storia
Nello scontro fratricida tra Atene e Sparta già si ritrovano tutti i caratteri dei conflitti moderni, dall’egemonia alla pulizia etnica
Peloponneso, capostipite di tutte le guerre
di GIORGIO DE SIMONE (Avvenire, 24.05.2008)
Per lo storico californiano Victor Davis Hanson quella del Peloponneso svoltasi dal 431 al 404 a.C. fu «una guerra diversa da tutte le altre». A combattersi furono Atene e Sparta, ma con loro tutte le popolazioni di lingua greca e non solo, dalla Tracia alla Persia, entrarono in gioco, il che renderebbe quel conflitto simile all’attuale «caos senza fine del Medio Oriente» o alle guerre balcaniche degli anni Novanta.
Sulla scorta del grande Tucidide, più che seguire il corso degli avvenimenti, Hanson vuole che della guerra emergano le specificità di uomini, armi, navi, cavalli nonché la tragedia di chi, incolpevole, vi perse tutto anche quando non vi perse la vita, centinaia di migliaia di persone, archetipo dei miliardi che si sarebbero succedute nei secoli, le quali in un niente da ricchi si ritrovarono poveri, da felici infelici, da pieni di sogni disperati. Per Hanson, poi, tante le affinità tra allora e oggi, tra la superba capitale dell’Attica, per esempio, e l’America odierna: entrambe convinte di «poter trionfare in ogni impresa», entrambe decise a imporre la democrazia anche là dove non si concepiscono che oligarchie, entrambe capaci di dare lezione di moralità e altruismo nella convinzione di esportare, comunque, civiltà.
Prima della guerra peloponnesiaca la Grecia tutta aveva respinto i Persiani con battaglie memorabili quali Maratona (490) e Salamina (480) dando corso all’ideale di una unità eroica, ma nel 431 l’oligarchica Sparta, con il pretesto di uno scontro tra Atene e Corinto (alleata di Sparta), attaccò con il re Archidamo la ’sprezzante’ Atene di Pericle. Questi decise una resistenza passiva e una ’deviazione’ delle difese sulle coste per colpire il nemico dal mare, dove era invincibile. Ma sbagliava il re spartano a credere nella resa del nemico, sbagliava Pericle a ritenere che i centomila abitanti di Atene ne potessero ospitare altrettanti rifugiatisi nella città. Inesorabile, nel 429 scoppiò la peste che, con i suoi due figli, eliminò anche Pericle lasciando a Tucidide di tramandarci quanto il morbo portò poi in illegalità, soprusi, abbandono degli dèi e perdita di ogni bussola etica. Atene restò piagata dalla peste anche dopo che questa finì nonostante che, con la ripresa degli scontri, cercasse di ribattere colpo su colpo in un succedersi di attacchi e imboscate, saccheggi, delazioni e tradimenti.
Mitilene, capitale dell’isola di Lesbo che si ribellò e chiese aiuto a Sparta, fu sottoposta a pulizia etnica. Di una strage insensata fu vittima Corfù mentre nell’isola di Sfacteria andò in frantumi il mito dell’invincibilità degli opliti spartani. I comandanti, se non uccisi, erano processati e, dopo la vittoriosa battaglia navale delle Arginuse, sei su dieci furono messi a morte dall’assemblea ateniese per essersi disinteressati dei tanti naufraghi aggrappati ai relitti delle navi.
Nel 423, a Delio, furono i Tebani a sconfiggere duramente gli Ateniesi e successivamente Atene perse anche a Mantinea. Nel 415, ufficialmente per aiutare due città siciliane, Segesta e Lentini, in realtà per spostare il fronte e dare corpo all’ispirazione di Alcibiade di un impero dall’Asia minore a Gibilterra che quattro secoli dopo avrebbe realizzato Roma, Atene attaccò Siracusa, città di lingua greca distante mille chilometri. Ma sperduti e senza cavalleria, attaccati da quella nemica sui vari fronti e, con il richiamato generale Demostene decidendo un attacco notturno al porto, gli ateniesi andarono incontro al disastro.
Di ’distruzione radicale’ parlò Tucidide e nel 405 lo spartano Lisandro, alleatosi con la Persia, portò Atene alla resa dei conti nello scontro navale di Egospotami, qualcosa di simile alla battaglia persa dai Turchi a Lepanto nel 1571. Ma con Atene sconfitta, tutta la Grecia, di fatto, lo fu. Dopo la capitale dell’Attica l’egemonia toccò a Sparta, ma solo grazie all’alleanza ’sacrilega’ con la Persia, e, dopo Sparta, dal 371 al 362, a Tebe finché, con la battaglia di Cheronea del 338, fu il macedone Filippo ad assicurarsi il controllo della nazione. Presto assassinato, sul trono di Filippo salì suo figlio, ovvero il giovane che avrebbe invaso e conquistato l’intera Persia spingendosi poi fino ai confini del mondo e diventando di tutti i condottieri il più leggendario e il più grande: Alessandro Magno.
Victor Davis Hanson
UNA GUERRA DIVERSA DA TUTTE LE ALTRE
Garzanti. Pagine 453. Euro 35.00
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
TUCIDIDE (Wikipedia).
TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso (Testo integrale)
Guerra del Peloponneso (Tucidide)
FLS
La storia, profezia sul passato
Come in medicina, è il ripetersi dei sintomi la chiave di tutto
di Luciano Canfora (Corriere, 18.05.2012)
S criveva Leopold von Ranke in un bel capitolo della sua Storia universale che «Tucidide non era rimasto insensibile alle nuove teorie scientifiche intorno alla natura». In realtà si tratta di ben più che un modesto interesse: si tratta dell’influsso su di lui del metodo diagnostico e prognostico dalla medicina ippocratica.
Il luogo classico che rivela la assunzione da parte di Tucidide di tale metodo e la estensione di esso al sapere storico-politico è il preambolo con cui egli introduce la descrizione della cosiddetta peste di Atene. Dichiara in quel passo lo storico di voler descrivere i sintomi del male dal quale egli stesso fu affetto, e che riuscì a superare, «affinché lo si possa riconoscere quando eventualmente si ripresenterà». La conoscenza, dunque, di un fenomeno che potrebbe verificarsi (cioè «futuro») è fondata secondo Tucidide sull’attento studio dei sintomi.
Analogamente, quando nel proemio spiega perché ha deciso di dedicare un racconto così analitico alla guerra peloponnesiaca, da lui ritenuta la più importante di tutta la storia passata, introduce come giustificazione un argomento simile: che cioè la natura umana essendo sostanzialmente immutabile o forse modificabile in un tempo lunghissimo, eventi «uguali o simili» è altamente probabile che si ripresentino; donde la necessità di conoscere analiticamente l’esperienza già consumatasi. Il pronostico del medico e il pronostico del politico si fondano dunque entrambi sullo stesso presupposto empirico-sintomatologico.
Tucidide estende questo metodo anche alla conoscenza del passato remoto: anche in tale ambito, dove l’assenza di documentazione è vastissima, saranno i sintomi («segni») a suggerire una possibile ricostruzione di un passato ormai smarrito, e soprattutto renderanno possibile valutarne la grandezza a paragone della ben più verificabile grandezza della storia in fieri. Profezia sul passato, dunque, e profezia sul futuro, si potrebbe dire: il metodo è il medesimo; è il metodo della medicina ippocratica.
Alla luce di tale concezione, è evidente che le altre forme di «pronostico» a base arcaicamente oracolare vengano considerate da Tucidide con distacco, con ironia, se non con disprezzo. Celebre la considerazione ironica che egli riserva all’oracolo che fu rispolverato in Atene appunto in occasione dell’esplosione del contagio. Si ricordarono in quella occasione - dice Tucidide - che tempo addietro aveva circolato una profezia, secondo la quale «insieme con la guerra sarebbe sopraggiunto il contagio pestilenziale« (che effettivamente si produsse nel 430-429 a.C., cioè appena un anno dopo l’inizio della guerra con Sparta). Il fatto è che, nota ancora Tucidide, la parola indicante il flagello concomitante con la guerra inizialmente non era «pestilenza» (loimòs) ma «carestia» (limòs). Nondimeno - conclude Tucidide - ritoccarono il dettato della profezia sulla base di quanto effettivamente era accaduto ed essa risultò, se così si può dire, veridica (II, 54).
Questa notazione, che potremmo definire volterriana, indica, in modo inequivocabile, la lontananza di Tucidide dal mondo magico-profetico-oracolare. È facile riconoscere in tale libertà di pensiero, in tale visione razionale dei fatti storici e naturali, l’influsso decisivo di quella fondamentale corrente intellettuale che definiamo sommariamente «sofistica» e che un grande storico del pensiero greco, Theodor Gomperz, definì «illuminismo».
Intorno ad una guerra così totale e alla fine disastrosa come la guerra peloponnesiaca era inevitabile che si «incrostassero» profezie, più o meno costruite alla maniera di quella che Tucidide deride. Nella commedia di Aristofane intitolata Pace (421 a.C.), la festosa accoglienza riservata al trionfo della pace, da parte dei protagonisti di quella commedia, viene disturbata dalla interferenza di un indovino di nome Ierocle che si affanna a sbraitare che non è ancora tempo, «non è gradito ancora agli dei che si interrompa il grido di guerra» (vv. 1073-1075).
