Io e gli altri
Il «senso d’essere» nascosto in un piccolo grande «con»
di Jean-Luc Nancy (Corriere della Sera, 12.09.2009)
Se pronuncio le parole «comunità », «comunismo», «comunione», «compassione», «commemorazione», per limitarmi a questo breve elenco, pronuncio tutte parole importanti, piene di valori e di connotazioni, cariche di storia e di pensiero. Nessuno presta attenzione al prefisso che queste parole hanno in comune, a quel com che per l’appunto è talmente comune che non c’è motivo di soffermarvisi...
Eppure, non dovrebbe richiamare subito la nostra attenzione il fatto che «comune» può caricarsi di due significati così differenti, indicando sia un raggruppamento sia qualcosa di ordinario, sia una riunione di persone sia qualcosa di banale? Non mi soffermerò oggi sull’intrigante connubio di questi due aspetti del «comune». Per farlo, infatti, è necessario anzitutto avere prestato la giusta attenzione al «com» stesso. Su questo cum che il latino ci ha lasciato in eredità, dopo il syn greco che pure ritroviamo all’inizio di parole importanti come «sintesi», «simpatia», «simbolo».
«Con» è una categoria molto povera nella storia del nostro pensiero. In realtà, solo un filosofo - se non mi sbaglio - ne ha tratteggiato la valenza specifica: si tratta di Heidegger quando ha parlato del Mitsein (con-essere) e del Mitdasein (con-esserci). Heidegger, nel paragrafo 26 di «Essere e tempo», inaugura una prospettiva fino a quel momento inedita: egli non solo afferma che l’esistente è necessariamente, ontologicamente un co-esistente («mit» vuol dire «con», «cum»). Per dare a questa tesi tutto il suo rilievo, afferma anche che il «con» costitutivo dell’esistente deve essere inteso «non in modo categoriale, bensì esistenziale». Ciò significa che occorre trattarlo non come una semplice determinazione estrinseca, ma come una condizione intrinseca della possibilità stessa dell’ek-sistenza, ossia niente meno che come la messa in gioco del senso stesso dell’essere o del senso d’essere.
In quanto semplice categoria, «con» è collegato a «anche» e si trova per noi relegato per lo più nell’ambito dell’esteriorità e dell’accidentalità: io sono con voi in questa sala, per effetto di svariate circostanze, come delle automobili sono le une insieme alle altre in un parcheggio. Si può parlare a questo riguardo di giustapposizione, di prossimità spaziale, tutt’al più di correlazione.
Le cose vanno diversamente quando, in francese, diciamo che «X è con Y», perché intendiamo dire che essi formano una coppia, che condividono la loro vita. E tuttavia, siamo pronti a dichiarare che la nostra presenza insieme in questa sala non si risolve in una semplice giustapposizione. Non siamo - ci verrebbe da dire - una folla al binario di una stazione. Abbiamo delle ragioni comuni per trovarci qui riuniti. Ora, anche una folla ha delle ragioni per fare folla; se poi - quando si forma - subisce degli eventi particolari (uno sciopero dei treni), avvengono dei comportamenti, nascono dei rapporti, anche fugaci, che eccedono la semplice giustapposizione inanimata. E possiamo dire di più, anzi dobbiamo: siamo al mondo con le montagne, gli alberi, i pesci, i lupi, così pure con le macchine, le costruzioni, le istituzioni che abbiamo creato. Questo «con» più generale, la co-presenza di tutti gli enti, deve essere intesa come semplicemente «categoriale»? Ma allora che cosa vuol dire il «mondo», se questa parola deve designare una possibilità di senso (questa, all’incirca, la definizione che ne dà Heidegger)? È proprio vero dunque che bisogna pensare il «con» come «esistenziale » e non come «categoriale».
Il problema è che Heidegger non ha del tutto sviluppato questa necessità. O, meglio, lo ha fatto facendo passare per forma «autentica» o «propria » del «mit» quella della comunità di un popolo (molto più avanti nella stessa opera). E il suo smarrimento politico ha tratto origine da lì.
La posta in gioco è allora notevole: pensare il «con» ad altezza «esistenziale » significa allo stesso tempo pensare due cose: la possibilità del senso - ovvero di ciò che in effetti Heidegger chiama il «senso dell’essere», ma che sarebbe meglio dire, se lo si comprende a fondo, «senso d’essere» (il senso che c’è ancora da essere, da essere al mondo e da essere un mondo) - e la necessità di una politica non dominatrice (una «democrazia», se si vuole, ma questo termine richiederebbe altre considerazioni).
* Traduzione dal francese di Gianluca Valle © Consorzio per il festivalfilosofia
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Gott mit uns (Wikipedia)
HEIDEGGER, IL FILOSOFO DEL "CATTOLICESIMO" NAZISTA, CERCA L’USCITA DALLA CAVERNA HITLERIANA.
JEAN-LUC NANCY (Wikipedia)
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA"!
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE
Nancy
Il corpo della democrazia
Un saggio del filosofo francese Jean-Luc Nancy per le edizioni Cronopio. La crisi dei sistemi politici liberali basati sul principio di maggioranza e sulla possibilità o meno di una sua riforma
di Ida Dominijanni (il manifesto, 06.08.2009)
Dopo la risposta di Alain Badiou - Sarkozy, 2008 - all’ingiunzione di Nikolas Sarkozy a «farla finita con il ’68», reo di avere originato la cultura del rilassamento e del relativismo morale di cui tuttora un Occidente malato risentirebbe, l’editore Cronopio pubblica quella di Jean-Luc Nancy, Verità della democrazia, sessanta pagine fulminanti (9 Euro) vincitrici del Prix du pamphlet 2008, che prendono le mosse da quell’ingiunzione non tanto per contestarla direttamente - «l’accusa è talmente scandalosa nel suo cinismo e talmente ingenua nella sua malcelata astuzia che è inutile perdere tempo a confutarla» - quanto per aprire un ripensamento a tutto campo dello spirito del ’68, del suo rapporto con la democrazia, del rapporto fra quest’ultima e il comunismo (ovvero, à la Nancy, il comune). E infine della democrazia tout court, per ciò che non è e per come andrebbe reinventata.
