ALDO CAPITINI: LA MIA OPPOSlZlONE AL FASCISMO
[Nuovamente riproponiamo il seguente articolo di Aldo Capitini originariamente apparso su "Il ponte", anno XVI, n. 1, gennaio 1960, disponibile anche nel sito www.aldocapitini.it e nel sito www.nonviolenti.org] *
Non e’ facile elevarsi su quel patriottismo scolastico che ci coglie proprio nel momento, dai dieci ai quindici anni, in cui cerchiamo un impiego esaltante delle nostre energie, una tensione attiva e appoggiata a miti ed eroi. Quaranta anni successivi di esperienza in mezzo ad una storia movimentatissima ci hanno ben insegnato due cose: che la devozione alla patria deve essere messa in rapporto e mediata con ideali piu’ alti e universali; che la nazione e’ una vera societa’ solo in quanto risolve i problemi delle moltitudini lavoratrici nei diritti e nei doveri, nel potere, nella cultura, in tutte le liberta’ concretamente e responsabilmente utilizzabili.
Quella "patria" che la scuola ci insegno’, che era del Foscolo e del Carducci, e diventava del D’Annunzio e del Marinetti, non poteva essere il centro di tutti gli interessi; e percio’ potei essere nazionalista tra i dieci e i quindici anni, ma non poi restarlo quando vidi la guerra in rapporto, meno con la nazione, e piu’ con l’umanita’ sofferente e divisa; quando dalla letteratura vociana e di avaguardia salii (da autodidatta e piu’ tardi che i coetanei) alla piu’ strenua, vigorosa, e anche filologica classicita’, vista nei testi latini, greci e biblici, come valori originali; quando portai la riflessione politica, precoce ma intorbidata dall’attivismo nazionalistico, ad apprezzare i diritti della liberta’ e l’apertura al socialismo come cose fondamentali, insopprimibili per qualsiasi motivo.
Umanitario e moralista, tutto preso dalla ricostruzione della mia cultura (eseguita tardi ma con consapevolezza) e anche dal dolore fisico, il dopoguerra 1918-’22 mi trovo’ del tutto estraneo al fascismo, anche se avevo coetanei che vi erano attivissimi: non sentii affatto l’impulso ad accompagnarmi con loro. Anzi, mi permettevo nella mia indipendenza, di leggere la "Rivoluzione liberale", di offrire lieto il mio letto ad un assessore socialista cercato dagli squadristi, e la mattina della "Marcia su Roma" sentii bene che non dovevo andarci, perche’ era contro la liberta’.
Certo, per chi e’ stato, purtroppo (e purtroppo dura ancora), educato a quel tal patriottismo scolastico, per chi non ha potuto nell’adolescenza non assorbire del dannunzianesimo e del marinettismo, qualche volta il fascismo poteva sembrare un qualche cosa di energico, di impegnato a far qualche cosa; e comprendo percio’ le esitazioni e le cadute di tanti miei coetanei, che hanno come me press’a poco gli anni del secolo.
Se io fui preservato e salvato per opera di quell’evangelismo umanitario-moralistico e indipendente, per cui non ero diventato ne’ cattolico (pur essendo teista) ne’ fascista, e preferii rinunciare alla politica attiva, a cui pur da ragazzo tendevo, scegliendo un lavoro di studio, di poesia, di filosofia, di ricerca religiosa; tanti altri, anche per il fatto di essere stati in guerra (io ero stato escluso perche’ riformato), lungo il binario del patriottismo, del combattentismo, dello squadrismo, videro nel fascismo la realizzazione di tutto.
Queste mie parole sono percio’ un invito a diffidare del patriottismo scolastico, che puo’ portare a tanto e a giustificare tanti delitti, e un proposito di lavorare per un’educazione ben diversa. Questa e’ dunque la prima esperienza che ho vissuto in pieno: ho potuto contrastare al fascismo fin dal principio perche’ mi ero venuto liberando (se non perfettamente) dal patriottismo scolastico; esso fu uno degli elementi principalmente responsabili dell’adesione di tanti al fascismo.
