di Ida Dominijanni (il manifesto, 08.10.2009)
Che ne è dell’intellettuale novecentesco nell’era dei massmedia e nell’evo di Berlusconi, quando si rompe il rapporto fra politica e cultura e il capitalismo postfordista cancella operai e borghesia. «Il grande silenzio», intervista ad Alberto Asor Rosa curata per Laterza da Simonetta Fiori
«Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia. Più del fascismo? Inclino a pensarlo». Così Alberto Asor Rosa il 4 giugno 2008 su questo giornale, non senza scandalo. Quel giudizio e le sue ragioni ricompaiono ora ne Il grande silenzio, la sua lunga intervista sugli intellettuali che Simonetta Fiori ha raccolto per Laterza (giocando, va subito detto, un ruolo tutt’altro che secondario nell’andamento del discorso). Ai tre criteri di misura che in quell’articolo motivavano quel giudizio - senso dell’unità nazionale, rapporto fra cittadini e istituzioni e fra presente e tradizione - se ne aggiunge dunque un altro, lo stato in cui versa la questione degli intellettuali nell’«evo berlusconiano», stato che a sua volta riporta all’analisi della «civiltà montante» massmediatica e globalizzata in cui viviamo.
La diagnosi del presente è l’approdo e non l’inizio dell’intervista, che per tre quarti procede lungo un asse di ricostruzione storica della questione nella vita della Repubblica; ma è lecito partire da qui, credo, e poi andare a ritroso, perché Asor Rosa è l’incarnazione della funzione intellettuale incardinata sul rapporto fra politica e cultura che nel libro mette a fuoco, e dunque è il problema tutto politico del «che fare oggi» che lo muove e lo tormenta, pur mentre di quella funzione dell’intellettuale politico decreta l’estinzione.
Che fare dunque oggi, e com’è fatta la «civiltà montante»? A fronte della nitidezza della panoramica sul passato, qui lo sguardo si fa più esitante, e perciò più stimolante. Non per quello che riguarda il giudizio politico su Berlusconi, che è nettissimo: «il prodotto finale di una lunga decadenza del sistema liberaldemocratico», che persegue, facendo tabula rasa della storia nazionale dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituzione, «un assetto politico-istituzionale di tipo monocratico», forte della «devastante anomalia» che unisce in lui «il padrone dell’immaginario collettivo e il dominus della cosa pubblica».
L’esitazione riguarda piuttosto l’epoca che al berlusconismo fa da cornice, la «civiltà montante», appunto, dei massmedia. Della quale, dice Asor, «mi rendo conto di essere portato a cogliere più gli aspetti negativi che quelli positivi», e tuttavia «il grande dilemma è se il nuovo Moloch porti con sé valenze positive che il vecchio sguardo non è in grado di cogliere».
Totalitarismo democratico
Proviamo dunque ad addentrarci nel dilemma a partire dagli aspetti negativi: omologazione intellettuale, appiattimento dell’immaginario, prevalenza del criterio commerciale su quello culturale; metafisica dell’apparire contro l’essere; rappresentazione della realtà secondo il gradimento dell’audience; assolutizzazione della verità contro il giudizio critico, che invece «non si fonda su verità assolute ma sul senso del relativo»; epidemia dilagante di quella «peste del linguaggio» che Italo Calvino denunciava nelle sue indimenticabili Lezioni americane.
Lucidamente Asor Rosa ne trae le conclusioni per i destini non solo dell’intellettuale - «la funzione intellettuale tradizionale, fondata su spirito critico, spiccata individualità, riconoscibilità pubblica, appare inesorabilmente destinata al tramonto» - ma della stessa democrazia: «E’ una fenomenologia non immune da inclinazioni totalitarie, nel senso che le sue conseguenze, seppure ottenute con mezzi radicalmente diversi, non sono dissimili dall’appiattimento voluto e praticato con strumenti coercitivi dal totalitarismo novecentesco: omogeneità di giudizio, conformismo di massa, uniformità dei consumi».
La diagnosi è giustamente spietata, in linea con altri contributi (Tronti, Cacciari, Badiou, Rancière, Nancy) che sfidano il fondamentalismo della fede nella democrazia oggi imperante strappando all’homo democraticus la maschera di sovranità e autodeterminazione che ne copre dipendenze e manipolabilità.
Ma Asor Rosa diffida delle sue tentazioni catastrofiste, e di fronte a queste derive del presente vorrebbe piuttosto ritrovare la capacità marxiana («sono forse l’unico al mondo che ha letto tutto Marx e tutto Dante, virgole comprese») di cogliere non solo la distruttività ma anche la carica innovatrice dell’ingranaggio capitalista, per capire come smontarlo e come sovvertirlo.
Eccoci dunque al dilemma di poco fa: dove trovare nel Moloch della «civiltà montante» le valenze positive su cui fare leva per il «che fare»? Lasciamo sospesa la domanda e procediamo all’indietro, sulle tracce di quella figura dell’intellettuale novecentesco che oggi rischia l’estinzione come, scherza Asor, i dinosauri che pretendevano di restare uguali a se stessi in presenza di un mutamento ciclopico del clima e dell’ambiente.