«Spirito», e non eredità del ’68: infatti «non c’è nessuna eredità, perché non c’è stato alcun decesso», mentre «lo spirito non ha mai smesso di soffiare». Definire uno spirito, o un soffio, non è facile, ma consente in compenso di tornare all’ ispirazione originaria del ’68, scartando le definizioni successive che come tutte le definizioni chiudono ciò che dovrebbe invece restare aperto.
La retorica del male minore
Nancy infatti le scarta una per una: il ’68 - che l’autore chiama sempre e solo «68», assegnando alla data la qualità di un nome proprio e singolare - non è stato una rivoluzione, né una contestazione, né una ribellione, una rivolta o un’insurrezione, «benché sia possibile rintracciare in esso i tratti di tutte queste posture, postulazioni, ambizioni e attese».
È stato piuttosto un movimento del pensiero, o meglio il movimento di un pensiero in atto, che partiva da una delusione, «poco visibile ma insistente», nei confronti della democrazia e delle sue promesse mancate. Vent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, la «ricostruzione» non riusciva a ripristinare quel progresso democratico che si pensava fosse stato solo parenteticamente e follemente interrotto dai totalitarismi, e che invece, come già avevano visto Hannah Arendt e Walter Benjamin e prima di loro Tocqueville, ne avevano tragicamente creato le condizioni.
Nella gabbia della guerra fredda, si cercavano terze vie e fuoriuscite postcoloniali dai fallimenti dell’Est e dell’Ovest, ma senza avere chiara la percezione di «una inadeguatezza della democrazia (rappresentativa, formale, borghese) nei confronti della sua stessa Idea», né di come questa inadeguatezza potesse portare a un esito diverso da quello reazionario degli anni Venti e Trenta.
Incerto, il pensiero tuttavia «si distoglieva dalla democrazia, giungendo nel migliore dei casi a considerarla il male minore». E si apriva alla più radicale esigenza nietzscheana di una «trasvalutazione dei valori». Alla cui base Nancy, come già altri interpreti fini del 68, mette il cambiamento della percezione e della concezione del tempo: l’uscita dall’età della Storia progressiva e inverante, la fine delle «concezioni» del mondo e dello stesso paradigma della concezione e della previsione, e l’apertura di un altro regime di pensiero: «non più produrre forme che avevano il compito di modellare un dato storico già preformato da un’idea generale di progresso, ma esporre gli obiettivi stessi - l’uomo o l’umanesimo, la comunità o il comunismo, il senso o la realizzazione - a un superamento di principio: a ciò che una previsione non è in grado di esaurire perché questo superamento mette in gioco un infinito in atto».
Non dunque crisi, ma apertura del soggetto. Non la prefigurazione di un nuovo mondo, ma una prassi del qui e ora. Non un tempo della successione e della concatenazione, ma della secessione e della disgiunzione. Non il messianesimo rivoluzionario dell’avvento del Salvatore o del Giustiziere, ma un messianesimo dell’evento che irrompe nel presente e lo apre alla «potenza d’essere» del desiderio senza identificazioni in alcun Messia.
È da questa nuova curvatura del pensiero, a sua volta mossa da fatti storici potenti, che nasce il 68 e la sua esigenza, a tutt’oggi da capire, di radicale reinvenzione della democrazia. Tanto radicale in verità, nella versione di Nancy, da suscitare un legittimo interrogativo sul perché in lui, come in altri filosofi contemporanei francesi a cominciare da Jacques Rancière, il nome «democrazia» resista al di là e contro ogni sua declinazione storica reale, finendo così col riprodurre quella distanza fra l’Idea e la cosa dalla cui critica il discorso prende le mosse.
L’aristocrazia egualitaria
Democrazia, per Nancy, è il principio comunista - dell’incalcolabile contro il calcolo del capitale, la non equivalenza contro l’equivalenza generale del danaro e della forma-merce, l’uguaglianza dell’incommensurabile contro la serialità dell’individualismo liberale, l’ordine del non scambiabile contro il regime mercantile dello scambio. È «aristocrazia egualitaria», esistenza singolare e comune sottratta allo Stato, kratein del popolo che mette in scacco il kratos costituito, esistenza condivisa e non biopolitica della vita astratta. È l’«apertura del soggetto» inaugurata dal 68 contro il soggetto sovrano, padrone delle proprie rappresentazioni e delle proprie decisioni, che sta alla base delle democrazie fin qui sperimentate, rappresentative o dirette o sondaggistiche che siano.
Non è, diversamente da quello che impariamo dalla filosofia antica, una forma politica tra le altre, e non è nemmeno in primo luogo una forma politica. In primo luogo, è «il nome di un regime di senso, la cui verità non può essere sussulta in nessuna istanza ordinatrice, né religiosa, né politica, né scientifica o estetica, ma che impegna interamente l’uomo in quanto rischio e chance di se stesso, danzatore sull’abisso»; in secondo luogo, è la ricerca di una politica distinta e limitata nel suo ambito - qui Nancy si distanzia apertamente dal «tutto è politica, o tutto può diventarlo», di marca sessantottina - che funzioni soltanto come garanzia di apertura al molteplice, all’incalcolabile, al non rappresentabile.
Democrazia è, in sostanza, una nuova ontologia politica, che scardina alle fondamenta l’edificio delle democrazie reali così come le conosciamo, l’individuo sovrano atomistico e seriale che ne è la base, i valori ormai pronti a ritorcersi contro se stessi che ne sono l’ideologia, le procedure che ne ordinano e ne irrigidiscono i poteri. Si può essere entusiasticamente d’accordo, ovviamente: ma siamo sicuri che convenga ancora chiamarla «democrazia», che questo nome sia infinitamente elastico, o la battaglia per la sua risignificazione infinitamente possibile?
