Nelle sale il film di Zack Snyder, fedelissimo al romanzo a fumetti di Frank Miller da cui è tratto. Protagonista, un vero supereroe: il re Leonida, che combatte contro Serse
Arriva "300", superkolossal su Sparta
tra battaglie, sangue e potenza visiva
Uno sbarco preceduto da molte polemiche: sulla precisione storica, sul razzismo verso i mediorientali. Ma forse la soluzione migliore è non prenderlo troppo sul serio...
di CLAUDIA MORGOGLIONE *
ROMA - Per apprezzare un kolossal come 300 - presentato ieri sera, tra gli applausi, alla stampa italiana - bisogna sbarazzarsi di un pregiudizio. E cioè che il film tratto dall’omonimo romanzo a fumetti di Frank Miller, e centrato sulla battaglia delle Termopili tra gli spartani e i persiani, sia una pellicola storica. Con pretese di realismo, di precisione filologica, di fedeltà alle fonti e ai documenti. Se si parte da questo (errato) presupposto, allora vedere questo pugno di guerrieri iper-palestrati, che affrontano il massacro a suon di musica heavy metal, diventa un’esperienza insopportabile.
Se invece si affronta la pellicola per quello che è - la trasposizione di una graphic novel di culto, realizzata dall’autore di Sin City e del batmaniano Il ritorno del Cavaliere oscuro - allora la faccenda diventa interessante. E anche divertente: perché in quasi due ore di film, diretto da Zack Snyder, si assiste a una fantasmagoria di battaglie, scontri, momenti epici, sangue, teste che volano, eccetera. Con uno stile visivo fedelissimo al fumetto, e con un iperrealismo che conquisterà una buona fetta di spettatori.
Eppure, al suo arrivo nelle sale italiane, 300 - attuale campione d’incassi negli Usa - è già preceduto da una bella scia di polemiche. La prima riguarda, appunto, la fedeltà storica dell’opera, il suo modo di raccontare la mitica battaglia che si svolse, nel 480 avanti Cristo, tra un manipolo di (trecento) spartani guidati dal loro re, Leonida, e le decine di migliaia di soldati dell’imperatore persiano Serse, deciso a conquistare anche la Grecia. Su questo punto, come già detto, la questione è chiara: la precisione filologica qui non è di casa. Perché la vera fonte del film non sono i documenti, ma il fumetto.
L’altra polemica è un classico argomento politicamente corretto: secondo alcuni detrattori - e perfino per le autorità iraniane - il film di Snyder sarebbe razzista. Rappresentando i persiani, cioé gli attuali popoli mediorientali e del Golfo Persico, come immorali, lascivi, infidi, coraggiosi solo perché dotati di una macchina bellica impressionante. A partire dal loro re. Annotazione assolutamente vera, non c’è dubbio; la questione, semmai, è se vale la pena - o meno - prendere sul serio un kolossal fumettoso come questo.
Un film che, al contrario, si inserisce nella tradizione delle pellicole dedicate ai supereroi. Perché un supereroe e tutto tondo, senza cedimenti e senza sbavature, è il protagonista, Leonida (Gerard Butler): educato sin da bambino alla durissima disciplina della città-stato di Sparta, diventa un sovrano guerriero dall’insuperabile coraggio. E così, quando viene a sapere che le truppe di Serse (Rodrigo Santoro) stanno per invadere la Grecia, si rivolge a una casta di orribili sacerdoti, gli Efori, per sapere l’oracolo.
Corrotti dal denaro persiano, i sacerdoti dicono di non combattere. Ma il re fa di testa sua: contro il parere del Consiglio cittadino, e appoggiato dalla bella e coraggiosa moglie Gorgo (Lena Headey), sceglie trecento tra i migliori combattenti e decide di attirare l’esercito nemico nel passaggio delle Termopili. Una gola strettissima, in cui la devastante superiorità numerica dei persiani perde molta della sua forza.
A questo punto, assistiamo alle scene di battaglia, girate - come tutto il film - con un misto di sequenze dal vivo e rielaborazione in 3-D. Sequenze fatte apposta per esaltare il valore militare e l’intelligenza degli spartani, contro la protervia decadente degli avversari. Proprio mentre, in patria, Gorgo è costretta a sventare gli intrighi del corrotto Terone (Dominic West)... Alla fine, per i nostri eroi, il destino è forse segnato; ma come spiega il narratore, il soldato Dilios (David Wenham, già visto nella trilogia Il Signore degli anelli), il loro sacrificio porterà le città greche a unirsi. E a sventare la minaccia che viene da Est.
Questa la trama. Ma a svettare, nel film, sono le scene di battaglia, e lo stile visivo della pellicola. Compreso il suo particolarissimo colore: per ottenerlo, il regista ha intensificato il nero dell’immagine, e accentuato la saturazione cromatica. Il tutto, con estrema fedeltà al mondo creato da Miller (che qui è anche produttore esecutivo): "Non volevo girare qualcosa che sembrasse una fotografia - ha spiegato Snyder - ma far entrare il pubblico nel mondo creato dalla graphic novel di Frank. Non è un dramma storico, non è una storia lineare: volevamo creare un’esperienza unica".
Spetterà al pubblico italiano, adesso, promuovere o bocciare l’operazione. Apprezzare, o meno, il film e il personaggio che lo incarna, Leonida. Che comunque, in molti spettatori, provocherà quasi una sensazione di sollievo: dopo tanti supereroi tormentati da superproblemi, dall’Uomo Ragno a Batman, finalmente eccone uno che non deve chiedere mai...
