di Federico La Sala *
1.
Esportare la Democrazia è possibile, ma l’ostacolo è il monoteismo. Questo il titolo di presentazione del Corriere della Sera (3.4.2007), in anteprima, di una pagina della nuova edizione del saggio di Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è?. E questo è l’avvio del discorso:
"Al quesito se la democrazia sia esportabile, si può obiettare che la democrazia è nata un po’ dappertutto, e quindi che gli occidentali peccano di arroganza quando ne parlano come di una loro invenzione e vedono il problema in termini di esportazione. Questa tesi è stata illustrata in un recente libriccino (tale in tutti i sensi) intitolato La democrazia degli altri dell’acclamatissimo premio Nobel Amartya Sen. A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia - e più esattamente la liberaldemocrazia - è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La democrazia degli altri non c’è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia, che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato ’in grande’. Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l’imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è così, è così. Le cose buone io le prendo da ovunque provengano. Per esempio, io sono lietissimo di adoperare i numeri arabi. Li dovrei respingere perché sono arabi? Allora la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile". (...) “Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell’ostacolo delle religioni monoteistiche. Il problema va inquadrato storicamente così".
2.
Gian Maria Vian - in una nota apparsa sull’Avvenire (4.4.2007), dal titolo Monoteismi e democrazie: che gaffe! - commenta e, contro la semplificazione di Sartori (innanzitutto, e dello stesso Corriere), sollecita a riflettere con minore superficialità e a non semplificare la complessità della questione: "Adombrando una squalificazione dei monoteismi tanto diffusa quanto storicamente debole, la tesi dimentica che la culla della democrazia è la tradizione occidentale, secolarizzata quanto si vuole ma storicamente cristiana, e cioè, fino a prova contraria, monoteista. Non si può poi dimenticare che Israele, radicato in una tradizione culturale altrettanto monoteista, è da oltre mezzo secolo un modello di democrazia nel vicino Oriente (dove democratico era fino a un trentennio fa anche il Libano, certo non politeista). Infine, come essere sicuri che i problematici rapporti tra islamismo e democrazia siano dovuti al suo monoteismo? Il punto insomma non è questo, e se tanti sono gli ostacoli della democrazia tra questi certo non vi sono le religioni monoteistiche".
3.
Ora, se è vero - come è vero - che la democrazia si fonda sull’idea di autonomia dell’uomo (dell’uomo e della donna!) e che la premessa della modernità è l’autonomia (dell’uomo e della donna!), non è ancora e affatto altrettanto chiaro cosa significa quell’"auto" premesso a "nomia". E, se non vogliamo perdere quanto conquistato, non possiamo ripetere all’infinito sempre lo stesso ritornello: illuminismo, illuminismo!!! La conoscenza di sé ("auto") non è finita e non è affatto e ancora ben de-finita: "La più utile e meno progredita di tutte le conoscenze umane mi sembra quella dell’uomo" (J.J. Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, Prefazione). E, necessariamente, non possiamo non riprendere l’interrogazione e il cammino: "Chi siamo noi, in realtà?" (Nietzsche) e "Sapere aude!".
Locke e Rousseau, come Kant, hanno fatto un grande lavoro, ma - se non vogliamo smettere di pensare e porre davvero fine all’avventura umana - dobbiamo continuare a portarlo innanzi. C’è un nodo non sciolto al fondo del loro pensiero ed è proprio il nodo di "dio". Vogliamo chiarircelo o no?!
"Se la Divinità non esiste, solo il cattivo ragiona, il buono non è altro che un insensato" (Emilio). J.J. Rousseu è il primo grande maestro del sospetto (dopo vengono Marx, Nietzsche, e Freud - e grazie a lui!): "Non concediamo nulla ai diritti della nascita e all’autorità dei padri e dei pastori, ma richiamiamo all’esame della coscienza e della ragione tutto quello che loro ci hanno insegnato fin dall’infanzia"(Emilio).
Locke polemizza con il cattolicesimo e l’ateismo quali "religioni" incompatibili con l’orizzonte democratico; Rousseau - pur polemizzando anch’egli duramente con il cristianesimo storico come una religione altrettanto incompatibile con una società democratica e tentando di pensare meglio la democrazia dei moderni - sottolinea tuttavia con forza la grande differenza tra Socrate e Gesù: "Quali pregiudizi, quale cecità (quale malafede) non bisogna avere per osar paragonare il figlio di Sofronisco col figlio di Maria! Che distanza c’è dall’uno all’altro!"(Emilio). Ma "la religione di preti" riesce ad accecarlo, e a non fargli vedere la connessione tra l’altro "mondo possibile" a cui egli stesso pensa e quello del messaggio evangelico: "Gesù Cristo, il cui regno non era di questo mondo, non ha mai pensato a dare un pollice di terra a nessuno, e non ne possedette mai lui stesso; ma il suo umile vicario, dopo essersi impadronito del territorio di Cesare, cominciò a distribuire il comando del mondo ai servitori di Dio" (Frammenti politici).
Rousseau cerca in tutti i modi di impostare bene il "trattato le cui condizioni siano eque" (Virgilio, Eneide, XI), ma perde il filo e, alla fine, si ritrova a riproporre la religione dei romani - la "religione civile", contro la "religione romana", cattolica! Senza volerlo, prepara la strada "cattolico-romana" a Fichte, a Hegel, a Marx, a Gentile e a Lenin.
Kant reimposta il problema e riparte, bene: "tutto proviene dall’esperienza, ma non tutto si risolve nell’esperienza" o, diversamente, tutto viene dalla natura ma non tutto si risolve nella natura; alla fine egli non riesce a sciogliere il nodo e resta in trappola. Al di là del mare di nebbia non può andare e - per non distruggere i risultati della sua esplorazione - si accampa lì dove è riuscito ad arrivare e decide: Io voglio che Dio esista.
Per Kant, Rousseau e Newton, come Locke, non sono stati affatto cattive guide per il suo viaggio. Il suo cammino è stato lungo, fruttuoso e coraggioso: la Legge morale dentro di me, il Cielo stellato sopra di me! E, onestamente, rilancia di nuovo la domanda antropologica, quella fondamentale: "Che cosa è l’uomo?". Teniamone conto.
Ciò che essi cercavano di capire e quindi di sciogliere era proprio il nodo che lega il problema "religioso", il legame "sociale", il problema di "Dio", il problema della Legge, non quello o quella dei Faraoni e quella di una Terra concepita come un "campo recintato" o assoggettata alla "Moira" di Orfeo e alla Necessità.
Filosoficamente, è il problema dell’inizio ... e, con esso, dell’origine e dei fondamenti della disuguaglianza tra gli esseri umani. Il problema J.J. Rousseau, dunque: No King, no Bishop! Il problema della Legge - e della Lingua: il problema stesso del principio di ogni parola, la Langue, Essai sur l’origine des langues! Da dove il Logos e la Legge?! E, con queste domande, siamo già all’oggi, agli inizi del ’900: Ferdinand de Saussure! Ma ritorniamo al problema politico, della Legge della Polis o, come scrive Rousseau, della Cité. La questione è decisiva ed epocale: ed è al contempo questione antropologica, politica, e "teologica". In generale è la questione del rapporto Uno-Molti - una questione lasciata in eredità da Platone, e riproposta da Rousseau, nei termini del rapporto volontà generale - volontà di tutti o del cosiddetto "uno frazionario", e risolta ancor oggi nell’orizzonte moderno (cartesiano) - dopo Cristo, come dopo Dante, Rousseau e Kant - in modo greco, platonico-aristotelico. Una tragedia, e non solo quella di Nietzsche. In tutti i sensi.
Se continuiamo a truccare le carte e confondiamo l’Uno al numeratore con un "uno" degli "uno" o delle "uno" al denominatore finiremo per cadere sempre nella trappola della dittatura, e nel dominio del "grande fratello". E non riusciremo mai a distinguere tra "Dio" Amore [Charitas], e "Dio" Mammona [Caritas] - tra la "volontà generale" dell’Uno e la "volontà generale" di "uno", camuffato da "Uno". Liberare il cielo, pensare l’ "edipo completo" - come da progetto di Freud.
Vedere solo i molti (gli individui, meglio gli uomini e donne in carne ed ossa, le persone) che agiscono, discutono e lottano, e non vedere l’Uno, che è il Rapporto e il Fondamento di tutti e il Rapporto dell’Uno stesso con tutti i vari sotto-rapporti (economici, politici, religiosi, giuridici, pedagogici, familiari, e, persino, di amicizia) dei molti e tra i molti ... non porta da nessuna parte, se non alla guerra e alla morte. In tale orizzonte (relativistico, scettico e nichilistico), chi vuole guidare chi, che cosa può fare, che cosa può insegnare, che cosa può produrre ... se non il suo stesso "uno" - allo specchio? Un narcisismo personale e istituzionale, imperialistico e ... desertificante!
È elementare, ma è così - come scriveva l’oscuro di Efeso, Eraclito: "bisogna seguire ciò che è comune: e ciò che è comune è il Logos" - la Costituzione, prima di ogni calcolo, per ragionare bene. La Costituzione è il fondamento, il principio, e la bilancia!!! Questo è il problema: la cima dell’iceberg davanti ai nostri occhi, e il punto più profondo sotto i nostri stessi piedi!!! E se non vogliamo permanere nella "preistoria" e, anzi, vogliamo uscirne, dobbiamo stare attenti e attente e ripensare tutto da capo, dalla radice (Kant, Marx), dalle radici: gli uomini e le donne, i molti, e il Rapporto-Fondamento che li collega e li porta - al di là della natura - nella società, e li fa essere ed esseri umani - dopo il lavoro in generale, il rapporto sociale di produzione in generale è la questione all’ordine del giorno nostro, oggi.
Riprendiamo. Allora, come si passa dalla "solitudine" naturale alla "solidarietà" sociale, e cosa svela questa a quella? Vediamo. "Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che ad esso non è essenziale, ci si accorgerà che si riduce ai seguenti termini [...] al posto della singola persona di ciascun contraente, quest’atto di associazione dà vita a un corpo morale e collettivo, composto di tenti membri quanti sono i voti dell’assemblea; da questo stesso atto tale corpo riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così mediante l’unione di tutte le altre, assumeva in altri tempi il nome di Cité, e prende ora quello di repubblica [...]"(Contratto Sociale).
Cosa sta cercando di pensare Rousseau? Cerca di chiarirsi e di chiarirci il passaggio dal naturale "stato" di tanti "uno" (1.....1) al "nuovo stato" realizzato dal patto stesso - quello di UNO/molti, UNO/1+1...+1+1+1. Questo è il nuovo "soggetto" e questo il nuovo "fondamento" - la misura di tutte le cose, di quelle che esistono e di quelle che non esistono. E questo Uno non è mai un "uno", ma è il Rapporto Sociale che dà sostanza e fondamento a tutti gli "uno".
Basta con le robinsonate! Se è vero che "questa Terra è un’isola"(Kant), non è affatto e altrettanto vero che l’uomo si fa da solo (self made man)! Noi siamo sempre in relazione - dalla nascita alla morte, e in tutti gli ambiti: esseri umani, solo in società - né dio né bestia, già Aristotele.
Che cosa svela il "patto di alleanza"? Svela che "Dio esiste", che "solo Dio è sapiente"(Socrate), "solo Dio è buono" (Gesù), e che noi stessi siamo i figli e le figlie di "Dio!!! Che i soggetti che fanno Uno sono due (1+1) e, nel momento in cui fanno Uno, avviene la loro "trasmutazione" (da "padri" e "madri" in "figli" e "figlie" del loro stesso "Figlio" ... che è il loro stesso "Padre" che li ha generati) e, così, il ri-conoscimento della loro differenza e della loro identità. E come 1 e 1, che hanno superato la loro ideologica e naturalistica isolatezza e sono diventati Uno (1+1....+1), aprono gli occhi sulla "natura" e "dio" e - "faccia a faccia" - vedono "Dio" stesso! “Vere duo in carne una”: un’altra "scienza della logica" e un’altra "logica della scienza".
In democrazia, e nella democrazia non borghese, non vale più la logica dell’amico-nemico (la logica dialettica del padrone-servo), ma la logica dell’amico-amico, una logica chiasmatica e accogliente, nel rispetto reciproco della propria e della comune sovranità, concessaci dal nostro stesso rapporto, patto di alleanza - di fuoco di vita, non di distruzione e di morte infernale!
4. Italia. Non confondiamo i livelli... e cerchiamo di non perdere la bussola della nostra sana e robusta Costituzione. Pensare e pensare, ma pensiamo democraticamente e correttamente. "Forza Italia": Non è possibile e non è accettabile! È necessario continuare a tentare, continuare a cercare (cercate ancora: come ha detto, scritto e ricordato poco tempo fa, il ‘vecchio’, indomabile, libero e fiero Pietro Ingrao in onore di Luigi e di Giaime Pintor, ma anche di Claudio Napoleoni, che amava questa indicazione immortale). Non facciamo i furbi e le furbe, e soprattutto non accechiamoci reciprocamente né accechiamo gli altri e le altre che hanno i piedi e il cuore sulla base del nostro stesso Fondamento e la vita nell’orizzonte della nostra stessa Alleanza. In giro già ci sono tanti pifferai ciechi, con strumenti sempre più sofisticati, pronti a farlo. Per questo, quale indicazione? Chi si vuole porre fuori dal patto dell’Alleanza costituzionale, è libero di farlo ma non si metta sulla strada di Epimenide il Cretese, non si venda al mentitore e non faccia apologia di Baal-lismo!
L’"io voglio che Dio esista" di Kant - non dimentichiamolo - è da coniugare con la negazione della validità della “prova ontologica” e non ha nulla a che fare con tutti gli idealismi platonici o cartesiani ed hegeliani e marxisti, e porta alla conciliazione dell’"uno" con l’altro "uno" e di "Dio" con il mondo. Ma, a questo punto, con Kant come con Dante (Gioacchino da Fiore e Marx e Nietzsche e Freud ed Enzo Paci), siamo al di là di Hegel e dell’imperialismo logico-romano - alla Fenomenologia dello Spirito ... dei Due Soli. Sulla Terra, nell’oceano cosmico (Keplero, Bruno). La "rivoluzione copernicana" è ... appena agli inizi: Plus ultra (Bacone), "Sapere aude!"(Kant) - a tutti i livelli. Ed è "una seconda rivoluzione copernicana" (Th. W. Adorno).
* Fonte: Inattuali/Storia
Parmenide (Wikipedia)
Sui temi accennati in questa nota, mi sia lecito, si cfr.:
La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica di Federico La Sala, pubblicato nel 1991 da Antonio Pellicani Editore, Roma.
Della terra, il brillante colore. Note sul “Poema” rinascimentale di un ignoto Parmenide Carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989) di Federico La Sala, pubblicato nel 1996 da Ripostes Edizioni, Roma-Salerno.
L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria in forma di lettera aperta di Federico La Sala, pubblicato nel 2001 da Ripostes Edizioni, Roma-Salerno.
* Fonte: Il dialogo, Sabato, 21 aprile 2007
SULL’IDEOLOGIA "FARAONICA" DI IERI E DI OGGI: L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura".
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA:
IL"CARINO" DI UNO STUDENTE E IL "CERCATE ANCORA" DI CLAUDIO NAPOLEONI (1990)!
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! Ricordando ancora con stima la sollecitazione #critica di Claudio Napoleoni a non addormentarsi nel #sonnodogmatico dominante, mi permetto di #pensare che lo #studente, nella sua risposta, si riferisse al #costo economico del #libro (non al contenuto) e, al contrario, fosse molto pertinente! A ben riflettere, il "carino" avrebbe dovuto allarmare il prof. e fargli #apriregliocchi e le orecchie sulla "#doppiezza" della "#carità" cattolico-paolina, nel suo significato "mercantile" ("#caritas": "caro-prezzo" e "caro-affetto") e #accogliere con #grazia la ironica sottolineatura dello studente!
"SAPERE AUDE!" (KANT, 1784; MICHEL FOUCAULT, 1984))."Da dove iniziare, volendo recuperare, soprattutto ora, il pensiero e l’opera - complessa, molteplice, culturalmente alta - di Claudio Napoleoni?" (cfr. Lelio Demichelis, "Cercare ancora. Il capitalismo, la tecnica, l’ecologia e la sinistra scomparsa. L’attualità di Claudio Napoleoni", Economia&Politica, 26 Aprile 2020).
FILOLOGIA E STORIOGRAFIA DELLA STORIA D’ITALIA E "LA GENTE DALLA DOPPIA TESTA" (PARMENIDE).
DI COSA PARLANO GLI STORICI E LE STORICHE DELL’ITALIA QUANDO PARLANO E SCRIVONO DI STORIA D’ITALIA?