SCHEDA
L’AUTORE, LE OPERE. TRA SOGGETTO, COMUNITÀ E ARTE
Nato a Bordeaux nel 1940, Jean-Luc Nancy è professore emerito presso l Università "Marc Bloch" di Strasburgo. Autore di una quarantina di volumi, filosofo poliedrico, gli interessi di Nancy spaziano dall estetica («Le Muse», Diabasis, 2006) alla fenomenologia, dalla politica («Il mito nazi», scritto con Philippe Lacoue-Labarthe, Il Melangolo, 1992) fino all autobiografia («L intruso», Cronopio, 2006 ). Particolare interesse rivestono le ricerche nei campi del «soggetto», del «corpo», della «comunità» e del «mondo». Ambiti e temi affrontati nei suoi lavori più noti, dallo studio sulla «Comunità inoperosa» (Cronopio, 1995) alla «Creazione del mondo» (Einaudi, 2003) e «Ergo sum» (Bompiani, 2006). I suoi ultimi libri tradotti, tutti editi nel 2009, sono: «Indizi sul corpo» (Ananke), «Sull amore» (Bollati-Boringhieri), «M ama non m ama» (Utet).
Idee.
Nancy: perché è così difficile essere-in-comune
La libertà supera la soggettività perché essa è proprio ciò che viene al soggetto, da più lontano di se stessi e che prevale altrove, al di là di se stessi
di Jean-Luc Nancy (Avvenire, giovedì 20 maggio 2021)
Perché l’essere-in-comune non è riconosciuto come essenza della società? Perché questo «in comune» non è fatto di un semplice accordo, ma al contrario implica il disaccordo. Secondo Kant, la nostra socialità procede da una «insocievole socievolezza». Il comune è un concetto che si presta a un’ambiguità: o si pensa a ciò che è comune a una pluralità, oppure si pensa all’essere insieme di una pluralità. Nella prima accezione, il comune è un bene condiviso (come i cosiddetti beni comuni di cui si parla molto oggi), nella seconda designa una modalità dell’essere. Questa modalità implica una pluralità, che implica diversità, la quale a sua volta implica la possibilità di divergenze o addirittura opposizioni di interessi, di aspettative, di ricettività.
L’essere-in-comune è una condizione complessa e difficile. In un certo senso implica la comunicazione come dimensione essenziale (ecco perché il linguaggio ne è inseparabile; si potrebbe anche dire che sia il linguaggio ad aprire l’in-comune; ma ci sono fin dall’inizio pluralità di lingue e diversità di significato) - e in altro modo implica la mutua estraneità degli individui e un’incomunicabilità essenziale (ad esempio, la traduzione tra lingue ne rivela la complessità). Ciò che si chiama «società» designa la necessità di fabbricare un modo di funzionamento che risponda all’«insocievole socievolezza». La società cerca di rispondere alla propria deiscenza interna. Tutte le società hanno tentato di farlo generando un’istanza di identificazione (dio, re, popolo, patria, clan, ecc.). Solo la società democratica moderna si è assunta il compito di identificarsi con la propria complessità. È un po’ come voler creare una lingua che contenga la diversità delle lingue (ma non esiste un meta-linguaggio).
Ecco perché è una sfida che non cessa di porre problemi e che dopo aver tentato di compiersi come «comunismo» (che sarebbe stata una sorta di meta-socialità) si converte al contrario in una crescente disparità di condizioni e nell’esplosione di egoismi e di ripiegamenti identitari. In un certo senso, forse gli uomini non sono mai stati così poco liberi come oggi: sono assoggettati alle loro estraneità, ai loro sfruttamenti ed esclusioni e alla limitata ristrettezza degli interessi. Invece, pensare alla società come un’associazione di uomini liberi significherebbe pensarla come lo spazio in cui ciascuno e tutti potrebbero accogliere - e condividere con gli altri - uno slancio che porti via le esistenze al di là di loro stesse, staccandole dalle loro necessità per condurle in uno spazio dove possano riconoscersi in una storia o in un destino, in una “destinerrance” come dice Derrida che le eccede tutte e così conferisce loro un senso.
Ma questo implica qualcosa di più dell’organizzazione socio-politica. Ciò implica un’eccedenza rispetto a ogni organizzazione, una an-archia testimoniata dalla non socialità o dalla asocialità dell’amore, dell’arte, ma forse anche, inevitabilmente, del crimine o della dissoluzione del legame sociale. La libertà supera la soggettività perché essa, d’altronde, è proprio ciò che viene al soggetto (sempre che si voglia utilizzare questo concetto), da più lontano di se stessi e che prevale altrove, al di là di se stessi. Essa è ciò che mi permette di non essere né causa né conseguenza in una relazione, ma semplicemente quell’inizio puntuale che nei termini di Kant inaugura una nuova serie di fenomeni ma che non vale per questa serie: che vale come inizio, origine immemorabile e insituabile.
Tale è la libertà di un gesto gratuito, di una linea gettata su un foglio o di un insieme di note suonate sulla tastiera, di una dichiarazione d’amore o di amicizia - dichiarazione non necessariamente verbale ma in atto - o di ogni sorta di decisioni di esistenza attraverso le quali incontri, scontri, situazioni mi portano dove non avrei mai pensato di andare, poiché in realtà non esisteva prima dell’incontro. Quello di cui sono il subjectum perché mi sta succedendo, ma non il soggetto che l’avrebbe fatto accadere. Essenzialmente la libertà ci libera dal soggetto, dall’assoggettamento al se-stesso e dai suoi limiti per esporci al sé-altro: non un altro sé ma l’alterità in me, tu in me o il cosmo in me o l’animale o il colore, il ritmo, l’aria che attraversa il flauto, l’impensabile e tutte le figure della libertà.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
FLS
Un brano del saggio del filosofo dal nuovo numero di "Lettera internazionale"
Dal comunismo alla community
Dal troppo poco all’appena sufficiente: non si sa più quale sia l’unità di misura se non la media che passa tra la miseria e l’opulenza
Anticipiamo parte del testo di Nancy dal nuovo numero di "Lettera internazionale"
di Jean-luc Nancy (la Repubblica, 17.02.201) *
Niente è più comune del comune. Questa affermazione lapalissiana provoca in effetti una vertigine: il comune è talmente comune che non lo si vede, non se ne parla. Lo si teme un po’, sia perché è comune-volgare, sia perché è comune-comunitario. Rischia di abbassare o di soffocare. O entrambe le cose insieme.
