Il fantasma necessario del “disfattismo”
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 15.06.2009)
Disfattismo: la parola appare improvvisa in una lingua che l’aveva dimenticata. Nel «Lessico di frequenza della lingua italiana contemporanea» che nel 1971 il Cnuce di Pisa pubblicò sulla base di un campione di 500.000 parole d’uso tra il 1947 e il 1968 troviamo la parola «disfatta» ma non troviamo «disfattismo».
C’era voluta la disfatta della guerra per far tacere la voce di un regime che per vent’anni aveva sistematicamente fatto uso dell’accusa di disfattismo. E infatti basta varcare il confine del 1945 per trovare un uso sistematico di quell’accusa. Non sono più molti oggi gli italiani che l’hanno ascoltata nei raduni oceanici del regime fascista o gridata da una voce stentorea attraverso la radio.
E solo l’ignoranza diffusa della nostra storia e la mancanza di una cultura politica degna di questo nome spiega perché manchi oggi una capacità collettiva del nostro paese di riconoscere l’apparizione di un termine chiave della nostra storia novecentesca. Il mondo è cambiato, la società italiana è oggi sideralmente lontana nei consumi e nello stile di vita da quella dei tempi del primo Cavaliere, i mezzi di comunicazione sono dotati di un’efficienza e di una capillarità allora inimmaginabili.
Ma quella parola che affiora nel linguaggio del presidente del Consiglio è come una macchina del tempo. Di più , è un marcatore genetico. Ci riporta agli anni venti del secolo scorso. Svela il binario obbligato su cui corre il treno dell’avventura politica oggi in atto. Contro il disfattismo dei socialisti e la debolezza dei liberali, responsabili di dividere il paese e di criticare chi aveva voluto l’ingresso in guerra, Benito Mussolini pronunziò un celebre discorso il 3 aprile 1921 nel teatro comunale di Bologna: l’attacco era fatto in nome di una «stirpe ariana e mediterranea» da parte di un capo che chiamava a raccolta contro il nemico interno. Il filo dell’attacco al disfattismo non si interruppe qui. Fu il leit motiv della propaganda del regime.
Se rievochiamo queste vecchie cose non è per tornare sulla questione generale se quello che si presentò anni fa come il «nuovo che avanza» sia in realtà qualcosa di molto vecchio, se il berlusconismo sia classificabile come fascismo. Quello che si presenta è una nuova declinazione di qualcosa che appartiene alle viscere profonde della storia italiana, alle magagne della nostra società, alle questioni non risolte nel rapporto tra gli italiani e il passato del paese.
E’ il linguaggio del leader a svelare che il regime che giorno dopo giorno avanza nel nostro paese tende a riproporre qualcosa che l’Italia ha già conosciuto. Il disfattismo fu per il regime fascista un fantasma necessario, continuamente evocato, il responsabile a cui imputare le difficoltà e gli insuccessi. La voce del Capo si alzava non tanto per denunziare le trame dei disfattisti di professione, quel pugno di antifascisti «soli, solissimi», come ha scritto Vittorio Foa. Per loro, per seguirne i passi, in Italia e all’estero, per eliminarli all’occorrenza, bastavano l’Ovra e i sicari. No: il disfattismo era per il regime il nemico per definizione, l’unico nemico che potesse minacciare un sistema in cui il Capo doveva realizzare l’ideale supremo della democrazia organica, della fusione mistica del popolo nel leader. E tanto più insistente fu la campagna contro il disfattismo quanto più in profondità penetrava l’adesione collettiva al regime, quanto più generalizzato fu il consenso.
Consenso: questa è la parola che figura nel titolo di un volume della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice. Da lì data la sconfessione di una falsa immagine della nostra storia. La favola bella che fu raccontata dopo la Liberazione all’Italia che si scopriva insieme sconfitta e vittoriosa fu quella di un antifascismo originario e diffuso che era sfociato naturalmente nella Resistenza.
Oggi sappiamo che non era vero. Sappiamo che gli italiani erano stati profondamente corrotti dal regime fascista. La corruzione era consistita proprio nella continua denunzia del disfattismo, nella costruzione passo dopo passo di un sistema di unità organica tra popolo e capo che permettesse al capo di riassumere ed esprimere i bisogni del popolo, di rispondere a ciò che la gente voleva, al di là di ogni mediazione.