Ed ora vengo alla seconda esperienza fondamentale. Si capisce che mentre il fascismo si svolgeva, quasi insensibile com’ero alla soddisfazione "patriottica", mi trovavo contrario alla politica estera ed interna. Per l’estero io ero press’a poco un federalista, e mi pareva che un’unione dell’Italia, Francia, Germania (circa centocinquanta milioni di persone) avrebbe costituito una forza viva e civile, anche se l’Inghilterra fosse voluta rimanere per suo conto; ma ci voleva uno spirito comune, che, invece, il nazionalismo fece rovinare. Ebbi sempre un certo rispetto per la Societa’ delle Nazioni; e mi pareva che l’Italia avesse avuto molto col Trattato di Versailles, malgrado le strida dei nazionalisti. Approvavo il lavoro di Amendola e degli altri per un patto con gli Jugoslavi, che ci avrebbe risparmiato tante tragedie e tante vergogne.
Per la politica interna la Milizia in mano a Mussolini, il delitto Matteotti, la dittatura e il fastidio, a me lettore e raccoglitore di vari giornali, che dava la lettura di giornali eguali, l’avversione che sentivo per il saccheggio e la distruzione e l’abolizione di tutto cio’ che era stata la vita politica di una volta, le Camere del lavoro, le varie sedi dei partiti, le logge massoniche; mi tenevano staccato dal fascismo.
Sapevo degli arresti, delle persecuzioni. Dov’era piu’ quel bel fermento di idee, quella vivacita’ di spirito di riforme che avevo vissuto dal ’18 al ’24? Quanti libri liberi, riviste ("Conscientia" per esempio, che conservavo come preziosa), erano finiti! L’Italia che avrebbe dovuto riformarsi in tutto, era ora affidata ad un governo reazionario e militarista! E io ricordavo il mio entusiasmo per le amministrazioni socialiste: come seguivo quella di Milano, quella di Perugia, mia citta’! Non ero iscritto a nessun partito, non partecipavo nemmeno, preso da altro, alla dialettica politica, ma le amministrazioni socialiste mi parevano una cosa preziosa, con quegli uomini presi da un ideale, umili di condizione, e "diversi", la’ impegnati ad amministrare per tutti.
Sicche’ ero contrario al regime, e la seconda esperienza fondamentale lo confermo’: fu la Conciliazione del febbraio del ’29. Non ero piu’ cattolico dall’eta’ di tredici anni, ma ero tornato ad un sentimento religioso sul finire della guerra, e lo studio successivo, anche filosofico e storico sulle origini del cristianesimo, di la’ dalle leggende e dai dogmi mi aveva concretato un teismo di tipo morale.
Guardando il fascismo, vedevo che lo avevano sostenuto in modo decisivo due forze: la monarchia che aveva portato con se’ (piu’ o meno) l’esercito e la burocrazia; l’alta cultura (quella parte vittima del patriottismo scolastico) che aveva portato con se’ molto della scuola. C’era una terza forza: la Chiesa di Roma. Se essa avesse voluto, avrebbe fatto cadere, dispiegando una ferma non collaborazione, il fascismo in una settimana. Invece aveva dato aiuti continui. Si venne alla Conciliazione tra il governo fascista e il Vaticano.
La religione tradizionale istituzionale cattolica, che aveva educato gli italiani per secoli, non li aveva affatto preparati a capire, dal ’19 al ’24, quanto male fosse nel fascismo; ed ora si alleava in un modo profondo, visibile, perfino con frasi grottesche, con prestazione di favori disgustose, con reciproci omaggi di potenti, che deridevano alla " scuola liberale " e ai "conati socialisti", come cose oramai vinte! Se c’e’ una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista, e’ di aver chiarito per sempre che la religione e’ una cosa diversa dall’istituzione romana.
Perche’ noi abbiamo avuto da fanciulli un certo imbevimento di idee e di riti cattolici, che sono rimasti la’, nel fondo nostro; ed anche se si e’ studiato, e si sanno bene le ragioni storiche, filosofiche, sociali, anche religiose, per cui non si puo’ essere cattolici, tuttavia ascoltando suonare le campane, vedendo l’edificio chiesa, incontrando il sacerdote, uno potrebbe sempre sentire un certo fascino.
Ebbene, se si pensa che quelle campane, quell’edificio, quell’uomo possono significare una cerimonia, un’espressione di adesione al fascismo, basta questo per insegnare che bisogna controllare le proprie emozioni, non farsi prendere da quei fatti che sono "esteriori" rispetto alla doverosita’ e purezza della coscienza. La Chiesa romana credette di ottenere cose positive nel sostenere il fascismo, realmente le ottenne. Ma per me quello fu un insegnamento intimo che vale piu’ di ogni altra cosa. Non aver visto il male che c’era nel fascismo, non aver capito a quale tragedia conduceva l’Italia e l’Europa, aver ottenuto da un potere brigantesco sorto uccidendo la liberta’, la giustizia, il controllo civico, la correttezza internazionale; non sono errori che ad individui si possono perdonare, come si deve perdonare tutto, ma sono segni precisi di inadeguatezza di un’istituzione, ancora una volta alleata di tiranni.
