Legge elettorale incostituzionale: tutti a casa compresi gli atti
di Andrea Viola *
Dopo ben otto anni da quando esiste l’attuale legge elettorale la Corte Costituzionale riconosce l’incostituzionalità del Porcellum. Questa vicenda mina definitivamente la credibilità della politica italiana e dei vari partiti. Senza tanti giri di parole, tutti i parlamentari eletti dal 2006 non erano e non sono legittimati a sedere all’interno del Parlamento. Ma non basta e non è solo questo. Tutte le nomine, le leggi e tutti gli atti compiuti da queste persone abusive sono viziate alla radice dall’illegittimità costituzionale della legge elettorale che li aveva nominati “Onorevoli”.
L’art. 136 Cost., come è noto, dispone che la norma dichiarata incostituzionale cessi di avere efficacia dal giorno successivo a quello di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della sentenza della Corte Costituzionale. Quindi è molto chiaro che cessando di avere efficacia la norma che ha eletto i Parlamentari, questi, non possano più sedere in maniera legittima in Parlamento. Questo l’effetto principale. Ma si deve valutare con serietà l’invalidità di tutti gli atti collegati. In prima analisi risulta evidente che l’elezione del Capo dello Stato sia anche essa non valida, perché fatta da un Parlamento non legittimo. E da qui una marea di atti a rischio invalidità.
Su questi punti esistono vedute giurisprudenziali e dottrinali non chiare. Come sempre accade su argomenti delicati e politici-istituzionali. Un forte orientamento dottrinale asserisce questo principio: “La disapplicazione della legge deriva esclusivamente dalla sua illegittimità, e non rileva di conseguenza la data a partire dalla quale si fa questione dell’applicazione della legge; unica condizione è che non si tratti di fatti esauriti, sussistendo la quale, dopo la decisione, la legge incostituzionale deve essere disapplicata ogni volta che se ne presenti l’occasione, sia in relazione a fatti posteriori, sia in relazione a fatti anteriori alla pronuncia della Corte”.
Facile intuire che qualsiasi cittadino possa far valere questo principio e di volta in volta chiedere l’invalidità degli atti collegati e provenienti dal Parlamento illegittimo. Immaginatevi il caos che ne potrebbe derivare. Prendete tutte le nomine fatte dal 2006 e tutti gli atti emanati dal parlamento e dal Governo e considerate che questi sono tutti viziati dall’illegittimità costituzionale.
Si potrebbe chiedere ad esempio l’invalidità della riforma assurda che ha cancellato i Tribunali.
Si potrebbero mettere in discussione tutte le spese folli per gli F35.
Si potrebbe chiedere l’invalidità della riforma delle pensioni e del lavoro.
Si potrebbe chiedere la disapplicazione di ogni atto di nomina.
Si potrebbe chiedere la cancellazione di equitalia e di tutte le cartelle collegate perché viziate alla radice.
Insomma una vera rivoluzione.
Il paradosso è che anche le firme del Capo dello Stato sulle leggi e sugli atti normativi sono anche esse non valide. Ma si potrebbe andare oltre e dire che la Stessa Corte Costituzionale ha dei giudici nominati da un Parlamento e da un Presidente della Repubblica, così come indica l’art. 135 Cost., non legittimati. Capite che la portata di questa vicenda è grottesca. La cosa più grave è che tutti sapevano che questa legge elettorale era incostituzionale. Bastava leggere la Costituzione. La politica tutta ha una responsabilità enorme.
Ora però cari onorevoli illegittimi dovete andare subito a casa perché li non potete stare. Una cosa importantissima dimenticavo. Dovete restituire tutti i soldi che avete preso in questi anni in maniera illegittima. Tutti i nostri soldi che avete preso senza alcun diritto. E se non lo farete ogni cittadino sarà legittimato a denunciarvi. Basta chiacchiere. The End.
"DE PRINCIPATIBUS". COME SPEZZARE LE RENI A UN POPOLO ADDORMENTATO, STRACCIARE LA COSTITUZIONE, E ...
RIFARE UNO STATO?! BASTA UN NOTAIO, UN FUNZIONIARIO DEL MINISTERO DELL’INTERNO E LA REGISTRAZIONE DI UN SIMBOLO DI PARTITO CON IL NOME DEL POPOLO!!! A futura memoria, note e appunti sul caso
Federico La Sala
di Alberto Asor Rosa (il manifesto, 17 giugno 2014)
Renzi, Grillo, Berlusconi. Il 17-18 per cento è quanto valgono, nei rispettivi partiti, i leader che ne sono, fin dalle origini, i padroni. La sfiducia nella democrazia diventa formidabile strumento di consenso con la macchina mediatica schierata al gran completo. In Italia non esiste oggi una forza di sinistra. Per questo renzismo, grillismo, berlusconismo hanno dilagato. Bisognerebbe iniziare a costruirla
Il dato più rilevante di questa breve ma intensissima fase storica resta, senza ombra di dubbio, l’affermazione elettorale (soprattutto in termini percentuali) di Matteo Renzi. Il giovane leader è arrivato a questa affermazione, come non mi stanco di ripetere, senza nessuna delle tradizionali investiture “democratiche” in uso nel sistema politico italiano dal 1945 in poi. Renzi ha iniziato la sua conquista del potere arrivando con le primarie dell’8 dicembre 2013, d’un balzo solo, alla segreteria del Pd. Da lì spicca la sua rapida ascesa al governo, con mezzi (e forzature) parlamentari, anche in questo caso fondamentalmente fuori della consuetudine e ampiamente discutibili.