In fondo, possiamo parlare del fascismo come di una forma speciale di democrazia: una democrazia che eliminava le mediazioni faticose dei sistemi rappresentativi nel momento stesso in cui cancellava le barriere che impedivano al potere del Capo di operare. Era per eliminare il disfattismo che bisognava sostituire la voce del regime alle discordanti voci della libera stampa e trasformare le istituzioni di una monarchia parlamentare in canali di unione organicistica tra il Capo e il suo popolo.
E quando, con i Patti Lateranensi, anche la Chiesa dette il suo fondamentale contributo al pieno dispiegarsi di una saldatura completa tra il paese e «l’uomo della Provvidenza» la lotta al disfattismo fu coronata da due provvedimenti emblematici: il giuramento di fedeltà dei professori e la riapertura del tesseramento perché tutti potessero entrare in un partito che non era più una parte ma il tutto. Fu allora che almeno un italiano parlò di un processo di corruzione che stava minacciando tutti: un processo che poteva e doveva essere contrastato. Leone Ginzburg sostenne che non si dovevano condannare gli italiani che per ragioni di necessità avevano chiesto quella tessera, ma bisognava incoraggiarli a non fare altri passi sul terreno della corruzione.
Oggi il discorso sulla corruzione degli italiani è di tipo diverso ma non meno grave. La saldatura tra popolo e leader si nutre del progressivo svuotamento dell’etica civile, fatto di leggi e di decreti di breve e brevissimo respiro, di una continua aggressione alle istituzioni rappresentative, alla divisione dei poteri dello Stato, alle istituzioni giudiziarie e alla legalità. Alla violenza fascista si è sostituita la persuasione di un abile management delle emozioni collettive e una sostituzione dell’evasione e del sogno alla durezza dell’irrreggimentazione.
Ma l’esito è identico: si chiama corruzione e affonda le radici in un vuoto di memoria e di cultura civile. Se il consenso massiccio della popolazione al regime di Mussolini è una verità storica acquisita, questa verità non ha operato nel senso giusto, non ha spinto le istituzioni della Repubblica e la coscienza degli italiani a fare i conti con la nostra storia con la radicalità e la durezza con cui i tedeschi hanno fatto i conti col nazismo. Solo tenendo conto di questo si può risolvere l’enigma di un consenso collettivo appena incrinato da episodi che altrove avrebbero costretto ogni statista decente a dimettersi. Un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo (Il Fatto, 25.02.2018)
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. -Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza.
Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa.
Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci.
Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool).
Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito.
Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto.
Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire.
Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
"FORZA ITALIA": LA LUNGA E ’BRILLANTE’ CAMPAGNA DI GUERRA DI SILVIO BERLUSCONI CONTRO L’ITALIA ....
CONFLITTO D’INTERESSI E BARRIERE DI PROTEZIONE. Walter Veltroni annuncia una sua proposta di legge, Furio Colombo ha già depositato alla Camera la sua del 1996 e del 2006
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 10 marzo 2010)
Oggi non è solo all’Aquila che si deve sgombrare il terreno dalle macerie. Quelle che segnano i luoghi istituzionali del Paese sono diventate così tante da cancellare il profilo del nostro orizzonte di riferimento e da diffondere un sentimento generale di ansia e di smarrimento. Per questo fa bene il Presidente della Repubblica a segnalare che il valore della Costituzione resta ancora un punto di riferimento fondamentale per l’opinione pubblica.
È dall’altezza di questo osservatorio che bisogna misurare la gravità della situazione. Oggi il documento votato all’unanimità della prima sezione del Consiglio Superiore della Magistratura mette sotto gli occhi di tutti lo spettacolo del disastro provocato dagli attacchi violentissimi del presidente del Consiglio dei ministri alla magistratura. Ne abbiamo letti quasi uno al giorno per anni.