Effettivamente anche Plutarco nella Vita di Nicia, cioè del politico che più fortemente volle la pace stipulata nel 421, apparsa inizialmente come risolutiva, ricorda che un bel po’ di fanatici andavano in giro sbraitando che la guerra era fatale che durasse tre volte nove anni, e che dunque era prematuro che il conflitto terminasse dopo appena dieci. E Plutarco soggiunge che gli Ateniesi la stipularono ugualmente quella pace «sbeffeggiando» codesti profeti di sventura.
Purtroppo la guerra ricominciò dopo alcuni anni e si sviluppò con un andamento asimmetrico. Ma a cose fatte, quando ormai Atene dovette capitolare e rinunciare alle mura e alle navi, qualcuno sfoderò l’antica profezia e, forzando un po’ le cifre, cercò di dimostrare che la guerra era durata effettivamente ventisette anni.
A rigore, anche accettando la tesi audace di Tucidide, secondo cui si trattò di un’unica guerra protrattasi fino a che Atene non capitolò, ugualmente i conti non tornano: oltre tutto lo stesso Tucidide sembra oscillare a proposito dell’esatto inizio del conflitto, posto dapprima al momento dell’attacco a sorpresa degli Spartani contro Platea e successivamente soltanto nel momento della prima invasione dell’Attica. E quanto poi alla conclusione, essa può ragionevolmente porsi o nel momento dell’ingresso di Lisandro in Atene ormai prostrata, ovvero sei mesi dopo, quando si arrese anche l’isola di Samo, alleata fedelissima di Atene, cui era stata attribuita in blocco la cittadinanza ateniese: come dire, semplificando, che a distanza di sei mesi Atene cadde due volte.
Insomma, i propalatori di oracoli anche in questa occasione dovettero affannarsi a far quadrare i conti, mentre gli storici di formazione «realpolitica» e dotati di una mentalità aliena dal soprannaturale, ebbero ancora una volta materia per sorridere di queste cabale numerologico-oracolari.
Con la crisi democrazie a rischio
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 20/6/2010)
In un incontro a porte chiuse con i sindacati europei, l’11 giugno, il presidente della Commissione Barroso avrebbe espresso grande inquietudine sul futuro democratico di Paesi minacciati dalla bancarotta come Grecia, Spagna e Portogallo. Secondo il Daily Mail, avrebbe parlato addirittura di possibili tumulti e colpi di Stato. La Commissione europea ha smentito le parole attribuite al proprio Presidente, ma l’allarme non è inverosimile e molti lo condividono.
Al momento, per esempio, l’ansia è intensa in Grecia, dove il governo Papandreou sta attuando un piano risanatore che comporterà vaste fatiche e rinunce. L’ho potuto constatare di persona, parlando qualche settimana fa con il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papahelas: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie, sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia verso lo Stato e da una cultura della legalità inesistente». Papahelas non parla di colpi di Stato - l’esperienza, disastrosa, già è stata fatta a Atene fra il ’67 e il ’74 - ma di movimenti populisti, nazionalisti, «anelanti a falsi Messia».
La tentazione che potrebbe farsi strada è quella di considerare la democrazia come un lusso che ci si può permettere in tempi di prosperità, e che bisogna sospendere nelle epoche d’emergenza che sono le crisi. Apparentemente il regime democratico resterebbe al suo posto: la sua natura liberatoria verrebbe anzi esaltata. Ma resterebbe sotto forma impoverita, stravolta: il popolo governerebbe eleggendo il governo, ma tra un voto e l’altro non avrebbe strumenti per vigilare sulle libertà dei governanti. La democrazia verrebbe sconnessa dalla legalità, dai controlli esercitati da istituzioni indipendenti, dalle Costituzioni: tutti questi strumenti degraderebbero a ammennicoli dispensabili, e la libertà sarebbe quella dei governanti.
Gli italiani sanno che l’allergia alla legalità e ai controlli è un fenomeno diffuso anche da noi, oltre che in Grecia. Sanno anche, se guardano in se stessi, che il bavaglio protettore dell’illegalità è qualcosa che molti si mettono davanti alla bocca con le proprie mani, prima che intervengano leggi apposite. In questi giorni si discute delle intercettazioni: converrebbe non dimenticare che una legge assai simile (la legge Mastella) fu approvata quasi all’unanimità dalla Camera, nell’aprile 2007. Che un uomo di sinistra come D’Alema disse, a proposito di giornali da multare: «Voi parlate di multe di 3 mila euro(...) Li dobbiamo chiudere, quei giornali» (Repubblica, 29-07-06).
La crisi in cui viviamo da tre anni mostra una realtà ben diversa. Se si fonda su una educazione complessa alla legalità e non è plebiscitaria (cioè messianica), la democrazia è parte della soluzione, non del problema. La bolla scoppiata nel 2007 era fatta di illusioni tossiche, di un’avidità sfrenata di ricchezza, e anche della mancanza di controlli su illusioni e avidità. Uscirne comporta sicuramente sacrifici ma è in primo luogo una disintossicazione, un ristabilire freni e controlli. Tali rimedi sono possibili solo quando la democrazia coincide con uno Stato di diritto solido, con istituzioni e leggi in cui il cittadino creda. In Grecia, questi ingredienti democratici sono da ricostituire in parallelo con il risanamento delle finanze pubbliche e i sacrifici, e forse prima. Anche in America, non è con un laissez-faire accentuato che si sormontano le difficoltà ma con più stretti controlli sui trasgressori.
È il motivo per cui Grecia e Stati Uniti concentrano l’attenzione sui due elementi che indeboliscono simultaneamente economia e democrazia: da una parte l’impunità di chi interpreta il laissez-faire come licenza di arricchirsi senza regole, dall’altra l’impotenza dello Stato di fronte alle forze del mercato. Abolire l’impunità e restituire credibilità allo Stato sono giudicati componenti essenziali sia della democrazia, sia della prosperità. Difficile ritrovare la prosperità se intere regioni o intere attività economiche sono dominate da forze che sprezzano la legalità, che si organizzano in mafie, o che immaginano di annidarsi in chiuse identità micronazionaliste. La storia dell’Europa dell’Est e della Russia confermano che senza libertà di parola e senza un indiscusso imperio della legge viene meno il controllo, e che senza controllo proliferano gli affaristi e i mafiosi.
In Grecia, la lotta all’impunità è fattore indispensabile della ripresa, ci ha spiegato Papahelas: «La cura vera consiste nell’approvazione, da parte di tutti i politici, di un emendamento costituzionale che annulli l’immunità garantita a ministri o parlamentari passati e presenti, e che porti davanti alle corti o in prigione i truffatori e gli evasori fiscali. Si tratta di imbarcarsi in un nuovo capitolo della storia: economico, culturale e antropologico».
In America vediamo con i nostri occhi quanto sia importante il controllo sulle condotte devianti di chi si sottrae alle regole: l’audizione al Congresso dell’amministratore delegato di British Petroleum, Tony Hayward, è severissima e trasmessa da tutte le tv. Dice ancora Papahelas: «Il vecchio paradigma - quello di uno Stato senza leggi, in cui regnano ruberie e nepotismi - sta precipitando».
Impunità e allergia alla cultura del controllo (esercitato da istituzioni e da mezzi d’informazione) sono radicate anche in Italia, e anche qui la democrazia è vicina al precipizio. Le innumerevoli leggi varate a protezione di singole persone o gruppi di persone, l’arroccamento identitario-etnico di regioni a Nord e a Sud del Paese: questi i mali principali. La stessa proposta di rivedere l’articolo 41 della Costituzione contiene i germi di un’illusione: l’illusione che l’economia ripartirà, se solo si possono iniziare attività senza controlli preventivi. L’illusione che l’eliminazione di tali controlli sia un bene in sé, anche in Paesi privi di cultura della legalità.
La costruzione dell’Europa non è estranea alla degradazione dello stato di diritto in numerosi Paesi membri. Non tanto perché essa ha sottratto agli Stati considerevoli sovranità (sono sovranità chimeriche, nella mondializzazione) ma perché ha ritardato l’ora della verità: quella in cui occorre reagire alla crisi di legittimità con una rifondazione del senso dello Stato, e non con una sua dissoluzione. Se i politici fanno promesse elettorali non mantenibili, se si conducono come dirigenti non imputabili, è inevitabile che i cittadini e i mercati stessi traggano le loro conclusioni non credendo più in nulla: né nell’Europa, né nei propri Stati, né nei piani di risanamento economico.
Non è un caso che si moltiplichino in Europa le condanne della legge italiana sulle intercettazioni (appello dei liberal-democratici del Parlamento europeo, firmato da Guy Verhofstadt, appello dell’Osce e di Reporter senza frontiere). Un’informazione e una giustizia imbavagliate o dissuase minano la democrazia. Reagiscono alla crisi proteggendo il vecchio paradigma dell’avidità senza briglie. Conservano uno status quo che ha già causato catastrofi nell’economia e nelle finanze.