Tutto ciò, però, ha ricevuto subito dopo il consenso, che suona approvativo, di un numero (percentualmente) impensabile di elettori fino a qualsiasi consultazione precedente. Questo cursus e queste coincidenze andrebbero interpretati meglio di quanto finora non sia stato fatto.
Un’ipotesi possibile (del resto tutt’altro che sorprendente): Renzi “carica” di aspettative il vecchio elettorato “democratico”, fino a prospettargli la concreta possibilità di una vittoria, considerata generalmente fino a quel momento del tutto irraggiungibile (questa porzione più tradizionale dell’elettorato Pd pensa: «almeno una volta voglio vincere»); e vi aggiunge un quoziente piuttosto elevato di elettori provenienti da altre aree (centro-destra, grillini, centro democratico...).
Mettendo insieme i due fattori, si spiega perché le avanzate più consistenti si siano verificate nelle ex regioni rosse (Toscana, Emilia, Umbria). Insomma, il vecchio elettorato, invece di sciogliersi nell’astensionismo, si consolida presumibilmente intorno al 23-24%; di suo Renzi vale il resto, ossia il 17-18%, più o meno quanto valgono nei rispettivi partiti quelli che ne sono fin dalle loro origini i “padroni” (Berlusconi e Grillo), così come Renzi innegabilmente lo è diventato del suo dopo questo successo elettorale.
Dunque il conflitto politico in Italia diventa sempre di più, non solo come ho scritto altre volte, una gara talvolta molto accanita, ma non fra “avversari” bensì fra “concorrenti”, data la crescente omogeneità dei loro comportamenti e delle loro parole, ma più esattamente fra “concorrenti” che sono i veri e propri “padroni” dei partiti che si sono trovati, con modalità diverse, a guidare.
E cioè: non solo Renzi è diventato extra legem segretario del proprio partito, e poi, subito dopo, con modalità alquanto discutibili, Presidente del Consiglio: ma, vincendo con un risultato indubitabile le elezioni, ha posto le premesse (di cui già si scorgono gli svolgimenti) perché le gare interne a quella formazione politica e in quell’area di governo in cui ha scelto di correre fossero rapidamente e per sempre liquidate.
Cercare di capire perché abbia scelto di correre in questa formazione e non in una delle altre in cui, verosimilmente, considerando il suo profilo politico-culturale, avrebbe potuto tranquillamente farlo, sarebbe un altro interessante discorso, che però si potrebbe affrontare solo con una migliore conoscenza dei fattori in causa. Com’è riuscito a farlo?
La risposta a questa domanda sarebbe essenziale per impiantare il “che fare”, di cui, con un minimo di chiarezza, avremmo bisogno. Io avanzo due ipotesi, strettamente collegate fra loro. La prima è che Renzi non smette di promettere urbi et orbi di avere in mano (oppure di essere in grado di avere, prima o poi, ma la differenza fra il “certo” e il “probabile” non è mai avvertibile nel suo eloquio sommario) gli strumenti per far fronte alla crisi economico-sociale del paese: da questo punto di vista non risparmia le rassicurazioni e, come anticipo, allunga un po’ di soldi alla povera gente.
La seconda, meno visibile ma più profonda, è che Renzi, non meno di Grillo e di Berlusconi, ma in questo momento più credibilmente degli altri due, punta sull’innegabile crisi di tenuta democratica del paese, - lo scarso funzionamento degli organismi rappresentativi, il degrado dei vecchi partiti e del vecchio ceto politico, la corruzione dilagante, ecc., - per dire: con i miei metodi, che vanno e promettono di andare sempre di più nella direzione di un radicale superamento dell’antiquato, ormai inservibile macinino democratico, si andrà avanti molto meglio. Così lui trasforma la sfiducia e talvolta la rabbia nei confronti della “democrazia”, che è un dato reale, diffuso ovunque in questo paese, in un formidabile strumento di consenso. Lui è già di per sé un politico post-democratico: basta che lo dica o anche si limiti a farlo capire, per suscitare un moto di simpatia anche da parte di quelli che sono stati educati ad un rispetto sacrale nei confronti della democrazia.
Il gioco per ora funziona benissimo, anche perché tutta la macchina dei media è schierata come un sol uomo dietro questa prospettiva (e anche questo sarebbe da interpretare meglio e da capire).
Del resto, non è la prima volta, in Italia e altrove, che un’investitura di tipo autoritario s’impone registrando un consenso plebiscitario di massa. Quando lui ipotizza e propugna, al posto di un onesto, magari mediocre, partito di centro-sinistra, che rappresenta una parte per armonizzarla con il tutto (ovvero, per armonizzarla con il tutto, restando però a rappresentare quella parte), il cosiddetto Partito della Nazione, a nessuno viene in mente che un obiettivo e una definizione di tale natura avrebbero potuto confarsi anche al Partito Nazionale Fascista o al Partito (appunto) Nazionalsocialista. Certo, non è la stessa cosa, ma ogni qualvolta si evoca la Nazione (con la maiuscola, per giunta), sarebbe d’obbligo che i precedenti vengano alla mente.
