La paura torna a Tienanmen alta tensione vent’anni dopo
Pechino blindata. Hillary: "Liberate i dissidenti"
Zhang Xianling, una delle madri: "Il dolore resta vivo nel più profondo del cuore"
di Federico Rampini (la Repubblica,04.o6.2009)
L’ordine regna a Pechino, ma l’ombra di Tienanmen ossessiona ancora il regime. Nel ventesimo anniversario del massacro ieri una cappa di silenzio è calata su tutta la Cina: blindata la piazza dove i carriarmati soffocarono la protesta democratica, censurati i giornali e i siti Internet, arrestati i dissidenti.
Una dura protesta è venuta da Washington. La più forte presa di posizione dall’avvento dell’Amministrazione Obama è stata affidata a Hillary Clinton. «Una Cina che ha fatto enormi progressi economici e aspira a una leadership globale - ha dichiarato il segretario di Stato - deve affrontare apertamente gli eventi più bui del suo passato, deve dire la verità sui morti, i detenuti, gli scomparsi, per imparare la lezione e per sanare le ferite». La Clinton ha chiesto al governo di Pechino di «rilasciare tutti coloro che ancora scontano le pene». Sono 30 i prigionieri politici che non hanno finito di pagare per la loro colpa: aver creduto nel sogno di libertà che nella primavera del 1989 mobilitò gli studenti e fece vacillare la presa del partito comunista.
L’atteso anniversario è stato vissuto come una giornata ad altissima tensione. Furgoni di polizia erano appostati a tutti gli angoli di Piazza Tienanmen, agenti e pattuglie militari rafforzate controllavano gli ingressi, perquisivano i passanti, impedivano alle tv straniere di riprendere il quadrilatero più celebre di tutto il paese. Il silenzio-stampa era stato imposto già da settimane a tutti i media nazionali, proibito ogni riferimento alla tragedia del 4 giugno.
Ieri si è aggiunto un giro di vite eccezionale contro i mezzi d’informazione stranieri. La censura si è abbattuta sui siti Internet di Cnn e Bbc, oscurando ogni riferimento al 1989. I blackout hanno colpito Twitter, Youtube, la posta Hotmail e gli archivi fotografici online di Flickr. Non sono stati risparmiati i giornali stranieri, nonostante la loro limitata diffusione: le copie dell’International Herald Tribune circolavano solo dopo che una mano anonima aveva strappato la pagina con un articolo sul Dalai Lama.
Ma nonostante sia un "non evento", di cui la propaganda ha cancellato ogni traccia nella memoria ufficiale, ieri il regime ha temuto qualche gesto individuale, proteste o testimonianze di ricordo. Ne hanno fatto le spese i più noti intellettuali dissidenti. Qi Zhiyong, che perse una gamba negli scontri del 4 giugno, è stato sequestrato dalla polizia e portato lontano da Pechino.
Sotto scorta lo scrittore Yu Jie, che ha dichiarato: «Il 4 giugno non è stato dimenticato ma la gente ha paura di parlare». Wu Gaoxing è stato arrestato sabato sera vicino Shanghai: non gli hanno perdonato la lettera aperta che aveva rivolto pochi giorni fa al presidente Hu Jintao chiedendo la fine delle vessazioni contro gli ex-detenuti politici. "Anche se non siamo più in prigione - ha scritto Wu - il solo diritto che ci resta è quello di aspettare la morte". A nome delle vittime della repressione militare ha parlato ieri la 72enne Zhang Xianling, fondatrice dell’associazione delle Madri di Tienanmen: "Il dolore rimane vivo nel luogo più profondo dei nostri cuori".
È palpabile il terrore dei dirigenti comunisti di fare i conti con il passato, di rivelare il bilancio delle vittime, e di aprire un dibattito sull’89. Le autorità accademiche di Pechino e Shanghai hanno ricevuto precise direttive per sorvegliare anche i movimenti degli studenti stranieri. Perfino Hong Kong e Macao, le due isole dotate di statuto autonomo dove vige una libertà di espressione, hanno chiuso le frontiere agli esuli dell’89 che tentavano di rientrare per l’anniversario.