L’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico è stata paragonata a una guerra. Anche la crisi è una specie di guerra. Se ne può uscire alla maniera di Putin: rafforzando quello che a Mosca viene chiamato il potere verticale, imbrigliando giudici e giornalisti, consentendo a mafie e a segreti ricattatori di agire nell’invisibilità, nell’impunità. Oppure se ne può uscire come l’Europa democratica del dopoguerra: con istituzioni forti, con uno Stato sociale reinventato, con la messa in comune delle vecchie sovranità, con un nuovo patto fra cittadini e autorità pubblica.
Il sorriso ottuso dell’Europa
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 16/5/2010)
E’ impressionante la forza che possiede la stupidità, nella vita degli Stati europei e in quella dell’Unione. La crisi economica iniziata nel 2007 avrebbe dovuto insegnar loro un po’ d’intelligenza supplementare, e persuaderli che i tempi dell’incertezza erano finiti, che la politica doveva riacquistare un primato, che l’ora di un governo europeo era infine sopraggiunta. Invece si direbbe che la crisi non abbia impartito lezione alcuna, nonostante le grandi spese che l’Unione si sta sobbarcando.
Si versano soldi in quantità e nelle nazioni si predispongono piani di sacrifici dolorosi, ma come dissero a suo tempo Fruttero e Lucentini: la cretineria prevale, e quel che l’Europa sa far meglio è l’ottusa «manutenzione del sorriso». L’euro vacilla sempre più, ma i capi di governo fingono letizia, immaginando di suggestionare i mercati col buon umore. Della tempesta non parlano, per non dover parlare delle proprie responsabilità, e sperano che come per miracolo i mercati si calmino. Intanto pagano e questo non è male, ma pagare non è tutto quel che occorre. La politica, hanno l’impressione di averla già fatta. La leadership, di averla già esercitata: con il trattato di Lisbona, con qualche vertice fra i governi più importanti. Così vivacchiano ancor oggi, grosso modo soddisfatti.
La costituzione è fallita in questi anni, ma il trattato di Lisbona ha preso il suo posto e il grosso è fatto. L’unico elemento positivo della crisi è che i governi non se la prendono più con gli eurocrati di Bruxelles, d’un tratto. In cuor loro sanno perfettamente che se l’Europa è considerata nel mondo un’impresa minacciata di morte, la colpa è degli Stati e dei politici nazionali. Il cretino molto spesso si dissimula dietro le vesti del pragmatico, del moderato, di chi pretende di aver appreso la feconda arte della disillusione, dello spirito blasé. Nessuna passione lo agita più, nessuna grande idea innovatrice, se non il desiderio di posti e di cariche.
L’Inghilterra è maestra in quest’arte solo apparente del disincanto, impastata in realtà di illusioni e incanti: illusione di potercela fare da sola, come nazione erede di un impero; incanto che occulta i fatti reali e riempie il vuoto con l’affaccendarsi più che col fare. In questi giorni c’è chi parla addirittura di rivoluzione in Gran Bretagna, e tutti sono eccitati perché per la prima volta gli inglesi fanno l’esperienza, molto continentale, di un governo di coalizione. Ma al momento, l’esperienza è un guscio vuoto. Tutto quello che i liberal-democratici di Clegg hanno fatto è retrocedere nella loro battaglia europeista, pur di fare un governo giovane, fotogenico e ilare con Cameron, l’antieuropeista. Il colmo è stato raggiunto, il giorno dell’accordo, da Graham Watson, deputato liberale al Parlamento europeo. «Sull’Europa non c’è problema», ha detto alla Bbc: primo perché nell’euro l’Inghilterra non entrerà comunque; secondo perché l’Unione ha già operato tali e tanti cambiamenti, da quando ha approvato il trattato di Lisbona, che il riposo e le pantofole sono più che legittimi. Per un bel po’ di tempo, ha aggiunto, altri trasferimenti di sovranità non sono né previsti né auspicati.
Così ragionano i pragmatici, o meglio i rinunciatari, quasi camminassero in una fresca radura e non in mezzo a incendi. Proprio ora ci vorrebbero nuovi trasferimenti di sovranità, perché l’Europa diventi finalmente un soggetto politico credibile (credibile davanti ai mercati, agli Stati Uniti, alla Cina, all’India) e proprio ora i suoi dirigenti dicono, come quando ti si accampano davanti un secondo e un terzo mendicante: «Abbiamo già dato». Eppure quasi ogni giorno la cosa appare evidente: la crisi che traversiamo e i sacrifici che saranno chiesti ai cittadini sono tali, che senza trasformazioni decisive dell’Unione c’è poco da sperare. Non lo affermano solo i mercati, che non sembrano credere nell’Europa ma di cui si può pensare: hanno l’istinto del gregge, ascoltano il primo che passa.
L’Europa e l’euro sono ritenuti moribondi anche da politici americani di primo piano come Richard Haass, direttore del Council of Foreign Relations e consigliere di vari presidenti. Anche dall’ex governatore della Federal Reserve Paul Volcker. Lo storico Niall Ferguson, esperto in declini di imperi (romano, britannico, americano), lo dice a chiare lettere, su Newsweek: «La grande decisione che l’Unione deve prendere non è se salvare la Grecia. È se trasformarsi in Stati Uniti d’Europa, o essere una versione moderna del sacro romano impero, una bislacca accozzaglia “a geometria variabile” che prima o poi si frantumerà».
Economicamente l’Europa sta meglio degli Stati Uniti. Ma questi non muoiono perché sono un sistema politico federale, dunque un soggetto visibile. Dietro il dollaro c’è uno Stato, che riequilibra le disparità interne: «In America il salvataggio del Michigan viene fatto dal Texas in modo automatico, attraverso la ridistribuzione del reddito e i proventi della tassa sulle imprese». Dietro l’euro c’è un’armatura e dentro l’armatura un cavaliere inesistente. Bisogna davvero esser lenti a capire e sconfinatamente svogliati, per pensare dopo il tremendo biennio 2007-2009 che i mercati e l’economia siano tutto, e talmente bravi ed efficaci da dettar legge. Che la moneta unica e la prosperità del vecchio continente possano sussistere senza un potere politico, alle spalle, che coincida con l’area dell’euro. Che mercati e agenzie di rating restino infallibili, abilitati a ripetere i disastri e le bolle speculative degli ultimi anni. Nonostante questo suo impazzimento, l’economia continua a essere l’idolo davanti al quale la politica, svuotata dal di dentro, senza timoniere, molto pragmaticamente si adatta.
È come se l’Europa non avesse, nel proprio bagaglio, una grande cultura fatta di scetticismo verso i mercati e il predominio dell’economia: una cultura che ha prodotto guerre fratricide ma ha anche saputo difendersi da esse inventando la democrazia, la separazione dei poteri, l’autonomia della politica, lo Stato sociale. Una cultura che nel dopoguerra ha dato vita a un’unione di Stati consapevoli dei propri limiti e decisi a mettere insieme le proprie vecchie sovranità. Un’unione che ha custodito inoltre il Welfare, in modo da spegnere in anticipo gli estremismi scatenati nel secolo scorso dalla questione sociale. È come se nella nostra storia non ci fosse stata, contro il predominio del mercato e dell’economia, una lunga tradizione che va dalle visioni etiche e politiche di Condorcet e Adam Smith alle proposte sociali e politiche di Beveridge e Keynes. È dal Settecento che l’Europa produce idee in questo campo, oggi dimenticate. Condorcet, che pure credette nella razionalità degli economisti a lui contemporanei, vide già allora i pericoli: «Agli occhi di una nazione avida, la libertà non sarà più che la condizione necessaria alla sicurezza delle operazioni finanziarie».
L’euro è nato con questo vizio, fondamentale. Il mercato e le banche erano tutto, il grande demiurgo era a Francoforte. La politica era chiamata a garantire la libertà necessaria alla sicurezza delle operazioni finanziarie. L’armonia si sarebbe imposta spontaneamente, e al peggio non urgeva pensare. Invece il peggio è venuto. È già qui fra noi. Si può fingere che non esista, e dare alla finzione il nome di pragmatismo. Ma il pragmatismo senza una trasformazione dell’Europa non è pragmatismo né tanto meno disincanto. È un’ideologia con aspirazioni egemoniche acutissime. Ha la forza della stupidità quando impigrisce. La forza di bloccare i nuovi necessari trasferimenti di sovranità, come nei desideri degli inglesi o della Corte costituzionale tedesca. Ha il potere, magari gratificante ma enormemente inutile, di chi è addetto alla manutenzione del sorriso mentre la crisi economica si abbatte sulle società e le democrazie per spezzarle.
Quali principi sono alla base di una norma? Quanto vale il criterio maggioritario e quanto la necessità del dialogo? Un tema dibattuto dai tempi di Pericle e rimbalzato fino all’attualità Una richiesta confessionale che dovrebbe valere anche per i non credenti
"Pericle insegnami che cos’è la legge"
La legge e le sue ragioni
La formula di Ugo Grozio per la legislazione era "Come se Dio non ci fosse"
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica , 26.09.2008)
«DIMMI, Pericle, mi sapresti insegnare che cosa è la legge?» chiede Alcibiade a Pericle. Pericle risponde: «Tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto, stabilendo ciò che si debba e non si debba fare, si chiama legge». E prosegue: «Tutto ciò che si costringe qualcuno a fare, senza persuasione, facendolo mettere per iscritto oppure in altro modo, è sopraffazione piuttosto che legge». Se non ci si parla, non ci si può comprendere e, a maggior ragione, non è possibile la persuasione.