Ma veniamo alla pratica spicciola, quella che fa vedere meglio le cose come sono: l’obiettivo principale, comunque chiarissimo, consiste nell’assoggettare al nuovo meccanismo di potere quanto, politicamente e strutturalmente, gli può risultare incongruo o resistente. Per cui facile previsione: il pubblico, anzi il Pubblico, nella sua accezione più vasta, e cioè burocrazia, magistratura, scuola, università, sanità, beni culturali, sovrintendenze, ecc. ecc., e cioè quanto è stato costruito nel corso di decenni per avere una sua propria autonomia nel concerto generale degli organi dello Stato, verrà sottoposto ad un attacco senza esclusione di colpi. Non a caso, anche in questo caso, organi di stampa e media sono impegnati in una vibrante campagna di moralizzazione per cogliere e sanzionare le colpe dei “sistemati”: guadagnano troppo, lavorano poco, sono lenti, rallentano, si oppongono al “fare”, ecc. Il fatto che in molti casi, ovviamente, questo sia anche vero non toglie rilevanza la fatto che l’obiettivo della campagna non sia far funzionare meglio il sistema, ma assoggettarlo del tutto al comando del Sovrano.
Ho seguito con grande attenzione, - ma forse un po’ troppo da lontano, le vicende della lista Tsipras, la cui affermazione, pur con molti limiti, dimostra che un punto di partenza ancora esiste. Ho polemizzato con Barbara Spinelli prima del voto, perché essa, in un’intervista al manifesto (14 maggio) additava nei grillini il punto di riferimento fondamentale post votum della nuova esperienza («ci sono molte posizioni di Grillo completamente condivisibili e fra l’altro simili se non identiche alle nostre»). La posizione, profondamente erronea, è stata portata avanti fino a un momento prima che il Movimento 5 Stelle siglasse l’accordo con gli xenofobi e parafascisti di Nigel Farage. La scelta della Spinelli di andare a Bruxelles in barba alle dichiarazioni precedenti, chiude un po’ malinconicamente la questione, e ne riapre una grande come una casa. Ora, infatti, sappiamo con assoluta chiarezza che Grillo e il grillismo sono avversari nostri non meno, e forse più, di Matteo Renzi (il che non esclude, che fra i grillini ce ne siano molti per bene e con cui si può combinare qualcosa insieme). E allora?
In Italia, altra grande anomalia nazionale, - non esiste, e dopo la definitiva (ripeto: definitiva) uscita di scena in questo senso del Pd non esiste più, una decente formazione di centro-sinistra, - magari la più moderata che si possa immaginare, la meno virulenta, ben radicata formazione di estrema sinistra. Non esiste neanche, - si potrebbe dire così, - una seria, decente, responsabile formazione di sinistra. Per questo berlusconismo, grillismo e ora renzismo hanno dilagato e dilagano.
Hic Rhodus, hic salta. Ossia: se non si prova ad affrontare questo problema, meglio dedicarsi alle parole crociate. Quando la definisco, provvisoriamente, una seria, decente, ben radicata formazione di sinistra, non intendo la spontanea convergenza di una serie di formazioni spontanee, come in fondo è stata, - e per la parte migliore che ha rappresentato e rappresenta, - la lista Tsipras. Sono l’unico appena professore, certo, di sicuro non professorone, che ha avuto contatti diretti con la realtà vivente dei Comitati (gli altri, sovente, ne hanno parlato per sentito dire). Sono stato coordinatore per molti anni della “Rete dei Comitati per la difesa del territorio”. Insieme con altre preziose esperienze, ne ho ricavato questo convincimento: nessuna realtà politica nuova potrà fare a meno della linfa vitale che i Comitati sprigionano; ma nessun insieme di Comitati, - una Rete, ad esempio, - potrà mai da sè, e spontaneamente, mettere in piedi una realtà politica generale. Questo soggetto politico una volta si chiamava partito. Possiamo cambiargli nome. Ma la sostanza è quella.
Detto così, può sembrare un appello a fare ricorso non alla cabala ma alla Lampada di Aladino. Faccio una proposta. Da dove si comincia per cominciare la costruzione di una realtà politica nuova? Dall’alto, dal basso, dall’esistente o dal futuribile, dagli spezzoni residui del grande disastro o da quelli, più immaginati che reali, della rete in via di costruzione? Io comincerei dal programma. Dieci, dodici punti che spieghino perché si sta insieme, e si sta insieme qui e non altrove.
Aspettare che la riforma renziana della politica, dello stato e dell’economia vada avanti è profondamente autolesionistico. Chi non ci sta, lo dica ed esca allo scoperto. E lavori perché le idee, se non le membra, tutte le membra, emergano finalmente dal guazzabuglio universale. Non so se la proposta abbia un senso. Ma so che è così che si fa se si vuole che ne abbia uno. In fondo, all’inizio, non si tratta che di fare una cosa semplicissima e alla portata di tutti: pensare.
