Premessa
KANT E L’USCITA DALLO STATO DEL FARAONE, DALLO STATO DI MINORITÀ.
Uscire dall’Egitto non è un giochino né una passeggiata. Mettersi sulla strada della liberazione significa attraversare il deserto, affrontare una “discesa all’Averno”! Come sa e insegna Kant, per uscire dallo stato di minorità, occorre “il coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro”. E la cosa è difficile sia dal lato del coraggio sia dal lato del servirsi del proprio intelletto: è “difficile per ogni singolo uomo districarsi dalla minorità che per lui è diventata una seconda natura. E’ giunto perfino ad amarla”. Inoltre, a “far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro”(I. Kant, Risposta alla domanda: che cosa è l’illuminismo, 1783).
Pensare è interpretare. La critica è un esame e un giudizio (I. Kant, “I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica”, 1766), per decidere in che direzione andare! Quale Legge seguire come criterio? La Legge del Faraone o la Legge di Mosè - del “Super-Io” o dell’“Oltre-Io”?
Restare in Egitto è restare minorenni per sempre. Pensare da sé, orientarsi nel pensiero, non è facile: “significa cercare in se stessi (vale a dire nella propria ragione) il criterio supremo della verità”, significa “chiedere a se stessi, in tutto ciò che si deve accogliere, se si ritiene fattibile che il fondamento in base a cui lo si accoglie, o anche la regola che consegue a quel che si accoglie, vengano elevati a principio universale dell’uso della nostra ragione. Ognuno può fare su stesso questo esperimento, e vedrà che in quest’esame la superstizione e l’esaltazione ben presto si dilegueranno, anche se egli stesso non avesse le cognizioni necessarie a confutare entrambe con argomenti oggettivi. Egli infatti si serve esclusivamente della massima dell’autoconservazione della ragione”(I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, 1786).
Questo esame comporta un “esame di noi stessi, il quale richiede che si scruti l’abisso del cuore sino nelle sue profondità più nascoste (...) che egli cominci a sbarazzarsi di ogni ostacolo interno (creato dalla cattiva volontà che si annida in lui), e che s’affatichi poi a sviluppare in sé le innate disposizioni di una buona volontà, che non possono mai andare interamente perdute. Soltanto la discesa all’Averno della conoscenza di noi stessi apre la via che innalza all’apoteosi” (I. Kant, La metafisica dei costumi, 1797 - Laterza, Bari 1983, p. 302).
1. GERUSALEMME, 1961: KANT, ADOLF EICHMANN, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI HEIDEGGER. L’ABBAGLIO DI HANNAH ARENDT PRIMA E DI EMIL L. FACKENHEIM DOPO.
A. ADOLF EICHMANN CHIARISCE COME E’ DIVENUTO “ADOLF EICHMANN”, MA HANNAH ARENDT TESTIMONIA CONTRO SE STESSA E BANALIZZA: “IO PENSO VERAMENTE CHE EICHMANN FOSSE UN PAGLIACCIO”(H. ARENDT, Che cosa resta? Resta la lingua materna. Conversazione di Hannah Arendt con Gunther Gaus, 1964 - in "Aut Aut", 239-240, 1990)
“La conferenza di Wannsee, ovvero Ponzio Pilato”. Nel capitolo settimo di “La banalità del male” (Feltrinelli, Milano 2007) Hannah Arendt affronta “il discorso sulla coscienza” di Adolf Eichmann. Seguendo il filo delle sue dichiarazioni, ella scrive che il vero e proprio punto di svolta della sua vita,“il momento cruciale”, avvenne “nel gennaio del 1942, quando ebbe luogo la conferenza che i nazisti usarono chiamare dei segretari di Stato, ma che oggi è più nota con nome di Conferenza di Wannsee, dal sobborgo di Berlino in cui fu convocata da Himmler” (p. 120):
“(...) quella giornata fu indimenticabile per Eichmann. Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su “una soluzione cosí violenta e cruenta”. Ora questi dubbi furono fugati. “Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi piú illustri, i papi del Terzo Reich”. Ora egli vide con i propri occhi e udí con le proprie orecchie che non soltanto Hitler, non soltanto Heydrich o la “sfinge” Muller, non soltanto le SS o il partito, ma i piú qualificati esponenti dei buoni vecchi servizi civili si disputavano l’onore di dirigere questa “crudele” operazione. “In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa”. Chi era lui, Eichmann, per ergersi a giudice? Chi era lui per permettersi di “avere idee proprie”? Orbene: egli non fu né il primo né l’ultimo ad essere rovinato dalla modestia.
Così la sua attività prese un nuovo indirizzo, divenendo ben presto un lavoro spicciolo, di tutti i giorni. Se prima egli era stato un esperto in “emigrazione forzata”, ora diventò un esperto di “evacuazione forzata”. In un paese dopo l’altro gli ebrei dovettero farsi schedare, furono costretti a portare il distintivo giallo per essere riconoscibili a prima vista, furono rastrellati e deportati e i vari convogli vennero spediti a questo o a quel campo di sterminio dell’Europa orientale, a seconda del “posto” disponibile in quel dato momento” (p. 122 - c.vi miei, fls).
“I doveri di un cittadino ligio alla legge” - dell’Imperatore-Dio. Nel capitolo ottavo, il resoconto prosegue, e così inizia:
“Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato, e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge. Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di avere obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge.
Eichmann aveva la vaga sensazione che questa fosse una distinzione importante, ma né la difesa né i giudici cercarono di sviscerare tale punto. Oltre ad aver fatto quello che a suo giudizio era il dovere di un cittadino ligio alla legge, egli aveva anche agito in base a ordini - preoccupandosi sempre di essere“coperto” -, e perciò ora si smarrì completamente e finì con l’insistere alternativamente sui pregi e sui difetti dell’obbedienza cieca, ossia dell’“obbedienza cadaverica”, Kadauergehorsam, come la chiamava lui.
La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principî dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere.
L’affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell’uomo, facoltà che esclude la cieca obbedienza. Il giudice istruttore non approfondì l’argomento, ma il giudice Raveh, vuoi per curiosità, vuoi perché indignato che Eichmann avesse osato tirare in ballo il nome di Kant a proposito dei suoi misfatti, decise di chiedere chiarimenti all’imputato. E con sorpresa di tutti Eichmann se ne uscì con una definizione più o meno esatta dell’imperativo categorico: “Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali” (il che non vale, per esempio, nel caso del furto o dell’omicidio, poiché il ladro e l’omicida non possono desiderare di vivere sotto un sistema giuridico che dia agli altri il diritto di derubarli o di assassinarli).
Rispondendo ad altre domande, Eichmann rivelò di aver letto la Critica della ragion pratica di Kant, e quindi procedette a spiegare che quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale aveva smesso di vivere secondo i principî kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che non era più “padrone delle proprie azioni”, che non poteva far nulla per “cambiare le cose”.
Alla Corte non disse però che in questo periodo “di crimini legalizzati dallo Stato” - così ora lo chiamava - non solo aveva abbandonato la formula kantiana in quanto non più applicabile, ma l’aveva distorta facendola divenire: “agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese”, ovvero, come suonava la definizione che dell’“imperativo categorico nel Terzo Reich” aveva dato Hans Frank e che lui probabilmente conosceva: “agisci in una maniera che il Fuhrer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe” (Die Technik des Staates, 1942, pp. 15-16).
Certo, Kant non si era mai sognato di dire una cosa simile; al contrario, per lui ogni uomo diveniva un legislatore nel momento stesso in cui cominciava ad agire: usando la “ragion pratica” ciascuno trova i principî che potrebbero e dovrebbero essere i principî della legge. Ma è anche vero che l’inconsapevole distorsione di Eichmann era in armonia con quella che lo stesso Eichmann chiamava la teoria di Kant “ad uso privato della povera gente”. In questa versione ad uso privato, tutto ciò che restava dello spirito kantiano era che l’uomo deve fare qualcosa di più che obbedire alla legge, deve andare al di là della semplice obbedienza e identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge - la fonte da cui la legge è scaturita. Nella filosofia di Kant fonte era la ragion pratica; questa, per Eichmann, era la volontà del Fuhrer.
Buona parte della spaventosa precisione con cui fu attuata la soluzione finale (una precisione che l’osservatore comune considera tipicamente tedesca o comunque caratteristica del perfetto burocrate) si può appunto ricondurre alla strana idea, effettivamente molto diffusa in Germania, che essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire,ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce. Da qui la convinzione che occorra fare di più di ciò che impone il dovere.
Qualunque ruolo abbia avuto Kant nella formazione della mentalità dell’ “uomo qualunque” in Germania, non c’è il minimo dubbio che in una cosa Eichmann seguì realmente i precetti kantiani: una legge è una legge e non ci possono essere eccezioni. A Gerusalemme egli ammise di aver fatto un’eccezione in due casi, nel periodo in cui “ottanta milioni di tedeschi” avevano ciascuno “il suo bravo ebreo”, aveva aiutato una cugina mezza ebrea e una coppia di ebrei viennesi, cedendo alle raccomandazioni di suo “zio”.
Questa incoerenza era ancora un ricordo spiacevole, per lui, e così durante l’interrogatorio dichiarò, quasi per scusarsi, di aver “confessato le sue colpe” ai superiori. Agli occhi dei giudici questa ostinazione lo condannò più di tante altre cose meno incomprensibili, ma ai suoi occhi era proprio questa durezza che lo giustificava, così come un tempo era valsa a tacitare quel poco di coscienza che ancora poteva avere. Niente eccezioni: questa era la prova che lui aveva sempre agito contro le proprie “inclinazioni”, fossero esse ispirate dal sentimento o dall’interesse; questa era la prova che lui aveva fatto sempre il proprio “dovere” (...)" (pp142.144).
B.COME L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DIVENTA L’IMPERATIVO CATEGORICO DI EICHMANN?
Emil L. Fackenheim, nel suo lavoro “Tiqqun. Riparare il mondo”, Medusa Edizioni, Milano, 2010) scrive: “Quando un ebreo pensa a Hitler, ricorda il Faraone, Amalek, Haman: quest’ultimo forse è quello che si avvicina di più al dittatore tedesco. Il Faraone aveva reso schiavi gli Israeliti. Amalek attaccava i più deboli. Ma fu Haman che pianificò di uccidere tutti gli ebrei” (p. 25). Al centro della sua riflessione filosofica e teologica - a partire dal nostro presente storico, dopo Auschwitz e dopo la nascita dello Stato di Israele - è proprio lo sforzo di negare al Faraone, a Hitler, la vittoria postuma.
Ma, se questo è il problema e l’obiettivo, è decisamente grave che un ‘architetto’, che va alla ricerca di nuovi “fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah”, metta fuori campo il contributo di Freud e, in particolare, il suo ultimo lavoro:“L’uomo Mosè e la religione monoteistica” (1938). E dice di una più generale e sintomatica assenza di controllo critico sul suo intero percorso e sulla sua proposta di ‘costruzione’. Non essendo stato giusto con Freud, non lo è stato nemmeno con Kant, il filosofo dell’”uscita dallo stato di minorità” (o, se si vuole, dall’Egitto). E così anche con Mosè - e con se stesso!
Pur essendo fermamente convinto che “solo tenendo saldamenti fermi nel contempo “è” e “non dover essere”, il pensiero può guadagnare una sopravvivenza autentica”, che “il pensiero cioè deve assumere la forma della resistenza”, e, ancora, che “il pensiero resistente deve puntare oltre la sfera totale del pensiero, a una resitenza che non sia solo nel “mero” pensiero, ma in un’azione pubblica, in una vita in carne e ossa” (op.cit., p.208), alla fine, finisce anch’egli nel cadere nella trappola della “dottrina - largamente citata, largamente diffusa, largamente accettata della banalità del male” (op.cit., p. 206).
In una “Lezione pronunciata l’11 aprile 1993 presso l’Università Martin Luther di Halle-Wittenberg”, dal titolo “Auschwitz come sfida alla filosofia e alla teologia”, Fackenheim dice e scrive: “L’anno è il 1961. Il famigerato omicida di massa Adolph Eichmann (...) catturato dagli agenti israeliani e tratto da Buenos Aires in Israele, è (...) sotto processo a Gerusalemme. Il processo si stava protraendo di molto. A un certo punto i giudici chiedono conto all’accusato delle sue convinzioni personali, e questi menziona l’etica di Kant. I giudici devono aver sobbalzato (...) Tutti e tre erano tedeschi di origine, e in quanto tali dovevano avere una certa dimestichezza con Kant. Uno di essi, Yitzhak Rawe, non riuscì a trattenersi: Potrebbe Eichmann spiegare la filosofia morale di Kant? E con sorpresa di tutti, l’accusato diede una sintesi confusa ma in qualche modo adeguato. L’uomo che probabilmente passerà alla storia come il più grande organizzatore di omicidi di massa, conosceva, credeva e talvolta metteva in pratica pezzi dell’insegnamento di Immanuel Kant, il più grande filosofo tedesco” (cfr. Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah, Milano, Medusa, 2010, , p. 290).
Fackenheim resta abbagliato. Comprende - e condivide con Hannah Arendt (op. cit., p. 300, nota 3) - che “Per Eichmann «Legge» in fin dei conti significava una sola cosa Fuhrerbefehl [ordine del Fuhrer], chiaro netto, inequivocabile. Che avesse letto o no il libro di Hans Frank, imputato nel processo di Norimberga, La tecnica dello Stato, egli obbedì a quella nuova, originale versione dell’Imperativo Categorico promossa dall’autorevole pensatore: «Agisci in modo tale che il Fuhrer, se conoscesse la tua azione, approverebbe»”(op. cit., p. 291). Ma - come Hannah Arendt - non riesce a capire, e il suo precetto di “negare al Faraone la vittoria postuma” diventa solo un ennesimo ‘precetto’.
Tuttavia, se il nodo non sciolto sta come una montagna su tutto il suo lavoro, ha il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (op. cit., p. 293). E non è poco!
Federico La Sala (30.05.2010)
Sul tema, a proseguimento del discorso, si cfr.:
L’ITALIA COL BAVAGLIO: LA SOLUZIONE FINALE, "I PAPI", E I NIPOTI DI "PILATO" EICHMANN.
FLS
DANTE ALIGHIERI, CON ORAZIO E KANT ("SÀPERE AUDE!"): L’AMORE, "CHE MOVE IL SOLE, E LE ALTRE STELLE", IL LIBERO ARBITRIO, E LA LEGGE MORALE (IL "TU DEVI"). *
DIVINA COMMEDIA. Il verso «Amor, ch’a nullo amato amar perdona» (Inf., V, 103), pronunciato da Francesca nell’inferno in cui con Paolo è precipitata (e si trova ancora vivo lo stesso #Dante), a ben riflettere, è un filo che conduce all’uscita del labirinto del #destino e della #necessità e restituisce a ogni essere umano la coscienza del libero arbitrio (Purg. XVIII, vv. 70-72): detto in altro modo, è la formulazione del principio che richiama l’#imperativo #categorico concepito da Kant (in ripresa del #Logos mediterraneo di #Eraclito di #Efeso). Il "Tu devi" amare, al fondo (e al fondamento) di ogni essere "che è amato", "che è stato amato", permette di capire antropologicamente come e perché non possa essere perdonato chi non risponda all’Amore ("che ama") e, al contempo, come e perché il "Regnum celorum vïolenza pate" e "la divina volontate" sia vinta "da caldo amore e da viva speranza: / non a guisa che l’omo a l’om sobranza, /ma vince lei perché vuole esser vinta, / e, vinta, vince con sua beninanza."(Par., XX, 94-99).
* SUL TEMA, mi sia lecito, si cfr. "KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE".
"ESSERE, O NON ESSERE" (#SHAKESPEARE): "CHE VUOL DIRE #LEGGEMORALE IN NOI #PROFESSORE?", OGGI (#KANT2024)
ILLUMINISMO, #ILLUMINAZIONE, E "#SAPEREAUDE!" (#KANT): UNA RISPOSTA ALLA #DOMANDA. Riconosciuta gratitudine per l’attenzione e per l’intervento, che cosa rispondere (in breve) a chi ha posto la #questione e desidera sapere?
Innanzitutto, che Il "professore" è il "tu" stesso con "te" stesso; secondo, che il sapere di non sapere e il #decidere con "te" stesso se si vuole sapere ("essere") o non sapere ("non essere") è già un primo passo, quello decisivo e fondamentale, per uscire dallo "stato di #minorità" (Kant, 1784); e, terzo, che cominciare a #dialogare con "#te" stesso come un #altro, apre al grande "aut aut"! "Che fare?" (Lenin), "Che cosa devo fare?" (Kant).
Nel #ribaltamento e nel #riconoscimento di "sé" come un "altro" (Paul #Ricoeur) prende il via la "#fenomenologia dello #spirito" (alla #Hegel) o la #divinacommedia (alla #DanteAlighieri): "To be, or not to be, that is the question" (#Shakespeare, "Amleto", III.1). Uscire dall’inferno, dal #letargo (Inf. XXXIV, 94) è possibile: "#Amore è più forte di #Morte" (Ct. 8.6, trad. di Giovanni Garbini).
ESPERIENZA E CRITICA DELLA FACOLTA’ DI #GIUDIZIO. "Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così succede. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, è così accade. Ipocriti, sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?" (Lc. 12, 56-57).
Note:
ANTROPOLOGIA E #STORIA. Immanuel Kant: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da un difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di fare uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.» .
FILOSOFIA E #CRITICA. Immanuel Kant, "Critica della facoltà di giudizio", a cura di Emilio Garroni e Hansmichael Hohenegger, Einaudi.... Accanto alla Critica della ragione pura e alla Critica della ragione pratica, la Critica della facoltà di giudizio è il terzo capolavoro dell’impresa critica di Immanuel Kant: non solo il suo compimento, ma anche e soprattutto il suo ripensamento e insieme la sua fondazione.
Criticare non è calunniare: Hannah Arendt non è una pensatrice di sinistra
di Benoît Basse, Livia Profeti e François Lecoutre ("L’Humanité", 21/7/2023) *
Il 7 aprile 2023, Emmanuel Faye pubblica su L’Humanité un articolo dal titolo "Hannah Arendt, une philosophe de gauche?" Tre mesi dopo, tre donne arendtiane - Martine Leibovici, Aurore Mréjen e Carole Widmaier - pubblicano sulla rivista Philosophie del 13 luglio una risposta polemica dal titolo «"Arendt è una filosofa di sinistra?" Emmanuel Faye, ovvero, la grande ondata della calunnia». Nel denunciare con sdegno Emmanuel Faye, accusandolo di «calunnia» e «malafede», le tre autrici non si curano minimamente di ricordare ai propri lettori che se Faye «pretende di fondare la sua posizione sul fatto di aver ragione», lo fa proprio perché è da diversi decenni che porta avanti le sue ricerche su Hannah Arendt, concretizzate nel suo libro "Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée" (Albin Michel, 2016). In questo suo rigoroso lavoro, la concezione che ha Arendt del totalitarismo nazista viene analizzata per la prima volta alla luce della sua relazione intellettuale con Martin Heidegger. Ed è a partire da questa che Faye riesce a dimostrare come, da un punto di vista teorico, la Arendt sia molto più vicina al suo ex maestro e amante - il primo Rettore-Führer del Terzo Reich - di quanto generalmente si ammetta. In tal modo, chiarisce anche alcuni problemi prima insolubili, come quello relativo al «ritrovarsi», tra Arendt e Heidegger, a Friburgo nel 1950, dopo diciassette anni di separazione e di silenzio. Fino a oggi, questo re-incontro era sempre stato descritto come una sorta di «romanzo d’amore».
Invece, Faye mette in luce quale sia stata la vera ragione di questa nuova alleanza postbellica tra i due pensatori: l’adesione, senza alcuna riserva, da parte di Arendt, al progetto di «far esplodere il castello della cultura occidentale»; progetto che lei aveva individuato nella famosa "Lettera sull’umanesimo" di Heidegger, e della quale era venuta a conoscenza un anno prima del loro ricongiungimento. Possiamo capire quanto possa essere sconvolgente il risultato di questo immenso lavoro, dal momento che mette in discussione la figura iconica di Arendt, così come è stata costruita dalla cultura postmoderna di sinistra; la quale si è appropriata di molti concetti provenienti dalla Arendt, in particolare quelli di «pluralità» e «natalità». A tal proposito, va detto che spesso la «natalità» arendtiana viene spesso erroneamente contrapposta all’«essere-per-la-morte» di Heidegger.
In realtà, non esiste un’opposizione fondamentale tra Arendt e Heidegger sulla realtà umana, nella misura in cui la concezione arendtiana della natalità deriva da quella dell’«essere-per-la-morte» di Heidegger. In realtà, tra Arendt e Heidegger non esiste alcuna opposizione di fondo sul tema della realtà umana; nella misura in cui la concezione arendtiana della «natalità» deriva da quella heideggeriana dell’«essere-gettato». A partire dalla sua tesi di dottorato su "Il concetto di amore in Agostino", Arendt delinea a suo modo la radicale disuguaglianza tra gli esseri umani, e che si trova celata nella concezione esistenziale heideggeriana dell’«essere-nel-mondo».
Ne "Le origini del totalitarismo", leggiamo: «Non si nasce eguali; si diventa eguali». Questa presunta disuguaglianza tra i singoli esseri umani viene persino definita, nei suoi diari, come una «diversità originaria» (agosto 1950). Un’uguaglianza relativa, che riguarda l’intera umanità in sé, sarebbe stata raggiunta solamente come conseguenza della cosiddetta «seconda nascita». Sulla base di una distinzione tra bios e zoe - ripresa da Heidegger - l’autrice concede un’umanità pienamente realizzata solo a dei gruppi limitati di persone che agiscono insieme nel contesto di un medesima comunità politica, in virtù della loro «decisione» di garantirsi vicendevolmente uguali diritti. Per la Arendt, tuttavia, non esiste uguaglianza tra le diverse comunità, dal momento che esse provengono dall’originaria differenza degli individui: «gli uomini sono ineguali», scrive, «per la loro origine naturale, per la differente organizzazione, per il loro destino storico» ("Le origini del totalitarismo").
È su questa base ontologica che Arendt arriva a criticare la "Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789", la quale riconosceva a tutti pari dignità a partire unicamente dal criterio della nascita. In una lettera del 1964, all’amica Mary McCarthy, scriveva a proposito dell’uguaglianza: «Il vizio principale di ogni società egualitaria è l’invidia (...). E la grande virtù di tutte le aristocrazie, mi sembra, si trova nel fatto che le persone sanno sempre chi sono, e quindi non si paragonano con gli altri. È proprio questo confronto permanente che costituisce davvero la quintessenza della volgarità.»
Questa spiegazione - la quale dovrebbe lasciare stupito chiunque ritenga "di sinistra" il pensiero della Arendt, è in realtà perfettamente coerente con la sua concezione della «pluralità», incentrata com’è sul concetto di disuguaglianza. Ed è merito del lavoro di Faye l’aver mostrato il modo in cui la Arendt - riducendo la vita lavorativa a una vita animale che procederebbe dalla zoe - disumanizzava i lavoratori, limitando a pochi eletti l’umanità vera e propria. Certo, alla fine, le tre autrici dell’articolo concedono che «la concezione strettamente politica dell’uguaglianza che sostiene [Arendt], così come la distinzione che lei traccia tra la sfera sociale e quella politica, devono essere messe entrambe in discussione». Ma il nocciolo del problema risiede proprio in questi punti. Non è forse una delle caratteristiche più evidenti della sinistra - a prescindere dalle sue diverse componenti - ritenere che sia compito della politica farsi carico, in un modo o nell’altro, di alcuni problemi sociali? La Arendt non solo esclude una tale prospettiva, ma la critica esplicitamente in tutta la sua opera. Ciò è dimostrato, in particolare, dal suo elogio della Rivoluzione americana, la quale, a differenza di quella francese (descritta come un «disastro»), avrebbe avuto il grande merito di limitarsi a fondare la libertà politica, senza pretendere di risolvere i problemi "sociali" (povertà, schiavitù).
Ed è sempre questo ciò che si palesa, in maniera ancora più evidente, anche nelle posizioni assunte dall’autrice sulla «questione nera» e la segregazione negli Stati Uniti; tutte cose queste - che sia chiaro - destinate a scioccare un pubblico di lettori di sinistra. A tal proposito, vale la pena sottolineare come le autrici si guardano bene dal citare la traduzione del testo di Kathryn Belle, "Hannah Arendt et la question noire", pubblicato lo scorso aprile. In questo libro, l’autrice mostra in maniera implacabile come, a causa della sua concezione strettamente politica dell’uguaglianza - così come a partire dalla separazione tra sfera politica e sociale che tale concezione implica - la Arendt sia stata portata a criticare aspramente la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1954, che ordinava la fine della segregazione razziale nelle scuole pubbliche.
In realtà, la Arendt non ha mai smesso di denunciare, come una disastrosa mescolanza di generi, qualsiasi tentativo di introdurre, con dei mezzi politici, l’uguaglianza nella sfera sociale. Inoltre, ebbe a dichiarare che «ciò che l’uguaglianza rappresenta per il corpo politico - il suo principio profondo - la discriminazione lo è per la società» ovvero che «la discriminazione costituisce un diritto sociale, altrettanto indispensabile dell’uguaglianza in quanto diritto politico». Da qui, il sostegno da lei dato ai bianchi razzisti dell’epoca, ritenendo che - in nome della libertà di associazione che doveva prevalere nella sfera sociale - i genitori bianchi avessero tutto il diritto di rifiutare ai loro figli di frequentare le stesse scuole dei bambini neri.
Da ultimo, appare deplorevole che le autrici di questo articolo accusino Emmanuel Faye di essere in «malafede» e di fare ricorso alla «calunnia», in particolare quando egli si riferisce al fatto che Arendt abbia pubblicato, nel 1962, "Mélanges en l’honneur d’Eric Voegelin", nel quale aveva effettivamente accolto un contributo di Armin Mohler, mentore della Nuova Destra dopo il 1945 e noto per aver tentato di entrare nelle Waffen-SS nel 1942. Poiché, in tal caso, non si tratta nemmeno di un «sofisma» o di un «insinuante avvicinamento», visto che fu proprio Armin Mohler che, a partire dalla propria tesi su "La rivoluzione conservatrice in Germania" (1950), diffuse il mito della «rivoluzione conservatrice» - vista come distinta dal nazismo - che gli permise di sdoganare autori nazionalsocialisti come Heidegger e Schmitt, facendolo esattamente nello stesso spirito della Arendt.
Ed Emmanuel Faye avrebbe potuto citare anche un altro evento molto suggestivo: l’elogio che Arendt fece del libro di Eric Voegelin, "Razza e Stato", da lei presentato come «la migliore esposizione storica della nozione di razza svolta nello spirito di una "storia delle idee"». Si scoprirà poi che questo libro, pubblicato nella Germania nazista nel 1933, esponeva una concezione metafisica della razza basata positivamente sul pensiero razziale degli autori nazisti. Possiamo davvero credere che Arendt abbia trascurato in buona fede il carattere «filonazista» di questo libro, che era stato chiaramente percepito come tale da di professori universitari nazionalsocialisti come Alfred Baeumler ed Ernst Krieck?
Comunque sia, appare discutibile ridurre - come fanno le autrici di questo articolo - la relazione intellettuale tra la Arendt e il filosofo conservatore Eric Voegelin , semplicemente a dei «profondi disaccordi filosofici». Lo spirito di approfondimento e di serietà, dimostrato da Emmanuel Faye nel suo lavoro accademico, avrebbe indubbiamente meritato un trattamento equivalente da parte delle sue avversarie che, accusandolo di «calunnia», attaccano così facendo la sua integrità di ricercatore. Questo atteggiamento polemico personale nei confronti di Emmanuel Faye, in un momento in cui sono appena stati pubblicati due lavori critici su Arendt - il già citato lavoro di Kathryn Belle e "Hannah Arendt et la question juive" di Michel Dreyfus - può essere a ragione visto come una strategia diversiva.
Inoltre, contrariamente a quanto affermato nell’articolo, Emmanuel Faye non sostiene affatto che si debba rinunciare a leggere Arendt. Al contrario, è giunto proprio adesso il momento di smettere di immunizzare il suo pensiero contro ogni critica. Certo, ognuno resta libero di discutere le argomentazioni di un ricercatore - in questo caso di fama internazionale - ma il ricorso all’accusa di «calunnia» è indegna di un dibattito intellettuale, e nasconde malamente quella che è solo una forma di panico e di irritazione a fronte della prospettiva, in seno alla sinistra francese, di una desacralizzazione di Arendt. Tuttavia, alla luce degli elementi che abbiamo qui illustrato, sembra legittimo chiedersi se la sua teoria politica sia davvero in grado di ispirare la sinistra, per la quale la trasformazione sociale ha sempre costituito una funzione essenziale dell’azione politica.
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FONTE: BLACKBLOG FRANCO SENIA (ripresa parziale).
Giornata della Memoria.
Stangl e Treblinka: un orologio rivela l’ipocrisia del male
Tra gli orrori del lager di cui era comandante, Franz Stangl volle far luce sul furto di un oggetto a un internato. Atteggiamento di chi preserva la morale ma chiude gli occhi di fronte al dolore
di Raul Gabriel ( Avvenire, venerdì 21 gennaio 2022)
Nei meandri senza fine della documentazione che riguarda la storia dello sterminio vi è un testo cui in principio non avevo dato molto credito, lungo e poco invitante, privo di concessioni alle nuances narrative adatte a conquistare le masse dei lettori o a quel realismo lirico alla cui tentazione non sfuggono nemmeno tanti racconti dalla Shoah. In quelle tenebre di Gitta Sereny è la registrazione di varie voci intorno al nucleo centrale di una intervista a Franz Stangl, il comandante di Treblinka, un signore distinto e tutto d’un pezzo, l’unico tra i comandanti di un campo di sterminio principale a essere recluso in una prigione per scontare un ergastolo sempre insufficiente quanto tardivo.
L’intervista non ha fronzoli. Pure, attraverso vari contributi collaterali che ricostruiscono un frammento di quella realtà così quotidiana e inconcepibile, è riuscita a farmi intravedere altri misteri di quel cataclisma umano senza precedenti. Strani misteri dell’evidenza. A farceli apparire enigmatici, accarezzando la nostra propensione all’indifferenza compunta e ipocrita travestita di impegno, è stata involontariamente la immane e necessaria opera di ricostruzione che ha finito per relegare ciò che era normale e quotidiano in un universo alieno.
Ogni singolo giorno dello sterminio era un giorno normale, la gente andava al mercato, si sposava e faceva affari e figli, andava a messa, vendeva ai forni altri esseri umani per pochi soldi senza alcun rimorso nella segreta speranza di appropriarsi dei loro piccoli o grandi patrimoni. Tutta gente perbene. Il giorno dello sterminio coincide con il quotidiano, non è un giorno diverso, non necessita di alcun coro greco.
Le parole di Stangl sono un tassello raro e fondamentale. Il tassello dell’uomo decente che per fare carriera assume gradualmente e volontariamente quantità di veleno sempre maggiori fino a diventare ciò che è stato. Ormai comandante, era estremamente curato nel vestire in abiti che a malapena potevano comprimere il miscuglio tossico di frustrazione e ambizione di cui era costituito il suo essere, falso anche con se stesso per puro calcolo nella sua singolare economia dei sensi di colpa.
Meticolosità e disciplina due dei suoi alibi. Franz Stangl era inspiegabilmente guardato con rispetto anche dai suoi guardiani nel carcere di Düsseldorf dove ha concluso la sua vita, come racconta con relativa sorpresa Sereny. Era condannato per la morte di circa 900mila persone, ma ostentava un portamento sufficiente a guadagnargli una qualche stima. Questi sono gli uomini. Sono convinto che oggi succederebbe lo stesso. Non importa ciò che fai, basta riuscire a dargli un senso affine alla falsità della morale collettiva e nasconderne oculatamente i frutti. Stangl che ha accettato l’inferno come realtà e destino, somiglia a un sacco di gente.
Tra tanti, mi ha colpito un episodio raccontato da Stangl stesso. Lo stigma di una dissociazione che non è frutto di malattia, ma di una premeditazione inscritta nella radice ipocrita di un modo di pensare l’etica universalmente accettato. All’arrivo di uno dei tanti viaggi della morte provenienti da varie parti d’Europa, scende un ebreo che giunto a Treblinka, con coraggio e incoscienza rari, si lamenta con insistenza perché le guardie ucraine al servizio dei nazisti gli avevano rubato l’orologio. Il fatto viene a conoscenza di Stangl. Bene, questo alto funzionario tutto compreso nel suo compito di tenere ordine in una terra di morte, seminata di morte, che odorava di morte, racconta a Gitta Sereny la sua reazione scandalizzata: «Non potevo permettere che questo genere di cose avvenissero a Treblinka». Spaventoso e spaventosamente rivelatore. Non poteva permettere il furto di un orologio, in un contesto dove migliaia di persone venivano sterminate e cremate ogni giorno. I valori sono valori.
Questi uomini non finiscono di sorprendermi. Stangl qui esibisce la ruota del pavone mendace di paladino dell’ordine e della giustizia in tutto il suo splendore. Non è un folle, tutt’altro. Sa benissimo che la società accetta di buon grado ogni mostruosità, ogni sopruso, se la sua facciata è accettabile. Anche una facciata molto piccola. Al buon borghese, devoto e rispettoso, è sufficiente un ghirigoro a oscurare la rovina che incombe. In modo da non doverla vedere. Il distinguo è una stampella della coscienza con cui si cerca di sanare l’abisso che intravediamo e il male che facciamo o a cui collaboriamo anche con la nostra premeditata inconfessabile omissione.
Stangl, a un livello del tutto singolare, rappresenta una buona parte di umanità, quella di tutti i giorni. Umanità la cui fortuna è stata ed è non essere messa in quelle condizioni. Quanti si sarebbero adattati volentieri ad un ruolo di prestigio, mostruoso ma da esercitare con un bel vestito? Quanti si adattano ogni giorno alla logica del distinguo, solerti paladini dell’orologio rubato e volutamente ciechi di fronte a stragi, dolori, sofferenze di ogni tipo? Eppure il proclama dell’orologio, mai ritrovato, serve loro per rifarsi sempre un abito nuovo, magari bianco, corredato di frustino con cui distribuire qua e là piccole porzioni di valori inservibili, parvenze di una umanità instancabile nel covare l’orrore.
EDIPO HA RISOLTO L’ENIGMA DELLA SFINGE, MA LA PESTE DILAGA IN TUTTA TEBE: DOV’E’ LA VITTORIA?
IL "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" E NELLA CIVILTÀ CRESCE...
La banalità del male:
"PSICOLOGIA DI MASSA DEL FASCISMO" (W. Reich, 1933): CECITÀ (J. SARAMAGO, 1995). Purtroppo a quasi 60 anni dal lavoro di Hannah Arendt, è da ammettere che la banalità del male (cum grano salis) avvolge come in una fitta nebbia la popolazione dell’intero Pianeta Terra; e, di Ognuno (Everyman), per lo più (dai massimi minimi livelli delle varie società), è possibile ridire e sottoscrivere quanto Arendt ha scritto di Eichmann: "Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere e obbedito alla legge perché così stavano le cose, e qualunque delitto avesse commesso, non l’aveva commesso per odio o vendetta ma come cittadino ligio alla legge".
Se oggi, di un "Everyman" (così Dante Alighieri per Ezra Pound) che ha mostrato a Ognuno (Everyman), a ogni essere umano la via per uscire dall’inferno (Inf. XXXIV, 90), si è prossimi a perdere ogni speranza, forse, c’è solo da stabilire se la sua opera, la Commedia, sia ancora, a distanza di sette secoli, un capolavoro che contiene un nucleo incandescente, "lo vero lume".
Federico La Sala
In onore di Francesco e Chiara d’Assisi, dei Francescani (Dante Alighieri, compreso!) ... e di Leonard Boff
IGNOTI A SE’ STESSI ...ED ESPORTATORI DI ’CRISTIANESIMO’ E DI ’DEMOCRAZIA’!!!
La ’lezione’ (di Nietzsche e) di un aborigeno canadese ai ’registi’ della politica ’cattolica’ (e ’laica’).
di Federico La Sala (ildialogo.org, 22 novembre 2005)
Credo che ormai siamo proprio e davvero al capolinea - nella totale ignoranza di se stessi i componenti della Gerarchia della Chiesa ’cattolica’ si agitano ... alla ’grande’!!! Non hanno proprio più nulla da dire, evidentemente! Sono scesi in campo ... ma contro Chi?!, contro che cosa?! Contro lo spirito francescano!!!
In segno di solidarietà, qui ed ora - 2005 dopo Cristo, con i francescani in carne ed ossa, oggetto di un richiamo, con un Motu Proprio, da parte dell’ex- prefetto ’kantiano’ Ratzinger, il papa Benedetto sedicesimo, forse non è inutile un breve commento a margine... per cercare di stare svegli e di svegliarci, possibilmente - tutti e tutte!
Dennis McPherson, un aborigeno (che ormai ’ci’ conosce bene, evidentemente!) canadese, ecco cosa (sapientemente e sorprendentemente - per noi, occidentali!!!), alla domanda - “qual è l’essenza dell’essere umano? E’ una creatura speciale con una missione speciale?” - di un’antropologa-intervistatrice, ha risposto:
Se teniamo presente le famose parole “De nobis ipsis silemus [...]”(di Francesco Bacone), messe da Kant sopra (come una pietra tombale) e prima di iniziare il suo discorso della e nella Critica della ragion pura, si può dire che il ’nostro’ aborigeno ha capito e visto più che bene - e meglio di tutti i filosofi e teologi dell’Occide[re]nte!!! E ’ce’ lo ha detto in faccia - ’papale’, ’papale’: basta!!!
Noi che non conosciamo ancora noi stessi (Nietzsche) .... e che navighiamo nel più grande “oscurantismo” - quello (più importante!!!) relativo a noi stessi, vogliamo pure dare lezioni ed esportare ’cristianesimo’ e ’democrazia’ in tutto il mondo!? “Mi”!?, e “Mah”!!!?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo). HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
FLS
Giornata mondiale a sostegno delle vittime di tortura. Un commento di S. Amati Sas
-***Il contributo di Silvia Amati Sas *
Sollecitata a scrivere in occasione della Giornata Internazionale a sostegno delle vittime di torture farò alcune riflessioni in relazione alla mia esperienza con pazienti che hanno sofferto per torture, o sono stati confinati in campi di concentramento, o familiari di persone scomparse.
Una prima considerazione si riferisce allo sguardo che le istituzioni psicoanalitiche hanno storicamente avuto riguardo a questo tema.
Per molto tempo il sociale non fu considerato un oggetto di studio della psicoanalisi. Negli ultimi decenni è stato possibile constatare una lenta ma evidente apertura. La recente pandemia da Covid 19 ha richiesto un passo in più arrivando a mettere in questione l’idea delle asimmetrie, nel momento in cui come psicoanalisti abbiamo condiviso un mondo violento con i nostri pazienti. La nostra partecipazione inconscia ha richiesto molta attenzione e una necessaria responsabilità, sempre accompagnata da una riflessione etica, tecnica e teorica.
Quando parliamo di un’organizzazione istituzionale violenta e traumatica non sono sufficienti i soli elementi pulsionali (sadomasochismo, ad esempio) pertinenti per la comprensione della psicopatologia individuale. Essa richiede lo studio dei contesti sociali e della dinamica dei poteri (di quello politico, in particolare) che ha l’intenzione di manipolare una collettività con l’obiettivo di dominarla.
Non si deve dimenticare che la tortura era (e continua a essere) insegnata. Da prima degli anni ‘60 esiste la Scuola delle Americhe, inizialmente con sede a Panama, dove oltre all’insegnamento delle tecniche di repressione e tattiche per gli interrogatori, sono state utilizzate le scienze umane per fare della tortura un’arma solida contro la libertà di pensiero delle persone. Probabilmente oggi esistono molte altre scuole di questo tipo nel mondo perfezionate con le moderne conquiste tecnologiche, con lo stesso scopo di esercitare un potere sul singolo e sulla collettività.
Occupandomi della psicoterapia di pazienti reduci da tortura e da esperienza del terrore nei campi di concentramento ho trovato nel libro Simbiosi e Ambiguità di J. Bleger (1967) un modello teorico psicoanalitico funzionale alla lettura delle dinamiche intra e intersoggettive e transoggettive. Ho potuto perciò osservare clinicamente e dare forma concettuale a due meccanismi di sopravvivenza psichica: l’adattamento a qualsiasi cosa e a una resistenza umana basica che ho chiamato l’oggetto da salvare (Amati Sas, 2020). Quest’ultimo non è altro che l’oggetto interno, un oggetto privilegiato per la cui incolumità e vulnerabilità il soggetto si preoccupa (concern).