Parlano di "Dio" o di Dio, di "Patria" o di Patria, di "Famiglia" o di Famiglia? Siamo fratelli tutti, ma di quale famiglia, di quale patria e di quale Dio - quello di Italia o di "Italia"?
Archeologia, Antropologia, Giustizia, e Costituzione: "Homo pontifex" (MichelSerres). Per uscire dall’orizzonte del mentitore, forse, è opportuno ritornare a Elea e rivisitare la città di Parmenide e Zenone: la cosiddetta "Porta Rosa" non è affatto una "porta", ma è un viadotto, un ponte...
Resistere ancora, a distanza di settantacinque anni
di Teresa Simeone *
La domanda, che ritorna ogni anno, con periodica vis polemica, “Che senso ha celebrare la Festa della Liberazione? E liberazione da cosa, se ormai viviamo in una democrazia?” chiama ancora in causa la nostra concezione di libertà e di società e rimanda a eventi che, sia pure storicamente collocati, continuano a interrogarci come cittadini e soggetti eticamente connotati.
Non è certo un falso il consenso altissimo di cui per lungo tempo il regime riuscì a godere, almeno fino al 1938, anche presso raffinati intellettuali della cui adesione si servì per legittimare, in campo internazionale, la propria continuità. Tale consenso poi, lentamente, iniziò a scendere per dissolversi nell’impietosa conta giornaliera dei morti in guerra: rinnegata dai suoi stessi capi in quel luglio del ’43, l’ideologia fascista non cessò di esistere ma si autoconfinò in un’area del Nord, lì ridotta a patetico ologramma del Terzo Reich. Dal tragico 8 settembre, com’è storia, iniziarono l’occupazione nazista, le massicce deportazioni di ebrei verso i campi di sterminio e si consumarono le stragi di civili più feroci che il territorio italiano abbia vissuto. Stragi che raggiunsero il culmine intorno alla metà del ’44, con il consolidarsi delle formazioni resistenziali, finalizzate a spezzare il legame tra la popolazione e i partigiani italiani, che avevano unito la propria alle voci dei migliaia che combattevano nel resto d’Europa. E, finalmente, quel 25 aprile, scelto come data simbolica della rinascita, si poté festeggiare.
Tre giorni dopo, ha scritto Norberto Bobbio, quando i partigiani entrarono a Torino e i tedeschi, seguiti dai fascisti, furono messi in fuga, “Fu come se un vento impetuoso avesse spazzato d’un colpo tutte le nubi e alzando gli occhi potessimo rivedere il sole di cui avevamo dimenticato lo splendore; o come se il sangue avesse ricominciato a scorrere in un cadavere, risuscitandolo. Un’esplosione di gioia si diffuse rapidamente in tutte le piazze, in tutte le vie, in tutte le case. Ci si guardava di nuovo negli occhi e si sorrideva.” Si poteva ricominciare a sperare. “Eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi.”[1]
Quella libertà, per tutti, per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro, come disse in seguito Arrigo Boldrini, non fu un regalo né un miracolo, ma la conquista di chi, contro ogni calcolo sulla sproporzione delle forze, aveva creduto nell’“ottimismo della volontà” e con coraggio aveva scelto da che parte stare. Lo fece in giorni bui, in cui decidere non era ininfluente per la propria vita. E questo avvenne in tutta Europa. Chi contesta la Resistenza dovrebbe dire, con onestà, cosa avrebbe fatto in quei giorni e cosa avrebbe voluto: la vittoria della Germania nazista? L’estensione del potere hitleriano sull’Europa intera? I campi di sterminio per quanti non rientrassero nel concetto di “normalità” fisica, sociale, religiosa, politica, stabilita dal fuhrer? O forse avrebbe preferito che non sorgesse, dalla coscienza dei popoli, un movimento di ribellione e che si lasciasse ai soli eserciti in campo la difesa della propria libertà? Che non si sentisse il dovere di reagire, quel dovere che solo ha consentito di salvare la dignità di cittadini e di esseri umani? Che permise ad Alcide De Gasperi nel ‘46, alla conferenza di Parigi, di non piegare la testa e di pronunciare parole autenticamente importanti perché di un antifascista convinto, portavoce di un paese che aveva saputo liberare se stesso dal regime e rivendicare una presenza proprio grazie alla lotta di liberazione. Facendo pesare, perché ce ne erano stati a migliaia, i morti di questa battaglia di civiltà.
Tanti uomini e tante donne vi avevano partecipato, ciascuno a suo modo: imbracciando le armi; organizzando la difesa; aiutando i gruppi partigiani; ciclostilando volantini; anche solo tacendo e non tradendo; nascondendo chi era braccato; procurandogli documenti falsi; rifiutando di allearsi con il nemico e di lavorare per lui, come fecero gli oltre 600.000 IMI, troppo a lungo ai margini della storiografia, forse perché simbolo di una sconfitta, di una tragedia che il paese voleva dimenticare in fretta, ma di cui la ricerca sui documenti sta faticosamente ricostruendo il dramma. Costoro, intenzionalmente non equiparati dai nazisti a prigionieri di guerra e dunque privati delle tutele loro dovute, “invitati” a collaborare, rifiutarono di arruolarsi nelle forze armate tedesche e repubblichine, pagando nei lager con condizioni durissime, spesso con la vita, la loro “resistenza passiva”.
Resistenza armata, Resistenza disarmata, Resistenza civile: forme diverse assunse la Resistenza, ma ci fu. E dev’essere ricordata perché fu storia di tanti. Non di tutti, certamente. E anche di questo non sarebbe giusto chiedere conto. Erano tempi difficili, di scelte tragiche cui, per fortuna, non siamo più chiamati: la massiccia e pervasiva azione d’indottrinamento fascista, dall’atto del concepimento (la campagna demografica entrava anche nelle stanze da letto) fino all’età adulta, con quella che Philip V. Cannistraro ha definito la fabbrica del consenso, il controllo dell’informazione e la repressione di ogni forma di dissenso e una liturgia che puntava all’adesione quasi religiosa, sicuramente mistica, rendeva gli effetti dell’apparato propagandistico difficilmente eludibili. La comprensione della difficoltà di sottrarvisi, però, non deve esonerarci dal chiederci “cosa sarebbe successo se...”. I denigratori della Resistenza tendono a sottovalutarne il peso e a riportare al solo contributo degli alleati la conquista della libertà. Questo non corrisponde al vero, ma solo a ciò che una parte politica non avrebbe voluto che fosse accaduto, e cioè la presa di coscienza di chi non accettava il fascismo.
In un celebre discorso che Gustavo Zagrebelsky tenne a Torino il 25 aprile del 2015, si chiese: “E se la guerra si fosse conclusa esclusivamente con la conquista da parte degli eserciti degli Alleati? Se le autorità militari anglo-americane non avessero avuto a che fare con il Corpo Volontari della Libertà, con i Comitati di Liberazione Nazionale e con i rinati partiti politici che ai Comitati avevano dato vita? La sconfitta del III Reich e della repubblica di Salò non fu certo determinata soltanto, e nemmeno prevalentemente, dalle forze della Resistenza interna. Ma, se questa non ci fosse stata, la parola adatta a descrivere la situazione del nostro Paese sarebbe “debellatio”, annichilimento. Gli Alleati trovarono un popolo che lottava per la sua identità, oltre che per il proprio onore e il proprio futuro.” E ancora: “In ogni caso, la Resistenza in Italia, a differenza di ciò che accadde in Germania, fu ciò che permise al nostro Paese di salvaguardare la propria autonomia, di sedere nel contesto internazionale tra le nazioni libere e di ricominciare a prendere nelle nostre mani l’opera della ricostruzione. Il primo passo fu l’Assemblea Costituente, il primo parlamento democratico, eletto a suffragio universale, del nostro Paese; il primo frutto fu la Costituzione.”
Ed è proprio intorno alla Costituzione che si è formato un nuovo concetto di identità e di comunanza nazionale, una memoria condivisa, un sentimento diffuso di appartenenza con la fedeltà che la Costituzione richiede, come ci ricorda il presidente emerito dell’ANPI , Carlo Smuraglia, in un omaggio che ha voluto farle nel libro “Con la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica.”, e come l’attuale presidente, Carla Nespolo, prima donna e prima non partigiana a ricoprire tale incarico, dopo la svolta di Chianciano del 2006, i quali, a più riprese, invitano all’unità e al dialogo tra le diverse voci che sono confluite nel testo fondativo della nostra Repubblica.
Se si resta al facile binomio, cui ricorrono pretestuosamente in molti, antifascista/comunista, si darà sempre spazio alle semplicistiche riduzioni ad unum di coloro che, per denigrare il moto resistenziale, preferiscono considerarlo un monolite comunista.
A smentire tale lettura è la semplice analisi dei gruppi che combatterono, dal momento che il CNL (al di fuori del quale è giusto ricordare altre brigate come quelle anarchiche), riuniva esponenti di tutti i partiti antifascisti che si erano organizzati nell’estate del ’43 e, oltre quelli del Partito comunista, del Partito liberale, del Partito repubblicano, del PSIUP, della Democrazia Cristiana, del Partito d’Azione, del Partito democratico del lavoro. Molte di tali formazioni, insieme ad altre che nacquero nel dopoguerra, confluirono nell’Assemblea Costituente.
La Costituzione, perciò, ha un’anima plurale. Ma, questo sì, irriducibilmente antifascista. Non c’è bisogno di citare un articolo preciso né far riferimento soltanto alla XII Disposizione transitoria, più correttamente finale, in essa contenuta. -Come ha chiaramente affermato il nostro presidente della Repubblica, Mattarella, in occasione del Giorno della Memoria di due anni fa: “La Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo. La nostra Costituzione ne rappresenta, per i valori che proclama e per gli ordinamenti che disegna, l’antitesi più netta.”
Eppure si continua a evitare di pronunciare, in tante occasioni, il termine “antifascismo” perché divisivo. Divisivo? E certo che lo è: divide chi è a favore di una dittatura da chi non lo è! In realtà, anche quelle formazioni che fanno continuamente appello al rispetto della Costituzione, rivendicando per sé una libertà di espressione comodamente “elastica”, nel rifiutarsi di celebrare la Festa della Liberazione dimenticano questa indiscutibile verità. Non riconoscono, cioè, il significato civile di una giornata che ricorda la fine dell’oppressione e la rinascita alla dignità e alla libertà del popolo italiano, almeno del popolo che si riconosce in quei valori. Appunto.
In tale ottica, la Resistenza non è mai finita: se lo è come moto storico, continua a essere viva come resistenza civile a tutto ciò che degradi la condizione sociale a quella servile. E poiché tale pericolo esiste, sotto ogni latitudine e dentro ogni sistema politico e si slatentizza nelle situazioni di crisi in cui più forte è la tentazione di delegare i propri diritti personali, bisogna essere pronti a coglierne e interpretarne i segni, per neutralizzarne gli effetti. Le parole con cui Camus chiude La peste, efficace metafora del morbo nazifascista che contagiò l’Europa civile, e che ricordano come il bacillo si annidi, silente, negli armadi e tra gli indumenti, pronto a riattivarsi, restano un monito sempre valido per allertare alla vigilanza intelligenze e sensibilità.
Il fascismo è sempre presente nel tessuto della nostra società: lo è in forme diverse, è ovvio. Non più col fez e in camicia nera, ma in abiti civili. Un fascismo eterno, come l’ha definito Umberto Eco. Quotidiano e, per questo, più strisciante e insidioso, come è ampiamente trattato nel prossimo numero di Micromega, in uscita il 30 aprile.
Qual è la possibile copertura difensiva, al di là di un apparato legislativo potente quale quello contenuto nella citata Disposizione della Costituzione, nella legge Scelba del 1952 e nella legge Mancino del 1993? Probabilmente ancora una lenta, progressiva e paziente azione culturale, di ricerca storica e di studio faticoso, l’unica speranza di vivere onoratamente, come scrisse Gramsci, e di formarci una coscienza democratica che consenta la piena, irrinunciabile vita civile che ciascuno di noi ha il diritto di realizzare e il dovere di perfezionare.
[1] Norberto Bobbio, Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza, Einaudi, e-book, posiz. 325-330-335
* MicroMega, 24 aprile 2020.
L’ASSASSINIO DI KANT, I CATTIVI MAESTRI E LA CATASTROFE DELL’EUROPA (COME DEGLI U.S.A.). LE "ALLEGRE" CONSEGUENZE DEL "DIMENTICARE KANT!" DI GUSTAVO BONTADINI ... *
Ricordando Bontadini nel giorno della sua nascita
Intervista raccolta da padre Aldo Bergamaschi
Domanda: Prof. Bontadini, se un oscuro ma assiduo frequentatoredel Perípatos avesse avuto l’opportunità di intervistare Aristotele con una macchina da presa, che cosa, secondo Lei, avrebbe dovuto chiedergli? Risposta: Beh, certo poteva chiedergli tante cose, presentargli tutto l’elenco delle cose che non sono accettabili nei suoi scritti, perché ce ne sono; ma se fossi stato io quell’oscuro frequentatore gli avrei chiesto - immagino di trovarlo ormai vecchio e quindi solo come sono tutti i vecchi, abbandonato: eh, ti sembra di essere stato giusto, equo col tuo maestro Platone, non senti qualche rimorsodi coscienza per averlo trattato come l’hai trattato? Intendo teoreticamente.
D: D’accordo, sicché Lei si sarebbe rivolto ad Aristotele teoretico e non certamente all’Aristotele empirico. Bene, io mi trovo nei medesimi panni, cioè io sono quest’oscuro intervistatore, però un assiduo frequentatore del Perípatos, diciamo, milanese. Le domando, anzitutto, quali sono i traguardi che Lei ha programmato e quali sono invece stati esplorati con successo?
R: Beh, i traguardi erano immensi, perché quando si è giovani non si pongono limiti alle proprie possibilità; poi, quelli che invece ho realizzato, sono pochissimi. Anzi, si riducono, si sono andati riducendo sempre di più; si riducono a quello che io e i miei amici chiamiamo volentieri il discorso breve, cioè l’essenzializzazione della metafisica dell’essere. Questo è un traguardo che ritengo ormai di avere sufficientemente conseguito: questa rigorizzazione del discorso metafisico.
D: D’accordo, ma prima di arrivare, appunto, alla discussione su questa rigorizzazione, io Le vorrei chiedere il risultato delle sue ricerche sullo gnoseologismo moderno. Può dirci, in breve, in che cosa consistono queste ricerche? R: Sì, la discussione dello gnoseologismo moderno è stata una delle tappe che ho dovuto percorrere per arrivare a quel risultato che ho detto prima, cioè per difendere e per fondare la metafisica e fare i conti col pensiero moderno, che è essenzialmente antimetafisico.
D: D’accordo.
R: E allora le analisi di struttura degli autori, dei grandi autori moderni, mi hanno, per dirlo naturalmente in modo sintetico, in brevi parole (perché il discorso qui sarebbe lunghissimo), mi hanno messo dinanzi questa situazione: la filosofia moderna è un ciclo di pensiero che fa dimenticare se stessa, perché la sua conclusione toglie il suo punto di partenza. Il suo punto di partenza è quello che io chiamo (e molti altri amici sono d’accordo nel chiamare) il presupposto realistico o il presupposto naturalistico: l’ammissione dogmatica della dualità di essere e di pensiero. La tematica, l’indagine dei filosofi moderni si svolge soprattutto su questo presupposto, traendone le conseguenze. La principale conseguenza è la concezione fenomenistica. Cioè: se l’essere è altro dal pensiero, ciò che noi conosciamo non è l’essere, ma è il fenomeno, ciò che appare. L’ulteriore passo della filosofia moderna può essere rappresentato (parlo sempre brevemente e sinteticamente, in forma molto approssimativa) dall’idealismo, il quale trae questa ulteriore conseguenza: se noi abbiamo a che fare soltanto col fenomeno, non possiamo neanche affermare l’esistenza del noumeno, e quindi il pensiero si chiude in qualche maniera in se stesso.
D: Scusi se La interrompo, ma se uno studente liceale Le dovesse chiedere una lezione breve sull’errore di Cartesio, Lei come strutturerebbe questa lezione breve?