Fu li’, su questa esperienza che l’opposizione al fascismo si fece piu’ profonda, e divenne in me religiosa; sia nel senso che cercai piu’ radicale forza per l’opposizione negli spiriti religiosi-puri, in Cristo, Buddha, S. Francesco, Gandhi, di la’ dall’istituzionalismo tradizionale che tradiva quell’autenticita’; sia nel senso che mi apparve chiarissimo che la liberazione vera dal fascismo stesse in una riforma religiosa, riprendendo e portando al culmine i tentativi che erano stati spenti dall’autoritarismo ecclesiastico congiunto con l’indifferenza generale italiana per tali cose. Vidi chiaro che tutto era collegato nel negativo, e tutto poteva essere collegato nel positivo.
Mi approfondii nella nonviolenza. Imparai il valore della noncollaborazione (anzi lo acquistai pagandolo, perche’ rifiutai l’iscrizione al partito, e persi il posto che avevo); feci il sogno che gli italiani si liberassero dal fascismo noncollaborando, senza odio e strage dei fascisti, secondo il metodo di Gandhi, rivoluzione di sacrificio che li avrebbe purificati di tante scorie, e li avrebbe rinnovati, resi degni d’essere, cosi’ si’, tra i primi popoli nel nuovo orizzonte del secolo ventesimo.
Divenni vegetariano, perche’ vedevo che Mussolini portava gli italiani alla guerra, e pensai che se si imparava a non uccidere nemmeno gli animali, si sarebbe sentita maggiore avversione nell’uccidere gli uomini.
Nel lavoro di suscitamento e collegamento antifascista, svolto da me dal 1932 al 1942, sta la terza esperienza fondamentale: il ritrovamento del popolo e la saldatura con lui per la lotta contro il fascismo. Figlio di persone del popolo, vissuto in poverta’ e in disagi, con parenti tutti operai o contadini, i miei studi (vincendo un posto gratuito universitario nella Scuola normale superiore di Pisa) ed anche i primi amici non mi avevano veramente messo a contatto con la classe lavoratrice nella sua qualita’ sociale e politica.
Anche se da ragazzo ascoltavo con commozione le musiche di campagna che il primo maggio sonavano di lontano l’Inno dei lavoratori, di la’ dal velo della pioggia primaverile, non conoscevo bene il socialismo. Avevo visto dal mio libraio le edizione delle opere di Marx e di Engels annerite dagli incendi devastatori dei fascisti milanesi alla redazione dell’"Avanti!", ma, preso da altro lavoro, non le avevo studiate.
Accertai veramente la profondita’ e l’ampiezza del mondo socialista nel periodo fascista, quando le possibilita’ di trovare documentazioni e libri (lo sappiano i giovani di ora, che se vogliono possono andare da un libraio e acquistare cio’ che cercano) erano di tanto diminuite, ma c’era, insieme, il modo di ritrovare i vecchi socialisti e comunisti, che erano rimasti saldi nella loro fede, veramente "fede" "sostanza di cose sperate ed argomento delle non parventi", malgrado le botte, gli sfregi, la poverta’, le prigioni, le derisioni degli ideali e dei loro rappresentanti uccisi ("con Matteotti faremo i salsicciotti") e sebbene vedessero che le persone "dotte" erano per Mussolini e il regime.
Ritrovare queste persone, unirsi con loro di la’ dalle differenze su un punto o l’altro dell’ideologia, festeggiare insieme il primo maggio magari in una soffitta o in un magazzino di legname, andare insieme in campagna una domenica (che per il popolo e’ sempre qualche cosa di bello), e talvolta anche in prigione: nella lotta contro il fascismo si formo’ questa unione, che non fu soltanto di persone e di aiuto reciproco, ma fu studio, approfondimento, constatazione degli interessi comuni dei lavoratori e degli intellettuali contro i padroni del denaro e del potere: si apriva cosi l’orizzonte del mondo, l’incontro di Occidente e Oriente in nome di una civilta’ nuova, non piu’ individualistica ne’ totalitaria.