Sono due fronti di sopravvivenza separate e scisse tra di loro. Da un lato si è installato nel paziente vittimizzato un legame adattativo con il contesto violento e alienante (vincolo simbiotico e posizione ambigua) e, dall’altro, l’alterità è stata preservata nella relazione (intrapsichica) con un oggetto interno (posizione depressiva). Sebbene nel caso della tortura l’appartenenza al contesto alienante implichi un adattamento pericoloso e una rinuncia totale alla capacità di scelta, allo stesso tempo il proprio potere di scelta, di decisione e illusione sono stati conservati segretamente attraverso l’intima preoccupazione per un’altra persona.
Bleger (1967) ha elaborato la dinamica dell’ambiguità nel mondo degli oggetti interni (realtà psichica, relazioni oggettuali) utilizzando il concetto di posizioni di Melanie Klein e aggiungendo una posizione ambigua (pre-conflittuale) che precede le due posizioni conflittuali, schizo-paranoide (divalente) e depressiva (ambivalente) da lei descritte. La posizione ambigua diviene una difesa maggiore nelle situazioni di violenza estrema e la qualità mimetica dell’ambiguità protegge - con l’adattamento, l’obnubilazione, l’indifferenza affettiva - il resto della personalità che rimane come sospesa e lontana.
La posizione ambigua possiede questa qualità obnubilante che offusca gli affetti, sospende le emozioni forti, (paura, terrore, dolore, sofferenza) non le fa però sparire ma funziona come una lieve diniego. Nella sua funzione di difesa maggiore, l’ambiguità consente al soggetto di non differenziarsi troppo dal mondo esterno in cui si trova, di non entrare troppo in conflitto con la realtà attuale e di conformarsi a essa, tale e quale si presenta una sorta di sospensione che dà tempo all’Io di muoversi verso le altre posizioni oggettuali e di creare nuove discriminazioni (antinomie e conflitto) e comprensione. Poiché l’ambiguità forma parte inevitabile della nostra struttura psichica, siamo adattabili alla realtà esterna quale si presenta, molto più di quanto noi stessi possiamo percepire o sospettare (lo scopriamo solo raramente ad esempio, nel il primo lockdown per Covid).
Durante il processo della cura ho percepito, nei discorsi, sogni e ricordi di ogni paziente reduce da estrema violenza, la nascosta resistenza alla situazione di tortura e di prigionia, sotto forma di una preoccupazione per l’esistenza, il destino, l’integrità e la dignità di un’altra persona (figlio, congiunto, sia vivo che morto o scomparso) che ho chiamato oggetto da salvare. L’oggetto da salvare è la rappresentazione nel mondo interno di un vincolo o legame con un altro soggetto. Esso comporta una dimensione intrapsichica di differenziazione, di alterità e di continuità psichica che dimostra una capacità intrinseca del soggetto di funzionare affettivamente al di là della paura (Eigen, 1981), al di là del terrore senza nome al quale era sottoposto con la violenza e la crudeltà.
Quando nel processo terapeutico il paziente scopre (insight) il suo oggetto da salvare (rimasto segreto, rimosso o dimenticato nel suo intimo), conferma l’esistenza e la continuità della propria soggettività e può dare, alla sua premura per un altro essere umano, il valore o significato di sua sfida segreta alla situazione di tortura alienante e corrompente. Nella costellazione difensiva della sopravvivenza psichica, l’adattamento a qualsiasi cosa e l’oggetto da salvare sono metafore per descrivere due modalità diverse di sfida alla violenza presenti allo stesso tempo nel soggetto vittima.
Nel lavoro terapeutico si tratta di rendere pensabili la situazione traumatica vissuta e le sue difese inconsce e di offrire al paziente la possibilità di trasformare la propria difesa tramite l’ambiguità in ambivalenza critica, e la sua alienazione in capacità di giudizio. Il paziente deve decifrare gli affetti che lo turbano, la sua ansia catastrofica, la sua vergogna, il sentimento della perdita di significato dei suoi desideri e comportamenti, l’alterazione del suo senso d’appartenenza e d’identità; deve essere capace di scoprir il suo rigetto alla violenza subìta e riuscire a delegittimarla. É molto importante per il paziente situare la situazione traumatica nel tempo e nello spazio, ricostruendo le sue circostanze.
Il concetto di spazi della soggettività (di Berenstein e Puget, Kaës), intra-, inter- e trans-, permette di descrivere separatamente alcune conseguenze della violenza estrema imposta al soggetto.
A livello intrapsichico, la tortura provoca nella vittima una regressione difensiva a uno stato di ambiguità (diminuzione della capacità di discriminazione, di conflitto interno e di scelta). La scomparsa violenta di tutti i depositari esterni (dai vestiti fino al ricorso alla giustizia, l’habeas corpus, ecc.) si accompagna all’angoscia catastrofica (perplessità, confusione) che è seguita da uno stato d’indifferenza e di apatia, segnale di un tacito accomodamento alla situazione.
I torturatori si avvalgono dello stato di ambiguità che comporta un’aumentata permeabilità alle introiezioni (suggestionabilità), attaccando verbalmente le appartenenze identitarie del prigioniero (famiglia, credo religioso, ideologia politica, ecc.) e obbligandolo ad atti di tradimento della sua struttura morale (lealtà, fedeltà) per indebolire la sua autostima (per esempio, fornire indirizzi, segnalare altre persone). Essi, inoltre, esercitano attacchi continui alle percezioni e all’orientamento.
La loro intenzione è d’imporre alla vittima un’autorità (di aspetto superegoico) parassitaria, arbitraria ed equivoca che permette l’assassinio, il furto, l’impostura, e che vuole impedire il pensiero critico, la comprensione, l’etica e il riconoscimento dell’alterità. Essi cercano di trasformare i loro bersagli in individui indefiniti, imprecisi e manipolabili che non possano difendere le proprie appartenenze, in cui lo stato di alienazione conduce all’incapacità critica, alla suggestionabilità, all’istallazione in una pseudo normalità e alla banalizzazione della corruzione morale.
Nello spazio intersoggettivo, la violenza sociale traumatica organizzata provoca un’importante alterazione delle relazioni umane (nella famiglia e nel contesto immediato della persona vittimizzata) e introduce inevitabili malintesi tra le persone (rigetto, disprezzo, insorgenza di pregiudizi, ecc.). Il sistema torturante si incorpora direttamente nelle famiglie (attraverso minacce, ordini aberranti, finte promesse), obbligando genitori e parenti a compromessi e ad azioni non volute.
Lo spazio transoggettivo è uno spazio della realtà psichica di condivisione inconscia con tutto un gruppo (Kaës, Ventrici), relativo ai bisogni comuni di sicurezza e certezza
A livello affettivo, la transoggettività si collega a un ampio ventaglio di emozioni e illusioni condivise di fiducia (sicurezza) o di catastrofe (perdita di fiducia) nel senso inteso da Bion (Eigen,) relative alla conservazione o perdita di contesti comuni.
La violenza di Stato è sempre indirizzata allo spazio transoggettivo della soggettività del singolo individuo, giacché modificando o distruggendo i contesti comuni di sicurezza mediante il terrore, la propaganda o procedure socio-economiche, essa conduce ogni soggetto e l’intera popolazione all’adattamento alle circostanze provocate.
Ritornando al lavoro terapeutico delle situazioni estreme, il terapeuta avrà bisogno di tutto il suo allarme etico (Amati Sas, 2020) poiché, anche quando siamo lontani nel tempo e nello spazio dagli avvenimenti traumatici, condividiamo con il paziente lo stesso contesto-mondo di terrore e incertezza, che possiede una grande forza di penetrazione e disorganizzazione, e spinge tutti al conformismo (accettare imposizioni senza rendersi conto).
Da un punto di vista emozionale ed esistenziale, ambedue - paziente e terapeuta - transitano nella cura tra rassegnazione e sfida. Si tratta di sostenere il recupero del funzionamento psichico del paziente e della sua intrinseca capacità di auto liberarsi della pesante esperienza di alienazione, per recuperare il proprio sentimento d’essere in divenire. Nello stesso tempo diventare consapevoli, riconoscere la nostra umana plasticità, ossia l’ambiguità conformista esistente in ognuno di noi, evidenzia un mimetismo che non è accettabile né spiegabile per il soggetto e può provocare intensi sentimenti di vergogna. Nella persona che ha subìto violenza estrema, l’affetto di vergogna segnala un conflitto relativo al proprio adattamento e familiarità con una situazione sinistra inaccettabile. La vergogna diventa un affetto strutturante quando si recupera il suo significato conflittuale.
Considerando la tendenza che tutti abbiamo di entrare difensivamente nell’ambiguità, voglio riferirmi a l’indignazione in quanto sentimento controtransferale. Teoricamente, considero l’indignazione come un meccanismo di disimpegno (Laplanche e Pontalis, 1993); sarebbe il dis-impegnarsi, disfarsi della tendenza a essere conformisti davanti alla violenza; ossia un’emozione, un movimento affettivo che ci permette di uscire dalla perplessità immobilizzante, dalla confusione e dalla paura trasmessa dall’evidenza della crudeltà di un essere umano nei confronti di un altro.
L’indignazione segnala che ci troviamo di fronte a una realtà abusiva non accettabile. Nel sentirci indignati c’è, necessariamente, un impulso (combattivo, aggressivo, di autonomia) che ci permette di separare i valori e di liberare il senso critico, la nostra capacità di operare una scelta di valori, scegliere di poter emettere un giudizio di condanna (Laplanche e Pontalis, 1993). Il punto più importante è mantenere vivo in noi la capacità di indignazione perché nella nostra cultura mass-mediatica tutto può apparire possibile e anche ovvio e giustificabile, e poiché c’è sempre in noi un rischio di complicità non voluta con ciò che è inaccettabile.
Nel tema della tortura si trovano molti problemi esistenziali, molte domande sul senso dell’umano e del restare umani e, soprattutto, sul tema del potere. Risulta necessaria una posizione etica di sfida a nostre tendenze conformiste, una sfida che certamente non è neutrale.
Bibliografia
Amati Sas S. (2020) Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. FrancoAngeli, Milano.
Berenstein I., Puget J. (1997), Lo vincular, Paidos, Buenos Aires.
Bleger J. (1967) Simbiosi e ambiguità. Libreria editrice Lauretana. Loreto, 1992.
Eigen M. (1981) The area of faith in Winnicott, Lacan and Bion, Int. J. PsychaAnal., 66 (3): 321-30.
Laplanche e Pontalis (1993) Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma.
Kaës R. (2009) Le alleanze inconsce, Borla, Roma, 2010.
Ventrici G. (2004) Transubjetividad: un término con historia, un término que hizo historia y un término histórico, in Pensamiento vincular: un recorrido de medio siglo. Publicación Asociación Argentina de Psicología y Psicoterapia de Grupo. Buenos Aires.
*Fonte: SPIweb, 24 Giugno 2021
"ESSERE E TEMPO" E FILOLOGIA. La "svolta" di Hannah Arendt. .... *
L’anniversario del processo.
Eichmann e il male, sempre relativo
Si apriva l’11 aprile 1961 il processo al criminale nazista che ispirò a Hannah Arendt la celebre riflessione sulla “banalità del male”: ancora oggi una sfida al pensiero
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 11 aprile 2021)
Sessant’anni or sono (precisamente l’11 aprile del 1961), si apriva a Gerusalemme il processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, che era stato prelevato in Argentina dal Mossad e condotto in Israele per essere lì giudicato, da quel popolo, ormai nazione, che aveva contribuito a massacrare. Nella sala stampa del tribunale, sedeva la pensatrice tedesca Hannah Arendt, una delle menti più perspicaci e lucide del XX secolo, inviata dal “The New Yorker”, per redigere il reportage delle varie sedute del tribunale. La Arendt trasforma la cronaca in interpretazione filosofica della storia, tanto che introduce nei suoi articoli anche delle parole greche, memore forse di quanto il suo antico maestro Martin Heidegger amava ripetere ai suoi allievi, dicendo loro che si può pensare solo in greco e in tedesco. Fino alla fine rivolse un accorato appello, inascoltato, al filosofo suo mentore perché ritrattasse la sua adesione al nazismo. Al direttore del periodico che le faceva osservare che i lettori non conoscevano il greco, l’inviata filosofa avrebbe risposto che possono sempre impararlo, se vogliono imparare a pensare.
Nel 2012 Margarethe von Trotta trasse dalla vicenda un film molto bello, titolato col nome della pensatrice. Dai reportage la stessa Arendt aveva tratto il suo libro più famoso, La banalità del male (qui citiamo l’edizione digitale Feltrinelli, Milano 2019), il cui titolo originale è Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of Evil (1963). La prospettiva adottata, nel tentativo di districare una vicenda complessa, irta di ostacoli sul piano storico, giuridico (nel senso del diritto internazionale) ed emotivo, offrendone un’interpretazione filosofica, non poteva non avere una sporgenza teologica, almeno nel senso della “teo- dicea”, ovvero della riflessione sul misterium iniquitatis, di cui è intrisa l’esistenza dei singoli e dell’umanità.
L’attualità teo-logica della lezione che si può trarre dalla lettura del reportage, può essere intravista da alcuni passaggi che intendo sottolineare. Nel descrivere la posizione del criminale nazista che veniva processato a Gerusalemme, la Arendt non manca di evocare la sua teologia (che può essere quella del nazismo): «Secondo le sue credenze religiose, rimaste immutate dal tempo del nazismo (a Gerusalemme dichiarò di essere un Gottgläubiger, “credente in Dio” - il termine nazista per indicare chi ha rotto col cristianesimo - e rifiutò di giurare sulla Bibbia), questo avvenimento andava ascritto a un “Essere razionale superiore” (Höherer Sinnesträger), un’entità più o meno identica a quel “movimento dell’universo” a cui la vita umana, priva in sé di un “significato superiore”, è soggetta (La banalità del male, p. 63).
La Arendt avverte il lettore che denominare Dio Höherer Sinnesträger equivaleva ad assegnargli un posto di preminenza nella gerarchia militare. Rispetto a questa entità superiore, Eichmann si percepiva come un Befehlsempfänger, ovvero un portatore di ordini e al tempo stesso un depositario di segreti Geheimnisträger. Ed eccoci al punto decisivo, in cui si svela la “banalità del male”: la burocrazia del sistema. Infatti «il gergo burocratico era la sua lingua’, farcita di cliché, che rivelavano la sua ’incapacità di pensare». Non era un “mostro”, ma forse nemmeno un “buffone”, in lui si manifestava, come in molti oggi, in tutto il suo splendore, la mediocrità della burocrazia. Il suo avvocato ebbe a dire che Eichmann «si sentiva colpevole dinanzi a Dio, non dinanzi alla legge» ( ivi, p. 50), per certi aspetti un’Antigone capovolta.
Ma proprio al cospetto dell’epifania di tanta banalità, avviene la svolta nel pensiero della Arendt, che, nel suo saggio su Le origini del totalitarismo (1951), aveva interpretato i sistemi totalitari del secolo breve alla luce del “male radicale”.
E la traccia di tale Kehre (“svolta”) la rinveniamo in un’espressione particolarmente significativa, che si può leggere nel carteggio della filosofa con Gershom Scholem: «Ho cambiato idea - scrive l’allieva di Heidegger - e non parlo più di male radicale, ora credo che il male non sia mai “radicale”, ma che sia solamente estremo e che non possieda né profondità né spessore demoniaco». Agisce ed opera in quanto «sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di andare in profondità, di toccare le radici nel momento in cui si occupa del male, è frustrato perché non trova niente. È la sua banalità. Solo il bene ha profondità e può essere radicale» (Ebraismo e modernità, Unicopli, Milano 1986, p. 227). Ma la svolta esprime anche un rinon torno, ovvero la ripresa del pensiero agostiniano, oggetto della tesi dottorale (condotta sotto la guida di Karl Jaspers ad Heidelberg e pubblicata nel 1929 col titolo Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica). Il compianto Remo Bodei ha letto la parabola del pensiero della Arendt come un’inclusione agostiniana, che prendendo le mosse dal contenuto della tesi giunge al termine del percorso.
A noi pare decisiva per questa inclusione l’affermazione della radicalità del bene, che relativizza il male e lo sconfigge in un sempre nuovo inizio. Una citazione dell’Ipponense ricorre negli scritti della pensatrice tedesca:
«Initium ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit» (“affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nessuno”). E «questo inizio non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa, ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore. Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima» (Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2012, p. 251, edizione digitale).
L’unicità della persona e la sua libertà responsabile trovano in questo inizio il loro fondamento. Noi in tale inizio rinveniamo la possibilità di “ricominciare”. Per quanto, infatti, allorché ci troviamo nel pieno della tempesta, pensiamo che il male che ci assale sia invincibile e assoluto, la Arendt viene invece a ricordarci che esso è sempre e comunque relativo, ossia contingente e che può e deve essere sconfitto nell’esercizio del nostro agire responsabile. Nella visione cristiana, che appartiene alla filosofa ebreo-tedesca, la possibilità di un nuovo inizio si fonda sull’evento pasquale, come ha ricordato papa Francesco, nell’omelia della veglia: «Ecco il primo annuncio di Pasqua che vorrei consegnarvi: è possibile ricominciare sempre, perché sempre c’è una vita nuova che Dio è capace di far ripartire in noi al di là di tutti i nostri fallimenti. Anche dalle macerie del nostro cuore - ognuno di noi sa, conosce le macerie del proprio cuore - anche dalle macerie del nostro cuore Dio può costruire un’opera d’arte, anche dai frammenti rovinosi della nostra umanità Dio prepara una storia nuova. Egli ci precede sempre: nella croce della sofferenza, della desolazione e della morte, così come nella gloria di una vita che risorge, di una storia che cambia, di una speranza che rinasce. E in questi mesi bui di pandemia sentiamo il Signore risorto che ci invita a ricominciare, a non perdere mai la speranza».
E tale fondamento deve trovare terreno fertile nelle nostre menti e nei nostri cuori, perché non resti nel passato, ma si renda vivo e presente. E in questa prospettiva “antropologica” la lezione della Arendt è attuale e feconda. Un motivo di incredibile attualità, nell’orizzonte della banalità del male lo abbiamo trovato in una lettera di Karl Jaspers alla Arendt, risalente al periodo bellico. Qui il filosofo, per esprimere la “normalità” del male si affida all’esempio dei batteri, capaci di provocare epidemie letali per intere popolazioni, ma che restano pur sempre microorganismi (H. Arendt - K. Jaspers, Carteggio (19261969): filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989, p. 71). Microorganismi che con la ricerca scientifica possiamo conoscere sempre meglio, per non soccombere e ricondurli alla loro contingenza, immunizzandoci dal loro potere distruttivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica. L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
"Nel 2011 chiesi ad Aldo Zargani di scrivere una cosa per i 50 anni del processo Eichmann. Dieci anni dopo, per i 60 da quello storico evento raccontato da Hannah Arendt, è sempre utile rileggere le sue parole" (Bruno Simili):
Il processo Eichmann
di Aldo Zargani (Il Mulino, 10 aprile 2011)
Cinquant’anni fa, l’11 aprile 1961, si aprirono a Gerusalemme le udienze del processo ad Adolf Eichmann, uno dei principali responsabili dello sterminio nazista degli ebrei. Il processo si concluse con l’esecuzione della condanna a morte dell’accusato, l’unica nella storia dello Stato di Israele.
Eichmann era “uno specialista”, esperto nella questione ebraica: iniziò la sua impresa criminale collaborando all’organizzazione dell’espulsione degli ebrei dalla Germania, poi, dopo l’Anschluss, nel 1938, si occupò con straordinaria efficacia di quella degli ebrei dall’Austria. Presto i suoi compiti professionali di espulsore si trasformarono in quelli di deportatore verso i campi di sterminio. Non fu alieno dal trattare con gli “esseri inferiori” fin dal 1933, quando ebbe contatti con le autorità ebraiche per esiliare gli ebrei tedeschi verso la Palestina; infine nel 1944 condusse un negoziato con l’Agenzia Ebraica per lo scambio della vita di quasi 500.000 ebrei ungheresi con 10.000 autocarri e con generi alimentari. Fallita la trattativa per il rifiuto degli Alleati, avviò diligentemente gli ebrei ungheresi allo sterminio. Sul processo Eichmann sono state spese molte parole sui quotidiani, scritti numerosi volumi e realizzati documentari e film. Tra tutte queste opere spicca Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil di Hannah Arendt (1963), una raccolta delle corrispondenze per il “New York Times”, la cui edizione italiana, purtroppo, vide invertiti titolo e sottotitolo, sicché il libro diventò, semplicemente, La banalità del male.
“La banalità del male” della grande pensatrice de Le origini del totalitarismo (The Origins of Totalitarianism, 1951) sfiora la verità, ma non riesce del tutto a raggiungerla.
Come giustamente afferma la Arendt, anche la biografia di Eichmann, come quella di tanti altri assassini, è del tutto banale: nato nel 1906 in una famiglia della buona borghesia, non terminò gli studi per la folgorante adesione all’ideologia nazista... uno dei tanti. E qui, senza ricorrere a turbe psichiche, orrori morali, perversioni, la sua biografia comincia a farsi assai meno banale: intraprende con successo la carriera nelle gerarchie delle SS, che forniva l’ebbrezza del potere assoluto, compreso quello di disporre della vita e della morte di milioni di innocenti.
Non è banale il male, ma l’identità di chi lo compie. Il male infatti fu l’ideologia che era perversa e niente affatto banale, e non lo è il perfetto processo di anestesia al dolore altrui di Eichmann e dei tanti suoi simili che ne fu la conseguenza.
Karl Adolf Eichmann, una volta sottoposto nella gabbia del tribunale alle regole procedurali di legge, subì, come ogni criminale in ogni processo, la punizione della riduzione alla mediocrità, che è l’effetto della procedura penale che costringe l’enormità del crimine compiuto alla miserabile e oggettiva responsabilità personale.
La linea di difesa dei criminali di guerra nei processi che si celebrarono dopo il conflitto mondiale fu tenace e monotona: anche Eichmann asserì di “aver obbedito a precisi ordini superiori”; insistette di “non aver nutrito alcun odio personale per le vittime”, anzi, di aver dovuto, più volte, tacitare la propria “sofferenza” per mettere in pratica il mandato che gli competeva.
I capi imputati al processo di Norimberga, quei superiori che impartivano gli ordini, affermarono invece con altrettanta convinzione di non aver saputo, di non aver mai immaginato... che tutto andò al di là delle loro intenzioni...
Gli esecutori obbedivano agli ordini dei capi e i capi impartivano ordini dei quali non prevedevano le conseguenze.
Ma Eichmann, nel gennaio 1942, era presente alla Conferenza di Wannsee nella quale i capi nazisti decisero nei dettagli lo sterminio degli ebrei, la preparò e ne stese i verbali, e quindi fu contemporaneamente capo ed esecutore. E già questo sarebbe bastato alla sua condanna.
Oltre ai verbali dei processi, le autobiografie di Höss e Frank, e poi gli studi di Gitta Sereny su Stangl e Speer, attestano le ferali contraddizioni dei colpevoli. Ebbene, si può supporre che tutti questi delinquenti - de-linquere in latino significa “lasciare indietro, abbandonare” - fossero perfino in buona fede nelle loro affermazioni tanto aberranti da apparire incredibili. Il loro errore consisteva nel non aver capito mai che gli ordini superiori cui così ciecamente obbedivano, o impartivano, erano quelli dei “memi” ideologici che li avevano contaminati, anzi che si erano incarnati nei loro cervelli.
Con le menti alterate dalla mostruosa lente deformante dell’ideologia razzista, gli esecutori dell’eccidio si credevano “medici” dell’umanità, chirurghi che obbedivano alla dottrina del miglioramento del mondo mediante la soppressione dei viventi subumani. “Amputazioni”. E la gente perbene distoglieva lo sguardo.
Shoah. Quando la luna splendeva sopra il sonderkommando
L’esperienza dei prigionieri costretti a collaborare allo sterminio costituisce un abisso dentro l’abisso, in cui la lotta per la sopravvivenza raggiunge la violenza assoluta
di Raul Gabriel (Avvenire, sabato 23 gennaio 2021)
La vicenda del sonderkommando non è La vita è bella o la colonna sonora un po’ zuccherosa di Schindler’s list. Non si può disinnescare con la retorica che maschera la nostra indifferenza. Non è come siamo soliti immaginare le storie, con un inizio, uno svolgimento e una fine, su cui siamo ansiosi di piazzare la morale per fare bella figura. Questa storia non ha né una fine né una morale. È una abnorme finestra mistica sull’abisso in superficie, l’abisso dell’ordinario. Ogni morale qui è sospesa perché nessuno è in grado di farsene carico.
Su questa terra è esistita una realtà creata e nominata dai nazisti sonderkommando. Gruppi di deportati il cui compito era supportare le SS nelle operazioni di sterminio. Sconvolgente. Sabbia mobile di una meditazione interdetta e senza sfogo, sempre sul punto di abbandonare, sempre tenuta in vita da una domanda che parte dalle viscere ma non arriva da nessuna parte. La storia del sonderkommando, come un giudice inappellabile, chiama in causa l’ipocrisia umana fatta sistema. Il sonderkommando è la prova della nostra ineludibile contiguità con il male che puntualmente tentiamo di negare.
Un male apparentemente inspiegabile, così al limite da risultare impossibile allo sguardo, anche da lontano, se non si vuole diventare statua di sale. La mia visita ad Auschwitz di due anni fa, nata dal caso, ha generato in me una scossa irriducibile che mi ha condotto nel tempo verso il sonderkommando.
A prima vista il sonderkommando sembra delineare una categoria di chimere ignobili. Peggio dei carnefici. Primo Levi li definisce corvi neri, da uomo riflessivo e mite quale me lo immagino. Il sonderkommando, il non classificabile, portatore di un fardello di colpa su cui è meglio non esprimersi perché sembra sporcare tutto ciò che tocca.
Il sonderkommando però non erano corvi. Erano uomini. Non erano i carnefici. Erano vittime. Private dei diritti delle vittime. Private del diritto di compiangersi. Quello che succedeva nel sonderkommando e attraverso il sonderkommando era il punto limite dell’umanità. Eppure è stata quotidianità per migliaia di esseri umani. A volte di una umanità che lascia sgomenti. Il sonderkommando. In bilico costante sulla voragine di un passaggio tragico, orrendo, mistico. Pensato e realizzato dagli uomini, ma oltre l’uomo. Ad alcuni è stato imposto di stare sulla porta dell’inferno che è oltre l’apparenza, pure brutale, di quel rito.
Non molto tempo fa ho trovato il libro che raccoglie gli scritti furtivi di Salmen Gradowsky, seppelliti a Birkenau nella speranza che qualcuno, un giorno, li avrebbe trovati: Sonderkommando, diario di un crematorio di Auschwitz, 1944.
Un grido soffocato di esistenza, rivendicazione di una umanità la cui perdita si rinnova ogni momento. -Gradowsky è stato membro del sonderkommando di Auschwitz per parecchi mesi. La sua unica possibilità di dirsi umano si è aggrappata al racconto del suo incomprensibile giorno ordinario. Di cui è stato vittima e operaio, nel punto critico della storia e del mondo. Perché si voleva sopravvivere, anche ad Auschwitz. Il punto critico era un percorso breve e assoluto, concentrato di morte. I membri del sonderkommando celebranti. I nazisti, i veri carnefici, hanno immaginato il sonderkommando come disumanizzazione definitiva.
Quello di Gradowsky è un testo mistico. Attraverso le sue parole semplici, a tratti anche poetiche, mi sono affacciato a una finestra di cui non posso avere immagini, odori, suoni. Per fortuna. Quelle poche righe mi hanno come sospeso nel compiersi di quel rito mostruoso e ordinario, senza risposta, soluzione o redenzione. Il passaggio dal camion alla svestizione, alla camera a gas e quindi al forno è fatto di persone, è fatto di gesti.
Gradowsky è costretto dalla maledetta sopravvivenza ad assistere e celebrare il martirio di persone come lui, nella speranza contraddittoria e ossessiva che qualche loro gesto eroico potesse scardinare il meccanismo di distruzione, soccorrendo la sua fatale impotenza. È lì, ma non comprende. La dissociazione tra il gesto meccanico e la sua umanità in agonia è lancinante. Lo stupore, la rassegnazione, la disperazione, la menzogna. Il tempo della trasformazione industriale dell’uomo in cenere è la notte, illuminata da una luna che splende sempre e comunque su vittime e carnefici, senza preferenze. Pensando all’infamia dei compiti atroci del sonderkommando, siamo tutti pronti a giurare che noi non lo avremmo fatto. È un esempio meschino di sdegno ipocrita e vigliacco, il primo a voltare la testa di fronte ai soprusi di ieri e di oggi. La verità è che nessuno può dire cosa avrebbe fatto sotto la minaccia di passare per il camino, in condizioni di deprivazione della volontà.
Nell’immaginario comune, almeno lo era per me, non ci si chiede molto sulle camere a gas. Si pensa che quando uno vi entrava la catena del dolore era finita. Non è così. Arrivare alla camera a gas non era la fine dell’inferno. La camera a gas era il gradino più basso di un incubo ancora tutto da vivere. La camera a gas era feroce, terrificante. Schiacciati nel buio insieme a centinaia di altre persone i cui corpi diventavano l’ultimo strumento di morte. Lì dentro la lotta era tremenda. Quando, terminate le grida, veniva aperta, l’indistricabile groviglio di corpi trovava i più robusti in alto, morti cercando di sfuggire al gas che si diffondeva dal basso, dopo aver calpestato e schiacciato i più deboli, bambini, donne, anziani. Era una colpa questa? No. Su questo non può esservi dubbio.
La pietà prevale su ogni giudizio quando l’uomo è posto così all’estremo da non riconoscersi. Per il sonderkommando vale lo stesso. Se non era una colpa cercare l’aria schiacciando gli altri non è stata una colpa cedere alla sopravvivenza. Anche questo è un uomo.
Il santo, l’eroe, sono l’eccezione. Che non può essere richiesta come attestato del minimo di dignità umana. Perché decreterebbe la condanna definitiva della maggior parte di noi. Gli scritti di Gradowsky hanno un livello di umanità spiazzante che stride in modo insopportabile con la realtà da cui provengono. Il sonderkommando parla di noi, anche se non vogliamo sentirlo dire. La loro infinita disgrazia è un monito che ci permette di guardare dentro un po’ di più senza pagarne il prezzo. Gradowsky non mi fa rabbia né orrore. Gradowsky mi fa tenerezza, una tenerezza ormai inutile. Ma tenerezza.
Tenerezza per lui, per tutte le vittime, per il genere umano, per me. Non è una risposta. È l’inizio di una domanda. Inizio della trasformazione di ciò che è stato distruzione in fonte di vita, ispirazione, rigenerazione, senza cui ogni memoria, ogni celebrazione, sono profondamente, irrimediabilmente inutili.
In ricordo di Zeev Sternhell
di Redazione "Il Mulino" *
La maggior parte dei tuoi studi si è concentrata sul fascismo. Come mai ti sei interessato a questo argomento, e qual è stata la spinta iniziale?
Mentre stavo compiendo i miei studi di Master scoprii i testi di Maurice Barrès, lavori che all’epoca erano praticamente dimenticati. Cominciai a leggerli e trovai riflessioni che mi colpirono profondamente. La prima fu quella che Barrès definì «il senso del relativo», vale a dire il rifiuto di norme universali, di tutta la tradizione occidentale dell’Illuminismo: una visione che conduce ad una guerra totale contro Kant e l’imperativo categorico. Tutto ciò emerge nel suo più importante romanzo politico, Les Déracinés (1897), nel quale egli esprime in maniera compiuta la sua visione del nazionalismo e della nazionalità, quella «della terra e dei morti». Quando uno lo legge si rende conto che non c’è alcuna differenza tra questa visione e quella del «Blut und Boden» (sangue e suolo). Studiando quindi le argomentazioni con le quali la destra radicale ha condotto la propria guerra contro il relativismo morale e Kant - che insieme a Jean-Jacques Rousseau è il principale rappresentante dell’Illuminismo - capii che lì, in quelle argomentazioni, c’era l’inizio di una risposta alle domande che mi stavo facendo io stesso: e cioè, perché tutto ciò accadeva in Francia? Se fossi stato in Germania non mi avrebbe sorpreso, e se fossi stato in Italia avrei detto: beh, il fascismo... Ma perché in Francia? Perché in una società identificata con i principi della rivoluzione del 1879?
Questi interrogativi rappresentano l’inizio della mia ricerca: stimolato da tutto ciò scrissi il libro su Barrès, Maurice Barrès et le nationalisme français (1972) derivato dalla mia tesi di dottorato. Questo saggio aprì un lungo percorso di ricerca. Il mio secondo libro, dedicato destra rivoluzionaria, è intitolato La droite revolutionaire (1885-1914), ma con un sottotitolo significativo, Les origines françaises du fascisme (1978). Infatti non intendevo parlare delle origini del fascismo francese, bensì delle origini francesi del fascismo. Per la prima volta si metteva l’accento sulle fonti intellettuali francesi del fascismo, e questo fu considerato molto originale. Questo lavoro, affiancato da quello precedente su Barrès, allargò il mio orizzonte e mi portò ad affrontare non solo elementi ideologici ma anche sociali e politici. In quel momento ero già convinto che l’origine del fascismo dovesse essere ricercata in Francia.
L’Italia venne dopo. Studiando la destra radicale e poi il boulangismo capii che in quella fase - gli anni Ottanta del XIX secolo - si manifestava la prima crisi del liberalismo, e ciò avveniva nella più avanzata società liberale dell’Europa, la Francia. Il boulangismo fu un fenomeno affascinante perché conteneva tutti gli elementi fondamentali dell’estrema destra: il nazionalismo radicale e organicista, l’antisemitismo, l’esaltazione del leader. Tutta l’animosità contro l’ordine liberale e borghese espressa dalla destra radicale, così come dalla sinistra radicale non-marxista, si presenta in una forma ancora embrionale in quegli anni. Tuttavia emerge in maniera evidente che la destra non deve essere di necessità conservatrice, ma può essere anche rivoluzionaria.
Così si arriva al fascismo del XX secolo?
Sì. Tutto ciò converge nel mio terzo libro La naissance de l’ideologie fasciste (1989) al quale hanno contribuito Maia Asheri e Mario Sznajder. Ma l’impianto concettuale è una prosecuzione, o piuttosto un esame più approfondito, di quanto era stato già elaborato nei precedenti lavori. Siamo arrivati a rintracciare il momento della nascita dell’ideologia fascista seguendone lo sviluppo lungo tutto il XIX secolo. In particolare abbiamo messo in luce il colpo di genio di questa ideologia: la separazione tra la struttura economica del liberalismo e i suoi contenuti morali e intellettuali. Il sindacalismo rivoluzionario di George Sorel catturò la mia attenzione fin da quando ero studente tanto che scrissi un paper su Sorel e Tocqueville per il corso di Jacob Talmon, l’autore del fondamentale studio sul totalitarismo.
Nel XIX secolo la divaricazione tra liberalismo e democrazia si era considerevolmente ridotta e verso il 1880 si era praticamente chiusa. Fu in quel momento che Sorel e i sindacalisti rivoluzionari compresero che le due dimensioni potevano essere separate, accettando l’una e rigettando l’altra. Questa fu l’impostazione originale e geniale del fascismo.
L’ideologia fascista è nata da un’ideologia anti-razionalista, anti-materialista, anti-marxista e da un nazionalismo radicale preesistente. Tutti i fondamenti del nazionalismo organico, cioè il culto dei morti e la venerazione della tradizione, esistevano già nella destra radicale francese, e anche in Ernest Renan. Di Renan si ricorda spesso la sua immagine della nazione come «plebiscito quotidiano» ma per Renan la nazione è un’entità organica.
Quest’idea esisteva già in Johann Gottfried Herder. Quindi l’idea che la nazione fosse un organismo vivente non è un’invenzione italiana in quanto era già presente in una tradizione che va da Herder a Renan; e Barrès la confeziona in una versione moderna che poi gli italiani adottano perché fa parte della loro stessa cultura. Quindi il nazionalismo storico, radicale e organico, unito alla venerazione degli antenati seppelliti nel proprio suolo e al richiamo al «Blut und Boden» (sangue e terra), da un lato, e la revisione anti-razionale e antimaterialista del marxismo avviata da Sorel, dall’altro, accomunati entrambi dall’idea che la violenza sia uno strumento necessario per il cambiamento dell’ordine sociale, diventano i principali ingredienti del fascismo. I sindacalisti rivoluzionari soreliani rifiutavano l’ordine esistente e volevano cambiarlo con la forza e la violenza. Se questa forza rivoluzionaria non può più essere fatta da una classe - il proletariato - può essere condotta da tutte le classi e dalla nazione intera. Questa è la situazione alla vigilia della prima guerra mondiale.
C’è allora un rapporto diretto tra la prima guerra mondiale e il fascismo?
Mussolini durante la guerra integrò tutti gli elementi nazionalisti dandogli forza politica. Ne La naissance de l’ideologie fasciste dimostriamo come questa ideologia esistesse già prima della prima guerra mondiale. E quindi il fascismo non è una conseguenza diretta della grande guerra. La nostra interpretazione non è condivisa da vari studiosi; anche George Mosse, che pure ha attribuito molta importanza alla prima guerra mondiale, non concorda con la nostra impostazione e cioè che il fascismo esisteva, nella sua essenza, già prima della grande guerra.
Il conflitto rese possibile il passaggio dal regno delle idee all’azione politica concreta. Inoltre, a nostro avviso, il fascismo non è un fenomeno limitato al periodo tra le due guerre e non è certo finito dopo il 1945. Non c’è alcun valido motivo «metodologico» per sostenere che l’ideologia del fascismo si sia esaurita con l’esecuzione di Mussolini o con il suicidio di Hitler. Infine il fascismo può essere considerato il miglior prisma per studiare l’evoluzione della politica europea nel XX secolo, molto meglio del nazismo. Il fascismo fu una guerra contro la modernità razionalista universalista e contro il diritto naturale e i diritti umani: in una parola contro l’Illuminismo. Il nazismo fu invece una guerra contro l’umanità.
In che misura l’antisemitismo ha indirizzato il tuo interesse verso lo studio del fascismo?
Quando incominciai le mie ricerche non immaginavo quanto fosse forte l’antisemitismo nella Francia del 1880 e nemmeno quanto lo fosse nel periodo tra le due guerre. In particolare mi chiesi perché le leggi razziali francesi promulgate nell’estate del 1940 fossero più rigide di quelle italiane e addirittura delle leggi naziste di Norimberga. Il destino degli ebrei costituisce una cartina di tornasole per comprendere questa posizione. Vale a dire, la rivoluzione francese rese liberi sia gli ebrei che gli schiavi neri sulla base dei principi della Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, principi che si fondavano sui diritti umani e che stabilivano che la nazione era composta da tutte le persone che vivevano in un determinato territorio ed erano governati da un solo governo.
E questo era tutto. Non c’era nulla che riguardasse la storia o la religione. Il principio era politico e giuridico, e si basava sul valore dell’uguaglianza. Quindi, dato che il regime di Vichy rigettava i principi della rivoluzione francese e di conseguenza l’Illuminismo, l’eliminazione delle leggi di emancipazione degli ebrei costituivano il passaggio più significativo. Del resto, sin dalla fine dell’Ottocento l’antisemitismo incominciò ad essere usato come un’arma politica contro l’Illuminismo. Questa è la ragione per cui mi sono interessato alle vicende degli ebrei e all’antisemitismo. C’è comunque una differenza tra fascismo e nazismo su questo punto. Nel fascismo l’antisemitismo è uno strumento per una battaglia anti-illuminista, nel nazismo è un obiettivo in sé stesso. Il fascismo può usare antisemitismo a diverse gradazioni e consentire che anche gli ebrei siano fascisti, mentre non era immaginabile che anche un ebreo potesse essere nazista.
E veniamo ora al tuo libro più discusso, «Ni droite, ni gauche. L’idéologie fasciste en France», del 1983
Questo lavoro prosegue la linea di ricerca de La droite révolutionaire. È soprattutto un lavoro di storia delle idee e di quanto le élite intellettuali influenzarono l’opinione pubblica e la politica francesi. La sua pubblicazione ha suscitato grande scalpore e parecchie polemiche in Francia. Credo che questo sia addebitabile a tre aspetti. Il primo è che dimostrava ancora più chiaramente che nei lavori precedenti che il fascismo non è una imitazione del fascismo italiano bensì è un prodotto originale francese. In secondo luogo mostra la profondità e la presa del fascismo nella società francese e soprattutto nella sua élite intellettuale. In terzo luogo sottolinea il ruolo del regime di Vichy. Questi tre fattori crearono molto sconcerto in Francia, soprattutto la questione di Vichy. Il regime di Vichy non era conservatore bensì rivoluzionario e fascista, tant’è che ruppe con centocinquant’anni di storia francese. All’epoca fu difficile per i francesi accettare queste interpretazioni di Vichy anche se poi divenne chiaro che era una questione generazionale in quanto gli intellettuali di una generazione più giovane sostennero sostanzialmente questa interpretazione e inaugurarono un nuovo filone di ricerca sul tema.