Con ogni evidenza, nel ritratto che Asor Rosa ne traccia, l’intellettuale novecentesco è figura del rapporto fra politica e cultura. Di un rapporto non organico - Asor conferma qui la sua distanza da Gramsci - bensì critico, ma comunque strettissimo e imprescindibile. Fuori da questa posizione schierata, partigiana e militante, quella figura svanisce o nell’isolamento individualista dell’uomo di cultura o nell’opportunismo degli «apoti», quelli che oggi come nell’Italia prefascista e fascista non si schierano né di qua né di là, avallando di fatto il potere costituito.
Invece, «da Max Weber fino a Bobbio l’intellettuale è quello specialista che traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale, e lo usa come strumento per cambiare le istituzioni, la politica, la società, talvolta l’antropologia circostante». Presente sia a destra che a sinistra, a destra l’intellettuale viene cancellato dal totalitarismo fascista e nazista, mentre a sinistra sopravvive in forme eretiche al totalitarismo comunista. La sua storia è intimamente intrecciata quindi con la storia della sinistra.
Di questo inteccio Asor Rosa fornisce un resoconto completo e convincente, ripercorrendone tutti gli snodi princiali: il trauma del ’56 e la crepa che aprì nell’ortodossia comunista, il riformisnmo del primo centrosinistra, il ciclone degli anni Sessanta («il deprezzamento del ’68-’69 fa parte integrante del clima degradato di questi nostri giorni»), la stagione del consenso intellettuale più vasto, ancorché tutt’altro che compatto, al Pci berlingueriano fra il ’72 e il ’78, il «dramma» del ’77 (organizzare la visita di Lama alla Sapienza fu «un clamoroso errore»), il terrorismo e l’assassinio di Moro, la «mutazione morfogenetica» del Psi craxiano in macchina di potere, infine la svolta del Pci nell’89.
L’impronta spiccatamente autobiografica aggiunge verità al racconto, punta su alcuni momenti peculiari (l’esperienza delle riviste operaiste negli anni Sessanta, quella di Laboratorio politico negli Ottanta), ne chiarisce altri (la rottura fra Asor, allora direttore di Rinascita, e Occhetto, non tanto sul che cosa quanto sul come della svolta: «La verità è che mi sentii tradito. L’operazione di Occhetto, inattesa e fulminea, improvvisata ed estemporanea, era passata come un ciclone sul lavoro culturale condotto in quegli anni insieme»), invita a un confronto con vissuti e giudizi diversi su altri momenti ancora (il ’77, ad esempio).
Ma più che insistere sulla storia dei decenni passati, è sul suo esito che il libro ci sospinge, e ci inchioda. Sull’esito - il «più del fascismo» da cui siamo partiti, e al suo cospetto «il grande silenzio» degli intellettuali italiani o di ciò che ne resta - gravano tre processi incrociati.
In primo luogo l’impoverimento della politica, dagli anni Ottanta sempre più autoreferenziale e incapace di ascoltare l’apporto di specialismi e voci critiche.
In secondo luogo il cambiamento della composizione di classe della società: se l’intellettuale novecentesco si definisce nel suo rapporto con la borghesia o, dove questo spostamento si è dato o è stato tentato, con la classe operaia, un rapporto dello stesso tipo non pare ad Asor ripetibile nel panorama sociale senza classi del postfordismo.
In terzo luogo, la furia di cancellazione delle radici storiche e delle tradizioni politiche che imperversa - coltivata da ondate successive di revisionismo - su tutta la scena pubblica italiana: a destra, dove vige «l’ideologia onnivora del presente» di Berlusconi, ma anche a sinistra, dove dopo l’89 hanno trionfato o una autocritica liquidatoria della tradizione (tanto più zelante proprio negli intellettuali che le erano stati più organici) o una sua riaffermazione acritica.
Zone di resistenza
Ma se è così, è dall’interno di questa stessa diagnosi che si possono trovare i punti di leva per il «che fare» che Asor Rosa lascia aperto. Lasciamo perdere l’appello a una qualche riforma o a un qualche risveglio della politica ufficiale, che il ceto politico attuale non sembra in grado di recepire, e guardiamo piuttosto alle «zone di resistenza» da cui lo stesso Asor invita a ripartire, indicandone una nella scuola pubblica e nell’università, a suo giudizio corrose ma non distrutte dalla decadenza degli ultimi decenni.
In questa ricerca delle zone di resistenza può essere proprio il panorama sociale postfordista di cui Asor Rosa diffida a venirci in soccorso, se è vero com’è vero che uno dei suoi tratti distintivi è proprio la crescita esponenziale di una intellettualità diffusa, diversa per composizione sociale dall’intellettuale novecentesco, priva delle (e distante dalle) sue forme di mediazione politica nonché linguistica, e tuttavia non riducibile all’omologazione conformista prevalente nella «civiltà montante».