* la Repubblica, 21 marzo 2007
Per chi vuole curiosare - e riflettere al di là del film, nel sito, si cfr.:
IL REFERENDUM GRECO E LE TERMOPILI
Penso che il giorno del referendum greco sia una specie di "porta calda" che accomuna questa emergenza a quella che vide i Greci di Leonida contrapporsi alle soverchianti forze d’invasione dell’impero persiano di Serse nel 480 a. C. che alle Termopili (termopili = porte calde) bloccarono e ritardarono l’avanzata dell’esercito persiano. Allo stesso modo, oggi, ancora una volta il destino storico conferisce ai Greci il drammatico e difficile compito di contrapporsi all’avanzata della diabolica dittatura economico-finanziaria del cosiddetto "nuovo ordine mondiale" che sta tentando di distruggere la democrazia e libertà dei popoli e delle nazioni attraverso una capillare e demoniaca operazione ideologico-finanziaria con cui ha riversato sulle spalle dei popoli e delle nazioni, attraverso il trucco del "debito pubblico", la responsabilità del loro fallimento. Che Dio aiuti i Greci a gridare forte il NO che salverà il pianeta dalla minaccia silenziosa e strisciante della dittatura finanziaria che, attraverso la troika = fondo monetario internazionale, banca centrale europea, unione europea sta mettendo in atto il progetto criminale del dominio finanziario del pianeta.
Gaetano Mirabella
Gli spartani del segretario e gli ateniesi del sindaco
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 07.03.2013)
Richiamarsi, come fanno in questi giorni i «giovani bersaniani», ai trecento spartani caduti alle Termopili per sbarrare (invano) la strada all’esercito persiano può essere il riflesso di buoni studi liceali, oppure anche la eco del film, non proprio un capolavoro, intitolato «Trecento». E può essere l’indizio di un proposito nobilissimo: difendere la posizione fino alla morte.
Ma resta un richiamo piuttosto funesto, tipico di chi è consapevole di essere votato alla sconfitta, e la accetta immolandosi: come ben sapevano i trecento capeggiati da Leonida. In tal caso toccherebbe a Vendola, in quanto poeta, recitare in memoria dei trecento caduti i celebri versi attribuiti a Simonide, definiti da Gennaro Perrotta «la più bella iscrizione funebre del mondo»: «Straniero! Annuncia agli Spartani che noi giaciamo qui per obbedire ai loro ordini!».
Definirsi invece «ateniesi», come i giovani «renziani» in vivace dialettica con i trecento spartani, può essere più promettente. Mentre Sparta fu, secondo una definizione del Führer «lo stato razziale perfetto», Atene fu città aperta, ricca, creativa.
Se si parla, non a torto, di «miracolo greco» pensando a tutto ciò che dobbiamo ai greci (e che l’«Europa tedesca» spesso dimentica), ben più esatto sarebbe parlare di «miracolo ateniese», visto che quasi tutto ciò che s’è fatto poi, nella filosofia, nell’arte, nel teatro, si fece ad Atene. Che tra l’altro ha coniato le parole della politica che adoperiamo tuttora.
Campo della Gloria del cimitero monumentale di Milano, 1 novembre 2009
Intervento di Mons. Gianfranco Bottoni a nome dell’arcivescovado della Diocesi di Milano
La memoria dei morti qui, al Campo della Gloria, esige che ci interroghiamo sempre su come abbiamo raccolto l’eredità spirituale che Caduti e Combattenti per la Liberazione ci hanno lasciato. Rispetto a questo interrogativo mai, finora, ci siamo ritrovati con animo così turbato come oggi. Siamo di fronte, nel nostro paese, ad una caduta senza precedenti della democrazia e dell’etica pubblica. Non è per me facile prendere la parola e dare voce al sentimento di chi nella propria coscienza intende coniugare fede e impegno civile. Preferirei tacere, ma è l’evangelo che chiede di vigilare e di non perdere la speranza.
È giusto riconoscere che la nostra carenza del senso delle istituzioni pubbliche e della loro etica viene da lontano. Affonda le sue radici nella storia di un’Italia frammentata tra signorie e dominazioni, divisa tra guelfi e ghibellini. In essa tentativi di riforma spirituale non hanno potuto imprimere, come invece in altri paesi europei, un alto senso dello stato e della moralità pubblica. Infine, in questi ultimi 150 anni di storia della sua unità, l’Italia si è sempre ritrovata con la “questione democratica” aperta e irrisolta, anche se solo con il fascismo l’involuzione giunse alla morte della democrazia. La Liberazione e l’avvento della Costituzione repubblicana hanno invece fatto rinascere un’Italia democratica, che, per quanto segnata dal noto limite politico di una “democrazia bloccata” (come fu definito), è stata comunque democrazia a sovranità popolare.
La caduta del muro di Berlino aveva creato condizioni favorevoli per superare questo limite posto alla nostra sovranità popolare fin dai tempi di “Yalta”. Infatti la normale fisiologia di una libera democrazia comporta la reale possibilità di alternanze politiche nel governo della cosa pubblica. Ma proprio questo risulta sgradito a poteri che, già prima e ancora oggi, sottopongono a continui contraccolpi le istituzioni democratiche. L’elenco dei fatti che l’attestano sarebbe lungo ma è noto.