Questa è un’ovvietà. Per intendere però l’importanza del contesto comunicativo, cioè della possibilità che alle deliberazioni legislative concorra un elevato numero di voci che si ascoltano le une con le altre, in un concorso che, ovviamente, non è affatto detto che si concluda con una concordanza generale, si può ricorrere a un’immagine aristotelica, l’immagine della preparazione del banchetto. In questa immagine c’è anche una risposta all’eterna questione, del perché l’opinione dei più deve prevalere su quella dei meno.
Il principio maggioritario è una semplice formula giuridica, un espediente pratico di cui non si può fare a meno per uscire dallo stallo di posizioni contrapposte (E. Ruffini)? È forse solo una «regoletta discutibile» (P. Grossi) che trascura il fatto che spesso la storia deve prendere atto, a posteriori, che la ragione stava dalla parte delle minoranze, le minoranze illuminate (e inascoltate)?
Si deve essere disposti, nel confronto con gli altri, a difendere i propri principi Oppure, si tratta forse non di una regoletta ma di un principio che racchiude un valore? Non diremo certo che la maggioranza ha sempre ragione (vox populi, vox dei: massima della democrazia totalitaria), ma forse, a favore dell’opinione dei più, c’è un motivo pragmatico che la fa preferire all’opinione dei meno. A condizione, però, che «i più» siano capaci di dialogo e si aggreghino in un contesto comunicativo, e non siano un’armata che non sente ragioni.
In un passo della Politica di Aristotele (1281b 1-35), che sembra precorrere la sofisticata «democrazia deliberativa» di Jürgen Habermas e che meriterebbe un esame analitico come quello di Senofonte al quale ci siamo dedicati, leggiamo: «Che i più debbano essere sovrani nello Stato, a preferenza dei migliori, che pur sono pochi, sembra che si possa sostenere: implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità. Può darsi, in effetti, che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a ciascuno di loro, in quanto presi non singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e quando si raccolgono e uniscono insieme, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza». Dunque, inferiori presi uno per uno, diventano superiori agli uomini migliori, quando è consentito loro di contribuire all’opera comune, dando il meglio che c’è in loro. Più numeroso il contributo, migliore il risultato.
Naturalmente, quest’immagine del pranzo allestito da un «uomo in grande» non supera questa obiezione: che nulla esclude che ciò che si mette in comune sia non il meglio, ma il peggio, cioè, nell’immagine del pranzo, che le pietanze propinate siano indigeste. Ma questa è un’obiezione, per così dire, esterna. Dal punto di vista interno, il punto di vista dei partecipanti, è chiaro che nessuno di loro ammetterebbe mai che il proprio contributo all’opera comune è rivolta al peggio, non al meglio.
Ognuno ritiene di poter contribuire positivamente alle decisioni collettive; l’esclusione è percepita come arbitrio e sopraffazione proprio nei riguardi della propria parte migliore. Ora, accade, e sembra normale, che il partito o la coalizione che dispone della maggioranza dei voti, sufficiente per deliberare, consideri superfluo il contributo della minoranza: se c’è, bene; se non c’è, bene lo stesso, anzi, qualche volta, meglio, perché si risparmia tempo. Le procedure parlamentari, la logica delle coalizioni, la divisione delle forze in maggioranza e opposizione, il diritto della maggioranza di trasformare il proprio programma in leggi e il dovere delle minoranze, in quanto minoranze, di non agire solo per impedire o boicottare, rendono comprensibile, sotto un certo punto di vista, che si dica: abbiamo i voti e quindi tiriamo innanzi senza curarci di loro, la minoranza. Ma è un errore.
Davvero la regola della maggioranza si riduce così «a una regoletta». Una regoletta, aggiungiamo, pericolosa. Noi conosciamo, forse anche per esperienza diretta, il senso di frustrazione e di umiliazione che deriva dalla percezione della propria inutilità. Si parla, e nessuno ascolta. Si propone, e nessuno recepisce. Quando la frustrazione si consolida presso coloro che prendono sul serio la loro funzione di legislatori, si determinano reazioni di auto-esclusione e desideri di rivincita con uguale e contrario atteggiamento di chiusura, non appena se ne presenterà l’occasione. Ogni confronto si trasformerà in affronto e così lo spazio deliberativo comune sarà lacerato. La legge apparirà essere, a chi non ha partecipato, una prevaricazione.
La «ragione pubblica» - concetto oggi particolarmente studiato in relazione ai problemi della convivenza in società segnate dalla compresenza di plurime visioni del mondo - è una sfera ideale alla quale accedono le singole ragioni particolari, le quali si confrontano tramite argomenti generalmente considerati ragionevoli e quindi suscettibili di confronti, verifiche e confutazione; argomenti che, in breve, si prestino a essere discussi. Le decisioni fondate nella ragione pubblica sono quelle sostenute con argomenti non necessariamente da tutti condivisi, ma almeno da tutti accettabili come ragionevoli, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di valore.
Contraddicono invece la ragione pubblica e distruggono il contesto comunicativo le ragioni appartenenti a «visioni del mondo chiuse» (nella terminologia di John Rawls, che particolarmente ha elaborato queste nozioni, le «dottrine comprensive»). Solo nella sfera della «ragione pubblica» possono attivarsi procedure deliberative e si può lavorare in vista di accordi sulla gestione delle questioni politiche che possano apparire ragionevoli ai cittadini, in quanto cittadini, non in quanto appartenenti a particolari comunità di fede religiosa o di fede politica.
Un sistema di governo in cui le decisioni legislative siano la traduzione immediata e diretta - cioè senza il filtro e senza l’esame della ragione pubblica - di precetti e norme derivanti da una fede (fede in una verità religiosa o mondana, comunque in una verità), sarebbe inevitabilmente violenza nei confronti del non credente («l’infedele»), indipendentemente dall’ampiezza del consenso di cui potessero godere. Anzi, si potrebbe perfino stabilire la proporzione inversa: tanto più largo il consenso, tanto più grande la violenza che la verità è capace di contenere. Sotto questo aspetto, dire legge non violenta equivale a dire legge laica; al contrario, dire legge confessionale equivale a dire legge violenta. La verità non è di per sé incompatibile con la democrazia, ma è funzionale a quella democrazia totalitaria cui già sì è fatto cenno.
L’esigenza di potersi appellare alla ragione pubblica nella legislazione, un quanto si voglia sconfiggere la violenza che sempre sta in agguato nel fatto stesso di porre la legge, spiega la fortuna attuale dell’etsi Deus non daretur, la formula con la quale, quattro secoli fa, Ugo Grozio invitava i legislatori a liberarsi dall’ipoteca confessionale e a fondare il diritto su ragioni razionali; invitava cioè a lasciar da parte, nella legislazione civile, le verità assolute. Mettere da parte Dio e i suoi argomenti era necessario per far posto alle ragioni degli uomini; noi diremmo: per costruire una sfera pubblica in cui vi fosse posto per tutti.
Naturalmente, da parte confessionale un simile invito ad agire indipendentemente dall’esistenza di Dio non poteva non essere respinto. Per ogni credente, Dio non si presta a essere messo tra parentesi, come se non ci fosse. Ma l’esigenza che ha mosso alla ri-proposizione di quell’antica espressione (G. E. Rusconi) non è affatto peregrina. È l’esigenza della «ragione pubblica». A questa stessa esigenza corrisponde l’invito opposto, di parte confessionale, rivolto ai non credenti affinché siano loro ad agire veluti si Deus daretur (J. Ratzinger). Altrettanto naturalmente, anche questo invito è stato respinto.
Per un non credente in Dio, affidarsi a Dio (cioè all’autorità che ne pretende la rappresentanza in terra) significa contraddire se stessi. Ma questa proposta-al-contrario coincide con la prima, nel sottolineare l’imprescindibilità di un contesto comune, con Dio per nessuno o con Dio per tutti, nel quale la legge possa essere accettata generalmente in base alla persuasione comune.
Entrambe le formule non hanno dunque aiutato a fare passi avanti. Sono apparse anzi delle provocazioni, ciascuna per la sua parte, alla libertà, autenticità e responsabilità della coscienza. In effetti, non si tratta affatto di esigere rinunce e conversioni di quella natura, né, ancor meno, di chiedere di agire come se, contraddicendo se stessi. Non è questa la via che conduce a espungere la violenza dalla legislazione.
Un punto deve essere tenuto fermo: la legge deve essere aperta a tutti gli apporti, compresi quelli basati su determinate assunzioni di verità. La verità può trovare posto nella democrazia e può esprimersi in «legislazione che persuade», perché la democrazia non è nichilista. Ma solo a patto però - questo è il punto decisivo - che si sia disposti, al momento opportuno, quando cioè ci si confronta con gli altri, a difendere i principi e le politiche che la nostra concezione della verità a nostro dire sostiene, portando ragioni appropriatamente pubbliche (J. Rawls).