Questo io debbo al fascismo, ma in quanto ebbi, direi la Grazia, o interni scrupoli o ideali che mi portarono all’opposizione. Opponendomi al fascismo, non per cose di superficie o di persone o di barzellette, ma pensando seriamente nelle sue ragioni, nella sua sostanza, nel suo esperimento e impegno, non solo me ne purificavo completamente per cio’ che potesse essercene in me, ma accertavo le direzioni di un lavoro positivo e di una persuasione interiore che dovevo continuare a svolgere anche dopo.
Il fascismo aveva unito in un insieme tutto cio’ contro cui dovevo lottare per profonda convinzione, e non per caso, per un un male che mi avesse fatto, per un’avversione o invidia verso persone, o perche’ avessi trovato in casa o presso maestri autorevoli un impulso antifascista. Nulla di questo ebbi, ed anche percio’ ad un’attiva opposizione con propaganda non passai che lentamente e dopo circa un decennio.
Posso assicurare i giovani di oggi che il mio rifiuto fu dopo aver sentito le premesse del fascismo proprio nell’animo adolescente, e dopo averle consumate; sicche’ i fascisti mi apparvero dei ritardatari. Ero arrivato al punto in cui non potevo accettare:
1, il nazionalismo che esasperava un riferimento nazionale e guerriero a tutti i valori, proprio quando ero convinto che la guerra avrebbe indebolito l’Europa, e che la nazione dovesse trovare precisi nessi con le altre;
2, l’imperialismo colonialistico, che, oltre a portare l’Italia fuori dalla sua influenza in Europa, nei Balcani e a freno della Germania, era un metodo arretrato, per la fine del colonialismo nel mondo;
3, il centralismo assolutistico e burocratico con quel far discendere tutto dall’alto (per giunta corrotto), mentre io ero decentralista, regionalista, per l’educazione democratica di tutti all’amministrazione e al controllo;
4, il totalitarismo, con la soppressione di ogni apporto di idee e di correnti diverse, si’ che quando parlavo ai giovanissimi della vecchia possibilita’ di scegliersi a vent’anni un partito, che aveva sue sedi e sua stampa, sembrava che parlassi di un sogno, di un regno felice sconosciuto;
5, il prepotere poliziesco, per cui uno doveva sempre temere parlando ad alta voce, conversando con ignoti, scrivendo una lettera, facendo un telefonata;
6, quel gusto dannunziano e quell’esaltazione della violenza, del manganello come argomento, dello spaccare le teste, del pugnale, delle bombe a mano, e, infine, l’orribile persecuzione contro gli ebrei;
7, quel finto rivoluzionarismo attivista e irrazionale sopra un sostanziale conservatorismo, difesa dei proprietari, di cio’ che era vecchio e perfino anteriore alla rivoluzione francese;
8, quell’alleanza con il conservatorismo della chiesa, della parrocchia, delle gerarchie ecclesiastiche, prendendo della religione i riti e il lato reazionario, affratellandosi con i gesuiti, perseguitando gli ex-sacerdoti;
9, quel corporativismo con una insostenibile parita’ tra capitale e lavoro che si risolveva in una prigione per moltitudini lavoratrici alla merce’ dei padroni in gambali ed orbace;
10, quel rilievo forzato e malsano di un solo tipo di cultura e di educazione, quella fascista, e il traviamento degli adolescenti, mentre ero convinto che della libera produzione e circolazione delle varie forme di cultura una societa’ nazionale ha bisogno come del pane;
11, quell’ostentazione di Littoria e altre poche cose fatte, dilapidando immensi capitali, invece di affrontare il rinnovamento del Mezzogiorno e delle Isole;
12, l’onnipotenza di un uomo, di cui era facile vedere quotidianamente la grossolanita’, la mutevolezza, l’egotismo, l’iniziativa brigantesca, la leggerezza nell’affrontare cose serie, gli errori e la irragionevolezza impersuadibile, mentre ero convinto che il governo di un paese deve il piu’ possibile lasciare operare le altre forze e trarne consigli e collaborazione, ed essere anonimo, grigio anche, perche’ lo splendore stia nei valori puri della liberta’, della giustizia, dell’onesta’, della produzione culturale e religiosa, non nelle persone, che in uniforme o no, nel governo o a capo dello Stato, sono semplicemente al servizio di quei valori.