Non per caso, del resto, il neo-operaismo di oggi vede nel lavoro intellettuale postfordista potenzialità analoghe a quelle che l’operaismo degli anni Sessanta vedeva nella classe operaia di fabbrica. E non per caso è nelle pieghe dell’ingranaggio multimediale, dentro e contro di esso, che si combatte ogni giorno e ogni minuto quella battaglia sul senso e l’interpretazione del presente un tempo affidata - ma anche delegata - alle grandi ideologie.
Vero è invece che anche questa battaglia minuta, diffusa e quotidiana rischia di farsi fagocitare dall’«ideologia onnivora del presente» che non è solo un tratto del berlusconismo, ma è inerente alla forma stessa della razionalità massmediale della nostra epoca. E vero è dunque che anche questa battaglia si gioverebbe assai di quel recupero del senso della storia a cui Asor Rosa ci richiama.
In questa direzione, il dialogo fra lui e Simonetta Fiori ha un valore esemplare. In fondo, quello che Asor si propone con la sua diagnosi dell’estinzione dell’intellettuale novecentesco è l’elaborazione di un lutto: l’ennesima a sinistra, potremmo chiosare malinconicamente, se non fosse che per una volta qui non è la tonalità malinconica né quella nostalgica a prevalere, e l’intenzione non è di crogiolarsi nella perdita ma di mettere un punto a capo per ripartire. Sapendo però che alle spalle non c’è un usato da liquidare ai saldi, ma un grande patrimonio di cui farsi eredi. E infatti, malgrado la sua denuncia sulla pochezza dei tempi in corso, Il grande silenzio riesce a farci sentire a fine lettura non più deprivati, ma più ricchi di chi ci ha preceduti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
-UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
ASOR ROSA E LA COM-PASSIONE
di Michele Feo *
Non ho tutte le mie carte in ordine. Ma la cartella di ritagli di giornali riservata ad Asor Rosa conta 200 pezzi, a non dire che certamente molti altri non sono ancora andati a posto. Ieri tutti i quotidiani nazionali dedicavano un articolo ad Asor Rosa, ma solo «il Manifesto» lo sbatteva in prima pagina, come si conviene ai mostri. Gli altri lo respingevano nelle pagine culturali, che inesorabilmente sono andate negli anni a nascondersi verso la fine del giornale, in modo che il buon lettore costumato, divenuto stanco per tanto girar di pagine sportive, politiche e pubblicitarie, senta sopraggiunta l’ora del riposo e così per ragioni igieniche, non per altro, chiuda la partita con la cultura.
Le reazioni sono state, come era da attendersi, diverse e contrastanti. Ma hanno tutte dimostrato che Alberto è stato un pezzo importante della storia di tutti noi. Molti hanno ricordato con orgoglio e commozione i rapporti personali tenuti col morto. I toscani non hanno dimenticato le battaglie in difesa dell’ambiente della Val d’Orcia (dove Alberto aveva una casa) contro la speculazione edilizia. Un pizzico di acido hanno spruzzato a destra quando qualcuno ha inventato per lui la definizione di ’barone rosso’ della critica (dimostrando di aver assimilato la bonomia conciliaristica di Snoopy). Era d’obbligo ricordare i suoi tanti libri, la sua militanza nel PCI e la sua uscita spontanea dal Parlamento per potersi dedicare interamente allo studio e all’insegnamento (aggiungiamo alle polemiche giornalistiche). Sono state rievocate la sua eleganza, la sua facondia e la sua arguzia micidiale. «Scrittori e popolo», il suo primo giovanile e combattivo (anche donchisciottesco) libro è tornato a dominare la scena e la ricostruzione del percorso di una vita.
Alberto è stato il primo dissacratore della mitologia populistica del dopoguerra. Ha esagerato e fin dall’inizio furono molti i dissenzienti. Dispacque ai comunisti fideistici ed eroici del proletariato urbano, ai braccianti, a parti del ceto dirigente, a molti intellettuali la spregiudicatezza con cui si liquidavano le compromissioni del movimento operaio con le tradizioni, i riti, le politiche e le ideologie borghesi e piccolo-borghesi, la religione e la fede parrocchiale, il romanticismo provinciale degli uomini e delle donne semplici di una eredità pascoliana, la strenua fede pasoliniana nel riscatto evangelico del sottoproletariato, nella convinzione che dentro le zolle della terra si annidasse un nuovo e antichissimo verbo di pace, di sesso, di sangue e di felicità poetica. Addolorò molti che nella condanna del populismo fosse coinvolta non solo una classe di borghesi convertiti per convinzione o opportunismo, ma persino Gramsci, il puro dei compagni.
Asor Rosa non si scompose e rincarò la dose, rifiutando l’arte povera o dei pοveri e le preferì quella alto-borghese dei Thomas Mann. La rivoluzione non doveva essere una festa di nozze coi fichi secchi. Alcuni classicisti gli rimproverarono una conoscenza sommaria dell’antichità e della sua eredità, una sorta di conoscenza del presente senza le fondamenta del pensiero greco-romano. Chi scrive si sentì estraneo all’idea della centralità della classe operaia, e ritenne di stare nella massa del popolo di Pellizza di Volpedo che avanza, ma in cuor suo pensava che alla giacca rivoltata sulle spalle una volta si sarebbe sostituita la marra del villano ridotto a bestia dall’alleanza di guerrieri, sacerdoti e anche una parte dei produttori.