Tuttavia, beninteso, il comune è comune; è il nostro destino comune essere in comune. Ma tutto avviene come se le culture - le politiche, le morali, le antropologie - oscillassero continuamente tra il comune dominante, inglobante - il clan, la tribù, la comunità, la famiglia, la stirpe, il gruppo, l’ordine, la classe, il villaggio, l’associazione - e il comune banale, il profanum vulgus (non sacro...) o il vulgum pecus (il gregge...), il popolo, la gente, la folla, tutti (l’inenarrabile uomo qualunque). O è il tutto che ingloba la parte, o è l’umiltà della condizione ordinaria.
Nell’idea di comunismo, una gran parte dell’Europa ha visto la somma di queste due possibili letture: la collettività obbligante e al contempo la mediocrità livellante. Di fatto, il comunismo detto "reale" ha combinato il livellamento delle condizioni con il controllo di un’autorità che si presumeva collettiva. Una forma di uguaglianza - forma ristretta, grigia, e ciononostante effettiva - combinata con un dirigismo brutale: i due fattori permettevano che a questa condizione sfuggissero i dirigenti e un apparato militare e tecnico.
Ne risultava una società duale di cui si potrebbe dire che la ragione d’essere - al di là dell’accaparramento del potere e della ricchezza che in un modo o nell’altro appartengono a ogni società - era di sovrapporre un’ipertrofia dello Stato a una condizione umana decisamente limitata al suo mantenimento meccanico: quasi alla sola riproduzione della specie, ridotta quest’ultima, per un certo periodo, unicamente alla popolazione dell’impero socialista sovietico.
Questo comunismo "reale" che ha tanto derealizzato le relazioni tra le persone e con il mondo (senza impedire la presenza, sorda ma intensa, del rifiuto, della protesta, dell’uomo in rivolta), non a caso ha riunito questi due grandi caratteri del comune: il Tutto e il Basso. Ha riunito ciò che restava del comune perduto. Ci sono state comuni di ogni genere. Qui è necessario fare riferimento a Marx, naturalmente, e alla sua analisi delle forme comuni anteriori al mondo moderno, ma non soltanto a Marx: le modalità dell’esistenza comune sono ciò che caratterizza, senza dubbio in maniera molto diversa, tutte le civiltà che precedono quella in cui il sociale ha sostituito il comune. (...)
Nel frattempo la democratizzazione e la socializzazione delle società industriali nelle quali - con grande disappunto di Marx - la rivoluzione comunista non aveva avuto luogo, ha portato a uno sviluppo di quelle che ancora di recente sono state chiamate le classi medie le quali sono tendenzialmente diventate l’elemento omogeneo di una società in cui la maggioranza è tutta intenta a non prendere troppo in considerazione né la miseria che scava in sé né la confisca della ricchezza che vi corrisponde. Troppo poco, abbastanza, troppo - denaro, sapere, potere, diritto, salute - abbastanza, appena sufficiente, sufficiente... non si sa neppure quale sia l’unità di misura, se non quella media che passa tra la miseria e l’opulenza. Il comune come totalità mediocre. Il valore più comunemente ammesso del comune.
Ma dell’essere insieme, nessuna notizia. Se non questa: abbiamo imparato che l’idea comunista ha tentato di erigere la verità dell’essere insieme contro tutte le forme di dominio, di individualizzazione, di socializzazione. Essa ha portato, in un mondo in cui si percepiva oscuramente la perdita di ogni comune, l’"insieme" o il "con" come condizione allo stesso tempo ontologica e pratica, ancora inaudita. (...)
L’idea comunista - che possa o debba conservare ancora questo nome - designa il meno comune del comune, la sua eccezione, la sua sorpresa. Nessuna totalità, nessuna mediocrità, ma ciò che fa sì, per esempio, che io possa scrivervi qui, a tutti e a tutte, o a ognuno e a ognuna, e senza sapere neanche in che modo condividiamo questa idea. Noi.
* Traduzione di Monica Fiorini © 2010 by & Actuel Marx Per la traduzione italiana © Lettera Internazionale
Oltre la zona grigia del terrore e dei gulag.
Una storia da rifare
di Luigi Cavallaro (il manifesto, 27.12.2009)
La storiografia sullo stalinismo ha sempre sottolineato la repressione che lo ha contraddistinto, rimuovendo il fatto che è stato un sistema di potere cresciuto sulle contraddizioni della Rivoluzione d’Ottobre, incontrando così il consenso di una parte considerevole della popolazione sovietica.
Il 21 dicembre 1929, grandi celebrazioni pubbliche salutarono il cinquantesimo compleanno di Stalin. L’egemonia conquistata negli anni precedenti nel gruppo dirigente bolscevico fu esaltata da articoli celebrativi su tutti i giornali di partito, uno dei quali intitolato significativamente Za rukovodstvo («Per la leadership»). Si ricordarono i suoi saldi legami con Lenin e si sottolineò il contributo decisivo apportato alla dottrina marxista con i Principi del leninismo, che egli aveva redatto nel 1924 e dedicato alla giovane «leva leninista», allora in procinto di entrare in massa nelle file del partito.
Stalin ringraziò, ma ribadì di essere solo un discepolo di Lenin, figlio di un partito che intendeva continuare a servire nel segno della «grande svolta» annunciata poco prima, per il dodicesimo anniversario dell’Ottobre.