Qualcuno li considera intemperanze caratteriali su cui poi esperti mediatori dal sorriso facile e dalla parola morbida si occupano di versare mielate rassicurazioni. Si rischia di abituarsi allo spettacolo: una variante italiana dei costumi politici, con tanto di sesso, barzellette e canzoni napoletane. Non così pensano i magistrati della prima sezione del Csm. Si tratta secondo loro di una denigrazione e di un condizionamento della magistratura assolutamente inaccettabili perché mettono in pericolo l’equilibrio tra poteri e ordini dello Stato. Senza questo equilibrio non si dà un ordinamento civile capace di tutelare i diritti di ognuno. Lo sappiamo. Dovremmo saperlo. È un dato elementare, semplicissimo, un pilastro fondamentale del sistema democratico. Ma i magistrati non si limitano a condannare. Il loro documento rivolge «un pressante appello a tutte le istituzioni perché sia ristabilito un clima di rispetto dei singoli magistrati e dell’intera magistratura».
Oggi la magistratura è accusata nientemeno che di sovversione. E non si è trattato solo di parole. Le accuse del premier si sono tradotte in gravissimi episodi di diffamazione e aggressione all’immagine e alla dignità di singoli magistrati, vere e proprie esecuzioni in effigie. Questo documento del Csm segna una svolta storica nella lotta politica italiana: segnala una situazione di emergenza e invita a scelte adeguate. Scuote un torpore politico e morale che è frutto di una corruzione radicata in profondità.
Quando si cominciano ad accettare certe cose in silenzio, quando si decide di smorzare i toni della reazione e a far finta di niente non si è contribuito al buon andamento della cosa pubblica come qualcuno può pensare: di fatto si è già accettato di vivere nella «Repubblica del Male Minore». È quello che sta accadendo da tempo.
È un fatto che appartiene al peggiore costume del nostro passato, a forme di corruzione morale e di indifferenza per le regole che ha avuto tanti nomi ma che ha una sola sostanza. Di secolo in secolo si sono usati nomi diversi: «nicodemismo»,«dissimulazione onesta», «familismo amorale».
Diversi i fenomeni storici, legati però da un minimo comune denominatore morale che si è fissato nel costume di casa: il chiudere la porta e la finestra sul mondo degli altri, il conservarsi indifferenti alla cosa pubblica , il tollerare le lesioni ai diritti individuali in nome del tranquillo vivere dei più, il considerare ovvio che chi dispone del potere faccia straccio dei diritti di chi non gli obbedisce. Da questo costume sono nate le vergogne e gli errori della storia italiana: è questo che permise al popolo italiano nel suo insieme di accettare senza reagire l’immane vergogna delle leggi razziali, salvo poi addossare questa colpa al solo pontefice regnante come unico titolare della coscienza collettiva.
Ma quello della violenza contro i magistrati non è che il fenomeno più evidente prodotto da un leader politico che disprezza la giustizia come norma e come istituzione e si fabbrica le leggi e le sentenze su misura. Altre rovine sono state seminate un po’ dovunque da quella che oggi anche i commentatori più moderati e più filo governativi si rassegnano ormai a riconoscere come una congenita incapacità di Silvio Berlusconi di affrontare le responsabilità del governo di una grande nazione.
Un sistema di potere personalistico ha fatto continuamente leva sul principio rozzo e intrinsecamente dittatoriale di interpretare una vittoria elettorale come una investitura plebiscitaria a comandare. I suoi attacchi alle istituzioni hanno superato da tempo ogni limite tollerabile in un sistema fondato sulla divisione dei poteri. Per disgrazia del Paese il comando è caduto nelle mani di una persona determinata a servirsene per tutelare e accrescere i suoi beni e per risolvere i suoi problemi con la giustizia. Da qui l’invenzione a getto continuo di norme e decreti «ad personam»: mentre scriviamo è in atto l’ennesima affannosa corsa del Parlamento per poter definire legittimo il fatto che un imputato non si presenta in tribunale. E non è certo la prima volta che quel potere legislativo che il popolo ha affidato al Parlamento viene confiscato e distolto dai problemi del Paese per togliere un privato cittadino che è anche per caso il presidente del Consiglio dagli impicci con la giustizia. Ai problemi del Paese si è data finora una risposta sbrigativa considerandoli come emergenze da affidare a strutture sottratte alle leggi ordinarie. Ma la politica dell’emergenza sta crollando sotto una valanga di scandali. E la vicenda delle liste elettorali segna il fallimento clamoroso di un sistema che ha concepito le elezioni non come un modo per far emergere una classe di governo dal consenso dei cittadini ma come l’imposizione agli elettori di candidati scelti su altri e ben diversi parametri da quelli della capacità e dell’onestà nel servire gli interessi del Paese. Un fatto è certo: comandare non è governare. Una cultura di governo deve conoscere e rispettare le regole. Questo governo le ignora a tal punto che ha visto ridicolizzato da un tribunale amministrativo per insipienza e approssimazione il recente decreto «interpretativo», cioè l’ennesimo tentativo di sanare le malefatte col solito decreto tappabuchi. Questo governo? Diciamo pure quest’uomo: l’uomo che oggi tace. Il suo silenzio è più di una confessione. La voce arrogante che ha aggredito e sbeffeggiato istituzioni e ordini fondamentali del sistema democratico, dalla magistratura alla presidenza della repubblica, oggi è assente da uno scenario dove si aggirano smarriti e balbettanti i suoi cortigiani. Spettava a lui, se fosse stato quello statista che non è, prendersi la responsabilità del pasticcio combinato dai suoi e chiedere alle altre forze politiche e al Paese di risolvere insieme il problema: che è un problema di tutti se è vero che il diritto al voto è l’incancellabile principio base della democrazia. Diritto di tutti: di ogni partito, non solo del più grosso come tende a dire la poco democratica petulanza dei portavoce della maggioranza.