Ed è proprio un padre spirituale di Hong Kong ad aver lanciato un verdetto severo. Il cardinale cattolico Zen Ze-kiun, che a Hong Kong ha speso una vita per difendere i diritti umani, ha ammonito i dirigenti cinesi a spezzare questa congiura del silenzio. «Vent’anni dopo - ha dichiarato Zen - il regime rimane dispotico e corrotto. Ancora deve rispondere dell’orrendo crimine commesso. Quel massacro non era inevitabile e non ha portato nulla di buono. Il sistema politico è oppressivo, la corruzione dilaga, l’informazione è censurata, la ricchezza ha beneficiato una minoranza. Se avesse prevalso la linea del dialogo di Zhao Ziyang (l’allora segretario del partito che voleva le riforme democratiche, ndr), la storia sarebbe stata migliore per i cinesi». I dirigenti comunisti sono riusciti a imporre nel senso comune il loro revisionismo sull’89: l’intervento armato come un male minore, che ha garantito l’ordine e la stabilità, consentendo un ventennio di boom economico. Ogni altra versione non ha diritto di parola. (f. ramp.)
di Lidia Menapace (Liberazione, 03.06.2009)
E’ una icona antichissima, quella che mostra Davide, fornito solo della fionda come fosse un ragazzo dell’Intifada, aver ragione del gigantesco Golia, immagine stessa della forza bruta. E quell’icona si perpetua e viene ripresa anche in alcune famose foto del recente passato: chi può dimenticare la ragazzina vietnamita sottile piccola fiera, che tiene prigioniero, quasi al guinzaglio, un gigantesco soldato americano? E chi non ricorda lo studente leggero sfottente che danza allegro e senza paura davanti a un gigantesco carrarmato cinese nella enorme piazza Tien an Men? Come vorrei che a questa galleria di persone che credono più nella ragione che nella forza, nella giustizia che nelle armi si potesse aggiungere anche l’icona di Rachel Carrie! Ma davanti al suo corpo il carrarmato israeliano non si fermò!
Certamente la rivoluzione cinese e la Cina comunista sono state speranze vive per molti e molte di noi, soprattutto per alcune caratteristiche specifiche di grande prospettiva: il modello di industrializzazione che non punta sull’industria pesante, ma su quella che produce beni di uso comune e aiuta a sollevare ogni giorno un po’ il livello di vita del popolo; l’internazionalismo pratico che afferma non potersi né volere in Cina puntare su un miglioramento delle condizioni di vita del popolo, una volta raggiunto il minimo vitale («un pugno di riso al giorno per tutti e tutte, un paio di sandali per ogni paio di piedi, una casa su tutte le teste») fino a che non si potesse procedere insieme agli altri popoli poveri;
L’attenzione alla questione di genere che portò Mao a discutere con le donne che protestarono quando disse che erano la "seconda" metà del cielo, e quando si corresse che erano "l’altra" metà del cielo, placandosi solo quando si abituò a dire che le donne erano, come gli uomini, "una" metà del cielo: segno della piena comprensione di quanto sia importante il liguaggio come simbolo del reale.
Ma non solo questo: perché tutti e tutte potessero uscire dall’analfabetismo Mao fece trascrivere il cinese scontentando i Mandarini che lo rimproverarono di uccidere le straordinarie sfumature e sottigliezze e raffinatezze della lingua cinese per apprendere la quale nelle scuole mandarine si imparava a dipingere per l’appunto 10.000 segni. Mai un povero contadino sarebbe riuscito ad arrivare al "merito" necessario.
Uguale senso della giustizia di classe mostrò verso la tradizionale medicina cinese, inventando i "medici dai piedi scalzi", preparati a sovvenire ai principali problemi igienico-sanitari della popolazione (ad esempio a non tagliare un cordone ombelicale con forbici non sterili o arrugginite).
Al termine di questi processi culturali disse che secondo lui - al contrario di quanto diceva il proverbio - «i mandarini puzzano e i contadini no» e che uno sarebbe stato un vero intellettuale comunista quando avesse sentito "puzzare i mandarini".
Esprime qui un disprezzo e giudizio greve sulla antichissima cultura cinese che lo indusse anche a misure repressive verso gli intellettuali, e fu l’inizio di un processo di degrado della libertà che arriva fino alla piazza Tien an Men e alle lotte studentesche.
Quella della lotta contro la cultura borghese e il privilegio del sapere è una delle scelte più delicate e difficili, quando si produce dopo una rottura rivoluzionaria e vi è l’obbligo di sottoporre ad attento vaglio tutto il passato.
La Rivoluzione culturale fu di certo la più rischiosa e mal finita parte della Rivoluzione cinese e resta a noi il compito di definire la scelta culturale, prima fra tutte le libertà "sovrastrutturali".