Quell’anno, in effetti, era stato decisivo nell’offensiva lanciata fin dal 1927 allo scopo di liquidare progressivamente i compromessi realizzati durante la Nep con i contadini, gli «specialisti», i sindacati, le nazionalità e il partito stesso, in modo da poter finalmente impiegare l’apparato statale per conformare la produzione e riproduzione sociale ai desiderata del piano.
Furono celebrazioni che restarono abbastanza nel solco della tradizionale sobrietà comunista: di Stalin si esaltò il suo essere un uomo semplice, rude, fraterno. Ma segnarono l’avvio di un processo di canonizzazione che avrebbe toccato vette stupefacenti nei due decenni successivi, in cui Stalin - oltre ad essere rappresentato in innumerevoli gigantografie, statue e ritratti che adornavano le piazze, gli uffici e le case dei sovietici - fu progressivamente gratificato di appellativi come «padre dei popoli», «corifeo della scienza», «bolscevico di granito», «macchinista della locomotiva della storia». Ovvero, e più semplicemente, «l’uomo che amiamo di più».
L’amore per il capo.
Già, perché sarebbe fuorviante sottovalutare o peggio misconoscere che Stalin fu amato: talmente amato che l’annuncio della sua morte, il 6 marzo 1953, suscitò in tutta l’Urss lutto, sgomento e lacrime. Ancor più fuorviante sarebbe supporre che questo straordinario «amore» si dovesse all’efficienza della propaganda e al terrore degli apparati polizieschi: al contrario, bisogna riconoscere che, se lo stato sovietico riuscì a radicarsi nella società sovietica e a coinvolgere nelle sue strutture milioni di cittadini, rendendoli testimoni silenziosi o collaboratori attivi del suo sistema, non fu per colpa o merito della polizia politica, ma - come ha scritto lo storico Michail Jakovlevic Gefter - per via dello «stalinismo insinuatosi dentro ognuno di noi».
Prendendo a prestito la terminologia di Lacan, si potrebbe dire che in Stalin si personificò - e per motivi che sono ancora tutti da scrivere - il meccanismo dell’ordine simbolico espresso dal «grande Altro» in quel tempo in cui la costituzione non scritta della società sovietica virava in direzione della pianificazione. E in effetti, ricordando il giudizio iniziale di quanti fra i suoi compagni non riuscirono a trovare in Stalin alcun tratto distintivo degno di nota, Edward H. Carr notò che si trattava di un fatto assolutamente comprensibile: «pochi grandi uomini sono stati così visibilmente come Stalin il prodotto del tempo e del luogo in cui vissero», un tempo in cui - come avrebbe poi ricordato lo scrittore (e stalinista) Konstantin Simonov - «obbedienza e coscienziosità, disponibilità a superare qualsiasi difficoltà, l’obbligo a dire sì o no, ad amare in modo intenso e a odiare nello stesso modo» erano i valori all’insegna dei quali si formavano le nuove generazioni.
In nome del partito
Si capisce allora come Charles Bettelheim, in quell’incompiuto monumento alle contraddizioni dell’Ottobre che furono (e tuttora sono) Le lotte di classe in Urss, abbia potuto scrivere che Stalin si limitò ad esprimere in modo sistematico i punti di vista di tutto il gruppo dirigente del partito bolscevico, inclusi i suoi oppositori, e perfino quando gli occorse (letteralmente) di passar sopra le loro teste non fece altro che trarre le conseguenze ultime di quei punti di vista: caso mai, è proprio questa «volontà di andare fino in fondo» che apparentemente pose Stalin «al di sopra» del partito e fece apparire come «sue» concezioni che (salvo rare eccezioni) non erano affatto sue personali.
Del resto, bisognerà pur intendersi su cosa sia una «tirannide». Una volta, Alexandre Kojève irrise quanti supponevano trattarsi di un potere personale basato sul terrore: il terrore puro presuppone in ultima analisi la sola forza fisica, e con la sola forza fisica «un uomo può dominare dei fanciulli, dei vecchi e qualche donna, ma non può imporsi a lungo su un gruppo, sia pure poco numeroso, di uomini robusti». Proprio per ciò, l’autorità di un capo di stato doveva a suo avviso poggiare su qualcos’altro che sulla sola forza: doveva pur esserci di mezzo un «riconoscimento» di quell’autorità che proveniva da una parte significativa della popolazione.
Kojève coerentemente suggeriva di riservare il termine «tirannide» a quei casi in cui il pubblico potere è utilizzato da una parte della popolazione (non importa se maggioritaria o minoritaria) per imporre alla restante parte le proprie idee e la propria forma di vita: «è chiaro che possono farlo solo con la "forza" o il "terrore", giocando in ultima analisi sulla paura della morte violenta che possono infliggere agli altri».
In questo senso non può essere dubbio che il sistema di potere usualmente denominato «stalinismo» sia stato una forma di tirannide; bisognerebbe però aggiungere che ogni rivoluzione dà luogo ad una «tirannide», come in genere ogni forma di potere che si proponga di conseguire i suoi obiettivi senza concedere alcuna forma di compromesso ai suoi oppositori. Tutto sommato, Stalin non avrebbe avuto bisogno di scatenare la «lotta di classe» contro i kulak se costoro avessero «spontaneamente» acconsentito a entrare in massa nei kolchoz.
Non è questo però che qui preme evidenziare. Si deve piuttosto rimarcare che il limite degli oppositori di Stalin consistette proprio nel rifiuto delle necessarie implicazioni di un discorso che pure, nelle sue premesse, condividevano. La supremazia della pianificazione sulle varie forme di autorganizzazione economica, la necessità di sciogliere l’ambiguità nascosta dal consenso contadino alla rivoluzione socialista e la disponibilità a farlo anche con l’uso della forza erano, alla morte di Lenin, convincimenti comuni a tutto il gruppo dirigente bolscevico, benché se ne traessero conseguenze divergenti quanto al «che fare».