Tutto quanto abbiamo discusso fin qui conduce al tuo ultimo lavoro, quello dedicato all’anti-Illuminismo, «Les anti-Lumières. Du XVIII siècle à la guerre froide» (2006). Come si connette con i tuoi lavori precedenti? E come sei arrivato a quest’opera?
Immagina uno che salendo una scala, gradualmente allarga il proprio orizzonte. In questi - orami lunghi - anni di studio mi sono imbattuto in tutta una serie di opposizioni all’illuminismo. Leggendo Barrès scoprii che in un suo romanzo, Les déracinés, descrive, con un riferimento biografico, come un insegnante sradichi i propri studenti dalla loro cultura originaria e dal loro ancoraggio alla terra trasformandoli, appunto, in déracinés. L’insegnante era professore di filosofia ed era un kantiano: insegnava l’«imperativo categorico» del filosofo di Könisberg che per Barrès rappresentava la «grande calamità» della cultura francese.
Ma ancora prima di Barrès, nel mio libro sottolineo come la più solida costruzione filosofico alternativa all’Illuminismo viene da Herder. Nel suo primo pamphlet, pubblicato nel 1774, ci sono tutti gli argomenti che saranno sviluppati in seguito: l’alternativa al razionalismo alla concezione giuridico-politica della nazione, al concetto kantiano dell’autonomia dell’individuo. Solo alcuni anni più tardi, dopo che Herder pubblica il suo grande libro Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1774-1791), Kant reagisce scrivendo una risposta ferocemente critica del lavoro di Herder. Questo scontro può essere interpretato come l’inizio del conflitto tra la tradizione razionalista kantiana-rousseouiana e la «seconda modernità», quella anti-razionalista.
Ho utilizzato questa chiave interpretativa per analizzare tutta la storia europea dell’Ottocento e del Novecento. Sono partito da Herder perché lo considero il vero capostipite di questa tradizione e perché il filosofo tedesco ha influenzato in maniera «insospettabile» molti anti-illuministi da Jules Michelet a Edgard Quinet a, persino, Isaiah Berlin. In particolare mi sono concentrato nel rintracciare la sua influenza e i rapporti incrociati tra i vari autori nel tempo per scoprire quanto delle iniziali critiche anti-illuministe venissero poi riprese e rilanciate nel corso degli ultimi due secoli.
In ricordo di Zeev Sternhell di Redazione "Il Mulino" *
-*** Riproponiamo l’intervista di Mario Snajder a Zeev Sternhell, lo storico e scienziato della politica israeliano scomparso oggi [21 giugno 2020].
[...]
Di recente hai scritto un importante lavoro sulla nascita dello Stato israeliano «Nascita d’Israele. Miti, storia, contraddizioni». Come è nato? E come si collega con gli altri tuoi lavori?
Qui c’è un aspetto autobiografico. Quando giunsi in Israele, nel 1951, sentivo sempre parlare di socialismo israeliano. Ma non capivo di che socialismo si trattasse. Non capivo il concetto di comunità di lavoro. Quando andavo a scuola vedevo i contadini della comunità di Magdiel (una delle prime quattro comunità di lavoro ebraiche, moshavot, fondate nel 1924) che andavano a lavorare molto presto alla mattina. Poi, oltre ai contadini proprietari, c’erano anche dei lavoratori salariati che lavoravano altrettanto duramente ma non erano considerati sullo stesso piano. Io non capivo la differenza tra questi due gruppi. Per me erano entrambi dei coloni lavoratori. Il punto è che il kibbutz originariamente era stato concepito anche come un’entità politica dove realizzare gli ideali socialisti. Infatti, quando dopo la guerra arrivarono nuove ondate di immigrati, nei kibbutz si discuteva sull’importanza del lavoro indipendente e autonomo, senza assumere forza lavoro dall’esterno. Eppure, al di là della fedeltà al principio teorico-ideologico socialista del non-sfruttamento c’era la necessità di dar lavoro ai nuovi arrivati. Inoltre, il lavoro è un grande fattore di integrazione.
Nel mio lavoro, che copre il periodo dal 1905 - inizio della seconda immigrazione sionista - al 1948 - fondazione dello Stato di Israele - analizzo le vicende della Confederazione del lavoro, l’Histadrut (che dispone di un immenso archivio, degno di una grande organizzazione burocratica qual era) e poi del partito laburista, il Mapai. Entrambi parlavano di socialismo : ma che tipo di socialismo avevano in mente ? Il socialismo era nel kibbutz, che voleva essere una società socialista esemplare. Ma fuori, la società non era diversa da quella borghese ; in più, era anche povera.
Il mio interrogativo centrale si rivolgeva al rapporto tra socialismo e nazionalismo. Da un lato volevano costruire una società ebraica che eventualmente avrebbe potuto costituirsi come Stato, e dall’altro volevano costruire una società giusta, egualitaria e democratica. Ma non riuscirono a mantenere un equilibrio tra i principi del nazionalismo che sono particolari e quelli del socialismo che sono universali. La costruzione dello Stato e la conquista dell’indipendenza si scontrarono con i principi del socialismo. Aaron David Gordon, il pensatore sionista e protosocialista di inizio secolo, diede un significato classico della nazione seguendo l’impostazione organicista e nazionalista. Per Gordon è la nazione che crea l’individuo, la cultura e il linguaggio. Intervenendo dal proprio kibbutz, Degania, il primo ad essere fondato, Gordon sosteneva che i lavoratori ebrei vogliono unirsi con gli ebrei borghesi, e non con i lavoratori di un altro Paese. Non pensava di modificare l’ordine sociale esistente. Non c’era alcuna intenzione di rompere con il capitalismo. La lotta di classe non era prevista mentre, al contrario, la cooperazione tra le classi era considerata necessaria per la costruzione della nazione. E infatti, negli anni Venti e Trenta si stringe un’alleanza tra il partito socialista e la borghesia. I sindacati non lottano per un mutamento sociale e, in sostanza, accettano il capitalismo mentre la borghesia « rinuncia » a esercitare direttamente il potere politico lasciando spazio ai laburisti. Ad esempio, Ben Gurion fin dall’inizio degli anni Trenta cerca di eliminare le scuole operaie gestite dall’Histadrut (ci riuscirà completamente solo negli anni Cinquanta quando verrà creato un sistema educativo statale). I sostenitori del progetto « nuova educazione », tutti giovani immigrati dall’Unione Sovietica, volevano scardinare l’impostazione esistente e creare una educazione libera che forgiasse bambini autonomi e consapevoli. Costoro vennero però emarginati e indirizzati in kibbutz dove potevano mettere in atto i loro esperimenti.
Ma che interpretazione dai del kibbutz?
Pensiamo a duecento giovani donne e uomini che sbarcano da una nave a Jaffa o ad Haifa e si disperdono nel Paese. Duecento persone come queste quando fondano un kibbutz e prendono possesso della terra diventano un vero e proprio corpo combattente. Il kibbutz diviene una postazione militare. Moltiplichiamo questi duecento per dieci, quindici o venti e si ha il controllo della Galilea, della Valle del Giordano, e di altre aree strategiche. In realtà il kibbutz fu uno strumento per la conquista del territorio e per la nascita del Paese ; non fu uno strumento per il cambiamento dell’ordine sociale. L’unico tentativo per riprodurre il kibbutz fu quello del «battaglione del lavoro» - Gdud Ha’Avoda - che però venne presto eliminato da Ben Gurion il quale voleva mantenere il ruolo centrale dell’Histadrut.
Un altro progetto egualitario fallì quasi subito. Negli anni Trenta, quando la situazione economica migliorò, venne introdotto il salario famigliare per finanziare soprattutto le spese mediche e di istruzione. Quest’idea egualitaria venne però abolita poco dopo la nascita di Israele. E questo comportò anche l’abbandono di ogni ipotesi di modifica del sistema capitalistico. Allo stesso tempo si rinunciò anche all’idea di una cooperazione tra i lavoratori arabi e quelli ebrei. Questo problema creava una forte conflittualità tra i vecchi insediamenti ebraici in Galilea che impiegavano forza lavoro araba e quelli nuovi, della quarta immigrazione, che impiegavano solo manodopera ebraica. I leader sindacali rinunciarono presto all’egualitarismo perché questo confliggeva con gli interessi nazionali. Il socialismo era concepito per favorire la costruzione dello Stato e della nazione. Il sindacato si identificava con i lavoratori ebraici della terra di Israele e quindi la collaborazione con gli arabi era praticamente inconcepibile. Del resto, nel 1922, lo stesso Ben Gurion disse che erano arrivati in Palestina non per organizzare qualcuno ma per conquistare la terra. Tutto era indirizzato all’obiettivo fondamentale, la costruzione dello Stato e della nazione.
Come vedi il futuro dello Stato di Israele?
Nella mia opinione l’acquisizione e occupazione delle terre fino al 1948 fu legittima in quanto necessaria : era una questione di sopravvivenza. Gli ebrei avevano bisogno di un pezzo di terra in cui andare a vivere. Del resto nessuno li voleva. Dopo la seconda guerra mondiale c’erano trecentomila rifugiati ebrei che non sapevano dove andare. Per questo non ho mai avuto nessun dubbio sulla legittimità del sionismo fino alla nascita dello Stato di Israele ; per questo penso che tutto quello che è stato fatto fino al 1949 fosse giusto, nonostante la Nakbah e l’espulsione degli arabi-palestinesi : era un’esigenza vitale.
Ma allo stesso tempo credo che tutto quello che è stato fatto dopo il 1967 non sia stato né legittimo né giusto perché non riguardava alcun interesse vitale. Tra il 1949 e il 1967 fu chiaro che tutti gli obiettivi del sionismo potevano essere raggiunti all’interno dei confini di allora (la « Linea Verde »). In precedenza, invece, vi era stata una situazione di guerra più o meno continua tra ebrei e arabi.
Gli insediamenti impiantatisi al di là della Linea Verde dopo il 1967 sono la più grande catastrofe nella storia del sionismo perché hanno creato una situazione coloniale. Hanno creato proprio quella situazione che il sionismo voleva evitare. In un certo senso la divisione tra lavoratori arabi ed ebrei lastricava la strada verso il colonialismo, e questo fu chiaro dopo il 1967. Pur tenendo conto di tutti i disagi inflitti agli arabi-palestinesi il sionismo salvò più di mezzo milione di ebrei che, se non avessero abbandonato l’Europa, non sarebbero sopravvissuti. Il sionismo però, a mio avviso, si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Per questo il sionismo ha diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi.
Chi vuole precludere ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per sé stesso soltanto. Tutto ciò deve essere messo in pratica e richiede una visione liberale della nazione che non siè mai realizzata praticamente da nessuna parte. I diritti nazionali sono un’estensione dei diritti individuali e per questo sono universali : i diritti degli israeliani non sono differenti da quelli dei palestinesi.
Per questa ragione gli insediamenti devono fermarsi e l’unica soluzione logica sia per gli ebrei che per gli arabi è quella di due Paesi per due popoli. L’ipotesi di un unico Stato non solo porta all’eliminazione dello Stato ebraico ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli, questa è la strada giusta e necessaria : ogni altra scelta condurrebbe o al colonialismo o alla eliminazione di Israele in uno Stato binazionale.
*[Da "il Mulino", n. 1/10, Doi : 10.1402/31091, Copyright © 2010 by Società editrice il Mulino, Bologna: qui è possibile scaricare il pdf, completo dell’introduzione]
Martin Heidegger e i Quaderni Neri
Pensiero, Politica, Poesia
di Daniele Gorret (Doppiozero, 03.02.2019)
“Tutti parlano, nessuno ascolta. Ognuno scrive, nessuno pensa”, scriveva Heidegger nei suoi Quaderni Neri, Note I-V. A qualche anno dalla lettura in traduzione italiana dei primi tre volumi (Riflessioni) e a qualche giorno dall’ultima pagina del quarto (Note I-V), in attesa del prossimo quinto tomo dei Quaderni Neri di Martin Heidegger, si può tentare un’impressione (o una tempesta di impressioni) su questo lascito enorme (quantitativamente e qualitativamente enorme) del “mago di Messkirch”? La risposta è, obbligatoriamente, nel segno del dubbio. Si può, si deve, con cautela ed entusiasmo insieme.
Innanzitutto, però, il lettore italiano dovrà render grazie a chi (editore e traduttrice) gli ha reso possibile la lettura: il coraggio della casa editrice Bompiani nell’affrontare una pubblicazione che richiederà anni di impegno (che è facile prevedere non verrà compensato in termini economici), il coraggio della traduttrice Alessandra Iadicicco che da sola si è assunta l’onere dell’impresa e l’ha condotta con tutta l’attenzione immaginabile agli abissi linguistici dell’originale.
Ed anche, preliminarmente, andrà sgombrato il campo dai dubbi sulla necessità della pubblicazione in tedesco e di conseguenza in traduzione dell’opera, da prese di posizione per cui l’edizione dei cosiddetti Quaderni Neri sarebbe una semplice operazione di marketing intesa a riaprire querelles ormai superate sull’autore, sul suo pensiero, sul suo peso politico dagli anni Trenta in poi. Basta in verità la lettura di qualche pagina per intuire la rilevanza di quei quaderni dalla copertina nera, per volontà dell’autore rimasti segreti per decenni ma - sempre per volontà espressa dell’autore - da pubblicarsi dopo la sua morte: altro che testi superflui che nulla aggiungerebbero a quanto già si conosceva (e a quanto conta) nell’opera del filosofo; il pericolo qui, se mai, è la sovrabbondanza degli stimoli offerti in cui il lettore - anche il più sagace - rischia di smarrirsi. Perché naturalmente ancora più arduo sarebbe affrontare con successo lo studio di questi testi senza una adeguata mappa del pensiero heideggeriano con le svolte e i sentieri interrotti e le contraddizioni che lo incidono dai primi scritti fino a quelli dell’avanzata maturità. I Quaderni - con la loro tonalità “privata” (a tratti quasi diaristica), con l’impressione di confidenze in assenza di confidenti - non solo supportano la conoscenza delle opere pubblicate e a loro coeve ma - per circa quarant’anni, dal 1931 in avanti - chiariscono di una luce a tratti accecante il tortuoso percorso di un pensiero centrale per tutto il Novecento. Con questi testi (e con ogni probabilità, con quelli ancora inediti della sua opera titanica), Heidegger si conferma davvero se non un pozzo senza fondo, certo un pozzo filosofico abissale con cui è impossibile non “fare i conti”.
Di fronte a testi che, per loro natura, non si lasciano riassumere (quale testo davvero grande può essere riassunto?), possiamo tentare di disporre una serie di opposizioni su cui l’estensore di questi manoscritti circolarmente (ossessivamente) ritorna con variazioni - riprese, aggiunte, sottrazioni - durate decenni e tutte segnate da accadimenti (pubblici, privati) che ne tatuano le direzioni di senso. Tra le numerosissime coppie di opposti che costituiscono l’impalcatura dei Quaderni, eccone alcune, veri e propri nuclei tematici che prendono sviluppo nelle migliaia di pagine del testo: essere(Sein)/ente semplicemente presente; storia/storiografia; pensiero/macchinazione; silenzio/chiacchiericcio; i pochi/i più; pensare e poetare/filosofia e letteratura; il superfluo/il calcolo; il gratuito (la gratitudine)/ l’utilizzabile; la grandezza/il colossale; l’iniziale/il moderno; l’essenziale/ciò che dà nell’occhio; la poesia/la metafisica; Hölderlin/Goethe; pensiero incalcolante /prestazione; impronunciato/convenzionale; la natura/la tecnica; il destinale/la moda; solitudine/ pubblicità; pensiero/giornalismo(assoluto); pensare/sapere; raro/abbondante; invisibile/pubblicizzato; qualità/quantità; originale/imitazione; Essere (Seyn)/Nulla; poeta/profeta; radura(Lichtung)/adombramento(Beschattung); montagna(Todtnauberg)/città(Berlino); nobili/calcolatori e, naturalmente, Heidegger/Jaspers... Opposizioni in cui, appare evidente, il primo termine è sempre sotto il segno dell’autenticità e il secondo gli si oppone nel segno dell’inautentico; in altri termini, Heidegger elabora un universo di pensiero in cui l’esercizio del pensiero è sempre un pòlemos per il quale è in gioco la sorte stessa del mondo (occidentale e poi, sempre più, globale). In questo lavoro - insieme sotterraneo ed evidente - Heidegger ribattezza molti loci della filosofia, accoglie parole antiche attribuendo loro direzioni semantiche inedite o addirittura opposte rispetto alla tradizione, si esercita in quel vocabolario inconfondibile che sempre più gli sarà proprio.
Il caso più clamoroso di questo lavorio sulla lingua è quello riguardante il termine sovrano della filosofia, quello di “metafisica” che, come è noto, in Heidegger designerà sempre più convintamente tutta la tradizione filosofica occidentale (da Socrate in poi, Nietzsche compreso!) allargando di molto la connotazione ristretta legata alla sua origine storica e all’opera aristotelica, al punto da divenire l’equivalente di “corso vincente della tradizione filosofica occidentale”, inglobando modernità e tecnica, e lasciando fuori solo i pensatori “iniziali”: i Presocratici, appunto. Dominio “metafisico” di scienza-tecnica (la “Machenschaft”) e domanda essenziale (la “Seinsfrage”, la domanda dell’essere) ingaggiano allora una lotta mortale che non ha più il suo luogo di elezione nella decisione del singolo (come in Essere e Tempo) ma nella storia stessa del mondo. La progressiva e plurimillenaria dimenticanza dell’essere potrà riuscire a un nuovo imprevedibile inizio dopo quel “primo inizio” che fu proprio dei Greci all’epoca di Eraclito e Parmenide. Ecco posta la questione suprema ed estrema che potrà essere tentata solo nella solitudine e nel silenzio dei “pochi” (“una stirpe di nascosti guardiani del silenzio”) perché solo nel tacere e nell’estrema riservatezza potranno darsi l’apertura e la radura dell’ascolto (non cercato e mai intenzionale) dell’essere:
“L’inizio non è il frutto della grazia di questi pensatori (Anassimandro, Parmenide ed Eraclito, n.d.a.), con cui essi operano in questo o quel modo, al contrario: l’inizio è ciò che fa iniziare in questi pensatori qualcosa, poiché li reclama in un modo tale da esigere da loro un arretramento estremo di fronte all’essere.” (da Parmenide, semestre invernale 1942-’43, trad. it. di Giovanni Gurisatti, Milano, 1999, p.41) .
Come nei lavori coevi degli anni ’30-’40 e, se mai, in modo ancora più compulsivo, nei Quaderni Neri pare delinearsi una straordinaria “Fenomenologia dell’Impensato” per la quale la lingua filosofica dominante, impostasi in duemilacinquecento anni di storia occidentale, non pare attrezzata. Da qui, nei Quaderni, la conquista di una lingua altra, sempre più restia al vocabolario della “metafisica” e sempre più vicina alla lingua essenziale e originaria dei frammenti di quei primi pensatori.
Insieme a questa esigenza di dire in una lingua “nuova” perché antichissima, troviamo però in questi scritti anche una pulsione - di direzione apparentemente opposta - verso la cronaca più immediata, i fatti politici, sociali, culturali, militari, addirittura verso le novità quotidiane dei giorni in cui l’autore stende le sue riflessioni, con una tendenza - caratteristica di Heidegger - ad accostare (a far cortocircuitare) macrostoria del pensiero ontologico e microstoria dell’attualità (tedesca, mondiale) che il filosofo sta vivendo. Storia dell’essere e notizie di cronaca collidono e si interpretano a vicenda con esiti talvolta paradossali: si vedano le spiegazioni “ontostoriche” sull’andamento della guerra, sui discorsi dei politici, sugli articoli dei giornali, sulla catastrofe della Germania tra ’44 e ’45... Il pensatore non si trattiene da arditi accostamenti che, se paiono incongrui ed irrazionali, spiegano anche la fascinazione che esercita un pensiero per sua natura totalizzante che non accetta la comprensione “iuxta propria principia” di fatti abitualmente vissuti come “non pertinenti le discipline filosofiche”(!) ma che tutto deve far rientrare in una visione onnicomprensiva del reale. Si legge, ad esempio, in una “riflessione” del 1939 in cui si tratta del soggettivismo da Cartesio a Spengler:
“...solo nel xx secolo comincia il completo e concluso dispiegamento essenziale della modernità - l’intima conseguenza di esso sono le ‘guerre mondiali’ - come la gara di coloro che sono divenuti ‘liberi’ ‘soggetti’ del mero voler ‘vivere’” (Q.N. 1938-1939, p.542)
e in una “nota” scritta a guerra conclusa:
“Per quanto tremende da sopportare siano la distruzione e la devastazione che adesso sopraggiungono sui tedeschi e sulla loro terra natia, tutto questo non raggiungerà mai l’autoannientamento che ora, nel tradimento al pensiero, minaccia l’esserci” (Q.N., Note I-V, p. 112).
E qui si innesca il respiro anche politico dei Quaderni che tante polemiche ha generato e che rischia di ridurre quest’opera monumentale a una serie di passaggi da analizzare al microscopio delle convinzioni ideologiche dell’autore per eventuali condanne senza appello o, nel campo avversario, per le arringhe di altrettanto convinti innocentisti. Il rischio è cioè quello di assistere, con la progressiva pubblicazione di questi volumi, a una riedizione più o meno corretta di ciò che già è accaduto nell’immediato dopoguerra e non solo per il filosofo tedesco ma per più di uno scrittore europeo (il caso Céline tuttora aperto ne rappresenta la punta plateale con disfide “intellettuali” che di intelligente hanno davvero poco). Il rischio - già in corso - è che Heidegger torni a essere terreno di caccia dei “profeti al contrario”, quelli che giudicano il passato (complicato) alla luce del presente (anch’esso complicato) con il facile giochetto del dito facilmente puntato.
La conseguenza nefasta sarebbe che - come per l’opera céliniana - “tutti” fossero a conoscenza dell’iniziale adesione al nazionalsocialismo di Heidegger senza aver mai letto una riga del filosofo, avendo trovato - con la scusa del “politically correct” - un buon motivo per non affrontare un pensiero arduo e intellettualmente assai impegnativo. Una cosa, quindi, guadagna a essere chiarita: Heidegger e la sua filosofia non possono essere confusi con un qualsiasi pronunciamento ideologico di un qualsiasi ideologo degli anni ’30-’40: chi lo fa o è in malafede (causa ideologia) o in stato di non conoscenza di un’opera vastissima e notoriamente “non facile” (causa pigrizia mentale). Le condanne tanto sbrigative quanto sommarie sembrano desiderare, per Heidegger, uno specialissimo tribunale di Norimberga dove, al posto dei giudici nominati dalle potenze vincitrici, ci fossero altrettanti filosofi sedicenti democratici.
A evitare sceneggiate di questo genere, c’è un solo rimedio: leggere leggere leggere e studiare studiare studiare...
L’accusa è a volte vaga a volte precisa (anche troppo precisa), a volte singolare a volte plurale.
Heidegger sarebbe colpevole di aver aderito al nazionalsocialismo con il suo Discorso di Rettorato del ’33-’34? Questa operetta (L’autoaffermazione dell’università tedesca) è - come ebbe a dire il suo allievo Karl Löwith - “un discorso di alto tenore filosofico e di grandi pretese, un piccolo capolavoro nella formulazione e nella composizione. Alla luce della filosofia è un’opera straordinariamente ambigua... e chi lo ascolta alla fine non sa se deve prendere in mano la silloge dei presocratici curata da Diels o marciare con le S.A.”; chi conosce questo Discorso non può non apprezzare la puntualità (anche ironica) della definizione di Löwith: al termine della lettura, non sai se acquistare i frammenti dei presocratici nella più vicina libreria o unirti ad un corteo delle Sturmabteilungen... Ci troviamo nella fase politicamente entusiastica del rapporto con il neonato regime che Heidegger carica di illusioni tutte filosofiche e tutte heideggeriane, illusioni che lo abbandonano quasi subito tanto da spingerlo a lasciare ben presto la responsabilità di rettore dell’Università di Friburgo:
Oppure Heidegger sarebbe colpevole di non aver condannato il regime fra il ’34 e il ’45? L’accusa “tiene” se aggiungiamo l’avverbio “pubblicamente” perché “privatamente” (nei Quaderni, appunto) scopriamo un pensatore spesso critico (a tratti anche sarcastico) nei confronti del nazionalsocialismo e dei suoi miti (il “colossale” in ogni campo da Heidegger considerato segno di piccineria e non di grandezza; gli scritti del teorico di regime Alfred Rosenberg; il razzismo nella sua versione biologistica; il culto di Wagner; i discorsi del capo della gioventù hitleriana Baldur Von Schirach che “non si prendono nemmeno più sul serio”; l’incomprensione del pensiero di Friedrich Nietzsche; l’entusiasmo per la mitologia eroica di Jünger...).
O, infine, colpevole di non aver riconosciuto il suo “errore” politico dopo il ’45? Su questo punto, l’ultimo volume dei Quaderni Neri finora tradotti in italiano è particolarmente eloquente: il libro - come si è detto - interessa anche gli anni dell’immediato dopoguerra e ogni volta che accenna al discorso della “nuova Germania”, quella uscita disastrata e divisa dal conflitto, Heidegger “scandalosamente” parla di sostanziale continuità col regime precedente: collocandosi da un punto di vista “alto”, quello del pensiero dalle lunghe campate, attento a scorgere anche nell’attualità l’arco maestoso della storia dell’essere, egli accosta i due sistemi politici (hitleriano e democratico) sottolineando se mai la maggiore rozzezza del primo e la maggiore ipocrisia del secondo:
È proprio in nome della sua freddezza nei confronti del regime a partire dal 1934 che Heidegger si sente autorizzato, nei suoi quaderni, ad apparire (se non altro di fronte a se stesso) come lineare oppositore della “nuova” Germania uscita dalla guerra.
Martin Heidegger e i Quaderni Neri Pensiero, Politica, Poesia
di Daniele Gorret (Doppiozero, 03.02.2019)
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Coerentemente Heidegger non credette mai nella democrazia, né prima del ’33 né dopo il ’45; la definì sempre come “inganno” e inganno mondiale, causa ed effetto di Modernità e di Tecnica, concretizzazione storica dell’“oblio dell’essere”, corrispettivo politico dell’affermarsi dell’“ente semplicemente presente”. “Io non sono un democratico, e unicamente per la ragione che non posso esserlo” avrebbe potuto scrivere di sé ricalcando quanto scrisse del suo non-cristianesimo: “Io non sono un cristiano, e unicamente per la ragione che non posso esserlo” (Ivi., p. 266).
Inestricabilmente associato alle sue convinzioni “politiche” ma ancor più inestricabilmente incuneato (diremmo “incastrato”) nella sua ontologia, è il particolarissimo modo in cui Heidegger partecipa dell’antisemitismo tedesco. Oggi il lettore italiano può disporre di un libro che costituisce un aiuto nell’indagine di questo aspetto della vita e del pensiero (e della fama e del rigetto) del filosofo di Messkirch. Si tratta di Heidegger e gli ebrei di Donatella Di Cesare (Torino, 2014 e 2016) tutto incentrato - come il titolo dice - sui rapporti (personali e filosofici) che il pensatore intrattenne con gli ebrei (nei più diversi ruoli di allievo, di maestro, di amico, di amante, di avversario), con la tradizione ebraica, con il posto occupato dall’ebraismo nella storia tedesca ed occidentale. Sulla vexata, anzi vexatissima quaestio, l’autrice, partendo proprio dai Quaderni Neri, ci conduce in un periplo attorno al continente dell’“antisemitismo filosofico” a suo modo specifico rispetto all’antisemitismo teologico (Lutero!), a quello delle credenze popolari e a quello più strettamente politico (Mein Kampf). Da Kant a Nietzsche passando per Hegel la filosofia tedesca ha diversamente trovato nella figura dell’ebreo e nelle vicende della diaspora la propria pietra d’inciampo e l’ha diversamente collocata all’interno dei propri sistemi di pensiero. Tappa finale di questa vicenda storico-ideologica, in Heidegger l’ebreo viene ad assumere i tratti “figurali” dell’uomo sradicato (senza suolo e senza mondo), incapace di ascoltare l’essere perché tutto immerso nell’avventura dell’“ente semplicemente presente” che è poi l’universo della modernità, della scienza, della tecnica, del pensiero calcolante. La colpa per eccellenza del popolo tedesco non è per l’Heidegger del “dopo Auschwitz” quella della persecuzione e della volontà di annientamento degli ebrei e dell’ebraismo, ma il misconoscimento del proprio destino ontostorico:
Nel groviglio di sciagura nazionale e di sciagura personale (l’allontanamento dalla cattedra e il successivo pensionamento da lui vissuti come punizione per reati mai commessi) Heidegger accosta colpe per noi inaccostabili: quella storica dei campi e quella ontostorica del misconoscimento dell’essenza destinale del proprio popolo.
Infine, la Poesia. Si infittiscono, negli anni dei Quaderni, le citazioni e le riflessioni sui poeti e gli scrittori più frequentati ed amati: oltre ai classici greci (Pindaro, Eschilo), i tedeschi Hölderlin ovviamente ma anche Trakl e Rilke, perfino Melville, e, negli anni ’40, Adalbert Stifter). I passi che li riguardano non sono mai fini a se stessi né semplice indice di preferenze stilistiche o tematiche ma muovono dal progressivo convincimento che è nella lingua dei poeti che l’essere in qualche modo traluce e - eracliteamente - “semàinei” (dà segni).
C’è, nei Quaderni, un progressivo dire in versi ciò che non può essere detto nel linguaggio della metafisica, ciò che, nel tempo della dimenticanza dell’essere, solo i poeti hanno potuto custodire e tramandare.
D’altra parte la nostalgia (termine non heideggeriano) per il pensiero aurorale dei grandi presocratici (anch’essi in fondo avvertiti come poeti) conduce naturalmente alla poesia, in particolare a quella poesia che pensa cantando, e proprio Hölderlin è qui chiamato “cantore pensante”. È all’opera una convinzione sulla comune radice di canto e di pensiero (e sulla possibilità di una poesia filosofica) che per noi italiani porta il nome di Giacomo Leopardi (il ricordo va al bel saggio di Antonio Prete Il pensiero poetante del 1980 dedicato appunto al poeta-pensatore dei Canti e dello Zibaldone). Non è alla “Poesie” che va l’entusiasmo di Heidegger ma appunto alla “Dichtung”:
“Inutilmente oggi noi cerchiamo la poesia (Dichtung) nella poesia (Poesie) e in ciò che vale per essa. Si crede che l’abile esercizio dei giochi di parole con i versi e le rime sia lirica. Si crede che l’aspetto colossale del romanzo colga il reale. Si crede che l’elemento azzeccato dei drammi teatrali sia nella raffigurazione degli avvenimenti del tempo. Forse il poetare dovrà solo vagare per lungo tempo attraverso un pensiero che a sua volta è la peregrinazione (Wanderschaft) nello stesso” (Ivi, p.366)
e, a conferma:
“Ho la sensazione che siano ancora necessari cento anni di nascondimento fino a che si abbia idea di che cosa sia in attesa nella poesia di Hölderlin” (Ivi, p.94)
oppure:
“È meraviglioso che sia un poeta a portare il cognome Stifter, ‘fondatore’ sicché egli si chiama con il nome di quel che è” (Ivi, p. 9).
La cosa qui delineata si fa convinzione al punto che il pensatore stesso tenta la sua Dichtung:
“Nocciolo e grano
stella e sorgente
accennare il sentiero
per raccolta e semina
di luce e pane
componimento e morte” (Ivi, p.352)
oppure:
“Le spighe mature oscillano con suprema bellezza sui lunghi steli nell’aria della sera. Perché non dovrebbe anche un pensiero tardivo oscillare - nell’enigma?” (Ivi, p.380).
E con ironia ed autoironia:
“Si va ora raccontando che Heidegger sarebbe un cattivo poeta, ma non un filosofo. Quelli che parlano così sono buoni filosofi. (...) Un cattivo poeta è comunque un poeta. E se il pensiero opportuno che cerca di pensare l’Essere fosse un poetare? (...) Che ne è allora di un cattivo poeta? Egli potrebbe quanto meno essere forse in cammino verso il pensiero.” (Ivi, p.265).
Davanti a una Natura che è insieme silenzio bellezza e accenno, nel solitario tacere dei pochi pensanti, compagno dei grandi accennanti l’Essere, lontano dal frastuono della città e dell’accademia, della polis e dei conflitti, l’Heidegger dell’immediato dopoguerra “prova” la sua resistenza e l’affida a questi quaderni da scolaro offeso ma orgoglioso del suo sguardo altro ed alto: “Forse il pensiero che io tento resterà ancora per lungo tempo come una meridiana nell’ombra” (Ivi, p 189), “Allora il pensiero sarebbe il mestiere del tacere?” (Ivi, p.105).
Testo indefinibile (appunti di un diario filosofico? periodico fare i conti con il pensiero? allegra ma onanistica vendetta dell’uomo sconfitto? spunti per libri futuri? osservazioni pubblicamente indicibili? trucioli di una grande opera da costruire ma incostruibile? panoplia di personali smarrimenti? dialogo senza fine con le grandi ombre? interminabile colloquio con se stesso?) i Quaderni Neri stanno infine a nostra disposizione. Per cosa, dipende da noi. Per farne pretesto infinito ad infinite contrapposizioni? Per usarli a favore o contro un’idea di filosofia, un’idea di mondo, un’idea di società? L’aria di sfida che dai Quaderni sale ci permette tutto e il contrario di tutto. “E soprattutto non prendetemi per un altro!” pare provocatoriamente invitarci l’Heidegger finalmente pubblicato e tradotto, facendo eco all’ultimo Nietzsche.
Su una cosa però ci si potrebbe accordare: in tempi di omologazione universale in cui davvero pare che tutti i luoghi del pianeta convergano verso un identico “destino” facilmente riconoscibile come dominio universale di tecnoscienza, in cui ogni regime (economico, politico, sociale) è sempre più (inconsapevolmente) piegato ad un pensiero unico e sottratto all’umana possibilità di controllo, in clima di manifesta mediocrazia e allorché l’“autoannientamento” della Terra rischia di non essere più solo una pittoresca metafora, difficile non leggere nell’opera tutta di Heidegger e in questi Quaderni in particolare - tra mille altre suggestioni - anche l’annuncio di una lungimirante distopia. Un pensatore che affida all’“attualità” del silenzio e alla loro avventurosa navigazione postuma i suoi scritti, merita, già per questo, una lettura attenta, intensa, spregiudicata, appassionata. Ai pochi coraggiosi che la intraprenderanno, auguri, dunque, di un buono anche se periglioso viaggio.
SUL TEMA, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! *
Giornata della Memoria.
Hitler, radiografia del Male
A Carpi la mostra "Der körper" di Fresu parte da studi clinici sul Führer e apre a molte domande sul perdono, sull’inganno delle dittature e la vigliaccheria del male. L’analisi del teologo Dossetti
di Giuseppe Dossetti jr. (Avvenire, sabato 26 gennaio 2019)
Di fronte al materiale offerto dalla mostra, si è costretti a cercar di capire i propri sentimenti. Il mio, è duplice. Anzitutto, mi colpisce lo spogliamento radicale di quest’uomo, privato non solo dei suoi vestiti, così importanti per lui, per costruire la propria immagine, ma privato anche della sua epidermide, ’cosificato’. Mi vengono in mente analoghe radiografie di vittime dello sterminio, che ho visto a Mauthausen: l’uomo denudato, violato nella sua intimità, trafitto dal raggio come la farfalla dallo spillone. Nell’ultima stanza della mostra, si cerca di restituire vita a quel corpo, ricostruendo i battiti del suo cuore.
È come se si dicesse che Hitler continua a vivere o, meglio, continua a vivere il male che ha trovato in lui così terribile manifestazione. Viene in mente l’ultima pagina del romanzo di Camus: il batterio della peste è nascosto negli anfratti della città, per ricomparire a suo tempo. Tuttavia, questa interpretazione seducente non mi tocca, quanto invece la sorte individuale di quest’uomo.
La mostra potrebbe essere interpretata come una vendetta, la riduzione a numeri e parametri dell’uomo, che aveva voluto questo per i suoi simili. Egli volle che il suo corpo fosse bruciato, proprio per evitare di essere consegnato alle mani di chi avrebbe potuto rivalersi sulle sue spoglie.
È noto il suo orrore di fronte alla notizia che Mussolini era stato impiccato per i piedi a Piazzale Loreto. Ebbene, l’operazione di cancellare l’ultima traccia di sé non gli è riuscita completamente: un frammento importante, l’impronta del suo corpo è caduta nelle nostre mani. Forse, Antonello Fresu ha voluto gettare nelle nostre mani questo materiale, frammentario e incompleto fin che si vuole, ma sufficiente per porci la domanda: «Adesso che hai nelle mani il corpo di Hitler, che cosa ne intendi fare? ». Infatti, non ci si può sottrarre alla richiesta di prendere posizione. È addirittura possibile che ci sentiamo ancor più coinvolti: «Che cosa avrei fatto io, che cosa farei, se avessi la totale disponibilità del corpo di quest’uomo, del suo cadavere, oppure, ancora di più, di lui ridotto a scheletro vivente, non per una radiografia, ma per la fame, per la violenza, per la spoliazione di ogni dignità?».
La mia personale reazione si condensa in una domanda, che mi ha colpito, appena ho avuto notizia di questa iniziativa: Questo corpo risorgerà? La fede nella “risurrezione della carne” è uno dei dogmi del credo cristiano. Non è molto considerato e talvolta viene dimenticato per pudore, quasi fosse un residuo mitologico. In realtà, si tratta di qualcosa che ha origine dal centro stesso della fede cristiana. Il corpo non è, cartesianamente, la macchina mossa dall’anima, a lei collegata tramite la ghiandola pineale.
Noi siamo un corpo. È la materia che ci individua. Noi siamo quello che siamo perché viviamo in un tempo e in un luogo; le nostre esperienze, vissute tramite il corpo, determinano la costituzione del nostro io. Soprattutto, il corpo è il veicolo della relazione con l’altro.
Cartesio, proprio per il legame così lasco tra anima e corpo, pone la felicità massima nella contemplazione del proprio io pensante. Ma l’uomo d’oggi vede in questo solitudine e infelicità, perché aspira all’incontro con un tu che gli stia a fronte. La persona si costituisce tramite la sua storia, e la propria storia l’uomo la vive nel corpo. Il cristiano crede nell’Incarnazione del Figlio di Dio: «Il Verbo si è fatto carne», dice il prologo del Vangelo di Giovanni. L’incontro con il Cristo avviene mediante il sacramento del Corpo, l’Eucaristia.
Tutto questo dà un valore assoluto al singolo uomo: ogni uomo è il soggetto al quale si rivolge l’iniziativa divina, ogni uomo è chiamato, come un Tu assolutamente singolare, a dare una risposta assolutamente singolare. La morte non può distruggere questa relazione. Anzi, Gesù ci dà l’esempio della morte come atto supremo di comunione, col Padre e con i suoi fratelli.
Dunque, senza un corpo, la comunione è incompleta o, addirittura, non esiste. Per questa ragione, Dio vuole la risurrezione della carne: la vuole, perché vuole la comunione con l’uomo.
Ora, la domanda è proprio questa: può Dio volere la comunione con Hitler? Se rispondiamo di sì, allora i frammenti che contempliamo in questa mostra sono cosa sacra. Ma il nostro spirito si ribella. Si ribella anche alla formula della “banalità del male”. Di fronte ai campi di sterminio, siamo piuttosto portati a pensare a un male straordinario, eccezionale. Eccezionale vuol dire anche altro da noi, mentre la banalità suggerisce che anche noi saremmo potuti giungere a tali abissi. Condannare Hitler all’inferno, in qualche modo ci rassicura, perché crea una demarcazione tra noi e lui. Siamo noi, però, autorizzati a pronunziare questa sentenza? D’altra parte, coloro che hanno così terribilmente sofferto, non hanno forse il diritto di chiedere al Giudice le sue motivazioni? Certo, potremmo invocare la pietà. Ma sarebbe una pietà a buon mercato, un ’perdonismo’ facilone e ingiusto.