Nelle nebbie della seconda Repubblica: Diario di un naufrago
Nel testo di Crainz il ritratto di un ventennio tra i fallimenti della sinistra e l’avanzata del populismo
di Oreste Pivetta (l’Unità, 18.12.2013)
LA CRONACA DEGLI ULTIMI DIECI ANNI POTREBBE APRIRSI SULLA SCENA DI PIAZZA NAVONA, nel febbraio del 2002, quando con un colpo di teatro Nanni Moretti scosse una manifestazione dell’Ulivo al grido: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». Il Pd, sopravvissuto a quell’esperienza, sopravvissuto a sconfitte elettorali, vivendo i suoi momenti di gloria e le sue crisi identitarie, socialdemocratico, neoliberista, chissà che, ha dismesso quei dirigenti e ne sta, in questi giorni, cercando altri. Nuovi? Reduci della passata politica? Innovatori autentici?
Viene in mente il titolo di un film del ’68 di Lina Wertmüller: Riusciranno i nostri eroi... Altra epoca e le epoche contano. Altra epoca di contraddizioni feroci, ma anche di slanci libertari, democratici (di una democrazia che cercava nella sua imperfezione una propria via alla partecipazione contro i legacci e i limiti istituzionali), riformatori (dal divorzio al diritto di famiglia, dallo statuto dei lavoratori alla 180), altra epoca che si smarrì nei gioiosi anni 80 e nel ventennio berlusconiano. Resta l’interrogativo: riusciranno i nostri eroi?
Le ultime righe della cronaca che Guido Crainz, storico (si leggano i tre volumi che compongono il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, pubblicati da Donzelli), ricostruisce nel suo ultimo Diario di un naufragio (pagine 256, euro 19,50, Donzelli) mi sembrano attestino la difficoltà fino alla disperazione dell’impresa: eredità e detriti della stagione berlusconiana che gravano «come un macigno sulla nostra capacità politica di ricostruire il paese e di progettare». Ammettendo appunto che è impossibile ancora considerare per conclusa la «stagione berlusconiana»: conclusa, come si spera, magari sul terreno politico-elettorale, improbabile che lo sia sul piano della cultura profonda, del costume di un paese.
LA CRITICA AL PD
Il «diario», il «giorno per giorno» di uno storico, cronista, commentatore, riguarda le forze politiche in campo, i loro comportamenti (in tutti i sensi, anche in quello che testimonia la progressione della corruttela, da Tangentopoli al Batman di Anagni, dalle tangenti di Craxi alle condanne di Berlusconi, mentre si vede crescere «la forbice fra i durissimi sacrifici imposti al paese e i perduranti privilegi e sperperi di un sistema politico travolto dagli scandali»), i loro fallimenti. Nella rappresentazione dei fallimenti, senza tregua è la critica al Pd, una insistenza polemica che si comprende da parte di chi sta a sinistra e di chi coltiva attese di cambiamento e di chi pensa o spera che ancora nel Pd vi siano le forze, l’intelligenza, la moralità su cui far leva per interrompere la discesa all’inferno (come sarebbe stato possibile scriveva Crainz proprio nei giorni delle ultime elezioni se il Pd avesse avuto anche il coraggio di una proposta radicale, di «una radicalità senza precedenti» nei contenuti programmatici e nell’alto e nuovo profilo del governo).
Ma nel Diario di un naufragio colpiscono altre note: non tanto quelle che ci restituiscono alcuni diversi frammenti di una storia dell’antipolitica che va, nel dopoguerra, dal qualunquismo di Giannini al «nullismo» di Grillo, quanto quelle che riferiscono di una partecipazione al voto che tocca nel dopoguerra tetti inusuali, anche in Europa, scavalcando l’asticella del 90 per cento e che declina a partire dalle regionali del 1980 fino a precipitare senza sosta sotto la soglia del 50 per cento. Di fronte all’Italia che vota c’è un’altra Italia, ugualmente consistente, tanto varia da diventare inafferrabile: delusa, scoraggiata, indifferente o estranea alla politica, perché semplicemente pensa ad altro, un’altra Italia dentro la quale si è inabissata quella società civile, che ai tempi del «grido» di Nanni Moretti aveva illuso di rappresentare la chiave di volta di una resurrezione-rigenerazione del paese.
Sistema politico e società civile capita che si dividano con pari dedizione le spoglie di pochi valori sopravvissuti e il peso o il vantaggio di tanti peccati (cominciando da una diffusa disponibilità alla corruzione e all’obnubilamento mediatico, al torpore di fronte alle più gravi accuse, minori e prostituzione e persino alle condanne). Quando, in un miracoloso travaso, grazie ad esempio al tragico Grillo, la società civile non si è riversata nel sistema politico, dimostrando adattabilità e nessuna difficoltà ad apprendere. Come se la «mutazione», si fosse del tutto compiuta, senza scampo.
LA MALATTIA DEL BELPAESE
Il Diario di Crainz mi pare dimentichi alcune «voci» nel repertorio dei protagonisti del naufragio, intanto gli intellettuali (un tramonto e basta) e poi la stampa italiana, pesantemente, malinconicamente in deficit di fronte a una missione che le spetterebbe per definizione: informare sullo stato del paese, sulle varie forme, politiche e sociali, in cui la malattia si manifesta, tralasciare le scritture consolatorie quando i buoi scappano, ignorare gli amori di Dudù per la barboncina bianca di Palazzo Grazioli quando in «terra dei fuochi» i bambini muoiono di cancro. Restituire davvero al Belpaese Benpensante l’immagine della tragedia che incombe, naufragio, terremoto, frana, allagamento o veleno, per mare e terra, politica e morale, immagine da fine del mondo. Non ci rimarrebbe una speranza in più se almeno un foglio, dalle tirature potenti, avesse rivendicato autonomia di fronte ai suoi padroni, avesse alzato qualche velo, sostenuto qualche battaglia (magari per difendere il semplice principio che la legge è uguale per tutti)?