E se nel corso della famosa discussione sulla «rivoluzione permanente» e il «socialismo in un solo paese» (1924-1926) Stalin riuscì a sbaragliare tanto la «destra» di Bucharin quanto la «sinistra» di Trockij fu proprio e solo per aver risolto l’equazione lasciata in eredità da Lenin nell’unico modo possibile. Era questa, in effetti, la peculiarità della logica staliniana, come osservò Franz Marek: «semplice, cogente e convincente, una volta che si fosse accettata la premessa».
Tanto drammaticamente semplice e cogente era la conclusione che i suoi oppositori non riuscirono mai a concepire una credibile alternativa e si ridussero semplicemente a odiarlo, accusandolo di «degenerazione» e «tradimento» e finendo così per subire passivamente quella stessa «autorità eccezionale» (giusta ancora l’espressione di Bettelheim) che egli era in grado di conferire alle decisioni cui dava il suo appoggio. La vicenda del «testamento di Lenin», sotto questo profilo, è esemplare: per ben due volte, tra il `24 e il `25, Stalin rimise il mandato di segretario generale del partito nelle mani del Comitato centrale, specie dopo che era stata letta la famosa lettera in cui Lenin, ormai alla fine, lo definiva «rozzo» (grub) e manifestava perplessità sulla sua capacità di gestire in modo non burocratico il considerevole potere conferitogli da quella carica, ed entrambe le volte il Comitato centrale - inclusi Zinovev, Kamenev e, in un caso, Trockij - respinse le sue dimissioni.
«Queste azioni coatte in due tempi, in cui il primo tempo è annullato dal secondo, si verificano tipicamente nella nevrosi ossessiva», aveva spiegato alcuni anni prima Freud nell’Uomo dei topi (1909): e in effetti il comportamento degli oppositori di Stalin sembra riprodurre quello stesso conflitto fra opposti sentimenti che produce la paralisi della volontà dei nevrotici, presi in trappola da un «odio» che non è riuscito a spegnere l’«amore» ma l’ha solo respinto nell’inconscio, dove pure, al riparo dall’azione demolitrice della coscienza, esso può vivere e perfino accrescersi.
Il principio del piacere
Del resto, se appena si considera quanto la strategia della collettivizzazione forzata e della «dekulakizzazione» dovesse alle teoria dell’«accumulazione originaria socialista» del trockista Preobrazenskij o quanto il convincimento circa la possibilità di costruire «il socialismo in un solo paese» fosse debitore delle critiche buchariniane alla versione trockista della «rivoluzione permanente», si può facilmente comprendere come il dubbio fosse la cifra prevalente del loro atteggiamento: dal conflitto tra due sentimenti così radicalmente antitetici non poteva venire che un freno a qualsiasi prospettiva d’azione.
In questo senso Stalin diventò, letteralmente, la loro ossessione. Il «pensiero» di organizzare un’opposizione capace di scalzarlo dal potere finì per tener luogo di un’azione politicamente idonea allo scopo, e ciò - si badi bene - ben prima che si esaurissero i suoi margini di possibilità: per quanto la storiografia sia ancora divisa sul momento in cui il potere del gruppo dirigente staliniano pervenne ad una relativa stabilizzazione, sembra davvero arduo retrodatarlo (come taluni hanno proposto) addirittura al 1925, quando i giochi erano ancora lungi dall’essersi conclusi.
Se ne possono trarre lezioni per l’oggi, in cui il «grande Altro» non prescrive più amore e soggezione per il comando politico ma - come Lacan aveva avvertito fin dai primi anni `70 - ripete oscenamente «Godi!» ad una società essenzialmente anarchica e sempre più ripiegata nella contemplazione narcisistica di se stessa? Ripensando alle forme e ai modi in cui va in scena lo «scontro» fra Silvio Berlusconi e l’opposizione capeggiata dal Partito democratico saremmo tentati di rispondere di sì, ma non possiamo argomentarlo in questa sede.
C’è spazio qui solo per ricordare che poco più di trent’anni fa, in un lucido libretto dedicato all’analisi del «modello di Stalin», Rita di Leo ebbe a chiedersi se «l’elaborazione di una teoria politica sulla base del rigetto del socialismo realizzato da Stalin» fosse davvero «una proposta politica accettabile», o non menasse inevitabilmente «a una serie lunga e inaspettata di rifiuti, che vanno da Lenin a Engels, a Marx e arrivano a Hegel e Rousseau». Non era una domanda peregrina, come i fatti avrebbero poi dimostrato: per comprendere il successo della vittoriosa sortita staliniana dall’impasse in cui si trovò la Nep sul finire degli anni `20 sarebbe stato in effetti necessario «studiare lo stalinismo come un sistema di potere e non come la degenerazione del socialismo di Marx e Lenin», mettendo al centro dell’analisi «il partito bolscevico e lo Stato sovietico e non le purghe e i campi di concentramento».
Sfortunatamente, la storiografia ha fin qui mancato l’appuntamento. Quanto all’analisi politica di ispirazione marxista, o sedicente tale, per molto tempo ha trovato consolante cullarsi in un’accezione ideale (cioè ideologica) del «comunismo», piuttosto che sforzarsi di comprendere che problemi di democrazia potevano sorgere anche in sistemi comunisti, e oggi pare acquietata alla moda corrente di negare che fra democrazia e comunismo possano darsi parentele di sorta. Un altro discorso? No, proprio il discorso del «grande Altro».