E dalla Rivoluzione cinese perciò molto resta comunque da studiare, capire, imitare anche nelle sue innovazioni, ma restano anche molti problemi irrisolti e penso che lo studente che sfida il carrarmato rappresenti tutto ciò in modo straordinario e limpido: la libertà di parola, insegnamento, ricerca è il più sicuro indicatore della democrazia reale, e si tratta di libertà senza aggettivi, libertà religiosa per poter dire no a qualsiasi infrazione della laicità, libertà di studio per poter dire no alla riedizione dei mandarini nostrani, libertà di innovazione, quando i simboli che invadono ancora la Cina di bandiere rosse, stelle rosse, falci e martelli non corrispondono più a una vera libertà, quando si vede che i poveri vengono lasciati indietro e il lusso brilla nelle metropoli delle Repubblica popolare cinese. I simboli sono straordinari veicoli di senso, fino a quando non diventano riti solenni, ma vuoti e assomigliano a quelli che si celebrano nelle cerimonie religiose.
Il 5 giugno dell’89 sfidò il potere: da allora è scomparso nel nulla
Dicono sia morto. O che, grazie a una chirurgia plastica, viva nascosto
Il mistero del ragazzo che sfidò i tank a Tienanmen
di FEDERICO RAMPINI *
"Per anni io e i miei amici abbiamo cercato di rintracciare il giovane che tenne testa ai carriarmati di Tienanmen - mi dice il dissidente cinese Xu Youyu - all’inizio abbiamo temuto che fosse stato arrestato, poi che fosse morto. Su di lui si formarono delle leggende, qualcuno sosteneva che si era fatto la chirurgia plastica per non farsi riconoscere. Oggi sono propenso a credere che sia ancora vivo". Xu non divulgherà mai degli indizi che possano portare a rintracciare quell’ex contestatore, la figura-simbolo della resistenza di vent’anni fa. L’immagine fece il giro del mondo intero, divenne il simbolo della tragedia di Pechino.
È il 5 giugno 1989, già da 24 ore procede implacabile l’intervento militare per schiacciare la "primavera democratica", quando diversi fotografi occidentali affacciati alle finestre del Beijing Hotel riprendono la scena. Una colonna blindata scende lungo il Viale della Pace Eterna, di colpo è costretta a immobilizzarsi. Un giovane si è piazzato in mezzo alla strada, blocca il carroarmato di testa.
Sta ritto in piedi, con la mano sinistra tiene la giacca a penzoloni, con la destra due sacchetti di plastica della spesa. La scena sembra irreale: i tank fermi uno dopo l’altro in fila indiana, quella figura esile che sembra soggiogarli. L’autista del primo blindato fa manovra, cerca di aggirare il ragazzo sulla destra. Lui gli si para davanti di nuovo, allarga le braccia come si fa per domare una bestia. Poi il giovane fa un salto, sale sul carroarmato per parlare col soldato visibile dalla feritoia. "Tornate indietro! Smettete di uccidere il nostro popolo!" è l’urlo che i testimoni ricordano. Poi tutto accade in un attimo: il ragazzo è sceso dal blindato, ora è circondato da amici che lo aiutano a scappare.
La sua sorte è rimasta un mistero affascinante. In Occidente quelle foto divennero il ricordo di un coraggio inaudito, rafforzarono la solidarietà verso la protesta studentesca. Si è creduto che il regime cinese avrebbe fatto il possibile per catturare il protagonista di quel gesto sfrontato. Nel ventesimo anniversario del massacro, ricostruire quelle ore aiuta a capire la strategia della repressione: chi fu colpito, come, con quali priorità. La Cina di oggi è figlia del dopo-Tienanmen, quando il regime stabilì un ordine e una logica nel castigo.
Lontano da Tienanmen. "La repressione armata - ricorda Xu - non avvenne a Piazza Tienanmen ma più lontano. Le cataste di cadaveri io le vidi sulle vie Fuyou e Changan. I massacri peggiori avvennero all’ingresso dei blindati in città, e nelle aree di Fuxingmen e Muxidi". Il ragazzo che sfidò i tank senza che dai blindati partisse un solo colpo, era per fortuna troppo vicino a Tienanmen: una piazza dal potente significato simbolico, dove i leader comunisti volevano ridurre al minimo lo spargimento di sangue. Tienanmen è da secoli il luogo sacrale del potere cinese, all’ingresso della Città Proibita dove viveva l’imperatore. La sua importanza è stata rafforzata dall’iconografia rivoluzionaria: il rinascimento repubblicano della Cina si fa risalire alla manifestazione degli studenti il 4 maggio 1919 in quella piazza; Mao Zedong vi proclamò la vittoria del comunismo nell’ottobre 1949 e la sua salma imbalsamata è custodita nel mausoleo centrale. Per questo nel maggio 1989 gli studenti scelsero di lanciare proprio lì lo sciopero della fame. Per questo la propaganda del regime nelle terribili giornate di giugno si ostinava a ripetere che "nessuno era stato ucciso a Tienanmen".