L’invisibile popolo dei nuovi poveri
di Marco Revelli (il manifesto, 12.12.2013)
Torino è stata l’epicentro della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede...». Bene, devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sembrata una massa di fascisti. E nemmeno di teppisti di qualche clan sportivo. E nemmeno di mafiosi o camorristi, o di evasori impuniti.
La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica - il colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.
Le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa espansione... Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa dai propri problemi, a guardarli - almeno in quella prima fase - con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me...». Loro alzavano il pollice - non l’indice, il pollice - come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?».
Altra comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa era esilissimo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». Ecco, se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica.
Non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. E sarebbe un errore imperdonabile liquidare tutto questo come prodotto di una destra golpista o di un populismo radicale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squadre. E i cultori della violenza per vocazione, o per frustrazione personale o sociale. C’era di tutto, perché quando un contenitore sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio liquido infiammabile, gli incendiari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra che spiega il fenomeno. Non s’innesca così una mobilitazione tanto ampia, diversificata, multiforme come quella che si è vista Torino. La domanda vera è chiedersi perché proprio qui si è materializzato questo “popolo” fino a ieri invisibile. E una protesta altrove puntiforme e selettiva ha assunto carattere di massa...
Perché Torino è stata la “capitale dei forconi”? Intanto perché qui già esisteva un nucleo coeso - gli ambulanti di Parta Palazzo, i cosiddetti “mercatali”, in agitazione da tempo - che ha funzionato come principio organizzativo e detonatore della protesta, in grado di ramificarla e promuoverla capillarmente. Ma soprattutto perché Torino è la città più impoverita del Nord. Quella in cui la discontinuità prodotta dalla crisi è stata più violenta. Parlano le cifre.
Con i suoi quasi 4000 provvedimenti esecutivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno precedente, uno ogni 360 abitanti come certifica il Ministero), Torino è stata definita la “capitale degli sfratti”. Per la maggior parte dovuti a “morosità incolpevole”, il caso cioè che si verifica «quando, in seguito alla perdita del lavoro o alla chiusura di un’attività, l’inquilino non può più permettersi di pagare l’affitto». E altri 1000 si preannunciano, come ha denunciato il vescovo Nosiglia, per gli inquilini delle case popolari che hanno ricevuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro mensili imposti da una recente legge regionale anche a chi è classificato “incolpevole” e che non se lo possono permettere.
“Maglia nera” anche per le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno) in città, e 626 in provincia (di cui 344 tra bar e ristoranti). E’ l’ultima statistica disponibile, ma si può presupporre che nei mesi successivi il ritmo non sia rallentato. Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima. Mentre per le piccole imprese (la cui morìa ha marciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiusure al giorno in Italia) Torino si contende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “forconi”) la testa della classifica, con le sue 16.000 imprese scomparse nell’anno, cresciute ancora nel primo bimestre del 2013 del 6% rispetto al periodo equivalente dell’anno prima e del 38% rispetto al 2011 quando furono portate al prefetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese artigiane chiuse nella provincia.
E’, letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi succedutisi nella transizione all’oltre-novecento, tutta intera la composizione sociale che la vecchia metropoli di produzione fordista aveva generato nel suo passaggio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fabbrica centralizzata e meccanizzata nel territorio, la disseminazione nelle filiere corte della subfornitura monoculturale, la moltiplicazione delle ditte individuali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo produttivo automobilistico, le consulenze esternalizzate, il piccolo commercio come surrogato del welfare, insieme ai prepensionamenti, ai co .co .pro, ai lavori a somministrazione e interinali di fascia bassa (non i “cognitari” della creative class, ma manovalanza a basso costo... Composizione fragile, che era sopravvissuta in sospensione dentro la “bolla” del credito facile, delle carte revolving, del fido bancario tollerante, del consumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo dei marginali, e poi sempre più forte, e sempre più in alto. Non è bella a vedere, questa seconda società riaffiorata alla superficie all’insegna di un simbolo tremendamente obsoleto, pre-moderno, da feudalità rurale e da jacquerie come il “forcone”, e insieme portatrice di una ipermodernità implosa. Di un tentativo di una transizione fallita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie (che pure dicevano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show televisivi. E’ sporca, brutta e cattiva. Anzi, incattivita. Piena di rancore, di rabbia e persino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.
Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio del conflitto rude ma pulito. Qui la politica è bandita dall’ordine del discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni tra rappresentanti e rappresentati. Tra linguaggio che si parla in alto e il vernacolo con cui si comunica in basso. Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita. E forse, come nella Germania dei primi anni Trenta, saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare l’ascolto di questa nuova plebe. Ma sarebbe una sciagura - peggio, un delitto - regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione con questo mondo e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo errore. Forse l’ultimo.