Asor Rosa ha percorso tutte le strade impervie della politica italiana, le battaglie contro un ceto accademico mummificato, i conati neo-fascisti, l’adesione al nuovo vento berlingueriano, il terrorismo, senza mai perdere il senso della critica, il distacco, la crudeltà dell’analisi impietosa della sua stessa parte, il rifiuto della guerra per qualunque fine, il rifiuto stesso della politica per amore del mestiere che solum sentì veramente suo, quello del professore e dell’amante della parola scritta.
Alberto nacque da un padre ferroviere, e, come ha osservato Remo Ceserani, non pochi sono stati gli uomini di sinistra figli di ferrovieri, cioè di uomini costruttori di strade ferrate, ogni giorno a contatto con treni merci e treni viaggiatori, a scansare città viaggianti restando fermi a terra su una massicciata di pietre a sognare che su quei treni potessero un giorno correre la corsa libera della vita i loro figli. Asor Rosa veniva da quel mondo di marginali, ma era nato a Roma, e il caso gli aveva dato dunque il desiderio di riempire il vuoto d’origine e la prospettiva giusta di una città che sapeva di essere stata il centro dell’universo.
Quando «Scrittori e popolo» uscì Sebastiano Timpanaro, un socialista e materialista integerrimo, filologo sovrano, figlio di una poetessa storica della scienza e di un fisico, in una famiglia di gentiliani di sinistra, in una casa stracolma di libri, stava licenziando il suo «Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano». Nell’introduzione sentì il bisogno di chiarire: «Per quel che riguarda la specifica forma di populismo che è propria del movimento romantico dell’Ottocento, parecchie mie osservazioni coincidono con osservazioni di Asor Rosa; così pure sono sostanzialmente d’accordo con la battaglia che Asor Rosa conduce contro il mediocre populismo della nostra attuale letteratura e contro la politica culturale che lo ha incoraggiato. Ma inaccettabili mi sembrano sia l’estensione del concetto di populismo a tutto ciò che nell’Ottocento è giacobino, democratico-rivoluzionario, comunista-agrario (il che porta, fra l’altro, al fraintendimento del pensiero di Carlo Pisacane), sia la liquidazione sommaria dell’interpretazione gramsciana del Risorgimento; soprattutto credo che una discussione seria di tale interpretazione debba far centro non sul Gioberti; ma sul De Sanctis, che nel libro di Asor Rosa è quasi del tutto assente».
Eppure qualcuno ha definito Asor Rosa il nuovo De Sanctis, non del tutto a torto. Quanto a Timpanaro, il suo leninismo rigoroso, di quel Lenin che era giunto a definire un rinnegato il Kautsky, che se avesse prevalso su Lenin avrebbe salvato la rivoluzione russa dalla guerra contro i contadini poveri e dalla distruzione della campagna, dallo stalinismo e dalla sua stessa miserabile fine per le mani di boiardi macchinette ideologiche senza anima, Timpanaro, venerato senza se e senza ma, impresse su di me una ferita segreta quando, pur apprezzando nel mio primo scritto scientifico la partecipazione alla dolorosa vicenda storica del contadino, volle rilevarne con crudezza i risvolti a suo dire moralistici, come se la condivisione politica della sofferenza degli ultimi non sia, oltre che un problema filosofico, una deontologia del cuore, una scelta morale, per quale val la pena di rifiutare vita stessa.
Non voglio né saprei fare l’enciclopedia di Asor Rosa, e non servirebbe a nessuno. La corona gliel’ha collocata in capo al momento giusto la collana dei Meridiani Mondadori, accogliendolo con tutti gli onori entro la sua valletta di principi della cultura. Io vorrei qui dire qualcosa di un poco diverso. Tacerò dei molti motivi e occasioni di incontro e di affetto, tutti senza scopo di lucro né mercantile né accademico.
Ho accennato alla sua estraneità alle discipline un tempo dette complementari, soprattutto la filologia. Ma col metodo del passo lento e sicuro dello scalatore approdò a un rispetto senza riserve per la filologia come scienza necessaria, praticata dai compagni di lavoro. E proverbiali sono la visione e la storia asorrosiana come un processo quasi chiliastico di avanzamento verso la società giusta e verso una reincarnazione del francescanesimo nel quale tutti hanno un solo paio di scarpe, una sola tunica, e non hanno case, forse nemmeno amano i loro simili e soprattutto non ridono mai.
Ebbene è alla fine del terribile libretto «Fuori dall’Occidente», che vuol dire basta con una civiltà fatta sul sangue, sul sopruso, sulla violenza, sul danaro e sul potere, è lì, al culmine della disperazione che si apre lo spiraglio di una luce che riscopre il verbo incarnato: «In fondo, all’inizio di tutta questa tragica storia, non c’è che un ‘uomo’ il quale ha accettato di lasciarsi mettere su di una croce per testimoniare una verità, una verità che soltanto lui sapeva ...».