R: Ecco, quello di Cartesio non è un errore; è anzi la presa di coscienza di una situazione speculativa in cui si trovava la sua epoca. Questa situazione speculativa Cartesio la eredita dalla tarda scolastica, dal tardo medioevo, come ha messo molto bene in luce Gilson, specialmente nel commento, nell’amplissimo commento fatto al Discours de la méthode, per mostrare quanti elementi medievali della tarda scolastica sono ancora presenti nella problematica cartesiana. Non è un errore. Anzi, il suo merito è quello di avere tratto le conseguenze di questo presupposto (e in metafisica, in buona dottrina, ogni presupposto deve essere eliminato e deve essere scartato); Cartesio ha indicato per quale via noi eravamo costretti a camminare sotto la pressione, sotto la spinta di questo presupposto, il quale ha portato poi alle varie tappe della filosofia moderna. In questo senso, Cartesio è stato veramente il padre della filosofia moderna.
D: Quindi Lei lo ritiene padre, ma c’è al fondo un errore? O non c’è? Ad esempio, lo smarrimento dell’essere?
R: C’è lo smarrimento dell’essere, e questo è un errore, ma non è di Cartesio, è del suo tempo; è di tutti. È un’eredità. È anche una condizione partecipe del senso comune che l’essere è qualche cosa di altro dal conoscere, no? È il cosiddetto realismo, al quale la filosofia moderna ha sostituito, dapprima il fenomenismo, e poi, addirittura, l’idealismo. Il significato speculativo dell’idealismo, con cui in qualche maniera si conclude il ciclo moderno, è il semplice toglimento del presupposto naturalistico - formalmente in quanto presupposto.
D: Ecco, abbia la cortesia di spiegarci in cosa consiste questo presupposto realistico.
R: È semplicissimo: è l’assunto che l’essere è altro dal pensiero. Io potrei dare - siamo nel secondo centenario della Critica della ragion pura, che fu pubblicata nel 1781 - ad uno studente di liceo, ma più che ad uno studente di liceo, anche a un contadino che incontrassi per la strada e mi chiedesse qualcosa di quest’opera, potrei dare, ecco, il più breve riassunto che si può fare di quest’opera (che consta di molte centinaia di pagine), ed è questo: dato che l’essere è altro dal pensiero, la scienza dell’essere, cioè la metafisica, non è possibile. Questo è il riassunto più sintetico della Critica della ragion pura. Poi c’è tutta quest’opera meravigliosa (da visitare), una delle opere più geniali che siano mai state scritte nella storia della filosofia. Vi si intrecciano una quantità di motivi che riguardano la possibilità della matematica come scienza, della fisica come scienza, poi l’esame di quelli che Kant riteneva fossero gli argomenti portati a sostegno della metafisica tradizionale. E allora qui, naturalmente, viene fatto subito di deliberare, da parte mia o da parte nostra, che la metafisica che Kant confutava non era assolutamente la metafisica classica: era strutturalmente diversa da quella che noi presentiamo come metafisica classica.
D: D’accordo. Adesso vorrei che, a conclusione di questo discorso sul dualismo gnoseologistico, come Lei lo chiama, ci risolvesse alcune perplessità dei cultori di scienze filmiche. Per esempio i cultori del linguaggio filmico sembrano accettare il dualismo gnoseologistico. Dicono: altra è la realtà, altro la sua immagine: l’evento non si identifica con la sua rappresentazione, quindi l’immagine di questo tavolo non è il tavolo. Ecco, io Le domando, filmicamente parlando, siamo o non siamo sull’essere?
R: Dunque, io sono ignorante in sede di filmologia; però direi che, dal punto di vista metafisico, è ente, cioè non nulla, sia l’immagine sia la realtà che il linguaggio filmico contrappone all’immagine stessa: sono tutte due realtà e vengono sia l’una che l’altra intenzionate dalla conoscenza. Il termine ‘intenzionare’ è importante, perché l’intenzionalità è proprio la figura che conclude tutta la vicenda del pensiero moderno e dà la possibilità di entrare in una nuova epoca.
D: D’accordo. Allora io tento di fare una verifica ulteriore. Noi conosciamo direttamente il tavolo o la immagine del tavolo?
R: Senz’altro il tavolo.
D: Conosciamo il tavolo, anche pur sapendo che il discorso filmico mi presenta una immagine del tavolo?
R: Sì, perché il dualismo filmico è un dualismo che è interno al non-dualismo della conoscenza umana. È un dualismo interno; cioè: dall’interno del globo della conoscenza umana si elevano questi due ordini, l’ordine filmico e l’ordine di quella verità che viene contrapposta a quella filmica.
D: Vediamo se riesco a identificare il senso di questo discorso: la realtà trascende la rappresentazione empirica, ma non trascende il pensiero. Dunque, il pensiero sarebbe comunque sulla realtà?
R: Certo, in ogni caso non si trascende il pensiero: è questa la verità.
D: Abbia la cortesia di spiegare il significato di questa frase.
R: Ecco: l’intrascendibilità del pensiero è la formula un po’ banalizzata dell’idealismo. Vero: fuori del pensiero non si salta, perchè se io dico che c’è una realtà che trascende il pensiero, per ciò stesso l’ho già pensata e quindi ricondotta dentro il pensiero.
D: D’accordo.
R: Ma, anche stando nella semplice orbita dell’Unità dell’Esperienza, o se vogliamo dire dell’esperienza, della percezione...
D: Scusi se La interrompo, Professore: questa ‘Unità dell’Esperienza’ è un’espressione che Lei ha introdotto cinquant’anni fa. Adesso direi che ha l’onere di spiegarla a chi la udisse per la prima volta.
R: Sì. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose che sono presenti e che vengono affermate in base al loro esser presenti.
D: Per esempio?
R: Tutto ciò che io constato, tutto ciò di cui io posso dire ‘consta’. Tutti quei giudizi che possono essere giustificati, fondati con questa formula: ‘perché consta’. Ad esempio: questo tavolo è di colore amaranto. Perché? Perché mi consta che sia di colore amaranto, perché è sperimentalmente dato, empiricamente dato che è tale. In questo momento è giorno, perché constato che in questo momento è giorno. Perché consta. Quindi l’Unità dell’Esperienza è l’unità dei dati, come tale.
D: Quindi, successivamente, noi cosa dovremmo scoprire? Che il dato è là e io sono?...
R: No. Io sono un dato. l’Unità dell’Esperienza include l’io, perché anche l’io nella forma dell’autocoscienza è dato. L’io è un dato. È un dato che l’esperienza è polare, cioè che ha la polarità del soggetto e dell’oggetto; io che ho presente questo tavolo, questo tavolo che è presente a me.
D: Quindi sarebbe la compresenza.
R: Nell’Unità dell’Esperienza è presente che le cose sono presenti a me. Questo è un rilievo fondamentale in ordine alla determinazione della struttura dell’Unità dell’Esperienza. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose presenti, ma c’è una caratteristica di queste cose presenti: anzitutto è quella di essere presenti, ma poi - determinatamente - di essere presenti a; in questo caso all’io, a me, a un soggetto.
D: D’accordo, adesso Le faccio una domanda che implica un riferimento storico. A Suo parere san Tommaso era immerso nell’errore gnoseologistico, cioè nel dualismo gnoseologistico, oppure aveva guadagnato questa Unità dell’Esperienza come punto di partenza?
R: Beh, che avesse proprio guadagnato l’Unità dell’Esperienza come punto di partenza, forse no; perché, altrimenti, io non avrei avuto niente da fare, se l’avesse guadagnata lui - va bene? Però, se san Tommaso fosse o non fosse libero dal presupposto gnoseologistico, questo è un argomento di esegesi storica molto interessante. San Tommaso era un aristotelico e un grande commentato-re di Aristotele. Ora, Aristotele era certamente immune dal presupposto dualistico.
D: Era immune?
R: Era immune, perchè era un suo teorema fondamentale che il ‘conoscente in atto’ e il ‘conosciuto in atto’ si identificano, e questa è già l’eliminazione del presupposto dualistico. Aristotele poi aggiunge che il ‘conoscente in potenza’ e il ‘conosciuto in potenza’ si distinguono, ma di questo essere distinti in potenza egli dà una fondazione; e in quanto dà una fondazione, riscatta il presupposto come presupposto: la fondazione è metafisica.
D: Probabilmente ci siamo avvicinati... ma io sto pensando a un ipotetico liceista, ecco... che...
R: Beh, ma forse se Lei mi farà altre domande che riguardino questi problemi fondamentali, potremmo dare una risposta esauriente anche per il liceista... di primo anno!
: Quindi, torniamo brevemente al discorso dell’inganno dei sensi, no? L’errore dei sensi...
R: No, ma il senso non inganna dice san Tommaso. Le ricordo che san Tommaso dice ‘il senso non inganna’, vero?
D: Quando io vedo il legno spezzato nell’acqua, in che cosa consisterebbe l’errore?
R: L’errore consisterebbe nel ritenere che, se io andassi a toccare il legno, lo troverei spezzato, mentre invece non lo trovo spezzato. Questo è un giudizio. La vista non mi inganna, perché è empiricamente dato che il legno si presenta come spezzato. È un giudizio ulteriore quando dico, io che vedo una torre in lontananza che mi sembra circolare, mentre è quadrata, che allora c’è un’illusione. Ma l’illusione in cosa consiste? La torre appare circolare, e, nella misura in cui appare, essa è tale. Poi, se usciamo anche da questo paragone della torre, e pensiamo al sogno, io sogno che accadono certe cose. Nella misura in cui quelle cose sono sognate, sono reali. Quindi non c’è nessun inganno. L’inganno consisterebbe nel giudizio che volesse riferire ad una realtà ulteriore al sogno, quella che si rivela nel sogno.
D: D’accordo, credo che questi esempi siano abbastanza chiari. Adesso dalla gnoseologia passiamo alla metafisica. Anzitutto Le domando: è davvero impossibile la metafisica dopo Kant oppure Lei ritiene che sia invece possibile?
R: Beh, dopo cinquant’anni di meditazione, ritengo che sia possibile, perché... ab esse ad posse valet illatio; perché la metafisica si costruisce! Quando io ero studente c’era lo slogan del dopo Kant: certe cose dopo Kant non si possono più sostenere, e quindi dopo Kant non si poteva più sostenere che fosse possibile la metafisica. Ma una attenta considerazione di quella metafisica che Kant criticava ci rende subito edotti che la struttura di tale metafisica ha poco a che vedere con la struttura di quella che noi chiamiamo la metafisica classica e che è quella che noi intendiamo difendere e sostenere. La metafisica classica è fuori dalla portata della critica kantiana; e, naturalmente, il discorso per mostrare questo dovrebbe essere abbastanza complesso, ma è un discorso che ormai in qualche maniera abbiamo messo al sicuro. Ritengo di averlo messo al sicuro.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO". Alcune sue pagine da "La ricerca della certezza" del 1929, con alcune note
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
Federico La Sala
Filosofia.
Gustavo Bontadini e la metafisica del ’900, un genio da riscoprire
Nel XX secolo il pensiero del filosofo è un "unicum" oscurato in primis dai pensatori cattolici e dalla Chiesa. Un libro di Messinese ne riscopre genialità e capacità dialogica con la modernità
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, martedì 27 febbraio 2024)
Il termine “metafisica”, la parola «davanti alla quale ognuno, più o meno, si affretta a fuggire come davanti a un appestato» (Hegel), ritorna nella forma di un appello alla serietà “politica” - nientemeno - del pensiero (Cacciari). Ritorna come paradosso del mondo, prima che come domanda su Dio. Ma infine, l’uomo non potrà separare ciò che Dio ha congiunto.
Il segreto della concretezza del mondo, sta certamente “nel mondo” (se stesse fuori, il mondo sarebbe solo virtuale, un’astrazione); ma, altrettanto certamente, “non è del mondo” e lo trascende (proprio come il Logos del vangelo di Giovanni). Che accada un mondo, e che non si possa fare a meno di domandarsi se il mondo è tutto quello che accade, non ha nulla di ovvio. Dal nulla non viene assolutamente niente: ed è ovvio, questo sì, che alla luce di questa banale considerazione l’essere non è mai incominciato e non saprebbe dove finire. Il nulla non è un tempo, non è un luogo, per l’accadere. Ma nella nostra esperienza, “niente” di ciò “che è” (che acrobazie deve fare il nostro linguaggio, per parlare dell’accadere) assomiglia neppure lontanamente all’essere che non incomincia e non finisce. Con ciò si è già enunciato il tema - e il paradosso - di questo choc del pensiero: che appare inevitabile anche quando cerca di essere evitato.
Una cosa che sembrava così ovvia - l’essere è, il mondo esiste, il nulla non esiste - non lo è più. Possiamo anche scrollare le spalle e pensare di aver digerito male. Ma il tarlo è lì, nella coscienza, ormai. La domanda metafisica è una domanda alla quale, in ogni caso, l’inconscio risponde sempre: nelle pratiche e nelle culture, nelle scienze e nelle politiche. Nelle religioni e nelle stesse filosofie.
Le premesse teoretiche per una ripresa cosciente della “metafisica concreta”, all’altezza del “problematicismo radicale” della contemporaneità, erano già apparse nel progetto messo a punto dal pensatore cattolico Gustavo Bontadini (1903-1990). Tale progetto, radicalmente innovativo anche nell’ambito della tradizione filosofica di ispirazione cattolica, ha rivelato la sua potenza attraverso gli sviluppi che ne ha tratto il suo allievo Emanuele Severino (1929-2020), divenuto, a differenza del suo maestro, una figura di rilievo nel confronto filosofico contemporaneo e un critico della cultura noto anche al grande pubblico.
In effetti, l’irruzione nella scena contemporanea di una filosofia che proclama “l’eternità di ogni essente”, mentre denuncia il radicale “nichilismo” della stessa concezione cristiana-cattolica dell’eternità di Dio e della creazione del mondo, aveva di che suscitare impressione. Bontadini, pur apprezzandone l’ispirazione (come “pungolo” per il laicismo decostruttore di ogni assoluto, e ragione filosofica ospitale per la “nostalgia” dell’eterno), ha contrastato la deduzione “eternistica” del “principio di Parmenide” che imponeva la necessaria rimozione del “principio di Creazione”. Ma Bontadini non fu ascoltato, né fu presa in considerazione la questione di coerenza dell’impianto che Bontadini stesso aveva inventato.
Il dibattito, all’interno del mondo cattolico, si risolveva e si spegneva nel semplice accertamento della contrapposizione fra Severino, che negava la creazione, e la Chiesa che, ovviamente, la difendeva. In certo senso, questa semplificazione faceva torto a entrambi. Ma soprattutto, essa ha oscurato la reale portata innovativa , speculativa e culturale del progetto metafisico di Bontadini, nel quadro complessivo della contemporaneità filosofica novecentesca.
Quello che ci siamo persi nell’oscuramento della “invenzione” bontadiniana, è puntualmente e puntigliosamente narrato nel “romanzo metafisico” di Leonardo Messinese (Dopo Kant, oltre il problematicismo. Il Novecento come un ‘romanzo metafisico’, Schibboleth, pagine 428, euro 26). Messinese, narra la storia della costruzione bontadiniana, dalle origini fin dentro il dibattito con Severino, attraverso un “racconto” per eventi e attori (come Giovanni Gentile e Benedetto Croce, Ugo Spirito e Ludovico Geymonat, e molti altri), dei quali Bontadini fu interlocutore, diretto e dialogico, acuto ed esigente. Messinese è già intervenuto con molti saggi di ricostruzione critica e di approfondimento teorico dei temi implicati nel confronto fra Bontadini e Severino, sia per quanto riguarda la metafisica, sia per quanto si riferisce al cristianesimo. Il valore aggiunto di questo “romanzo” è nella esposizione della storia vissuta, oltre che teorica, della progressiva costruzione del modello metafisico di Bontadini.
Nella minuziosa ricostruzione storico-teorica di Messinese emergono infatti anche due mosse metodologiche, trascurate dalla filosofia e dalla teologia del cattolicesimo, che offrono indicazioni di intatta originalità. La prima è la proposta di essenzializzazione - che è insieme semplificazione e rigorizzazione - del paradosso metafisico, che l’ipertrofia dell’ontologia scolastica ha finito per indebolire del suo vigore e per svuotare della sua provocazione.
La seconda invenzione, anche più elegante della prima, consiste nella deduzione storica dell’approdo metafisico: inteso come inevitabile auto-superamento del problematicismo radicale, col quale si devono fare i conti ragionando metafisicamente, appunto. Il problematicismo radicale, cifra del nostro tempo, secondo Bontadini, prepara obiettivamente il ritorno inevitabile della metafisica: infatti, nel momento in cui il problematicismo radicale diventa teoria trascendentale della totalità reale, lascia spuntare un assoluto metafisico indimostrato e indimostrabile.
Il tracciato filosofico della contemporaneità, nell’ermeneutica speculativa di Bontadini, apre così obiettivamente un solco favorevole alla ripresa della metafisica come sapere essenziale e dialogico. In questo Bontadini è stato sorprendentemente innovatore - in termini di contenuto e di stile filosofico - rispetto alla postura polemica allora prevalente nella filosofia cattolica. Il genio di Bontadini si manifesta infatti proprio nella disposizione a valorizzare dialetticamente le fasi della storia della metafisica inclusa nella storia della stessa filosofia moderna.