Tutti comunque riconosciamo che ad indebolire la tenuta democratica del paese possono, ad esempio, contribuire: campagne di discredito della cultura politica dei partiti; illecite operazioni dei poteri occulti; monopolizzazioni private dei mezzi di comunicazione sociale; mancanza di rigorose norme per sancire incompatibilità e regolare i cosiddetti conflitti di interesse; alleanze segrete con le potenti mafie in cambio della loro sempre più capillare e garantita penetrazione economica e sociale; mito della governabilità a scapito della funzione parlamentare della rappresentanza; progressiva riduzione dello stato di diritto a favore dello stato padrone a conduzione tendenzialmente personale; sconfinamenti di potere dalle proprie competenze da parte di organi statali e conseguenti scontri tra istituzioni; tentativi di imbavagliare la giustizia e di piegarla a interessi privati; devastazione del costume sociale e dell’etica pubblica attraverso corruzioni, legittimazioni dell’illecito, spettacolari esibizioni della trasgressione quale liberatoria opportunità per tutti di dare stura ai più diversi appetiti...
Di questo degrado che indebolisce la democrazia dobbiamo sentirci tutti corresponsabili; nessuno è esente da colpe, neppure le istituzioni religiose. Differente invece resta la valutazione politica se oggi in Italia possiamo ancora, o non più, dire di essere in una reale democrazia. È una valutazione che non compete a questo mio intervento, che intende restare estraneo alla dialettica delle parti e delle opinioni. Al di là delle diverse e opinabili diagnosi, c’è il fatto che oggi molti, forse i più, non si accorgono del processo, comunque in atto, di morte lenta e indolore della democrazia, del processo che potremmo definire di progressiva “eutanasia” della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista.
Fascismo di ieri e populismo di oggi sono fenomeni storicamente differenti, ma hanno in comune la necessità di disfarsi di tutto ciò che è democratico, ritenuto ingombro inutile e avverso. Allo scopo può persino servire la ridicola volgarità dell’ignoranza o della malafede di chi pensa di liquidare come “comunista” o “cattocomunista” ogni forma di difesa dei principi e delle regole della democrazia, ogni denuncia dei soprusi che sono sotto gli occhi di chiunque non sia affetto da miopia e che, non a caso, preoccupano la stampa democratica mondiale.
Il senso della realtà deve però condurci a prendere atto che non serve restare ancorati ad atteggiamenti nostalgici e recriminatori, ignorando i cambiamenti irreversibili avvenuti negli ultimi decenni. Servono invece proposte positivamente innovative e democraticamente qualificate, capaci di rispondere ai reali problemi, alle giuste attese della gente e, negli attuali tempi di crisi, ai sempre più gravi e urgenti bisogni del paese. Perché finisca la deriva dell’antipolitica e della sua abile strumentalizzazione è necessaria una politica nuova e intelligente.
Ci attendiamo non una politica che dica “cose nuove ma non giuste”, secondo la prassi oggi dominante. Neppure ci può bastare la retorica petulante che ripete “cose giuste ma non nuove”. È invece indispensabile che “giusto e nuovo” stiano insieme. Urge perciò progettualità politica, capacità di dire parole e realizzare fatti che sappiano coniugare novità e rettitudine, etica e cultura, unità nazionale e pluralismi, ecc. nel costruire libertà e democrazia, giustizia e pace.
Solo così, nella vita civile, può rinascere la speranza. Certamente la speranza cristiana guarda oltre le contingenza della città terrena. E desidero dirlo proprio pensando ai morti che ricordiamo in questi giorni. La fede ne attende la risurrezione dei corpi alla pienezza della vita e dello shalom biblico. Ma questa grande attesa alimenta anche la speranza umana per l’oggi della storia e per il suo prossimo futuro. Pertanto, perché questa speranza resti accesa, vorrei che idealmente qui, dal Campo della Gloria, si levasse come un appello a tutte le donne e gli uomini di buona volontà.
Vorrei che l’appello si rivolgesse in particolare a coloro che, nell’una e nell’altra parte dei diversi e opposti schieramenti politici, dentro la maggioranza e l’opposizione, si richiamano ai principi della libertà e della democrazia e non hanno del tutto perso il senso delle istituzioni e dell’etica pubblica. A voi diciamo che dinanzi alla storia - e, per chi crede, dinanzi a Dio - avete la responsabilità di fermare l’eutanasia della Repubblica democratica. L’appello è invito a dialogare al di là della dialettica e conflittualità politica, a unirvi nel difendere e rilanciare la democrazia nei suoi fondamenti costituzionali. Non è tempo di contrapposizioni propagandistiche, né di beghe di basso profilo.
L’attuale emergenza e la memoria di chi ha combattuto per la Liberazione vi chiedono di cercare politicamente insieme come uscire, prima che sia troppo tardi, dal rischio di una possibile deriva delle istituzioni repubblicane. Prima delle giuste e necessarie battaglie politiche, ci sta a cuore la salute costituzionale della Repubblica, il bene supremo di un’Italia unitaria e pluralista, che insieme vogliamo “libera e democratica”.
Spartani di George Bush
I 300 di Leonida che diventano film. Esaltando i guerrieri delle Termopili. In un’opera discussa che riesce a far rivivere la storia
di Roberto Saviano *
Hai già tutto in testa. Se conosci la storia delle Termopili, se hai da sempre guardato la trama degli scontri umani attraverso la vicenda dei 300 opliti spartani che nel 480 a. C. si opposero ai disegni di conquista dell’impero persiano.