È dall’esempio del Cristo sulla croce che può nascere la nuova umanità fondata su verità e giustizia. Questa rivoluzione o riforma dovrà nascere non fuori, ma in interiore homine. «È sempre stato così, sarà così anche questa volta. Si può uscire dall’Occidente, solo passando attraverso la propria anima». Qui Asor Rosa, l’uomo che fu per eccellenza il critico politico, esce dalla danza degli equivoci della politica. L’unico luogo dove entrare e uscire, dove restare e andare, è la nostra anima, e lì la libertà non può che essere insindacabile e assoluta. Questi valori assoluti e non trattabili sfociano in un’etica della solidarietà, o, come Alberto preferisce dire, della «com-passione».
Il figliolo dell’uomo da allora resta lì appeso, «ad onta di tutti gli sforzi di trasformarlo in un oggetto di culto». Sono mirabili le parole che chiudono questo libretto che - in questi ritornati tempi di guerra - farebbe bene leggere o rileggere:
«Sarebbe ora che qualcuno lo staccasse di lì, per rimetterlo sulla sua terra e curargli le piaghe delle mani e dei piedi. Ciò di cui abbiamo bisogno è di questo semplice ’gesto umano’ - un gesto di gratificazione e insieme di risarcimento. Il giorno in cui fossimo in grado di ri-umanizzare il Cristo, avremmo cominciato finalmente a estinguere la storia dell’Occidente in quella del mondo e non viceversa».
* Fonte: Facebook, 24 dicembre 2012
#STORIA, #LETTERATURA, E #COSTITUZIONE.
Una nota a margine di un omaggio ad Asor Rosa*
Ma, chiarissimo Michele Feo, tenendo conto degli "ultimi ritocchi al #Paradiso" (1319) e della consapevolezza dello stesso #Dante di essere "cive di quella Roma onde Cristo è romano" (Par. XXXII, 102), non si potrebbe riprendere il filo della "Preistoria dell’#Arcadia moderna", e, ricordando il doppio #tradimento, quello della monarchia sabauda (#Pilato) e della Chiesa Cattolico-costantiniana (#Giuda) nei confronti della cittadinanza italiana di religione ebraica ("Leggi per la difesa della razza", 1938), riesaminare e rilanciare il programma dei #dueSoli in #terra e dell’unico Sole in #cielo (Giordano Bruno, "Lo spaccio della bestia trionfante") e tentare di portarsi "Fuori dall’Occidente" (Asor Rosa, 1992) e aprire gli occhi (#Freud) su tutta la Terra? Nel 2023, a giorni, #Eleusi sarà una delle capitali europee della #cultura, non è forse una buona occasione per riattivare la #memoria della Terra-Madre (#Demetra) e ripensare il problema antropologicamente, a partire proprio dall’Arcadia, da #Astrea, e dalla #Giustizia?
* Cfr. "MEMINISSE IUVAT. IMMAGINI di ASOR ROSA" (Michele Feo).
di Fabrizio d’Esposito (Il Fatto quotidiano, 10 ottobre 2015) *
Il professore Alberto Asor Rosa, icona degli intellettuali di sinistra, è stato il primo a usare la definizione di mutazione genetica nel linguaggio politico. Accadde nella Prima Repubblica, con il Psi di Bettino Craxi. Trent’anni dopo la stessa metafora scientifica accompagna, nella vulgata giornalistica, il Pd renziano nel suo grottesco viaggio verso la destra peggiore di questo Paese, quella degli ex berlusconiani Denis Verdini e Angelino Alfano, futuri inquilini o alleati del Partito del la nazione.
Professore, che cosa sta diventando il Pd di Renzi?
«Un partito nuovo che non ha più una base di massa, rispon de al comando di un leader in contrastato e ha un gruppo dirigente conservatore di destra».
È una perfetta definizione accademica, senza fronzoli. Un partito di destra, nemmeno di centro.
«È un dato di fatto che l’attuale vertice del Pd ha escluso dal gruppo dirigente ogni erede della tradizione comunista, ma anche progressista o riformista. Sono tutti ex democristiani».
Una nuova Dc.
«No, perché ai vecchi democristiani non sarebbe mai venuto in mente di proclamare il Partito della nazione. L’obiettivo del Pdn è l’ulteriore perfezionamento in termini di destra di questa tradizione centrista, che non ha ritegno a considerare interlocutori Alfano e Verdini».
Risultato: Verdini non è il mostro di Loch Ness (Renzi dixit) ma Marino sì.
«La liquidazione di Marino può essere annoverata tra le molteplici iniziative di Renzi e del renzismo di avere sull’Italia un controllo totale. Quando questo controllo non c’è si ricorre all’aggressività».
Marino ci ha messo del suo.
«Il sindaco di Roma non ha rivelato quella tempra di condottiero necessaria, ma non ho dubbi che abbia prevalso, contro di lui, una spinta eversiva e catastrofica proveniente da tante parti».
Com’è possibile che il Partito di Loch Ness nasca a sinistra, anziché a destra?