Percio’ il fascismo, nel problema dell’Italia di educarsi a popolo onesto, libero, competente, corretto, collaborante, mi parve un potenziamento del peggio e del fondo della nostra storia infelice, una malattia latente nell’organismo e venuta fuori, l’ostacolo che doveva, per il bene comune, essere rimosso, non in un modo semplicemente materiale, ma prendendo precisa e attiva coscienza delle ragioni per cui era sbagliato, e trasformando in questo lavoro se’ e persuadendo gli altri italiani.
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 171 del 25 aprile 2008
Aldo Capitini e’ nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato, docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la nonviolenza e la pace. E’ morto a Perugia nel 1968. E’ stato il piu’ grande pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia.
Opere di Aldo Capitini: la miglior antologia degli scritti e’ (a cura di Giovanni Cacioppo e vari collaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche’ integrale - ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell’epoca - bibliografia degli scritti di Capitini); recentemente e’ stato ripubblicato il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d’ombra, Milano 1989; una raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione, Linea d’ombra, Milano 1991, nuova edizione presso L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996; segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri, Edizioni Associate, Roma 1991; e la recente antologia degli scritti (a cura di Mario Martini, benemerito degli studi capitiniani) Le ragioni della nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004.
Presso la redazione di "Azione nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org) sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di Capitini non piu’ reperibili in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di un’esperienza religiosa, 1937, e Il potere di tutti, 1969). Negli anni ’90 e’ iniziata la pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un volume di Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione ampliata, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998.
Opere su Aldo Capitini: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno: Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di), Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988; Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini. Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi Aldo Capitini", Elementi dell’esperienza religiosa contemporanea, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998, 2003; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante, La realta’ liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999; Pietro Polito, L’eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta 2001; Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella, Assisi 2004; Massimo Pomi, Al servizio dell’impossibile. Un prof ilo pedagogico di Aldo Capitini, Rcs - La Nuova Italia, Milano-Firenze 2005; Andrea Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini, Clinamen, Firenze 2005; Marco Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Ega, Torino 2007; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in Angelo d’Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001; per una bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro Polito citato; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel sito dell’Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: www.aldocapitini.it, altri materiali nel sito www.cosinrete.it; una assai utile mostra e un altrettanto utile dvd su Aldo Capitini possono essere richiesti scrivendo a Luciano Capitini: capitps@libero.it, o anche a Lanfranco Mencaroni: l.mencaroni@libero.it, o anche al Movimento Nonviolento: tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta@sis.it o anche redazione@nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org
Dove è finita la nonviolenza?
di Luca Rolandi (La Stampa/Vatican Insider, 22 gennaio 2012)
La nonviolenza ha perso oppure, nel lungo periodo storico, attraverso nuovi interpreti potrebbe insegnare ancora prospettive di convivenza civile agli uomini della società post-moderna e ipertecnologica? A cinquant’anni dalla nascita del movimento italiano a che punto è la sensibilità su un concetto di vita che appassionò migliaia di giovani tra gli anni Sessanta e Settanta e che oggi segna il passo. Se il 24 settembre 1961 su iniziativa di Aldo Capitini, il padre della nonviolenza in Italia, si marciava per la prima volta da Perugia ad Assisi in nome della pace, quattro mesi più tardi nel gennaio 1962, con un documento ufficiale, dalla sua Perugia, il filosofo liberalsocialista indicava nel movimento nonviolento per la pace il luogo dove “aderiscono pacifisti integrali, che rifiutano in ogni caso la guerra, la distruzione degli avversari, l’impedimento del dialogo e della libertà di informazione e di critica. Il movimento - concludeva l’appello manifesto - prende iniziative per la difesa e lo sviluppo della pace e promuove la formazione di centri in ogni luogo”.
All’inizio degli anni Sessanta vi erano in Italia quattro realtà: il centro costituito da Capitini, una sezione del WRI (World Resisters’ International) e il Movimento Internazionale della Riconciliazione (Mir), sezione italiana della International Fellowship of Reconciliation e infine il Centro studi di Partinico fondato e animato da Danilo Dolci. I movimenti giovanili guardavano con interesse, sempre crescente la radicalità della proposta capitiniana. Il Partito radicale aderiva ufficialmente al WRI, la Lega degli Obiettori di Coscienza e quella sul Disarmo Unilaterale, erano il ponte verso il dialogo con la sinistra e i movimenti giovanili. Il pensatore perugino aveva cercato di trasferire le idee gandhiane in funzione nazionale con una serie di adesioni nel mondo della cultura, della politica e della religione; da Norberto Bobbio a Giovanni Arpino, da don Lorenzo Milani a padre Ernesto Balducci. La lotta per l’affermazione dell’obiezione di coscienza il traguardo possibile verso una società diversa e “aperta” secondo la visione di Capitini.