Leonida e i suoi 300 uomini scelti tra i suoi più fidati combattenti, tutti (o quasi) con figli maschi in grado di garantire a ognuno di loro la discendenza. Al passo stretto delle Termopili tengono testa all’armata più grande che il mondo avesse mai visto, sperando che gli eserciti delle altre città greche trovino il tempo per organizzarsi e sapendo di morire.
’300’, è tratto dal fumetto di Frank Miller, pubblicato qualche anno fa in Italia dalla Magic Press. Il fumetto è un gioiello. Uno di quei capolavori che ascrivi alla grande letteratura. Graphic Novel infatti la definiscono, nome dato ai nuovi racconti di parole e disegni per i quali ’fumetto’ suonerebbe riduttivo. Miller racconta di uno scontro tra mondi, culture vicinissime per geografia e commerci eppure di una distanza siderale. E il paradigma è quello di sempre, quello del bene e del male, della libertà e della schiavitù, dell’onore e del tradimento, della convenienza e del sacrificio. Frank Miller crea il suo Leonida così come ha creato i supereroi Batman e Daredevil e la Persia di Serse è un’antica ’Sin City’ che avanza. La divisione è sempre manichea, il nemico è sempre strapotente, ma corrotto, strapotente perché corrotto, ma anche debole perché è corrotto.
Le articolazioni elementari del bene e quelle del male portano a strade labirintiche. L’epica è questo. Un contenitore colmo di valori, leggende, miti, orgogli, legislazioni della morale, ordini della coscienza, creature della terra e del sangue in cui chiunque può riflettere se stesso, e a cui chiunque può decidere di accordare il senso del proprio quotidiano trovandovi la malta per sentirsi parte di una comunità. O può opporvisi per sempre. E la storia di ’300’ è tutto questo. Negli opliti spartani che si sacrificano per non far sottomettere la Grecia alla tirannide, è tramandato un momento sottratto per sempre al percorso della storia pur essendone parte integrante. La storia diviene epica, i fatti raccontati divengono fondativi di un immaginario e di una cosmogonia di valori. "Spartani questo giorno è vostro per sempre", ricorda Leonida ai suoi opliti. La battaglia delle Termopili è un momento in cui trovare strumenti con cui spiegare la vita. Capirla. Sintetizzarla. E l’epica ha un verso in cui si muove. Ha un vettore. Determinato da chi racconta la storia, e da quali occhi è stata scrutata, e quale stomaco l’ha digerita, e verso quali orecchi viene rivolta. Non c’è scandalo in questo. E la dialettica tra epiche diverse. Questa viene da Occidente, dallo sguardo di Erodoto rinnovato e riplasmato a propria immagine nell’infinità delle volte in cui in poesia, romanzi, drammi o, appunto, film e fumetto è stata rinarrata, sempre qui, in Occidente, un Occidente sempre più occidentale.
Gli Usa sono gli ultimi in grado di fare epica. L’epica si sedimenta e si crea quando è forte il senso di appartenenza a una civiltà e ancor più quando essa si sente minacciata. L’epica la fonda e la difende. In contrapposizione agli altri, ma non può essere che così.
Nessun europeo forse sarebbe in grado di fare un racconto cinematografico epico di questa potenza. Il muscolo, la terra, l’istinto. Per un italiano avrebbe un sapore troppo fascista. Invece Frank Miller, nell’enorme libertà visionaria con cui traduce Erodoto nel linguaggio yankee del fumetto, è riuscito a restituire la forza epica e il dato storiografico. Ed anche il film ci riesce.
Il film ti carica. Come se dietro la poltroncina del cinema qualcuno ti stesse girando la molla esattamente all’altezza del midollo. Quando il messaggero di Serse si reca a Sparta per parlare con il re, con Leonida offrendogli di divenire una satrapia autonoma dell’impero persiano attraverso un tributo di acqua e terra, Leonida lo invita ad andare a vedere nel pozzo più grande di Sparta quanta acqua ci sia. "Questa è blasfemia, nessuno ha mai minacciato un messaggero, questa è pazzia", dirà l’ambasciatore e Leonida puntandogli la punta della spada sotto il mento: "Pazzia? Questa è Sparta". E un calcio al petto lo scaraventa nel fondo del pozzo. E anche la gamba dello spettatore deve farsi forza per non scattare. Quel gesto di Leonida fu un fallimento tattico, perché avrebbe risparmiato sangue, avrebbe mantenuto autonomia a Sparta e l’avrebbe resa alleata dell’impero più stabile, organizzato e pacifico del tempo. Eppure quel calcio insultante e irrispettoso diviene nel racconto epico il rifiuto di qualsiasi forma di sottomissione o compromesso.
Prima della battaglia finale Leonida interpretato da Gerard Butler incredibilmente identico a una pittura vascolare, urla: "Spartani, preparate la colazione e mangiate tanto, perché stasera ceneremo nell’Ade". ’300’ è un tripudio di violenza. Di teste mozze, colli che si piegano spezzati da lame che si ficcano nella clavicola. Ma forse anche in questo mantiene una fedeltà alla verità storica oltre che all’imperativo del pulp. Guardando le centinaia di corpi degli Immortali, la guardia del re dei re dell’imperatore di Persia, accalcarsi contro gli scudi della falange degli opliti, le lance ficcarsi nelle pance, corpi trafitti, muscoli scarnificati dalle ossa, occhi divelti, non poteva non salire alla mente un’equivalenza con le pagine di quello che continuo a ritenere uno dei maggiore scrittori di guerra di tutti i tempi, Lucano. Nel ’Bellum civile’ Lucano scrive che nei campi di battaglia si sguazzava nel sangue, la terra si allagava del sangue dei guerrieri. I combattenti crollavano quando ogni stilla di sangue era uscita dal loro corpo. Si svuotavano tagliuzzati e trafitti. E nel film i combattenti sguazzano nel sangue e i corpi si accatastano in muraglie di morte. E sembra quasi sentire il puzzo di tanta carne morta e ammollata nella fanghiglia di sangue greco e persiano.