«La risposta è facile. Per mettere in moto questo processo occorreva che la forza trainante fosse una parvenza di sinistra dietro cui nascondersi, altrimenti ci sarebbe stato un coro di sghignazzamenti, se non di manifestazioni di piazza».
Quindi il berlusconismo è stato meno pericoloso del renzismo.
«Sì, “Silviuccio” non era in grado di elaborare culturalmente una simile invenzione. E politicamente la piazza glielo avrebbe impedito».
A Renzi no, invece.
«Può fare quello che sta facendo perché il Pd è mutato nelle sue radici e la mutazione genetica ha investito anche i suoi elettori. Non dimentichiamo che lui arriva dopo una sequela pluridecennale di fallimenti del centrosinistra e la gente ha pensato: “Almeno questo fa qualcosa”».
Il fatidico 40 per cento alle Europee.
«Renzi ha un consenso vasto anche se il punto culminante del suo successo è già alle nostre spalle».
All’orizzonte c’è però l’autoritarismo della nuova Costituzione.
«Qualsiasi atto del presidente del Consiglio mira al restringimento della democrazia, in termini di spazi e di base del consenso. Contano solo i vertici del potere, dalle rappresentanze politiche al presi de-manager della scuola. Per renzismo, intendo questo».
Combattere il renzismo dall’interno del Pd non sembra possibile.
Sulla minoranza del Pd, in questi giorni, mi sono venute in mente solo due parole».
Quali?
«Ridicola e penosa. Ridicola perché ha fatto ridere la battaglia su alcuni particolari della riforma Boschi. Penosa perché il risultato ha dimostrato che la minoranza non conta nulla. Poi ha superato anche il limite etico-politico perché non si è vergognata di votare con Verdini».
Fuori dal Pd c’è un deserto a sinistra?
Deserto mi pare eccessivo. Ci sono tanti pezzetti sparsi ma non c’è nessuno in grado di convogliare queste forze verso la stessa direzione.
Un effetto collaterale della mutazione genetica?
«Dalla crisi dei grandi partiti di massa nati dall’antifascismo e dalla Resistenza non c’è stata nessuna vera scintilla».
Come si qualifica una mutazione?
«Quando cambiano natura, vocazione e cultura».
Nel Pd renziano?
«Si parte dall’idea che i conflitti sociali siano dannosi per cui i sindacati diventano il nemici. Così la cultura della nazione impone una ratio comune che è quella del grande capitale e della grande finanza. Il terzo punto è il restringimento della democrazia. Il Partito della nazione, sviluppato sino in fondo, comprenderà anche Berlusconi e i berlusconiani, non solo Verdini e Alfano» .
* EDDYBURG. Nell’intervista di Fabrizio D’Esposito ad AAR un’illustrazione ineccepibile della parabola discendente e del definitivo approdo del più grande partito della sinistra italiana del secolo scorso. Un errore nel titolo: la destra autoritaria c’è già.
Intellettuali addio: il pensiero è polvere
L’analisi di Asor Rosa in un libro intervista
Silenzio o intrattenimento ciarliero. È finita l’epoca dei «chierici»: non parlano più e il loro ruolo di un tempo è ormai consunto, liofilizzato o trasformato in presenza mediatica.
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 11.10.09)
Giorni fa scorrendo le offerte turistiche nell’inserto un importante quotidiano, ci si imbatteva in un curioso annuncio. Un famoso storico della filosofia avrebbe fatto da guida in una crociera nell’Egeo intrattenendo i crocieristi sulla filosofia greca per tutta la durata del tour. Prezzo modico. Niente di male. Ma si potrebbe cominciare di qui nel recensire Il Grande silenzio, il libro intervista con Alberto Asor Rosa sul «silenzio degli intellettuali» a cura di Simonetta Fiori. L’esempio, assieme a quello di un altro grande studioso autore da anni di (veri) menù gastro-filosofici, riassume ironicamente uno dei temi chiave del libro: la consunzione dell’intellettuale classico. La liofilizzazione del suo ruolo di un tempo. Sintetico e pedagogico, e basato sul nesso cultura e politica. E anche sull’idea di una cultura alta e critica. Vocata a distinguere tra ciò che è rilevante da ciò che non lo è. Dunque silenzio degli intellettuali, oppure intrattenimento ciarliero, nell’era «postmoderna», termine al quale Asor preferisce quello di «civiltà montante» di massa.
Volume di qualità. Per svariati motivi. Primo, è ben condotto dalla curatrice. Secondo, ha come protagonista pensante un insigne italianista, versato in politica e cultura, la cui biografia è emblematica dell’intellighenzia italiana del dopoguerra.
Terzo, affronta un tema cruciale. Quarto, abbiamo lavorato con Asor al tempo di Rinascita e perciò parlare di lui significa anche parlare di cose convissute (diversamente). Ad esempio, la svolta Pci-Pds che ci sorprese entrambi nel varare, con lui direttore, l’ultima edizione del settimanale fondato da Togliatti. Ma veniamo al punto centrale: gli intellettuali. Asor ne descrive la genesi tra illuminismo e rivoluzione industriale. Figure chiave della riproduzione capitalistica dentro la moderna società civile, sono sempre stati in qualche modo enciclopedici, conflittuali, oppure organici. E sempre «espressivi» di un salto: dai saperi specialistici, all’intelletto generale. Sociologicamente per Asor quella funzione si è estinta, a beneficio di ruoli tecnici, mediatici o manageriali. E nel quadro di una mutazione «post-fordista» che ha massificato ceti e classi, rendendo inutili mediazioni e conflitti, dei quali i chierici sono stati vessiliferi attraverso le tempeste ideologiche del 900.