Tuttavia, la domanda va posta, anche perché altri “mostri” continuano a comparire, a Srebrenica, in Congo, in Medio Oriente. Ora, la domanda dev’essere posta a Dio: sei Tu in grado di guardare in faccia questo male? Questi uomini continuano ad appartenerti? Tieni presente che se rispondi di sì, allora ti stai prendendo la responsabilità del male da loro commesso. D’altra parte, se Tu li condanni, in nome di quale giustizia Tu li condanni?
C’è forse una giustizia superiore a Te, alla quale anche Tu devi inchinarti? Tu ti rendi conto perfettamente che sei stretto nell’alternativa: o diventi anche Tu sottoposto a un sistema di valori, che Tu stesso hai contribuito a creare, ma che ora Ti rendono irrilevante, perché noi li porteremo avanti, magari in nome tuo, ma affrancati dalla tua tutela. Oppure, Tu sei il Totalmente Altro, l’Incomprensibile, che richiedi un’obbedienza cieca: ma l’enormità del male ci autorizza a rifiutare la rinuncia al giudizio e Tu, ancora una volta, sarai convocato al tribunale dell’uomo.
Di fatto, questo è già avvenuto. La scelta di Barabba è anche la protesta verso un Dio che non dà spiegazioni, che rifiuta di correggere la sua creazione, che osa riconoscere all’uomo una libertà che può giungere fino a costruire Auschwitz. Alla domanda: può Dio prendere la responsabilità del male commesso dall’uomo? la risposta è sì. Questo è avvenuto sul Golgota. Lì, Dio ha accolto radicalmente il rifiuto dell’uomo, ha accettato che l’uomo lo respingesse fuori dalla storia, ha assunto in sé le conseguenze della scelta di Adamo. Ma ha trasformato tutto questo nell’atto supremo della sua presenza. «Dio è morto», proclamò Nietzsche, per dichiararne l’irrilevanza; «Dio è morto», è stato il grido d’angoscia di coloro che hanno rinunciato alla speranza, perché non hanno avuto risposta alla loro richiesta d’aiuto. «Dio è morto», diciamo anche noi, con reverenza, poiché riconosciamo nella croce questa inflessibile volontà di comunione, che acquisisce il diritto di afferrare l’uomo, ogni uomo, poiché si è fatta carico del suo dolore e persino della sua malvagità.
Per questo, penso che anche Hitler risorgerà. Negarlo, vorrebbe dire dichiarare limitata l’efficacia del sangue di Cristo. In mezzo alle infinte croci da lui piantate, questa mostra erige la croce di Hitler, denudando la sua miseria, l’oscenità del male del quale si è reso responsabile.
Ma in mezzo a queste croci, anzi, vicino a questa, che il giudizio dell’uomo legittimamente considera meritata, c’è la croce di Gesù. Penso che uscirò dalla mostra, allo stesso modo in cui gli spettatori si sono allontanati dal Calvario: «Tutta la folla, che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto» (Lc 23,48).
Sul tema nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
La spettrale presenza. Hitler, la radiografia e l’inconscio ottico
di Marco Senaldi *
[Foto] Antonello Fresu. Der Körper, still da video. Palazzo dei Pio, Carpi 2019
In un brano indimenticabile de La montagna incantata di Thomas Mann, pubblicato nel 1924 ma ambientato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, il protagonista Hans Castorp è oggetto di una radiografia.
“E Castorp vide [...] in anticipo, grazie alla potenza della luce, la futura opera della decomposizione, la carne, che lo rivestiva, dissolta, distrutta, sciolta in una nebbia evanescente, e dentro a questa lo scheletro della sua destra finemente tornito, dove intorno alla falange dell’anulare era sospeso, nero e isolato, il suo anello col sigillo ereditato dal nonno [...] e per la prima volta in vita sua si rese conto che sarebbe morto. Behrens disse: ‘Spettrale, vero? Eh, una punta di spettralità c’è davvero’”.
Si tratta di un passaggio sintomatico per diverse ragioni. Sia pur attribuendola a Castorp, esso descrive, con grande precisione, una delle prime immagine a raggi X realizzata da Röntgen, quella della mano dell’amico Albert von Kölliker, in cui, attorno allo scheletro “finemente tornito” delle dita, spicca un anello maschile. La meraviglia dell’eroe di Mann testimonia che, ai suoi esordi, lungi dall’essere considerata un semplice dispositivo clinico, la radiografia a raggi X rivestiva ben altri significati che toccavano la consapevolezza e la fisicità del soggetto. E, in effetti, la diffusione delle immagini radiografiche fu all’inizio accolta non tanto come un avanzamento nella scienza medica, quanto come una curiosità scientifica, e anche una tecnica artistica, in grado di far vedere l’invisibile, in un periodo in cui le innovazioni nel campo della riproduzione delle immagini si succedevano l’una all’altra con grande rapidità.
L’anno della scoperta di Röntgen, il 1895, infatti, coincide con quello dell’invenzione del cinematografo, ma anche con la prima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (antenata della futura Biennale d’arte) e con uno straordinario articolo di Georg Simmel sulla psicologia della moda. Moda, cinema, arte, sono altrettanti fenomeni legati alle immagini, intese non solo come rappresentazioni del reale, ma anche come rappresentazioni di noi stessi, e dunque della nostra identità. Possiamo perciò intendere queste invenzioni come altrettanti dispositivi, cioè strumenti che ci permettono di amplificare le capacità umane, ma, consentendoci di modificare la nostra visione del mondo, contemporaneamente modificano modo in cui vediamo e consideriamo noi stessi.
È questo il motivo per cui tutte queste invenzioni evidenziano un carattere ancipite e fortemente antinomico. Da un lato il cinema, come nota ottimisticamente Walter Benjamin, risponde al diritto di ogni uomo ad essere ripreso, dall’altro introduce una drammatica spaccatura all’interno del soggetto, come testimonia Varia Nestoroff, l’attrice russa protagonista del romanzo di Pirandello Si gira!, del 1913, che non si riconosce nelle immagini di se stessa sullo schermo. Allo stesso modo l’arte moderna - inaugurata appunto dall’esposizione veneziana - intesa come “evento temporaneo”, da un lato libera dal giogo della tradizione, ma dall’altro avvia un processo di destabilizzazione permanente nel fare creativo dell’artista; e infine, suprema contraddizione è quella che Simmel attribuisce alla moda, che, tramite la manipolazione dell’immagine offerta dall’abito, da un lato promette all’individuo di distinguersi dalla folla, e dall’altro risponde esattamente al bisogno opposto, quello di uniformarsi con la massa.
Questa discordanza diventa esplosiva nel caso dei raggi X. Scoperti quasi casualmente nel corso di una ricerca sui raggi catodici, solo in seguito vennero utilizzati per scopi diagnostici, in quanto in grado di osservare la struttura ossea al di sotto della pelle, ma quasi subito ci si rese conto della loro pericolosità per la salute. In pratica, i raggi X rendono evidente il paradosso epistemologico della modernità, la quale, nello sforzo di conoscere l’essenza al di là delle apparenze, finisce col contaminarla o persino per distruggerla. Questa ambiguità radicale riaffiora in un altro grande romanzo sul destino delle immagini, cioè L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, apparso non per caso nel 1940.
Il dispositivo di Morel consiste infatti in una macchina da presa e da proiezione in grado di restituire non solo l’apparenza visiva delle cose riprese, ma la loro consistenza, generando per così dire dei doppioni “tangibili” identici agli originali. Il solo difetto della macchina - ma è un difetto fatale - è che gli esseri viventi che ne subiscano le riprese patiscono effetti devastanti, e sono destinati in breve tempo a una morte certa.
Il valore politico della metafora di Bioy Casares, concepita alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, è evidente: la massima riproducibilità dell’esistente è anche ciò che ne cancella l’esistenza; la duplicazione perfetta della vita non è che un modo inconsapevolmente perfetto per creare un universo di morte. In un certo senso, la parabola del nazismo corre lungo binari paralleli a questi: la sua esaltazione inconsulta della vitalità superomistica, dell’agonismo estetico e della kalokagathia olimpica (così ben raffigurati nelle immagini sublimi dei film di propaganda di Leni Riefenstahl, come appunto Olympia, 1936) non è che l’altra faccia, la proiezione splendente e solare, dell’oscuro desiderio di morte, di distruzione e di annientamento che viene simbolicamente rappresentato, nelle uniformi dei dittatori, dall’icona del teschio.
E torniamo così alle ossa, il residuo incancellabile che viene messo in evidenza per la prima volta dai raggi X. Si dice che la moglie di Röntgen, Bertha, che fu in effetti la prima persona ad essere sottoposta a una radiografia dal marito, abbia mormorato, osservando l’immagine radiografica della propria mano, “ho visto la mia morte”. Aveva ragione - salvo che non si trattava della morte in senso tradizionale, come termine delle funzioni vitali, distacco del corpo dall’anima o semplicemente dissolvimento della materia nei suoi componenti atomici: ciò a cui la radiografia ci mette di fronte è piuttosto l’enigmatico carattere inorganico della nostra natura animale, il suo residuo ancestrale, quasi l’impronta scheletrica di un fossile, il sigillo della morte catturato però dentro un essere vivente. Questa presa di coscienza della nostra inconsapevole origine minerale ha effetti devastanti: ci si rende infatti conto non solo della nostra fragile natura mortale, ma anche del fatto contrario - reso possibile solo da una tecnica essenzialmente moderna come i raggi X - cioè dell’esistenza in noi stessi di qualcosa di alieno che ci sopravvivrà. Da qui l’elemento fantasmatico, ossia non-del-tutto-mortale, testimoniato dalla radiografia, cioè la “punta di spettralità” così ben individuata da Behrens, il medico di Castorp.
Il fatto che anche Hitler sia stato sottoposto, come milioni di altri pazienti, ad una indagine radiografica, potrebbe essere preso come un fatto del tutto normale. Ma cessa immediatamente di esserlo se pensiamo che lo stesso individuo è stato anche uno dei primi personaggi storici ad essere filmato e fotografato con una tale frequenza e una tale assiduità che non hanno precedenti. Tuttavia, mentre le fotografie e i filmati ci restituiscono un Hitler sempre presente a se stesso, sempre attentissimo a interpretare un ruolo pubblico divenuto in lui come una autentica “seconda natura”, le sue radiografie colgono un aspetto inedito e sconcertante della sua personalità. Guardarle è come osservare il fossile di un temibile Tirannosaurus Rex, il mostruoso dinosauro predatore del giurassico, il cui scheletro, anche se ridotto a una curiosità da Museo di scienze naturali, incute ancora timore. In esse cogliamo un Hitler che nemmeno Hitler sapeva di possedere, il suo estremo residuo umano, la struttura inorganica che testimonia due cose: sia il fatto che anche lui apparteneva - che gli piacesse o no - alla nostra specie -, sia il fatto che non ne era al corrente. Se c’è un’immagine che rappresenta il concetto benjaminiano di “inconscio ottico”, questa è certamente la radiografia di Hitler - cioè non la descrizione del suo inconscio psicologico (fin troppo scandagliato), ma l’istantanea del suo inconscio per così dire antropologico, la sua essenza “umana”, troppo umana, da cui certamente avrebbe desiderato liberarsi.
Non è un caso che uno dei più implacabili satireggiatori del regime nazista, cioè quel Helmut Herzfeld che cambiò il suo nome in John Heartfield in dispregio alle sue origini germaniche, abbia rappresentato nel 1932 il “vero” Hitler, utilizzando una radiografia in cui, sotto il volto del Fürher si vede il suo busto pieno di monete d’oro, in un fotomontaggio dall’ironico titolo Hitler Superuomo - ingoia oro e sputa schifezze.
Allo stesso modo, nell’operazione di Antonello Fresu, le riproduzioni ingigantite delle radiografie del Fürher e i suoi esami medici ci mettono di fronte a un enigma che certamente era enigmatico per Hitler stesso: come può un superuomo simile condividere con la vile razza umana la stessa misera impalcatura scheletrica?
L’aspetto spettrale che promana da queste gigantografie è fantasmatico in un duplice senso: da un lato perché accende in chi guarda la sensazione di un morire incompleto, che si lascia dietro il resto ineliminabile dello scheletro osseo; dall’altro perché questo scheletro appartiene veramente a un fantasma, anzi al peggior incubo possibile, quello dell’individuo più disumano di sempre, Adolf Hitler. Il sottile senso di inquietudine che ne promana è anch’esso quindi duplice perché da un lato riguarda genericamente la paura della morte, ma dall’altro concerne una paura ancor più radicale, cioè che lo spettro qui radiografato non sia veramente morto, e che la sua scheletrica presenza possa ancora, in un dato momento, rianimarsi.
Si dice che, poco prima di morire, Hitler abbia affermato che “bisogna eliminare l’ebreo che è in noi”. Un’affermazione ambigua e inquietante, che sembra far presagire il vero futuro dell’antisemitismo “classico” - cioè non tanto e non più solo lo sterminio di una “razza” considerata inferiore, e tuttavia esterna a quella superiore, ma la cancellazione dell’ultima traccia di altruismo all’interno del soggetto “superiore” stesso, la distruzione dell’umano all’interno del superuomo. La visione dell’installazione di Antonello Fresu fornisce una possibile risposta alla sconcertante affermazione di Hitler: ciò da cui egli avrebbe voluto liberarsi, senza per questo riuscirci, era proprio ciò che le sue radiografie ci permettono invece di vedere: il suo scheletro, il suo teschio, i suoi organi interni, così miseramente identici a quelli di chiunque. D’altra parte, queste immagini ricordano a tutti noi che liberarsi dal fantasma di Hitler ci è altrettanto impossibile che per lui liberarsi dal fantasma dell’ebreo interiore: lo spettro di questo “Hitler interiore” è dentro di noi come le nostre ossa e i nostri organi interni, ci appartiene più di quanto noi stessi non ci apparteniamo e incarna quel fantasma del Male da cui, anche nei nostri sogni più radiosi, continuiamo a essere ossessionati.
* Marco Senaldi (Artribune, 25,01,2019)
Radiografie e battiti del cuore va in mostra il corpo di Hitler
Si inaugura a Carpi il controverso allestimento curato dallo psicoanalista Antonello Fresu
di Marco Belpoliti (la Repubblica, 26.01.2019)
Hitler a Carpi? Cosa ci fa la radiografia del capo nazista nella Sala dei Cervi dell’antico Palazzo dei Pio insieme al battito tambureggiante del suo cuore?
Hitler è morto suicida il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria di Berlino. Il suo corpo fu cosparso di benzina e bruciato, quindi la salma carbonizzata sepolta insieme ai resti di altri cadaveri irriconoscibili. I soldati sovietici cercarono il corpo del dittatore, fino a che rinvennero un osso mandibolare e due ponti dentari; presentati al suo odontotecnico, Fritz Echtmann, furono identificati grazie alla cartelle cliniche. Nonostante questo, restò l’ipotesi che fosse ancora vivo e nascosto da qualche parte, una leggenda che circolò negli anni ’50 e ’60. Nel 1945 l’esercito americano realizzò un dossier sul capo nazista utilizzando le cartelle cliniche del suo medico, Theodor Morrell: 47 pagine che contenevano la radiografia del cranio del leader e alcuni elettrocardiogrammi, intitolate Investigation into whereabouts. Nel 1983 sono state rese accessibili insieme alle ricerche dell’Fbi per "ritrovare" il dittatore.
Antonello Fresu, psicoanalista junghiano, ha usato quelle pagine e realizzato l’installazione Der Körper che s’inaugura oggi nello spazio del castello di Carpi sotto l’egida della Fondazione Fossoli (fino al 31 marzo). Nella prima stanza buia appaiono le imponenti radiografie del cranio di Hitler, alte tre metri, retroilluminate: sono fantasmi neri su fondo bianco, e insieme impressionanti opere grafiche, il cui significato luttuoso appare subito evidente.
Nella seconda sala i referti clinici analizzati da specialisti medici di oggi, come si trattasse di un paziente qualsiasi, mentre sulla volta appaiono parate naziste, Hitler che arringa la folla e raduni militari. Nella terza stanza sono riportati i documenti del dossier americano, mentre nella quarta, e ultima, su uno schermo compare la simulazione del battito del cuore e un elettrocardiografo dell’epoca emette il tracciato di quell’esame clinico in presa diretta: si attiva appena le persone entrano nella sala come un misterioso saluto di benvenuto.
L’idea di Fresu, attento indagatore dell’Ombra, per dirla con Jung, ha qualcosa d’inquietante: stende un mantello di nere tenebre in questo luogo e obbliga i visitatori a incontrare, come scrive Marco Senaldi in un testo che apparirà nel catalogo della mostra, a guardare il fossile di un Tirannosaurus Rex, il cui scheletro è stato conservato e trasformato in curiosità espositiva da Museo di Scienze Naturali. Già di per sé le radiografie sono qualcosa di conturbante, e queste di grandi dimensioni, anche senza sapere che appartengono al cranio di Hitler, inquietanti. Pare che la moglie dell’uomo che ha inventato questo metodo d’indagine, Wilhelm C. Röntgen, dopo essere stata sottoposta alla prima radiografia, abbia detto: ho visto la mia morte. Questi light box contengono una doppia morte: quella del paziente Adolf Hitler e quella del dittatore che ha provocato la più immane catastrofe del XX secolo. Un uomo e insieme il peggior criminale della storia. È come se, per una nera magia, il doppio corpo del Re, per dirla con Ernst Kantorowicz, corpo materiale e corpo sacrale, corpo che muore e quello che invece si trasmette sotto forma di regalità, si fossero ricongiunti per un imponderabile maleficio. Fresu, nel suo doppio ruolo di psicoanalista e di artista, ha messo in mostra un’ombra e il suo fantasma. Come se i fantasmi potessero avere un’ombra. Batte il cuore di uno spettro mentre i soldati camminano a passo dell’oca sulle volte ricurve del Castello.
Spettro perché, mentre i fantasmi sono bianchi, Hitler è nero, anzi nerissimo. Il capo nazista è stato e resta un enigma. Il suo maggior biografo, l’inglese Ian Kershaw, s’è chiesto come un uomo così bizzarro abbia potuto prendere il potere in uno Stato moderno com’era la Germania dell’inizio del XX secolo. Dotato di grandi abilità demagogiche e di una capacità straordinaria di sfruttare le debolezze dei suoi avversari, Hitler resta un mistero per chi l’ha indagato: di quali poteri era dotato per riuscire a trascinare le classi dirigenti tedesche in un’avventura così nefanda e disastrosa? Risposta non c’è. Salvo ricorrere alla metafisica del Male, o a spiegazioni che esorbitano dalla nostra comprensione razionale. Der Körper bordeggia quello spazio irrazionale, lo lambisce e per questo scuote il visitatore, lo mette in allerta. Persegue questo scopo e anche quello di indicare che Hitler era un uomo come noi, che aveva un corpo simile al nostro: era normale. Non era un mostro?
Possibile? Il concetto di "mostro" non è facile da maneggiare; fa vacillare, perché spiega qualcosa d’inspiegabile. Primo Levi, al termine del suo I sommersi e i salvati, sostiene di non aver mai incontrato dei mostri nel lager, solo degli uomini che erano stati educati male. L’arcano di Hitler resta irrisolto.
La mostra è elegante e la sua provocazione colpisce. Tra tutti i dittatori del XX secolo, Hitler era quello che sembrava avere meno corpo di tutti; lo nascondeva persino ai propri intimi: nessuno l’ha mai visto a torso nudo. Come aveva detto Jung, intervistato da un giornalista americano, poco dopo la sua ascesa al potere, quello che colpiva era prima di tutto la voce del dittatore, la vibrazione isterica che conteneva, una voce che stregava milioni di tedeschi e li coinvolgeva. Come controcanto a questa ostensione fantasmatica della testa e del cuore del dittatore funziona la voce tremenda di Hitler che echeggia nelle sale, una voce uscita da un corpo così piccolo e modesto, che non riusciamo a dimenticare, e che come uno spettro circola ancora oggi per l’Europa dei suoi tardi, assurdi e fanatici ammiratori.
Storia.
Processo Eichmann: Fu solo «banalità»? Un saggio corregge Hannah Arendt
Il corposo studio di Bettina Stangneth riporta le parole inedite del gerarca latitante in Argentina: ne emerge un quadro ben più complesso di quello delineato dalla Arendt
di Riccardo De Benedetti (Avvenire, giovedì 20 luglio 2017)
Il libro di Bettina Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme (Luiss University Press, pagine 604, euro 24,00) è di quelli che si fa fatica a dimenticare. Innanzitutto per la scrupolosità con la quale è stato scritto e l’attenzione a ogni pur piccolo dettaglio di una storia piena di trabocchetti e dissimulazioni. Il lettore, dopo ogni pagina di lettura, sa di avere a che fare con una ricerca scientifica e non con una delle tante ricostruzioni più o meno scandalistiche sul nazismo e la sua opera nefasta. Il libro (1.215 note), ricostruisce gli anni argentini dell’Obersturmbannführer (tenente colonnello) delle SS Adolf Eichmann, fuori servizio. Uno dei responsabili diretti della Shoah, coordinatore dello sterminio, fu catturato dal Mossad l’11 maggio del 1960 a Buenos Aires e impiccato la notte tra il 31 maggio e il 1 giugno del 1962 a Gerusalemme dopo un processo che attirò l’attenzione del mondo.
Perché Eichmann in Argentina? Il titolo corregge il sottotitolo del famosissimo saggio di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963). Prima del processo al criminale nazista c’è l’Argentina, luogo di rifugio per centinaia di nazisti in fuga, nella quale il male non era banale ma rivendicato e, se possibile, analizzato, scrutato nel profondo.
Eichmann, improvvidamente, in quegli anni parla, scrive, registra, con la collaborazione di altri rifugiati nazisti, descrivendo una realtà che non ha nulla a che fare con la burocrazia esecutrice, ma al contrario, con la piena e convinta adesione all’ideologia razzista e antisemita e alla sua più consapevole esecuzione. I nastri e le carte di quella rivendicazione di responsabilità seguirono percorsi tortuosi e allora non riuscirono a raggiungere nella loro completezza i giudici del processo e, soprattutto l’opinione pubblica mondia-le, anche quella più informata e consapevole.
Durante gli anni della detenzione a Gerusalemme Eichmann volle dare di sé l’immagine del mero esecutore di ordini. La sua non era una mossa per ottenere clemenza, che infatti non ebbe, era un modo per proseguire la guerra contro gli ebrei. L’autrice descrive il tortuoso ragionamento con il quale i nazisti, sconfitti nella guerra ma non annientati, contavano di proseguire in un lavoro, così lo chiamavano, che non essendo stati capaci di portare a termine gli sarebbe stato per sempre rimproverato. Dopo la sconfitta in guerra si trattava di ripiegare in ciò che poi sarebbe apparso come negazionismo: la Shoah era un’invenzione e se si era verificata era perché qualcuno, non loro, aveva intrapreso l’azione di sterminio per giustificare la nascita dello Stato di Israele. Apparire banali esecutori di ordini di una gerarchia sconfitta era un modo per ridare una parvenza di legittimità a un programma che doveva proseguire.
Il libro della Stangneth riporta le parole, inedite, pronunciate alla fine delle estenuanti riunioni di nazisti che si svolgevano a casa di Eichmann in Argentina. In particolare la rivendicazione dello sterminio come parte integrante di un dovere morale ed etico (se è lecito usare questi termini per qualcosa che è pura criminalità) da compiersi rigorosamente se si voleva ottenere la vittoria contro il nemico assoluto:
«Non cerchi di confondermi dopo 12 anni, che si chiamasse Kaufmann, o Eichmann, o Sassen o Morgenthau, non me ne importa nulla, a un certo punto mi sono detto: bene, devo smetterla di farmi scrupoli. Prima che il mio popolo tiri le cuoia devono tirare le cuoia tutti gli altri, poi il mio popolo. Ma solo a quel punto! Io ero così [...]. Io, “il burocrate prudente”, ecco cos’ero, sissignore. Ma vorrei ampliare il concetto di “burocrate prudente”, anche se a mio sfavore. Questo burocrate prudente si accompagnava ad un fanatico combattente per la libertà del mio sangue, dal quale discendo, e qui dico, proprio come le ho detto poco fa, il pidocchio che la sta pungendo, camerata Sassen, non mi interessa. A me interessa il mio pidocchio sotto il mio colletto. Quello lo schiaccio. Lo stesso vale per il mio popolo. Ma da quel burocrate prudente che ero, perché certamente lo sono stato, sono anche stato ispirato e guidato: ciò che è utile al mio popolo, per me è un ordine sacro e una legge sacra [...]. Mi si contorcono le budella a dire che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. No. Devo dirle in tutta sincerità che se dei 10,3 milioni di ebrei stimati da Korherr, come sappiamo oggi, ne avessimo uccisi 10,3 milioni, allora sarei soddisfatto e direi “bene, abbiamo sterminato un nemico”. Ora che per un tiro mancino del destino la maggior parte di quei 10,3 milioni di ebrei è rimasta in vita, mi dico: il fato ha voluto così. Devo assoggettarmi al destino e alla provvidenza. Sono solo un piccolo uomo e non è in mio potere contrastarli, né tantomeno posso o voglio farlo. Avremmo compiuto il nostro dovere per il nostro sangue».
Hannah Arendt si è sbagliata? Sì e no. Certamente per quanto riguarda Eichmann, che non corrisponde affatto al ritratto che lui stesso ha fatto in modo che uscisse dal processo, da abile manipolatore qual era. Non del tutto quanto al significato che possiamo dare alla “banalità del male”. Il processo Eichmann è stato solo un punto di avvio per un’analisi approfondita della storia del nazionalsocialismo e la Arendt non aveva a disposizione ciò che con fatica hanno sotto mano gli studiosi di oggi.
Cosa c’è di davvero banale nell’azione di Eichmann e di quelli come lui? C’è la mancanza assoluta di distanza tra la formulazione di un’idea, di un pensiero, di una tesi, e la sua realizzazione. Il pensiero è banale, errato e criminale, ma la sua realizzazione è tragicamente seria. C’è quella che Eric Voegelin, nel suo Hitler e i tedeschi, poco letto, purtroppo, chiamava la stupidità di un intero popolo, insieme alla capacità manipolatoria di attivarla. Una concezione rozza del formarsi e trasformarsi di un popolo attraverso il sangue e la razza, concetto che affonda in profondità nel pensiero scientifico illuminista prima e darwinista poi, con l’accento totalizzante posto sulla lotta per la vita e per la morte di un gruppo umano contro un altro.
Il libro della Stangneth è un libro di filosofia, più di tanti altri che sull’argomento hanno intinto per infiniti, e in molti casi pedanti e stucchevoli, esercizi ermeneutici. Una filosofia che lascia al lettore il compito di rintracciare la triste filiera del formarsi di un orrore e del suo realizzarsi. Non fu l’unico nel Novecento, ma fu quello al quale dobbiamo un obbligo di spiegazione razionale che ha rischiato, e il caso dell’abbaglio di Hannah Arendt sta a dimostrarlo, di sfuggirci.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI... *
L’inversione della colpa
Heidegger dopo Hitler
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 04.11.2018)
Fra qualche giorno sarà finalmente disponibile anche nelle librerie italiane il volume Note I-V dei Quaderni neri, edito da Bompiani. Si tratta delle pagine più discusse e controverse di Martin Heidegger, che vanno dall’estate del 1942, quando sul fronte orientale comincia a profilarsi la sconfitta della Germania, ai difficili anni del dopoguerra, fino al 1948.
La pubblicazione di questo volume, che è il numero 97 delle opere complete nell’edizione tedesca, si deve alla competenza e alla tenacia di Alessandra Iadicicco, eccellente traduttrice di letteratura tedesca, ma anche profonda conoscitrice della filosofia, capace di rendere con fedeltà estrema anche le parole e i composti più complicati, senza per questo deturpare l’italiano - come purtroppo fanno alcuni. Il risultato è un testo elegante, leggibilissimo, che ha al contempo il pregio di essere per così dire trasparente, rinviando di volta in volta il lettore all’originale tedesco, ai suoi echi semantici, alle suggestioni concettuali, che altrimenti andrebbero perduti.
Tanto più sorprendenti appaiono le polemiche sorte intorno alla traduzione di alcune parole tedesche, polemiche che, oltre a ritardare l’uscita di questo volume dei Quaderni neri, stavano per metterne a repentaglio la pubblicazione. L’esempio più eclatante è Judentum, «ebraismo». Come altrimenti si dovrebbe rendere? Christentum si traduce «cristianesimo». E dunque?
L’accusa mossa a Iadicicco è quella di essersi prestata ad una sorta di «falsificazione». Meglio sarebbe stato - evidentemente al fine di edulcorare il testo - scegliere per Judentum la parafrasi «carattere ebraico», o addirittura (ma non è molto più grave?) «spirito giudaico». Casi analoghi sono Judenschaft, reso giustamente con «ebraicità», Verwüstung, «desertificazione» (Wüste in tedesco vuol dire «deserto»), Reinigung, «purificazione», e infine il composto oramai famoso Selbstvernichtung, quella nuova figura politica introdotta da Heidegger proprio nel volume 97 per definire la Shoah (ma non solo). Dato che selbst è il pronome che indica «sé», «da sé», «stesso» e Vernichten significa «annientare», come si dovrebbe tradurre Selbstvernichtung se non «autoannientamento»?
Si tratta di polemiche pretestuose, riprese da una stampa che talvolta esprime giudizi grossolani, senza mai entrare nel merito delle questioni. A che pro studiare i Quaderni neri? E perché poi darsi pena di considerare Essere e tempo? Basta farsi paladini di un Martin Heidegger fantasmatico e inesistente, ridotto a mero alibi, appiglio per colpire quegli «intellettuali» che continuano ad esercitare la cultura nel segno della critica e della riflessione. La filosofia non è affatto una partita di calcio. E il gioco del pro e del contro serve soltanto a non pensare.
Coloro che avranno la pazienza e l’umiltà di leggere le pagine dei nuovi Quaderni neri saranno proiettati negli anni più bui della storia tedesca. Lo spaccato è tanto più coinvolgente, in quanto a narrarlo e a descriverlo è il grande filosofo del Novecento. Quasi rivolgendosi alle generazioni future Heidegger raccoglie sentimenti, pensieri, ansie di un popolo sconfitto di cui, a suo modo, interpreta il risentimento, articola i timori e le aspirazioni. Numerosissimi sono i temi che si succedono con ritmo incalzante.
Nelle Note I, che comprendono l’ultimo tragico periodo bellico, e quindi la sconfitta, prevalgono le valutazioni politiche, rese più ardue dallo «smarrimento» che assale anche Heidegger. Tra le righe si leggono gli effetti di Stalingrado. La storia sembra aver preso un corso imprevisto e forse irreversibile. Che ne sarà della Germania? «Vegliare e proteggere»: sono i verbi che Heidegger suggerisce nel periodo del lutto. Ma di questo è certo: «Il tempo dei tedeschi non è ancora trascorso», sebbene non sia chiaro quale sarà il loro futuro. Il pericolo più grande, sottolineato con forza, è il «tradimento» dell’essenza tedesca. Quel popolo ferreamente coeso, che fino all’ultimo ha combattuto senza mai capitolare, rischia di autodistruggersi per via di una forma subdola e ignobile di infedeltà a sé stesso indotta dalla rieducazione a cui gli Alleati vorrebbero costringerlo. Così i tedeschi potrebbero finire per credere di essere dalla parte della colpa. Heidegger fa corpo con il suo popolo, senza nessuna distanza. Il naufragio della Germania è il suo naufragio.
L’atteggiamento è opposto a quello assunto da Karl Jaspers, l’amico di un tempo, che già nel 1946 con il suo pamphlet La questione della colpa denuncia la responsabilità criminale, politica, morale, metafisica della Germania. Nelle Note I e II Heidegger mette addirittura sotto accusa Jaspers. «Come può un uomo, fosse pure un affermato erudito di filosofia - presumere di ragionare sulla “colpa”»? Jaspers tradisce e induce al tradimento. Alla Schuldfrage, la «questione della colpa», Heidegger replica con la Weltschande, la «vergogna mondiale», che minaccia il popolo tedesco, additato a vera «vittima» in una strategia difensiva che mira a invertire i ruoli.
D’altronde Jaspers appare ai suoi occhi doppiamente colpevole. È stato lui a scrivere nel dicembre del 1945 una lettera che, anziché aiutarlo, ha contribuito in modo decisivo a impedire la sua riabilitazione e a sancire anzi, il 19 gennaio 1946, l’allontanamento dall’università. Heidegger ricostruisce l’intera vicenda con toni spesso esasperati. Si indovina il suo disappunto. Si sente finito e con rabbia parla di «estromissione» organizzata. Il crollo è inevitabile. Nel marzo 1946 viene ricoverato in una clinica psichiatrica a Badenweiler, vicino a Friburgo, dove è curato da Victor von Gebsattel, uno psichiatra appartenente alla scuola di Ludwig Binswanger, a sua volta ispirato dalla lettura di Essere e tempo.
I quaderni che vanno dal 1946 al 1948 - corrispondenti alle Note III-V - sono di grande interesse perché testimoniano un incessante lavoro autocritico grazie a cui Heidegger riesce ad andare oltre quella cesura, che avrebbe potuto essere definitiva. Sente infatti di essere giunto a un punto di non ritorno. Il ripensamento della sua opera è indubbiamente anche una sorta di autodifesa. Si rivolge espressamente agli intellettuali francesi che - da Alain Resnais a Frédéric de Towarnicki - già dall’autunno del 1945 vanno a trovarlo nel suo rifugio di Todtnauberg, nella Foresta Nera. Ma l’interlocutore a cui mira è Jean-Paul Sartre, più volte citato. Non ne ha molta stima; lo giudica un filosofo non originale, che si è indebitamente appropriato di molte sue idee. Strategicamente, però, intuisce che proprio la cultura francese degli occupanti può salvare la sua opera dall’oblio al quale in patria sembra condannata. E sarà in effetti così. Tradotto in francese, Heidegger è destinato a una nuova ricezione, questa volta mondiale.
Si premunisce dai fraintendimenti scrivendo la celebre Lettera sull’«umanismo», pubblicata nel 1947. Nei quaderni osserva che, dopo quella lettera, nessuno dovrebbe più chiedergli la seconda parte di Essere e tempo. Proprio quest’opera è al centro del volume 97. I rimandi sono numerosissimi. Si tratta di pagine e pagine in cui Heidegger ritorna sul suo capolavoro, divenuto nel frattempo un classico, per ripercorrere il proprio cammino. Rivendica quel che ha scritto. «Il solo pensiero della mia vita, che mi resta fedele, è “essere e tempo”». Con ciò non intende solo il libro, bensì quel complesso di temi su cui non ha mai smesso di meditare. Non senza una certa irritazione biasima la letteratura critica che frettolosamente attribuisce a Essere e tempo l’etichetta «esistenzialismo», senza scorgere la radicalità della sua «distruzione».
Certo, quell’opera è rimasta incompiuta. Da accorto escursionista Heidegger ha cercato di scalare un monte, lungo le cui pareti nessuno si era mai avventurato. Pur precipitando qui e là, è andato avanti, fra burroni e tornanti; d’improvviso si è accorto, però, di essersi smarrito, non perché non ci fossero sentieri, ma perché era lui a non riuscire più a scorgerli. Il pensiero è «naufragato “in cammino”»; ma un pensiero che naufraga non è un pensiero sul naufragio.
Alla luce della continuità che lo stesso Heidegger rivendica nel dopoguerra, sempre più grotteschi si rivelano i tentativi di quanti oggi vorrebbero da un canto conservare Essere e tempo, dall’altro sbarazzarsi dei Quaderni neri. La sfida per il futuro consisterà piuttosto nel trovare i collegamenti tra quelle pagine, seguendo le indicazioni che Heidegger fornisce esplicitamente. La ricostruzione del confronto con Essere e tempo nel volume 97 sarà dunque il compito di una seria ricerca.
Proprio sulla base di queste Note ultime si ripropone la questione dei nessi e dei fili che si dipanano da Essere e tempo e che potrebbero motivare filosoficamente le scelte politiche successive. La novità dei Quaderni neri è che Heidegger scrive a chiare lettere che il suo «errore non è stato solo “politico”». Se non ha riconosciuto il «nazismo» reale è per via di un’errata valutazione filosofica che lo ha spinto a precorrere i tempi, a immaginare finita un’età, quella della tecnica, che ancora era lontana dal tramontare.
Sono molti i temi che in Essere e tempo preludono al cammino percorso negli anni Trenta: una certa analisi dell’esistenza, gettata nel mondo e inchiodata, quasi per destino, al suo qui ed ora, lo spettro dell’inautenticità, la decisione, a tratti monacale o soldatesca, che anticipa la morte, la tonalità apocalittica che incombe. Non c’è dubbio che l’impegno politico scaturisca dalla sua filosofia. Era un’epoca in cui era necessario essere radicali. Heidegger lo era.
Mentre ci sono argomentazioni e analisi in Essere e tempo sulle quali resterà un’ombra, per molte altre è insensato cercare a tutti i costi implicazioni. Talvolta, perfino in una stessa frase, mentre delinea una nuova idea, nello stesso tempo Heidegger la inficia, la scredita, la compromette, con una modulazione azzardata, una cadenza rovinosa. Perciò è indispensabile una lettura critica, che sappia discernere e distinguere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Wannsee 1942 e quella conferenza contro l’umano
«Verso la soluzione finale», un saggio per Einaudi di Peter Longerich, docente di storia tedesca a Londra A Villa Minoux sulle sponde del Wannsee si svolse la conferenza del 1942
di Claudio Vercelli (il manifesto, 29.08.2018)
Della conferenza di Wannsee, tenutasi nella Berlino nazista il 20 gennaio 1942, in piena guerra, quei pochi che la conoscono spesso ritengono di sapere tutto quello che occorre conoscere di essa, mentre gli altri ne ignorano integralmente la sua stessa esistenza. Va quindi subito detto in cosa consistette, almeno sul piano formale. Poiché la sua comprensione ci restituisce il quadro all’interno del quale andò definitivamente maturando la politica del genocidio razzista.
La materiale disponibilità di una copia del verbale della conferenza, redatto a caldo da Adolf Eichmann e conservatosi fino alla sua scoperta, nel 1947, rappresenta un’eccezione rispetto al calcolato oblio con il quale altri eventi di similare portata furono letteralmente resettati dalle memorie dei protagonisti nonché cancellati dal repertorio documentario. Fu infatti un simposio ristretto, aperto a una quindicina di alti funzionari e dignitari delle amministrazioni del Terzo Reich accomunate dall’essere coinvolte nell’identificazione di contenuti, pratiche e modalità della «soluzione finale della questione ebraica».
TRE ERANO I GRUPPI di partecipanti: gli esponenti degli organi statali, che garantivano la «legalità amministrativa» della scelta di assassinare undici milioni di potenziali vittime; i delegati delle autorità civili di occupazione, che dovevano gestire i luoghi in cui il crimine di massa si sarebbe consumato; i funzionari delle SS, in rappresentanza dei loro uffici centrali o di quelli distaccati nelle zone invase, ai quali era richiesta la competenza tecnica e l’azione concreta. La divisione dei ruoli non era per nulla armoniosa, scontando una vera e propria competizione tra gruppi corporativi.
In questo campo di tensioni, spicca la figura di Reinhardt Heydrich, capo della polizia di sicurezza, officiante della seduta e vero architetto della «sostenibilità» dell’omicidio di massa. Durante i brevi lavori della conferenza non si decise il merito del genocidio degli ebrei. Gli esponenti ministeriali, figure altolocate nella piramide burocratica ma non al supremo vertice politico, non ne avevano i titoli, le attribuzioni e men che meno la delega. Né si pervenne alla definitiva identificazione del «come» procedere alla distruzione dell’ebraismo europeo.
I fatti si erano già incaricati di dimostrare che nessuna procedura unitaria era fattibile se non ci si fosse costantemente confrontati con i continui mutamenti di scenario: esigenze belliche della Germania, disponibilità di mezzi di trasporto, competizioni tra amministrazioni naziste, conflitti di ruoli tra decisori ai massimi vertici istituzionali ma - soprattutto - l’oracolare «volere del Führer», che gli astanti erano chiamati a interpretare e tradurre in fatti concreti.
SEMMAI SI TRATTÒ di un evento all’insegna di un duplice movente: la corresponsabilizzazione per compromissione delle amministrazioni partecipanti e la delimitazione reciproca delle loro sfere di influenza.