LE FORCHE? NO, GRAZIE!
di Aldo Antonelli
Sono stato tentato di partecipare, in prima persona ed anche in rappresentanza di Lbera, alla manifestazione dei "Forconi", ma ho avuto un altolà dalla mia coscienza che mi impedisce di prestar voce ad un movimento dubbio ed equivoco. Ancora non trovo risposte certe e precise alla domanda intrigante di chi ci stia dietro questo mivimento. Da più parti, però, mi si mette in allerta.
La Presidenza regionale del Piemonte dell’ANPI, per esempio, ha emesso un comunicato stampa che invita tutti gli antifascisti e i democratici a respingere con fermezza le iniziative illegali messe in atto da un fantomatico "Coordinamento nazionale per la rivoluzione 9 dicembre" che attraverso Facebook 09.12.13 ha indetto per lunedì 9 una manifestazione di protesta in tutta Italia rivolgendosi in modo particolare ad ambulanti, agricoltori, commercianti, autotrasportatori, disoccupati precari, e ad altre categorie «invitando il popolo italiano alla ribellione».
Si tratta di evento apparentemente spontaneo, "organizzato" viceversa da provocatori e con l’attiva presenza di nostalgici del fascismo e del "tradizionalismo" cattolico lefebreviano anti papa Francesco; al punto che, come denuncia l’ANPI, in un’affollata assemblea dei promotori nei giorni scorsi tenutasi nel torinese, un sedicente leader, tale Danilo Calvani, agricoltore di Latina, ha auspicato la costituzione di «un governo temporaneo magari con una figura militare di riferimento".
Ancora, i "Forconi" che fecero parlare di se’ in Sicilia, Forza Nuova, Terza Posizione e a Casa Pound sono parte attiva dell’iniziativa, in un pericoloso e torbido tentativo di pericolosa emulazione con la famigerata Alba dorata ellenica. Io mi unisco unisce all’appello alla vigilanza democratica dell’ANPI e denuncio pubblicamente la vicenda rivolgendo a tutti i cittadini democratici l’invito a respingere tali iniziative torbide e di stampo neofascista, intese a creare nel Paese un clima weimariano, vigilando e svolgendo azione di denuncia e informazione alla cittadinanza.
Non è un caso che ad Avezzano, a piazza Torlonia, ci siano presenze "scomode" e "fuoricampo"!
Aldo Antonelli
Asse 5 Stelle-FI contro il Quirinale
Napolitano: “Parlamento legittimo”
Il Colle risponde alla critiche di FI e M5S: «Lo Stato deve sopravvivere».
Ma Brunetta lo attacca: «Non ha né poteri né competenze al riguardo» *
Roma. «Le Camere pienamente legittime». Il presidente della Repubblica da Milano replica all’asse M5S-Forza Italia contro i «parlamentari abusivi» dopo la sentenza della Consulta che ha bocciato il Porcellum.
Neanche il tempo di raggiungere Roma e si materializza l’inedita alleanza tra Berlusconi e Grillo. L’obiettivo di entrambi è quello far cadere il Governo e tornare alle urne al più presto.
«Spero che tutti dimostrino sensibilità per gli interessi del Paese», avverte profeticamente il capo dello Stato dando forma alle proprie preoccupazione sulla tenuta del Governo alla vigilia delle primarie del Pd e a pochi giorni dalla fiducia all’esecutivo. A guidare le danze dell’attacco al Colle è ancora una volta Beppe Grillo che oggi ci va giù duro: «Napolitano dal Quirinale non lo smuove nessuno e il fatto che sia stato eletto due volte con il Porcellum e sia un presidente incostituzionale al quadrato non lo turba, Sciolga le Camere e se ne vada», ha tuonato l’ex comico.
Fin qui è quasi routine: quel che si osserva con attenzione al Quirinale è invece la strada che intende prendere Silvio Berlusconi nel suo nuovo ruolo di opposizione. Per adesso a fare la voce grossa contro il Quirinale ci pensa Renato Brunetta che si allinea a M5S nella vivacità del linguaggio. «A forza di sopperire e sostituirsi sta completamente scardinando la Costituzione», ha detto l’ex capogruppo alla Camera del Pdl. E ha aggiunto: «non ha poteri né competenze circa la legittimazione del Parlamento e non spetta al Quirinale - aggiunge - interloquire sulla validazione degli eletti e la completa composizione delle aule».
Ma che aveva detto Giorgio Napolitano da suscitare la nuova reprimenda di Grillo-Brunetta? Il capo dello Stato, conversando con i giornalisti, aveva spiegato di aver letto bene gli interventi di due professori quotati in materia. «Apprezzo molto la risposta di Zagrebelsky oggi e di Onida ieri: gli argomenti dal punto di vista politico e istituzionale sono inoppugnabili e vanno nella direzione opposta” di chi dice che il Parlamento è delegittimato, si era limitato ad osservare il presidente. Gustavo Zagrebelsky al quotidiano `La Repubblica’ aveva sottolinea come «lo Stato sia un ente necessario e l’imperativo la sua sopravvivenza per non cadere nel caos». E che «perfino nei cambi di regime c’è continuità, ad esempio dal fascismo alla repubblica o dallo zarismo al comunismo». Convinto della legittimità del Parlamento anche Valerio Onida, ex presidente della Consulta, che ieri dalle pagine di alcuni quotidiani aveva detto: «la pronuncia di incostituzionalità colpirà la legge elettorale, non gli atti che hanno condotto alla formazione delle Camere».