Sullo sfondo per Asor c’è ormai la «civiltà montante», il «Mostro mite» di cui parla Raffaele Simone, affine alla «dittatura della maggioranza» di cui scriveva Tocqueville: società dell’immagine, individualismo di massa, omologazione, populismo light, Grande Fratello etc. Matrici di un gigantesco degrado, sia del progresso civile e democratico, sia dell’intelligenza critica.
Apocalissi? Sì e no, per Asor. Che benché esegeta in passato dell’Apocalissi giovannea rifiuta geremiadi passatiste, e anzi cerca i punti di attacco per una ripartenza di politica e cultura (vissuti alla Bobbio in concordia/discorde) e per un rilancio del meglio della tradizione democratica occidentale.
Ma ha ragione Asor? Ha molte ragioni e magari qualche torto (ma più nel senso di omissioni). È giusta intanto la percezione generale dell’evo post-fordista, con il corollario giustissimo della barbarie italiana berlusconiana, fatta di disgregazione di memoria, prepotenza carismatica e minacce alla divisione dei poteri. Giustissima altresì è la critica agli intellettuali italiani, inermi o al di sopra delle parti spesso, dopo essere stati a sinistra magari corrivi e ortodossi.
E soprattutto ha ragione su una cosa: il difetto della svolta Pci-Pds. Che per Asor ha gettato alla fine il bambino e l’acqua sporca, senza un bilancio serio di ciò che fu il Pci nella storia d’Italia: una grande cosa progressiva, sia pur con limiti e ritardi. Realtà liquidata senza «pars construens», fino a privare le classi subalterne di organizzazione, identità e prospettive. E con la conseguenza di aver spianato il campo al blocco sociale e al senso comune della destra.
SALVARE LA SINISTRA
E però in conclusione l’analisi di Asor pecca forse almeno su due punti. E cioè, non è vero che l’omologazione sia poi così forte, al punto da rendere quasi disperata la ricerca di punti di attacco e resistenza. Infatti il lavoro dipendente è cresciuto, in parallello al grande esercito di riserva dei flessibili, immigrati e no. Il contrattacco oltre che dalla scuola di massa può riprendere dalla riscoperta del lavoro moderno, avanzato, infelice e dominato. Ribelle potenzialmente alle ricette liberiste, che vogliono farne una cosa marginale e areiforme, non più garantito e «umano-relazionale». Infine il Pci-Pds. Fu fatta male la svolta del 1989. Ma andava fatta visto il crollo del comunismo e non rifiutata come fece il fronte del «no», che meglio avrebbe fatto a tentare di indirizzarla in altro modo, invece di respingerla. In verità dopo lo sconcerto e il rifiuto Asor Rosa cercò con onestà una strada costruttiva e positiva, che salvasse il nocciolo razionale della sinistra e del comunismo italiano. Ma fu sconfitto, e tutti noi oggi dobbiamo ancora ricominciare di lì.●
Il coraggio della stampa
di EUGENIO SCALFARI *
Ho letto con doverosa attenzione la duplice risposta che Ferruccio de Bortoli ha dato al mio articolo di domenica scorsa per la parte che lo riguardava. Purtroppo è la risposta tipica di chi, non volendo confrontarsi con il tema in discussione, lo sposta su un altro obiettivo. Nel caso specifico sull’oggettività dei giornali o la loro faziosità. Aggiungo che ieri il Tg1 è anch’esso intervenuto a suo modo e a supporto di un resoconto di genere minzoliniano ha intervistato Belpietro e Antonio Polito i quali non hanno trovato di meglio che dichiarare la loro non appartenenza al mio partito e la loro solidarietà con il direttore del Corriere della Sera.
Questi due colleghi fanno da tempo parte organica del club di Bruno Vespa ed è evidente che prendano da me tutte le distanze possibili. Quanto a quello che viene definito "il mio partito", la locuzione significa "le mie idee" che chiunque è liberissimo di non condividere. Ma se questa non condivisione diventa un fatto politico, bisogna domandarsene il perché e con ciò torniamo a de Bortoli.
Il tema della discussione da me aperta è quello di esaminare se la stampa italiana si stia rendendo conto della deriva in avanzato corso verso un regime autoritario, nella direzione voluta dal capo del governo. Una deriva che implica una concentrazione di potere nelle mani del presidente del Consiglio e un contemporaneo indebolimento o addirittura cancellazione degli organi di controllo e di garanzia ancora esistenti: magistratura inquirente e giudicante, autorità che sovrintendono a importanti settori a cominciare da quella "Antitrust", poteri di controllo del Parlamento, Corte costituzionale, presidente della Repubblica, stampa e emittenti radio-televisive.
