CINA: PRIMAVERA DELL’ ’89. RICORDARE: TENERE-A-MENTE .....

LA CINA DI MAO, PIAZZA TIENANMEN, E I CONTI COL PASSATO. Articoli di Federico Rampini e riflessioni di Lidia Menapace - a cura di Federico La Sala

Zhang Xianling, una delle madri: "Il dolore resta vivo nel più profondo del cuore".
venerdì 5 giugno 2009.
 


La paura torna a Tienanmen alta tensione vent’anni dopo

Pechino blindata. Hillary: "Liberate i dissidenti"

Zhang Xianling, una delle madri: "Il dolore resta vivo nel più profondo del cuore"

di Federico Rampini (la Repubblica,04.o6.2009)

L’ordine regna a Pechino, ma l’ombra di Tienanmen ossessiona ancora il regime. Nel ventesimo anniversario del massacro ieri una cappa di silenzio è calata su tutta la Cina: blindata la piazza dove i carriarmati soffocarono la protesta democratica, censurati i giornali e i siti Internet, arrestati i dissidenti.

Una dura protesta è venuta da Washington. La più forte presa di posizione dall’avvento dell’Amministrazione Obama è stata affidata a Hillary Clinton. «Una Cina che ha fatto enormi progressi economici e aspira a una leadership globale - ha dichiarato il segretario di Stato - deve affrontare apertamente gli eventi più bui del suo passato, deve dire la verità sui morti, i detenuti, gli scomparsi, per imparare la lezione e per sanare le ferite». La Clinton ha chiesto al governo di Pechino di «rilasciare tutti coloro che ancora scontano le pene». Sono 30 i prigionieri politici che non hanno finito di pagare per la loro colpa: aver creduto nel sogno di libertà che nella primavera del 1989 mobilitò gli studenti e fece vacillare la presa del partito comunista.

L’atteso anniversario è stato vissuto come una giornata ad altissima tensione. Furgoni di polizia erano appostati a tutti gli angoli di Piazza Tienanmen, agenti e pattuglie militari rafforzate controllavano gli ingressi, perquisivano i passanti, impedivano alle tv straniere di riprendere il quadrilatero più celebre di tutto il paese. Il silenzio-stampa era stato imposto già da settimane a tutti i media nazionali, proibito ogni riferimento alla tragedia del 4 giugno.

Ieri si è aggiunto un giro di vite eccezionale contro i mezzi d’informazione stranieri. La censura si è abbattuta sui siti Internet di Cnn e Bbc, oscurando ogni riferimento al 1989. I blackout hanno colpito Twitter, Youtube, la posta Hotmail e gli archivi fotografici online di Flickr. Non sono stati risparmiati i giornali stranieri, nonostante la loro limitata diffusione: le copie dell’International Herald Tribune circolavano solo dopo che una mano anonima aveva strappato la pagina con un articolo sul Dalai Lama.

Ma nonostante sia un "non evento", di cui la propaganda ha cancellato ogni traccia nella memoria ufficiale, ieri il regime ha temuto qualche gesto individuale, proteste o testimonianze di ricordo. Ne hanno fatto le spese i più noti intellettuali dissidenti. Qi Zhiyong, che perse una gamba negli scontri del 4 giugno, è stato sequestrato dalla polizia e portato lontano da Pechino.

Sotto scorta lo scrittore Yu Jie, che ha dichiarato: «Il 4 giugno non è stato dimenticato ma la gente ha paura di parlare». Wu Gaoxing è stato arrestato sabato sera vicino Shanghai: non gli hanno perdonato la lettera aperta che aveva rivolto pochi giorni fa al presidente Hu Jintao chiedendo la fine delle vessazioni contro gli ex-detenuti politici. "Anche se non siamo più in prigione - ha scritto Wu - il solo diritto che ci resta è quello di aspettare la morte". A nome delle vittime della repressione militare ha parlato ieri la 72enne Zhang Xianling, fondatrice dell’associazione delle Madri di Tienanmen: "Il dolore rimane vivo nel luogo più profondo dei nostri cuori".

È palpabile il terrore dei dirigenti comunisti di fare i conti con il passato, di rivelare il bilancio delle vittime, e di aprire un dibattito sull’89. Le autorità accademiche di Pechino e Shanghai hanno ricevuto precise direttive per sorvegliare anche i movimenti degli studenti stranieri. Perfino Hong Kong e Macao, le due isole dotate di statuto autonomo dove vige una libertà di espressione, hanno chiuso le frontiere agli esuli dell’89 che tentavano di rientrare per l’anniversario.