Più che parlarci esclusivamente della volontà omicida del nazismo la conferenza di Wannsee ci restituisce quindi lo spaccato di un regime al medesimo tempo dittatoriale e policratico, dove la promozione e il perseguimento di obiettivi sempre più enfatici, estranei alla stessa condotta bellica, diventava il punto di raccordo e di sintesi tra l’ampissima articolazione di poteri e sottopoteri che costituivano lo Stato hitleriano.
Peter Longerich nel suo ultimo lavoro dedicato a Verso la soluzione finale. La conferenza di Wannsee (Einaudi, pp. 208, euro 26), pondera i fattori di quadro, restituendo al lettore il senso della complessità che stava alla base della definitiva trasformazione della Germania in una società omicida.
L’autore, docente di storia tedesca presso l’Università di Londra, e fondatore del Royal Holloway’s Holocaust Research Centre, in Italia è già conosciuto per un’ampia biografia dedicata a Joseph Goebbels, interamente costruita sui diari del ministro della propaganda. In questo nuovo libro si sforza di dare conto dei soggetti interessati, dei passaggi così come della mediazioni che compongo il processo decisionale che portò allo sterminio degli ebrei d’Europa.
L’INTELAIATURA e le procedure che legittimarono un tale esito, infatti, demandano perlopiù a eventi, gesti, affermazioni consegnati alla parola non scritta. Il doppio binario di un percorso che da una parte si poggiava sulle strutture dello Stato legale e, dall’altra, si rifaceva alla condizione di eccezione, ha reso difficile, spesso imprevedibile, non la comprensione dei risultati, ossia lo sterminio medesimo, bensì l’identificazione dei transiti intermedi, sottoposti ad un sistematico occultamento. Sono in realtà questi ultimi, invece, che ci restituiscono l’ampia compromissione di una pluralità di burocrazie nella realizzazione di un crimine ineguagliabile.
Del pari, analizzando come fa Longerich documenti e fonti disponibili, delle quali il verbale della conferenza era solo un pur importante tassello, diventa molto più comprensibile il reticolo di apparati che, prima ancora di impegnarsi nella prassi omicida, fecero sì che essa potesse concretamente assumere una plausibilità pseudo-morale, per poi trasfondersi in azioni tanto concrete quanto continuative.
Anche da ciò deriva al lettore la netta percezione della natura «moderna» dello sterminio, in quanto crimine burocratico, esercitato in una logica di totale anestetizzazione etica, dove i paradigmi dell’efficacia e dell’efficienza si sostituiscono a ciò che resta di una residua coscienza umana.
IL FARE IL PROPRIO DOVERE, I DISASTRI "IRREPARABILI", E IL SENNO DI PRIMA....
Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima
Dopo il ragionamento è il solito, col senno di poi: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto?
di Maurizio Fiasco (Avvenire, sabato 18 agosto 2018)
Come accadono i disastri? C’è un’espressione, all’apparenza banale ma ricorrente, quando siamo sconcertati per un evento dai costi umani incalcolabili. «Col senno di poi». Che equivale: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto? Quel che ha condotto al precipitare di una situazione - fisica, come un ponte, oppure comportamentale come una battaglia, un volo, il funzionamento di uno stabilimento industriale - aveva già emesso dei segnali.
I disastri - risulta quasi sempre agli investigatori ex post - hanno avuto una incubazione, più o meno lunga. Incubazione tutt’altro che muta, o col bavaglio, anzi spesso visibile per un complesso di segnali. Come ha insegnato, quarant’anni fa un illuminato e inascoltato Barry Turner, non sono prevenuti - ovvero fermati da decisioni pragmatiche - per le patologie della comunicazione tra gli attori di un sistema. Industriale, amministrativo, finanziario, politico: non importa la scala di grandezza. Le incompetenze si strutturano e agiscono come un sistema.
I segnali sono sfuggiti a un apparato cognitivo, a una mente capace di connetterli e perciò di abbattere le barriere che inibiscono il giudizio. È mancata la responsabilità di contrastare la universale ottusità dei sistemi, di tutti i sistemi organizzativi. Che squalificano la coscienziosità di chi abbia colto il segnale e si sia posto in modo attivo per spingere al provvedere.
Egli finisce per scontrarsi con la gerarchia, con i muri levati su dai rituali dell’organizzazione, per impattare con la squalificazione che si replica davanti all’umile operatore che sta sul terreno e lì ’vede’ qualcosa che non va. Oppure c’è il feticcio della responsabilità di vertice. Chi è in alto - pensa il testimone dei segnali che il disastro sta inviando - lo capirà più e meglio di me.
Ma il superiore guarda al consenso e alle conferme di chi siede ancora più in alto di lui. E quest’ultimo rivolge la sua mente al mandato di chi è il supremo detentore di quel bene, di quella situazione, di quel dato potere. E tutto questo complesso di fattori cambia la prospettiva, perché il conformismo è più potente della psicologia della responsabilità.
A meno che nella persona responsabile in situazione trovino nutrimento valori morali assoluti: che spingono ad assumersi il rischio personale di andare controcorrente, e di superare derisioni e ostracismo, di non farsi influenzare dal dispositivo di derivazione kantiana, «faccio quel che devo, accada quel che può».
Insomma, la responsabilità, invece di essere ispirata a valori trascendenti, si attesta alla procedura, al ’di fronte’, a quel che le regole gerarchiche - per esempio il mandato degli azionisti - hanno assegnato. E così si scambia la diversa posizione ricoperta nella piramide organizzativa con la diversità di valori etici e professionali di quanti operano in una struttura complessa: che invece, a rigore, sono unici e universali. Cioè per tutti. Nelle forze armate, dal piantone al generale; nelle autostrade, dall’operaio che passa il bitume all’amministratore delegato della infrastruttura. Unitarietà dei valori e trasparenza della comunicazione sono la speranza del «senno di prima». Potremmo dire l’intelligenza del Buon Samaritano che si prende carico della complessità della situazione e non trascura alcuna variabile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
LO STATO DEL "FARAONE", LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ ... *
Nazismo
«Verso la soluzione finale». A Wannsee l’orrore nell’idillio
In un saggio (Einaudi) lo storico Peter Longerich ricostruisce la conferenza del 1942, in cui fu pianificato il genocidio degli ebrei: lo sterminio deciso in un luogo incantevole
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 23.05.2018)
«La burocrazia della morte», viene in mente leggendo le pagine di questo libro. L’ha scritto Peter Longerich, professore tedesco che insegna Storia della Germania moderna all’Università di Londra, un’autorità negli studi sul Terzo Reich. Si intitola Verso la soluzione finale. La conferenza di Wannsee, pubblicato da Einaudi.
La conferenza di cui racconta il saggio si tenne il 20 gennaio 1942 in una lussuosa villa sulle sponde del lago Wannsee che diede il suo nome, appunto, a quella tragica riunione, tema l’annientamento di undici milioni di ebrei in Europa, di cui discussero allora alti e meno alti gerarchi nazisti.
Quindici di loro, nel freddo inverno di guerra, si riunirono in quella villa costruita negli anni Settanta dell’Ottocento, nel quartiere esclusivo alla periferia di Berlino, non lontano da Potsdam, dove vivevano ricchi banchieri, imprenditori, editori, uomini di rango e di successo, e anche personaggi milionari che, arricchiti con i loro sporchi traffici, ebbero a che fare con la giustizia e con la prigione.
Nel 1940 la villa fu acquistata dalla Nordhav-Stiftung, la fondazione creata da Reinhard Heydrich, l’Obergruppenführer, generale delle SS, capo della polizia di sicurezza, allo scopo di «predisporre e finanziare case di vacanze» per gli uomini del corpo e per le loro famiglie.
Il grande fascino della villa, in mezzo a prati fioriti e a boschi fatati da libri di lettura per ragazzi, contrasta con la ferocia di quel che, tra sale e salotti, si decise tra i suoi muri. La bellezza e l’orrore. Con imbarazzante normalità, là dentro si discusse della Shoah, delle modalità dell’uccidere, delle camere a gas, dello Zyklon B, probabilmente usato per la prima volta all’inizio del settembre 1941 per eliminare 600 prigionieri di guerra sovietici, classificati come «fanatici comunisti» e altri 900 poco dopo.
La riunione di Wannsee sembra la riunione di un gruppo aziendale i cui dirigenti discettano dei problemi della grande distribuzione della loro merce. Il genocidio viene analizzato dagli uomini di Adolf Hitler come una moltiplicazione di numeri, non di esseri umani, ma di montagne di spazzatura repellente da collocare in luoghi chiamati lager, da sfoltire, eliminare.
Il concetto di soluzione finale non nacque propriamente allora. Il 30 gennaio 1939 davanti al Reichstag, Hitler aveva dichiarato in un discorso che «se il giudaismo internazionale della finanza entro e fuori i confini europei fosse riuscito a catapultare i popoli in una guerra mondiale, il conflitto avrebbe avuto come esito lo sterminio della razza ebraica in Europa».
Centinaia di migliaia di ebrei, ai tempi della conferenza, erano già stati sistematicamente uccisi in Unione Sovietica - l’invasione dell’Urss era iniziata il 22 giugno 1941 - in Serbia e in Polonia, dove era stato inaugurato il primo campo di sterminio. A Lublino era in costruzione, dal novembre 1941, un altro campo di sterminio permanente. Fucilazioni di massa avevano dunque già avuto luogo prima della conferenza di Wannsee: che significato doveva avere quella riunione, ora che gli Stati Uniti nel dicembre del 1941 erano entrati in guerra ed era venuta meno ogni possibile minaccia agli americani che diventarono la fucina di armi e di uomini per l’Europa?
Probabilmente con quella conferenza si tentò di coordinare le diverse azioni scombinate già in corso approvando un piano globale di pianificazione da portare a termine durante la guerra: la soluzione finale della follia antiebraica.
Protagonista della conferenza è il verbale, diventato famoso, redatto da Adolf Eichmann e autorizzato da Heydrich. Delle trenta copie stampate ne è rimasta soltanto una, la sedicesima, scoperta dagli Alleati nel 1947 e conservata ora a Berlino nell’Archivio politico del ministero degli Esteri.
In un’ora, un’ora e mezzo, si decise di deportare undici milioni di ebrei dell’Europa e di sterminarli. «La soluzione finale della questione ebraica europea», scrive Peter Longerich, «non doveva svolgersi più nei territori sovietici occupati: il baricentro fu spostato nella Polonia posta sotto il dominio nazista». (Non più, quindi, come si era pensato in un primo tempo, il problema della soluzione finale andava risolto deportando gli ebrei nell’Unione Sovietica conquistata per sterminarli a guerra finita, ma attuando subito il programma del massacro).
Chi furono i quindici, selezionati dal regime nazista, protagonisti della conferenza? I rappresentanti degli organi statali, i delegati delle autorità civili di occupazione, i funzionari delle SS, Gauleiter, segretari di Stato, ufficiali della polizia e delle SS. Il capo e il più noto era certamente Reinhard Heydrich; Eichmann era soltanto un Obersturmbannführer, un tenente colonnello delle SS; Rudolf Lange, detto il boia, un maggiore delle SS, era il comandante della polizia di sicurezza per la Lettonia.
Nelle sue quindici pagine il prezioso verbale affronta con minuzia ragionieresca ogni questione. Anche quella degli ebrei italiani - 58 mila - senza porsi il problema che l’Italia era allora alleata della Germania.
Heydrich, l’artefice della conferenza, aveva cinque mesi di vita. Il 29 maggio 1942 due partigiani del libero esercito cecoslovacco lo colpirono a morte a Praga dove risiedeva mentre con la sua Mercedes si stava recando al Castello.
Le cose andarono diversamente da come le avevano previste e decise i gerarchi nazisti nella bella villa sul lago di Wannsee. I russi, a Stalingrado, si svenarono e respinsero gli aggressori nazisti mentre gli Alleati, da Ovest e da Sud, strinsero la Germania in una morsa di fuoco e di libertà.
Di quei milioni di morti innocenti che gli uomini di Hitler riuscirono a uccidere resta soltanto la memoria indimenticata.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
Il grande esperimento Invalsi
di Gianluca Gabrielli *
di Gianluca Gabrielli*
Il grande esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia
Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.
Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare - ad esempio - gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o - chissà - addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.
Anche l’affermazione che le prove non potevano essere valutate e che l’Invalsi stessa sostenesse la non opportunità di allenarsi ad esse stravolgendo la programmazione scolastica è progressivamente caduta, sostituita tutt’al più da generici suggerimenti di non eccedere negli allenamenti comunque predisposti anche nei siti istituzionali.
Le resistenze diffuse opposte nei primi anni da parte del personale docente e da gruppi di genitori organizzati si sono progressivamente indebolite, lasciando oggi l’onere della contestazione del test a piccoli gruppi di docenti determinati e a isolati genitori, mentre le case editrici scolastiche hanno infarcito orrendamente i già poco appetibili libri di testo di sfilze di quiz a risposta multipla.
La stessa macchina Invalsi si è evoluta, traendo insegnamento dalle resistenze e modificando la propria articolazione (nelle scuole medie e superiori ad esempio disseminando le prove su un intero mese e automatizzando le procedure di correzione, in modo da vanificare in gran parte l’indizione di scioperi) estendendo in questo modo la capacità dei test di sconvolgere la normale programmazione scolastica per tutta l’ultima parte dell’anno.
D’altra parte, accanto a quello che sembra proprio un trionfo della macchina-Invalsi, cresce un ostinato insieme di interventi critici che raccolgono, incrementano, combinano e ripropongono le critiche che hanno accompagnato l’evoluzione del Grande Esperimento in questi ultimi quindici anni. In questi testi interessanti che circolano sulle riviste e nei social sono molti gli aspetti dei test Invalsi che vengono messi in discussione; mi pare tuttavia che poco si sia riflettuto seriamente su un aspetto, forse ingannati dall’apparentemente inoppugnabile trasparenza della risposta, e cioè su chi fossero i soggetti sottoposti all’esperimento.
Facciamo un passo indietro, al 1961. Il sociologo statunitense Stanley Milgram organizza un esperimento di psicologia sociale per raccogliere dati sulla possibilità dei soggetti di compiere azioni in contrasto con i propri principi etici se sottoposti ad ordini provenienti da un’autorità scientifica riconosciuta. Milgram è influenzato dal processo Eichmann che si sta svolgendo in Israele e vuole scavare attorno all’affermazione di tanti soggetti implicati nella Shoah che si difendono affermando di aver solamente eseguito degli ordini.
Nell’esperimento vengono contattate persone cui viene chiesto di collaborare ad una raccolta dati in una serie di prove di apprendimento. Il loro compito consiste nel somministrare un rinforzo negativo - scosse elettriche di intensità crescente - ai soggetti che sbagliano le risposte. In realtà le scariche elettriche sono finte e gli allievi che le ricevono sono collaboratori di Milgram che fingono la sofferenza con grida e lamenti, mentre altri collaboratori - che interpretano gli scienziati - sollecitano gli insegnanti a non derogare dal protocollo sperimentale e ad infliggere le scosse previste.
I risultati dell’esperimento furono inquietanti: dei quaranta soggetti sottoposti alla procedura una buona percentuale proseguì nel protocollo infliggendo scariche elettriche visibilmente dolorose per molto tempo, in alcuni casi spingendosi fino ad infliggere le scariche più intense sufficienti a far svenire l’allievo.
L’obbedienza spingeva cioè i soggetti a derogare dai principi etici cui erano stati educati e nei quali si riconoscevano. Questo stato eteronomico, nel quale il soggetto non si considera più capace di prendere decisioni autonome ed agisce come strumento delle decisioni di un’autorità superiore, in questo caso era stato indotto dalla autorevolezza del soggetto superiore che dettava gli ordini e il protocollo sperimentale: la scienza. Era in nome dell’indiscutibilità della scienza che i soggetti sottoposti all’esperimento rinunciavano ai propri principi etici, convinti di operare secondo un principio superiore e di non essere responsabili delle sofferenze inferte ai (finti) allievi.
Certo influivano altri fattori sulla decisione di obbedire fino in fondo o di interrompere l’azione, come la distanza da colui che riceveva le scariche elettriche e la vicinanza e l’insistenza dello “scienziato”, ma tutti risultavano subordinati alla trasformazione che il “protocollo scientifico” operava sulla situazione, sul contesto. All’interno del contesto definito dall’esperimento - piccolo tassello di quel grande apparato tendenzialmente indiscutibile che si chiama Scienza - il soggetto riconosceva l’autorità del “protocollo” e quindi la propria azione obbediente cessava di venir percepita come immorale, ma al contrario appariva legittima e ragionevole.
Il Grande Esperimento Invalsi
Torniamo al presente. Ai circa 50mila docenti della scuola primaria impegnati nelle prove Invalsi viene consegnato ogni anno un Manuale del somministratore. I test infatti, per affermazione degli stessi scienziati Invalsi, sono rilevazioni scientifiche che devono svolgersi secondo un rigido protocollo cui non si può assolutamente derogare, pena la perdita di validità dei dati raccolti. Così nel Manuale (nel 2017 contava 25 pagine) leggiamo i vincoli organizzativi e metodologici che i docenti somministratori devono far rispettare a tutti i soggetti testati, siano essi sedicenni o bambini e bambine di sette anni. Vediamo alcune di queste regole.
Prima di tutto l’insegnante viene investito dell’autorevolezza dell’apparato scientifico che organizza il test. In carattere grassetto gli organizzatori dell’esperimento si rivolgono al docente affermando che “in qualità di Somministratore, lei è responsabile della somministrazione di questi strumenti agli alunni della classe che le è stata assegnata”. La scelta dei termini attraverso i quali viene affidato il compito non è certo casuale, la distanza da una pratica didattica è evidente e netta, qui il docente viene interpellato non più come tale, ma come “Somministratore di strumenti”, deve svestire i suoi panni professionali per vestirne altri e compiere azioni cui deve essere guidato. Nessuna autonomia di giudizio può essere concessa: “Lei si attenga in maniera precisa e rigorosa [grassetto nell’originale] alle procedure di seguito descritte” che - sole - permetteranno di “somministrare le prove nel modo indicato nel presente manuale” e di “assicurare che la somministrazione avvenga nei tempi stabiliti”.
Gli ordini sono perentori e passo passo traghettano l’insegnante dal regno della didattica al regno della scienza statistica, in cui ogni elemento di relazione umana costituisce problema e disturba:
NON risponda alle eventuali richieste di aiuto degli alunni sulle domande delle prove cognitive (Italiano e Matematica).
NON dia alcuna informazione aggiuntiva, indicazione o suggerimento relativamente al contenuto di alcuna delle domande della Prova”.
Qui il manuale è particolarmente insistente, perché le e gli insegnanti hanno nel loro codice deontologico non scritto il principio sacro di aiutare bambine e bambini a comprendere il sapere e la realtà. Derogare ad una richiesta di aiuto in questo senso significa rinunciare a qualcosa che, anno dopo anno, diventa un habitus della personalità di un docente, si incorpora in lei o in lui.
Allora il Manuale dedica molti passaggi a questo elemento, arrivando fino a dettare parola per parola ciò che dovrà venire risposto al bambino o alla bambina che si rivolgesse per una spiegazione o un chiarimento:
“LA MIGLIORE RISPOSTA da dare a qualunque richiesta di aiuto è: ‘Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda. Se ti può essere utile, rileggi le istruzioni e scegli la risposta che ti sembra migliore’”.
Dopo aver proibito ogni tentazione didattica, il Manuale istruisce sulla vigilanza delle prove. Anche qui il testo è molto chiaro, ricorda molto le indicazioni per i concorsi pubblici ma le supera in rigidità disciplinare e burocratica. Così ordina ai somministratori (gli ex docenti): “Prima dell’inizio delle prove si assicuri che gli allievi siano disposti nei banchi in modo che non possano comunicare tra di loro durante lo svolgimento delle prove stesse”; “mentre gli allievi sono impegnati nello svolgimento delle prove, giri costantemente tra i banchi”; “Durante tutte le somministrazioni eserciti una costante vigilanza attiva...”; “gli alunni [devono essere] attentamente sorvegliati”; “È sua responsabilità adottare tutte le misure idonee affinché [...] gli allievi non comunichino tra di loro”.
Se l’obiettivo è impedire la comunicazione (non solo il copiare) tra bambine e bambini, per farlo occorre mettere mano anche agli ambienti. Così “si raccomanda vivamente, nel limite del possibile, che la somministrazione non avvenga nella loro aula, ma in locali appositamente predisposti e di dimensioni tali da consentire di disporre i banchi in file singole e convenientemente distanziati uno dall’altro”. Questa architettura perfetta, che va dai banchi al linguaggio al divieto assoluto di comunicare non può venire modificata neppure per l’urgenza di bisogni fisiologici, tanto che il Manuale accorda il permesso di autorizzare l’uscita del bambino o della bambina “solo in situazioni di emergenza (ad esempio, nel caso si sentano male)”, e quindi non in caso scappi la pipì o la cacca.
A questo punto, trasformati i docenti in somministratori e sorveglianti e l’aula in una cella di massima sicurezza, l’esperimento può avere inizio con una frase precisa: “Dare il via dicendo ‘Ora girate la pagina e cominciate’”[grassetto nell’originale].
Ovviamente, come ogni somministratore di esperimenti, l’insegnante deve essere pronto a mentire, sempre per il fine superiore della scienza. Così il Manuale suggerisce di “rassicura[re] coloro che non fossero riusciti a portare a termine la prova” e di “spiegare agli alunni [...] se ritenuto opportuno, che non verrà dato alcun voto per lo svolgimento della prova”, anche se ormai moltissime scuole usano le prove come verifiche della materia testata e da quest’anno l’esito delle prove di terza media viene inserito nel curriculum dello studente e farà parte della certificazione sulle competenze del primo ciclo.
Si arriva all’assurdo della prova di lettura per la classe seconda elementare, che prevede il somministratore con il cronometro e lo svolgimento in due minuti esatti per misurare quante parole vengono riconosciute. In questa prova l’indicazione del Manuale dice una cosa e il suo contrario: “Quando vi darò il via, dovete cominciare la prova vera e propria e cercare di fare più in fretta che potete ma non vi preoccupate se non riuscite a finire”. Ma se non devo preoccuparmi se non finisco, perché mi si cronometra?
Spesso mi sono chiesto in questi anni: perché un insegnante dovrebbe rinunciare ai propri principi pedagogici e - in fin dei conti - etici, per contraddirli facendo il “somministratore”? Per giunta senza il riconoscimento di alcun emolumento economico. C’è probabilmente il timore delle sanzioni, di essere considerati dei rompiscatole, per alcuni sicuramente c’è la convinzione che questa sia la strada giusta per una rigenerazione di stampo neopositivista della scuola italiana (anche se a quindici anni dall’inizio dei test ho visto molti fervori raffreddarsi). Però ugualmente, per lungo tempo, non riuscivo a capire fino in fondo come facesse ad andare avanti questo Grande Esperimento. Poi mi è tornato in mente Milgram.
Come le persone interpellate da Milgram, i docenti in questi anni hanno creduto che i soggetti sottoposti alla sperimentazione fossero le alunne e gli alunni delle loro classi, mentre i veri bersagli di questa enorme operazione pseudoscientifica erano loro stessi. Era la loro obbedienza a venire messa alla prova, ad essere osservata e studiata per capire fino a che punto un insegnante medio era capace di rinunciare a principi etici e convinzioni pedagogiche profondamente radicate nel proprio statuto professionale per trasformarsi in un burocrate che eseguiva gratuitamente ordini lontani dalle proprie convinzioni. Questo era il vero, sotterraneo, protocollo dell’esperimento Invalsi.
Gli insegnanti italiani sarebbero stati capaci di abiurare alla propria etica e professionalità e divenire “somministratori di test” allontanandosi gratuitamente dalla propria pratica didattica? Era possibile far loro rinunciare al principio cardine di ogni didattica relazionale, cioè indurli a interrompere la comunicazione tra loro stessi e le bambine e i bambini che esprimevano il desiderio di un chiarimento o di un incoraggiamento? Era possibile convincere maestre e maestri a rispondere come automi alle richieste di aiuto didattico di bambine e bambini di sette anni con una frase standard come “Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda”?
Non sembri solamente un paradosso. Se si pensa alle prove previste per la classe seconda elementare si può comprendere che la burocratica e ubbidiente esecuzione delle indicazioni del manuale assume la forma di un’odiosa imposizione incomprensibile, irrispettosa dei piccoli e delle piccole persone che vengono a scuola per apprendere in una relazione di rispetto e riconoscimento reciproco. Cos’è, per un bambino o una bambina di sette anni, il rifiuto assoluto del permesso di andare in bagno, cui viene anteposto il primato del rispetto dei parametri dell’esperimento? Cos’è l’organizzazione di una prova di velocità di lettura con cronometro alla mano fingendo che la rapidità non costituisca il parametro di giudizio? Dopo decenni nei quali l’amore della lettura viene proposto come piacere da coltivare senza fretta, perché un docente dovrebbe cronometrare i suoi bambini, trasmettendo principi didattici opposti?
Cos’è l’allontanamento dell’insegnante di classe per rendere più anonima la somministrazione e evitare ogni intervento di aiuto, quando è evidente che la tranquillità di un bambino di quell’età è legata alla presenza dei soggetti adulti con i quali ha costruito un rapporto di fiducia? Anche nella vecchia formula dell’esame di quinta elementare i docenti della classe erano affiancati da altri docenti della scuola, perché la pratica della valutazione fosse condotta in un contesto nel quale la serenità dei bambini non fosse tradita. In questi test invece la preoccupazione per il profilo emotivo dei bambini è inesistente, come fossero quei topolini bianchi chiamati non a caso cavie, e tutta l’organizzazione sembra costruita apposta per imporre uno shock emotivo ai soggetti testati. Perché 50mila maestri e maestre ogni anno accettano di imporre quegli shock emotivi e didattici?
Perché lo dice la scienza. Perché c’è un protocollo, perché ci sono dirigenti e docenti incaricati che premono da vicino affinché il protocollo non venga interrotto con fastidiosi dubbi etici o inopportuni principi pedagogici, come facevano i (finti) scienziati di Milgram per spronare i soggetti dell’esperimento a spingersi più avanti possibile.
Ricordo che qualche anno fa l’Invalsi richiedeva di allontanare i bambini diversamente abili dalle classi perché i loro risultati non erano conteggiati e la presenza dei docenti di sostegno poteva disturbare lo svolgimento della prova. Un’amica docente di sostegno affermò che lei sarebbe rimasta in classe con la bambina; di rimando il dirigente la mattina della prova fece spostare tutti i banchi in un’altra classe, lasciando in quell’aula solo il banco della bambina con disabilità.
Cosa succederebbe se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le prove Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore? Il Grande Esperimento Invalsi si regge sull’obbedienza gratuita dei docenti, cinquantamila ogni anno nella scuola primaria. Se queste maestre e maestri decidessero di far affrontare le prove come fossero semplici pagine di sussidiario? Se decidessero di consentire ai bambini con la pipì di andare in bagno? Se concedessero il tempo di cui ogni bambino ha bisogno per provare a risolvere con calma i quesiti o per leggere con tranquillità il brano previsto, e magari di godersi la lettura? Se incoraggiassero l’aiuto reciproco di fronte alle difficoltà?
Se così facessero, immediatamente tutto l’esperimento crollerebbe, si affloscerebbe sotto il peso di una macchina burocratica enorme ma priva di colonne atte a sorreggerla. Eppure non dovrebbe essere così difficile rivendicare il diritto di esercitare la propria capacità professionale, di essere umani nei confronti dei propri alunni, di aiutare i bambini e le bambine a comprendere e a svolgere gli esercizi, di farli sentire a proprio agio. Non sono certo azioni di cui ci si dovrebbe vergognare, bensì le basi di una presenza in classe didatticamente produttiva. A volte mi chiedo se un dirigente potrebbe punire un docente perché ha fatto andare al bagno un bambino o perché gli ha spiegato un esercizio che non aveva capito. Caro Milgram, secondo te sarebbe possibile?
*Gianluca Gabrielli è storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016), dal quale è tratta l’omonima mostra. Ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui
* Comune-info, 2 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini)
Inediti.
Hans Jonas, la ricerca della vita buona
Secondo il pensatore tedesco l’uomo si realizza in un sano pensiero filosofico, evitando gnosticismo e storture scientiste. Per non diventare «formiche tecnologiche»
di Simone Paliaga (Avvenire, venerdì 9 febbraio 2018)
«Che l’immagine dell’uomo non vacilli, si offuschi e sbiadisca, che gli uomini non si riducano a formiche tecnologiche o edonisti senza anima o marionette frastornate dal nostro furibondo potere». A cosa attingere per evitare questa deriva? All’uso adeguato della filosofia che instrada verso la vita buona e all’esercizio della virtù? Sono dilemmi che hanno il sapore dell’attualità benché sollevate da Hans Jonas nel 1955. Potrebbe d’altro canto essere diversamente se «le questioni filosofiche - puntualizzava il pensatore sei anni prima - si ripropongono ad ogni nuova epoca tanto daccapo, quanto alla luce della loro intera vicenda storica antecedente?». Le citazioni provengono dalle annotazioni del filosofo appartenenti alla sua stagione canadese, dal 1949 al ’55.
A lungo conservate all’Hans Jonas Nachlass dell’università di Konstanz sono state ripescate e raccolte in anteprima mondiale da Fabio Fossa in questo libro (Sulle cause e gli usi della filosofia e altri scritti inediti, Ets, pp. 120, euro 10). Hans Jonas non è tra gli autori più conosciuti al grande pubblico eppure il suo curriculum scintilla. Dopo gli studi con Rudolf Bultmann e Martin Heidegger nella Germania degli anni Trenta, prende la via dell’esilio, lontano dall’Europa.
La sua vita però non si riduce a studio e contemplazione. Anzi l’agire ne costituisce una cifra di rilievo. Lo prova, nel corso della Seconda guerra mondiale, la scelta di arruolarsi nella Jewish Brigade, inquadrata nell’esercito britannico e operativa sul suolo italiano. I rapporti con la penisola scandiscono la vita di Jonas. Sarà proprio al rientro dall’Italia, nel 1993, dopo avere ricevuto il Premio Nonino dedicato ai maestri del nostro tempo, che il filosofo tedesco naturalizzato americano si spegnerà a New York all’età di novant’anni.
Il nome di Jonas comincia a uscire dai cenacoli dotti appena pubblica Il principio responsabilità, dove traccia un’etica all’altezza della civiltà tecnologica. Siamo, con Jonas, lontani anni luce dalle prefiche apocalittiche. La Guerra fredda imperversa (è il 1979) e molti continuano a gridare al pericolo rosso, pronto a sbarcare in Afghanistan. Pochi invece si curano dei potenziali sviluppi distruttivi della civiltà a più alto tasso tecnologico mai esistita. Eppure la riflessione sul ’Prometeo scatenato’ occhieggiava già da tempo tra le note di Jonas. Lo testimoniano gli scritti del soggiorno canadese che sono tutt’altro che una parentesi nel cammino di pensiero di Jonas. Già con il breve Introduzione alla filosofia e con Virtù e saggezza in Socrate prepararti nell’inverno del 1949 per i corsi del Dawson College della McGill University, emerge la costante attenzione all’uomo e alla vita buona, medicina per non trasformarsi in «formiche tecnologiche».
«L’uomo è il risultato delle sue azioni passate - scrive nel 1949 in Introduzione alla filosofia -. Intendo il passato culturale della stirpe, custodito nella memoria storica; e solo fintantoché questo passato è realmente ricordato l’uomo è davvero consapevole del proprio esistere presente e, di conseguenza, dell’autentico significato attuale dei propri problemi esistenziali». È questa dimensione storica che gli consente di porsi di là del dualismo tra intelletto e vita, tipico della filosofia greca. Ma la sua storicità non garantisce nulla se non un punto di partenza. Occorre, all’uomo, inseguire la vita buona e praticare la virtù, rovello dello sforzo teoretico di Jonas. Agire eticamente nel mondo storico perseguendo la virtù consente di evitare le spirali dello gnosticismo o le storture del sogno scientista che «promuove la massima realizzazione di tutti i fini desiderabili attraverso la semplice messa a disposizione dei mezzi».
Occorre ricucire lo strappo tra intelletto e vita. «L’approccio dualistico alla costituzione sostanziale dell’uomo - scrive già nel 1950 - rende conto del fatto che tanto la comprensione quanto la realizzazione del fine dell’uomo non dipendono da un processo di sviluppo spontaneo, ma dall’esercizio della virtù etica». Virtù che non può rimanere chiusa nell’autosufficienza dell’intelletto e che nello Jonas maturo assume i tratti della responsabilità nei confronti delle generazioni a venire. Responsabilità che faticherebbe a farsi largo senza la «fatica della filosofia, che deve sempre ripartire da capo, fondata com’è sulla ragione; e la ragione non è il freddo, impersonale intelletto, ma è pervasa dalla passione dell’amore o dell’onestà».
QUELLA COTTA PER LA ARENDT DI HANS JONAS
A dieci anni dalla sua scomparsa esce la sua autobiografia
di Paola Sorge (la Repubblica, 29 luglio 2003)
La notorietà arrivò tardi per Hans Jonas: il filosofo aveva 75 anni quando «Il principio responsabilità - Un’etica per la civiltà tecnologica» - un libro che ebbe una diffusione rapida e vastissima come pochi altri nel mondo del pensiero - gli diede fama internazionale; da allora, era il 1979, il pensatore originario di Monchengladbach che aveva studiato con Husserl e Heidegger, l’ insegnante entusiasta e appassionato che faceva della filosofia qualcosa di vivo e affascinante, divenne estremamente popolare, onnipresente nei dibattiti sul futuro del mondo.
La sua intensa vita che abbraccia quasi tutto il Novecento (dal 1903 al 1993) la racconta lui stesso in maniera semplice e disarmante in un volume uscito ora in Germania (Hans Jonas: Erinnerungen, ed. Insel,pagg. 500); nulla di accademico né di costruito nelle memorie di questo grande filosofo che paiono piuttosto le confidenze di un amico che sente il bisogno di confessarsi, di rivelare con estrema franchezza non solo le tappe del suo iter intellettuale - dalla analisi della spiritualità antica a quella della tecnologia moderna fino alla preoccupazione per il futuro dell’ umanità - , ma anche le sue vicende personali, gli aspetti meno conosciuti della sua formazione e della sua carriera, i lati oscuri della sua personalità. Jonas rievoca con dovizia di particolari la sua infanzia, il rapporto con il padre, un agiato fabbricante tessile che stenta a capire le aspirazioni e le tensioni spirituali del figlio e il suo impegno per il sionismo, il tenero legame con la madre e la ferita sempre aperta per la sua tragica morte a Auschwitz; come la maggior parte dei suoi compagni di studi, Hans prova una forte attrazione per Hannah Arendt, conosciuta a Marburg nel 1924, ma lei gli confessa subito la sua relazione con Heidegger per non illuderlo e ne fa il suo confidente e amico per la vita.
La descrizione dell’ ambiente universitario di Friburgo e poi di Marburg e delle lezioni tenute dai due grandi, allora mitici maestri di Jonas, Husserl e Heidegger, è a dir poco disincantata. Il primo, fondatore della fenomenologia, riteneva che tutti i pensatori dell’ era moderna, da Descartes in poi, non erano riusciti a risolvere certi problemi della consapevolezza o della teoria della conoscenza perché non conoscevano il suo metodo, l’ unico che dava soluzioni. Tra l’ altro, si diverte a ricordare Jonas, era presente alle lezioni la moglie di Husserl che, come un cerbero, controllava che gli studenti fossero attenti e prendessero appunti.
Quanto a Heidegger, il giovane Hans ne riconosce il grande valore e la suggestione esercitata dalla sua personalità, ma non esita a dichiarare che spesso non lo capiva: il suo messaggio era cifrato, destinato a pochi iniziati e inoltre, intorno a lui, si avvertiva un’ atmosfera «malsana» dovuta agli adoratori del filosofo. «Non riuscivo a sopportare quella congrega di cultori di Heidegger dall’ atteggiamento bigotto e altezzoso» - osserva Jonas ricordando i seminari frequentati a Marburgo dal 1924 - «essi credevano di possedere la verità rivelata: quella non era filosofia ma qualcosa di settario, quasi una nuova fede...».
Queste prime, sgradevoli impressioni saranno poi rafforzate dal celebre discorso tenuto da Heidegger nel ’33 in favore di Hitler e dal suo vergognoso comportamento nei riguardi di Husserl. In realtà per il giovane studente pieno di ideali, che credeva che la filosofia dovesse proteggere l’uomo da errori, migliorarlo e nobilitarlo, l’inaspettata adesione del grande filosofo al nazismo non significa solo il crollo di un idolo, ma anche il fallimento catastrofico della filosofia stessa, «la bancarotta del pensiero filosofico».
Dopo la guerra Hans Jonas si distaccherà definitivamente dalla filosofia dell’ esistenzialismo contrapponendole la «filosofia della vita»; a differenza della Arendt, non perdonerà mai colui che ritiene il più profondo pensatore del suo tempo, anche se accetterà di incontrarlo brevemente nel 1969, in occasione del suo ottantesimo compleanno. «Ma tra noi ci fu solo uno scambio di ricordi del tempo di Marburg», nota Jonas.
Dopo la notizia dell’ avvento di Hitler al potere appresa durante un’ allegra festa in maschera, Hans si rifugia a Gerusalemme, partecipa alla seconda guerra mondiale arruolandosi nell’ esercito inglese, combatte in Italia, a Taranto, a Forlì, a Udine, e rimane piacevolmente sorpreso nel constatare che la popolazione protegge e nasconde gli ebrei in barba alle leggi razziali.
Quando nel ’45 torna in Germania e vede le città tedesche rase al suolo - città fantasma che sembravano paesaggi lunari, piene di crateri e di rovine - , prova una gioia incontenibile per la vendetta che si è compiuta: «E’ qualcosa che non vorrei mai più provare», confessa Jonas, « ma che non voglio tacere». E, senza remore aggiunge che per molti anni quello è stato per lui il momento di più intensa felicità. «Oggi non lo potrei più dire «, nota il filosofo « perché nella mia vita ho vissuto momenti ben più felici».
A New York, dove dal 1955 ha la cattedra di filosofia, ritrova Hannah Arendt e frequenta la sua cerchia di amici a Manhattan fino a quando la pubblicazione degli articoli della scrittrice sul processo di Eichmann a Gerusalemme lo sconvolge profondamente: Jonas non crede ai suoi occhi, non riesce a capacitarsi delle dure critiche mosse dalla Arendt agli stessi ebrei, del tono tagliente e sarcastico da lei usato nei loro confronti, della sua posizione antisionista. Lo scontro fra i due amici di un tempo è inevitabile: Hans rimprovera a Hannah - che non ha mai letto la Bibbia - la sua ignoranza sulla religione e sulla storia ebraica antica, tenta inutilmente di farla desistere dalle sue posizioni, si rifiuta infine di vederla. Solo dopo due anni riprenderà i contatti con la donna da lui stesso definita «un genio dell’ amicizia».
Auschwitz on the Beach, in Germania cancellata la performance di Bifo che paragona crisi dei migranti e Olocausto: “Bigotti”
L’attivista e filosofo bolognese avrebbe dovuto esibirsi nell’ambito della celebre mostra di arte contemporanea Documenta14. Ma è stato sommerso dalla polemiche. Il ministro della cultura tedesco Boris Rhein e il sindaco di Kassel Christian Geselle hanno addirittura chiesto l’intervento della magistratura. Lui spiega a ilfattoquotidiano.it: "E’ la bigotteria di gente che ha ripetuto molte volte ’mai più Auschwitz’ e tuttavia non tollera che qualcuno gli faccia presente che in realtà Auschwitz sta accadendo di nuovo sotto i nostri occhi e con la nostra complicità"
di Felice Moramarco *
In Germania non si può paragonare la crisi dei migranti all’Olocausto degli ebrei, nemmeno se a farlo è un artista. Ha ricevuto critiche durissime la performance dal titolo Auschwitz on the Beach scritta dal filosofo e attivista bolognese Franco “Bifo” Berardi, prevista per il 24 agosto scorso nell’ambito della famosa mostra di arte contemporanea “documenta 14” a Kasselin Germania. La performance aveva come tema la crisi dei rifugiati, che secondo l’autore, ha assunto i tratti inquietanti di un olocausto. Proprio a causa delle polemiche, gli organizzatori di documenta 14 e Berardi hanno deciso di cancellare l’evento e sostituirlo con un incontro pubblico dal titolo Shame on Us, che ha visto una larghissima partecipazione. Molte sono state le accuse di relativizzare la tragedia dello sterminio degli ebrei. Si sono uniti alle critiche anche il ministro della cultura tedesco Boris Rhein e il sindaco di Kassel Christian Geselle, i quali hanno addirittura chiesto l’intervento della magistratura. Tuttavia c’è stato anche chi, come Philippe Ruch del Zentrum für Politische Schönheit si è chiesto se sia effettivamente così fuori luogo paragonare i campi di concentramento costruiti sulle coste libiche con l’avvallo degli stati Europei ai lager nazisti. Proprio in queste ore, la ong Moas ha interrotto i salvataggi nel Mediterraneo dicendo di non sapere cosa succede nei centri in Libia. E il parallelo con l’olocausto è stato fatto solo domenica 3 settembre alla Festa del Fatto Quotidianodall’editorialista Furio Colombo: “Questa è la seconda Shoah”, ha detto durante un dibattito con il ministro dell’Interno Marco Minniti.