Lo spettatore invece non è toccato dai contorcimenti di budella degli antichisti che si sentiranno traditi per quell’impugnatura di spada, quel fregio dei pugnali, la trama e l’ordito delle stoffe, le irregolari ferite sul volto dei sovrani e sugli elmi degli opliti che non sono filologicamente accurati. Ma ’300’ è un film che possiede la potenza della rappresentazione, che crea un immaginario. Questo immaginario mediato dal fumetto di Frank Miller è in realtà sgorgato dal contatto stretto con le fonti storiche, dall’ispirazione dei dipinti vascolari. Ed è notevole la fedeltà alla storia e alla leggenda.
I copricapi dei soldati persiani, gli elmi e gli scudi e persino le scene dove vengono mostrate le diverse etnie dell’esercito di Serse - dagli etiopi agli indiani, passando per i mesopotamici e i libici - aggiungono qualcosa di nuovo e più aggiornato alla verità storica all’epica delle Termopili. Viene anche rappresentato per la prima volta ciò che non era mai stato considerato rappresentabile e difficilmente concepibile già nell’antichità. L’agogeo, ossia l’addestramento umano e guerriero di ogni giovane spartano da dove torni guerriero o non torni più. Il film inizia con parole draconiane: "Quando fu in grado di reggersi in piedi fu battezzato al fuoco del combattimento". A sette anni gli spartani erano sottratti alla famiglia e, divisi in squadre, gli educatori dovevano temprarli soprattutto negli esercizi fisici, nelle privazioni e nelle sofferenze. Indossavano la stessa veste d’estate e d’inverno; portavano il capo scoperto e i piedi nudi, ricevevano un nutrimento assai scarso e, se non riuscivano a saziare la propria fame, potevano rubare. Ma se si lasciavano scoprire, venivano gravemente puniti, non per il furto, ma per l’incapacità di tenerlo celato. Dormivano su giacigli di canne, e una volta all’anno venivano flagellati a sangue.
L’agogeo di Leonida si conclude con l’uccisione di un lupo, una creatura enorme e quasi mitologica che sembra passare al sovrano tutta la sua ferocia. Infatti in ’300’ ci sono anche i mostri, simili a comparse direttamente prelevate dal ’Signore degli Anelli’ di Peter Jackson, orchi e troll tolkieniani. Del resto lo stesso Erodoto continuamente spaventato dalle dimensioni dell’armata nemica di cui racconta prosciugasse i fiumi per dissetarsi, la raffigura come così incommensurabile da divenire un grande corpo mostruoso. L’omaggio al ’Gladiatore’ è evidente. Campi di grano, filtri caldi, perché nell’epica cinematografica statunitense, proprio in quanto epica, tutto si richiama: ’Il Gladiatore’, e poi ’Troy’ e ’Alexander’.
Il regista Zack Snyder sembra aver scelto di stare con gli spartani come tra i banchi di scuola si decide di stare con loro o con gli ateniesi. Parteggia con un cuore ragazzino e quasi si sgomenta per le reazioni della diplomazia iraniana. Ahmadinejad mal ha sopportato come vengono rappresentati i persiani. Troppo crudeli, troppo schiavisti, persino troppo effeminati. Certo nel film non si racconta che la Persia era un continuo partner politico che Atene e Sparta chiamavano in causa ogni qual volta si doveva contare su una tattica per distruggere il proprio nemico, né si racconta di uno degli imperi più pacifici della storia della civiltà umana.
Ma è un film sulle Termopili. Detto ciò, l’esaltazione della morte, del supremo sacrificio come unico modo per accedere alla gloria, dovrebbe interessare Ahmadinejad e forse invitarlo a comprendere che c’è molto più in cui rispecchiarsi nei 300 opliti che negli ori fastosi di Serse e dei suoi persiani. Le immagini corporee annunciano il sacrificio in ogni momento, sin dall’inizio quando Leonida si mette in viaggio con i suoi 300 per le Termopili e i mantelli rossi degli spartani sembrano un unico fiume di sangue. Quando un uomo delle avanguardie di Serse, con la faccia da palestinese, baffuto e scuro promette "le nostre frecce oscureranno il sole" lo spartano gli risponde "allora combatteremo nell’ombra". E stormi di frecce si catapulteranno sui 300 opliti di Leonida protetti solo dai loro scudi, in scene bellissime che vedono le coste dell’Asia minore colme di soldati. È un’alternanza di enormi scorci di battaglie e di paesaggi in cui irrompono le parole spesso setacciate da Erodoto e da tutte le fonti possibili. "Spartani! Arrendetevi e deponete le armi". "Persiani! Venite a prenderle". Questa è una frase che ronza nelle orecchie di chiunque sia invitato a deporre le armi dinanzi a un nemico. Da Casavatore a Caracas. Gli spartani di Leonida del resto non possono ritirarsi. Sparta non conosce questa possibilità nel suo codice militare e nelle anime dei suoi soldati. Sparta non fa prigionieri, non ha pietà e non conosce ritirata. Leonida incontra Serse, interpretato da un Rodrigo Santoro assai bravo: Serse è altissimo almeno due volte Leonida, appare su un trono meraviglioso, con due tori dorati ai lati preceduti da due pesanti leoni. Serse cerca di convincere Leonida a passare tra i suoi uomini: "Immagina quale orribile fato attende i miei nemici, quando io ucciderei con gioia ognuno dei miei uomini per la vittoria". Leonida risponde: "E io morirei per ognuno dei miei soldati". Le due visioni degli eserciti si scontrano. Uomini al servizio di un dio-re contro combattenti comandati da un sovrano guerriero. Quando gli immortali - la guardia di Serse - vengono infilzati, l’uomo che si ritiene un dio, sente un brivido molto umano risalire lungo la schiena. Perché gli spartani non hanno scrittura e moneta, non hanno le biblioteche persiane, né gli astronomi mesopotamici, non hanno le geometrie né migliaia di popoli assoggettati. Ma pensano al racconto. E Leonida sa che senza racconto non resta niente del sacrificio.