Così, i sistemi religiosi, filosofici, ideologici e morali non sono esclusi dalla legislazione, ma vi possono entrare solo se hanno dalla propria parte anche buone ragioni «comuni», su cui si possa dissentire o acconsentire, per pervenire a decisioni accettate, pur a partire da visioni del mondo diverse, come tali non conciliabili. La legislazione civile, in quanto si intenda spogliarla, per quanto è possibile, del suo contenuto di prevaricazione, non può intendersi che come strumento di convivenza, non di salvezza delle anime e nemmeno di rigenerazione del mondo secondo un’idea etica chiusa in sé medesima.
Il divieto dell’eutanasia può essere argomentato con una ragione di fede religiosa: l’essere la vita proprietà divina («Dio dà e Dio toglie»); l’indissolubilità del matrimonio può essere sostenuta per ragioni sacramentali («non separare quel che Dio ha unito»). Argomenti di tal genere non appartengono alla «ragione pubblica», non possono essere ragionevolmente discussi. Su di essi ci si può solo contare. La «conta», in questi casi, varrà come potenziale sopraffazione. Ma si può anche argomentare diversamente. Nel primo caso, ponendo il problema di come garantire la genuinità della manifestazione di volontà circa la fine della propria esistenza; di come accertare ch’essa permanga tale fino all’ultimo e non sia revocata in extremis; di come evitare che la vita, nel momento della sua massima debolezza, cada nelle mani di terzi, eventualmente mossi da intenti egoistici; di come evitare che si apra uno scivolamento verso politiche pubbliche di soppressione di esseri umani, come dicevano i nazisti, la cui vita è «priva di valore vitale».
Alla fine, se ne potrà anche concludere che, tutto considerato, difficoltà insormontabili e rischi inevitabili o molto probabili consigliano di far prevalere il divieto sul pur molto ragionevole argomento dell’esistenza di condizioni di esistenza divenute umanamente insostenibili.
Oppure, viceversa. Nel secondo caso, si potrà argomentare sull’importanza della stabilità familiare, nella vita e nella riproduzione della vita delle persone e delle società; a ciò si potrà contrapporre il valore della genuinità delle relazioni interpersonali e la devastazione ch’esse possono subire in conseguenza di vincoli imposti. Su questo genere di argomenti si può discutere, le carte possono mescolarsi rispetto alle fedi e alle ideologie, le soluzioni di oggi potranno essere riviste domani. Chi, per il momento, è stato minoranza non si sentirà per questo oggetto di prevaricazione.
Qualora poi le posizioni di fede non trovino argomenti, o argomenti convincenti di ragione pubblica per farsi valere in generale come legge, esse devono disporsi alla rinuncia. Potranno tuttavia richiedere ragionevolmente di essere riconosciute per sé, come sfere di autonomia a favore della libertà di coscienza dei propri aderenti, sempre che ciò non contraddica esigenze collettive irrinunciabili (questione a sua volta da affrontare nell’ambito della ragione pubblica).
Tra le leggi che impongono e quelle che vietano vi sono quelle che permettono (in certi casi, a certe condizioni). Le leggi permissive, cioè le leggi di libertà (nessuno oggi pensa - in altri momenti si è pensato anche questo - che l’eutanasia o il divorzio possano essere imposti) sono quelle alle quali ci si rivolge per superare lo stallo, il «punto morto» delle visioni del mondo incompatibili che si confrontano, senza che sia possibile una «uscita» nella ragione pubblica. Anzi, una «ragione pubblica» che incorpori, tra i suoi principi, il rigetto della legge come violenza porta necessariamente a dire così: nell’assenza di argomenti idonei a «persuadere», la libertà deve prevalere. Questa è la massima della legge di Pericle.
Corriere della Sera 25.9.08 Il conflitto tra ordine e sovversione nel mondo classico: un convegno della Fondazione Canussio.
Il passato (e il futuro) della democrazia
Roma antica, il mito del «sistema perfetto»
Lo storico greco Polibio esaltò la «costituzione mista», ma fu smentito dalla crisi dei Gracchi
di Luciano Canfora
«Democrazia » torna ad essere una parola problematica e di combattimento, come nelle sue origini ateniesi quando era per lo più usata come disvalore da parte dei suoi implacabili critici. Non solo: si torna liberamente a criticarla proprio negli ambienti che l’avevano brandita come bandiera da guerra fredda. Si torna a chiedersi quali siano i necessari correttivi (l’orribile neologismo «governabilità » è spesso adoperato a questo proposito), quali siano i limiti tollerabili, quale il contrasto di fondo con il criterio della competenza (è l’antica obiezione dei pensatori ateniesi); per non parlare dell’invito ad una presa d’atto dell’inevitabilità del principio oligarchico al di sotto della corteccia democratica. È qui la radice della riscoperta anglosassone del sistema «misto» e della romana costituzione mista, come la intese Polibio: si pensi agli studi di Neil MacCormick.
Parallelamente torna a vigoreggiare, tra i nostri studiosi del mondo romano, la tendenza a definire democrazia l’ordinamento costituzionale romano, o per lo meno la sua prassi tardo-repubblicana: ordinamento che invece a Polibio (libro VI) e al suo emulo-interprete Machiavelli ( Discorsi sulla prima deca di Tito Livio) parve l’esempio perfetto di costituzione mista. La discussione non è nuova se solo si pensa alla diverse posizioni sostenute in proposito da due grandi romanisti quali Francesco De Martino e Antonio Guarino. Ma ora, significativamente, la visione di Roma repubblicana come democrazia viene rilanciata da uno storico di spicco quale Fergus Millar ( The Crowd in Rome in the Late Republic) proprio negli Stati Uniti d’America - e l’accoglienza è stata entusiasta, «Historians Give Romans Better Marks in Democracy», titolò il New York Times (23 luglio 1999). E questo si spiega nella realtà, quella americana, dove la trasformazione del meccanismo democratico in costituzione mista è più avanzato e consolidato.
Oltre mezzo secolo fa Kurt von Fritz, uno dei maggiori storici del pensiero antico, passato dalla Germania agli Usa già negli anni Trenta, scrisse un imponente trattato The Theory of the Mixed Constitution in Antiquity: a Critical Analysis of Polybius’ Political Ideas (Columbia University Press, 1951) partendo dal presupposto non erroneo secondo cui «nessuna parte della teoria politica antica ha avuto maggior influenza sulla moderna politica (né solo sulla prassi) che la teoria della mixed constitution ». Essa ha avuto in Polibio, greco trapiantato a Roma come ostaggio di guerra e ben presto conquistato alla totale ammirazione del «modello» romano, il suo più convinto assertore.
Una tale costituzione parve a Polibio il vero fondamento della solidità e della durevolezza di Roma. Egli riteneva che ciò fosse apparso chiaro in special modo nel momento del massimo tracollo, al tempo della disfatta di Canne. Roma aveva dimostrato appunto in quella circostanza il massimo di capacità di resistenza, e ciò - secondo Polibio - appunto grazie al suo ordinamento. È questa la ragione per cui il libro dedicato alla costituzione romana, il VI, trova posto, nell’economia generale dell’opera, come prosecuzione del racconto relativo a Roma dopo la celebre e sfortunata battaglia.
Il libro VI però non incomincia in medias res con la descrizione dell’ordinamento politico romano. A tale descrizione si giunge dopo un’ampia premessa: dopo uno svolgimento, che occupa la prima parte del libro, rivolto a classificare i vari generi di costituzioni e a svelare il meccanismo del loro incrinarsi e trasmutarsi in altri e diversi ordinamenti. Per quel che riguarda la classificazione delle costituzioni, Polibio ha ben presente l’impianto platonico e aristotelico, che «raddoppia», per così dire, le forme politiche con la distinzione tra forme «pure» e forme «degenerate » (monarchia/tirannide; aristocrazia/ oligarchia; democrazia/oclocrazia). È una distinzione caratteristica del pensiero antidemocratico. Si può dire, schematizzando, che la più plausibile risposta al quesito intorno alle fonti della teoria polibiana del ciclo costituzionale sia che si tratta in sostanza dell’VIII libro della Repubblica platonica (Platone è l’unico autore che Polibio cita in questo contesto) ma letto alla maniera in cui lo leggeva (irrigidendolo) Aristotele. Polibio ha, sulla scia di Aristotele, assunto la successione tracciata da Platone come un itinerario storico-genetico.
Merito di Platone è considerata l’introduzione dei «doppi», delle forme «degenerate» accanto a quelle pure. Ed è certo lì l’origine della teoria del mutamento. Senza la nozione tipicamente dinamica di «degenerazione» non vi sarebbe altro che la immobile paratassi delle tre forme tradizionali (alla maniera, per fare qualche esempio, del preambolo della Ciropedia di Senofonte o del pretenzioso esordio del Contro Ctesifonte di Eschine). Non a caso la spinta verso il mutamento viene dalla pleonexía, dal «comportamento prevaricatore» del gruppo dominante, mentre la reazione a tale degenerazione dà vita a nuove forme politiche. È qui il nesso tra degenerazione e movimento. Ma la radice più remota di una tale riflessione - i cui elementi costitutivi sono lo sdoppiamento delle forme, la nozione di degenerazione ed il ciclo - è da cercarsi ancora più indietro: è nel dibattito costituzionale erodoteo (III, 80-82), la cui fonte d’ispirazione è nella riflessione politica della sofistica (per esempio le Antilogie di Protagora).