Immaginavate che l’annuncio di una performance dal titolo Auschwitz on the Beach sarebbe stato accolto in questo modo?
Noi europei stiamo ripetendo quello che i nazisti fecero negli anni ’40. Qualcuno potrebbe dire che questa è una esagerazione, ma certo che è un’esagerazione! Tuttavia, bisogna tener presente che per il momento abbiamo ucciso almeno trentamila migranti nel mar Mediterraneo. E non sappiamo quanti ne abbiamo uccisi nel deserto del Sahara e quanti cadaveri ci siano nelle fosse comuni libiche. Questo era quello che volevamo denunciare.
É risaputo che in Germania temi ed espressioni legate al loro passato nazista costituiscono ancora una ferita aperta.
Io sono disposto ad ascoltare questa obiezione dai rappresentanti della comunità ebraica tedesca, con cui ho infatti discusso. Ma non sono disposto ad ascoltare questa obiezione da qualche stronzetto che scrive sui giornali della “Grande Germania”, perché sono i nazisti tedeschi, che non sono mai scomparsi, ad aver inferto quella ferita all’umanità. Mio padre durante la guerra ha passato sette mesi in un carcere tedesco, quindi non accetto che un pezzo di merda come il signor Jens Jessen sulla Zeit mi venga a dire che quella ferita è ancora aperta, perché è proprio gente come lui che ha inferto quella ferita a gente come mio padre.
Allora perché avete deciso di cancellare la performance?
L’abbiamo cancellata perché la nostra intenzione non era tanto quella di mettere in scena un’opera d’arte, ma quella di lanciare un messaggio. Dato quello che è successo, cancellare la performance ci ha permesso di far circolare quel messaggio dieci, cento volte di più di quanto non sarebbe stato possibile se ci fossimo fatti intrappolare dalla retorica della libertà d’espressione. In gioco c’è qualcosa di molto più importante della mia libertà d’espressione. Non me ne frega niente della mia libertà d’espressione, quando in gioco c’è la vita di milioni di donne e di uomini!
L’unica cosa resa pubblica della performance è stato quindi il titolo.
Esatto.
E come si spiega che l’accostamento di due semplici parole, “Auschwitz” e “Beach” abbia innescato un dibattito così acceso?
Perché quell’espressione ha provocato la bigotteria del ceto neoliberale tedesco. La bigotteria di gente che ha ripetuto molte volte “mai più Auschwitz” e tuttavia non tollera che qualcuno gli faccia presente che in realtà Auschwitz sta accadendo di nuovo sotto i nostri occhi e con la nostra complicità. Sulla stampa tedesca sono stati pubblicati più di un centinaio di articoli da questi bigotti. Ma è il mio mestiere provocare, l’ho sempre fatto. Per mesi, sono stato su tutti i giornali italiani [nel 1977, n.d.r], descritto come provocatore e criminale, perché parlavo da una radio libera [Radio Alice, ndr]. E allora imparai che occorre non lasciarsi mai spaventare da gente come questa.
Non pensa che chi ha reagito in questo modo sia in realtà ben cosciente di ciò che sta accadendo e che semplicemente non vuole prendere atto delle proprie responsabilità.
Certamente. In gioco c’è qualcosa di enorme. Noi occidentali dobbiamo far fronte alle conseguenze di secoli di colonialismo e di quindici anni di guerra ininterrotta, di cui siamo totalmente responsabili. Ora, l’enorme debito che abbiamo accumulato, non vogliamo pagarlo. Ci rifiutiamo di investire le enormi somme di denaro necessarie per l’accoglienza dei migranti e preferiamo darle a Banca Etruria, al Monte dei Paschi e al sistema finanziario europeo. Bene, questo atteggiamento provoca la guerra. Una guerra che è già cominciata e che non vinceremo, perché abbiamo a che fare con un immenso esercito di disperati. Perderemo tutto. Perderemo la vita di molta gente, perderemo la democrazia e il senso dell’umanità.
* Il Fatto, 4 settembre 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
Eichmann smascherato
Di banale non ha nulla
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 11 Giugno 20179)
Si dice Eichmann e si pensa al male nella sua versione novecentesca. Ma che genere di male? Hannah Arendt ci ha spinto a parlare di «banalità del male». Questa formula aveva per lei un significato filosofico preciso. In veste di giornalista Arendt aveva seguito per il periodico «The New Yorker» il processo contro l’ex tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann.
Nel maggio del 1963 uscì il suo libro Eichmann a Gerusalemme. Il sottotitolo A Report on the Banality of Evil era destinato a suscitare accese polemiche. Un sinonimo di banalità potrebbe essere stupidità, o «assenza di pensiero», sconsideratezza. Eichmann non era la bestia degli abissi; non aveva nulla di demoniaco, né di profondo o addirittura abissale. A guardarlo da vicino era un piatto e grigio impiegato, una rotella all’interno di un ingranaggio che, anche senza di lui, avrebbe comunque funzionato. Per questa scandalosa banalità Eichmann appariva agli occhi della filosofa il prototipo del burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli altri», al quale si poteva imputare l’unica colpa di non aver «pensato» e non aver agito, sottraendosi ai suoi compiti, con la «disobbedienza civile».
Arendt ha avuto il merito di rompere il silenzio sullo sterminio con una riflessione originale. Ma l’impressione che resta, dopo aver letto attentamente il suo libro, è che il ritratto di Eichmann abbia qualcosa di artificioso e sia perciò poco convincente. A spiegare il perché è il prezioso lavoro della storica e filosofa tedesca Bettina Stangneth, La verità del male, pubblicato finalmente in italiano da Luiss University Press.
Il volume imponente, che si legge però con facilità - anche perché ha quasi le caratteristiche di un giallo - è la raccolta meticolosa di prove, testimonianze, documenti inediti, soprattutto le cosiddette Carte argentine, da cui emerge un Eichmann ben diverso da quello descritto da Arendt.
Si capisce perché il libro di Stangneth sia stato un successo sia in Germania, sia soprattutto in America. Ha scritto Steven Aschheim, professore emerito della Università Ebraica e storico della cultura: «Non sarà più possibile in futuro occuparsi del “fenomeno Eichmann” e delle sue implicazioni politiche senza confrontarsi con La verità del male».
Vale la pena ricordare che il titolo del libro in tedesco è Eichmann prima di Gerusalemme (diventato il sottotitolo nell’edizione italiana). Esplicito è dunque il rinvio ad Arendt, verso la quale Stangneth riconosce il suo debito. Ma il suo interesse si concentra sulla figura del gerarca nazista prima di Gerusalemme, cioè nel periodo che va dal 1945 fino al 23 maggio 1960, quando il premier israeliano David Ben Gurion annunciò al mondo che l’architetto della Shoah era stato catturato dagli agenti del Mossad in Argentina e che sarebbe stato presto processato.
Grazie a numerosi appoggi e complicità, Eichmann si era infatti imbarcato a Genova, con il falso nome di Ricardo Klement, ed era riuscito a raggiungere l’Argentina nel luglio del 1950. Aveva cominciato allora una nuova vita grazie alla sua capacità di reinventarsi, senza per questo venir mai meno alla fede nazionalsocialista. Come d’altronde i molti nazisti che avevano trovato rifugio in Sudamerica.
Le Carte argentine sono gli appunti di Eichmann in esilio, nonché i dialoghi e le interviste protocollati, da cui fra l’altro viene fuori l’impressionante rete di rapporti che intratteneva un po’ ovunque nel mondo. Il primo risultato della ricerca di Stangneth è la decostruzione di un mito: quello dell’ex nazista isolato, che cerca di nascondersi, nel tentativo di dimenticare ed essere dimenticato. Nulla di tutto ciò.
La sua vita sociale in Argentina mostra che il grande esperto della «questione ebraica», l’amico del Gran Mufti, il boia che considerava la Shoah il suo «capolavoro», non solo non aveva mai rivisto le sue convinzioni politiche, ma si preparava semmai a realizzarle sotto nuovi cieli e in altre terre.
Bettina Stangneth, nata e cresciuta nella Repubblica federale tedesca, riflette criticamente sul ruolo giocato in quegli anni dalla Germania. Il «fenomeno Eichmann» non si limitava solo all’Argentina. Che il principale stratega e testimone di quei crimini contro l’umanità, che pesavano sul popolo tedesco, fosse ancora in vita, costituiva certo un ostacolo che rendeva difficile, se non impossibile, una rielaborazione del passato.
Eichmann era talmente sicuro di sé che si era persino spinto a scrivere una lettera aperta al cancelliere Konrad Adenauer. Quasi a voler suggellare quella continuità, che molti congetturavano, tra il vecchio regime e la nuova repubblica. E Stangneth denuncia il rifiuto delle autorità tedesche che ancor oggi custodiscono gli atti su Eichmann, preclusi al pubblico con la scusa che potrebbero provocare turbamento. Né isolato, né pentito - ma neppure un burocrate.
Arendt è caduta nella trappola ben congegnata dallo stesso Eichmann che, una volta catturato, scelse intenzionalmente la maschera dell’inetto impiegato, del grigio funzionario. Lui che era considerato più intelligente e astuto di ogni altro, lui che aveva concepito e guidato lo sterminio. Sperava di aver salva la vita attraverso quell’abile manipolazione. Non ci riuscì. Ma ottenne almeno di passare alla storia come esponente di un male banale. È tempo di conoscere la sua storia e il male che ha consapevolmente compiuto.
di Mario Avagliano *
Adolf Eichmann, ovvero il Male non banale. A 51 anni dalla pubblicazione del libro di Hannah Arendt Eichmann in Jerusalem, proposto in Italia da Feltrinelli con il titolo La banalità del male, una nuova ricerca demolisce le tesi della studiosa tedesca naturalizzata americana, che nel 1961 seguì per la rivista New Yorker le 121 udienze del processo in Israele a uno dei principali responsabili della macchina della soluzione finale, condannato a morte e impiccato l’anno dopo.
E capovolge la rappresentazione del criminale di guerra nazista fatta dalla Arendt come «un esangue burocrate» che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi.
A firmare il saggio, uscito questa settimana negli Stati Uniti per i tipi di Alfred A. Knopf e già recensito con grande rilievo dal New York Times, è una filosofa tedesca che vive ad Amburgo, Bettina Stangneth, che ha lavorato attorno alla figura di Eichmann per oltre un decennio, scavando a fondo sulla sua storia. Ne è venuto fuori un libro provocatoriamente intitolato Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa, già pubblicato con scalpore in Germania.
Se ascoltando Eichmann a Gerusalemme, la Arendt rimase impressionata dalla sua «incapacità di pensare», invece analizzando l’Eichmann capo della sezione ebraica della Gestapo, e poi in clandestinità in Sudamerica, la Stangneth vede all’opera un abile manipolatore della verità, tutt’altro che un “funzionario d’ordine” o «un piccolo ingranaggio dell’enorme macchina di annientamento di Hitler», come si autodefinì nel corso del suo processo. Adolf fu un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla “contaminazione ebraica”.
In passato già vari ricercatori avevano seriamente messo in discussione le conclusioni della Arendt. Ma con questo libro la Stangneth le "frantuma" definitivamente, come ha dichiarato Deborah E. Lipstadt, storica alla Emory University e autrice di un libro sul processo Eichmann. La Stangneth sostiene che la Arendt, morta nel 1975, fu ingannata dalla performance quasi teatrale di Eichmann al processo. E aggiunge che forse «per capire uno come Eichmann, è necessario sedersi e pensare con lui. E questo è il lavoro di un filosofo».
LA RICERCA
La filosofa tedesca ha però lavorato come uno storico, rovistando in ben 30 archivi internazionali e consultando migliaia di documenti, come le oltre 1.300 pagine di memorie manoscritte, note e trascrizioni di interviste segrete rilasciate da Eichmann nel 1957 a Willem Sassen, un giornalista olandese ex nazista residente a Buenos Aires.
Un libro che rivela tanti dettagli inediti, come la lettera aperta scritta nel 1956 da Eichmann al cancelliere tedesco occidentale, Konrad Adenauer, per proporre di tornare in patria per essere processato e informare i giovani su ciò che era realmente accaduto sotto Hitler (conservata negli archivi di stato tedeschi), oppure la riluttanza dei funzionari dell’intelligence della Germania Ovest - che sapevano dove si trovava Eichmann già nel 1952 - ad assicurare lui e altri ex gerarchi nazisti alla giustizia. Ma il cuore del libro è il ritratto di Eichmann “esule” in Argentina, dove venne scovato e arrestato dagli agenti segreti del Mossad.
All’apparenza era diventato un placido allevatore di conigli, con il nome di Ricardo Klement. In realtà l’ex gerarca nazista aveva conservato l’arroganza di un tempo e non era niente affatto pentito, tanto da spiegare la sua “attività” con una tirata che a leggerla lascia inorriditi. «Se 10,3 milioni di questi nemici fossero stati uccisi - disse degli ebrei - allora avremmo adempiuto il nostro dovere».
Altrettanto interessante è la descrizione del cerchio magico di ex nazisti e simpatizzanti nazisti che lo circondava in Sudamerica. Personaggi che formavano una sorta di perverso club del libro, che s’incontrava quasi ogni settimana a casa di Willem Sassen per lavorare nell’ombra contro la narrazione pubblica emergente della Shoah, discutendo animatamente su ogni libro o articolo che usciva sull’argomento. Con l’obiettivo di fornire materiale per un libro che avrebbe raffigurato l’Olocausto come una esagerazione ebraica, «la menzogna dei sei milioni» di morti.
Eichmann, il boia nazista chiese la grazia a Gerusalemme
di Mario Avagliano *
Fino all’ultimo momento il criminale nazista Adolf Eichmann provò a negare le sue responsabilità nella Shoah, affermando di essere stato un «semplice strumento» di Adolf Hitler. È quanto risulta dalla lettera manoscritta dello stesso Eichmann, datata 29 maggio 1962, che oggi, in occasione della Giornata della Memoria, il presidente israeliano Reuven Rivlin ha deciso per la prima volta di rendere pubblica. Una missiva di quattro pagine, indirizzata all’allora presidente d’Israele Yitzhak Ben-Zvi, di cui già si conosceva l’esistenza (ne aveva parlato tra gli altri Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male), ma non il contenuto.
Nella lettera Eichmann sosteneva che il tribunale israeliano avesse esagerato il suo ruolo nell’organizzazione della logistica della «soluzione finale», vale a dire nello sterminio degli ebrei. «Bisogna distinguere i responsabili dalle persone che come me sono state semplici strumenti nelle loro mani», scrisse l’ex ufficiale delle SS. «Io non ero un responsabile e non mi sento quindi colpevole» (...) «pertanto non ritengo giusto il giudizio della corte e vi chiedo, signor presidente, di esercitare il vostro diritto a concedermi la grazia, così che la condanna a morte non venga eseguita».
In realtà il funzionario tedesco, classe 1906, era stato uno dei protagonisti della persecuzione degli ebrei in Europa. Già all’età di ventotto anni venne incaricato dalla Gestapo di occuparsi della questione ebraica. Segretario della conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 che decise la «soluzione finale», curò in prima persona il meticoloso piano dei trasporti ferroviari di deportazione degli ebrei, contribuendo al perfetto funzionamento della macchina di morte nei lager di Auschwitz e della Polonia orientale (Belzec, Sobibor, Treblinka).
Nel 1945 Eichmann, al pari di altri gerarchi nazisti, riuscì a far perdere le proprie tracce, imbarcandosi nel 1950 a Genova per l’Argentina, con un passaporto falso intestato a Ricardo Klement. Il funzionario nazista lavorava in uno stabilimento della Mercedes a Buenos Aires quando venne individuato dagli agenti del Mossad, i servizi segreti israeliani. Rapito l’11 maggio 1960, fu trasportato a bordo di un aereo in Israele, dove venne processato e condannato a morte nel 1961.
La lettera - insieme a quella con cui Ben-Zvi respinse la richiesta di grazia - è stata esposta nella residenza dell’attuale presidente israeliano Reuven Rivlin, nell’ambito di una mostra inaugurata ieri e dedicata al celebre processo del 1961, che riaccese l’attenzione sulla Shoah, mandato in onda in diretta tv mondiale e svoltosi presso il Beit Haam, la Casa del Popolo di Gerusalemme.
Proprio in questi giorni è uscito in numerose sale cinematografiche italiane, come evento speciale per la Giornata della Memoria, The Eichmann Show, film di produzione britannica, diretto da Paul Andrew Williams, che ripercorre tutte le tappe produttive della diretta televisiva delle 121 udienze del processo, narrando fra l’altro, grazie a videocamere nascoste, le reazioni di Eichmann di fronte alle testimonianze dei sopravvissuti.
Eichmann venne impiccato poco prima di mezzanotte del 31 maggio 1962 in una prigione a Ramia. Come prescriveva il verdetto, il suo cadavere venne cremato e le sue ceneri disperse da una motovedetta israeliana nel Mediterraneo, al di fuori delle acque territoriali d’Israele.
Il suo processo venne seguito per la rivista New Yorker da Hannah Arendt, che lo descrisse come «un esangue burocrate» che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi. Una tesi poi messa in discussione da vari studiosi e che è stata di recente demolita da un saggio della filosofa tedesca Bettina Stangneth, intitolato Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa, che lo ha identificato come un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla «contaminazione ebraica».
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La storia della foto che allertò il mondo del pericolo nazista
di Renato Paone
10 marzo 1933, sono passate poche settimane da quando Adolf Hitler è salito al potere. In Germania qualcosa sta cambiando. In molti guardano curiosi agli sviluppi della politica interna tedesca, senza capire bene cosa stia realmente accadendo. Assistono curiosi. I nazionalsocialisti si insediano - legittimamente - nei municipi, come a Monaco. Si sono subito messi all’opera, girando per le strade della città e prendendo di mira i negozi dei commercianti ebrei. Minacce perlopiù, ma in alcuni casi si passa alle maniere forti.
Il signor Max Uhlfeder, proprietario del secondo grande magazzino più importante della città, si avvia come ogni giorno al lavoro. Quel che trova al suo arrivo è solo distruzione: vetrine sfasciate e gli interni devastati dalla furia degli uomini delle SA. Non contenti, arrestano lo stesso Uhlfeder, che si unisce ad altre 280 persone, tutte trasportate nel campo di Dachau in "custodia protettiva", come si legge nel documento redatto dagli ufficiali. Gli arrestati sono tutti ebrei.
Il suo avvocato, il signor Michael Siegel - ritratto nella foto - viene contattato dalla famiglia dell’imprenditore, e subito si attiva. Valigetta alla mano, entra negli uffici della polizia per sporgere denuncia, quell’arresto non aveva alcun senso, Uhlfeder non aveva commesso alcun reato, i suoi diritti civili ignorati. Seduti alla scrivania, però, Siegel non trova i soliti ufficiali di polizia, ma degli uomini in divisa che indossano delle camice brune. Sono gli uomini delle Sturmabteilung, un gruppo paramilitare del partito nazista.
Siegel inizia a esporre la questione, ma da dietro la scrivania partono solo grasse risate. Risate che si trasformano in insulti. E dagli insulti si passa alla violenza. Siegel viene colpito al volto, poi viene preso di forza e portato nel seminterrato del municipio, dove viene malmenato da alcuni uomini. Lo colpiscono, perde gli incisivi, un timpano perforato. Non contenti, gli strappano i pantaloni all’altezza del ginocchio e gettano le scarpe. Malmenato e tramortito, lo caricano di peso e lo portano fuori dagli uffici. Un uomo con in mano un cartello gli si avvicina, lo costringe a stare dritto e immobile: glielo deve mettere addosso. Su questo una scritta, un monito: "Non mi lamenterò più con la polizia".
Inizia la marcia di Siegel per le strade di Monaco, seguito da un drappello di sette uomini delle SA. Marciano baldanzosi, loro, mentre raccolgono qualche approvazione da parte delle persone che si fermano a osservare la scena. Altri rimangono di pietra vedendo quell’uomo ferito e pestato a sangue sfilare con quella scritta appesa al collo. Il piccolo corteo arriva fino alla stazione centrale. Siegel rimane eretto, il sangue che gli cola sugli occhi pesti, fino alla bocca senza denti. Le SA gli intimano di fermarsi, caricano i fucili, glieli puntano addosso. L’ufficiale lo schernisce, poi dice: "Jetzt stirbst du, Jud! - Ora morirai, ebreo". Scoppiano a ridere, fanno dietro front e se ne vanno.
Siegel è sconvolto, vuole e deve tornare a casa dalla sua famiglia. Si incammina tra la folla, qualcuno continua a deriderlo.Tra questi, però, si trova il fotografo Heinrich Sanden. Con la sua macchina fotografica aveva immortalato quanto accaduto all’avvocato. Si avvicina a Siegel e gli chiede: "Ho il suo permesso di pubblicare le foto che le ho scattato?". La risposta di Siegel è secca: "Sì".
Il fotografo intuisce immediatamente l’importanza di quelle foto, ma allo stesso tempo del rischio che rappresentano: se lo dovessero trovare in possesso di quegli scatti farebbe di certo una brutta fine. Chiama un’agenzia giornalistica americana con sede a Berlino. La redazione gli compra le foto e gli dice di inviarle appena possibile. Foto che partono alla volta degli Usa, a Washington DC. Il 23 marzo il Washington Times le pubblica. Le foto fanno il giro del mondo.
Nel frattempo, l’avvocato Siegel e la sua famiglia organizzano la fuga dalla Germania, da cui riescono a scappare nell’agosto del 1940, un lungo viaggio che parte da Berlino, passando per la Russia sulla transiberiana, in Corea e in Giappone. Da qui una nave li porterà in America, ma loro andranno fino in Perù. Siegel è così riuscito a sopravvivere fino all’età di 97anni. Un giorno gli chiesero cosa stesse pensando durante il pestaggio. Senza mezzi termini la risposta dell’avvocato: "Che sarei sopravvissuto a ognuno di loro".
Sanden continuò la sua attività di fotoreporter, ma quell’esperienza, quella scena di quell’uomo umiliato in pubblica piazza non la dimenticò mai. E come lui tante altre persone. La gente cominciò a capire che in Germania qualcosa stava cambiando e che forma questo cambiamento stesse prendendo.
La Germania drogata di Hitler
Patria, partito e anfetamine
Norman Ohler rivela quanta parte avesse la chimica nel mito del vigore nazista
di Mirella Serri (La Stampa, 18.10.2016)
Pezzi di cuore, di fegato e di pancreas di maiale, arricchiti con estrogeni e ormoni sintetici, furono frullati in unico composto. Il cocktail, confezionato peraltro in pessime condizioni igieniche, finì in vena al «paziente A» che accusava dissenteria, raffreddore, crampi intestinali: nell’agosto del 1941, nella Tana del Lupo nella buia foresta della Prussia orientale, il malato Adolf Hitler aveva bisogno di recuperare rapidamente le forze. Il composto funzionò, il Führer vispo e dinamico balzò dal letto per concertare l’avanzata in Russia. Ma poi di quel miscuglio dopante, progressivamente arricchito di circa ottanta sostanze diverse, non ne poté più fare a meno e, sempre più dipendente, passò al consumo dell’Eukodal, un derivato dell’oppio più potente della morfina e dell’eroina.
L’artefice del benessere drogato del Cancelliere fu il suo medico, Theodor Gilbert Morell: adesso, tramite i diari del dottore ritrovati insieme a una serie di documenti rintracciati in archivi tedeschi e americani, lo scrittore Norman Ohler ha ricostruito l’appassionante vicenda dei Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista (Rizzoli pp. 383, € 22).
Già, proprio così: non solo il Capo tedesco fu addicted agli stupefacenti ma anche il suo potente esercito. Come dimostra Ohler, a favorire, la conquista della Polonia nel 1939 e la corsa trionfale dei panzer nel 1940 verso la Francia non fu la fiducia nel superuomo germanico ma l’assunzione del Pervitin.
Oggi il preparato a base di metanfetamina è comunemente chiamato «crystal meth» ed è considerato assai dannoso; allora lo sperimentarono anche gli scrittori Heinrich Böll, Gottfried Benn, Klaus Mann e Walter Benjamin. I soldati con la svastica dovettero il successo alla magica pillolina distribuita in dosi massicce dai comandanti e che permise loro di andare all’attacco senza mangiare né dormire per quattro giorni e quattro notti. La Wehrmacht, annota il saggista, fu il primo esercito al mondo a puntare su una droga chimica: in Germania in un giorno si producevano 833 mila compresse, l’esercito e la Luftwaffe ne richiesero in breve tempo 35 milioni di pezzi. Nel 1944, quando la guerra chiaramente era persa, marina, aviazione e milizie di terra ne ordinarono quattro milioni di confezioni
Nel Pervitin, però, come in tutti gli stupefacenti, si nascondeva una trappola micidiale: gli effetti si avvertirono durante le campagne di Russia e d’Africa quando i soldati del Reich furono affetti da psicosi, forme incontrollate di eccitazione, perdita delle forze. Anche Hitler non ne venne risparmiato: prendeva cento-centocinquanta pasticche alla settimana accompagnate da otto o dieci iniezioni di Eukodal, e subì i pesanti contraccolpi della sua dipendenza.
Dopo il fallito attentato di von Stauffenberg che, facendo scoppiare una bomba, gli perforò un timpano, cominciò a sniffare cocaina. Il cumulo di quegli eccitanti lo ridusse a una larva perennemente insonne, con le mani mosse da un tremito incontrollato e la bava alla bocca. La somministrazione delle medicine al Führer venne registrata giorno per giorno e ora per ora da Morrell il quale ci illumina così sulla dinamica di tante scelte militari e politiche.
Joseph Goebbels, per esempio, due giorni dopo l’8 settembre 1943 rilevava che il despota aveva dormito solo due ore a seguito dei drammatici avvenimenti che avevano portato all’armistizio dell’Italia con gli angloamericani. Eppure appariva fresco, di buon umore e riposato. Successivamente anche altri ministri e generali furono contagiati dal suo eccezionale ottimismo. Ugualmente entusiasti, nel drammatico autunno del 1943, furono i giovani ufficiali che lo incontrarono a Breslavia, esterrefatti dal suo pensiero così positivo. Si diffuse la convinzione che Hitler era tanto allegro e forte proprio perché era in possesso di un’arma miracolosa e segreta in grado di capovolgere le sorti dello scontro mondiale. Cos’era accaduto? Il medico, soprannominato dal morfinomane Hermann Göring «la prima siringa del Reich», aumentava continuamente le dosi di Eukodal.
Una notte di luglio del 1943 il Cancelliere si svegliò piegato in due dai dolori. Non aveva digerito, disse, gli involtini di spinaci e il formaggio della sera prima. Ma in realtà era preoccupato da quello che lo aspettava: a Feltre il giorno dopo doveva incontrare Mussolini che voleva sfilarsi dal conflitto dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia.
Morrell - che peraltro aveva «in cura» anche il capo del governo italiano, Eva Braun, Leni Riefenstahl, Goebbels e tanti altri - ancora una volta lo rimise in sesto. E gli iniettò un altro sostegno per via intramuscolare poco prima della partenza all’aeroporto.
Come riferiscono tutti i testimoni, Hitler parlò per tre ore sovraeccitato mentre il leader del fascismo non apriva bocca e riceveva i dispacci che lo informavano del bombardamento su Roma. Alla fine il Duce, preso dalla stanchezza, cedette e Morrell scrive: «Il Führer sta bene... e ha dichiarato che il merito è tutto mio». Niente di più vero: la vicenda delle dittature e del secondo conflitto mondiale interpretata nell’ottica del consumo delle droghe è tutta un’altra storia. E chissà, forse, senza lo zelante dottor Morrell l’Italia ce l’avrebbe fatta anche a uscire dalla guerra.
Oppiacei e anfetamine, le armi segrete di Hitler
In un libro tutte le droghe del Reich: dal Führer ai soldati al fronte
I soldati al fronte assumono soprattutto la metanfetamina Pervitin, del tutto legale, che permette di combattere per giorni e notti
di Tonia Mastrobuoni *
Inviata a Berlino
«Ricordatevi di spedirmi tanto Pervitin, la prossima volta. Fa miracoli». Lettera dal fronte di uno dei più grandi scrittori tedeschi del Novecento: Heinrich Böll. Supplica la famiglia di mandargli «tanto» Pervitin. Niente di scandaloso: la metanfetamina va di moda, nella Germania nazista, soprattutto nelle trincee della Seconda guerra mondiale. Una droga travestita da farmaco che mantiene svegli ed euforici per ore e ore. L’ha sviluppata un medico, Fritz Hauschild, strabiliato dagli effetti delle benzedrine sugli atleti americani arrivati a Berlino nel 1936, per le Olimpiadi del Führer. Pazienza se questo micidiale «Crystal Meth» del Terzo Reich rende dipendenti e ha effetti devastanti: il Pervitin si diffonde rapidamente, nel regno degli «invincibili». Lo prendono sportivi, cantanti, studenti sotto esame. La fabbrica di Pervitin inventa addirittura il cioccolatino al Pervitin per allietare le casalinghe.
«La grande euforia»
Quando comincia la Seconda guerra mondiale, la droga si diffonde rapidamente tra i soldati della Wehrmacht. Tanto che l’autore di un libro appena uscito sull’argomento è convinto che abbia avuto un ruolo fondamentale non solo nel Blitzkrieg contro la Francia del 1940, ma anche nel comportamento di Adolf Hitler. «Medici e droghe spiegano molto della struttura interna del nazismo» sostiene Norman Ohler, autore di «Der totale Rausch» («La totale euforia»).
Per il capo dei medici del Reich, Otto Ranke, è «un farmaco militarmente prezioso!». Quando la Germania invade la Francia, Ranke non fa fatica a convincere i generali, tra cui Erwin Rommel, che guidano l’attacco a distribuire Pervitin tra i soldati. Rommel, l’abile generale passato poi alla storia come la «volpe del deserto», conosce il farmaco perché lo usa personalmente. L’attacco della Wehrmacht è notoriamente micidiale: i carri armati procedono a tutta velocità attraverso le Ardenne senza fermarsi mai, notte e giorno, in quattro giorni macinano centinaia di chilometri. A metà maggio del 1940 raggiungono e radono totalmente al suolo l’accampamento militare francese ad Avesnes. I soldati francesi sono sconvolti dallo stato si esaltazione dei loro nemici. Sono inarrestabili. È un blitzkrieg metanfetaminico.
Ma dopo il 1941, scrive Ohler, anche il Führer comincia ad assumere comportamenti che gli storici non sono mai riusciti del tutto a spiegare: Ohler è convinto che siano in parte attribuibili agli stupefacenti. Alla «Süddeutsche Zeitung» ha dichiarato che «ovviamente ciò non solleva minimamente Hitler dalle sue colpe». I risultati della ricerca sono impressionanti.
Metanfetamine, steroidi e altre sostanze vengono iniettate a Hitler 800 volte in 1349 giorni; prende 1100 pillole. Tanto che Hermann Göring soprannomina il medico personale del Führer, Theo Morell, «il maestro delle punture del Reich». Non senza una punta di sarcasmo: i fedelissimi del Führer non amano il suo medico, ne temono il potere. A quanto pare, a ragione. Nel 1945 Hitler è ormai un rottame: gli cascano i denti, poco prima della capitolazione, il 17 aprile, minaccia il medico di morte, mangia zucchero per superare le crisi di astinenza. Ma un episodio della sua tossicodipendenza ha anche segnato il destino dell’Italia.
Nell’estate del 1943, quando Benito Mussolini sembra voler mollare l’alleato tedesco, Hitler lo raggiunge in Italia. Arriva piegato in due dai mal di stomaco. Morell gli inetta un potentissimo oppioide, l’Eukodal. Il Führer si riprende in un battibaleno, diventa euforico, logorroico. Convince il duce a non mollare. La sera, Morell si appunta nel diario che il Führer ha detto che se Mussolini gli resterà fedele è merito suo. Il resto è storia.
* La Stampa, 09/09/2015 (ripresa parziale - senza foto).
La storia del diario ritrovato del gerarca nazista che teorizzò la mistica del sangue e l’Olocausto. E che anche Hitler temeva
di Wlodek Goldkorn (la Repubblica, 30.09.2016)
Capita che il male non rasenti la banalità, anzi, che proprio quando si tratta di un nazista, il Male non sia una serie di procedure burocratiche o stupidità (come invece ipotizzava Hannah Arendt parlando di Eichmann), ma assuma le sembianze di una persona e diventi pensiero egemone. È il caso di Alfred Rosenberg, architetto di mestiere, classe 1892, nato in Estonia a Reval, oggi Tallinn, studente a Riga in Lettonia, laureato a Mosca, innamorato della letteratura classica russa e che a partire dagli anni Venti diventa il principale ideologo del nazismo, teorico dell’antisemitismo radicale e inventore di una di mistica alternativa al cristianesimo.
Condannato a morte a Norimberga e impiccato, alla storia è passato (si fa per dire) per Il mito del ventesimo secolo dove tre anni prima dell’arrivo di Hitler al potere, affascinato dalla lettura dei Protocolli dei savi di Sion e traumatizzato dalla rivoluzione bolscevica (lui all’epoca era a Mosca), narrava di un presunto complotto giudeo-comunista ai danni dell’umanità e della Germania. Ma poi andava oltre: teorizzava appunto la mistica del sangue e della razza ariana e sosteneva che Gesù non era ebreo e che siano state le chiese cristiane a falsificare la “vera storia”.
Questa mitologia, per quanto oggi possa sembrare ridicola, ai tempi era di forte richiamo, anche perché attingeva a fonti potenti come Wagner, Fichte, Schopenhauer, Nietzsche e via elencando. Tanto che Il mito del ventesimo secolo fu il secondo libro più venduto del Reich (dopo il Mein Kampf).
Il radicalismo di Rosenberg era tale da suscitare una certa diffidenza da parte dello stesso Führer (diffidenza dettata dalla tattica, i valori erano condivisi) e l’inimicizia di gerarchi come Goebbels, Himmler e Goering. Per sfogare le frustrazioni (non divenne mai il numero due del regime) e probabilmente per tramandare un insegnamento alle future generazioni, Rosenberg, a partire dal 1934 tenne un diario. Che, finita la guerra andò disperso. È in un uscita in questi giorni Il diario perduto del nazismo. I segreti di Adolf Hitler nei diari inediti di Alfred Rosenberg e del Terzo Reich, scritto da Robert K. Wittman, un ex agente del Fbi, e da David Kinney, giornalista premio Pulitzer (Newton Compton).
Al centro della trama, oltre al nazista e alle sue carte c’è l’uomo che portò alla sua condanna a morte, Robert Kempner. Kempner, a sua volta, era un ebreo tedesco, avvocato intelligente e spregiudicato, fuggito nel 1936 dalla Germania, approdato negli Stati Uniti, collaboratore dei servizi segreti americani e infine procuratore al celebre processo dei gerarchi del Terzo Reich. Affascinante, spietato (negli interrogatori era durissimo con gli imputati, al limite del lecito), Kempner aveva un certo successo con le donne; le sue assistenti diventavano le sue amanti.
Non si tratta di un pettegolezzo in un libro che in apparenza potrebbe risultare sensazionalistico - e non lo è grazie alla buona ricostruzione storica - ma di un dettaglio fondamentale. Le carte di Rosenberg, finito il processo, Kempner le ha portate negli Usa. Ma non lo sapeva nessuno.
La storia del ritrovamento è una specie di thriller e raccontarla toglierebbe gusto alla lettura. Per sommi capi: le carte le ha scoperte, con l’aiuto di un archivista del Museo dell’Olocausto, negli anni Novanta, l’agente del Fbi Wittman (uno degli autori del volume). Non erano tutte, erano disordinate ed erano gestite dall’ex-assistente di Kempner. E lì sono sorte le prime difficoltà nella trasmissione del tesoro al Museo.
Successivamente, e diversi anni dopo, Wittman, ormai pensionato, ritrovò altre carte, in modo da completare il diario sparito. Che dal 2013 è a Washington, a disposizione degli studiosi. Detto così, sembra semplice, ma nel frattempo i documenti finirono in mano a un altro personaggio strano che ebbe una grande influenza sulla ex assistente, e che tentò di portarle in Canada.
La storia di quel diario, circa 400 cartelle ci dice alcune cose. La prima: era interessante per gli storici entrare nelle stanze segrete della cerchia ristretta di Hitler. Rosenberg racconta infatti, dal suo punto di vista, le motivazioni di certe decisioni prese dal Führer, nonché le dinamiche di potere degli uomini al vertice del Reich. La seconda cosa che mettono in rilievo gli autori è la personalità controversa di Kempner. Il più famoso tra gli accusatori di Norimberga non solo nascose in casa sua documenti che avrebbe dovuto depositare negli archivi delle istituzioni statali, ma aiutò pure, in quanto avvocato, la vedova di Goering. Insomma, l’uomo non era l’incarnazione del Bene.
E Rosenberg? Cresciuto in città periferiche e multiculturali Tallin e Riga, dove abitavano tedeschi, estoni, lettoni, russi, ebrei e che appartenevano all’Impero zarista, decise che la purezza della razza era l’unico valore assoluto, quasi a rinnegare la propria infanzia e gioventù, quasi a cercare di essere più tedesco dei tedeschi: capita ai neofiti. Cercava di muovere la guerra a oltranza contro le chiese, ma Hitler non lo seguì (o meglio gli diede retta solo parzialmente), tanto che il Mito del ventesimo secolo finì sull’Indice dei libri proibiti dalla Santa Sede, mentre Mein Kampf, no. Durante la guerra fu ministro per i territori occupati dell’Est, ma si occupava anche della razzia delle opere d’arte all’Ovest, soprattutto a Parigi e in Francia.
Il libro racconta bene la natura profondamente corrotta dei gerarchi nazisti in lite tra di loro su come accaparrarsi i tesori delle vittime. Su una cosa erano unanimi e Rosenberg lo narra nel suo Diario. In una riunione un anno prima dell’invasione dell’Urss, discutevano degli ebrei. Lui, Rosenberg parlava di futuri e terribili pogrom in terre russe e ucraine. Hitler ipotizzò che di fronte ai massacri l’Europa tutta si sarebbe levata in difesa degli ebrei. I nazisti risero fragorosamente: capirono che quella del Führer era una barzelletta. Avevano ragione.
Ultima annotazione: gli autori più volte usano il termine “razza ebraica”. Nel contesto di un libro sull’ideologo della razza non è elegantissimo.
di Angelo d’Orsi (il manifesto, 12.06.2016)
Nel 1949 uno studioso francese diede alle stampe Les grandes ouvres politiques. De Machiavel à nos jours, un manuale che presentava 15 opere, la prima delle quali era Il Principe machiavelliano, l’ultima, Mein Kampf di Adolf Hitler. Una scelta singolare, che appariva ancora più bislacca, nel titolo della edizione italiana, Le grandi opere del pensiero politico.
Eppure quel libro, adottato in molti corsi universitari, fino a pochi anni or sono, anche per la sua relativa semplicità espositiva, ebbe enorme circolazione.
Certo, ancor prima di soffermarsi sul contenuto, era a dir poco discutibile che tra le «grandi opere», si inserisse un testo farraginoso, confuso, privo di qualsiasi coerenza espositiva, e anche di originalità.
L’autore, che lo vergò nella breve detenzione, dopo il fallito colpo di Monaco nel novembre ’23, non faceva che rimasticare teorie razziste diffuse in Europa dal tardo Ottocento, mescolandole a ricordi autobiografici, e a bizzarre «folgorazioni», come quella che nasceva dalla constatazione della ebraicità di Karl Marx, e dunque il bolscevismo marxista, era una sola cosa con l’ebraismo, colpendo l’uno si colpiva l’altro...
Un testo che, anche dopo che fu aggiustato a fini editoriali, appare di disarmante rozzezza, ma pieno di tossine velenose.
Un campionario di scemenze rivestite, talora, di «scienza», talaltra semplicemente condite in intingolo politico che raccoglie i risentimenti di classi medie e classi popolari frustrate, economicamente e psicologicamente, dalla sconfitta della Germania.