Netta la difesa del capo dello Stato venuta dal Pd: di «attacchi scomposti e volgari» ha parlato il capogruppo alla Camera Roberto Speranza spiegando che «quando populismi ed estremismi di saldano contro tutte le istituzioni nasce un vero e proprio partito dello sfascio. E l’alleanza tra Grillo e Berlusconi è una miscela esplosiva che può fare molto male all’Italia”.
* La Stampa. 08/12/2013
La danza dei sordi
di Piero Stefani (“Il pensiero della settimana” - http://pierostefani.myblog.it, 7 dicembre 2013)
Una leggenda ebraica attribuita al fondatore del moderno chassidismo, il Ba’al Shem Tov, racconta che c’era una volta un musicista di straordinaria bravura; quando suonava, la gente era obbligata a danzare estasiata in qualunque posto fosse. Passò di lì un sordo e vedendo i presenti agitarsi in quel modo li prese per matti. Era però lui a essere in torto, se fosse stato saggio avrebbe intuito la loro gioia e, pur non udendo, si sarebbe unito al ballo collettivo.
A prescindere dagli scopi originari per cui è stato inventato, il racconto pecca di un eccesso di ottimismo. Lo fa perché, stando alla sua versione, il sordo è l’eccezione mentre coloro che si agitano per nobili motivi sono la regola.
Se si dovesse adattare la parabola alla situazione politica del nostro Paese essa dovrebbe venir capovolta. Chi si agita in modo ditirambico sono coloro che non ascoltano, mentre chi ode se ne sta quasi impietrito di fronte a quello sconfortante spettacolo.
Il quadro sociale italiano è di inaudita (è il caso di dirlo) gravità. I dati reali parlano di nove milioni di poveri e tra essi i miserabili sono una quota rilevante. Il rapporto sulla situazione sociale del Paese 2013 del Censis - scritto peraltro in un linguaggio astruso, già di per sé spia inquietante - pur prendendo atto che non è avvenuto il paventato crollo, fornisce un quadro scoraggiante: « Una società sciapa e infelice. Quale realtà sociale abbiamo di fronte dopo la sopravvivenza? Oggi siamo una società più “sciapa”: senza fermento, circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa. E siamo “malcontenti”, quasi infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali. Si è rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti».
Da vent’anni, vale a dire dall’epoca di “Mani pulite” fino alla sentenza della Corte costituzionale di giovedì scorso, una serie impressionante di mutamenti nel sistema politico e in quello dei partiti lo si deve all’azione della magistratura. Si tratta di un’anomalia oggettiva. Essa da un lato ha, de facto, assegnato alla magistratura dei compiti che non le spetterebbero, mentre, dall’altro, ha evidenziato in maniera macroscopica l’inadeguatezza tanto della classe politica quanto di quella antipolitica (di passaggio la parola “antipolitica”, fino a qualche tempo fa pronunciata a ogni piè sospinto come gravissimo campanello di allarme, oggi è quasi del tutto accantonata - in ciò è paragonabile a Mario Monti - senza che, nella sostanza, nulla sia mutato).
La vicenda legata all’ultima legge elettorale approvata dal Parlamento italiano ne è una prova lampante. Dopo aver, in pratica, legittimato a 360° un nome che di per sé dovrebbe far vergognare ogni persona eletta con quel sistema, da qualche anno si è iniziato a denunciare l’urgenza prioritaria di modificarla. Ma, stando ai dati di fatto, a essere urgente era solo il dirlo - atto ormai entrato nel lessico obbligatorio - non il farlo, atto perennemente rimandato. Un escamotage per non attuare la riforma elettorale è stato, val la pena di ricordarlo, quello di legare la legge elettorale a velleitarie, e non ancora tramontate, volontà di realizzare radicali riforme costituzionali (chi si ricorda più dei “saggi”? Forse neppure Napolitano). Non occorre essere maestri del sospetto per capire che la scelta di subordinare l’ingresso nelle mura domestiche di un gatto a quelle di un elefante, significa, in pratica, che in casa non si vuole neppure il gatto.
La nostra classe politica si è dimostrata ben capace di creare e disfare raggruppamenti parlamentar- partitici o di presentare e ripresentare le primarie per la segreteria del partito o per un premierato non previsto né dalla costituzione né dai fatti (ci governa Letta non Bersani) come ultima spiaggia della democrazia. Essa però si è mostrata incapace non dico di dar un autentico ascolto al «grido di dolore» che viene dal paese, ma persino di modificare con le proprie forze un sistema elettorale indecente. Ora dovrà farlo per un imput che le viene dall’esterno a opera di un Parlamento moralmente, anche se non giuridicamente, delegittimato; a meno che non si accetti, per paralisi interna, di andare alle elezioni con la legge indirettamente stabilita dalla Corte costituzionale.
Guardato nel suo insieme, il quadro resta quello di un’ agitata danza di sordi fatta, ben s’intende, a detta dei ballerini, per il bene del Paese. Va dichiarato però che non mancano i sordi neppure tra gli spettatori. In questo gruppo rientra, per esempio, l’episcopato italiano incapace ormai da anni, salvo rare eccezioni, di dire parole davvero capaci di orientare una popolazione sempre più smarrita.