Ed è proprio un padre spirituale di Hong Kong ad aver lanciato un verdetto severo. Il cardinale cattolico Zen Ze-kiun, che a Hong Kong ha speso una vita per difendere i diritti umani, ha ammonito i dirigenti cinesi a spezzare questa congiura del silenzio. «Vent’anni dopo - ha dichiarato Zen - il regime rimane dispotico e corrotto. Ancora deve rispondere dell’orrendo crimine commesso. Quel massacro non era inevitabile e non ha portato nulla di buono. Il sistema politico è oppressivo, la corruzione dilaga, l’informazione è censurata, la ricchezza ha beneficiato una minoranza. Se avesse prevalso la linea del dialogo di Zhao Ziyang (l’allora segretario del partito che voleva le riforme democratiche, ndr), la storia sarebbe stata migliore per i cinesi». I dirigenti comunisti sono riusciti a imporre nel senso comune il loro revisionismo sull’89: l’intervento armato come un male minore, che ha garantito l’ordine e la stabilità, consentendo un ventennio di boom economico. Ogni altra versione non ha diritto di parola. (f. ramp.)


La Cina da Mao a Tienanmen

di Lidia Menapace (Liberazione, 03.06.2009)

E’ una icona antichissima, quella che mostra Davide, fornito solo della fionda come fosse un ragazzo dell’Intifada, aver ragione del gigantesco Golia, immagine stessa della forza bruta. E quell’icona si perpetua e viene ripresa anche in alcune famose foto del recente passato: chi può dimenticare la ragazzina vietnamita sottile piccola fiera, che tiene prigioniero, quasi al guinzaglio, un gigantesco soldato americano? E chi non ricorda lo studente leggero sfottente che danza allegro e senza paura davanti a un gigantesco carrarmato cinese nella enorme piazza Tien an Men? Come vorrei che a questa galleria di persone che credono più nella ragione che nella forza, nella giustizia che nelle armi si potesse aggiungere anche l’icona di Rachel Carrie! Ma davanti al suo corpo il carrarmato israeliano non si fermò!

Certamente la rivoluzione cinese e la Cina comunista sono state speranze vive per molti e molte di noi, soprattutto per alcune caratteristiche specifiche di grande prospettiva: il modello di industrializzazione che non punta sull’industria pesante, ma su quella che produce beni di uso comune e aiuta a sollevare ogni giorno un po’ il livello di vita del popolo; l’internazionalismo pratico che afferma non potersi né volere in Cina puntare su un miglioramento delle condizioni di vita del popolo, una volta raggiunto il minimo vitale («un pugno di riso al giorno per tutti e tutte, un paio di sandali per ogni paio di piedi, una casa su tutte le teste») fino a che non si potesse procedere insieme agli altri popoli poveri;

L’attenzione alla questione di genere che portò Mao a discutere con le donne che protestarono quando disse che erano la "seconda" metà del cielo, e quando si corresse che erano "l’altra" metà del cielo, placandosi solo quando si abituò a dire che le donne erano, come gli uomini, "una" metà del cielo: segno della piena comprensione di quanto sia importante il liguaggio come simbolo del reale.

Ma non solo questo: perché tutti e tutte potessero uscire dall’analfabetismo Mao fece trascrivere il cinese scontentando i Mandarini che lo rimproverarono di uccidere le straordinarie sfumature e sottigliezze e raffinatezze della lingua cinese per apprendere la quale nelle scuole mandarine si imparava a dipingere per l’appunto 10.000 segni. Mai un povero contadino sarebbe riuscito ad arrivare al "merito" necessario.

Uguale senso della giustizia di classe mostrò verso la tradizionale medicina cinese, inventando i "medici dai piedi scalzi", preparati a sovvenire ai principali problemi igienico-sanitari della popolazione (ad esempio a non tagliare un cordone ombelicale con forbici non sterili o arrugginite).

Al termine di questi processi culturali disse che secondo lui - al contrario di quanto diceva il proverbio - «i mandarini puzzano e i contadini no» e che uno sarebbe stato un vero intellettuale comunista quando avesse sentito "puzzare i mandarini".

Esprime qui un disprezzo e giudizio greve sulla antichissima cultura cinese che lo indusse anche a misure repressive verso gli intellettuali, e fu l’inizio di un processo di degrado della libertà che arriva fino alla piazza Tien an Men e alle lotte studentesche.

Quella della lotta contro la cultura borghese e il privilegio del sapere è una delle scelte più delicate e difficili, quando si produce dopo una rottura rivoluzionaria e vi è l’obbligo di sottoporre ad attento vaglio tutto il passato.