Il libro fu il vademecum nazista e fu imposto ovunque nel Terzo Reich, con milioni di copie diffuse, e spesso vendute, con relative royalties incassate dall’autore. Poi venne la damnatio del Secondo dopoguerra, anche se l’opera ha continuato a circolare un po’ ovunque, in circuiti semiclandestini o, in molti paesi, liberamente.
Della «Mia battaglia» (ecco il significato dello stentoreo titolo tedesco), sono in circolazione diverse edizioni italiane. Da poco, essendo scaduti i diritti (70 anni dalla morte dell’autore), detenuti dal Land della Baviera, è stato annunciato un ritorno del testo originale negli scaffali in Germania (dove era vietato), e, anche altrove, grazie a un’edizione critica, che si annuncia filologicamente ineccepibile.
L’annuncio aveva suscitato immediato dibattito, sia pure di alto livello, mentre davanti all’attuale distribuzione dell’opera hitleriana con il Giornale le polemiche appaiono di basso profilo.
Si tratta innanzitutto di un’operazione commerciale (le copie del quotidiano a metà mattina erano esaurite nelle edicole da me battute...); anche se il significato politico-culturale è fuori discussione, i commenti di dirigenti del Pd che hanno denunciato l’ azione «elettoralistica» di Sallusti & C., per far votare i candidati «estremisti» contro quelli del partito renziano suonano grotteschi.
Se perderanno, sarà dunque colpa di Hitler?
Qualcuno tra costoro non ha mancato di evocare lo spettro penale: sorvegliare e punire, insomma.
Precisato che, a differenza di quanto è stato detto alla vigilia, il libro non era «omaggio» ma a pagamento, inquieta comunque che un quotidiano si sia preso la briga di inaugurare una collana editoriale con siffatta perla.
Personalmente, forse anche sulla base della mia professione di studioso di idee politiche, ritengo ovvio che si possa leggere Hitler; ma non come gadget di un quotidiano di informazione; che al Giornale se la cavino asserendo che il loro retropensiero sarebbe attivare i controveleni rispetto al nazifascismo fa sorridere.
Perché quel giornale, non certo da solo, da anni alimenta razzismo e intolleranza, diffidenza o addirittura odio per lo straniero: e fa specie dunque, che quel giornale (che del revisionismo storico ha fatto una linea di condotta, contribuendo a «normalizzare» il fascismo) distribuisca oggi un testo che se la prende, guarda caso, con «gli sporchi stranieri». E l’ebreo, era per Hitler, il più sporco degli «stranieri», e andava eliminato, in un modo o nell’altro.
Auschwitz è in nuce in quel testo.
Siamo ora giunti a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della «banalità del male», alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione.
Siamo davvero in grado di autodeterminarci?
Secondo il Grande Inquisitore di Dostoevskij cerchiamo un potere a cui consegnarci
Un uomo solo è schiavo due amici sono liberi
di Vito Mancuso (la Repubblica, 21.05.2016)
Siamo davvero in grado di autodeterminarci? Oppure come sembrano suggerire i dati dello neuroscienze si tratta di un’illusione? Tra letteratura, filosofia e religione, l’idea controversa della salvezza umana
Possiamo iniziare a chiederci quanto nella storia si sia effettivamente data la presenza allo stato puro del binomio dittatura- schiavitù e del suo opposto democrazia-libertà: forse né gli schiavi dell’antica Grecia e dell’antica Roma erano così privi di libertà come in prima battuta si ritiene (per rendersene conto basta pensare alla figura del servus callidus nelle commedie di Menandro e di Plauto), e forse noi cittadini delle democrazie contemporanee non siamo esenti da forme di servitù a volte così pesanti da trasformarsi in autentiche schiavitù.
La questione del grado di libertà della nostra esistenza diviene poi ancora più complessa se si prendono in esame i diversi livelli di cui si compone la vita, e oltre al livello economico- sociale e a quello politico si considera quell’intricato labirinto che chiamiamo coscienza individuale. Ognuno di noi rispetto a se stesso (rispetto al codice genetico, alle determinazioni familiari e ambientali, alle esigenze corporee, al carattere, alla psiche, all’inconscio...) è libero o schiavo? Siamo veramente dotati di libero arbitrio oppure si tratta di un’illusione, come sembrano suggerire i dati delle neuroscienze e della microbiologia? Aveva ragione Erasmo da Rotterdam che contro Lutero scrisse nel 1524 il De libero arbitrio, oppure aveva ragione Lutero che a Erasmo replicò nel 1525 con il De servo arbitrio?
Né si può evitare un’altra domanda: gli esseri umani vogliono davvero esseri liberi? Oppure in realtà non cercano altro che una grande potenza a cui consegnare tutti insieme questa scomoda e inquietante condizione detta libertà? È quanto Dostoevskij sostiene nella celebre Leggenda del Grande Inquisitore: il cardinale capo dell’Inquisizione riconosce Cristo tornato sulla terra, lo imprigiona e nella notte gli tiene una vera e propria lezione di psicologia e di filosofia del potere in cui sostiene che gli esseri umani sono mossi da un angoscioso interrogativo: «Dinnanzi a chi inchinarci? ». Essi infatti non cercano la libertà, perché «nulla mai è stato per l’uomo e per la società più intollerabile della libertà». Secondo questa prospettiva la schiavitù non è una prigione in cui gli uomini, originariamente liberi, sono stati condotti, ma è un’oscura quanto originaria condizione dell’esistenza fisica e psichica.
La questione a questo punto diviene di natura squisitamente filosofico-teologica: lo scopo della vita è di essere liberi in quanto autonomi e indipendenti, oppure è di legarsi a qualcosa di più grande di noi che ci libererà veramente da noi stessi e dalle nostre angosce? E in questo secondo caso, come far sì che tale legame, di natura inevitabilmente asimmetrica, non si trasformi in schiavitù ma generi liberazione e vera libertà?
Questo è lo sfondo teoretico su cui porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del quale la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia incrementato la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già nella Bibbia a partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto sacrificio di Abramo. Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo Isacco, generando nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai più sarebbe guarito (non a caso due volte nella Genesi Dio è designato “Terrore di Isacco”)? La risposta è una sola: per ottenere la più assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per un uomo di più prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo.
Come denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il proprio figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti nemici della propria religione. Se la religione ha versato, e continua a versare, tanto sangue, è a causa di questo modello di fede, un’obbedienza così totale e sottomessa da essere in realtà schiavitù.
È a questa prospettiva che a mio avviso sono riconducibili i fenomeni degenerativi e violenti che hanno a lungo accompagnato il cammino delle religioni, per la Chiesa cattolica si pensi all’Inquisizione, all’Index librorum prohibitorum e alla sistematica opposizione contro l’affermarsi dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza e di stampa, suffragio universale, emancipazione femminile, laicità dello Stato.
Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato».
L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù. È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» (Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva » (Apocalisse 18,6).
Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger).
A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» - Giovanni 15,15), si può chiamare amicizia.
* IL FESTIVAL Vito Mancuso partecipa a èStoria “Schiavi”, il festival internazionale della storia, ideato e diretto da Adriano Ossola, a Gorizia fino a domani. Info: www. estoria. it
Bulgaria 1943 l’olocausto sventato
23.01.1992 - Sofia
Una storia sconosciuta. Così nel Paese alleato di Hitler la mobilitazione popolare salvò gli ebrei.
di Enrico Deaglio *
Difficile scegliere, in questi giorni di cinquantesimo anniversario della Conferenza nazista di Wannsee, il sintomo più cupo del razzismo nell’Europa di oggi. Se la lingua tagliata di Berlino, le coltellate di Roma, le teste rasate di Vienna o il Mein Kampf, best-seller in Polonia. Spero allora che sia sollievo per i lettori apprendere la storia di un olocausto che non avvenne, semplicemente perché un popolo lo impedì.
Una storia sconosciuta, avvenuta in un Paese lontano, la Bulgaria. Tra le poche tracce che ne restano, due brevi comunicati radio.
Il primo è di Radio Berlino, che il 20 maggio 1943 annunciava, con burocratica sicurezza, l’imminente deportazione dei ventimila ebrei di Sofia, una delle tante tappe previste nella “Endoesung der Judenfrage”, la “soluzione finale del problema ebraico” decisa l’anno prima nella villa a Wannsee.
Il secondo è della Bbc. Il 24 maggio, il suo servizio internazionale informava di una manifestazione di protesta a Sofia. Migliaia di persone in piazza avevano impedito la partenza dei convogli nazisti. La deportazione non aveva avuto luogo. Una ribellione, in un Paese occupato, nell’angolo più sperduto della guerra, seguiva di un mese l’insurrezione del ghetto di Varsavia. Poi, però, non si seppe più nulla.
La Bulgaria era da due anni alleata del Reich; il suo re, Boris III, discendente di una nobile famiglia prussiana, aveva ottenuto da Hitler l’appoggio militare per una espansione territoriale, a spese di Romania, Jugoslavia e Grecia. Un caso abbastanza tipico di do ut des balcanico.
Gli avvenimenti seguirono con rapida cadenza. Il 21 gennaio 1941, il Parlamento bulgaro votò (pur fra fortissime opposizioni) una legge antisemita imposta dalla Germania. Il 3 marzo, l’“esercito fratello” entrò nel Paese. Il 2 aprile, con l’appoggio militare tedesco, i bulgari presero possesso di ampie zone della Serbia meridionale, della Macedonia e della Tracia. Ma i tedeschi si dimostrarono subito molto scontenti del loro nuovo alleato: i bulgari si rifiutavano ostinatamente di mandare i propri soldati a combattere contro l’Unione Sovietica; e per quanto riguardava il programma antisemita, le loro leggi apparivano ai funzionari nazisti del tutto ridicole.
Il servizio informazioni di Himmler comunicava a Berlino che le limitazioni di orario e di residenza imposte agli ebrei non venivano rispettate, che la stella gialla obbligatoria sui vestiti era “piccolissima” e che la ditta incaricata di fornirla aveva addirittura sospeso la fabbricazione. Un altro rapporto informava Berlino che a Sofia gli ebrei che passavano per strada con la stella gialla erano salutati “con manifestazioni di simpatia”, che il metropolita Stefan simpatizzava con loro, che a fianco degli ebrei si erano schierati molti parlamentari e associazioni di professionisti.
Gli ebrei erano presenti in Bulgaria, come in tutta la Penisola Balcanica, fin dal 1200. Poi arrivarono, a partire dal 1492, i “sefarditi” cacciati dalla Spagna, che, nei secoli, conservarono, con pochissime modifiche, la loro lingua spagnola. Elias Canetti ha definito la sua una “infanzia meravigliosa” in una città bulgara del Basso Danubio, Rustschuk, dove “in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue” e si scambiavano commerci e libri tra bulgari, turchi, greci, albanesi, armeni, ebrei spagnoli. E con zingari che venivano ogni tanto ad accamparsi. E così doveva essere in tante altre cittadine. In Bulgaria gli ebrei spagnoli non conobbero mai i ghetti, fecero parte invece di un naturale “melting pot”. Non si diffusero le tendenze hassidiche, così forti in Polonia e in Russia.
A Sofia, all’inizio del secolo, una borghesia ebraica viveva nel centro della città a fianco della grande sinagoga, peraltro adiacente al tempio della Chiesa ortodossa e alla moschea musulmana. In un altro quartiere, Yuchbunar, abitavano gli ebrei artigiani, piccoli commercianti, o operai. C’erano poi i militanti del sindacato socialdemocratico, i giornali, in cirillico o in ebraico con gli apprezzamenti per Carlo Marx e per la grande rivoluzione del 1917 a Pietroburgo, quei socialisti russi che avevano sostenuto i bulgari nella guerra contro l’oppressione dell’Impero Ottomano.
Ci furono anche in Bulgaria, come nel resto d’Europa, movimenti fascisti, ma ebbero scarso seguito, confinati nell’ambiente universitario: in Bulgaria, lo stereotipo dell’“ebreo alieno” non ebbe mai successo. Nella loro maggioranza, politicamente conservatori, gli ebrei bulgari ebbero piuttosto una grande simpatia per le teorie sioniste di Theodor Herzl, da molti indicato come il Messia.
Secondo i programmi di Wannsee, gli ebrei da avviare ai mattatoi della Polonia erano 48 mila, uno su cento della popolazione bulgara. L’attuazione del piano venne affidata da Adolf Eichmann al suo vice Theodor Dannecker (già organizzatore delle deportazioni dalla Francia) e all’ambasciatore tedesco a Sofia, Adolf Beckerle.
Si decise di cominciare con i 20 mila ebrei residenti nelle zone di Serbia e Grecia appena occupate dalla Bulgaria. Il 22 febbraio del 1943 vennero rastrellati 11.450 ebrei. Le poche testimonianze parlano di uomini e donne con berretti di agnello e scialli variopinti ammassati sui carri merce, spaventati ed incapaci di comprendere quello che stava accadendo. Venivano da vallate remote dove avevano sempre vissuto in pace con i loro vicini, o da città che erano poco più che villaggi. Dal campo di sterminio di Treblinka, cui vennero avviati, ne tornarono solamente 11.
Per l’inizio di marzo venne fissata la partenza di 6 mila ebrei residenti nella stessa regione, ma in territorio della Bulgaria storica, da concentrare nella cittadina di Kustendil. Ma qui successe il primo imprevisto. Gli ebrei di Kustendil informarono i loro deputati di quello che era nell’aria e questi corsero a Sofia.
La delegazione venne ricevuta dal vicepresidente del Parlamento, Peshev, che la portò al ministro degli Interni, Grabowsky. In poche ore vennero raccolte 42 firme di deputati dei partiti della maggioranza filotedesca, che con veemenza condannavano l’operazione. Il governo comunicò ai nazisti che l’operazione doveva ritenersi “sospesa per 90 giorni”.
A maggio i nazisti tornarono alla carica. Questa volta furono indicati come obbiettivo i 20 mila ebrei di Sofia. Un editto ordinò loro di presentarsi alla stazione il 24 maggio, giorno di Cirillo e Metodio, inventori dell’alfabeto cirillico, festa nazionale.
Quel giorno, a Sofia, successe un evento unico in tutta Europa. A gruppi, gli ebrei cominciarono a manifestare. Alcuni si recarono alla grande sinagoga, altri a quella del quartiere popolare di Yuchbunar, dove il rabbino promosse una manifestazione. Venne deciso di marciare verso il palazzo reale. Partirono in poche centinaia, ma dalle case di Sofia molti cominciarono a scendere in strada. I manifestanti divennero migliaia, i gruppi comunisti clandestini tra i più attivi. La stazione venne presidiata, mentre il corteo affrontava la polizia e gli attoniti ufficiali delle SS. Ci furono 400 arresti, ma i treni rimasero vuoti. Il governo autorizzò solamente lo sfollamento degli ebrei dalla capitale verso le campagne.
In una serie di comunicati stizziti, Beckerle e Dannecker comunicarono a Himmler che “i bulgari mancano della illuminazione ideologica dei tedeschi. Vivendo da troppo tempo con armeni, greci e zingari, il popolo bulgaro non vede nell’ebreo difetti che giustifichino misure speciali contro di lui”.
Nei mesi successivi continuarono a riferire a Berlino che anche nelle campagne gli ebrei erano “ben accolti” e che “non c’era nulla da fare”. Nell’agosto del 1944, con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa, le leggi antisemite vennero revocate: alla fine della guerra non un solo ebreo bulgaro era stato deportato.
Gli storici definiscono il “caso bulgaro” una “anomalia”. Hannah Arendt ricordò un antecedente di fierezza di quel popolo nella vicenda di Georgi Dimitrov, il comunista bulgaro accusato nel 1933 a Berlino dell’incendio del Reichstag. Portato a processo, venne interrogato da Goering, ma da accusato si trasformò in accusatore. Fu assolto. Ammirato da tutto il mondo, tanto che si disse: “In Germania oggi è rimasto un solo uomo, ed è un bulgaro”.
Ma forse gli avvenimenti di Kustendil e di Sofia furono solo un fantastico caso di normalità, di quelle che creano imbarazzo: un Parlamento decoroso, una opinione pubblica civile e coraggiosa, una Chiesa solidale con gli oppressi.
Il reporter Roberto Pistarino - giramondo con telecamera - ha ritrovato nei mesi scorsi i ricordi di questa storia a Sofia, intervistando protagonisti e testimoni. Oggi in Bulgaria vivono in tutto 2500 ebrei; gli altri emigrarono tutti in Israele: si realizzava il loro vecchio sogno sionista, mentre il comunismo applicato non prometteva niente di buono. Theodor Zivkov, il segretario del pc fino al 1989, cercò negli Anni 50 di ottenere una candidatura al Nobel per la pace, ma non riuscì mai a provare di avere avuto un ruolo preminente nel salvataggio degli ebrei di Sofia.
Per il resto non esiste molto. Due libri elogiativi dell’opera del partito comunista, un piccolo circolo ebraico - “Shalom” - e un film documentario girato nel 1987 dalla regista Ivanka Grabceva sugli avvenimenti del 1943. Venne finanziato dalla televisione di Stato, ma non andò mai in onda, perché il partito comunista non vi appare come l’unico protagonista. La regista ha però il permesso di regalarne tre cassette a visitatori stranieri che ne facciano motivata richiesta. Nella grande sinagoga di Sofia è conservato il più importante archivio delle memorie sefardite, ma è quasi impossibile poterlo consultare.
Autore: Enrico Deaglio
Fonte: La Stampa
* http://www.bulgaria-italia.com/bg/news/news/02453.asp
La lettera di protesta di Dimitar Peshev (17.03.1943) *
Egr. Sig. Primo Ministro
Il senso di grande responsabilità storica che condividiamo in questo momento con il governo, la nostra costante fedeltà alla sua politica e al regime, così come il nostro desiderio di contribuire in ogni modo al suo successo, ci danno il coraggio di rivolgerci a Lei, sperando che lo consideri un passo fatto con sincerità e in buona fede...
Alcune recenti misure adottate dalle autorità dimostrano la loro intenzione di prendere nuovi provvedimenti contro le persone di origine ebraica. Da parte dei settori responsabili non vengono fornite spiegazioni né sulla natura di questi provvedimenti, né sui criteri con cui sono stati presi, sulla loro motivazione e sul loro scopo. In una conversazione con alcuni deputati, il Ministro degli Interni ha confermato che non ci sono ragioni per adottare delle misure eccezionali contro gli ebrei dei vecchi confini. In pratica, queste misure sono state annullate.
Considerato tutto questo e in base a nuove voci, abbiamo deciso di rivolgerci a Lei, sicuri che tali misure possono essere prese solo a seguito di una decisione del Consiglio dei Ministri. La nostra unica richiesta è che vengano prese in considerazione solo quelle misure riguardanti le reali necessità dello Stato e della nazione nel momento attuale e che non vengano dimenticati gli interessi relativi al prestigio e alla posizione morale della nostra nazione.
Non vogliamo contestare alcuna misura imposta dalle ragioni di sicurezza dettate dai tempi in cui viviamo, perché sappiamo che chiunque tenti di ostacolare gli sforzi dello Stato e del popolo, direttamente o indirettamente, dovrà essere neutralizzato. Ci riferiamo a una linea politica adottata dal governo con la nostra approvazione e collaborazione, una politica alla quale siamo stati fieri di partecipare con tutto il nostro prestigio e le nostre ricchezze. L’eliminazione di ogni ostacolo al successo della sua politica è un diritto dello Stato e nessuno lo può negare, ma esiste un limite alle necessità reali e non bisogna cadere negli eccessi che si possono definire "crudeltà inutili". E questo può essere considerato il caso in cui vengano prese delle misure contro donne, vecchi e bambini, che a livello individuale non abbiano commesso alcun crimine.
Non possiamo credere che ci siano dei piani per deportare questa popolazione dalla Bulgaria, come suggeriscono alcune voci a danno del governo. Tali misure sono inammissibili, non solo perché queste persone - cittadini bulgari - non possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche perché ciò avrebbe serie conseguenze per il paese. Sarebbe un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che costituirebbe un grave peso morale, ma anche politico, privandole in futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali.
Le piccole nazioni non possono permettersi di trascurare questi argomenti, che, qualsiasi cosa accada in futuro, costituiranno sempre un’arma potente, forse la più potente di tutte. Per noi questo è molto importante perché, come Lei forse ricorderà, in un recente passato abbiamo sofferto pesanti perdite morali e politiche, a causa delle deviazioni dalle leggi umane e morali da parte di alcuni bulgari e spesso per colpa di persone irresponsabili. Quale governo bulgaro potrebbe assumersi una simile responsabilità riguardo al nostro futuro?
L’esiguo numero di ebrei in Bulgaria e il potere dello stato, che ha a disposizione tante leggi e tanti mezzi, rendono innocuo ogni elemento pericoloso o dannoso, a qualsiasi strato sociale appartenga, al punto tale che, secondo noi, è del tutto inutile adottare nuove misure eccezionali e crudeli, che potrebbero condurre a un massacro. Una cosa del genere si ritorcerebbe soprattutto contro il governo, ma colpirebbe anche la Bulgaria. È facile prevedere le conseguenze che una simile situazione potrebbe avere ed è per questo che ciò non deve succedere.
In base a queste considerazioni non ci sentiamo di assumere alcuna responsabilità su questo punto. Un minimo livello di legalità è necessario per governare, come l’aria è necessaria alla vita. L’onore della Bulgaria e del popolo bulgaro non è solo una questione di sentimento, è soprattutto un elemento della sua politica. È un capitale politico del massimo valore ed è per questo che nessuno ha il diritto di usarlo indiscriminatamente se il popolo intero non è d’accordo.
Le inviamo i nostri più rispettosi ossequi.
Sofia, 17 marzo 1943
Seguono le firme dei 43 deputati della XXV Assemblea Nazionale. Tratto dal Fondo n. 1335, u.a. 85, Sofia Archivio Storico Nazionale.
Dimitar Peshev fu informato un suo vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil che il governo, in accordo coi tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione segreta della minoranza ebraica. I treni erano già stati predisposti nelle stazioni. La notte successiva gli ebrei dovevano essere rastrellati e caricati sui vagoni, che sarebbero partiti la mattina dopo per la Polonia.
"Era il 7 marzo del 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione. Peshev, in effetti, aveva sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non se n’era preoccupato. Ora, di fronte a un amico che gli chiedeva di aiutarlo, ebbe come un sussulto, un risveglio della coscienza. Si scosse dal suo torpore e agì d’istinto, con l’idea, in un primo momento, non tanto di salvare un popolo, quanto di aiutare i suoi amici di Kjustendil. Si precipitò in parlamento, radunò qualche altro deputato, piombò di sorpresa nell’ufficio del ministro degli interni Gabrovski e dopo uno scontro drammatico lo costrinse a revocare l’ordine della deportazione. Poi telefonò personalmente a tutte le prefetture per verificare che il contrordine fosse stato rispettato."
Poiché in questo modo la deportazione era stata solo sospesa, Peshev decise di lanciare un’offensiva in parlamento. Si era reso conto che in gioco non c’era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza dei cinquantamila ebrei bulgari. Non c’era un minuto da perdere: stese una lettera di protesta molto dura e raccolse le firme di una quarantina di deputati per chiedere al governo e al re di non commettere un crimine così grande, che avrebbe macchiato per sempre l’onore della Bulgaria.
tratto dal libro di Gabriele Nissim - "L’uomo che fermò Hitler"
Secondo il filosofo tedesco, dopo Auschwitz la trascendenza non offre piú all’immanenza alcun significato. Auschwitz ha lo stesso effetto nel campo del sociale che il terremoto di Lisbona ha avuto nel campo dei fenomeni naturali. La malvagità umana ha realizzato “l’inferno reale”.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa
Non è piú possibile affermare che l’immutabile sia verità e il mosso apparenza caduca, l’indifferenza reciproca del temporale e delle idee eterne, neppure con il pretesto hegeliano che l’esistenza temporale serva - grazie all’annientamento implicito nel suo concetto - all’eterno, che si presenta nell’eternità dell’annientamento.
Uno degli impulsi mistici, secolarizzato nella dialettica, fu la dottrina della rilevanza dell’intramondano, storico per ciò che la metafisica tradizionale privilegiava come trascendenza, o almeno, detto meno gnosticamente e radicalmente, per la posizione della coscienza rispetto ai problemi che il canone filosofico assegnava alla metafisica.
L’impressione che, dopo Auschwitz, si ribella ad ogni affermazione di positività dell’esistenza come una consolazione a poco prezzo, ingiustizia nei confronti delle vittime, la resistenza contro la possibilità di spremere dal loro destino un qualche senso per quanto esiguo, ha un suo momento oggettivo dopo eventi che ridicolizzano la costruzione di un senso dell’immanenza, irraggiato dalla trascendenza posta affermativamente. Una tale costruzione affermò la negatività assoluta e collaborò ideologicamente alla sua persistenza, che comunque è realmente implicita nel principio della società esistente fino alla sua autodistruzione.
Il terremoto di Lisbona, fu sufficiente per guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana, e la catastrofe ancora comprensibile della prima natura fu minima confrontata con la seconda, sociale, che si sottrae all’immaginazione umana, preparando l’inferno reale sulla base della malvagità umana.
La capacità alla metafisica è paralizzata perché ciò che è successo ha mandato a pezzi la base dell’unificabilità del pensiero speculativo metafisico con l’esperienza. Ancora una volta trionfa, indicibilmente, il motivo dialettico del rovesciarsi della quantità in qualità.
La morte, con l’assassinio burocratico di milioni di persone, è diventata qualcosa che non era mai stata tanto da temere. Non c’è piú alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli come un qualcosa che concordi con il suo corso. L’individuo viene spossessato dell’ultima e piú misera cosa che gli era rimasta. Poiché nei campi di concentramento non moriva piú l’individuo, ma l’esemplare, il morire deve attaccarsi anche a quelli sfuggiti a tale misura. Il genocidio è l’integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove uomini vengono omogeneizzati, “scafati” - come si dice in gergo militare - finché li si estirpa letteralmente, deviazioni dal concetto della loro completa nullità. Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1975, pagg. 326-327
Dopo Auschwitz, Hitler ci costringe ad impegnarci con tutte le nostre forze per fare in modo che ciò che è avvenuto non possa ripetersi. Questo è diventato l’“imperativo categorico” della nostra epoca. Auschwitz dimostra inconfutabilmente il fallimento della cultura e dell’interpretazione illuminista della storia. Ma la negazione della cultura non è una soluzione. Neppure il silenzio.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa
Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile. Questo imperativo è tanto resistente alla sua fondazione quanto una volta la datità di quello kantiano.
[...].
Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di piú che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità.
Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia, quale potenzialmente era dopo che, in opposizione all’esistenza materiale, presunse di soffiarle la luce, offertale dalla divisione tra lavoro corporale e spirito.
Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e cosí la degrada ancora una volta a menzogna.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1975, pagg. 330-331
*
FONTE: FILOSOFICO.NET
L’Occidente tedesco di Heidegger lasciava sempre fuori gli ebrei
Tradotto da Bompiani il secondo volume dei «Quaderni neri», con i taccuini scritti tra il 1938 e il 1939. Una visione della civiltà occidentale che mette al centro la Germania
di DONATELLA DI CESARE (Corriere della Sera, 29.01.2016)
È uscito in questi giorni, nell’eccellente traduzione di Alessandra Iadicicco, il secondo volume dei Quaderni neri di Martin Heidegger (Bompiani) in cui sono comprese le Riflessioni che vanno dal 1938 al 1939. Alle quasi 700 pagine del primo volume si aggiungono così altre 584 pagine: una sfida per i lettori italiani, ma anche un monito. Perché sarebbe doveroso affrontare il testo in modo critico, prima di emettere giudizi sbrigativi o di lasciarsi andare a facili scoop.
L’ultimo è quello lanciato dal giornalista tedesco Thomas Vašek, e ripreso da Angelo Bolaffi («la Repubblica», 4 gennaio), secondo cui Heidegger non sarebbe che un epigono di Julius Evola e del suo razzismo. La prova flagrante sarebbe un fantomatico foglietto, di poche righe e di oscura provenienza, che potrebbe, tutt’al più, essere un appunto. Per i tedeschi un bel modo, certo, per scaricare sugli altri responsabilità proprie. Sì, perché il nazismo non è stato il fascismo. E soprattutto perché l’antisemitismo metafisico di Heidegger non è riducibile al razzismo tradizionale. D’altra parte l’aggettivo «metafisico» non mitiga l’antisemitismo, bensì ne indica la gravità abissale. L’antisemitismo metafisico di Heidegger ha una provenienza teologica, una intenzione politica, un rango filosofico.
Se deleteri sono, per un serio dibatto, i vuoti scoop, esiziali sono gli interventi dei «negazionisti» dell’ultima ora, quelli che pretenderebbero di cancellare con una spugna i passi antisemiti. Come se Heidegger non parlasse di Verjudung o di Weltjudentum, cioè di «ebraizzazione» e di «ebraismo mondiale» - termini non neutri, né casuali. Nei Quaderni neri vengono mosse, d’altronde, accuse precise: privi di suolo, di fondo, di fondamento, gli ebrei sono gli sradicati agenti dell’accelerazione, della tecnicizzazione del pianeta, della desertificazione della terra. Ma soprattutto gli ebrei sono la figura della fine che si ripete, impedendo al popolo tedesco di risalire al mattino dell’Occidente.
Proprio l’Occidente è uno dei grandi temi del secondo volume dei Quaderni neri. Il tedesco Abendland rende bene ciò che l’etimologia suggerisce: l’Occidente è la «terra della sera», il Paese dove sembra che il sole vada declinando. Dalla prospettiva dei greci - s’intende. Sono allora le coste dell’Esperia, dell’Italia odierna, quelle dove il sole pare quasi inabissarsi nel mare. Ma non si deve fraintendere: per Heidegger l’Occidente non è un luogo geografico, né un sistema di valori, bensì un’epoca nella storia del mondo. E gli esperii sono quelli venuti tardi e dopo - rispetto ai greci. L’inizio dell’Occidente è greco. Non è possibile, perciò, alcuna meditazione sul mondo occidentale senza un confronto con quel primo inizio greco. Il che poi vuol dire riprendere il filo della «filosofia» che costituisce la trama segreta della storia occidentale.
Sebbene l’Occidente sembrasse sprofondare nel nulla del nichilismo europeo, non si trattava di un tramonto, Untergang - secondo la famosa profezia di Spengler - bensì di un passaggio, Übergang. Il buio di quell’epoca, al termine degli anni Trenta, è considerato da Heidegger non come l’oscurità della fine, ma come lo spegnersi dell’ultimo lume della sera che avrebbe permesso di scorgere l’albore del mattino. Non si poteva, certo, resuscitare il primo inizio greco; ma si doveva attraversare sino in fondo la lunga notte dell’Essere, per risalire, oltre la metafisica, quella perversa malattia dell’Occidente, a un «altro inizio». La Terra della Sera avrebbe dovuto risvegliarsi a una nuova, dorata alba, scoprirsi Terra del Mattino.
Chi avrebbe potuto scorgere il passaggio, là dove tutti vedevano un crollo ineluttabile? Chi poteva seguire la strada della fine, per imboccare il sentiero dell’inizio? Solo i tedeschi. Il destino dell’Occidente, la sua «salvezza» era nelle loro mani. I tedeschi avrebbero dovuto essere gli Übergehenden, «coloro che passano oltre», che aprono un varco anche per gli altri popoli europei. Ecco il loro compito.
«Tutto il «sangue», tutta la «razza», ogni «carattere nazionale» è inutile, e solo un decorso cieco, se non vibra già in un azzardo dell’Essere». Più volte Heidegger si chiede: «Dove sono finiti i tedeschi?». La decisione a cui li richiama è filosofica: tra il sonno dell’uomo occidentale, immerso negli enti, e il risveglio all’Essere.
Ma non per questo i termini sono meno gravi. Nell’epoca della fine il rischio non sarebbe solo la vittoria della metafisica ma anche, per quel legame di complicità che li lega, la vittoria dell’ebraismo. Vincerebbe allora «la più grande assenza di suolo che, a nulla vincolata, tutto quanto si asservisce (l’ebraismo)». Già nel 1938, all’indomani della Notte dei cristalli, Heidegger parla di «battaglia», e non esita a individuare nell’Ebreo il nemico metafisico che impedisce ai tedeschi l’accesso all’altro inizio. Il tratto greco-tedesco lascia fuori gli ebrei, l’asse dell’Essere li esclude. Per loro - questo è il verdetto - non c’è spazio nella topografia dell’Occidente.
Libri e film
il ritorno del grande dittatore
Non solo “Mein Kampf”: così tra letteratura e cinema rivive in Germania la figura di Hitler
Un’ossessione che si manifesta in chiave critica e a volte comica
Ma che fa i conti con un passato mai risolto
di Angelo Bolaffi (la Repubblica, 06.05.2016)
“Lui è tornato”: e lui è Adolf Hitler. Non è solo il titolo provocatorio e grottesco di un bestseller letterario diventato commedia cinematografica, ma un fatto: la rinnovata attenzione per la figura del dittatore nazista. All’inizio di quest’anno, come si ricorderà, a cura dell’Istituto tedesco per la storia contemporanea è apparsa tra mille
polemiche e non pochi dubbi l’edizione scientifica del Mein Kampf andata esaurita in pochissimi giorni.
E nelle scorse settimane sempre in Germania è stata pubblicata una monumentale ricerca sulla vita di Hitler: Das Itinerar, questo il titolo dell’opera in quattro volumi di ben 2.432 pagine scritta da Harald Sandner, ricostruisce passo dopo passo tutti gli episodi documentabili della sua biografia (compresi anche quelli più curiosi e sconosciuti, come la richiesta presentata all’ambasciata italiana di un autografo di Mussolini) dalla nascita nel 1889 a Braunau, allora Austria- Ungheria, fino al 30 aprile del 1945, giorno in cui si suicidò nel suo bunker di Berlino.
Inevitabilmente questo ritorno di interesse per la persona di Hitler ha sollevato molti interrogativi legati al timore che possa nascondere una più o meno consapevole “banalizzazione del male”. Una specie di inflazione della sua figura che, soprattutto sulle nuove generazioni, potrebbe avere come conseguenza una “normalizzazione” e relativizzazione della condanna del nazismo.
Certo, in una Germania com’è quella di oggi, profondamente lacerata e messa in ansia dal fenomeno migratorio e di fronte, sia pure in settori (ancora) minoritari, all’emergere di pulsioni identitarie e idiosincrasie xenofobe, la cautela è d’obbligo. E tuttavia questa rinnovata presenza mediatica di Hitler non è affatto espressione di revisionismo storico. Né, come nel film Lui è tornato di David Wnendt, l’idea tra il comico e l’assurdo per altro filmicamente molto efficace di far ricomparire Hitler nella odierna Berlino capitale della Germania riunificata, rappresenta un’allarmante rottura di un tabù.
Intanto perché c’è un precedente illustre: il film realizzato nel 1940 da Charlie Chaplin intitolato Il grande dittatore nel quale il monologo di Hitler nella scena del mappamondo è non solo un’icona cinematografica ma anche la denuncia politicamente lungimirante (in quell’anno era ancora in vigore il Patto tra Unione Sovietica di Stalin e Hitler) del pericolo planetario rappresentato dalla dittatura nazista.
E poi: non è forse vero che un approccio ironico e il ricorso al linguaggio della satira possono favorire grazie alla funzione maieutica del sorriso la resa dei conti di un individuo o di un popolo col proprio passato? Infatti, a differenza di quanto accaduto in altri paesi (ad esempio in Austria e Giappone ma anche nella Russia di Putin che rivendica l’eredità del comunismo di Stalin) la Germania ha cercato (e continuamente cerca) di fare i conti col proprio passato.
Negli anni dell’immediato dopoguerra, fino alla metà degli anni Sessanta, dominante nell’opinione pubblica tedesca era stato il “principio di rimozione” fondato su una vera e propria connivenza, spazzata via dalla rivolta studentesca del ’67-’68. Una congiura omertosa raccontata dal recente film di Lars Kraume intitolato Lo Stato contro Fritz Bauer (lo stesso tema, anche se da una diversa angolatura, era stato affrontato in precedenza da Giulio Ricciarelli nel suo Il labirinto del silenzio): dirigente del movimento socialista ed ebreo, Fritz Bauer era stato costretto a emigrare. Alla fine della guerra, come Theodor Adorno, Max Horkheimer, Ernst Fraenkel o Richard Löwenthal, fu uno di quei “generosi remigranti”, come li ha definiti Jürgen Habermas, che decisero di tornare in Germania. Diventato procuratore del tribunale a Francoforte, nonostante l’isolamento e il sospetto che lo circondavano e lo portarono poi al suicidio, gettò le basi per la ricostruzione di un sistema giuridico democratico e aiutò il Mossad a individuare e arrestare Adolf Eichmann.
Per sempre all’ombra di Hitler?
Il titolo di una importante raccolta di saggi pubblicata qualche anno fa dallo studioso Heinrich August Winkler solleva un interrogativo che forse ci aiuta a capire l’odierna, ossessiva presenza della figura di Hitler. La Germania e la coscienza europea sono condannate infatti, per un tempo ancora imprevedibile, a confrontarsi con quella “frattura della civiltà” (così lo storico ebreo tedesco Dan Diner) che è stato il nazismo, i cui delitti ancora attendono - nonostante le decine di migliaia di pagine scritte sul tema - di essere ricostruiti in tutta la loro terrificante dimensione.
Ne è conferma KL: A History of the Nazi Concentration Camps, la monumentale indagine sul sistema nazista dei campi, oltre duemila pagine frutto di una ricerca durata dieci anni, dello storico tedesco (residente in Inghilterra) Nikolaus Wachsmann, apparsa l’anno scorso in inglese e proprio in questi giorni in Germania. Una discesa agli inferi in cui la documentazione raccolta è costituita per gran parte dalle testimonianze fino ad oggi sconosciute delle vittime. Prende le mosse dal campo di Dachau, nei pressi di Monaco di Baviera, messo in funzione in modo ancora provvisorio e artigianale dopo la vittoria elettorale di Hitler nelle elezioni del 5 marzo 1933, per rinchiudervi gli oppositori politici, e si conclude sempre a Dachau con l’arrivo degli americani alla fine di aprile del 1945.
Nel mezzo, il capitolo più buio della storia tedesca. Un capitolo che più viene studiato ed esaminato più ci appare incomprensibile: «Nonostante ci siano migliaia di letture possibili», il nazismo - ha affermato l’ex Cancelliere Helmut Schmidt - «è inspiegabile. Ed è proprio questo che mi opprime nel profondo dell’animo». Dunque Adolf Hitler nonostante il passare dei decenni resta un vero e proprio mistero, come genialmente intuito da Salvador Dalí che nel 1939 intitolò El enigma de Hitler un suo piccolo quadro oggi esposto al museo madrileno Reina Sofia.
The Eichmann Show
Il ruolo storico della tv nel «processo del secolo»: le dirette sul gerarca nazista fecero capire al mondo gli orrori della Shoah
di Aldo Grasso (Corriere della Sera, 23.01.2016)
Che ruolo hanno avuto la radio e la tv sulla comprensione della Shoah, in Israele e nel mondo? Per molti israeliani il processo Eichmann (aprile 1961), le cui udienze furono trasmesse in diretta, fu il primo contatto ravvicinato con l’Olocausto. In precedenza il loro approccio era stato caratterizzato da una incomprensione di fondo sull’ampiezza della tragedia e sulla terribile esperienza vissuta dai superstiti. Quell’evento, raccontato per la prima volta dalla tv, rappresentò una svolta nella memoria collettiva.
Il processo ad Adolf Eichmann fu un momento drammatico per Israele e non solo. Basti pensare ai resoconti che Hannah Arendt scrisse per il New Yorker (raccolti poi nel libro La banalità del male ) dove si sosteneva la «terribile normalità» della burocrazia nazista, capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto in nome di una cieca obbedienza. Il Male che Eichmann incarnava appariva alla Arendt «banale», e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori erano grigi impiegati.
Il film The Eichmann Show racconta appunto il ruolo che la tv ebbe nell’elevare questo processo a una sorta di presa di coscienza collettiva (è anche un piccolo trattato sulle riprese tv). Merito del produttore televisivo Milton Fruchtman (Martin Freeman), che chiamò Leo Hurwitz (Anthony LaPaglia) per occuparsi delle riprese. Hurwitz, regista molto amato dalla critica e pioniere nell’uso delle telecamere, era finito nella «lista nera» di McCarthy ed era rimasto inattivo per un decennio. Arrivando a Gerusalemme, si trovò per le mani un lavoro fuori dal normale: con l’aiuto di Milton, in tempi ristrettissimi dovette addestrare un team di riprese formato da professionisti inesperti e convincere i giudici a cambiare decisione, permettendo che il processo venisse ripreso.