Messinese rende giustizia a questa genialità e si impegna a esaminare e valutare il confronto polemico di Bontadini e di Severino anche in termini di reale affinamento speculativo della questione di merito (il negativo del divenire, garantito dall’eterno, è la sua accertabile finitezza processuale, ma non la sua impossibile nientificazione assoluta). Dopo la lettura di questo racconto verrebbe da aggiungere una domanda “fuori testo” (ma non ”fuori argomento”). Che cosa sarebbe successo se la teologia cattolica - che l’ha ignorata - avesse preso sul serio, almeno in Italia, l’invenzione bontadiniana? Forse c’è materia per un nuovo romanzo (che immagina il futuro, questa volta).
NOTA.
RISALIRE AL PRIMA DELLA "CADUTA" (NELL’ORBITA DI PLATONE - DI PAOLO DI TARSO):
Finché abbiamo il corpo e la nostra anima è intrisa assieme a tale malanno, non raggiungeremo mai adeguatamente ciò che desideriamo: e diciamo che questo è il vero. Innumerevoli impegni infatti ci procura il corpo per il necessario sostentamento. E ancora, se si abbattono delle malattie, impediscono la nostra ricerca della realtà. (Esso) poi ci riempie di amori e di passioni e di paure e di immaginazioni di ogni genere e di molta vanità, cosicché, come si dice, veramente in realtà per colpa sua non ci accade neppure di concepire nel pensiero mai nulla.
E infatti guerre e rivolte e battaglie null’altro le procura se non il corpo e le sue passioni. Infatti per l’acquisto dei beni materiali tutte le guerre avvengono, e i beni materiali siamo costretti a procurarceli per il corpo, servendo alla di lui servitù; e in seguito a ciò non abbiamo tempo libero per la filosofia per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore fra tutte (è) che, se anche ci capita un qualche momento libero da esso e ci volgiamo al considerare qualcosa, nelle ricerche ancora intromettendosi dovunque procura confusione e turbamento e ci sconvolge, tanto che, per colpa sua, non possiamo scorgere la verità.
Ma in realtà a noi è dimostrato che, se intendiamo mai conoscere qualcosa puramente, dobbiamo distaccarci da esso e guardare con l’anima stessa le cose in sé: e allora, come pare, ci sarà per noi ciò che desideriamo e (di cui) diciamo di essere innamorati, la saggezza, quando saremo morti, come indica il ragionamento, ma da vivi no. (Platone, Fedone, 66 c-d).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo") .. *
Neonazismo e libertà accademica
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 09 dicembre 2019)
Ha suscitato scalpore il caso di Emanuele Castrucci, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Siena che per anni ha sostenuto tramite i suoi profili social posizioni esplicitamente neonaziste, razziste, antisemite e negazioniste della Shoah . Il rettore senese e gli organi rappresentativi dei suoi colleghi, spinti dal montare della polemica mediatica, hanno preso le distanze da lui e stanno promuovendo provvedimenti che possono preludere a un licenziamento, aperti da una denuncia alla Procura.
A fronte di questi sviluppi, alcuni studiosi e accademici hanno sollevato dubbi sull’opportunità e sulla legittimità di un atteggiamento repressivo verso il docente da parte dell’ateneo di appartenenza. In particolare Biagio De Giovanni, pur condannando fermamente l’opinione del collega, ha rigettato l’ipotesi di un licenziamento richiamando la qualità della sua attività intellettuale e l’illegittimità di provvedimenti di totale ostracismo in un ambiente, quello della ricerca universitaria, che si fonda sul libero confronto e dibattito e sulla battaglia delle idee, non sulla loro repressione. È stato del resto proprio Castrucci a difendersi facendo rientrare le sue esternazioni nell’ambito della piena libertà di parola e di espressione che caratterizzano il libero confronto.
Il tema è interessante e merita di essere affrontato fino in fondo, anche per trarre da un caso singolo alcune linee di comportamento generali. Iniziamo facendo chiarezza: la libertà di esprimersi accordata a un professore universitario è molto più solida e strutturata della semplice libertà di parola riconosciuta a tutte e a tutti nelle democrazie liberali: si tratta infatti di libertà accademica. Essa consiste, a dirla brutalmente, nella possibilità di essere pagati e accedere alle fondamentali strutture professionali dell’insegnamento e della ricerca anche per sostenere posizioni ritenute sbagliate, pericolose, potenzialmente catastrofiche se diffuse e messe in pratica nella società. Non è un caso se, nel senso comune così come negli aspetti più noti della legislazione in materia, la libertà accademica quasi si identifica col mantenimento della posizione lavorativa e stipendiale dello studioso. È così di fronte alla sostanziale inamovibilità maturata per i docenti nei Paesi in cui la “corporazione” universitaria è stata più largamente inglobata nell’impiego pubblico, e nell’ambito della tenure riconosciuta in sistemi contrattuali come quello statunitense.
Molto spesso però si dimentica un altro elemento nell’attribuzione di quello che è, a tutti gli effetti, un privilegio professionale strettamente legato alla funzione culturale e sociale di docenti e ricercatori universitari. Ai ruoli a cui viene riconosciuta la libertà accademica si accede dopo che la comunità degli studiosi ha potuto prendere in esame per un congruo periodo di tempo l’attività scientifica dell’aspirante docente, riscontrandovi un adeguato livello di competenza disciplinare e la maturazione di un’adeguata etica professionale. Questo passaggio è esplicito nelle norme che, ad esempio negli Stati Uniti, regolano il tenure track, e in fondo si ritrova alle radici della formazione stessa delle istituzioni universitarie nell’Europa medievale, quando appunto la licentia ubique docendi costituiva un fondamentale accesso alla possibilità di insegnare rilasciata dopo attento esame da parte di alcuni tra i massimi esperti della disciplina.
Una volta chiarito questo quadro generale, quali conclusioni possiamo trarre sul caso Castrucci? In primo luogo, se coi suoi tweet antisemiti e filohitleriani il docente ha esercitato il proprio inalienabile diritto alla libertà di espressione o ne ha abusato violando la legislazione sull’apologia del nazismo e del fascismo e quella (a mio parere, e anche secondo l’opinione della principale associazione culturale italiana di storici contemporaneisti, piuttosto scivolosa e non del tutto condivisibile) sul negazionismo, spetta alla magistratura e non all’università.
Detto questo, occorre chiedersi se le sue prese di posizione sono difese dalla libertà accademica, che quindi lo mette al riparo da provvedimenti sul piano professionale. Ed è questo il punto a mio parere interessante. Se infatti, come abbiamo visto in precedenza, l’attribuzione del privilegio della libertà accademica si regge sulla dimostrazione di aver acquisito e di mantenere competenza disciplinare ed etica professionale, bisogna ammettere che chi esprime pubblicamente le opinioni che ha espresso convintamente Castrucci forse non possiede più, se mai effettivamente è giunto ad averle, né l’una né l’altra.
Da un lato, le idee sul “complotto ebraico”, sulla politica monetaria “sovranista” di Hitler e Mussolini e sulla veridicità dei Protocolli dei Savi di Sion, prima di essere aberranti, sono fondate su dati falsi e ampiamente smentiti, e possono essere credute solo da una persona ignorante della storia, sciatta nell’analisi critica delle sue fonti, priva dei filtri culturali alla propaganda più trita che ci si aspetterebbe da un uomo di cultura, per di più specializzato nella storia delle idee e del pensiero. Dall’altro, è doveroso chiedersi se chi esprime così apertamente il disprezzo per interi gruppi umani ha poi dato seguito alle parole con comportamenti più o meno velatamente discriminatori e ostruzionistici nei confronti di studentesse e studenti, colleghe e colleghi, in un mondo universitario in cui tra molte difficoltà si affacciano minoranze di cui andrebbero tutelate le pari opportunità.
Dunque, alla luce di un comportamento così evidentemente lesivo di qualsiasi codice etico di condotta fondato sulla convinzione che un professionista intellettuale non smette le sue funzioni professionali alla fine dell’orario d’ufficio e che la comunicazione pubblica del personale universitario è parte integrante della “terza missione” di divulgazione e public engagement, avrebbe senso se l’ateneo senese indagasse da vicino sui comportamenti tenuti da Castrucci nelle proprie relazioni di lavoro, ponendosi il problema del perché finora non è emerso nulla dai canali di tutela e di valutazione degli studenti o da rimostranze di colleghi, e se ripercorresse con attenzione le tappe di carriera del docente e le sue valutazioni successive per individuare come e perché nella lettura critica della sua produzione da parte di commissari ed esperti valutatori non siano emersi gli elementi di sciatteria, pressapochismo e vero e proprio errore metodologico che non possono non caratterizzare, almeno da un certo punto in poi, gli scritti di chi sostiene in coscienza posizioni come le sue. Questa indagine retrospettiva, oltre a mettere in discussione il posto di professore ordinario di Castrucci, potrebbe e dovrebbe chiamare in causa i responsabili della sua carriera, e far loro rendere conto di procedure di selezione e conferma chiaramente inadeguate.
In questo modo si otterrebbe il risultato di non fare di Castrucci un autoproclamato “martire” del libero pensiero con una sanzione esclusivamente individuale; si darebbero radici eminentemente professionali alle sanzioni conseguenti ai suoi gesti; si farebbe luce sul sistema di collusioni e di silenzi che ha permesso a una figura così inadeguata di restare in cattedra per anni, chiarendo che le responsabilità non sono soltanto sue.
Più in generale, poi, riflettere sui caratteri fondamentali della professione accademica e sulla necessità di una verifica continua della loro soddisfazione potrebbe far bene al sistema universitario nel suo complesso. Se i meccanismi di valutazione dell’idoneità professionale e della qualità della ricerca e della didattica si concentrassero, piuttosto che su astratti livelli di “eccellenza” spesso concepiti in senso puramente quantitativo, su come individuare più prontamente casi di palese inadeguatezza come questo, si sarebbe fatto un passo avanti per offrire un ambiente universitario più vivibile. Allo stesso modo, se i codici etici delle università venissero concepiti non tanto come manuali di buone maniere per non offendere il potente di turno e non mettere in cattiva luce i propri vertici impegnati nella competizione per i finanziamenti ministeriali, quanto per tracciare un insieme di comportamenti da cui risultino le qualità professionali richieste ai docenti per la loro funzione, le possibilità di produttiva interazione tra alta cultura e società sarebbero decisamente più significative.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
Il filo tra Martin ed Emanuele
Scoperte. Severino aveva dedicato ad Heidegger la sua tesi di laurea pubblicata nel 1950. Testi e testimonianze dimostrano che il filosofo tedesco seguì il lavoro del pensatore italiano
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.05.2019)
Heidegger ha riflettuto sul pensiero di Emanuele Severino, e non sporadicamente, dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. O meglio, una prima nota reca la data 1958. Altre annotazioni sul filosofo italiano risalgono agli anni Sessanta (1968-69). Ora sono stati diffusi testi e testimonianze che provano tale interesse.
La notizia è stata resa nota in una conferenza stampa a Milano il 10 maggio, dedicata appunto alle «Nuove scoperte nei manoscritti inediti di Martin Heidegger», dai quali sono emersi passaggi in cui il pensatore tedesco commenta l’italiano. Altro si saprà in occasione del convegno di Brescia, dal 13 al 15 giugno, intitolato «Heidegger nel pensiero di Severino».
Il celebre e discusso maestro tedesco, che morì il 26 maggio 1976 (e nel necrologio Nicola Abbagnano lo ricordò come «Il pastore dell’essere»), negli anni in cui prende in considerazione Severino è riferimento di primo piano della filosofia. Basterà ricordare un evento che cambiò gli atteggiamenti nei suoi confronti: lo straordinario successo che riscosse la conferenza «La questione della tecnica», che Heidegger tenne all’Accademia Bavarese di Belle Arti il 18 novembre 1953.
Tutta l’élite colta di quel periodo lo applaudì entusiasta, da Werner K. Heisenberg (Nobel per la fisica nel 1932) a Ernst Jünger a José Ortega y Gasset. Heinrich Wiegand Petzet, autore di una dettagliata biografia del pensatore tedesco (Auf einen Stern zugehen. Begegnungen mit Martin Heidegger 1929 bis 1976), pubblicata a Francoforte nel 1983, scriverà dell’avvenimento: «Quando concluse con la frase divenuta famosa “Il domandare è la pietà del pensiero” dalla marea di bocche si levò un’ovazione senza fine. Ebbi la sensazione che finalmente il muro di sfiducia e di astio che si erigeva davanti al maestro e amico si fosse infranto. Fu forse il suo più grande successo pubblico» (tali parole si leggono alle pagine 81-82).
I periodi in cui il filosofo tedesco si occupa di dell’italiano seguono la pubblicazione dell’opera Heidegger e la metafisica, tesi di laurea di Severino (prefata da Gustavo Bontadini, suo maestro all’Università di Pavia), pubblicata dall’Editrice Giulio Vannini di Brescia nel 1950; e poi quella del saggio Ritornare a Parmenide, uscito nella Rivista di filosofia neoscolastica nel 1964. Del resto, di quel periodo va tra l’altro ricordato il viaggio che Heidegger compie in Asia minore nel 1965: visita le rovine di Troia, Efeso, Pergamo, raggiunge Istanbul.
A questi due testi di Severino ha fatto dunque riferimento Heidegger; inoltre in una lettera che Friedrich-Wilhelm von Herrmann, ultimo assistente del pensatore tedesco, ha scritto al filosofo italiano e che è stata letta all’incontro del 10 maggio, si ricorda con precisione quanto accadde.
Usiamo direttamente le parole di von Hermann: «Posso affermare che il nome di Emanuele Severino era costantemente presente nella mente di Martin Heidegger, quando negli anni ’60 fui l’assistente di Eugen Fink prima e di Martin Heidegger poi». E ancora, tra significativi ricordi: «Le visite di lavoro settimanali a casa di Martin Heidegger mi permisero non solo di conoscere le sue opere non ancora pubblicate, ma anche il suo modo di rapportarsi con le opere di altri pensatori. Il fatto che Heidegger abbia inserito nelle sue Annotazioni tre osservazioni sul percorso di pensiero di Emanuele Severino, è secondo me eloquente. Inoltre, durante i suoi incontri con il fratello Fritz, Heidegger parlava spesso di Emanuele Severino - e anche il figlio di Fritz, il reverendo Heinrich Heidegger, ricorda molto precisamente quelle menzioni, perché partecipava spesso agli incontri tra i due fratelli».
C’è di più. Von Hermann in questa lettera aggiunge precisazioni che mostrano la stima della filosofia tedesca nei confronti dell’italiano. Vale la pena lasciargli di nuovo la parola: «Ma il nome di Emanuele Severino era ben noto anche nella cerchia attorno al filosofo Hans-Georg Gadamer, con cui intrattenni un contatto molto confidenziale sino alla morte di Gadamer. Poiché fui scelto da Martin Heidegger quale responsabile scientifico dell’edizione integrale delle sue opere, intrattenevo una fitta corrispondenza con Gadamer e lo incontravo spesso personalmente.
Tra i fenomenologi di Friburgo le opere Heidegger e la metafisica e Ritornare a Parmenide erano ben note, e Heidegger era molto impressionato da entrambe. Ciò significa che l’originalità del percorso di pensiero di Emanuele Severino s’inserisce a pieno titolo nella serie dei grandi pensatori del XX secolo, assieme a Husserl, Heidegger, Fink e Gadamer».
È il caso di aggiungere che Heinrich Heidegger (sacerdote, figlio del fratello Fritz), in una missiva scritta a Severino e ora resa nota aggiunge altre conferme: «Mio padre, che aiutava suo fratello trascrivendo a macchina i suoi manoscritti, ripeteva spesso il Suo nome e non si stancava di evidenziare quanto era impressionato Martin Heidegger del modo in cui lei interpretava i suoi testi».
Padre Francesco Alfieri, già collaboratore di Oriana Fallaci (da cui ha ereditato la tenacia), vero segugio di archivi e assistente personale di von Hermann (c’è un loro libro, a quattro mani, Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri, edito da Morcelliana) ha partecipato alla conferenza stampa parlando di Heidegger interprete di Severino. Ci ha confidato: «Le tre frasi riguardano sia l’opera sulla metafisica sia il saggio su Parmenide. In particolare colpisce la frase di von Hermann, in calce alla lettera a Severino, nella quale dichiara che “Lei è riuscito dove molti hanno fallito”». Che dire? Innanzitutto che la prima nota inedita di Heidegger è questa: Überwindung, das Nichts eröffnet die mataphysische Frage. - Severino über die Metaphysik (1958); ovvero: Oltrepassamento, il nulla apre alla domanda metafisica - Severino sulla Metafisica (1958). Le altre due si conosceranno al convegno di giugno.