E uno dei 300, ferito a un occhio, viene inviato a Sparta, affinché racconti. E Delio racconterà la storia, una grande storia che parla di vittoria. Seppur si tratta del più atroce dei massacri. E non sai se sono stati gli effetti speciali, o i racconti che ti hanno formato da bambino, ma alla fine del film ti sale una voglia strana. Ti va di andare da tuo figlio, se ce l’hai. O di raccogliere per strada un ragazzino qualsiasi, prenderlo per un braccio e portarlo in qualche angolo dove l’Italia è ancora Magna Grecia, davanti al tempio di Poseidon a Paestum, o a Pozzuoli al tempio di Serapide, o dinanzi all’orizzonte marino del tempio di Selinunte in Sicilia, e raccontargli delle Termopili e di come 300 spartani, 300 uomini liberi, hanno resistito contro un immensa armata di soldati-schiavi. E ti viene voglia di prendergli la testa fra le mani e urlargli affinché non se ne dimentichi mai le parole di Leonida: "Il mondo saprà che degli uomini liberi si sono opposti a un tiranno, che pochi si sono opposti a molti e che. persino un dio-re può sanguinare". Con buona pace di Ahmadinejad. n
* L’Espresso, 26 marzo 2007
La potenza aritmetica dell’eguaglianza
Finalmente tradotto da Meltemi «La mésentente» del filosofo Jacques Ranciére. La politica come sovversione del principio geometrico del governo Una critica della logica identitaria della democrazia che si arresta sulla soglia di una genealogia conflittuale dell’«individuo politico»
di Filippo Del Lucchese (il manifesto, 17.04.2007)
Forse tutto è cominciato così. Come nel racconto di Plutarco, in cui la falange spartana avanza, solenne e terrificante, al passo ritmato dal flauto dell’auleta. Oppure come nel racconto di Erodoto, dove gli ateniesi a Maratona, inferiori di numero, si lanciano di corsa contro i barbari. Forse sono in preda alla follia, pensano questi, ma al momento dello scontro, la nuova tattica militare si rivela in tutta la sua efficacia. Il peana intonato all’unisono, il battere delle lance sugli scudi, la disciplina e la coesione che danno alla falange quasi un solo corpo e una sola mente: per i Greci, in precedenza, il solo nome dei Medi era motivo di terrore, ma la falange cambia tutto e inaugura una nuova storia, insieme politica e militare.
Tra il VII e il VI secolo avanti Cristo, le città greche attraversano crisi profonde, con uno sviluppo economico e sociale che coinvolge strati sempre più ampi della popolazione. La trasformazione degli eserciti rispecchia - e produce - enormi mutamenti. Al combattimento individuale e al duello «eroico» si sostituisce progressivamente la tattica di gruppo, fino all’integrazione della massa dei contadini nella falange. È l’introduzione dello scudo a doppia impugnatura che, sul piano tecnico, rende possibile questo nuovo tipo di combattimento, democratico e orizzontale. Un modello «aritmetico», dove ogni oplita si equivale, proteggendo con metà dello scudo se stesso e con l’altra metà il compagno al proprio fianco. Si realizza così una formidabile «macchina» popolare da combattimento, al tempo stesso militare e politica.
Forse tutto è cominciato così anche per la filosofia, che fino a quel momento si era occupata prevalentemente dell’«Essere» e dell’«Esistere» e che ora inizia a riflettere sull’uomo e sulla vita in comune. Ma qual è il motivo, contingente e fattuale, che almeno da Platone in avanti impone la politica come oggetto di riflessione specificamente filosofico? Questa la domanda da cui parte Jacques Rancière, nel suo Il disaccordo. Politica e filosofia (Meltemi, pp. 150, € 16, introduzione e traduzione di Beatrice Magni). Pubblicato nel 1995 e finalmente tradotto in italiano, questo testo è una delle riflessioni più importanti sul rapporto tra filosofia e politica attualmente in circolazione. Benvenuta, dunque, la scelta di Meltemi.
La police dei manganelli
Normalista alla rue d’Ulm e allievo di Louis Althusser, Rancière ha preso parte al seminario che ha dato vita a Leggere il Capitale (recentemente ripubblicato con una nuova tradizione da Mimesis). Il suo rapporto con il marxismo, specialmente istituzionale, è sempre stato difficile, fino alla rottura con Althusser all’indomani dell’esplosione «popolare» del maggio francese. E proprio a comprendere e approfondire la categoria di «popolo» Rancière si dedica negli anni successivi. Si impegna, cioè, nel far emergere - più dagli archivi che dalle alte sfere della teoria - quel tipo particolare di intelligenza, collettiva e singolare, che attraversa almeno dall’inizio del XIX secolo la classe operaia. Giunge così - da filosofo - a elaborare una contro-filosofia, interessata più a personaggi minori se non oscuri, come l’utopista Etienne Cabet, il filosofo-operaio Gabriel Gauny, il maestro Joseph Jacotot, che a Platone, Aristotele o Marx.