A nostro avviso una notevole parte della stampa e delle emittenti radio-televisive non sta informando i cittadini della gravità di quanto accade sotto i nostri occhi, smorza volutamente il significato dei fatti e dei comportamenti adottando il metodo così bene illustrato nei "Promessi sposi" laddove il Manzoni racconta il colloquio tra il Conte-zio e il padre generale dei Cappuccini al quale si chiedeva di trasferire in altra sede il combattivo fra Cristoforo che difendeva i poveri Renzo e Lucia dalle soperchierie di don Rodrigo. "Sopire, troncare, padre reverendo; troncare, sopire". Così diceva il Conte-zio e così fu costretto a fare il generale dei Cappuccini. La conseguenza fu l’intimazione a don Abbondio di non eseguire quel matrimonio, il rapimento di Lucia, la fuga di Renzo. Non ci fosse stato il pentimento dell’Innominato e poi la peste, quel matrimonio non si sarebbe mai fatto. Spesso la grande letteratura serve a capire i fatti quotidiani molto di più dell’acume di chi scrive sui giornali dove i don Abbondio abbondano. Sicché bastò un editto del premier a far buttare fuori dalla tivù Biagi e Santoro ed un altro più recente a far dimettere Giulio Anselmi dalla Stampa e Paolo Mieli dal Corriere della Sera.
Io mi guardo bene dall’augurarmi che de Bortoli condivida le nostre idee e capisco anche che - come scriveva il Manzoni - "il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare". Ma da qui a sottacere il significato della deriva italiana, morale, politica, economica, sbandierando come titoli di merito verso il governo gli articoli scritti in suo favore, quelli scritti a suo tempo contro il governo Prodi, infine la definizione di Repubblica come un gruppo editoriale nemico del premier e degli interessi del Paese, ebbene questo è un modo volutamente rassegnato di praticare una professione che ha come primo principio deontologico quello di controllare il potere ad ogni passo e in ogni istante.
I giornali non sono partiti ma sentinelle a guardia del pubblico interesse, che dovrebbero rimandarsi l’un l’altro la parola d’ordine e la risposta: "All’erta sentinella", "All’erta all’erta sto". Ebbene, era questa la risposta che speravo d’avere dal direttore del Corriere della Sera. Non l’ho avuta e me ne dispiaccio assai, non per me ma per lui.
De Bortoli sostiene che Repubblica non l’ha mai difeso quand’era sotto attacco da parte del potere politico. Hai una memoria debole, caro Ferruccio. E perciò cercherò di aiutarti a ricordare citando un mio articolo dell’8 giugno del 2003, poche settimane dopo le tue dimissioni dal Corriere della Sera.
"Misteriose dimissioni, è il meno che si possa dire, perché il protagonista della vicenda le ha blindate con la motivazione delle "ragioni private", con la stanchezza d’una funzione esercitata per oltre sei anni e resa più difficile dalle frequenti pressioni del potere politico, del resto effettuate alla luce del sole. Ma resta un problema: come mai un governo di centrodestra che si dichiara in ogni occasione corifeo dei valori liberal-democratici, mette sotto accusa e attacca come traditore di quei valori un giornale che ha fatto del "terzismo", dell’equidistanza tra le parti politiche in conflitto, della tecnica pesata col bilancino d’un colpo al cerchio e uno alla botte, la sua divisa e la sua funzione?".
Quella mia domanda di allora è rimasta senza risposta ma è ancor più attuale oggi. De Bortoli dirige per la seconda volta il Corriere della Sera dopo l’esperienza conclusa nel 2003. Quell’esperienza è evidentemente ben viva nella sua memoria; adesso conosce meglio i limiti entro i quali può muoversi e li rispetta con maggiore attenzione. Perciò si preoccupa e si addolora se il premier, non contento della sua prudenza, lo avverte che dev’esser più attento e più docile.
Del resto, sempre in tema di direzione del Corriere della Sera, il nostro vicedirettore Massimo Giannini scrisse il 3 dicembre del 2008 un articolo di fondo intitolato "L’editto albanese", quando durante una visita di Stato a Tirana, Berlusconi disse che Giulio Anselmi e Paolo Mieli "dovevano cambiare mestiere". Scrisse Giannini: "Dietro quelle parole del Cavaliere c’è una visione totalitaria della democrazia che tra un editto e l’altro sta ormai precipitando in un’autocrazia".
La cosa singolare è che tutta la stampa internazionale, quella progressista e anche quella conservatrice, considera il nostro premier come un personaggio che ha ormai sorpassato ogni limite accettabile. Dopo i suoi attacchi alla Corte costituzionale e al capo dello Stato lo descrive come un pericolo per tutti, portatore di un virus infettivo il cui solo contatto è rischioso. Leggete il Newsweek di questa settimana che è l’esempio più recente di questa preoccupazione.
Io vorrei, noi vorremmo, che la stampa italiana non fosse meno lucida e meno coraggiosa di quella internazionale. Mi sembra purtroppo un vano desiderio.