La Rivoluzione culturale fu di certo la più rischiosa e mal finita parte della Rivoluzione cinese e resta a noi il compito di definire la scelta culturale, prima fra tutte le libertà "sovrastrutturali".

E dalla Rivoluzione cinese perciò molto resta comunque da studiare, capire, imitare anche nelle sue innovazioni, ma restano anche molti problemi irrisolti e penso che lo studente che sfida il carrarmato rappresenti tutto ciò in modo straordinario e limpido: la libertà di parola, insegnamento, ricerca è il più sicuro indicatore della democrazia reale, e si tratta di libertà senza aggettivi, libertà religiosa per poter dire no a qualsiasi infrazione della laicità, libertà di studio per poter dire no alla riedizione dei mandarini nostrani, libertà di innovazione, quando i simboli che invadono ancora la Cina di bandiere rosse, stelle rosse, falci e martelli non corrispondono più a una vera libertà, quando si vede che i poveri vengono lasciati indietro e il lusso brilla nelle metropoli delle Repubblica popolare cinese. I simboli sono straordinari veicoli di senso, fino a quando non diventano riti solenni, ma vuoti e assomigliano a quelli che si celebrano nelle cerimonie religiose.



Il 5 giugno dell’89 sfidò il potere: da allora è scomparso nel nulla

Dicono sia morto. O che, grazie a una chirurgia plastica, viva nascosto

Il mistero del ragazzo che sfidò i tank a Tienanmen

di FEDERICO RAMPINI *

"Per anni io e i miei amici abbiamo cercato di rintracciare il giovane che tenne testa ai carriarmati di Tienanmen - mi dice il dissidente cinese Xu Youyu - all’inizio abbiamo temuto che fosse stato arrestato, poi che fosse morto. Su di lui si formarono delle leggende, qualcuno sosteneva che si era fatto la chirurgia plastica per non farsi riconoscere. Oggi sono propenso a credere che sia ancora vivo". Xu non divulgherà mai degli indizi che possano portare a rintracciare quell’ex contestatore, la figura-simbolo della resistenza di vent’anni fa. L’immagine fece il giro del mondo intero, divenne il simbolo della tragedia di Pechino.

È il 5 giugno 1989, già da 24 ore procede implacabile l’intervento militare per schiacciare la "primavera democratica", quando diversi fotografi occidentali affacciati alle finestre del Beijing Hotel riprendono la scena. Una colonna blindata scende lungo il Viale della Pace Eterna, di colpo è costretta a immobilizzarsi. Un giovane si è piazzato in mezzo alla strada, blocca il carroarmato di testa.

Sta ritto in piedi, con la mano sinistra tiene la giacca a penzoloni, con la destra due sacchetti di plastica della spesa. La scena sembra irreale: i tank fermi uno dopo l’altro in fila indiana, quella figura esile che sembra soggiogarli. L’autista del primo blindato fa manovra, cerca di aggirare il ragazzo sulla destra. Lui gli si para davanti di nuovo, allarga le braccia come si fa per domare una bestia. Poi il giovane fa un salto, sale sul carroarmato per parlare col soldato visibile dalla feritoia. "Tornate indietro! Smettete di uccidere il nostro popolo!" è l’urlo che i testimoni ricordano. Poi tutto accade in un attimo: il ragazzo è sceso dal blindato, ora è circondato da amici che lo aiutano a scappare.

La sua sorte è rimasta un mistero affascinante. In Occidente quelle foto divennero il ricordo di un coraggio inaudito, rafforzarono la solidarietà verso la protesta studentesca. Si è creduto che il regime cinese avrebbe fatto il possibile per catturare il protagonista di quel gesto sfrontato. Nel ventesimo anniversario del massacro, ricostruire quelle ore aiuta a capire la strategia della repressione: chi fu colpito, come, con quali priorità. La Cina di oggi è figlia del dopo-Tienanmen, quando il regime stabilì un ordine e una logica nel castigo.

Lontano da Tienanmen. "La repressione armata - ricorda Xu - non avvenne a Piazza Tienanmen ma più lontano. Le cataste di cadaveri io le vidi sulle vie Fuyou e Changan. I massacri peggiori avvennero all’ingresso dei blindati in città, e nelle aree di Fuxingmen e Muxidi". Il ragazzo che sfidò i tank senza che dai blindati partisse un solo colpo, era per fortuna troppo vicino a Tienanmen: una piazza dal potente significato simbolico, dove i leader comunisti volevano ridurre al minimo lo spargimento di sangue. Tienanmen è da secoli il luogo sacrale del potere cinese, all’ingresso della Città Proibita dove viveva l’imperatore. La sua importanza è stata rafforzata dall’iconografia rivoluzionaria: il rinascimento repubblicano della Cina si fa risalire alla manifestazione degli studenti il 4 maggio 1919 in quella piazza; Mao Zedong vi proclamò la vittoria del comunismo nell’ottobre 1949 e la sua salma imbalsamata è custodita nel mausoleo centrale. Per questo nel maggio 1989 gli studenti scelsero di lanciare proprio lì lo sciopero della fame. Per questo la propaganda del regime nelle terribili giornate di giugno si ostinava a ripetere che "nessuno era stato ucciso a Tienanmen".