Aggiungiamo che nella ricordata prefazione di Bontadini a Heidegger e la Metafisica, dell’agosto 1950 e non può ripubblicata, si legge: «La fatica del Severino, anche indipendentemente dai suoi interessi e dalle sue convinzioni teoretiche, dovrà essere apprezzata da ogni studioso di Heidegger».
Filosofi bugiardi
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 23.01.2019)
I filosofi bugiardi mentono deliberatamente? I filosofi bugiardi, che ossimoro è mai questo, dal momento che si suppone che il filosofo, amando la sapienza, non potrà che amare anche la verità? E poi, che cosa significa quell’avverbio «deliberatamente», con intenzione? Mentono sapendo di mentire, proprio i filosofi? E nel farlo, quali logiche inventive seguiranno mai?
Lo scarto tra produzione teorica e vita
Analizzarle le logiche inventive del pensiero teorico è lo scopo che si propone un saggio denso, corposo, intrigante ma tutt’altro che facile, di François Noudelmann, stella anche mediatica del firmamento filosofico francese, docente all’Università Paris VIII e alla New York University: Il genio della menzogna. I filosofi sono dei gran bugiardi?, Milano, R. Cortina, 2018, pp. 248. Ed. orig. Le génie du mensonge, Max Milo 2015, pp. 329.
Noudelmann vi esamina lo scarto tra produzione teorica e vita: come mai Rousseau, che scrive un grandioso e innovativo trattato sull’educazione, Emilio (1762), ha abbandonato al brefotrofio non uno ma cinque figli avuti con Thérèse Levasseur? E come potè la pensatrice Simone de Beauvoir scrivere una delle opere chiave del femminismo del Novecento, Il secondo sesso (1949), e desiderare di vivere da serva docile e sottomessa il suo amore con lo scrittore americano Nelson Algren, con il quale ebbe una storia di grande passione e straordinaria intensità? E come la mettiamo con Kierkegaard e il suo elogio del matrimonio, composto senza ch’egli fosse riuscito a sposare Regine Olsen nonostante il suo dichiarato amore per la suddetta, e com’è che il filosofo dell’impegno, Sartre, riuscì a mancare all’appuntamento con la resistenza, o il filosofo del nomadismo, Deleuze, a passare la vita a fumare in poltrona in un appartamento parigino? E Foucault, come faceva a esaltare il coraggio della verità, nelle sue ultime opere, e poi a nascondere accuratamente il fatto di avere l’AIDS? Tutte domande che chi frequenta la filosofia si è posto in vita sua, a partire dall’eclatante e incomprensibile caso Rousseau, salvo considerarle ingenue e non rilevanti dal momento che, riguardando la vita e non le astratte speculazioni intellettuali contenute nelle opere dei filosofi, non vanno a inficiare la teoria.
A causa dell’incoerenza, non nonostante essa
E invece il punto sta proprio lì, dichiara Noudelmann, nel fatto che i filosofi, alcuni filosofi, che fanno uso di astrazioni e rivendicano l’universalità del loro pensiero, mostrano in alcuni casi clamorosi di contraddirle col loro stile di vita. Ci furono invece filosofi che vissero una genuina armonia tra idee e comportamenti: tra tutti uno dei casi più coerenti, fu quello di Diogene di Sinope, il campione del cinismo antico, che condusse una «vita semplice» basata sulla coerenza di prese di posizione individuali, i cui segni inconfondibili sono l’autonomia, l’incorruttibilità, l’autoconsapevolezza e il coraggio civile nonché la parresia, cioè la parola franca, cosciente, aperta e senza censura, talvolta anche irrispettosa e aggressiva. -Paradossalmente, proprio uno dei campioni del mentire-vero, Foucault, dedica una parte del seminario sul coraggio della verità ai cinici, questi «esibizionisti della verità»; cosa che Foucault non fu. Foucault infatti arrichisce, nella classificazione di Noudelmann, la schiera dei filosofi incoerenti, chiamiamoli così, al cui comportamento viene data una spiegazione provocatoria e stimolante: il filosofo (Rousseau o Deleuze o De Beauvoir che sia) elabora i suoi principi teorici perché vive il contrario di ciò che teorizza. Il filosofo, continua Noudelmann, presenta una verità antinomica rispetto a ciò che vive in quanto il diniego produce l’altissima performance concettuale. Ora la tesi, alquanto trasgressiva, è intrigante e ha fatto gridare alla genialità del filosofo che la propone: ma è sostenuta, argomentata, dimostrata in maniera convincente, o anche soltanto attraente e presumibilmente persuasiva, giacché alla filosofia non si richiedono gli stessi parametri delle scienze esatte?
Il pilpul filosofico-politico
Nella discordia tra ciò che viene vissuto e ciò che viene affermato, nello scarto tra il discorso teorico e la vita vissuta giace la potenza creativa: così, almeno nei filosofi citati, la menzogna diventa creazione di verità. L’argomento porta a chiedersi subito se qui si stia parlando di verità o del dire la verità (sincerità dunque, o parresia nel linguaggio di Diogene e di Foucault, truthfulness nella terminologia di Bernard Williams). Spesso infatti, nel testo di Noudelmann, il concetto di verità e quello di sincerità, «parola splendida e terribile», come la definisce Andrea Tagliapietra nel suo Sincerità (Milano, R. Cortina, 2012), si sovrappongono e si confondono, e forse proprio questa mancanza di cesura netta è ciò che giova alla tesi: il filosofo sa di dire una cosa falsa, inganna con cognizione e allora mente; oppure lo ignora, e allora può continuare a dire la verità pur mentendo, o proprio perché mente.
La sensazione che si ha infatti leggendo questo saggio tormentato, opera di un professionista di ampie vedute e che si occupa non di autori che ha in disistima e che gode a dileggiare, bensì di filosofi da lui amatissimi, è che esso mostri una incapacità, sofferta, ad argomentare la tesi. Il fatto è che Noudelmann torna e ritorna sulle argomentazioni e spiegazioni, talvolta con parole diverse talvolta con le stesse, ripetendo continuamente la tesi come se questo bastasse a rafforzarla, in un continuo girare e rigirare sulla questione e componendo una sorta di «pilpul filosofico», un tentativo di sciogliere contraddizioni insolubili muovendosi sui confini di ciò che è pensabile e spiegabile (il pilpul è un metodo di studio del Talmud che cerca di chiarire tramite analisi e differenziazioni tutti gli aspetti e le tematiche di un punto. Si usa anche come sinonimo di cavilloso, bizantino).
Le spiegazioni di Noudelmann girano e rigirano in un discorso circolare che talora assorbe nuovi argomenti da altre discipline, come la diagnosi di personalità multipla, presa in prestito dalla diagnostica delle malattie mentali, per alcuni pensatori incoerenti, ma fallisce la disamina precisa e puntuale che chiede di rispondere a come sia possibile che il discorso del filosofo parta da un comportamento opposto al pensiero stesso; o come possa darsi che il filosofo elabori pensieri teorici astratti perché vive il contrario di ciò che teorizza presentando una verità antinomica ai fatti che vive. Non è che continuando a ritornare sull’affermazione secondo la quale il diniego produce nei filosofi (quali? perché proprio quei filosofi e non altri?) la performance concettuale, essa viene a costituire una verità.
La menzogna speculativa
Del resto, immaginare di eleggere kantianamente la pratica della menzogna, seppur creativa, a massima universale, porterebbe a un mondo di pazzi nel quale sarebbe impossibile vivere. Senza un minimo di fiducia nel fatto che persone e istituzioni non mentiranno, non avrebbe senso neanche alzarsi la mattina perché non saprò se troverò l’acqua in bagno o l’autobus per andare al lavoro alla fermata. Ma nemmeno vogliamo fare i moralisti intransigenti e bacchettoni che esortino in termini roboanti alla verità e alla coerenza a tutti i costi, esaltando un mondo ideale nel quale nessuno racconti con decenza qualche fandonia, nessuno spettegoli un po’, nessuno usi ironia e cinismo ma tutti parlino soltanto apertamente e si comportino con totale lealtà e franchezza e fedeltà alla causa della verità, senza mai recedere dalle loro opinioni e avanzando a testa alta e a petto nudo, perché in un mondo così, cui sia negato sempre il sottile piacere del mentire o la tragica necessità di doverlo fare per evitare mali maggiori, non ci piacerebbe vivere.
Se però la negazione del vero fattuale denuncia la difficoltà del filosofo nel farsene carico (questo deve valere per altri ma non è valso per me), potremo comprenderlo e forse anche giustificarlo. A tutti loro Noudelmann offre la scusa della «menzogna speculativa». Non potendo confessare e ammettere la verità essa viene espressa come iperbole concettuale, metamorfosi della verità in forma di menzogna, in perfetta assonanza con la pratica della non- o postverità praticata ai nostri giorni mendaci. Non basta tuttavia ripetere continuamente, francamente e sinceramente una tesi perché essa diventi vera. Bisogna spiegare con quali passaggi e meccanismi la teoria dell’impegno sia costruita sulla mancanza dell’impegno, come se questo le desse una marcia in più che se fosse costruita sull’impegno reale.
Quello che avrei voluto essere e non sono
Stretta la foglia, larga la via, suggestiva è l’intuizione ma debole l’argomentazione. Reggerà la tesi? O non ci porterà a rovesciare le parole di Paolo, «lo spirito è forte ma la carne è debole», facendo sì che lo spirito aletico, invece di uscire rafforzato dalla debolezza della carne menzognera, ne acquisisca l’ambiguità vedendo minata la propria credibilità? Il che vorrebbe dire che ha ragione tutto sommato l’argomento moralista che afferma che gli autori scrissero grandi opere dello spirito nonostante la piccineria della carne. O ancora, e concludo, che scrissero grandi opere profetiche che andavano oltre la pusillanimità del quotidiano perché il loro sguardo era rivolto a un futuro magnanimo. Il divario tra teoria e pratica continua a rimanere un enigma, ma non c’è che da ringraziare Noudelmann per averci fatto pensare sul tema in maniera acuta e mirata. Il filosofo, alla fine, crea il personaggio che avrebbe voluto essere e non è. A meno che non ritenga il suo un discorso di tipo scientifico che dopo dimostrazione rigorosa non potrà venire smentito perché non dichiara una verità ma la verità. Come per Galileo davanti al tribunale dell’Inquisizione: che si abiuri o no, si menta o si dica la verità, si mandino i figli all’ospizio o li si allevino amorosamente in casa, la terra continuerà a girare intorno al sole.
Il futuro dell’Occidente e la globalizzazione
Il libro dell’ex ministro Calenda è dedicato al rapporto tra «vecchie» e «nuove» potenze, Europa e Stati Uniti e i Paesi asiatici, soprattutto la Cina
di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 19.10.2018)
Un libro di alto livello culturale sulla presente situazione del mondo, analizzata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma scritto da un autore che può anche vantare, rispecchiandole nelle sue pagine, ampie esperienze manageriali e politiche, come ad esempio rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, ministro dello Sviluppo economico nei governi Renzi e Gentiloni, e così via.
Sto parlando di Orizzonti selvaggi. Capire la paura e ritrovare il coraggio (Feltrinelli, 2018), di Carlo Calenda; il suo primo libro. Mette in luce i problemi che i popoli hanno oggi di fronte, ne propone soluzioni anche audaci, facendosi guidare dai principî della «democrazia liberale». Per l’Italia giunge a formulare un programma di governo di rilevante portata. In ogni caso, una felice sintesi tra visione d’insieme e percezione del «particulare».
Al centro del saggio, la tesi che la «globalizzazione», quale si è sviluppata negli ultimi trent’anni, ha favorito l’economia dei Paesi asiatici e soprattutto della Cina, ma ha fatto perdere all’Occidente (Stati Uniti e Europa, che della «globalizzazione» erano pur stati i promotori) la primazia culminata nel crollo dell’Unione Sovietica. Calenda ritiene che «per riportare nelle mani dell’Occidente il timone della globalizzazione» si debba «costruire una solida rete tra paesi democratici allo stesso stadio di sviluppo», dove il rapporto tra Usa e Europa è «prioritario» (p. 150).
Questa tesi non sostiene che la rivincita dell’Occidente sia «inevitabile»: la competizione tra potenze «vecchie» (Occidente) e «nuove» (Paesi asiatici emergenti) può infatti portare o a uno «scontro», oppure a un «aggiustamento» dei loro rapporti (p. 152). Un «aggiustamento» molto difficile, osservo, perché sarebbe un togliere dalle mani delle «nuove» potenze «il timone della globalizzazione». Riprenderlo in mano significa per Calenda rimettere lo Stato alla guida dell’economia e della tecnica, dopo il tempo della sottomissione ad esse da parte della politica.
Gli effetti negativi (specie per l’Occidente) della «prima fase della globalizzazione» sono dovuti per Calenda anche all’innovazione tecnologica. Egli considera quanto sono andato scrivendo sulla «destinazione» della tecnica al dominio e mette in risalto come per me tale «destinazione» sia una «tendenza» che non predetermina il futuro. Se lo predeterminasse, sarebbe infatti irrealizzabile il progetto di rovesciare questa tendenza, rimettendo la politica e lo Stato alla guida dell’economia e della tecnica.
Sennonché la tecnica che è corresponsabile degli effetti negativi della globalizzazione è la tecnica gestita dal capitalismo, cioè intesa come mezzo per l’incremento del profitto privato. E che lo Stato e la politica possano porsi o riporsi alla guida dell’economia e della tecnica è una possibilità che riguarda i prossimi decenni, ossia il tempo che sta tra il presente e il tempo in cui la tecnica è «destinata» a liberarsi dalla sua soggezione all’economia capitalistica o ad altra forma ideologica come quella cinese, avendo quindi la possibilità di realizzare il più alto livello di benessere raggiunto dall’umanità.
La «destinazione» di cui parlo è sì una «tendenza», ma nel senso che per la cultura oggi dominante non esiste alcuna verità necessaria e incontestabile e quindi non può esistere nemmeno una connessione necessaria tra il presente e il futuro - sì che è una «tendenza» che domani sorga il sole o che un corpo lasciato a sé stesso cada verso il basso. E nei miei scritti l’affermazione che la tecnica è «destinata» al dominio non è un dogma ma è argomentata, ed è questo argomentare che va confutato se si crede che anche nei tempi lunghi lo Stato possa tornare alla guida della tecnica e dell’ economia. Considerazioni, queste, in cui si sottintende che tra capitalismo e tecnica ci sia differenza, spesso ignorata, giacché lo scopo del capitalismo (aumento del capitale) non è quello della tecnica (aumento della potenza, cioè della capacità di realizzare scopi).
Le pagine di Calenda sui contrasti tra Occidente e Paesi asiatici, tra Occidente e Russia e tra Occidente e Islam sono estremamente istruttive. Ma se la tecnica è destinata al dominio, nel senso indicato, allora tali contrasti, sebbene non meno temibili, sono di retroguardia rispetto al contrasto che vede tutte le forze contrastanti schierate dalla stessa parte contro la tecnica, in prospettiva vincente.
Dei progetti che si trovano al centro del saggio vorrei infine menzionare quello umanistico-democratico di non sacrificare i diritti dell’uomo alla tecnica (e all’ economia) e quello di arginare il tentativo della Russia di dissolvere il peso dell’Unione Europea. Quanto al primo chiederei a Calenda: non dobbiamo forse tener presente che al fondo di ogni modo (anche del più «umanistico») in cui la cultura dominante intende l’uomo, l’uomo è concepito come forza cosciente di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, e cioè come essere tecnico, visto che la tecnica è la forma più matura di questa organizzazione? Sì che la tecnica non è devastazione ma inveramento del modo in cui la cultura dominante intende da ultimo l’esser uomo?
Quanto al secondo progetto, relativo al rapporto tra Russia e Europa, sin dall’inizio il tentativo di unificare l’Europa dando vita a un terzo polo è stato ed è una minaccia per l’equilibrio stabilitosi tra le due superpotenze nucleari, Usa e Russia, che oggi si pongono alla testa di due mondi tra loro conflittuali. Lo scrivevo ancor prima della fine dell’Unione Sovietica. Nessuna meraviglia che l’attuale governo americano e russo convergano nell’intento di mantenere l’Europa in posizione subordinata. Ma se la tecnica è destinata al dominio, queste forme di tensione non sono forse anch’esse contrasti di retroguardia rispetto all’inevitabilità che le Superpotenze e gli Stati divengano a loro volta mezzi per realizzare lo scopo della tecnica, la crescita indefinita della potenza? Fermo restando il mio completo accordo con Calenda sulla estrema complessità è imprevedibilità di tutti i contrasti di quel tipo.