Bangkok si ribella al Berlusconi d’Oriente
La proposta di amnistia per l’ex primo ministro Shinawatra, fratello della premier in carica scatena la protesta dell’opposizione
Scontri in piazza
di Gabriel Bertinetto (l’Unità, 02.12.2013)
Presenti i capi delle tre armi, che si professano neutrali, il leader dei rivoltosi intima la resa alla donna accusata di guidare il governo della Thailandia per conto del fratello, esule e pregiudicato: Thaksin Shinawatra, il Berlusconi d’oriente. L’incontro avviene in una località segreta, dove la premier Yingluck Shinawatra si è rifugiata dopo che il circolo sportivo in cui si apprestava a incontrare la stampa internazionale era stato assaltato dai manifestanti.
Accade al termine di una giornata convulsa. Per la prima volta dopo una settimana di proteste pacifiche, sono divampati duri scontri fra polizia e dimostranti. Poche ore prima, nella notte fra sabato e domenica, manifestanti di opposte fazioni si erano affrontati vicino a uno stadio nella zona di Ramkhamhaeng, lasciando sul campo le prime vittime, tre, di questa ennesima ondata di disordini politici a Bangkok. Mentre la notte cala sulla capitale thailandese, non è affatto chiaro se la crisi si avvicina al drammatico epilogo annunciato dal capo dello schieramento antigovernativo, Suthep Thaugsuban: «Ho detto a Yingluck che questa è la prima e ultima volta che le parlo fino a quando non cederà il potere al popolo. Non ci saranno negoziati e tutto deve finire entro due giorni». Cioè domani, mentre oggi i cittadini di Bangkok vengono da lui esortati a godersi un giorno di vacanza e unirsi alla mobilitazione di piazza.
Le parole di Suthep cadono nel silenzio delle autorità, che non contestano la ricostruzione del colloquio, senza nemmeno confermare né smentire che fosse davvero avvenuto. Il vice-premier Pracha Promnok si limita ad invitare la gente a non uscire di casa fra le dieci di sera e le cinque di mattina, «per non restare vittime di provocazioni». Più un consiglio che un coprifuoco. Toni più minacciosi nella dichiarazione di Piya Utayo, portavoce della polizia, che preannuncia l’intervento degli uomini in uniforme per riappropriarsi delle «proprietà pubbliche» occupate dai contestatori. L’affermazione appare in singolare contraddizione con quanto ha dichiarato poco prima il capo della sicurezza nazionale Paradorn Pattanathabutr. «Non hanno preso un solo edificio», diceva Paradorn, smentendo che fossero caduti in mano ai rivoltosi una decina di siti.
Difficile capire comunque da che parte stiano le varie agenzie preposte alla sicurezza pubblica. In linea generale la polizia sembra ligia alle disposizioni del potere centrale, mentre i militari preferiscono mantenere un profilo istituzionale estraneo allo scontro politico in atto. Nel recente passato hanno però dimostrato in modo molto concreto la loro avversione verso la fetta di establishment legata a Thaksin, arrivando anche a destituirlo con un golpe nel 2006.
Causa scatenante delle tensioni è l’amnistia proposta da Yingluck con l’evidente scopo di consentire il ritorno in patria del fratello. Il progetto è fallito, ma ha innescato la ribellione alla cui guida si è posto Suthep Thaugsuban, vicepremier nel precedente esecutivo. Suthep si è dimesso dal Partito democratico, la principale forza di opposizione, per avere mano libera in una lotta dichiaratamente tesa a rovesciare il governo in carica, e «smantellare la macchina di potere» che fa capo a Thaksin.
Questi viene accusato di dirigere il Paese per interposta persona. Suthep e compagni denunciano l’andirivieni di ministri che fanno la spola fra Bangkok e le località in cui il Berlusconi d’Oriente solitamente risiede, Dubai e Hong Kong. Contestano quelli che considerano sprechi di denaro pubblico per favorire la cerchia affaristica incentrata nel clan dei Shinawatra. Sotto accusa un piano di sussidi ai risicoltori per vari miliardi di dollari, la gestione dei progetti idrici dopo le terribili alluvioni del 2011, e i 600 miliardi di dollari stanziati per vari investimenti infrastrutturali.
Thaksin, che se rimettesse piede in Thailandia dovrebbe scontare una condanna a due anni di carcere per corruzione, costruì la sua fortuna politica grazie al controllo di televisioni e giornali, e gode tuttora di grande popolarità soprattutto nelle aree rurali. I suoi avversari, il Partito democratico in particolare, hanno la loro base sociale nei ceti medi urbani e nelle province meridionali. Suthep, leader del movimento antigovernativo, è un personaggio controverso. È sotto inchiesta per la violenta repressione delle proteste popolari nel 2010 (novanta morti). Allora le parti erano invertite, e nei panni dei contestatori erano i seguaci di Thaksin nelle loro divise rosse. In precedenza nel 1995 Suthep fu al centro di uno scandalo per avere dirottato a vantaggio di proprietari terrieri benestanti, fondi destinati ad aiutare i contadini poveri.