Il numero delle vittime è tuttora un segreto di Stato, le stime raccolte da Amnesty International variano fra 700 e 3.000 morti. Ma le versioni concordano su questo: pochi morirono dentro il "cerchio magico", il perimetro della piazza stessa. Deng Xiaoping, l’anziano leader che orchestrò l’intervento dell’esercito, non voleva lasciare in eredità al regime comunista la maledizione di una carneficina avvenuta in un luogo troppo gravido di storia.
Nei mesi successivi la repressione seguì un criterio, non fu indiscriminata. L’intellettuale dissidente Zhang Boshu, che oggi è uno dei firmatari di Charta 08, ricorda la caccia alle streghe. "Deng e i suoi sapevano che l’uso della forza militare era stato illegale. Perciò dopo il 4 giugno gli arresti, le condanne e le deportazioni, tutto avvenne in segreto. Non ci fu un solo processo pubblico. C’erano i super-ricercati e le liste di proscrizione nei luoghi di lavoro. Le sezioni del partito comunista erano incaricate di fare le istruttorie a carico dei colpevoli. Era così in ogni luogo di lavoro, comprese le università e l’Accademia delle Scienze dove lavoro".
Zhang ricorda di essere stato fortunato, di aver scansato le punizioni più esemplari. "Eravamo tantissimi ad aver partecipato al movimento per la democrazia. Per mesi quella era stata una protesta di massa. Era impensabile punire tutti: avrebbero dovuto arrestare metà della popolazione di Pechino. Io scampai al peggio perché non ero iscritto al partito. Uno dei bersagli contro cui si accanirono dopo il 4 giugno erano i comunisti doc. La priorità di Deng era l’epurazione interna. Il nemico più odiato era la corrente dei riformisti democratici all’interno del partito, gli amici di Zhao Ziyang, il segretario generale che Deng aveva deposto con un golpe. Quella era la minaccia, perché Zhao aveva goduto di un consenso reale tra gli stessi comunisti, il partito si era spaccato in due".
Andò peggio agli operai. Due pesi e due misure si avvertirono nel diverso trattamento riservato a studenti e operai. Già l’8 giugno 1989 l’ufficio della Pubblica sicurezza di Shanghai arrestava 13 operai, 3 dei quali vennero condannati a morte e fucilati dal plotone di esecuzione. Delle 48 esecuzioni pubbliche a Pechino nei giorni seguenti nessuna ebbe per vittima uno studente. Era partita la grande operazione di recupero delle élite, la lunga marcia per cooptare intellettuali e studenti al servizio del potere. La vera lezione che i leader comunisti impararono da quelle giornate è questa: non bisogna mai più ritrovarsi "contro" la parte più istruita e moderna della società.
Per gli irriducibili cominciò la traversata del deserto, una serie di vessazioni che durano ancora oggi: promozioni negate, niente permessi di viaggio all’estero, l’emarginazione costante. Uno stillicidio di vendette che non ha impedito a Xu e Zhang di continuare la loro lotta per i diritti umani. Con tutti gli altri il regime è stato magnanime, e l’elargizione di vantaggi alle professioni intellettuali è stata redditizia. "Vent’anni dopo - ammette Zhang - non c’è all’orizzonte una forza alternativa al partito comunista, non esiste un movimento che possa guidare la transizione pacifica verso la democrazia. E’ dentro il partito comunista che deve nascere questa spinta per il cambiamento".
* la Repubblica, 4 giugno 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
2016. Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà... come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre nel ’62
di Edoarda Masi (il manifesto, 19.05.2016) *
Sono passati (cinquant’anni, ndr) anni dall’inizio della rivoluzione culturale in Cina, o meglio, da quando il movimento sfuggì dalle mani della burocrazia, dopo il dazebao della giovane Nie Yuanzi il 25 maggio 1966: per breve tempo, giacché nel corso del 1968 (febbraio o dicembre, secondo le varie interpretazioni) era virtualmente conclusa.
Esporre nelle linee essenziali le vicende di quel movimento, i suoi contenuti, i motivi della sua eccezionale importanza nella storia mondiale, le ragioni della sua sconfitta e, ad un tempo, della sua attualità, risulta impossibile.
