore di domani.
Teniamolo sul desk, non nel cassetto
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 05.09.2008)
Come era prevedibile, e anche ragionevole aspettarsi, Vincenzo Cerami, scrittore, sceneggiatore e responsabile culturale Pd, ha precisato il senso delle sue parole su Gramsci, quelle pronunciate a Firenze alla Festa, in un dibattito con Sandro Bondi, Ministro della cultura del centrodestra. Ieri su l’Unità infatti, Cerami ha chiarito che non era sua intenzione «scaricare» il pensatore sardo, o chiuderlo semplicemente in un cassetto. Bensì quella di ribadirne il carattere di «punto di partenza etico fondamentale per una concezione alta della politica». Pur nell’invito a guardare oltre, ai problemi di una società che è ben altra rispetto al fascismo. E anche rispetto al nostro dopoguerra e agli anni di Pasolini (figura che Cerami collega in qualche modo a Gramsci).
Dunque guardare oltre Gramsci. Magari con l’esempio etico di Gramsci, ma «oltre». Al presente e al futuro in atto, segnati per Cerami da «una profonda e inedita trasformazione». In particolare, spiega, «dalla nuova classe degli impoveriti, una classe che i linguisti chiamerebbero sincretica». Insomma, sembra dire Cerami, Gramsci è senz’altro «vitale» come padre e antenato. Ma è un po’ inadeguato a parlare ai figli.
Prendiamo atto della puntualizzazione, che tra l’altro ha il merito di sottrarre Gramsci ai cosmetici tentativi della destra di annetterselo (prima An a Fiuggi, poi Bondi e Cicchitto, e la velleità disperata vorrà pur dire qualcosa!). E tuttavia il ragionamento non ci persuade. Troppo generico. Troppo «onore delle armi»...per intendersi. Troppa storicizzazione affrettata. E poco scavo nel merito. Nessuna distinzione «di ciò che è vivo e ciò che morto», per fare davvero i conti con Gramsci, senza farne un santino, o un nobile progenitore e basta.
E allora perché Gramsci? E che significa ancora - se qualcosa significa - per la sinistra, per l’Italia, per l’oggi? Proviamo a rispondere in breve, in guisa di appunti e augurandoci che la discussione prosegua. Ebbene, Gramsci non fu puramente uno scrittore o un testimone d’eccezione del tempo (come Pasolini). Fu un grande scienziato politico, oltre che uomo eroico e dirigente di partito. Comprese nei Quaderni alcune cose modernissime, di domani! Ad esempio, «l’interdipendenza mondiale» alla base delle tre «modernizazioni del suo tempo»: quelle totalitarie,comunista e fascista, e quella rooseveltiana. Comprese il ruolo egemone dell’«americanismo», all’insegna del fordismo e destinato a prevalere a livello planetario. E intuì che dentro le mutazioni «mondiali» dell’«economico-sociale», i «blocchi sociali» si trasformavano. Le gerarchie cambiavano. E si formavano «gruppi dirigenti» nuovi, che «egemonizzavano» e scomponevano i vecchi ceti sociali, dall’alto in basso e viceversa. Rinsaldando o rinnovando i precedenti assetti, e cooptando i ceti deboli e subalterni all’interno delle innovazioni produttive.
Anche Gramsci, come Marx, vedeva «gli impoveriti», l’«esercito di riserva», i «flessibili» si direbbe oggi. Ma li vedeva destinati a fungere da combustibile passivo di massa, nel motore delle rivoluzioni produttive del 900. Attorno a questo processo Gramsci scopriva poi le mentalità, le «forme simboliche», le ideologie, il folklore, gli stili di vita. Tutto quello che dà senso alla «soggettività» in una società di massa. Il progetto di Gramsci? La critica della subalternità al potere, la liberazione dell’individualità nella politica, intesa come linguaggio di un partito «intellettuale collettivo» sempre in fieri (democratico e non dispotico). Il suo (dal carcere!) era il lavoro della «contro-egemonia». Per liberare gli impoveriti, il lavoro e i subalterni. Dalla corazza ideologica dell’avversario.
Dunque ecco perché Gramsci non appartiene affatto solo ai padri. Ma esattamente ai figli che sogniamo liberi. Teniamolo sul «desk», non nel cassetto.