Proprio sugli autori maggiori del pensiero occidentale, invece, Rancière torna ne Il disaccordo, che rappresenta la sintesi più compiuta della sua critica contro-filosofica alla filosofia politica. Ciò che indichiamo, nel linguaggio comune, col nome di politica - sostiene Rancière - comprende in realtà due logiche diverse e contrapposte. La prima, propriamente filosofico-politica, è una logica dell’ordine, della suddivisione e dell’organizzazione del sensibile, cioè degli spazi di visibilità riservati a ciascun individuo. Sulla scorta di Michael Foucault, ma distinguendo la propria riflessione da quella sul biopotere, Rancière propone di chiamare police questa logica. Non solo la bassa polizia, quella dei manganelli di Genova e delle torture di Bolzaneto per intenderci, ma una logica più complessiva che assegna a ognuno gli spazi di visibilità, concedendo i titoli del riconoscimento e della partecipazione alla sfera della politica.
A questa divisione e ripartizione del sensibile, è necessario opporre una logica diversa, che Rancière definisce appunto politica. La logica, cioè, che contesta quell’ordine, che lo mette in crisi, che ne mina i fondamenti, presupposti naturali ed eterni, rivelando la contingenza su cui si fonda. La filosofia politica, in questo quadro, è ridotta all’attività che tenta continuamente di definire, fondare e giustificare l’ordine della police e dal cui sfondo emerge, rovesciato e aggressivo, il logos popolare.
Rancière indica il crinale fra uguaglianza e disuguaglianza, elaborato nei suoi precedenti studi sulla «filosofia-plebea» o sul «maestro-ignorante», come l’elemento di partizione tra queste due logiche contrapposte. Non si tratta di una premessa ontologica da costruire, ma di una pura fattualità da constatare e su cui scegliere da che parte stare: o dalla parte della filosofia politica, interessata alla divisione fra uomini e donne, fra greci e barbari, fra liberi e schiavi, fra ricchi e poveri, oppure dalla parte della politica, come principio polemico che contesta quell’ordine, sgretolandone gli stessi fondamenti.
Differenze nella contingenza
La politica, dunque, è l’affermazione di una radicale uguaglianza che mette in crisi qualsiasi organizzazione dei rapporti individuali basata sull’ineguaglianza. Si tratta di un principio «aritmetico», orizzontale, radicalmente democratico. Di una democrazia, però, intesa non come una forma di governo tra le altre, ma come logica conflittuale che mette in crisi ogni forma di governo in quanto police. L’uguaglianza implicita nel conteggio dei voti dell’assemblea (i «sassolini» nell’urna, al posto delle decisioni prese dai «migliori», autorizzati dalla propria virtù, che si pretende naturale) o l’uguaglianza degli opliti nella falange esprimono al meglio il principio aritmetico. Tutta la storia della filosofia politica, di contro, potrebbe esser letta come il tentativo di costruire un principio «geometrico», di stabilire un valore «ponderato», di ripartire gli spazi dell’azione, ma soprattutto del visibile e del non visto, dell’udibile e dell’inaudito, sulla base di una differenza contingente ma pretesa naturale.
Ora, secondo Rancière, la crisi che la politica determina, ogni volta che mette in crisi quell’ordine, non deriva da un’ignoranza reciproca delle parti. Non si tratta, cioè, di una méconnaissance ma, appunto, di una mésentente. Non si tratta neanche del semplice scontro di due visioni diverse all’interno della stessa problematica, di due posizioni in contrasto per l’allocazione di risorse o la gestione della cosa pubblica. Ecco perché la traduzione italiana del titolo con il termine «disaccordo» è fuorviante per la comprensione del concetto. Definito dal suo autore come una «situazione di parola», il concetto di mésentente suggerisce che il conflitto fra le due logiche si gioca innanzitutto in una dimensione linguistico-immaginativa piuttosto che in quella razionale-decisionale del reciproco accordo o disaccordo.
Il «disaccordo», si legge a nell’edizione italiana, è la situazione in cui «uno degli interlocutori sente e nello stesso tempo non ascolta (ma nell’originale leggiamo: entend et n’entend pas) ciò che l’altro dice». Ora, nella situazione di parola descritta da Rancière, gli interlocutori non soltanto ascoltano, ma comunicano tra loro, come Auguste Blanqui e il suo giudice o come Jeanne Deroin e gli «universalisti» francesi, negli esempi portati dall’autore. Comunicano, senza però che l’ordine della police riesca a comprendere l’istanza politica in tutta la sua radicalità. La més-entente, quindi, è anche e innanzitutto un’incomprensione, una mancanza di intesa, cioè un corto circuito linguistico-immaginativo piuttosto che razionale o decisionale.