Infatti il pubblico al quale ci si rivolge ha subìto anni di lavaggio del cervello, più che mai intenso e distruttore nell’ultimo decennio, a proposito non tanto o non solo delle questioni cinesi, quanto della conoscenza e dell’interpretazione della storia degli ultimi due secoli, delle origini e dello sviluppo del movimento operaio internazionale, degli attacchi violenti e ininterrotti ai paesi socialisti (che hanno contribuito a deformarne irrimediabilmente il carattere); per non parlare dei contenuti del pensiero socialista nelle sue diverse correnti (...)
Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà... come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre nel ’62, lanciate dalle città d’Europa in Africa, in Asia: «Partenone! Fraternità!», risuonano vuote oggi fino nel centro delle metropoli. Hanno la stessa funzione dei «variopinti legami» della società feudale di cui dice il Manifesto del partito comunista. Li ha spazzati via, divorando la stessa borghesia, un padrone anonimo come Dio indiscutibile e onnipotente, che chiamano «mercato» per non usare il termine «capitale», che sarebbe più corretto.
Il padrone anonimo domina oggi nel mondo, semina degrado dolore e distruzione anche nei paesi che avevano cercato la via socialista; anche in Cina, dopo che, con la morte di Zhou Enlai e di Mao Zedong, ebbero fine le lunghe lotte con cui prima, durante e dopo la rivoluzione culturale, si era tentato disperatamente di bloccarne l’ingresso. Si era arrivati, da parte dei rivoluzionari cinesi, a riconoscere il dominio effettivo del capitale anche nell’Unione sovietica staliniana e brezneviana (le stesse conclusioni alle quali, per altra via, è giunto Istvàn Mészàros); e ad attaccare quanti, nel Pcc, intendevano seguirne la strada: quelli che oggi sono al potere. Come già da un pezzo e ripetutamente è stato dimostrato, il degrado e la distruzione, l’allargamento oltremisura della forbice che divide i ricchi dai poveri, la stratificazione sociale sempre più rigida, la perdita di ogni reale cittadinanza da parte dei poveri - la stragrande maggioranza - non sono fenomeni marginali, difetti ai quali porre un rimedio, né residui di un passato di «arretratezza» da superare, ma il risultato del meccanismo universale in atto e la condizione stessa della sua esistenza.
Rapidamente avanzano dalla periferia verso il cuore delle metropoli: chiunque non sia del tutto cieco ne fa esperienza quotidiana. Più si aggrava l’infelicità della vita senza scopo, del lavoro idiota, del lavoro con pericolo di morte e del non lavoro, dell’assenza di umanità, della solidarietà ridotta a beneficenza, anche nelle felici metropoli, dove il nemico da combattere ha perduto anche i connotati culturali positivi della borghesia, più diventa indispensabile per quest’ultimo che la massa degli infelici sia accecata: che sia cancellata la nozione stessa di un’alternativa possibile, e la storia di quelli che per essa sono morti, a milioni nel corso di due secoli. (...)
Come raccontare allora che i giovani cinesi in rivolta già in quegli anni lontani avevano sollevato questi problemi, tentato di fare un passo oltre, verso una dimensione comunista dei rapporti umani (economici e sociali); che avevano posto con grande libertà le questioni del rapporto fra dirigenti e diretti, fra partito e popolo, fra stato e individuo; fra colti e incolti; fra le esigenze della produzione e quelle del benessere immediato di chi lavora. Nelle grandi città industriali e nei loro hinterland sperimentando forme audaci di organizzazione «orizzontale», di gestione decentrata del territorio, di imprese miste agricolo-industriali; in alcune comuni, realizzando forme inedite di gestione «dal basso». (...)
Tutta ideologia, ti diranno gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato». La sola cosa possibile, allora, è di consigliare a qualche volenteroso di ricercare i vecchi documenti , ricominciare a studiarli: anche per vedere se alla fine non possano essere di qualche utilità qui e ora.
*
(Articolo pubblicato sul manifesto il 25 maggio 2005)
Attualità del maggio cinese
Maggio 1966. Fu l’alternativa non capitalista all’arretratezza e ai modelli dell’Urss
di Tommaso Di Francesco (il manifesto, 19.05.2016)
Ma c’era un’altra possibilità per la Cina di non seguire la «linea capitalistica» per uscire dall’arretratezza e dalla subalternità nella quale era relegata nell’epoca della spartizione del mondo tra Usa e Urss?
Cinquanta anni fa questa possibilità alternativa fu rappresentata, dal 1966 al 1968, dalla Grande Rivoluzione culturale proletaria. Una linea politica che voleva per la Cina uno sviluppo «moderno» ma fondato sull’egualitarismo e sul controllo dal basso dell’economia, rifiutando inoltre l’applicazione alla Cina delle ricette fallimentari dei paesi di socialismo reale - come lo sfruttamento intensivo delle campagne per edificare una grande industria pesante che Stalin aveva voluto nelI’Urss.