Filosofia
Ogni istante della vita è eterno
Emanuele Severino sul destino delle cose. Le critiche a Horkheimer, Adorno e Popper
Un volume, edito da Rizzoli, che s’ispira alle controversie dell’Umanesimo
I limiti della tradizione occidentale e l’egemonia della tecnica
di Pierluigi Panza (Corriere della Sera, 07.02.2018)
L’uomo teme la morte. Se la morte è la minaccia che Dio rivolge ad Adamo, significa che Dio sa ciò che il primo uomo già teme maggiormente. Essa è l’elemento fondante il pensiero occidentale, secondo il quale l’ente è concepito dal nulla, diventa ente e poi torna nel nulla, di cui la morte segna il passaggio. Ma tutto questo l’essere non può esserlo, poiché il nulla è la negazione dell’essere e dove c’è il primo, che è eterno, non si può palesare il secondo.
Nel suo nuovo libro, Dispute sulla verità e la morte (Rizzoli), il filosofo Emanuele Severino muove dalle considerazioni base del suo pensiero neoparmenideo, guidando il lettore nel labirinto delle grandi domande, anche attraverso la rielaborazione di articoli apparsi sul «Corriere della Sera».
Il termine Dispute rimanda ad esempi della letteratura filosofica dell’Umanesimo o del Settecento: è l’affrontarsi di argomenti opposti. Qui sono il dominio delle tecnoscienze, che illusoriamente combatte il diventare nulla degli enti, contro l’immutabilità degli stessi in quanto esseri nella loro totalità, cosa che rimangono anche dopo il ritirarsi dalla vista.
È con il pensiero greco che gli enti incominciano a nascere dal nulla e sparire nel nulla. «Quasi, nascendo, moriamo», scriveva in ripresa a questo pensiero l’umanista Leon Battista Alberti; ed è ciò che diventerà l’«essere per la morte» nell’esistenzialismo di Martin Heidegger. Prima con i miti, poi con le religioni e, infine, con le tecnoscienze che hanno preso il posto della filosofia (e che il capitalismo crede, illusoriamente, di controllare), l’Occidente ha cercato di offrire una risposta all’angoscia del venir meno di ciò che era presente prima di precipitare nel nulla. Per Heidegger l’«Essere» è tempo e nessun ente è eterno; per le tecnoscienze conta l’incidenza pragmatica di un postulato sugli enti; gli scritti di Severino perseguono una terza via: la necessità che ogni ente sia eterno perché esso sia.
L’annientamento non può apparire, perché non possiamo fare esperienza dell’altro e perché, quando si crede che le cose si annientino, è necessario «che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza», ed è quindi impossibile che l’esperienza mostri a quale destino siano andate incontro le cose da essa uscite. Il significato della morte va posto fuori dal movimento dell’Occidente, concorde nelle sue esperienze del mito, delle religioni («strumenti ciechi» che si contendono la lotta al nulla) e delle tecnoscienze nel ritenere che l’individuo venga e ritorni al nulla. Questa concordanza costituisce una piattaforma dogmatica che consiste nel mostrare l’impossibilità di qualcosa di eterno o immutabile.
Severino si pone in alternativa a questa piattaforma: «Il destino della verità è l’apparire dell’eternità di ogni essente; sì che il venire e l’andare degli essenti, la loro nascita e la loro morte, è il comparire e lo scomparire degli eterni. La loro eternità è la condizione del loro ritorno». Il compimento e il non continuare che la morte segna non sono l’annientamento di ciò che ha avuto compimento e non continua. Per il principio per cui nessuna cosa può essere altro da ciò che è, ogni cosa è eterna, perché qualsiasi cambiamento la renderebbe diversa da ciò che è. Anzi, essendo l’essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza. Totalità non nell’accezione hegeliana della storia risolta nell’«In sé», ma totalità ontologica.
Per porre al centro l’eternità di tutte le cose e la negazione dell’esperibilità del loro diventar altro, Severino suggerisce di reintrodurre una educazione alla morte sul modello della Death Education (cita, a questo proposito, il libro di Ines Testoni, L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education , Bollati Boringhieri, 2015), una sorta di meditatio mortis che i Paesi anglosassoni intendono rendere operante.
Questo è urgente perché nel nostro tempo le tecnoscienze, nel dispiegare il loro scopo che è la creazione di scopi sia in chiave prassistica che controprassistica (Severino supera la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer), tendono a nascondere la morte come sconfitta. La tecnoscienza, infatti, non conosce la verità e la rifugge come Metafisica (qui la critica è a Congetture e confutazioni di Karl R. Popper), «ma non può nemmeno conoscere che cosa sia in verità la morte e l’angoscia per la morte». La morte è solo la persuasione «dell’assentarsi dell’eterno».
L’educazione alla morte deve partire dalla consapevolezza che l’eternità compete a ogni essente, non perché è contenuto originariamente in Dio, o perché la sua materia sia eterna, bensì perché esso «è quell’essente che è»: questa penombra della stanza, questo ricordo della giornata trascorsa, queste nubi del cielo, ogni istante della storia del mondo sono eterni perché sono questa penombra, questo ricordo, queste nubi, questi istanti. Non sono, e non possono diventare, un nulla.
Agli aspetti qui presentati, il volume ne aggiunge molti altri, come le osservazioni su Giovanni Gentile e i contributi nati dal pensiero dell’autore. In coda è pubblicata una lunga intervista rilasciata a Sioned Puw Rowlands. Il rilievo di alcuni è che Severino non abbandona il concetto di verità, così consustanziale alla filosofia greca, al cristianesimo e alla scienza moderna che egli contrasta.
L’area di Velia (Salerno) ha 35 mila visitatori l’anno. La Soprintendenza: serve un appalto
«Pagaci l’erba che tagli», così le piante invadono la casa di Parmenide
L’allevatore puliva gratis per il foraggio, quando gli hanno chiesto di pagare l’erba ha smesso di farlo e l’area archeologica è rimasta abbandonata a se stessa
di Marco Nese (Corriere della Serra, 20 settembre 2014)
VELIA (Salerno) - L’allevatore di cavalli arrivava coi suoi mezzi meccanici. Rasava l’erba attorno alle necropoli. Ripuliva gli spiazzi fra i ruderi e attorno ai resti della scuola del filosofo Parmenide. Con quell’erba ci nutriva i suoi quadrupedi. Fino al giorno in cui ricevette una lettera. «Se lei vuole la nostra erba, la deve pagare». Firmato: Soprintendenza di Salerno. Allibito, l’allevatore rispose che lui pensava di fare un piacere all’area archeologica di Velia, l’antica Elea, sulla costa del Cilento. «Se però devo pagare, l’erba tagliatevela voi».
Il gelso potrebbe crollare, ma senza autorizzazione non si può
Da allora la vegetazione cresce rigogliosa. Avvolge antiche colonne, invade i resti del tempio di Esculapio, minaccia di soffocare il teatro greco. La città della scuola eleatica appare ricoperta da un manto di erba e rovi. «Mancano i soldi - lamenta Tommasa Granese, direttrice dell’area archeologica -. Sarebbe necessario uno sfalcio regolare, anche per evitare il rischio di incendi, ma non ce lo possiamo permettere. Quest’anno poi l’estate piovosa ha favorito la vegetazione».
Se l’allevatore di cavalli se n’è andato offeso, il volontario che potava i giganteschi ulivi è morto. E adesso le piante non offrono un bello spettacolo, con tutti quei rami secchi meritevoli di cura. Un carrubo secolare si è prima spaccato in due e poi è crollato. Stava aggrappato a un pendio dove adesso i rovi hanno preso possesso di un vialetto impedendo il passaggio.
Un altro albero, un gelso colossale, costituisce al momento una minaccia per i visitatori. Potrebbe crollare. Alcuni custodi si sono offerti di intervenire. «Lei faccia finta di non vedere - hanno proposto alla direttrice -, in due o tre ore noi potiamo e sistemiamo tutto». Macché. La burocrazia ha le sue esigenze: per mettere in sicurezza il gelso bisogna addirittura fare una gara d’appalto, sperando che l’albero abbia nel frattempo il buonsenso di non cadere.
I reperti? Seppelliti in un deposito
Si calcola che gli scavi hanno consentito di esplorare finora solo il 20 per cento della zona. Già abbastanza per riportare alla luce anfore, statue, suppellettili e preziosi oggetti di epoca greca e romana. Tesori con cui si potrebbe riempire un museo. Ma siccome il museo è un sogno che non si è mai realizzato, tutto quel bendidio è sparito di nuovo sottoterra, stivato in un deposito con impianto di aereazione. Gli scavi continuano. Se ne occupano archeologi austriaci. «Un tempo - racconta un custode - qualcuno di noi controllava i lavori di scavo. Ora siamo pochi e nessuno va più a seguire le ricerche svolte dagli austriaci. Non sappiamo cosa hanno trovato. Si sono costruito un loro deposito, nessuno di noi ha idea di quali reperti custodiscono là dentro».
Con gli scarsi finanziamenti che riceve, la Soprintendenza deve mantenere attivi vari siti archeologici, in particolare Paestum. Così la città di Parmenide finisce con l’essere un po’ trascurata. Appena 17 custodi devono tenere d’occhio un’area di oltre 100 ettari visitata ogni anno da 35 mila appassionati. Ogni minima spesa dev’essere approvata dalla Soprintendenza.
Servirebbe, per esempio, un lucchetto: quello che teneva bloccato un cancello si è rotto. Di regola, bisognerebbe compilare moduli e aspettare mesi il permesso di acquistarne uno nuovo. Un custode ha risolto portandosene uno da casa, quando gli serve se lo riprende. Con pochi custodi non sempre si riesce a tenere aperti tutti i siti. Allora capita di trovare chiuso il locale in cui è custodito uno dei reperti più importanti, l’erma di Parmenide, l’unico documento che mostra qual era l’aspetto del grande pensatore.
Oltre il destino. Quel senso del nulla
Essere e Verità, vita e morte: il nuovo saggio di Emanuele Severino
L’autore torna sui temi a lui cari e integra in parte il suo pensiero precendente. Partendo dalla «Struttura originaria», la prima formulazione del sistema filosofico, affronta una questione necessaria quanto impossibile da spiegare
di Vincenzo Vitiello (l’Unità, 20.05.2013)
CON AMMIREVOLE COSTANZA EMANUELE SEVERINO PROSEGUE NELL’INCESSANTE, e per certi aspetti finanche ossessiva, interrogazione sui temi propri della sua filosofia: il nulla, il destino, l’isolamento della Terra. Non sono ancora trascorsi due anni dalla pubblicazione de La morte e la Terra, che esce il suo nuovo saggio, Intorno al senso del nulla (Adelphi, Milano 2013), che sta a mezzo tra il commento e la integrazione-revisione del precedente.
Il tema di quest’ultimo libro l’«aporia del nulla» lo collega direttamente alla Struttura originaria, la prima formulazione del sistema filosofico, che l’impose giovanissimo, all’attenzione della repubblica dei filosofi per l’arditezza delle sue tesi. Ma in che consiste questa aporia del nulla, peraltro già rilevata dal monaco Fredegiso di Tours agli albori del IX secolo? In ciò, che parlare del nulla è tanto necessario quanto impossibile: necessario per potere definire l’essere, impossibile, perché con l’atto stesso di opporlo all’essere gli si conferisce uno statuto d’essere, che lo nega come nulla.
La soluzione prospettata nella Struttura originaria, e variamente ribadita nelle opere successive, consiste nel distinguere il contenuto dell’enunciato, il significato «nulla», che per la sua contraddittorietà si nega da sé, dall’enunciare stesso, il positivo significare il nulla, l’incontraddittorio dire: «il nulla è nulla». Non è questa la sede per esporre le obiezioni che a tale soluzione sono state mosse (tra gli altri da chi firma questa nota). Più conveniente a questa sede, e in generale più interessante, ci sembra ragionare sulla strategia messa in atto da Severino per spiegare com’è possibile, per una filosofia che afferma con la negazione del nulla l’eternità di tutte le cose, ammettere un «nuovo tipo di aporia del nulla» rimasta «irrisolta», che consiste in quel problematico «non è» che pur ricorre, esplicitamente o implicitamente, in tutti i giudizi che noi, abitatori della Terra isolata dal Destino, correntemente adoperiamo.
E ancora come è possibile una «terza forma di autocontraddizione del nulla». La strategia è presto detta: quanto di nuovo dell’«aporetica del nulla» si presenta nel libro ultimo è nella sua forma essenziale già incluso nella Struttura originaria. Incluso, anche se non era detto. Il che è affatto coerente con la tesi fondamentale di questa filosofia che spiega la nascita delle cose eterne in quanto riposano nello sfondo inapparente dell’Infinito con il loro entrare negli orizzonti sempre finiti dell’apparire del Tutto, e la loro morte con la loro uscita.
Ma come spiegare la differenza tra l’apparire del Tutto in orizzonti sempre finiti, e l’inapparente essere infinito del Tutto? Severino ha dapprima risposto che l’Infinito appare negli infiniti circoli finiti del suo mai compiuto apparire. Risposta che lui stesso ha riconosciuto nsufficiente, dacché non colma la distanza tra l’apparire e l’essere (se si vuole: tra il pensiero e l’essere), al contrario l’eternizza. Nel libro La morte e la Terra si spinge oltre, affermando che nell’istante della morte «appare la totalità concreta e infinita dello sfondo». È, questo, un passaggio necessario della sua filosofia. Ma non ancora sufficiente: in Intorno al senso del nulla va ancora oltre: oltre l’istante della morte. Scrive: «A differenza di quanto si dice ne La morte e la Terra», lo «splendore dello sfondo» avviene «subito dopo tale istante, nell’avvento della Terra che salva, liberando lo sfondo e la pura terra dal contrasto con la terra isolata». (p. 98).
Le distinzioni si moltiplicano, «sfondo» e «splendore dello sfondo» sono diversi, come l’apparire della Totalità è diverso dall’apparire della Totalità liberata dal contrasto con la Terra isolata. Ma se l’istante della morte è ancora troppo legato alla vita, alla Terra isolata dal Destino, lo «splendore dello sfondo» che avviene subito dopo ricorda troppo da vicino quella pagina del Mondo come volontà e come rappresentazione sulla morte come liberazione dai limiti dell’io empirico. «L’uomo scrive Severino non muore all’interno di un vortice, di un divenire che lo travalica e sopravanza spingendolo nel nulla. L’uomo muore all’interno di se stesso. Muore come volontà singola all’interno di sé come cerchio eterno dell’apparire del destino» (ivi).
Esito paradossale di una filosofia che ha osato spingere il pensiero oltre ogni limite, anche quello della morte; ma che nel momento stesso che trova l’identità di Verità ed Essere scopre l’abisso che li tiene divisi. In eterno. Nell’eternità del Destino della necessità, che riconosce deve riconoscere eterna anche la Terra isolata dal Destino. La Pasqua della resurrezione e il Venerdì della passione restano in eterno uniti.
Esito paradossale, anzi sommamente aporetico, ma quanto mai istruttivo. L’incessante ritorno del filosofo sulle proprie soluzioni testimonia di un’inquietudine del pensiero che mai non s’acquieta; testimonia di quella infirmitas che è il carattere più proprio della pratica filosofica, che è sempre oltre la teoria in cui essa pur si costringe ad esporsi.
Premessa sul tema. Note:
Il paradosso dell’identità
Manifesto per vivere in una società aperta
Ecco le tesi che il filosofo Bodei presenta domani al ciclo "Le Parole della Politica" sul tema del rapporto tra noi e gli altri La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo di quelle comunità che sono determinate ad essere se stesse Più il mondo si allarga più si tende a reagire con la paura e l’egoismo con la paradossale rinascita di piccole patrie
di Remo Bodei (la Repubblica, 22.06.2011)
Da termine filosofico e matematico per designare l’eguaglianza di qualcosa con se stessa il termine identità è passato a indicare una forma di appartenenza collettiva ancorata a fattori naturali (il sangue, la razza, il territorio) o simbolici (la nazione, il popolo, la classe sociale). Ci si può meravigliare che esistano persone, per altri versi ragionevoli e sensate, che credano a favole come l’"eredità di sangue" o l’autoctonia di un popolo, che si inventino la discendenza incontaminata da un determinato ceppo etnico o la sacralità dell’acqua di un fiume. Eppure, si tratta di fenomeni da non sottovalutare e da non considerare semplicemente folkloristici e ridicoli.