Il compendio polibiano ha avuto notevole fortuna. Ma tale fortuna è dipesa non tanto dalla originalità (invero scarsa) della riflessione teorica, quanto dal fatto che ad essa si collega una innovativa interpretazione dell’ordinamento politico romano. Polibio è fiero di tale novità. Del durevole prestigio che questo piccolo manuale costituzionale, incorporato da Polibio nella sua opera, ha goduto agli albori del pensiero politico moderno è segno chiaro la parafrasi, e talvolta letterale ripresa, che ne fa Machiavelli nel I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-1519), intitolato appunto Di quante spezie sono le repubbliche e di quale fu la repubblica romana.
Ai moderni questa classificazione non basta più. La contestazione alla radice del modello classico delle sei forme costituzionali (tre pure e tre degenerate) verrà un secolo dopo, da Thomas Hobbes. Quella distinzione suscita il suo sarcasmo e viene da lui fatta risalire appunto agli «scrittori greci e romani» e ai loro moderni seguaci: «Non ci si convincerà facilmente - scrive nel De Cive (VII, 3) - che il regno e la tirannide non sono specie diverse di Stato (...) In cosa differisca il re dal tiranno va ricercato con la ragione, non con la passione. In primo luogo, non differiscono nel fatto che il secondo abbia maggiore potere del primo, perché non si può dare potere maggiore di quello supremo. Neppure differiscono perché la potenza dell’uno è limitata e quella dell’altro no. Chi ha una potenza limitata non è re, ma suddito di chi gli pone limiti. Inoltre non differiscono per il modo in cui hanno conquistato il potere.
Infatti, se in uno Stato democratico o aristocratico un cittadino si impadronisce con la forza del potere supremo, qualora ottenga il consenso dei cittadini, diviene monarca legittimo; altrimenti è un nemico, non un tiranno. Differiscono quindi solo per l’esercizio del potere: è re chi governa rettamente, tiranno chi governa in altro modo. La questione dunque si riduce a questo, che se i cittadini pensano che un re legittimamente innalzato al potere supremo esercita bene il suo potere, lo chiamano re; altrimenti tiranno. Perciò regno e tirannide non sono forme diverse di Stato; bensì allo stesso monarca viene dato il nome di re in segno di onore, e di tiranno in segno di disprezzo. Quello che si trova scritto nei libri contro i tiranni, trae origine dagli scrittori greci e romani, che erano governati in parte dal popolo e in parte dagli ottimati, e quindi odiavano non solo i tiranni ma anche i re». Aspro, ma decisivo. Era bastata la crisi graccana a far saltare la «macchina perfetta» che aveva sedotto Polibio, persuaso di aver trovato a Roma la soluzione degli inesausti conflitti politici che avevano dilaniato le città greche.
Marina di Camerota
La democrazia alla prova degli dei
Apre la Scuola estiva della Fondazione Italianieuropei
di i.d. [Ida Dominijanni] (il manifesto, 23.05.2008).
«La filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri», diceva Hegel, ed è con questo motto che la Fondazione Italianieuropei sigilla l’avvio della sua International Summer School (Scuola estiva internazionale per chi amasse la lingua materna) di filosofia e politica, che apre i battenti oggi a Marina di Camerota con un impegnato e impegnativo incontro su «Religione e democrazia». Sempre Hegel però avvertiva pure che la nottola di Minerva vola sempre al crepuscolo: «a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre tardi..., dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta...Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e dal chiaroscuro esso non si lascia ringiovanire». Al primo sigillo allora la Fondazione Italianieuropei potrebbe affiancare questo secondo, giusto per non dimenticare, alzando il tiro del pensiero in tempi di bassa per la politica, che il pensiero nutre la politica ma non può sostituirla, e nemmeno ringiovanirla. Basterà comunque l’autorità di Hegel a convincere le cronache che di religione e democrazia effettivamente si tratta nella Summer School, e non di come ricompattare le forze dalemiane dentro e contro il Pd veltroniano? Auguriamoci di sì, perché il tema merita anche se, coi tempi che corrono in Italia e nel mondo, la nottola rischia di alzarsi per l’appunto al tramonto, della democrazia nella fattispecie.
Di ancoraggio ai tempi che corrono se ne possono trovare a volontà, per il programma in tre giorni e sei sessioni della scuola. Aprono un filosofo, Roberto Esposito, e un giurista, Stefano Rodotà, sul tema «Religione e diritti umani»: due prospettive diverse, teoreticamente anzi opposte (Esposito contesta in radice l’idea di «persona» come base del diritto e dei diritti che Rodotà invece difende), a confronto, annuncia il programma, sullo stato dei diritti umani nel mondo, su come ricomporre diritto e vita, soggetto giuridico e sostrato biologico, su quale sia la definizione dell’umano a cui agganciare i diritti fondamentali. Ottime domande, specialmente se non si evade il terreno bruciante su cui ce le propone la cronaca: a proposito di razzismo e di migranti, per dire, e non solo di statuto dell’embrione o di questioni «eticamente sensibili».
Terreno bruciante anche sotto la seconda sessione, su «Laicità e stato costituzionale». «Nell’Occidente contemporaneo - avverte il programma - attraversato dai problemi inediti delle società multirazziali e da un imprevisto ritorno di un ruolo pubblico delle religioni, la laicità torna a essere un problema teorico e politico», cui le Costituzioni del secondo dopoguerra non sempre riescono a far fronte. Verissimo. E’ pur vero però che ci sono Costituzioni come quella francese che eccedono in fede laica ce ne sono altre, come quella italiana, che eccedono in concordati cattolici, e prima che la società multietnica non riescono a fronteggiare le coppie di fatto. Ad Alfonso Catania, Luigi Ferrajoli e Luciano Violante le risposte.
Terzo tema, «Identità e integrazione»: anche qui stiamo nel cuore del presente e dei suoi conflitti, cronaca docet. Ne parleranno Remo Bodei, Vincenzo Vitiello e Eugenio Mazzarella, tra le voci migliori disponibili, anche se soprattutto (e non solo) in materia di identità e differenza la voce della filosofia femminile non sarebbe stata di troppo: ma per quanto programmi di aprirsi al vivaio dei filosofi quarntenni, la Fondazione resta saldamente monosex. Ecco infatti gli altri nomi: Mons. Pietro Coda e Peter Sloterdijk, uno dei filosofi più interessanti del panorama europeo contemporaneo, su «Chiesa e società post-secolare»; Salvatore Natoli e Felix Duque su «Occidente, relativismo e fondamentalismo religioso»; e in chiusura Tzvetan Todorov, Charles Larmore e Massimo D’Alema, moderatore Mario Orfeo, su «Religione e democrazia in Europa e negli Stati uniti», segnatamente su questo quesito: tra le due sponde dell’Atlantico, «c’è davvero un God gap da colpare, o c’è una critica della religione da rinnovare»?
La religione non è nemica
di Barbara Spinelli (La Stampa, 25/5/2008)
Il rapporto tra religione e politica è divenuto sempre più un assillo, da quando l’Islam ha fatto ingresso - con forza, spesso con violenza - in Occidente. Si è diffusa la paura, di fronte a una religione che molti ritengono troppo dogmatica, politicizzata, esclusiva. L’allarme s’è esteso alla Chiesa cattolica, che ha reagito alla sfida mettendo in questione l’ecumenismo del Concilio Vaticano II. Nella visione di Benedetto XVI, religione e politica devono concatenarsi di nuovo, e il pericolo è la chiusura della fede nel privato: solo influendo sul farsi delle leggi, solo delimitando la politica e la sua autonomia, il cristianesimo può riprendersi, in una sorta di imitatio dell’Islam. La laicità è sospettata di distruggere la fede, separandola dalla politica, e ogni discorso laico tende a esser chiamato, con sprezzo intimorito, laicista. I politici stessi corrono dietro a questi stereotipi. Se c’è affievolimento delle fedi, la colpa deve essere fuori dalle chiese: nella politica. Viviamo nel regno dello stereotipo: non l’esperienza ci guida, ma opinioni preconcette e fatali. Fatalmente la religione privatizzata degenera in relativismo. Fatalmente l’ortodossia secerne intolleranza. La politica della paura si nutre di questi stereotipi.