La linea della Rivoluzione culturale attraversò e spaccò le fila del Pcc e del governo, e venne lanciata dal basso, dall’Università di Pechino, dai movimenti più intransigenti di studenti e quadri operai e contadini, ma anche dall’alto, dallo stesso Mao Zedong. Che la rilanciò dall’interno e contro il Partito comunista cinese. Portando così, per la prima volta nella sfera della politica monopolizzata dal Partito, la realtà dei nuovi movimenti.
Il 25 maggio 1966 sette giovani docenti e studenti dell’Università Beida affissero il primo manifesto a caratteri cubitali (dazebao). Al di là del contenuto del dazebao, la protesta era diretta, cioè non autorizzata da strutture di partito, e per questo rappresentava una ribellione aperta al Partito. Mao la legittimò, dichiarando che essa rappresentava «il manifesto della Comune di Parigi degli anni Sessanta del ventesimo secolo», e invitando tutti a fare altrettanto. E il 5 agosto affisse alla porta del comitato centrale il suo dazebao personale: «Bombardate il quartier generale».
Fu l’inizio di un vasto rivoluzionamento che dalla Cina arrivò a parlare direttamente all’Occidente. Sì, dall’arretrata Cina, a così forte composizione contadina, arrivò il messaggio «ribellarsi è giusto» e gli stessi temi - la riscoperta dell’autonomia e dell’alterità totale del proletariato, l’egualitarismo, la fine delle gerarchie, la fine della divisione sociale del lavoro, il tentativo di riequilibrare la rottura storica tra città e campagna, il valore di potere degli organismi di movimento, unica fonte di legittimità dei partiti del movimento operaio - che emergevano nelle mature società avanzate dell’Occidente e che esplosero in grandi movimenti di massa nel 1968 e nel 1969.
La natura e il fallimento di quel movimento sono ancora silenziati se non contraffatti da molti sinologi occidentali e anche da una parte dell’intellettualità cinese - dove resta difficile parlare di due cose: della Tian An Men 1989 e della Rivoluzione culturale 1966. La responsabilità della sconfitta di una linea politica ed economica egualitaria, l’unica possibile per la crescita reale di un paese fortemente arretrato che, 50 anni fa come oggi, vale un terzo dell’umanità. Rappresentando a quel punto un modello di sviluppo alternativo non solo per la Cina. Che ora, grazie alla sconfitta della Rivoluzione culturale e all’applicazione della «ricetta capitalistica» di Deng, ha invece inverato la globalizzazione diventando di fatto l’unico capitalismo esistente al mondo, ormai alle prese con la crisi profonda del capitalismo internazionale finanziarizzato - Pechino detiene fra l’altro il pacchetto dell’intero debito estero Usa.
Dunque, «tornare» a interrogarsi sulla Rivoluzione culturale non solo è necessario. Ci riguarda e la stessa Cina è tornata sui temi di fondo di quel movimento, certo più o meno consapevolmente nel tentativo di risolvere la vastità delle protesta sociale contro le diseguaglianze, questione esplosa con il caso Bo Xilai anche nel Pcc. Di fatto, solo il movimento della Tian An Men nel 1989, per un momento e tra mille ambiguità, ha portato in primo piano la possibilità di organizzare luoghi della politica e del potere, diffusi e molteplici, fuori dello stato. Lo stesso tema che la Rivoluzione culturale con il suo «assalto al cielo» aveva lasciato irrisolto.
Il tentativo della Cina degli Anni Sessanta di costruire un modello di transizione socialista diverso da quello dell’Unione sovietica, non fu atto di fideismo e fedeltà ideologica. Fu un «atto di verità», scrisse Franco Fortini, la proposta «di un rischio che si gioca di giorno in giorno, di singolo in singolo, che conta sulle proprie forze di ogni singolo... fino a far coincidere la libertà con il rischio etico».
Lettera delle Madri di Tienanmen al Congresso del popolo cinese
Sono passati vent’anni dal massacro del 4 giugno.
A Pechino, quel giorno le autorita’ cinesi uccisero residenti e pacifici dimostranti, violando gravemente la costituzione del nostro Paese e l’obbligo internazionale, per ogni stato sovrano, di farsi garante dei diritti umani. In nome dei diritti personali e di cittadinanza sono stati commessi crimini contro l’umanita’.