Ma se i diritti di tutti non sono difesi con la durezza e l’intransigenza necessaria, se si continua ad accettare una violenza eversiva sfacciata e uno spettacolo di conclamata immoralità e corruzione accettando di abbassare la protesta in un sussurro, forse non ci accorgeremo nemmeno quando dalla Repubblica del Male Minore ci avranno trasferito armi e bagagli nel territorio della confinante Repubblica della Giustizia assente.
Picconatori dell’unità nazionale
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 8 agosto 2009)
C’è una singolare concordia bipartisan nel giudicare cosa non seria la proposta del presidente dei senatori della Lega on. Bricolo di «recuperare i simboli identitari» delle regioni. Con bandiere e inni distinti, che fa seguito all’altra proposta, quella relativa ai dialetti. Eppure queste proposte hanno un senso e una logica di cui bisogna tenere conto. L’appuntamento del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia è un’occasione per riflettere su dove stiamo andando e su che cosa sappiamo e pensiamo di un paese dove pezzo su pezzo quell’unità si sgretola.
Prendiamo come guida la celebre definizione di Alessandro Manzoni: «Una d’arme, di lingua, d’altare». Una d’arme: oggi registriamo il ritorno con le ronde a un’imitazione edulcorata delle squadracce fasciste e l’avvio della fine di un carattere essenziale dello Stato moderno - il monopolio della violenza, il rifiuto del farsi giustizia da sé. Una d’altare: quale altare? Oggi l’intolleranza della Chiesa scatena il fanatismo di una sua verità senza carità contro le leggi dello Stato, contro il rispetto dei diritti costituzionali dell’individuo e dei principi della laicità e del pluralismo. Qui si deve parlare chiaro. Abbiamo seguito con attenzione il crescere dell’indignazione morale in mezzo al clero di base davanti al dilagare del fiume di immondizia che ha trasformato i palazzi del potere in nuove stalle di Augia. Ma com’era facile prevedere la dirigenza ecclesiastica non ha trovato niente di serio da dire contro un potere dal quale si attende concessioni tanto più generose quanto più chi ne è il titolare e il simbolo è oggi bisognoso del suo sostegno. Dai tempi di Enrico IV a Canossa questa è la situazione preferita dal papato. Un giorno qualcuno indagherà su questi silenzi così come si è fatto per i silenzi papali e i sussurri dei palazzi apostolici ai tempi della Shoah. Ma spetta a noi cercar di capire dove questa politica della Chiesa mira a portare il paese.
L’importanza della Chiesa in Italia è innegabile. Non per niente la riflessione di Antonio Gramsci sulla funzione degli intellettuali e sulla costruzione di una nuova egemonia prese a modello il clero come "intellettuale organico". Oggi c’è un legame tra lo stato di crisi della cultura italiana e le pulsioni integriste e fondamentaliste del blocco sociale che ha trovato nella benedizione della Chiesa la sua espressione culturale "seria". Non importa se la saldatura mette insieme pezzi solo apparentemente eterogenei come il divieto cattolico dell’aborto e l’immoralità grossolana di chi tratta il corpo femminile come merce da esibire e consumare, sul letto privato o sulle poltrone pubbliche. Per l’alta dirigenza ecclesiastica il diritto fissato dalla Costituzione e sancito dalle leggi di disporre del proprio corpo è intollerabile: invece l’umiliazione della dignità femminile da qualunque parte venga non urta una cultura clericale tradizionalmente ostile alle donne.