Si potrebbe obiettare - come hanno notoriamente mostrato eminenti storici - che la maggior parte delle memorie ufficiali e delle tradizioni è non solo inventata, ma molto più recente di quanto voglia far credere. Tuttavia, le invenzioni e i miti, per quanto bizzarri, quando mettono radici, diventano parte integrante delle forme di vita, delle idee e dei sentimenti delle persone. (...) Bisogna capire a quali esigenze obbedisce il bisogno di identità, perché esso sia inaggirabile in tutti i gruppi umani e negli stessi individui, perché abbia tale durata e perché si declini in molteplici forme, più o meno accettabili.
Da epoche immemorabili tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli "altri". La formazione del "noi" esige rigorosi meccanismi di esclusione più o meno conclamati e, generalmente, di attribuzione a se stessi di qualche primato o diritto. La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo ed elementare della compattezza di gruppi e comunità che si sentono o si vogliono diversi dagli altri e che intendono manifestare per suo tramite la propria determinazione ad essere se stesse. Essa è l’espressione di un forte bisogno di identità, spesso non negoziabile.
Sebbene si manifesti attraverso un’ampia gamma di sfumature, nella sua dinamica di inclusione/esclusione, l’identità è sempre intrinsecamente conflittuale. Realmente o simbolicamente, circoscrive chi è dentro una determinata area e respinge gli altri. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ciascuna società deve lasciare aperte alcune porte, prevedere dei meccanismi opposti e complementari di inclusione dell’alterità. Lo straniero è così, insieme, ponte verso l’alterità e corruttore della compattezza dei costumi di una determinata comunità.
Per orientarsi e capire, occorre distinguere tre tipi di identità.
La prima si esprime in una specie di formula matematica "A=A": l’italiano è italiano e basta, il rumeno è rumeno è basta. Tale definizione naturalistica, auto-referenziale e immutabile, è la più viscerale ed ottusa, incapace di accettare confronti tra la propria e le altre comunità, di cui non vede letteralmente i pregi, ma che anzi sminuisce e disprezza. Essa fa costantemente appello alle radici, quasi che gli uomini siano piante, legati al suolo in cui nascono o, come credevano gli ateniesi antichi, quasi siano sbucati dal suolo come funghi.
In generale, più una società diventa insicura di se stessa, più vengono meno i supporti laici della politica. In tal modo, più si produce una specie di malattia del ricambio sociale, che si materializza nel rifiuto di assorbire l’alterità, e più si proiettano sullo straniero, che magari proviene da popoli di antica civiltà, le immagini del selvaggio, del nemico pericoloso. Certo i vincoli di appartenenza sono necessari a ogni gruppo umano e a ogni individuo, ma non sono naturali (come potremmo sopravvivere se non sapessimo chi siamo?): sono stati costruiti e sono continuamente da costruire, perché l’identità è un cantiere aperto. Per questo la nostra identità non può più essere quella che auspicava Alessandro Manzoni, nel Marzo 1821, per l’Italia ancora da unire: "Una d’arme, di lingua, d’altare,/ Di memorie, di sangue e di cor". Oggi alcuni di questi fattori non sono più richiesti, tranne la "lingua", anche per motivi pratici, e, possibilmente, il "cor", l’Intimo sentimento di appartenenza. La religione, soprattutto, non rappresenta più un fattore discriminante per ottenere la piena cittadinanza e non caratterizza (o non dovrebbe più caratterizzare) l’intera persona come soltanto "mussulmano" o "cristiano".
Il secondo modello si basa sulla santificazione dell’esistente per cui, quello che si è divenuti attraverso tutta la storia ha valore positivo e merita di essere esaltato. Si pensi al Proletkult sovietico degli anni Venti: il proletario è buono, bravo, bello. Si dimenticano così le ferite, le umiliazioni, le forme di oppressione, le deformazioni che la storia ha prodotto sulle persone. Lo stesso è accaduto nel proto-femminismo: la donna è da santificare così come è divenuta. Anche qui si trascura quanto dicevano, in maniera opposta, Nietzsche e Adorno. Secondo Nietzsche, quando si va da una donna, non bisogna dimenticare la frusta. Al che Adorno, giustamente, osservava che la donna è già il risultato della frusta.
Il terzo tipo di identità, quello che preferisco e propongo, è rappresentato da un’identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l’identità individuale e collettiva si esalta. Bisogna avere accortezza e pazienza politica nell’inserire nel tessuto sociale individui e gruppi finora esclusi, perché al di fuori dell’integrazione non esistono realisticamente altre strade praticabili. Integrazione non vuol dire assimilazione, rendere gli altri simili a noi, ma non vuol dire nemmeno lasciarli in ghetti, in zone prive di ogni nessun contatto con la popolazione locale.
Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l’idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l’esaltazione delle differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con chiusure dettate dalla paura e dall’egoismo, con la rinascita di piccole patrie.
Cattivi maestri al San Raffaele
di Maurizio Viroli (*) ( il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2010)
Se qualcuno ancora non crede che il potere enorme di Berlusconi stia diffondendo servilismo e corruzione nella vita politica e sociale, non ha che da considerare quanto è avvenuto martedì 20 luglio in una prestigiosa istituzione accademica qual è l’Università Vita-Salute San Raffaele, in occasione della discussione della tesi in Filosofia di Barbara Berlusconi, figlia del presidente del Consiglio. In quella sede, il rettore dell’Università don Luigi Verzé, ha rivolto a Barbara Berlusconi questo invito: “Collabori alla fondazione di una facoltà di economia e ne diventi docente!”.
A queste parole, la professoressa Roberta De Monticelli, chiamata al San Raffaele per chiara fama nel 2003 a insegnare Filosofia della Persona, ha reagito inviando una lettera ai giornali dove ha espresso la sua ferma riprovazione di quella che definisce “una violazione non solo del principio della pari dignità formale degli studenti, non solo della forma e della sostanza di un atto pubblico quale una proclamazione di laurea, non solo della dignità di un corpo docente che il rettore dovrebbe rappresentare, ma anche dei requisiti etici di una istituzione universitaria d’eccellenza quale l’Università San Raffaele giustamente aspira a essere”. “Tengo a dissociarmi nettamente e pubblicamente - ha sottolineato Roberta De Monticelli - da queste parole e dalla logica che le sottende, logica che da una vita combatto, come combatto da sempre il corporativismo e i sistemi clientelari dell’Università italiana, e il progressivo affossamento di tutti i criteri di eccellenza e di merito, oltre che dell’Università stessa come scuola di libertà”.
Docenza ad personam
LA RISPOSTA dell’Università non si è fatta attendere: "Non si deve gridare allo scandalo: qualcuno si meraviglia se alla Cattolica i docenti si sono praticamente tutti formati nelle file di quell’Università? Chi frequenta don Luigi sa che egli considera i nostri discenti i nostri primi docenti e sa anche quanto a lui stia a cuore che il futuro di tutto il San Raffaele sia affidato preferibilmente a chi lo conosce meglio degli altri. Quello di restare, di continuare a studiare, di approfondire gli studi con la ricerca è l’invito che lui fa, da sempre, a ognuno".
E invece lo scandalo c’è e la difesa dell’Università lo mette ancora più in evidenza. Prima di tutto c’è una bella differenza fra rivolgere a tutti i neolaureati l’invito a proseguire gli studi, a dedicarsi seriamente alla ricerca e a distinguersi nella comunità intellettuale internazionale, e rivolgersi ad una particolare neolaureata, figlia di padre multimiliardario e presidente del Consiglio, per invitarla a dare il suo contributo (intellettuale?) alla fondazione di una facoltà di economia e diventarne docente.
Nel primo caso si tratta di una degna e nobile esortazione ai giovani, nel secondo di un invito ad personam (dev’esserci un’epidemia in Italia di iniziative di questo tipo) prefigurando una particolare attenzione volta soprattutto a compiacere il potente padre presente alla cerimonia. Le parole del Rettore sono un esempio mirabile di abilità nel mettere in pratica la regola aurea dell’adulazione che prescrive di lodare le persone che il signore ha care per ottenere benefici. Proprio perché la candidata è figlia di Berlusconi, il Rettore avrebbe dovuto astenersi da qualsiasi commento che mettesse in risalto il suo status particolare rispetto agli altri.
Ma ancora più notevole del gesto servile è stato l’elogio della corruzione che leggiamo nel comunicato dell’Università, dove si afferma che nessuno deve gridare allo scandalo di fronte alla consolidata pratica di chiamare preferibilmente i propri ex studenti a diventare docenti.
Malcostume e baronie
LO SCANDALO invece c’è, ed è serio, e consiste proprio nel costume di non selezionare i candidati ai dottorati di ricerca, ai posti di ricercatore e di professore - quale che sia la loro provenienza - in base ai titoli scientifici, ma in base al famigerato criterio di aver svolto tutto il corso di studi all’interno dell’istituzione. Questo costume ha fatto sì che nel corso degli anni centinaia di candidati scadenti siano stati preferiti ad altri con titoli molto migliori, per il solo fatto di essere‘portati’,così si dice in gergo, dal professore interno. E così le facoltà universitarie si sono riempite di studiosi mediocri (ma abilissimi adulatori) e i migliori sono stati costretti o ad abbandonare la ricerca,o a cercare la propria strada all’estero, in quelle università che non privilegiano “i propri discenti” cari al rettore Verzé e a tanti altri accademici, ma solo ed esclusivamente i titoli.
Suscita indignazione che la difesa della pratica di privilegiare i propri studenti appaia in un comunicato ufficiale volto a sostenere che le parole del Rettore non lasciavano intravvedere trattamenti di favore. Se l’intenzione del rettore voleva essere soltanto un’innocente esortazione a perseguire gli studi, perché citare a difesa la pratica di privilegiare i propri allievi? Ha ragione la professoressa De Monticelli, il cui comportamento è esempio di coraggio e di vera lealtà verso la sua università.
Quanto è avvenuto al San Raffaele documenta, ancora una volta, il malcostume accademico italiano noto sotto il nome di clientelismo: prima i nostri, poi, se ne avanza, gli altri. E se i nostri hanno anche il padre ricco e potente, meglio ancora. Sia chiaro: al favore non si risponde con la discriminazione, ma con la giustizia. Barbara Berlusconi ha il diritto di laurearsi e di percorrere, se questa è la sua vocazione, tutta la carriera accademica. Ma si chieda anche a lei di distinguersi per meriti propri, e lei dovrebbe essere la prima a pretendere di non aver alcun trattamento privilegiato, in modo che, se avrà riconoscimenti, potrà esserne in cuor suo, fiera e presentarsi davanti alla comunità scientifica e alle persone libere, sempre a testa alta. Il favore, non dimentichiamolo, esalta (si fa per dire) chi lo concede, ma umilia chi lo riceve.
(*) Docente di Teoria politica alla Princeton University
SONDAGGIO
Italiani a metà
un popolo diviso
Fieri di appartenere alla comunità nazionale anche se spesso pronti a considerare il Sud un peso. L’Italia si presenta ai 150 anni dell’Unità con molte contraddizioni ma con un’identità. Costruita soprattutto intorno all’attaccamento ai familiari e all’arte di arrangiarsi.
Ecco perché, nonostante le tensioni, continuiamo a sentirci cittadini dellostesso Paese. E perché rischiamo di scoppiare
di ILVO DIAMANTI *
CI SI avvia al 150esimo anniversario dell’unità nazionale fra molte divisioni. Tanto che alcuni fra i più autorevoli componenti del Comitato dei Garanti per le celebrazioni si sono dimessi. Per primo: Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente della Repubblica che, nel corso del suo mandato, ha investito sulla riaffermazione delle feste e dei simboli nazionali. Un atteggiamento che non pare condiviso dalla maggioranza di governo. Nella Lega, soprattutto. I cui leader, a partire da Bossi, fanno a gara nel sottolineare che c’è poco da celebrare. Che, per i padani veri, l’unità d’Italia anzi: l’Italia stessa non merita di essere celebrata. Così, ci si avvia a questo 150enario in modo dimesso e reticente. Un po’ come l’atteggiamento degli italiani verso l’Italia, descritto da un sondaggio di Demos per Repubblica. Difficile da interpretare in un solo modo. Tratteggia un popolo di "italiani a metà". Visto che, fra le diverse appartenenze territoriali, il 28% sceglie, anzitutto, l’Italia (comunque, in crescita di 5 punti rispetto al 2006). Il resto: cosmopoliti (27%) e localisti (45%). Dunque, veneti, siciliani, lombardi, napoletani, nordisti "e" - non "o" - italiani. Visto che quasi tutti (l’88%) si dicono (molto o abbastanza) "orgogliosi" della propria appartenenza nazionale. E quasi tutti (l’84%) considerano "positiva" (il 24% "molto") l’Unità d’Italia.
Italiani a metà. Perché, tuttavia, il 30% di essi considera il Sud un peso. Il 41% nel Nordest, ma il 24% anche nel Mezzogiorno. Cittadini di un paese diviso. Non solo dal punto di vista territoriale, ma - lo sappiamo bene - anche politico. E civile. Perché lontani dalle istituzioni e dallo Stato. L’orgoglio nazionale, infatti, appare incardinato su elementi extra-civili e pre-politici. La bellezza del paesaggio, il patrimonio artistico e culturale, la moda e la cucina. Mentre gli elementi che specificano gli italiani rispetto agli altri popoli, secondo gli italiani stessi, evocano il "carattere nazionale": l’attaccamento alla famiglia e l’arte di arrangiarsi, sopra tutti gli altri. (Come abbiamo messo in luce anche su liMes, in altri scritti). Seguiti dalla "creatività" - nell’arte e nell’economia. Perché l’arte di arrangiarsi è, in fondo, un’arte. Evoca la capacità di innovare e di inventare. Gli italiani. Familisti, imprenditori, localisti, artigiani e artisti. In fondo alla graduatoria dei caratteri che li distinguono dagli altri popoli, non a caso, pongono la fiducia nello Stato e il senso civico. Mentre, fra gli avvenimenti che hanno modernizzato la Repubblica, al primo posto, indicano la "ricostruzione economica degli anni 50 e 60". La stagione nel corso della quale il nostro paese conquistò, faticosamente, lo sviluppo e il benessere. Quando gli ultimi dell’Occidente risalirono fino ai primi posti. E si guadagnarono un po’ di rispetto dagli altri. Non più soltanto mafiosi, poveracci ed emigranti. Ma lavoratori e imprenditori.
"Italiani a metà", però, non significa solo "divisi", ma anche ambivalenti e contraddittori. Perché, dopo la "ricostruzione", tra i fattori di modernizzazione della Repubblica, collocano lo "statuto dei lavoratori" e il "referendum sul divorzio". Avvenimenti che segnarono una stagione di mutamento sociale e civile profondo. E, tra i motivi che alimentano l’orgoglio nazionale, il 50% indica la Resistenza e il Risorgimento, il 43% la Costituzione (un orientamento in crescita di 7 punti percentuali rispetto al 2008). Quasi come lo sport e la Nazionale (ma, in questo caso, pensiamo che si tratti di una risposta reticente. Mentre quasi due italiani su tre ammettono la loro soddisfazione (non andiamo oltre...) di fronte al Tricolore e all’inno nazionale.
Insomma, gli italiani sono divisi, non solo dal punto di vista politico e territoriale, ma anche personale. Incoerenti anche di fronte a se stessi. In grado di manifestare malessere verso il Sud, fino ad auspicarne l’espulsione dal Paese. Oppure, identificati nel loro piccolo mondo, nella loro piccola patria locale: città, regione, Padania, Sud. E ancora: sfiduciati verso lo Stato, disillusi nei confronti delle istituzioni. Rassegnati al proprio - patologico e storico - deficit di senso civico, rimpiazzato e compensato da un senso "cinico" dilatato e dilagante. Le stesse persone che si dicono orgogliose di essere italiane. Convinte che l’Unità sia una conquista positiva. Solo una minoranza minima (15%) sostiene che dividere Nord e Sud sia un obiettivo utile, da perseguire.
Gli stessi italiani raccolti intorno al Presidente Napolitano, guardato con fiducia da oltre 7 cittadini su 10. Come Ciampi, prima di lui. Prova che, se lo Stato è lontano, se il Paese è diviso, c’è grande bisogno di riferimenti e di istituzioni comuni, in cui riconoscersi "insieme". Ciò induce a leggere diversamente anche fenomeni che hanno assunto grande ampiezza e importanza crescente, come il voto alla Lega. Il cui significato è, anch’esso, in-coerente. E non può essere assimilato, in modo automatico, ai proclami e alle parole dei leader padani. Visto che 2 leghisti su 3 considerano positiva l’Unità d’Italia e 8 su 10 si dicono "orgogliosi" di essere italiani (il 52%: "molto"). D’altra parte, basta pensare all’Adunata Nazionale degli Alpini, ieri. Centinaia di migliaia di penne nere confluite a Bergamo, nel cuore di una zona leghista. Gli alpini, al cui interno le simpatie leghiste non sono poche (basta citare l’esempio di Gentilini, prosindaco di Treviso e "alpino doc"). Sfilano, orgogliosamente, dietro al Tricolore. Accompagnati da inni patriottici.