Sarebbe stato meglio conservare la radice latina di «intendere», nel doppio senso di comprendere e di volere. Il neologismo «disintesa» ad esempio, peraltro molto più vicino all’originale francese, avrebbe contribuito a rendere il concetto meno ambiguo in italiano (una scelta simile è stata fatta, coniando il neologismo dischiusura per tradurre la déclosion di Jean-Luc Nancy). Avrebbe consentito, inoltre, di mettere in evidenza il carattere esterno dell’elemento polemico alla sfera della razionalità politica costituita, entro la quale si costruisce l’accordo e il consenso e, al di fuori della quale, si ha solo animalità o mostruosità: non è un caso che il termine mésentente sia registrato per la prima volta in un dizionario pubblicato nel 1848, l’annus mirabilis in cui un fantasma si aggirava, terrorizzandola, per l’Europa.
Il soggetto mancante
Ma quand’è, per Rancière, che si dà la «politica»? Affermare semplicemente che si ha politica ogni qual volta si interrompe la logica della police - si dirà - è uno strumento ben poco affilato da un punto di vista teorico. Riflettendo ai «margini del politico» (è il titolo di un altro suo volume), Rancière dichiara apertamente di essere interessato più alla definizione di un modello interpretativo che alla costruzione di una vera e propria teoria politica. Ritiene, ad esempio, che la categoria di moltitudine non offra alcun elemento nuovo per la costruzione di un soggetto politico all’altezza della police del tempo presente. Lo sforzo, allora, è tanto quello di distinguere la police dalle forme contemporanee della sovranità (Agamben) quanto quello di non ridurre la «politica» a ciò che egli ritiene essere soltanto un vitalismo di matrice deleuziano-spinozista (Negri-Hardt). Si tratta tuttavia di un capitolo mancante de Il disaccordo, che Rancière ha cercato di sviluppare nei lavori successivi.
In questo libro, al contrario, l’analisi si ferma qui. La politica è affare di soggettivazione, sostiene Rancière, e mai di identità (il libro interveniva all’interno dei dibattiti sull’identità alla metà del decennio scorso e nella tragica attualità degli stermini identitari che segnavano ancora una volta la storia dell’Europa). Il soggetto politico, inoltre, non è mai un gruppo definito e non è mai dato prima della sua relazione conflittuale con la logica della police. In una parola, non è una moltitudine che preesiste all’Impero. Se è felice, da un lato, il tentativo di caratterizzare se non un’ontologia, almeno una «politica» della relazione conflittuale, dall’altro la sua ricostruzione attraverso la categoria di «soggetto» lascia molte cose in sospeso.
Genealogia della politica
Come interpretare, in questo senso, l’affermazione di Rancière per cui il «prototipo» della soggettivazione politica è «formalmente l’ ego sum, l’ ego existo cartesiano»? È ragionevole, infatti, ricondurre proprio alla distinzione cartesiana e alla gerarchia stabilita fra res cogitans e res extensa l’origine della police degli affetti o del «buon uso» delle passioni. La politica, a quell’altezza, si determina come un’istanza che, prima ancora di mettere in discussione il potere sovrano (la moltitudine contro lo stato), mette in crisi l’idea stessa di soggetto.
La contro-filosofia di Rancière, dunque, più che fermarsi alle porte di una critica allo Stato (come gli rimprovera Alain Badiou), si arresta forse proprio sulla soglia di una genealogia conflittuale dell’individuo politico. La plebe sull’Aventino - uno degli esempi magistralmente ricostruiti in questo libro, attraverso la «teatralizzazione» del racconto di Pierre-Simon Ballanche (1829) - impone la propria presenza ai nobili, che non riescono a intenderla. Menenio, nel racconto di Ballanche, non è tanto un traditore, quanto un illuso, perché crede di comprendere le parole della plebe, laddove questa, secondo la logica «poliziesca», può al massimo emettere dei suoni e mai un logos compiuto. Ma, si potrebbe aggiungere oltre l’acuta analisi di Rancière: da dove traeva la plebe quella potenza e dunque quel diritto di ritrarsi, mostrando così un diverso spazio del visibile e dell’udibile? Non certo dalla «coscienza» di una soggettivazione, ma da un nuovo rapporto di forze e da un mutamento della struttura politica e militare che attraverso il conflitto era riuscita a imporre. È il rifiuto di accettare l’arruolamento nella guerra contro gli Equi che permette a questa concitata multitudo di prendere la parola.
Perché la politica si impone, a un certo punto, come un oggetto di riflessione per il pensiero greco? Perché la pratica del demos, politica e militare, costringe la filosofia a rielaborare i meccanismi di esclusione e di divisione del sensibile. Si tratta dunque di una rivendicazione - autonoma - di una nuova norma e di una nuova parola, che accompagna e ridefinisce costantemente il corso della storia. Il concetto di mésentente - vera e propria «falange teorica» contro la filosofia - coglie pienamente la natura polemica della politica.
Jacques Ranciére
Un filosofo oltre l’ordine geometrico del potere
Jacques Rancière (1940) è professore emerito di filosofia all’Università di Paris VIII-St. Denis. Inizia la sua attività lavorando con Louis Althusser, da cui prende le distanze dopo il maggio ’68 e con cui «fa i conti» nel volume «La Leçon d’Althusser» (1974). Fra le sue opere segnaliamo: «La nuit des prolétaires: Archives du rêve ouvrier» (1981), «La chair des mots: Politiques de l’écriture» (1998), «La haine de la Démocratie» (2005). In italiano è già stato pubblicato «Le parole della storia» (Il Saggiatore, 1994), «Mallarmé o la politica della sirena» (Clueb, 2000) e «La favola cinematografica» (Ets, 2006). A lui è dedicato il volume collettivo «La philosophie deplacée. Autour de Jacques Rancière» (2006).