Da allora, le autorita’ governative hanno sminuito l’evento nominandolo solo attraverso la sua data, "il 4 giugno". Hanno inoltre proibito ai compatrioti e ai media di discuterne. La Cina, come fosse una casa di ferro [citazione dalla "Chiamata alle armi" del padre della letteratura moderna cinese, Lu Xun] chiusa ermeticamente, trattiene in se’ le voci sul 4 giugno e impedisce gli sfoghi degli invalidi e dei parenti delle vittime, ne soffoca i lamenti, i pianti e gli urli.
Voi, delegati riuniti per il Lianghui, voi membri del Comitato solennemente riuniti, riuscite oggi a sentire tutto il dolore che proviene dal 4 giugno?
Riuscite a sentire i gemiti sofferenti dei familiari delle vittime? Da allora le macchie di sangue e i proiettili sono spariti e hanno fatto posto a piante esotiche. La piazza e’ stata trasformata in un luogo pacifico e opulento. Pensate che questo possa nascondere i crimini commessi quel giorno? Pensate che possa eliminare la sofferenza dei parenti delle vittime che si rinnova anno dopo anno?
No, questo non e’ assolutamente possibile! Il 4 giugno non deve essere ricordato ne’ come "un incidente politico" ne’ come "un grave incidente politico". Quella piazza e’ il luogo della vergogna e deve essere ricordata come la piazza dei crimini contro l’umanita’. Non importa quanto forte sia il potere che abbiamo di fronte, nessuno puo’ negare che vent’anni fa le armi automatiche e i carri armati hanno spazzato via centinaia di giovani vite. Questo fatto e’ orribile!
Gli anni trascorsi non sono pochi, sono sufficienti alla crescita di una generazione. Una generazione che sta crescendo senza aver vissuto e senza poter ricordare quella carneficina. Una generazione che non sa cosa significa essere massacrati in una citta’ sotto assedio e neppure conosce la desolazione che ne segue.
In questi vent’anni si sono susseguite quattro generazioni di leader. Voi delegati riuniti per il Lianghui, voi membri del Comitato, anche voi siete cambiati, sessione dopo sessione. Nonostante la situazione storica sia profondamente diversa, sembra che ai leader del Paese e del Partito continui a far comodo che il ricordo del 4 giugno sia debole, quasi fosse un evento avvenuto nella notte dei tempi.
Anche su questo le Madri di Tiananmen non sono d’accordo. Noi crediamo che la nazione non si possa permettere di determinare in maniera vaga la natura del 4 giugno.
La versione iniziale della "soppressione della ribellione controrivoluzionaria" e quella successiva ed edulcorata della "crisi politica" devono attenersi ai fatti e permettere alla verita’ di venire alla luce. Se si accetta che Deng Xiaoping, allora presidente della Commissione militare del Comitato centrale del Pcc, sbaglio’ a dare inizio alla "soppressione della ribellione controrivoluzionaria", allora bisogna rinnegare la prima versione, correggere la procedura legale che l’ha permessa e annunciarlo all’intera societa’. Non e’ ammissibile che persistano ancora fraintendimenti sull’"incidente politico".
Il proposito delle madri di Tiananmen e’ questo: dire tutta la verita’, risolvere la questione e non credere a nessuna bugia. Noi abbiamo chiesto subito un’inchiesta, abbiamo chiesto a chi di dovere di riesaminare l’accaduto, di tornare a verificare che nessuno dei 194 caduti noti sino ad oggi ha commesso alcuna violenza. Loro sono parte delle vittime innocenti massacrate in piazza, sono morti per la giustizia e noi, per loro, dobbiamo tornare a discutere di giustizia. Non ci fermeremo fino a quando non l’avremo ottenuta. Il nostro futuro, altrimenti, dovra’ fare i conti con i fantasmi di quei morti.
Dal 1995 ogni anno le vittime e i familiari delle vittime del massacro del 4 giugno scrivono all’assemblea del popolo proponendo tre punti per risolvere la questione del 4 giugno:
aprire un’inchiesta sugli incidenti del 4 giugno ovvero annunciare pubblicamente il numero delle vittime e compilare una lista con i nomi delle persone morte;
fornire una spiegazione a ciascuno dei familiari e risarcirli secondo la legge;
scrivere un rapporto sul massacro del 4 giugno e determinarne le responsabilita’.
Tutto cio’ si puo’ sintetizzare in tre parole: verita’, risarcimento e responsabilita’. Noi abbiamo sempre aderito e continueremo ad aderire ai principi di pace e ragionevolezza. L’appello al Lianghui e alle autorita’ governative e’ uno strumento in accordo con i principi democratici e con le procedure istituzionali, e’ un modo per cercare di dialogare su una soluzione imparziale della questione del 4 giugno.