L’esperienza dice il contrario. Lo si apprende da uno studio illuminante pubblicato nei giorni scorsi della Harvard Kennedy School: il New York Times del 20 maggio ne dà un riassunto, redatto da tre professori (David Clingingsmith, Asim Ijaz Khwaja, Michael Kremer). La ricerca è su un evento centrale dell’Islam: il pellegrinaggio alla Mecca (hajj). L’indagine confronta le opinioni dei pellegrini con quelle dei fedeli che non hanno fatto il viaggio - in Pakistan - e esplora l’effetto del hajj nei 5-8 mesi successivi. I risultati sono dirompenti, e destabilizzano l’imperio esercitato sulle nostre menti dai luoghi comuni. Non è l’ortodossia a creare intolleranza, ma anzi l’ortodossia in certe circostanze produce pacificazione e tolleranza. Non è l’ortodossia a respingere la separazione fra politica e religione, e la forza di quest’ultima non si recupera restaurando commistioni e pressioni. Ne escono malconce le guide religiose attratte dalla restaurazione, così come le forze laiche che temono l’intensità - magari fondamentalista - del vissuto religioso. Analisi di questo genere fanno bene alla mente, le danno ossigeno: è bello quando occorre rivedere d’un colpo le opinioni più consolidate. È un relativismo che fa pensare, trasformandoci nei «mendicanti di senso» descritti da Dario Antiseri. Che ci consente di riscoprire le intuizioni di Chesterton sui benefici delle ortodossie, delle eresie. Il giudizio dei tre professori è infatti chiaro: la pratica religiosa ardente, se avviene lontano dal politico (se è profeticamente pre-politica, nelle parole del priore di Bose Enzo Bianchi) facilita il convivere tra popoli, religioni, sessi. Ben altro è il dogmatismo, che non è apertura all’alterità. Che è politica pura, senza un grammo di religiosità.
I fedeli che rispondono al questionario confermano in pieno questa supposizione. Il pellegrinaggio unisce, per giorni, individui che nelle rispettive patrie non conoscono simili prove, che ti gettano nel diverso e nel molteplice. Mescola uomini e donne, rende eguali credi e sette. Tutti son vestiti di bianco, tesi non alla competizione ma alla cooperazione. Le idolatrie locali, le piccole identità, tendono a sfilacciarsi, anche dopo il pellegrinaggio: l’universalismo religioso torna in primo piano. Molto più di chi non partecipa al hajj, i pellegrini vengono a contatto con esistenze e pratiche ignote, e il contatto crea angoscia, acuta fatica fisica: soprattutto nelle donne. Da quest’angoscia nascono tolleranza, curiosità. Anche il rapporto con le donne, scabroso nell’Islam, cambia. D’un tratto la donna è accanto a te, prega con te, vestita di bianco come te. D’un tratto pakistani o sauditi scoprono la maggior libertà delle donne indonesiane, malesi.
Gli autori del rapporto citano il caso di Malcolm X, che scombussolò la propria visione dell’America e del conflitto razziale, dopo un hajj nel ’64. In una lettera dalla Mecca scrisse: «Tutti partecipiamo allo stesso rituale, mostrando uno spirito di unità e fratellanza che la mia esperienza in America mi aveva portato a credere non potesse mai esistere fra bianchi e non bianchi. (...) Potrete restare sorpresi ma, nel pellegrinaggio, ciò che ho visto e sperimentato mi ha indotto a modificare radicalmente principi da me ritenuti veritieri in precedenza».
L’affacciarsi sul diverso non avviene abbandonando la pratica religiosa ma anzi intensificandola, trasformandola in ascesi. Dopo il hajj i fedeli vanno più spesso in moschea, pregano più spesso, osservano più diligentemente i digiuni. Ma non sono queste pratiche a chiuderli al mondo esterno. Non è negando loro le moschee che li aiutiamo a ridurre l’ostilità antioccidentale. È l’uniformità tribale che secerne inimicizia: l’uniformità d’una fede locale o anche - è la conclusione di Rowan Williams primate d’Inghilterra - l’uniformità di leggi statali incapaci d’accogliere le diversità e infedeli al vero insegnamento dei Lumi («La grande protesta dell’Illuminismo era contro un’autorità che si richiamava a un’unica tradizione», ha detto il primate nel febbraio scorso).
Due altri punti essenziali sottolineati dal questionario sono il rapporto fra religione e politica e quello con i non musulmani. L’addensata ortodossia del praticante-pellegrino non aspira a relazioni più strette tra religione e politica, né influenza negativamente lo sguardo sull’Occidente. Il peso della fede nella politica addirittura scema. I reduci del hajj sono meno inclini ad appoggiare l’Islam politico, meno inclini a preconizzare uno Stato che impartisca ingiunzioni religiose e un clero che interferisca nella giustizia e nelle leggi. Sono anni che in Occidente parliamo dell’ortodossia di Bin Laden e dei terroristi, senza sospettare che il loro rapporto con la pratica religiosa è probabilmente inesistente. In realtà non sono religiosi, ma politici allo stato puro. I pellegrini s’abituano a credere meno in Bin Laden, andando alla Mecca. Non osano magari attaccarlo, ma sono portati a giudicare incorrette le sue condotte più dei musulmani restati fuori dal hajj. I pakistani sono anche più propensi a pacificarsi con l’India, e a condannare la violenza contro le donne e i delitti d’onore.
Una religione che incivilisce invece di imbarbarire. Che tanto più apre al non musulmano e al diverso, quanto più il fedele è immerso nella trepidazione estatica del viaggio sacro, almeno una volta nella propria vita. Non è semplicemente il viaggiare che opera questo, perché viaggiare suscita voglia d’emigrare e il pellegrinaggio no. Il pellegrino scopre la pace con l’altro, ma non grazie a speciali pedagogie dottrinali: quel che lo cambia nell’intimo è il vissuto religioso, è l’uscire da identità uniformi e corte.
Gli stereotipi crescono quando non c’è religiosità autentica: questo e non il rapporto con la politica è il problema nell’Islam come nel cristianesimo (il cristianesimo in fondo lo sa, avendolo capito per primo). Rispondere con il rifiuto dell’ecumenismo e con l’esaltazione in Europa di un’unica identità religiosa significa non esporre più il cristiano alla diversità o alle eresie: dunque viziarlo, spezzarne l’universalismo, in fin dei conti imbalsamarlo e sfinirlo.
La Chiesa ha una forza rispetto all’Islam: ha una gerarchia centralizzata, che impedisce frantumazioni tribali. Si è separata dagli Stati nel corso della storia, spiritualizzandosi. Ma se rinuncia all’ecumenismo perde, diventa anch’essa tribù. Non è l’ortodossia il nemico, ma il suo uso politico. La laicità è stata inventata per sventare quest’uso, non per sventare la religiosità.
Massimo D’Alema: «Rischi per lo Stato laico da un patto tra Chiesa e destra»
di Andrea Carugati (l’Unità, 26.05.2008)
In Italia c’è un rischio per la laicità dello Stato. Che si concretizzerà se la Chiesa «cederà alla tentazione demoniaca del potere, che già ha prodotto errori nella sua storia». Se cioè ci sarà un «patto di potenza» tra la Chiesa e la destra, un patto cementato da leggi che traducano la morale cattolica in norme «imposte a tutti». Massimo D’Alema lancia l’allarme sulla laicità durante la sua relazione conclusiva del seminario su “religione e democrazia”, organizzato dalla Fondazione Italianieuropei, che si è chiuso ieri a Marina di Camerota. Lo fa senza alcuna vis polemica o laicista, al termine di tre giorni di riflessioni alte, con intellettuali di fama internazionale come Remo Bodei e Tzvetan Todorov.
Secondo D’Alema questa alleanza tra Chiesa e destra metterebbe in pericolo il «carattere pluralistico, democratico e liberale dello Stato». Di qui il monito alle gerarchie cattoliche, affinché «non indirizzino il proprio peso politico da una parte, ottenendo in cambio la tutela di principi e valori che diventano leggi valide per tutti». Anche per chi cattolico non è, e su aborto e fecondazione, ad esempio, ha convinzioni morali diverse.
L’ex ministro degli Esteri inserisce questo concetto in una lunga relazione sulla crisi dell’Occidente, dopo la sconfitta delle ideologie di mercato che hanno dato spinta alla globalizzazione: crisi in cui la religione ha assunto un ruolo «di supplenza», di «identità e protezione» per società sempre più «smarrite e incerte sul proprio futuro». In questo contesto «la destra ha preso a prestito la religione come elemento coesivo nel conflitto dell’Occidente con altre civiltà, come è avvenuto, con le dovute differenze, nel mondo islamico». La destra lo ha fatto perché «è stata migliore interprete di ciò che si muove nel fondo delle nostre società».
E tuttavia questo esito, l’alleanza tra chiesa e destra, è tutt’altro che scontato: anzi, secondo D’Alema, il ritorno della religione in primo piano nello spazio pubblico potrebbe avere effetti di tutt’altro segno se la Chiesa non cederà alla tentazione del fondamentalismo: «Il sentimento religioso non solo non è incompatibile con la laicità, ma può ridare forza e prospettiva alla politica», spiega. Può essere uno di quegli «affluenti» di cui «la politica ha bisogno per tornare a suscitare passioni». Ma perché questo avvenga è necessario che all’unità ecclesiale si affianchi un forte «pluralismo delle scelte sociali e politiche». Che emergano le «linee di frattura dentro il movimento cattolico».