In questi giorni, i “reduci” di quello che ancora oggi è l’arcipelago nonviolento si riuniscono a Verona per rilanciare un movimento afasico che ha attirato sempre meno adesioni tra le nuove generazioni.
Il primo relatore del congresso Goffredo Fofi, saggista e critico, ricercatore delle ragioni delle minoranze precisa: “La nonviolenza non può oggi che venir portata avanti da minoranze di "persuasi", il cui esempio (la disobbedienza civile) dovrebbe riuscire a mobilitare altri e numerosi. Proprio perché il mondo è sempre più violento, e sempre più sembra destinato a diventarlo, la nonviolenza e la disobbedienza civile (e aggiungo: le forme dell’autorganizzazione di base e dal basso, il mutuo soccorso tra i più colpiti dalle crisi e dall’esclusione sociale) mi sembrano siano temi e iniziative di grandissima attualità, e me ne aspetto - insieme all’aumento della barbarie... - e me ne auguro una rinascita e una nuova stagione”.
“Anche se non vengono molti segni di vitalità dai gruppi nonviolenti storici e consolidati - aggiunge il direttore de “Lo Straniero” - “che sembrano piuttosto fermi e che non sono in grado di affrontare la novità dei tempi portando avanti e attualizzando le posizioni tradizionali, sono convinto che una ripresa della nonviolenza sia inevitabile, una necessità di cui molti stanno già rendendosi conto, se c saprà portare avanti forme nuove o rinnovate di disobbedienza civile. Su questo punto avverto un grave ritardo delle chiese cristiane in fatto di teoria e pratica della nonviolenza”.
“In cinquant’anni sono cresciute molto le ricerche sul metodo nonviolento per la risoluzione dei conflitti” - afferma il professor Nanni Salio, fisico di scienziati contro la guerra e soprattutto animatore del movimento nonviolento a livello internazionale - “la letteratura è vasta e di altro profilo il contributo di intellettuali e teorici come Giuliano Pontara, Johan Galtung e soprattutto Gene Sharp dal quale hanno tratto ispirazione molte delle componenti delle mobilitazioni della primavera araba in particolare in Tunisia ed Egitto.
Paradossalmente l’arretramento è avvenuto sul piano politico - sottolinea Salio - “Oggi scarseggiano gli interlocutori e il movimento non ha più l’eco degli anni Settanta e Ottanta. Anche se ci sono una serie di movimenti Occupy Wall Street e gli Indignados che in un certo senso sono esempi di lotta almeno pragmaticamente nonviolenta”. “Inoltre” - termina Salio - “ Anche se il movimento nonviolento è rimasto una nicchia sul piano numerico anche per una scarsa qualità organizzativa, vi sono anche esempi di pratiche realizzate di difesa nonviolenta, poco note, come la rete dei corpi civili di pace costituita da gruppi in Italia e all’estero, che agiscono con risorse limitatissime in situazione di conflitto armato intervenendo con metodologie di lotta nonviolenta per esempio in Palestina, Kosovo e in Sri Lanka”.
Enrico Peyretti, insegnante, giornalista e studioso della nonviolenza afferma “Esiste un problema di immagine negativa del termine nonviolenza, che induce l’opinione pubblica a considerarla come una dimensione di arrendevolezza. L’accusa nei confronti dei nonviolenti è di essere poco realisti e di compiacersi troppo della propria utopia. Si tratta di una critica ingenerosa nulla di più lontano dalla teoria e pratica promossa e attuata da Gandhi e dai suoi seguaci.
La nonviolenza non è rassegnazione o vacazione al martirio, al contrario tentativo di risoluzione dei conflitti umani in modo disarmato. Essa è entrata nella dimensione anche religiosa in modo molto più ampio e concreto rispetto al passato, anche se i fondamentalismi minano questa prospettiva. Dal punto di vista politico ho l’impressione che la nonviolenza segni il passo. In un certo senso i nonviolenti si separano dalle proteste di ogni genere disposte a tutto (dai movimenti antiglobalizzazione alle violenze di Roma alla manifestazione degli indignati dell’ottobre scorso). Se ci fosse più ascolto della sostanza della ricerca nonviolenta credo che non si rifiuterebbe e porterebbe nuova linfa ai coloro che si sforzano di pensare percorsi sociali e politici globali”.