Per analizzare, spiegare e risolvere l’impasse del 4 giugno e per proseguire su una via pacifica, noi nel 2006 abbiamo proposto, in base al principio "fai prima cio’ che e’ facile e poi cio’ che e’ difficile", di rimandare ad un momento successivo le grosse controversie e i problemi su cui non e’
possibile trovare un accordo rapidamente.
Prima di tutto chiediamo di:
cancellare le restrizioni personali e i controlli alle vittime e ai parenti delle vittime del 4 giugno;
permettere ai parenti dei martiri di esprimere pubblicamente il dolore per i loro cari;
non intercettare ne’ confiscare piu’ le donazioni e gli aiuti umanitari che vengono alla nostra associazione sia dal nostro Paese sia dall’estero e, quindi, restituire l’intero importo degli aiuti congelati;
pretendere che il dipartimento del governo predisposto allo scopo, in conformita’ con l’etica di assistenzialismo, trovi lavoro e dia garanzie per uno stile di vita dignitoso alle vittime;
eliminare la nota politica di demerito ai disabili del 4 giugno. Bisogna inoltre riservare ad essi un’indennita’ sociale e pubblica e un trattamento senza discriminazione come avviene di norma per le altre persone diversamente abili.
Ancora nel 2008 ci siamo rivolti ai delegati del Lianghui per affermare che il dialogo sta sostituendo il conflitto in tutto il mondo. Anche il governo cinese, negli affari internazionali, preferisce il dialogo come mezzo di soluzione di dispute e ostilita’. Noi abbiamo molti argomenti e chiediamo alle autorita’ governative di risolvere le dispute e le ostilita’ interne alla societa’ cinese con lo stesso metodo. Se bisogna trovare un accordo sulla questione del 4 giugno e’ meglio che il dialogo sostituisca il conflitto. Questo metodo gioverebbe anche a tutte le minoranze etniche e ai compatrioti dell’assemblea plenaria. Piu’ dialogo significa piu’ cultura e piu’ legalita’ e, quindi, meno ignoranza e presunzione. Dialogo non significa indirizzare la societa’ contro i nemici ma significa indirizzare la societa’ verso la pace e la riconciliazione. Usare il metodo del dialogo per risolvere la questione del 4 giugno e’ l’unico modo per pacificare la societa’ su un accordo condiviso.
E’ passato un altro anno e, come al solito, non abbiamo ricevuto risposta.
Il presidente Hu Jintao, in un recente discorso pubblico si e’ chiesto: "Sosteniamo o no la popolazione? La assistiamo? La rendiamo felice? Siamo in grado di rispondere ai problemi esistenti con l’istituzione di politiche generali e specifiche?". Diamo il nostro benvenuto a queste problematiche, ma noi continueremo a proporre al Congresso nazionale del popolo, al Comitato centrale dell’Assemblea consultiva politica, all’intera nazione e in special modo a Pechino, di rompere il tabu’ del 4 giugno e di promuovere, per una volta, un vasto sondaggio di opinione sugli eventi del 4 giugno per vedere cosa rispondono le masse. Pensiamo che questo obiettivo non sia difficile da raggiungere.
Nel cuore delle masse cinesi e’ tutto chiaro. Il massacro del 4 giugno e’ il rivestimento di ferro costruito con abilita’ dal leader di seconda generazione Deng Xiaoping sull’intera nazione, dalle masse al leader massimo. La nazione e’ accecata dal prestigio di cui ancora gode Deng Xiaoping e preferisce abbandonare le novita’ per non cambiare il principio secondo cui "il partito determina la composizione del governo".
Questa e’ la questione piu’ difficile. L’interpretazione del 4 giugno come una "soppressione della ribellione controrivoluzionaria" ha lasciato il posto a quella che vede accadere "un serio incidente politico", ma nella pratica non e’ cambiato nulla.
Per questo abbiamo bisogno che i delegati mostrino il coraggio e l’intelligenza politica necessari a superare un tabu’. Bisogna discutere della terribile tragedia avvenuta venti anni fa per risolvere, alla luce dei fatti, la questione del 4 giugno.
Se questo accadra’, la gente comune ne ricevera’ beneficio per i prossimi mille anni.
26 febbraio 2009
Seguono 127 firme e i nomi delle 19 persone che hanno partecipato a questa ventennale battaglia ma che sono nel frattempo decedute.
* Il sole 24 ore, 31 maggio 2009
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Fonte: NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 253 dell’11 giugno 2009