Un altro segno di questo Paese di italiani a metà. Che, proprio per questo, potrebbe non restare tale, a lungo. Dipende dal modo di rappresentarli - e di governarli - espresso dagli attori politici. Dalle istituzioni. Potrebbero cambiare. Divenire, finalmente, una "nazione" (per echeggiare Gian Enrico Rusconi). Oppure degradare ancora. Rinunciare del tutto alla loro identità nazionale. Al residuo di civismo che ancora esprimono. Gli "italiani a metà": potrebbero ridursi a "mezzi italiani". Per citare Edmondo Berselli: post-italiani. Non-cittadini di un paese provvisorio.
* la Repubblica, 10 maggio 2010
Il popolo
L’oggetto del desiderio della nuova demagogia
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 31.03.2009)
La concezione liberale lo vede non come una massa uniforme che applaude un uomo ma come un insieme di individui e cittadini. E’ nell’Ottocento che gli viene attribuita in quanto volontà collettiva la fonte della legittimità dei governi e anche la sovranità politica
"Il popolo" è tra le categorie politiche quella forse più ambigua e più abusata, al punto di essere ora adottata addirittura per designare un partito, come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" si proponesse identica al tutto.
L’origine del termine "popolo" è latina e nella tradizione romana repubblicana aveva un significato di opposizione/distinzione rispetto a una parte di popolazione che non era popolo: l’aristocrazia o il patriziato. Per questa sua connotazione non socialmente unitaria, dovendo decidere la denominazione della nuova assemblea convocata all’indomani della presa della Bastiglia, nel 1789, i costituenti francesi preferirono l’aggettivo "nazionale" a "popolare".
L’incorporazione del "popolo" nella concezione moderna della sovranità statuale e poi la sua identificazione con la nazione vennero perfezionate nel corso dell’Ottocento. Nel 1835 Giuseppe Mazzini lo definì "l’unica forza rivoluzionaria" esistente anche se "mai scesa nell’arena" politica, fino ad allora il luogo esclusivo della "casta" aristocratica e militare. Popolo venne a identificarsi con volontà collettiva e quindi con la sorgente del consenso fondamentale senza il quale nessun governo poteva dirsi legittimo.
Ma è proprio nella natura singolare del nome che sta il problema. Nelle principali lingue europee ad eccezione della lingua inglese, i termini Popolo, Peuple, Volk designano un’entità organica, un tutto unico la cui volontà è una ed è legge. Lo stesso Jean-Jacques Rossueau, al quale ingiustamente è stata attribuita la paternità teorica della democrazia totalitaria, aveva anticipato i rischi di plebiscitarismo quando, descrivendo l’assemblea popolare come unico legittimo sovrano, aveva precisato con molto acume che i cittadini vi si recano individualmente, e poi, una volta riuniti in assemblea, danno il loro voto in silenzio, ragionando ciascuno con la propria testa e senza consentire a nessun oratore di manipolare i loro consenso.
Le adunate oceaniche di memoria fascista e nazista sono state una negazione della volontà popolare democratica alla quale pensava Rousseau e che è così ben definita nella nostra costituzione.
Quelle adunate di popolo, che ricalcavano il modello dell’antica Sparta dove le assemblee si concludevano urlando il "sì" o il "no" alla proposta del consiglio, non erano per nulla un segno di democrazia. In Atene, alla quale dobbiamo la nostra visione della democrazia, i cittadini si recavano all’assemblea e votavano individualmente, con voto segreto, e infine contavano i voti uno per uno, non fidandosi dell’impressione acustica provocata dall’urlo come a Sparta.
Il modo di raccogliere il consenso e la procedura di computa dei voti sono stati da allora i due caratteri cruciali che hanno dato democraticità alla categoria ambigua di popolo; che hanno anzi consentito di togliere l’ambiguità ed evitare l’abuso.
È chiaro infatti che se il termine "popolo" è singolare, sono le regole che si premuniscono di renderlo plurale. Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso del popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. È ancora a un autore classico che ci si deve affidare per comprendere questa distinzione cruciale.
Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un’unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente.
Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo?
Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all’insieme degli individui-cittadini che fanno una nazione.
Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale le voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l’esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprime pubblicamente per poter essere valutate e scelte.
Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella "voce".
Ma se la "vox dei" abita un luogo definito e unico - sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo - se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso.
Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l’unanimità e la concordia ecclestastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.
Il dopo Berlusconi è Tremonti
di Biagio De Giovanni (Il Riformista, 19 marzo 2009, pag. 1)
Che cosa rappresenterà il Popolo della libertà nella storia politica italiana? Come tutte le domande coniugate al futuro, e per di più riguardanti il futuro di una entità politica, le variabili sono tali e tante da mettere a rischio la credibilità di ogni previsione e di ogni analista. Ma il filosofo, notoriamente, non ha niente da perdere, può permettersi anche di cadere nel fosso tra le risate delle servette, e quindi può azzardare qualche ipotesi. La spinta a una riflessione sul tema mi viene anche dall`aver assistito, qualche sera fa, alla trasmissione dell`Infedele dedicata al nuovo partito in formazione. In essa, protagonisti come Ida Dominjanni e Aldo Schiavone concordavano su due punti: sul fatto che la crisi starebbe influenzando in modo accelerato un cambiamento di fase politico-culturale a favore della sinistra, e sull`avvio di un declino dell`egemonia culturale del berlusconismo che sarebbe già in fase calante, due effetti strettamente legati l`uno all`altro.
Non condividendo nessuna di queste due previsioni, azzardo un altro percorso che a un certo punto incontra anche il tema del Pdl. Segni consistenti di crisi del berlusconismo in giro non ne vedo. Ho sempre pensato che le elezioni dell`aprile 2008 con la forza simbolica di un`immagine, tutte le forze della Prima Repubblica all`opposizione - costituiscono, tendenzialmente, la conclusione della transizione politica italiana, e lasciano prevedere un lungo governo di quella che convenzionalmente chiamiamo "destra".
Quella data non è, a mio parere, una data di arrivo ma di partenza, di qualcosa destinato a sopravvivere alla stessa conclusione dell`esperienza diretta di Berlusconi. Se posso dirla così, ci sta pensando soprattutto Giulio Tremonti (e a modo suo, e qui mi distinguo dalla vulgata, anche Gianfranco Fini) a razionalizzare il berlusconismo nelle sue punte scomposte, e a consolidare i passaggi di un`egemonia che sembra avere le carte in regola anche per attraversare la crisi, pur se qui c`è sicuramente qualche variante in più da mettere nel conto. La crisi, si dice, può scompaginare tutte le previsioni, rompere il tessuto analitico costruito su elementi destinati a essere travolti.
Ma, vorrei obiettare, perché essa produca effetti "a sinistra" bisognerebbe che questa parola avesse una consistenza che non ha, e che comunque la natura della crisi fosse tale da rimetterla in campo quasi automaticamente. Nessuno di questi due elementi può essere seriamente argomentato. Da un lato, non si ha traccia di un pensiero della sinistra italiana, e ci vorrà tempo e fatica per ridisegnarlo: Franceschini sembra, per ora, voler ridurre il Pd a un piccolo sindacato di sinistra.
E non pensiamo, per carità, ad Obama nelle vesti del Salvatore: Obama è importante, ma non in chiave mitica. Dall`altro, la crisi non mi pare abbia, come tale, la capacità automatica di rovesciare il piano di una egemonia che in Italia si va consolidando. Può accentuare zone di ribellismo e di chiusura corporativa, non formare la base di un tessuto anche ideale e culturale per rovesciare il sentimento di una società e il senso della sua prospettiva.
Vedrete che quando si finirà di demonizzare l`intera cultura del ventennio trascorso - pur sempre quello che ha promosso il maggiore sviluppo della civiltà umana in tutta la sua storia - e si ritroverà un equilibrio analitico, questo punto di equilibrio non sarà tale da riabilitare, come se nulla fosse, le classiche coordinate del pensiero di sinistra. Insomma, non c`è niente di automatico in corso, ci vorranno un pensiero, una visione della storia d`Italia, e perfino un partito, proprio le cose che latitano e che non nascono senza lunga fatica e lavoro.
L`appuntamento è lontano. E veniamo al Pdl. Anzitutto, uno sguardo indietro alla storia d`Italia. Non si sta ricostituendo la Dc, partito di centro che guarda a sinistra, e nemmeno (non varrebbe la pena dirlo, ma meglio esser precisi: Eugenio Scalfari non parla, da tempo, di puzza di fascismo?) assistiamo a una riedizione in chiave XXI secolo del partito fascista. E piuttosto l`idea di un partito che emerge dalla storia del pre-fascismo, e che allora fu sommerso dal trasformismo.
E il partito dei moderati italiani quello che si va formando, con una forza che non ha precedenti nella nostra storia politica e che potrebbe non aver bisogno di diventare il nucleo di un nuovo trasformismo, che sarebbe la sua tomba. E il partito della borghesia italiana, e questa espressione oggi ha rotto i suoi vecchi confini e in essi può entrare anche una parte del "popolo". Ma sono i moderati a tenere il filo nelle mani, e moderatismo non coincide né con conservatorismo né con radicalismo.
La ragione della sua formazione è dunque profonda, non congiunturale, risponde a una domanda inevasa da anni lunghissimi e, se riuscirà, contribuirà a un cambiamento di lungo respiro del sistema italiano. Essa potrà dare perfino alla sinistra dei motivi in più per ricostituire un proprio tessuto ideale, secondo un elementare principio dialettico che mi spinge a prevedere che la formazione del Pdl sarà ragione di rafforzamento pure per il Pd. La cosa, insomma, va presa molto sul serio, e tutti quelli che hanno a cuore l`Italia dovrebbero auspicarne il successo, perché potrebbe esser la premessa per una normalizzazione in forma inedita della dialettica politica, e Dio sa il Paese ne ha bisogno.
Che mito la società civile
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 16/3/2009)
L’ultimo mito cui si aggrappa la sinistra è quello della «società civile», da cui trarre forza e impulso per resistere all’involuzione del sistema politico e quindi per la difesa della Costituzione. Come se il berlusconismo non nascesse dalle viscere della società civile italiana. Come se la nostra Costituzione storica non fosse il prodotto di una congiuntura ideale, politica, sociale, culturale già tramontata.
Il colmo è che chi denuncia questa situazione viene accusato o sospettato di disfattismo democratico.
Invece l’interrogativo cruciale oggi è proprio come ricostituire una democrazia funzionante in una società civile in decomposizione. Come riscrivere, eventualmente, una Costituzione che, sulla base dei valori irrinunciabili di libertà e di solidarietà che sono stati a fondamento della democrazia storica, sia all’altezza delle nuove sfide. Sfide che vengono, appunto, da una società civile disorientata sulle regole della politica, sull’autonomia dell’etica pubblica, sui comportamenti selvaggi di un sistema economico globale che si è smascherato come il regno dell’irrazionale. Con buona pace della schiera di economisti, banchieri e politici che - privi di senso del pudore - ora ci fanno le prediche sulla necessità dell’etica nel capitalismo.
Ma torniamo alla nostra Italietta. È finito il tempo del facile sarcasmo sul berlusconismo. Se ne stanno accorgendo (salvo alcune tardive eccezioni) anche i nostri vicini europei. Verso il nostro Paese adottano una diplomazia benevola accompagnata da attenta osservazione. Gli italiani - dicono - facciano pur quello che vogliono a casa loro (ormai hanno fatto di tutto), purché non turbino le regole esterne generali.
In effetti, da quando è esplosa la Grande Recessione l’Italietta se ne sta da parte, quasi inattiva. Partecipa volonterosamente alle coreografie internazionali, senza grandi pretese. Il Cavaliere lombardo sembra aver adottato l’antica ricetta napoletana del «lasciar passare la nottata». Ma lo fa con una variante decisiva: approfittare della nottata per cambiare alcune regole del sistema politico in senso presidenzialista. Con la complicità della cosiddetta società civile.
Nel nostro paese il rapporto tra sistema politico e società civile è mutato profondamente, in coincidenza con quello che disinvoltamente (cioè senza trarne le debite conclusioni) politologi e pubblicisti chiamano il «populismo democratico» inaugurato dal berlusconismo. In questo contesto chi è il «popolo»? È il popolo-degli-elettori, che è a un tempo destrutturato e politicamente polarizzato rispetto alle divisioni di classe tradizionali della società e alle loro tradizionali proiezioni partitico-politiche. La stratificazione sociale, senza perdere i suoi connotati fondamentali di classe, è diventata estremamente complessa per la diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro o di precarietà, per la molteplicità degli stili di vita e di consumo, per l’autopercezione personale e sociale.
Non a caso Berlusconi non parla mai di «classi sociali» ma di «cittadini fortunati/sfortunati», «privilegiati/deprivilegiati», e le classi inferiori non sono più «proletarie», bensì sono composte di chi è «rimasto indietro». L’omogeneità sociale si crea soltanto nell’immediatezza (apparente) del rapporto tra leader ed elettori. Non importa se tale rapporto rischia di essere una finzione, mediatica innanzitutto.
Naturalmente anche in strutture presidenziali costituzionalmente fondate (di tipo americano o francese) esiste un rapporto diretto tra elettori e leader, che può eventualmente assumere tratti populistici. Ma nel caso berlusconiano manca una struttura istituzionale presidenziale di sostegno. È la persona stessa di Berlusconi che mira a surrogare il ruolo istituzionale presidenziale. In questo senso si può parlare di presidenzialismo informale o strisciante che insidia l’ordine costituzionale esistente - in nome del popolo-degli-elettori.
In questo contesto dove è finita la «società civile», cui si appella la sinistra? La sinistra stessa non ha ripetuto per anni che la società italiana aveva bisogno di una politica «vicino alla gente», di leader che non fossero «prigionieri dei giochi di palazzo», che fossero capaci di grandi decisioni, che semplificassero il sistema politico e ponessero fine alle risse intra-partitiche? Ebbene, Berlusconi annuncia oggi di rispondere lui a queste aspettative. Si affermi pure che le sue proposte sono sbagliate, ma non si combattono invocando una «società civile» idealizzata, che non esiste.
La società civile è l’insieme delle associazioni, gruppi e movimenti sociali che attivano risorse di fiducia, capacità di comunicazione e partecipazione, ma nel contempo rappresentano pluralità di interessi e di diritti spesso in conflitto tra loro, che esigono autonomia dallo Stato ma insieme ne richiedono la protezione. Come si vede, il quadro è complesso e difficile da gestire. Nessuno può rivendicare per sé il monopolio di interpretare i bisogni della «società civile» che esprime esigenze contrastanti.
La mutazione del regime democratico cui stiamo assistendo, associata al berlusconismo, è il risultato di molti fattori, non della semplice volontà o personalità di un uomo e dei suoi sostenitori. È il sintomo e la risposta a una crisi di rappresentanza politico-partitica in Italia e soprattutto a una crisi di capacità di governo.
Non parlerei di crisi della democrazia tout court. Il «populismo democratico», infatti, con le sue caratteristiche plebiscitario-mediatiche, è pur sempre un modo di rispondere e surrogare a deficit di rappresentanza e di decisione del sistema democratico esistente. Se è il caso, discutiamo apertamente, lealmente e in modo competente dell’opportunità o meno di una riforma in senso presidenziale (sul modello francese o altre varianti) o comunque di forme di rafforzamento dell’esecutivo in Italia (il cosiddetto premierato). Lo so che se ne parla da anni senza successo per la contrarietà non solo della sinistra ma anche dei partiti di centro (ex democristiano). Ma non c’è dubbio che l’idea di competenze decisionali più forti per il governo è sempre più popolare in Italia.
Una tale discussione, del resto, non solo non esclude ma esige che si metta a fuoco una «cultura della democrazia» anche in una prospettiva presidenziale. Forse è una lacuna nella nostra esperienza storica. Sullo sfondo c’è «la società civile» - divisa, socialmente disgregata e frammentata, politicamente rassegnata, nonostante la presenza di minoranze attive o mobilitazioni di piazza che riempiono per qualche ora gli schermi televisivi, senza conseguenze politiche di rilievo. Forse più che un «fenomeno Berlusconi» esiste un «caso Italia».