Sul rapporto religione e nonviolenza, lavora il professor Alberto De Sanctis, dell’Università di Genova che nel suo recente “La fede ribelle” scrive “si è spesso trascurata la rilevanza di una critica religiosa del potere - anche di matrice cattolica - che ha svolto invece una funzione sociale e politica importante. Proprio muovendo da presupposti religiosi, questa critica ha saputo contrastare il potere, ogniqualvolta abbia rivestito i panni del totalitarismo e dell’autoritarismo. Anche se oggi da un lato assistiamo ad un disordinato ribellismo e dall’altro si avverte la mancanza una profezia delle fede che sia lievito nella società”.
"La scelta tra violenza e nonviolenza concerne pertanto l’umanità che si intende promuovere. Si desidera un’umanità in cui il dissenso induce alla soppressione - anche fisica - di chi la pensa diversamente? Oppure un’umanità in cui la dimensione del conflitto e finanche l’aggressività possano svolgere una funzione costruttiva, perché capaci di situarsi all’interno di una relazione, che perdura, oltre lo scontro e il conflitto? D’altro canto, ciò si ripercuote in un modo di costruire la politica come frutto di relazione, che decreterebbe il definitivo superamento di un modo di pensare la politica come scissione con l’etica, come divorzio con quella stessa morale, che i singoli sono chiamati ad osservare nella propria vita privata. Tale elemento mi pare quanto mai attuale in un periodo in cui il distacco tra la politica intesa come privilegio di casta e la vita e la sofferenza quotidiana di milioni di persone si fa palese".
Chi pensa positivo, ma non potrebbe che essere altrimenti, è Mao Valpiana, il presidente del Movimento Nonviolento in Italia e direttore della rivista “Azione Nonviolenta” “Sono stati fatti progressi e il bilancio è positivo, anche se restano molte insufficienze. Oggi la nonviolenza è una spina nel fianco con il quale il potere deve fare i conti, per decenni, in Italia, è stata totalmente ignorata e in alcuni casi addirittura ridicolizzata.
Negli anni Settanta era stata anche osteggiata. Ma già nel dopoguerra Aldo Capitini, che non ebbe la possibilità di dare il suo contributo alla Costituente, diceva che, dopo la ubriacatura dei totalitarismi bisognava rieducare le nuove generazioni a parlare ed ascoltare. Da allora molto è cambiato. La nonviolenza si manifesta e vive non solo negli obiettivi da raggiungere ma anche nel metodo che si sceglie di fare le proprie battaglie. E questo è motivo di confronto e anche dissenso nei confronti di moltimovimenti sociali che oggi operano nella società.
C’è un legame profondo tra il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza, le migliaia di giovani che hanno scelto il servizio civile come alternativa culturale al modello militare, le campagne degli anni Ottanta sulla riduzione delle spese militari e i movimenti sociali per i diritti di oggi. Sono gli interlocutori politici a latitare: dopo i radicali negli anni Settanta, i Verdi degli anni Ottanta e la svolta nonviolenta dei comunisti di Bertinotti, oggi si fatica a dialogare fuori dai movimenti” “Al congresso di fine gennaio - dice Valpiana - abbiamo deciso di rilanciare la campagna sul disarmo come elemento comune d’impegno dal punto di vista economico con la riconversione in investimenti per l’ambiente, il sociale globale e la sicurezza, per depotenziare le forti tensioni e rilanciare i temi della cooperazione, l’accoglienza e il dialogo interculturale.
Sulle prospettive prevale il realismo scettico di Fofi: “La nonviolenza segna il passo laddove considera più importante una pratica di perfezionamento individuale o di gruppo che l’incisività sociale e politica delle sue tante possibili dimostrazioni. In particolare la pratica della disobbedienza civile, che Gandhi considerava connaturata alla nonviolenza, e sua espressione pratica, va considerata come strumento di mobilitazione di singoli e di gruppi in grado di trascinare più persone ad influire radicalmente sul cambiamento della società. Si parla troppo poco, in generale, di disobbedienza civile, anche se oggi rivestirebbe un ruolo fondamentale in ogni società e di cui - altrove, per esempio a New York o in Spagna - si sono avute di recente grandi dimostrazioni”.