Il numero delle vittime è tuttora un segreto di Stato, le stime raccolte da Amnesty International variano fra 700 e 3.000 morti. Ma le versioni concordano su questo: pochi morirono dentro il "cerchio magico", il perimetro della piazza stessa. Deng Xiaoping, l’anziano leader che orchestrò l’intervento dell’esercito, non voleva lasciare in eredità al regime comunista la maledizione di una carneficina avvenuta in un luogo troppo gravido di storia.

Nei mesi successivi la repressione seguì un criterio, non fu indiscriminata. L’intellettuale dissidente Zhang Boshu, che oggi è uno dei firmatari di Charta 08, ricorda la caccia alle streghe. "Deng e i suoi sapevano che l’uso della forza militare era stato illegale. Perciò dopo il 4 giugno gli arresti, le condanne e le deportazioni, tutto avvenne in segreto. Non ci fu un solo processo pubblico. C’erano i super-ricercati e le liste di proscrizione nei luoghi di lavoro. Le sezioni del partito comunista erano incaricate di fare le istruttorie a carico dei colpevoli. Era così in ogni luogo di lavoro, comprese le università e l’Accademia delle Scienze dove lavoro".

Zhang ricorda di essere stato fortunato, di aver scansato le punizioni più esemplari. "Eravamo tantissimi ad aver partecipato al movimento per la democrazia. Per mesi quella era stata una protesta di massa. Era impensabile punire tutti: avrebbero dovuto arrestare metà della popolazione di Pechino. Io scampai al peggio perché non ero iscritto al partito. Uno dei bersagli contro cui si accanirono dopo il 4 giugno erano i comunisti doc. La priorità di Deng era l’epurazione interna. Il nemico più odiato era la corrente dei riformisti democratici all’interno del partito, gli amici di Zhao Ziyang, il segretario generale che Deng aveva deposto con un golpe. Quella era la minaccia, perché Zhao aveva goduto di un consenso reale tra gli stessi comunisti, il partito si era spaccato in due".

Andò peggio agli operai. Due pesi e due misure si avvertirono nel diverso trattamento riservato a studenti e operai. Già l’8 giugno 1989 l’ufficio della Pubblica sicurezza di Shanghai arrestava 13 operai, 3 dei quali vennero condannati a morte e fucilati dal plotone di esecuzione. Delle 48 esecuzioni pubbliche a Pechino nei giorni seguenti nessuna ebbe per vittima uno studente. Era partita la grande operazione di recupero delle élite, la lunga marcia per cooptare intellettuali e studenti al servizio del potere. La vera lezione che i leader comunisti impararono da quelle giornate è questa: non bisogna mai più ritrovarsi "contro" la parte più istruita e moderna della società.

Per gli irriducibili cominciò la traversata del deserto, una serie di vessazioni che durano ancora oggi: promozioni negate, niente permessi di viaggio all’estero, l’emarginazione costante. Uno stillicidio di vendette che non ha impedito a Xu e Zhang di continuare la loro lotta per i diritti umani. Con tutti gli altri il regime è stato magnanime, e l’elargizione di vantaggi alle professioni intellettuali è stata redditizia. "Vent’anni dopo - ammette Zhang - non c’è all’orizzonte una forza alternativa al partito comunista, non esiste un movimento che possa guidare la transizione pacifica verso la democrazia. E’ dentro il partito comunista che deve nascere questa spinta per il cambiamento".

* la Repubblica, 4 giugno 2009


Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  Socialismo o Barbarie?!
-  «COMPAGNI, PARLIAMO DEI RAPPORTI DI PRODUZIONE!».La Cina della «via al capitalismo» riscopre i conflitti sociali. Edoarda Masi commenta una preziosa inchiesta di Robert Weil, apparsa sulla rivista «Monthly Review»

-  W o ITALY !!! Lunga vita all’ ITALIA: "Restituitemi il mio urlo" !!! Huang Jianxiang, dalla CINA, con furore...


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