La comunità degli individui liberati
A Modena fino a domani il Festival della Filosofia alle prese con il concetto di comunità. Ma in una chiave alternativa rispetto all’uso conservatore del termine. Ne parlano Remo Bodei, Salvatore Natoli, Carlo Sini e Carlo Galli
La tradizione. A destra Il legame comunitario è una piovra contro i singoli
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 19.09.2009)
Inutile nasconderlo. La nozione di «comunità», per storia, significato ed uso, non appartiene alla costellazione delle idee progressiste. Al contrario, fin da quando nel 1877 il sociologo Ferdinand Toennies, preceduto in Germania da una robusta tradizione romantica, la lanciò nell’arena delle idee filosofiche, «comunità» fu subito sinonimo di insieme di legami naturali, che avvolgevano prescrittivamente il singolo. Fino a dar senso all’interezza della sua vita. E il tutto contro l’aridità e l’anarchia meccanica della Civiltà tecnica. Democratica, anonima, atea e senza valori. Perché invasa da troppi valori in lotta tra di loro, come ribadì Max Weber dopo Toennies. Però malgrado tutti questi presupposti, accade che il Festival della filosofia di Modena in onda sulle piazze a Modena, Carpi e Sassuolo da ieri a domani sera abbia scelto a tema dei suoi lavori proprio questa idea. Incurante delle controindicazioni culturali e politiche. E anche del fatto che «comunità», declinata come «Umma», radici e territorio, sia ormai il cavallo di battaglia di fondamentalismi e nuove destre etniciste (inclusa la nostra Lega). Perché dunque «comunità», dopo le scelte più ambivalenti o divaganti degli anni trascorsi, come «felicità» o «vita»?
Ce lo siamo fatto spiegare da alcuni dei protagonisti della kermesse, ai quali tra gli altri è stato affidato il compito di ridefinire e misurarre il concetto di comunità oggi. Magari passandoci attraverso, per rovesciarlo come un guanto.
Remo Bodei, direttore del comitatto scientifico del Festival, è molto esplicito a riguardo: «Ovvio che a tutta prima la nozione di comunità suggerisca qualcosa di compatto, di localistico e gerarchico. Ma la proposta è quella di analizzarla da tutti i punti di vista, a partire dal dato innegabile che c’è stato un recupero della comunità come pulsione e desiderio. Dentro i processi di secolarizzazione, e dentro la polemica sul relativismo». Nondimeno, prosegue Bodei, «il punto è proporre una visione conflittuale della comunità, riconoscendone il bisogno, e insieme la pluralità, la multiformità. All’interno delle comunità e dei singoli». Traduciamo: l’individuo anche quello moderno o postmoderno psichicamente nasce dentro una relazione. Tende a far comunità, magari piccola con gli altri. Tuttavia ciascuno fa comunità a suo modo e non è detto che la Comunità sia una sola e imperativa. Ciascuno insomma si sceglie la sua forma di vita in comune, e può uscirne. È così professore? «Certo, da un punto di vista laico la comunità democratica citando Einaudi non può che essere un’ anarchia degli spiriti sotto la sovranità della legge. Perciò essa nel moderno si dà come articolazione e conflitto: regolati». Bodei ricorda che il vissuto comunitario viene analizzato a Modena in chiave molteplice. Come rabbia, nostalgia, solitudine, esilio. Come insieme di luoghi mobili, dove le comunità, anche sotto l’impulso dei processi economici post-fordisti, si fanno e si disfano. E si vedrà nelle relazioni di Severino, Bodei stesso, Maramao, Augè, Turnaturi (il «segreto» nei gruppi di potere). E conclude Bodei con la metafora del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti: Comunità, secondo l’etimo «creativo» dell’artista nel 1340, è la con-cordia dove i cittadini tirano ciascuno da una parte la stessa corda che li unisce. Come nelle lotte civili del Machiavelli conflittualista e repubblicano.
Tocca a Salvatore Natoli, filosofo «pagano», autore di una relazione sulla «fiducia» come molla di comunità libere e non oppressive. «Fiducia dice non è un negozio giuridico, ma un patto emotivo: si dà e si riceve. La comuntà moderna può nascere solo da una rottura di appartenenenze, alla quale segue la libera capacità di ricostruire legami. Perché non si tratta di regeredire all’Antico indifferenziato gerarchico. ma di rifare per ciascuno comunità con l’altro. Dall’interno del singolo e preservando l’altro senza eliminarlo o inglobarlo». E c’è in Natoli malgrado l’apparenza una profonda critica dell’individualismo imperante. Cioè: illusoriamente l’individualismo liberale proclama la sovranità del soggetto. In realtà è il contrario. Infatti a quell’individualismo corrisponde un affidamento gerarchico, dove vincono le scelte strumentali dei più forti. Fino all’impersonale «dominio del cinismo e della finanza astratta», senza fiducia stabile, senza istanze normative e senza responsabilità verso l’altro, che come tale diviene invisibile.
Parla Carlo Sini, già ordinario di teoretica a Milano, studioso heideggeriano e della Tecnica. «È indubbio dice che la nostra società si va imbarbarendo. Tra disgegazione, indifferenza diffusa e populismo salvifico. Perché? Perché si è inaridita ogni fonte di ethos comune. Manca cioè una istanza mediatrice e responsaibile, che sappia farsi carico del “comune”, come capacità di sentire l’altro in quanto nostro, pur restando altro». E qui Sini usa una metafora manzonianna. Quella del frate che alla fine della peste nei Promessi sposi lascia andre i «risanati» e chiede loro perdono per quanta poca caritas è stata loro riservata durante la malattia. «In realtà spiega Sini mancano i padri e i fratelli simbolici, in grado di trasmetterci la pietas e la caritas. Di fronte alla morte, alla comune sofferenza e alla solitudine delle scelte. La comunità? Non è certo il, territorio né la Chiesa gerarchica e dogmatica. Ma la capacità di ciascuno di farsi carico, di sentirsi “con”. Fuori da dogmi o da fusioni mistiche». Conclusione di Sini: «La comunità non può essere che un sogno di tutti e di ciascuno. Una costruzione dinamica e una civiltà delle relazioni. Non già una realtà data e naturale a cui obbedire come a una piovra».