Ed è necessario che la chiesa recuperi la sua «carica di universalità», che «non si confini in una alleanza con l’Occidente». D’Alema si richiama al Concilio, alla «Gaudium et spes» cita l’intervento di sabato qui al seminario di monsignor Piero Coda, presidente dell’Associazione teologica italiana, che aveva ricordato come «neanche un Papa possa mettere in discussione il Concilio Vaticano II, solo un nuovo Concilio può farlo». E aveva invitato a «non identificare le posizioni della chiesa con quelle della gerarchia», a guardare «anche a cosa matura e lievita nella base cattolica», nell’associazionismo. D’Alema accoglie questa prospettiva, attento a cosa si muove dentro la Chiesa e invita a più riprese a un «dialogo fecondo» tra laici e cattolici.
C’è spazio anche per un supplemento di riflessione sulla sconfitta elettorale. D’Alema cita l’analisi di Mauro Calise e dice: «Non abbiamo tenuto conto di queste sconvolgenti novità,ci siamo rivolti a un voto di opinione razionale, senza capire che stava tornando prepotentemente un voto identitario, mosso soprattutto da passioni e paure, anche dalla forza di argomenti irrazionali. La destra ha intercettato questo spostamento di pezzi di comunità». Secondo D’Alema, però è troppo semplicistico prendersela con «l’ignavia dei dirigenti», che accusarli di non aver fatto sentire abbastanza i valori del centrosinistra. «Io temo che le tante nostre buone ragioni, dalla pace, alla tolleranza, ai diritti, non riescano a costruire consenso per l’impotenza della politica, per l’indebolimento degli strumenti in grado di agire sulla realtà,a partire dallo stato nazionale».
Conclude D’Alema: «Abbiamo passato tanto tempo a decostruire, dopo che la politica aveva suscitato aspettative ipertrofiche: ora è il momento di ricostruire, un riformismo senza visione del futuro è solo ingegneria sociale che non regge la sfida con fondamentalismi». «Ma è un programma di lungo respiro...». Intanto il lavoro della Fondazione va avanti: «Non voglio fare un monastero benedettino», sorride D’Alema. «Né fare dibattiti di sezione. Vogliamo rimettere in comunicazione politica e cultura, in un progetto collegato al Pd ma non partitico, capace di dialogare anche con altri».
Difendo la laicità dello Stato
di Massimo D’Alema (Corriere della Sera, 28.05.2008)
Caro direttore, non può che essere motivo di soddisfazione per noi organizzatori, con la Fondazione Italianieuropei, del corso estivo di formazione dedicato a «Religione e democrazia», che i temi sollevati nella tre-giorni cilentana abbiano suscitato interesse, dibattito e prese di posizione nel mondo politico e intellettuale.
Desta tuttavia un qualche stupore la perentorietà dei commenti da parte di chi non ha potuto valutare che spezzoni, frammenti o frasi separate da ogni contesto senza potere più approfonditamente valutare un confronto che ha impegnato un gruppo di intellettuali tra i più prestigiosi, italiani e stranieri.
Non un raduno anticlericale, dunque, o una riunione di nostalgici, ma un confronto che ha coinvolto, di fronte a una platea attenta di giovani, personalità di diversa cultura, molti cattolici tra i quali il presidente dell’Associazione teologica italiana. Vorrei ricordare che, nel dibattito contemporaneo, vengono proprio dall’interno del mondo cattolico le espressioni più inquiete e preoccupate per una possibile commistione tra fede e politica, tra religione e potere.
Ha scritto Gustavo Zagrebelsky nel suo «Contro l’etica della verità»: «La Chiesa cattolica è direttamente coinvolta. Le si offre l’occasione di una rivincita con un aspetto costitutivo del "mondo moderno", la democrazia: una rivincita che una parte di essa forse ha sempre desiderato e aspettato. I nostri procacciatori di identità sono i nuovi teologi politici. Essi, in mancanza di chiese d’altro genere - ideologie forti e globali, filosofie della storia, promesse messianiche -, si rivolgono a quella che pare loro l’odierna depositaria di valori identitari utili alla loro battaglia, la Chiesa cattolica, e le offrono un’alleanza. È la grande tentazione del nostro tempo, una delle tre tentazioni sataniche di Gesù di Nazareth nel deserto, la tentazione del potere».
Nella stessa lezione di padre Coda vi è stata una forte riproposizione di una visione post conciliare dell’impegno pubblico dei cattolici, «sale e lievito» all’interno di una società pluralistica, in contrapposizione a una ben presente tentazione egemonica.
Questo nodo del rapporto tra religione e potere non è certo un tema nuovo. Ha assunto una rinnovata centralità nel confronto culturale e politico proprio di questo tempo a seguito della crisi delle società occidentali di fronte ai mutamenti rapidi e sconvolgenti e alle drammatiche sfide legate alla globalizzazione.
C’è una nuova destra politica e intellettuale che si volge ai valori religiosi della tradizione giudaico-cristiana come condizione perché l’Occidente ritrovi l’orgoglio di una propria identità nella sfida o persino nel conflitto con altre civiltà, con altri mondi. Vi sono molte testimonianze di questa sovrapposizione crescente fra discorso politico e valori religiosi. Tzvetan Todorov ci ha offerto una acuta analisi critica di una testo esemplare di Nicolas Sarkozy sulla religione cristiana come fondamento della convivenza nella laicissima Francia. O, per venire a una fonte più vicina a noi, nel brillante saggio di Giulio Tremonti «La paura e la speranza» si legge «la tradizione religiosa può compensare il vuoto di valori delle nostre democrazie ...». E ancora «per identificare i valori serve un’anima, per difendere i valori serve il potere politico». Davvero, allora, come è stato scritto, lo stato laico secolarizzato prigioniero ormai del relativismo etico ha bisogno di un fondamento religioso per giustificare se stesso? Questo interrogativo posto da un grande giurista tedesco molti anni fa è evocato da un più recente dialogo tra Joseph Ratzinger e Jürgen Habermas. È lo stesso futuro Pontefice a cogliere il rischio di una aporia: «Se lo Stato accetta il fondamento religioso - egli scrive - smette di essere pluralistico. Così sia lo Stato che la Chiesa perdono se stessi».
Non mi ha mai convinto il dibattito sul cosiddetto relativismo etico. Continuo a pensare che la nostra convivenza poggia su un insieme di valori morali (pace, tolleranza, pluralismo, libertà, solidarietà sociale...), di diritti riconosciuti e di norme giuridiche che hanno la loro genesi nella storia e nella civiltà europee; che comprendono anche la tradizione giudaico-cristiana, ma non si riducono a questa.
Solo il riconoscimento di questo pluralismo può fondare la laicità dello Stato e liberare la responsabilità della politica. Nel pluralismo c’è anche la garanzia più forte della libertà della Chiesa: libertà di parlare all’insieme delle nostre società e non solo di una parte; libertà di sprigionare la carica di universalità del messaggio cristiano che non può ridursi a «ideologia dell’Occidente ».
Non a caso nella mia conferenza non ho rivolto accuse alla Chiesa (così come risulta chiaro dalla cronaca del Corriere) ma l’invito a non cadere nella tentazione di un patto con il potere politico, di una commistione tra politica e fede, tra norma giuridica e convinzione etica-religiosa. Un invito, non un’accusa. L’invito di un laico che crede nella laicità della politica, ma che è nello stesso tempo ben consapevole del ruolo essenziale che i cristiani hanno nella vita pubblica e del contributo che da essi può venire a una visione alta e nobile dell’agire politico. Sono stato accusato di parlare come se ci fosse sempre il Pci. Si potrebbe discutere a lungo del rapporto che fu sempre intenso e rispettoso tra il Pci e il mondo cattolico. Ma sinceramente il Pci non c’entra niente con questa riflessione.
Semmai, in materia di difesa della laicità dello Stato, nel nostro seminario sono stati ricordati alcuni momenti cruciali della storia della Dc. Penso alla fermezza e anche alla sofferenza personale con cui Alcide De Gasperi seppe difendere dalle pressioni ecclesiastiche la scelta antifascista della Dc (Andrea Riccardi ci ha ricordato la pagina straordinaria delle elezioni romane) e la collaborazione con i partiti laici contro l’idea di un monopolio cattolico del potere. Penso alla testimonianza di Aldo Moro che rivolgendosi al consiglio nazionale della Dc all’indomani del referendum sul divorzio diceva: «Settori dell’opinione pubblica sono ora ben più netti nel richiedere che nessuna forzatura sia fatta con lo strumento della legge, con l’autorità del potere al modo comune di intendere e disciplinare in alcuni punti sensibili i rapporti umani. Di questa circostanza non si può non tener conto perché essa tocca ormai profondamente la vita democratica del nostro Paese, consigliando talvolta di realizzare la difesa di principi e di valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Una grande lezione di laicità da parte di un leader politico cattolico che rispetta appunto il fatto che lo Stato è di tutti e che il potere non può essere posto al servizio delle convinzioni pure nobili di una parte. Resto convinto che anche di fronte ai delicati problemi di oggi che toccano, di fronte ai progressi della scienza e delle tecniche, i temi della vita e della dignità umana, resti tuttavia valida la visione dello Stato testimoniata da Aldo Moro. E spero davvero che questo sia un patrimonio comune di quanti si sono uniti nel Partito democratico.