Ma veniamo all’ultimo termine della definizione manzoniana: la lingua. Oggi il "paso doble" di un leader che fa strame di moralità pubblica e privata e di un partito - la Lega - che persegue senza ostacoli il disegno della cancellazione dell’unità del paese è arrivato all’ultimo baluardo: la lingua. È forse necessario ricordare che ben prima di Mazzini e di Garibaldi è stata la lingua italiana a unificare la penisola? Questo è il patrimonio immateriale del paese. Patrimonio altissimo, non solo dell’Italia ma dell’umanità: non c’è bisogno di un riconoscimento dell’Unesco per sapere che l’Italia vive nel mondo in grazia di una tradizione letteraria e intellettuale che spinge genti lontane a studiare la lingua di Dante e di Boccaccio, di Machiavelli e di Galilei - una lingua condivisa ben al di là dei confini statali, tanto che, come ha detto una volta il presidente Napolitano, potrebbe essere considerata la lingua franca del Mediterraneo. Cancellate quella lingua e scomparirà il paese Italia.
Lingua come cultura? Oggi non si dice più cultura. Si dice identità. La cultura è parola buona per assessorati e ministeri, per l’industria pubblica del divertimento, del sogno e dell’evasione. Mentre eravamo distratti, mentre la volontà di voltar pagina faceva illudere che si potesse semplicemente dimenticare il "secolo breve", il vocabolario è cambiato: oggi si dice "identità". E si intende diritto del sangue e del suolo, chiusura, esclusione. Allora le classi dirigenti italiane scelsero la chiusura culturale e sognarono il cupo sogno della purezza della razza italiana. Sappiamo bene com’è finita. Oggi il virus torna, solo apparentemente innocuo. Invece di ridere o di scandalizzarsi, sarebbe utile chiedersi in quanti abbiano arato e concimato il terreno su cui cade oggi la proposta del senatore Bricolo di dare espressione ai "simboli identitari" delle regioni; e magari contare i palazzi pubblici che inalberano già bandiere e simboli del genere. Quanta esaltazione del tipico e del locale, quante sagre strapaesane sono state pagate col taglio delle risorse per scuole, biblioteche, musei, con la svendita e la cementificazione del paesaggio.
Il "sacro egoismo" degli otto milioni di baionette fu negli anni Trenta la morale pubblica di un regime liberticida e razzista. Oggi, nel paese dei nove milioni di auto sulle vie delle vacanze, il sacro egoismo è quello del Nord contro il Sud, delle gabbie salariali, dei muri e delle prigioni per gli immigrati. Allora nel carcere di Turi Antonio Gramsci iscrisse sull’agenda politica della rinascita del paese la necessità di una riflessione sul Risorgimento, sulla questione meridionale, sulla funzione degli intellettuali. Oggi questi sono i temi che ci tornano davanti come un rimorso, a ricordarci che la cultura è confronto, dialogo, arricchimento nel continuo confronto tra passato e presente, tra noi e gli altri.
Napolitano: "Ristabilire valori necessario per uscire dalla crisi" *
ROMA - Per uscire dalla crisi "è essenziale un ristabilimento di valori spirituali e morali che sono stati completamente assenti dalle determinazioni di soggetti finanziari ed economici". E’ questo un passaggio del discorso rivolto dal presidente, Giorgio Napolitano, ai rappresentanti delle grandi religioni mondiali, riunite a Roma in occasione del G8, che sono state ricevute oggi al Quirinale dal Capo dello Stato.
"Sentiamo che in questa crisi globale sono in gioco grandi scelte e grandi valori". Il capo dello Stato ha anche detto: "Non c’è prospettiva e sviluppi per i Paesi di tutti i continenti se non si riesce a riformulare i valori di convivenza, dialogo, rispetto delle diversità e collaborazione reciproca. Sono valori che insieme con quelli di libertà solidarietà e responsabilità" che il vostro incontro metterà in rilievo.
* la Repubblica, 16 giugno 2009