Chi di «comunità» all’inizio non vuol sentir parlare è Carlo Galli, storico delle dottrine politiche a Bologna: «Mi fa venire i brividi dichiara e non per caso a Modena parlo di individuo». Perché? «Perché già Cartesio e Hobbes la consideravano un incubo, a cui contrappore il sogno razionale dell’individuo pensante, che feconda ordini politici, magari assoluti». Con l’ottocento però, con Hegel e Marx, «è l’individuo a diventare un sogno, sciolto nel linguaggio, nella storia, nello spirito e nella classe. Finché Nietzsche nel 900 rovescia tutto: individui e comunità sono entrambi sogni, fantasmi». Conclusione? «Se ne conclude che l’individuo nasce contro la comunità, ma la rimpiange e non può farne a meno. Talché, meglio privilegiare comunque l’individuo che sogna se stesso e progetta laicamente una comunità. Senza che la comunità lo renda schiavo però». Insomma, spiega Galli, l’individuo può diventare «progetto», legame non oppressivo con gli altri, capace di «far fiorire un proprio disegno nell’eguale dignità con gli altri, senza violenza e senza dominio».
Puro liberalismo, tutto ciò? Niente affatto per Galli. Piuttosto comunità come processo comune e condiviso della liberazione di tutti: «Società fraterna senza padri». Ma così la comunità non somiglia un po’ al «comunismo», almeno come ideale regolativo? ●
Così si costruisce la democrazia
La libertà reale di ciascuna persona è la condizione necessaria del bene comune per tutti
di Marc Augé (la Repubblica, 19.09.2009)
Sì, il bene comune e l’idea di comunità sono consustanziali all’idea di umanità. Ma, come ci mostra la storia, esistono solo allo stato di ideale e di progetto. Da solo, l’individuo non può esistere; del resto, per definizione non nasce mai solo, ma dentro universi già simbolicamente costituiti che gli impongono in maniera più o meno severa un insieme di relazioni possibili o persino obbligate: «a dire il vero, è quello che chiamiamo sano di mente che si aliena scrive Lévi-Strauss poiché acconsente a vivere in un mondo definibile unicamente dalla relazione tra l’io e l’altro. La salute mentale individuale implica la partecipazione alla vita sociale, così come il rifiuto di aderirvi (ma, anche in questo caso, secondo modalità che essa impone) corrisponde alla comparsa di turbe mentali».
In un mondo sovraccarico di significati simbolici (la prima etnologia ha studiato proprio mondi di questo tipo) è del tutto evidente che l’idea di libertà individuale non ha senso. Il senso sociale è l’insieme delle relazioni per le quali si definisce e attraverso le quali si costruisce ogni identità. Dal punto di vista dell’individuo, l’a priori del simbolico genera unicamente relazioni obbligate e comunità subite.
Ma noi conosciamo anche gli effetti del totalitarismo intellettuale prodotti, a un’altra scala, dalle grandi ideologie politiche o politico-religiose di ieri e di oggi, che per questa ragione chiamiamo appunto "totalitarie". In questo caso non si tratta più, se si segue Hannah Arendt, di un sovraccarico di senso, ma dell’espulsione di ogni senso possibile: «Mentre l’isolamento concerne soltanto l’aspetto politico della vita, l’estraneazione concerne la vita umana nel suo insieme. Il regime totalitario, al pari di ogni tirannide, non può certo esistere senza distruggere il settore pubblico, senza distruggere con l’isolamento le capacità politiche degli uomini. Ma esso come forma di governo è nuovo in quanto, lungi dall’accontentarsi dell’isolamento, distrugge anche la vita privata. Si basa sull’estraneazione, sul senso di non-appartenenza al mondo, che è fra le più radicali e disperate esperienze umane». (Il sistema totalitario, terza parte de Le origini del totalitarismo, 1951, trad. it. Milano 1967, pag. 651).
La comunità come realizzazione del bene comune non può essere che un risultato provvisorio e sempre incompiuto. Il suo punto di partenza può trovarsi solo nel rifiuto di ogni senso stabilito e più ancora di ciò che Hannah Arendt chiama "estraneazione", cioè il naufragio del corpo e dei beni dell’individualità privata e dell’appartenenza al mondo. E il processo che conduce alla comunità non può che essere inverso rispetto a quello di tutti i totalitarismi. Il consenso all’incompiutezza e la coscienza della necessità del divenire distinguono così la democrazia da tutti gli altri regimi politici.
La democrazia è sempre da costruire: è pienamente se stessa solo se continua a proiettare nell’avvenire il riferimento rispetto al quale intende definirsi. La sua frontiera è un orizzonte. In democrazia, il rispetto della costituzione esistente e la conservazione dell’ordine stabilito sono soltanto degli imperativi pratici relativi e provvisori, poiché la costituzione cambierà e le norme pure.
Pensiamo, per prendere un esempio semplice, vicino e spettacolare, a tutto quanto era vietato o impensabile nei paesi dell’Europa Occidentale appena sessant’anni fa, tanto nell’ambito dei costumi (statuto della donna, divorzio, omosessualità), quanto nella sfera strettamente politica (voto alle donne, maggiore età). Lo spirito democratico, come lo spirito scientifico, non si soddisfa di ciò che è acquisito e sa che la verità è sempre da conquistare, che l’esistenza politica precede sempre la sua essenza.
L’idea di progresso, in questa prospettiva, non procede né dall’orgoglio, né dall’ingenuità, ma dalla semplice constatazione dell’insufficienza del presente e delle frontiere che sono ancora da varcare per partire alla ricerca di soluzioni certo ma anche di nuovi problemi da risolvere.
Quelli che invocano il progresso non parlano a nome di un sapere preesistente; hanno semplicemente la convinzione, modesta e tenace, che la libertà reale di ciascun individuo umano sia la condizione necessaria del bene comune per tutti. Si ispirano così allo spirito scientifico. Non c’è niente di più modesto dello spirito scientifico: esso non parte mai da una totalità compiuta come quella che sta alla base delle ideologie, ma esplora le frontiere dell’ignoto con l’ambizione di spostarle.
(Traduzione di Michelina Borsari) © Consorzio per il festivalfilosofia