Mentre in Israele la trasmissione andava in diretta, per gli altri Paesi fu approntato un sistema di distribuzione di «cassette», con le prime registrazioni fatte attraverso il sistema Ampex, un nastro da due pollici non facile da montare. Ben 37 Paesi (tra cui Usa, Francia, Inghilterra, Australia, Argentina...) vollero mandare in onda quelle registrazioni. Soprattutto in Israele, la tv svolse un ruolo catartico, liberatorio: di fronte allo shock delle immagini, la popolazione si confrontò con se stessa e soprattutto con i sopravvissuti.
I «salvati» non avevano voglia di parlare, non amavano raccontare la loro terribile esperienza, anche perché avevano la sensazione di non essere creduti. Gli scampati alla Shoah si coprivano con la camicia i numeri impressi a fuoco sulle braccia. Si sentivano «ebrei sconfitti» al confronto dei «pionieri» che apparivano invece come «ebrei vincenti». Queste anime così diverse che avevano vissuto la tragedia in maniera tanto dissimile riuscirono in un’aula di tribunale a esprimere insieme, per la prima volta dal 1948, un vero spirito unitario. Ci vollero quelle immagini televisive perché anche gli «altri» cominciassero a credere.
Da allora, la tv, non diversamente dal cinema, ha assunto sempre più la duplice veste di fonte e strumento di narrazione storica. Se il Novecento è stato definito il secolo «della testimonianza», questo si deve alla sempre più massiccia e pervasiva presenza dei mezzi di comunicazione di massa che affiancano, registrano e, talvolta, si pongono al centro della vita politica e culturale delle società tardomoderne. Dal processo Eichmann, la tv diventa il luogo di dispiegamento - reale, simbolico o meramente retorico - dei fatti storici, che non possono sottrarsi all’occhio della pubblica visibilità (sebbene, ovviamente, il mito della visibilità totale lasci fuori ampi coni d’ombra). Le trasmissioni televisive cominciano a incidersi nella memoria collettiva, raggiungendo una grandissima audience, intervenendo direttamente sul contesto in cui la storia stessa si realizza.
La tv diventa «agente di storia».
The Eichmann Show ci fa rivivere i quattro mesi del processo e la difficoltà delle riprese, anche dal punto di vista morale. Spesso l’etica (mostrare anche le fasi più noiose del dibattimento) si scontrò con l’estetica: drammatizzare il male attraverso i primi piani dell’imputato. Ma quelle immagini scioccarono il mondo per l’evidente mancanza di rimorso del colpevole. L’80% della popolazione tedesca guardò almeno un’ora del programma ogni settimana. Il processo venne trasmesso su tutte e tre le reti statunitensi, con notiziari quotidiani in altri Paesi. Ci furono persone che svennero guardando il processo in tv. Intanto, in quei mesi, la tv si doveva anche occupare di Yuri Gagarin primo uomo nello spazio, della baia dei Porci, di Alan Shepard, il primo americano in orbita... Quanto alla tv italiana, si celebra il centenario dell’Unità d’Italia e nasce «Tribuna politica».
Oggi, grazie a un accordo tra gli Archivi di Stato Israeliani, lo Yad Vashem di Gerusalemme (il principale museo dedicato al ricordo dell’Olocausto) e Google, molte delle riprese televisive realizzate durante il processo sono visibili su YouTube. Tocca a Internet assumere ora il ruolo che in passato è stato mirabilmente svolto dalla televisione.
LE LETTERE SEGRETE DI MARTIN HEIDEGGER AD HANNAH ARENDT
Colpo di fulmine e il filosofo le aprì il suo cuore
di FRANCO VOLPI *
Quella tra Heidegger e Hannah Arendt fu una storia d’ amore incredibile. Una storia che accende come poche altre la nostra immaginazione: vuoi per il nome dei protagonisti, primi attori sulla scena del pensiero ma francamente inattesi nel ruolo di amanti; vuoi per la straziante intensità e le travagliate circostanze in cui fu vissuta, che davvero meriterebbero di essere raccontate in un romanzo; vuoi perché in essa si verificò una coincidentia oppositorum, un combaciare di due modi di essere e di pensare radicalmente contrapposti, che avrebbe potuto cambiare le sorti della filosofia del Novecento.
L’ amore tra i due era rimasto a lungo segreto, anche se voci e dicerie circolavano da tempo. A renderlo di dominio pubblico fu Mary McCarthy, biografa e intima della Arendt, che "autenticò" la storia come confidenza fatale dall’ amica. In Italia le vicissitudini di questo amore impossibile furono raccontate per la prima volta da Repubblica in un articolo del 17 novembre 1994.
Poi arrivò il libretto di Elzbieta Ettinger, la quale, aggirati i divieti e presa visione delle loro lettere, ne fece un resoconto indiretto, misto a giudizi oscillanti tra il perbenismo e la disapprovazione moralistica. Il libro ha comunque avuto un effetto positivo: quello di sbloccare la pubblicazione dell’ epistolario, che si diceva fosse stato distrutto di comune accordo dai due amanti, ma che in realtà la Arendt aveva conservato con cura e che viene ora pubblicato da Ursula Ludz (Briefe 1925 bis 1975 und andere Zeugnisse, Klostermann, pagg. 435).
Si tratta di 119 lettere di Heidegger e 33 della Arendt, con l’ aggiunta di altri documenti tra cui alcune poesie che i due si scambiarono. La voce dominante è quella di Heidegger, per il semplice fatto che le lettere di lei sono andate in gran parte perdute o distrutte. Fortunatamente altri documenti nel frattempo editi, come il carteggio della Arendt con Heinrich Blucher, suo secondo marito, forniscono integrazioni preziose (Briefe 1936-1968, a cura di Lotte Kohler, Piper, pagg. 597).
La storia ha un inizio folgorante. Siamo nel novembre 1924, nell’ aula 11 dell’ Università di Marburgo, dove Heidegger ha appena cominciato uno dei suoi corsi più affascinanti. Malgrado la concentrazione sulle ardue linee dell’ Etica Nicomachea e del Sofista, il giovane professore rimane colpito, come confessa in una lettera, da "quello sguardo che mi rivolgevi mentre parlavo dalla cattedra".
Benché più anziano di diciassette anni, sposato e padre di due figli, l’ attrazione fatale lo spinge a prendere l’ iniziativa. "Cara signorina Hannah", le scrive, "questa sera devo venire da Lei e parlare al suo cuore". Che cosa accadesse quella sera, lo si intuisce dall’ apostrofe confidenziale della seconda lettera inviata di lì a pochi giorni: "Cara Hannah...". "Se vuoi puoi avermi", risponderà lei candidamente, e la settimana seguente il terzo biglietto di Heidegger comincia: "Una forza demoniaca mi ha colpito... Non mi era mai accaduta una cosa del genere. Nello scroscio di pioggia sulla via del ritorno eri ancora più bella e maestosa. E avrei voluto trascorrere con te notti intere. Ti prego, Hannah, regalami ancora qualche parola. Non posso lasciarti andare via così". E citando sant’ Agostino: "Amo significa: volo ut sis".
Su questo travolgente esordio della "passione della sua vita" Heidegger ritorna più volte. Ma vi ritorna con quella "nostalgia del presente", quella malinconia propria di chi gode la pienezza del giorno pensando che già sarà notte. Si sente "sconvolto da quella prima intimità", gli "mancano le parole", e ringrazia Hannah semplicemente di esistere. L’ incontro stellare gli trasmette una vitalità sconosciuta, un’ energia inaspettata, gli regala l’ esperienza di una "grandiosa" e inesausta produttività. Nei suoi ricordi autobiografici il vecchio Heidegger lascerà cadere una frase di cui capiamo ora il senso profondo: "Gli anni di Marburgo furono per me i più eccitanti, i più intensi, i più ricchi di eventi".
Ma la relazione è strozzata dalle mille cautele che, da uomo sposato, egli è costretto a interporre fra sé e il libero gioire di Hannah. E’ avvilita da sotterfugi ("se la luce della mia stanza è accesa, allora puoi venire"), da biglietti clandestini per combinare furtivi appuntamenti, ritrovi nel bosco "sulla nostra panchina", attimi immensi ma insostenibilmente leggeri e fugaci. Ciò malgrado, entrambi vengono travolti da un turbine, da una magica sintonia di pensieri ed emozioni.
Ma il loro vivere "con il cuore in gola" reclama il coraggio di una decisione autentica, che Heidegger paventa: "Non sono abbastanza forte per il tuo amore". Il vischio delle convenzioni tarpa le ali alla sua debole volontà. Dalle lettere si capisce che davvero egli avrebbe voluto regalare a Hannah il "dono della visibilità pubblica", da lei desiderato con discrezione e pazienza.
Ma l’ imbarazzante presenza della moglie Elfride - che più di una sera fu vista dai vicini piangere perché Martin non era ancora tornato, ma reagì come una leonessa ferita che difende con gli artigli la sua tana - fece sì che la sua scelta diventasse una non scelta: Heidegger sublima la passione che lo tormenta nell’ opera che gli cresce tra le mani, il capolavoro filosofico del secolo: Essere e tempo.
Hannah, per mettere fine alla relazione clandestina che mortifica la sua identità di giovane donna costretta nel ruolo di amante, fugge da Marburgo e si trasferisce a Heidelberg, dove si laurea con Jaspers sul concetto di amore in Agostino.
Lui la insegue e la cerca disperato: "Non ce la facevo più, giravo sperduto per le strade di Heidelberg, sperando a ogni istante di incontrarti", le scrive non appena riesce ad avere da un altro suo allievo ebreo, Hans Jonas, l’ indirizzo. Come una falena che sbatte le ali intorno alla candela, Hannah gli risponde: "Avrei perso il mio diritto alla vita se perdessi il mio amore per te, ma perderei questo amore e la sua realtà se mi sottraessi al compito cui mi costringe". Cioè a un lacerante congedo: "Non dimenticarmi, e non dimenticare quanto profondamente io so che il nostro amore è diventato la benedizione della mia vita. Questa consapevolezza non è scossa nemmeno oggi che ho trovato asilo alla mia inquietudine presso un uomo da cui tu forse non l’ avresti mai aspettato". Quest’ uomo era Gunther Anders, altro allievo ebreo di Heidegger, che Hannah sposò come "il primo venuto", non per amore ma per sottrarsi alla struggente relazione.
Poi partì in esilio, a Parigi, e prima ancora di arrivare in America aveva già divorziato. Dicono le malelingue che, per dimenticare, Heidegger volgesse la sua attenzione ad altre: Elisabeth Blochmann, Helene Weiss, Kate Victorius. No, le cose non stanno così: l’ indimenticabile non può essere dimenticato, e lo dimostra ciò che accadde vent’ anni dopo, quando la Arendt tornò a Friburgo per rivederlo. Dopo averlo incontrato, gli scrive: "Questa serata e questa mattina sono la conferma di un’ intera vita. Una conferma in fondo inattesa. Quando l’ inserviente mi ha annunciato il tuo nome, era come se il tempo si fosse improvvisamente fermato". E, in partenza per Berlino, lo invita a seguirla: "Se potessi raggiungermi sabato e domenica prossimi qui, nel nord, ed essere mio ospite...".
Ma le scenate di gelosia di Elfride inchiodano Martin a Friburgo, che le scrive: "Avrei voglia di passare la mia mano, pettine a cinque dita, tra i tuoi capelli crespi". La sommergerà d’ ora in poi di lettere per tentare di catturare almeno l’ ombra di quella felicità cui ha ormai rinunciato: Hannah è, e rimane, la sua vera interlocutrice. Ciò vale altrettanto per lei.
Quando il 26 luglio 1967 tornerà a Friburgo a tenere una conferenza su Benjamin, Heidegger - che il giorno precedente aveva ricevuto nella capanna di Todtnauberg la visita di Paul Celan - scende in città e siede in prima fila nel gremito Auditorium Maximum dell’ università. L’ ormai celebre intellettuale ebrea non esita ad aprire il suo discorso rivolgendosi anzitutto al professore "ex-nazista" con un "Caro Martin Heidegger", e poi "Signore e signori...", che solleva un mormorio in sala.
E’ l’ attestazione pubblica di un sentimento espresso anni prima nella lettera con cui gli inviava una copia di Vita activa: "E’ un’ opera che non sarebbe mai nata senza tutto quello che da te ho appreso in gioventù", "un libro scaturito direttamente dall’ esperienza dei primi giorni a Marburgo e ti sono debitrice, sotto ogni aspetto, più o meno di tutto". Ma il carteggio non documenta solo questa incredibile storia d’ amore. E’ un testo che brulica di spunti filosofici, di letture condivise, interessi spirituali, riflessioni e meditazioni a due voci, su temi e autori amati in comune.
Per esempio sant’ Agostino, che più che una lettura è un evento, la Montagna incantata, i versi di Mallarmé o i dipinti di Klee - tutti elementi che aggiungono sfaccettature nuove e molteplici all’ immagine dei due personaggi. E se ne traggono anche scorci illuminanti sulla vita filosofica e culturale del tempo: per esempio su Husserl, che già nel marzo del 1925 è per Heidegger "una delusione, perché è molto stanco e invecchia in modo visibilmente rapido"; o su Lowith, che "non ha imparato evidentemente nulla; nel 1928 Essere e tempo era per lui una "forma mascherata di teologia"; nel 1946 "puro ateismo" - e che cosa mai sarà oggi?".
Viene toccato anche un tema sinistro, l’ antisemitismo. Nell’ ultima lettera prima dell’ emigrazione - siamo nel 1932/33 - Hannah riporta incredula ma preoccupata voci circa presunti comportamenti antisemiti di Heidegger. Lui reagisce indignato elencando una serie di interventi compiuti in favore dei propri allievi ebrei.
La lettura appassionante fa spazio anche a fantasie impertinenti. Quali imprevedibili scenari si sarebbero aperti, per la filosofia del Novecento, se Heidegger avesse avuto il coraggio di abbandonare Elfride per seguire Hannah in America? Che ne sarebbe stato del filosofo della Selva Nera a New York? Che cosa avrebbe insegnato alla New School o agli studenti di Berkeley, coccolato magari più del suo allievo Marcuse?
Il carteggio con Hannah Arendt ci restituisce quest’ uomo, grande nel pensiero quanto piccolo nella biografia, in tutta la sua umanità, e ce lo mostra nella nobiltà di una passione che infiamma la secchezza delle tre parole in cui potremmo altrimenti riassumere la sua vita: "Nacque, lavorò, morì".
Addio a David Cesarani biografo di Eichmann che criticò Hannah Arendt *
In Italia era noto soprattutto per il suo libro Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale (Mondadori, 2006), nel quale criticava la tesi della filosofa Hannah Arendt, secondo cui l’organizzatore logistico della Shoah, impiccato in Israele nel 1962, sarebbe stato solo un meschino burocrate.
Lo storico inglese David Cesarani, scomparso un mese prima di compiere 59 anni, considerava invece Eichmann un astuto carrierista, che aveva gestito lo sterminio con efficienza manageriale per soddisfare le proprie ambizioni di potere.
Specializzato negli studi sull’Olocausto, Cesarani aveva denunciato l’indulgenza della Gran Bretagna verso gli ex criminali nazisti di minor rilievo, ma si era occupato anche di storia dell’ebraismo inglese e aveva scritto un libro, assai controverso, sul grande scrittore di origine ungherese Arthur Koestler, di cui aveva rivelato la propensione allo stupro.
Nato nel 1956, esponente di spicco della comunità ebraica britannica, Cesarani era un sostenitore convinto dello Stato d’Israele e si era opposto al boicottaggio universitario nei suoi riguardi, ma aveva anche criticato il governo di Gerusalemme. Poco prima di morire, aveva completato una biografia dello statista Benjamin Disraeli e una storia della Shoah. (c. br.)
* Corriere della Sera, 28.10.2015
Novecento
Lo sterminio sotto la lente
Abram de Swaan fa una ricognizione della violenza di massa, analizzando la mentalità che si cela dietro l’orrore: dissente dalla tesi di Hannah Arendt sulla «banalità del male»
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 25.10.15)
Il Novecento ha una pessima reputazione fra la gente comune e fra gli studiosi. Teatro delle carneficine di due guerre mondiali, di genocidi e di stermini per motivi razzisti, etnici, religiosi, politici, ideologici, è considerato il secolo più violento della storia umana. «Nel secolo scorso, la violenza di massa nei confronti di persone inermi ha causato un numero di vittime oscillanti tra il triplo e il quadruplo di quelle della guerra: almeno cento milioni, ma verosimilmente assai di più». Con questo macabro calcolo Adam de Swaan, sociologo e psicanalista, inizia l’analisi della mentalità dell’omicidio di massa, in un libro che lascia nel lettore un senso di orrore, imponendogli però gravi riflessioni sulla natura dell’uomo e sulla sua disponibilità a diventare un carnefice.
De Swaan ha studiato le pratiche di annientamento collettivo messe in atto con sistematica crudeltà da forze armate organizzate, sostenuto dallo Stato, contro popolazioni inermi, che sono state prima «compartimentate» e «disidentificate», secondo la terminologia di de Swaan, cioè sono state separate, isolate e condannate dalla propaganda di regime come persone nocive alla comunità razziale, etnica o ideologica, con la quale si identificano i carnefici.
Chi sono i carnefici di massa? Cosa li spinge a compiere efferate violenze su civili indifesi, donne e bambini compresi, fino a sterminarli? Secondo alcuni studiosi, i carnefici sono persone ordinarie, che in determinate situazioni diventano criminali perché sottoposte agli ordini o perché incapaci di pensare e di agire consapevolmente. La filosofa Hannah Arendt, che seguì a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann, giudicò il criminale nazista un burocrate dell’ingranaggio genocida, zelante esecutore perché incapace di pensare: nella sua insignificante mediocrità, Eichmann incarnava, secondo la Arendt, «la banalità del male».
Altri studiosi attribuiscono la genesi dello sterminio di massa alla modernità: «L’età moderna è fondata sul genocidio ed è nutrita di genocidi», afferma il sociologo Zygmunt Bauman. Nell’età moderna, non solo le dittature militari e i regimi totalitari hanno praticato l’assassinio in massa: lo hanno fatto anche le democrazie imperialiste contro le popolazioni indigene. «La pulizia etnica omicida è un problema della nostra civiltà», «il lato oscuro della democrazia», secondo il sociologo Michael Mann, il quale asserisce inoltre che sono «le normali strutture sociali a spingere la gente comune a commettere omicidi e a partecipare alla pulizia etnica».
Da queste interpretazioni de Swaan dissente in modo deciso e chiaro, perché finiscono per assolvere i carnefici reali, negando la loro personale responsabilità. Egli critica il giudizio della Arendt sulla «banalità del male», osservando che non può esser considerato “banale” un convinto fanatico nazista come Eichmann, «che mostrò una grande pervicacia nell’organizzare e attuare espulsione, deportazione e sterminio di milioni di ebrei infierendo talvolta sulle vittime più di quanto richiedessero gli ordini ricevuti».
L’isolamento, la deportazione, lo sfruttamento bestiale, lo sterminio di milioni di persone, aggiunge de Swaan, «non hanno nulla di banale. Definirli tali è una pura sciocchezza». Nello stesso senso, egli giudica «piuttosto sorprendente» definire «normali strutture sociali» i campi di sterminio di Hitler, i campi di eliminazione di Pol Pot, i massacratori hutu del Ruanda. Infine, de Swaan contesta l’attribuzione di una congenita vocazione genocida alla modernità, ricordando che sin dalle loro origini «gli esseri umani hanno massacrato i propri simili. Ogni guerra, ogni battaglia si concludeva con saccheggi, incendi, stupri di donne sconfitte, e con la riduzione in schiavitù o con lo sterminio dei nemici sopravvissuti».
Basta sfogliare i grandi libri delle antiche civiltà per leggervi frequenti descrizioni di stermini di popolazioni inermi da parte di eserciti conquistatori. Narra l’Iliade che Agamennone ordinò che nessuno dei troiani doveva «sfuggire all’abisso di morte, per nostra mano, neanche chi è ancora nel ventre della madre, se è maschio, ma tutti spariscano insieme con Troia». I libri del Vecchio Testamento raccontano una sequela ininterrotta di carneficine di donne e bambini, compiute per volere del Signore nelle città conquistate da Israele. Quando Giosuè attaccò Gerico, i suoi soldati «sterminarono tutto quanto era nella città, uomini e donne, giovani e vecchi, perfino i buoi e gli asini passarono a fil di spada». Poi Giosuè conquistò Azor e «passò a fil di spada tutti quelli che vi si trovavano, votandoli allo sterminio». E quando gli israeliti fecero guerra alla tribù di Beniamino ebbero l’ordine di uccidere «gli abitanti di Iabes di Galaad, comprese donne e bambini».
Le cronache medievali raccontano numerosi gli omicidi di massa. Al tempo della prima crociata, nel 1096, i soldati di Cristo massacravano gli ebrei in tutte le città che attraversavano: a Magonza, in un solo giorno «mille e cento anime sante furono uccise e massacrate, bambini e lattanti»; poi, conquistata Gerusalemme nel 1099, i crociati, presi da «divino furore», passarono a fil di spada i musulmani, uomini e donne: «Nelle strade della città si potevano vedere mucchi di teste, mani e piedi», «gli uomini cavalcavano con il sangue fino alle ginocchia e alle redini».
Lo sterminio degli inermi viene dalla notte dei tempi. Secolo dopo secolo, millennio dopo millennio, attraversando tutti i continenti, è giunto fino ai giorni nostri. E minaccia di continuare nei giorni che verranno. L’età moderna non ha inventato l’omicidio di massa, non ha iniettato la crudeltà genocida nell’essere umano, ma certamente ha messo a disposizione dei carnefici nuovi mezzi organizzativi, tecnici, culturali, per rendere lo sterminio degli inermi più vasto ed efficiente.
Nessun male è banale, e non si può dimostrare che in ciascuno di noi, persone ordinarie, dorme un potenziale carnefice di massa. Dopo tutto, se moderni sono i genocidi, moderna è anche l’indignazione che essi suscitano e la volontà di condannare chi li compie. Fra questi due opposti aspetti della modernità, c’è posto per la speranza, che è l’ultima a morire, come si dice. Purché non sia uccisa prima, inerme com’è.
di Peter Schneider (la Repubblica, 26.09.2015)
LEGGENDO le drammatiche notizie sul caso Volkswagen, mi sembra che una parte dell’anima tedesca oggi appartenga ai colossi dell’auto made in Germany.
E QUINDI l’anima tedesca è in crisi, perché scopre all’improvviso che un simbolo decennale del suo successo di Paese risorto nel dopoguerra dalle macerie, democrazia solida e aperta al mondo - lo dico per Vw, non so quanti e quali altri produttori mondiali siano coinvolti - è fondata da tempo sull’inganno. L’anima tedesca è in crisi, perché questo inganno fa a pezzi l’immagine di credibilità attendibile che a fatica il Paese si era ricostruito.
Il caso colpisce al cuore l’anima tedesca, anche perché abbiamo sempre pensato che tutti gli altri paesi sono corrotti, ma noi no: addio all’illusione di essere diversi, migliori rispetto agli altri, in Europa e nel mondo.
Inutile illudersi, noi tedeschi e il resto d’Europa e del mondo, che sia in gioco solo la reputazione di Vw: è in gioco l’immagine del Made in Germany quale sinonimo costitutivo della ricostruzione postbellica, e della fierezza di se stessi, delle virtù tedesche - onestà, serietà, affidabilità - che dopo il 1945 ci fu così arduo ritrovare. Sono spesso in America, sento spesso dire dagli amici americani che per loro i sinonimi della Germania nel loro immaginario collettivo sono “Hitler and good engineering”. Ora purtroppo quel primo orrendo sinonimo resta, ma il secondo diventa “cheating engineering”, tecnologia imbrogliona. Truffa con cui Vw si è creata un vantaggio illegale e scorretto rispetto alla concorrenza mondiale, e questa sua truffa pesa oggi sulla coscienza della nazione.
Riflettendo ancor più a fondo, emergono altre consapevolezze amare: per anni Vw e forse altri produttori hanno mentito al mondo. Proprio loro simbolo del Made in Germany, di eccellenze di un Paese ecologista come pochi altri, hanno detto il falso, hanno sostenuto che è possibile produrre e vendere auto sempre più grandi, potenti e pesanti ma sempre meno inquinanti.
Fu soprattutto l’industria dell’auto tedesca e americana a illudere i consumatori mondiali convincendoli che i SUV, quelle orrende jeep di lusso sinonimo di visibile egoismo arrogante, erano ecologici. E’una menzogna di cui adesso paghiamo il conto.
La situazione è tanto seria, che persino la Schadenfreude (la gioia maligna per le disgrazie altrui, in questo caso gioia di altri per la disgrazia tedesca) non fa piacere. Nella mia vita, ho avuto la fortuna di vivere nella Germania più felice, migliore, più amata dal mondo che la Storia abbia mai visto. Fino a pochi giorni fa era così... anche con Angela Merkel e le sue braccia aperte ai migranti, risposta civile europea ai razzisti come Orbàn. Ma adesso ci troviamo a una cesura seria. Non siamo alla fine della Storia di questa Germania felice e in pace col mondo, ma alla fine della sua identificazione folle con i successi dell’industria dell’auto. Che tristezza, se pensiamo a come le nostre “famose capacità tecnologiche” avrebbero potuto essere usate per produrre auto sempre più pulite, anziché per imbrogliare con quei software che falsavano i test.
Ci è mancato qualcosa di costitutivo, in un comparto economico chiave e determinante. Ci è mancata, per scelta dei big dell’auto che volevano soltanto vendere ogni anno più vetture, l’immaginazione e la creatività che a volte non vediamo, a volte fingiamo di non vedere altrove. Penso per esempio agli Stati Uniti dove l’alta tecnologia è culturalmente piu legata all’innovazione in nome della curiosità e della qualità della vita. Basta l’esempio della Tesla, la supercar familiare elettrica da 500 cavalli che loro hanno pensato e costruito, e che vendono con successo. Noi avremmo la capacità tecnologica di farlo, ma i nostri grandi Autokonzern hanno scelto di rinunciarvi.
Purtroppo rimane un’altra domanda sul Dieselgate. Come spiegare il silenzio di anni del sindacato più potente del mondo, rappresentato in forza al vertice Volkswagen in nome della Mitbestimmung, la cogestione? Che cosa significa, e che cosa cela, questa armonia dei silenzi tra azienda-simbolo e sindacato- simbolo della democrazia nata dalle macerie? Finché ci mancheranno i risultati delle indagini sui responsabili, sulle aziende colpevoli e mentitrici tedesche e magari anche non tedesche, ci rimane solo etichettare ogni auto Volkswagen come un pacchetto di sigarette, con avvisi obbligatori sul pericolo dell’uso.
(testo raccolto da Andrea Tarquini)
Class enemy: Kant torna in cattedra
di Mattia Maistri (Nazione Indiana, 01.11.2014)
L’opera prima di Rok Bicek ha una trama piuttosto semplice: un professore di tedesco, Robert Zupan, sostituisce una collega in congedo di maternità in un liceo sloveno.
Da quel momento in poi, tutto il film ruota attorno al difficile rapporto tra l’uomo e la classe, esasperato dal tragico suicidio di una studentessa e dalla ribellione degli studenti che attribuiscono al docente la responsabilità dell’accaduto. Il conflitto acuisce la sua asprezza giorno dopo giorno, nella completa incapacità dell’istituzione scolastica di trovare il bandolo della matassa.
Matassa che si sbroglia da sola in un finale che non ha nulla di epico o eclatante, ma che pone i due soggetti (classe e docente) per la prima volta a confrontarsi su un orizzonte comune, benché conciliante nell’inevitabile separazione.
Se il film offrisse soltanto la narrazione di un’amara vicenda generazionale, potrebbe tranquillamente finire nel calderone dei film sulla scuola, senza infamia e senza lode. Ma è proprio la sua capacità meta-narrativa a renderlo un’opera apprezzabile e stimolante.
Lo scenario è così inquadrato: sullo sfondo gli studenti, divisi nelle loro peculiarità e bassezze adolescenziali, privi di riferimenti che non siano le etichette del “si dice” o del “si deve” - i trasgressivi e gli obbedienti - e, davanti a loro, la sfilata dei veri padroni della scena, gli adulti, che il regista è riuscito a trasformare in efficaci metafore dei portatori di senso, con i quali gli studenti si incrociano in una caotica e inconsapevole ricerca di risposte.
Le caratteristiche degli adulti sono costruite al fine di delineare dei “tòpoi”, alle prese con un reale al quale attribuire significato. Troviamo così l’utilitarismo cinico di una preside che si affanna per far tornare la calma apparente che accontenti tutti; il sentimentalismo ottuso della docente in maternità che, da perfetta anima bella, crede che basti un poco di zucchero per far ingoiare l’amara pillola dell’esistenza; la schizofrenia etica dell’insegnante di educazione fisica che alterna rigore e pettegolezzo, distacco e seduzione, in un’alternanza priva di coerenza e soggetta agli istinti del momento; l’egoismo autistico dei genitori, incapaci di affrontare i figli senza essere autoreferenziali.
Infine, l’illuminismo prussiano del professore di tedesco: perfetta immagine di un Kant redivivo, giunto in una classe del XXI secolo a gettare un sasso che non sia preda dei flutti della cosiddetta società liquida.
Al pari del romanticismo esistenziale del professor Keating ne “L’attimo fuggente” e del sociologismo tragico (figlio di Adorno e Marcuse) del professor Wenger ne “L’onda”, l’illuminismo kantiano del professor Zupan supera i confini del lungometraggio e diventa strumento per scardinare la realtà del senso comune.
Mentre tutti gli altri personaggi, studenti in primis, sono preda di condizionamenti, sia interni che esterni, che ne offuscano la capacità analitica, generando un crescendo incontrollabile di drammi e frustrazioni, il rigore razionale di Zupan, fedele alla lezione kantiana, non mostra segni di cedimento, anche quando è facilmente equivocabile, anche quando impedisce qualsiasi forma di empatia, anche quando, masticando uno “stronzo” che riemerge dal lontano vissuto scolastico, ti fa trasalire sulla sedia del cinema.
Zupan è il vessillo della ragione decarnificata, libera dagli orpelli individuali che producono alibi, moventi e paraventi alle nostre dipendenze.
La forza con cui prende forma l’imperativo categorico della ragione soffoca le emozioni che - in poche scene - il professore sembra provare.
Perché non c’è spazio per i condizionamenti ma solo per la riflessione pura, scevra da buonismi o isterismi e svincolata da odio o pietà.
E al pari del filosofo sbeffeggiato e, infine, ucciso nel platonico mito della caverna, il kantiano Zupan offre agli studenti una lezione di libertà, capace di tracciare una via d’uscita alla cultura del nozionismo (utile alla carriera) o del miope relativismo per cui “tutti la pensano come cazzo vogliono”.
Acquisire la consapevolezza che, nonostante gli avvenimenti che singolarmente ci colpiscono, sia possibile vivere da uomini tra uomini, è più di uno spiraglio di luce per coloro che ogni giorno entrano in classe. E’ il filo di Arianna grazie al quale scoprire che una comunicazione è sempre possibile. Senza dover invocare roghi o ghigliottine.
La storia
Cia, la guerra sporca e quei mille nazisti arruolati contro i sovietici
Per i vertici dell’intelligence ogni mezzo era lecito per contrastare Mosca.
Nel 1980 l’Fbi si rifiutò di fornire informazioni su 16 nazisti che vivevano negli Usa
di Massimo Gaggi *
Quando nel 1960 agenti israeliani catturarono in Argentina Adolf Eichmann, il regista della «soluzione finale» studiata dai nazisti per gli ebrei, il suo assistente Otto von Bolschwing, reclutato già da anni dai servizi segreti americani che ben sapevano del suo passato nelle SS, andò a chiedere protezione, temendo di essere anche lui scoperto e processato. La Cia, che a suo tempo lo aveva assunto in Europa come spia impegnata a contrastare la diffusione del comunismo e l’influenza del blocco sovietico, e che nel 1954 lo aveva addirittura fatto trasferire a New York con tutta la famiglia come segno di riconoscenza per la sua fedeltà, lo coprì in tutti i modi possibili.
Benché responsabile di crimini di guerra e autore anche di scritti politici nazisti e manuali su come terrorizzare gli ebrei, l’ex braccio destro di Eichmann non fu mai chiamato in causa nel processo e visse da uomo libero per altri 20 anni. Fino a quando la magistratura scoprì le sue malefatte e lo processò. Nel 1981 von Bolschwing dovette rinunciare alla cittadinanza Usa, ma non scontò grandi pene, dato che morì pochi mesi dopo.
Il suo non è stato un caso isolato: per decenni si è parlato di criminali nazisti usati dagli Stati Uniti come spie contro i russi. Nel 1980 l’Fbi arrivò a rifiutarsi di fornire al ministero della Giustizia informazioni su 16 nazisti che vivevano negli Usa: tutti informatori della polizia federale. Quindici anni dopo un avvocato che lavorava per la Cia fece pressioni sui procuratori federali perché smettessero di perseguire un nazista implicato nel massacro di decine di migliaia di ebrei.
Ma è solo ora, con la desecretazione di molti documenti ormai vecchi di più di 50 anni, che il New York Times è riuscito a ricostruire quasi per intero il ricorso dell’intelligence a un esercito di personaggi che avevano combattuto per il Terzo Reich. Una contabilità impressionante: nel Dopoguerra l’America reclutò quasi mille nazisti, utilizzandoli nella battaglia contro il comunismo e contro l’Urss. Un confronto che allora l’America temeva di perdere.
Per questo due arcigni combattenti - il capo dell’Fbi Edgar Hoover e quello della Cia, Allen Dulles - decisero di accantonare ogni remora morale: era più importante disporre di agenti capaci e determinati da usare contro Mosca che punire questi nazisti per i crimini contro gli ebrei commessi qualche decennio prima.
Un’altra storia imbarazzante per l’intelligence Usa, anche se stavolta si tratta di vicende ormai remote: nessuno dei criminali nazisti protetti dai servizi segreti di Washington è ancora in vita. Una brutta pagina della storia americana le cui ragioni vanno ricercate nell’angoscia e nella paranoia degli anni della Guerra fredda. Hoover in persona approvò il reclutamento di informatori con un passato nelle SS sostenendo che la meticolosità e l’anticomunismo viscerale di questi «nazisti moderati» erano armi preziose per disporre della quali l’America poteva fare qualche sacrificio sul piano etico.
Un ragionamento cinico che, a parte ogni considerazione giuridica e morale, risultò poco fondato anche sul piano pratico: ben pochi dei mille nazisti reclutati si rivelarono agenti efficaci e fedeli. I documenti ora pubblicati rivelano che molti di loro erano degli inetti, inguaribili bugiardi o, peggio, agenti doppi al servizio anche del Cremlino.
L’imbarazzo della Cia è tutto nell’ostinato rifiuto di commentare il caso: difficile giustificare il tentativo di sottrarre ai tribunali i responsabili di crimini orrendi. Il New York Times racconta che nel 1994, quando il ministero della Giustizia si preparava a processare Aleksandras Lileikis, un capo della Gestapo responsabile del massacro di 60 mila ebrei lituani, la Cia cercò di difendere la sua ormai ex spia reclutata nel 1952 con uno stipendio di 1.700 dollari l’anno più due cartoni di sigarette al mese. I giudici tennero duro e alla fine si giunse ad un compromesso: la magistratura avrebbe rinunciato a condannare Lileikis solo se nel processo fossero venute fuori questioni tali da mettere in pericolo la sicurezza nazionale Usa. Non successe e il criminale nazista finì in galera.
Eichmann era un cinico nazista, non «la banalità del Male»
La filosofa tedesca Bettina Stangneth nel suo libro ribalta la tesi di Hannah Arendt che definiva l’SS un burocrate
di Mario Avagliano (Il Messaggero, 04.09.2014)
RIVELAZIONI
Adolf Eichmann, ovvero il Male non banale. A 51 anni dalla pubblicazione del libro di Hannah Arendt Eichmann in Jerusalem, proposto in Italia da Feltrinelli con il titolo La banalità del male, una nuova ricerca demolisce le tesi della studiosa tedesca naturalizzata americana, che nel 1961 seguì per la rivista New Yorker le 121 udienze del processo in Israele a uno dei principali responsabili della macchina della soluzione finale, condannato a morte e impiccato l’anno dopo. E capovolge la rappresentazione del criminale di guerra nazista fatta dalla Arendt come «un esangue burocrate» che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi.
A firmare il saggio, uscito questa settimana negli Stati Uniti per i tipi di Alfred A. Knopf e già recensito con grande rilievo dal New York Times, è una filosofa tedesca che vive ad Amburgo, Bettina Stangneth, che ha lavorato attorno alla figura di Eichmann per oltre un decennio, scavando a fondo sulla sua storia. Ne è venuto fuori un libro provocatoriamente intitolato Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa, già pubblicato con scalpore in Germania.
Se ascoltando Eichmann a Gerusalemme, la Arendt rimase impressionata dalla sua «incapacità di pensare», invece analizzando l’Eichmann capo della sezione ebraica della Gestapo, e poi in clandestinità in Sudamerica, la Stangneth vede all’opera un abile manipolatore della verità, tutt’altro che un “funzionario d’ordine” o «un piccolo ingranaggio dell’enorme macchina di annientamento di Hitler», come si autodefinì nel corso del suo processo. Adolf fu un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla “contaminazione ebraica”.
In passato già vari ricercatori avevano seriamente messo in discussione le conclusioni della Arendt. Ma con questo libro la Stangneth le "frantuma" definitivamente, come ha dichiarato Deborah E. Lipstadt, storica alla Emory University e autrice di un libro sul processo Eichmann. La Stangneth sostiene che la Arendt, morta nel 1975, fu ingannata dalla performance quasi teatrale di Eichmann al processo. E aggiunge che forse «per capire uno come Eichmann, è necessario sedersi e pensare con lui. E questo è il lavoro di un filosofo».
LA RICERCA
La filosofa tedesca ha però lavorato come uno storico, rovistando in ben 30 archivi internazionali e consultando migliaia di documenti, come le oltre 1.300 pagine di memorie manoscritte, note e trascrizioni di interviste segrete rilasciate da Eichmann nel 1957 a Willem Sassen, un giornalista olandese ex nazista residente a Buenos Aires.
Un libro che rivela tanti dettagli inediti, come la lettera aperta scritta nel 1956 da Eichmann al cancelliere tedesco occidentale, Konrad Adenauer, per proporre di tornare in patria per essere processato e informare i giovani su ciò che era realmente accaduto sotto Hitler (conservata negli archivi di stato tedeschi), oppure la riluttanza dei funzionari dell’intelligence della Germania Ovest che sapevano dove si trovava Eichmann già nel 1952 - ad assicurare lui e altri ex gerarchi nazisti alla giustizia.
Ma il cuore del libro è il ritratto di Eichmann “esule” in Argentina, dove venne scovato e arrestato dagli agenti segreti del Mossad. All’apparenza era diventato un placido allevatore di conigli, con il nome di Ricardo Klement. In realtà l’ex gerarca nazista aveva conservato l’arroganza di un tempo e non era niente affatto pentito, tanto da spiegare la sua “attività” con una tirata che a leggerla lascia inorriditi. «Se 10,3 milioni di questi nemici fossero stati uccisi disse degli ebrei allora avremmo adempiuto il nostro dovere».
Altrettanto interessante è la descrizione del cerchio magico di ex nazisti e simpatizzanti nazisti che lo circondava in Sudamerica. Personaggi che formavano una sorta di perverso club del libro, che s’incontrava quasi ogni settimana a casa di Willem Sassen per lavorare nell’ombra contro la narrazione pubblica emergente della Shoah, discutendo animatamente su ogni libro o articolo che usciva sull’argomento. Con l’obiettivo di fornire materiale per un libro che avrebbe raffigurato l’Olocausto come una esagerazione ebraica, «la menzogna dei sei milioni» di morti.
Nemesi storica
L’amante del Führer e il Dna nella spazzola.
Una tv inglese ha comprato 8 capelli della donna morta assieme a Hitler: il genoma coincide con quello askenazita
di Carlo Antonio Biscotto (il Fatto, 06.04.2014)
Eva Braun, la storica amante di Adolf Hitler da lui sposata nel bunker della Cancelleria poco prima che entrambi si suicidassero, forse aveva sangue ebreo nelle vene. Questo almeno è quanto emergerebbe da un test del Dna.
Il programma “Dead Famous Dna”, che va in onda su Channel 4, la prossima settimana trasmetterà un documentario su Eva Braun che si annuncia sensazionale. Nella stanza che Eva Braun occupava a Berghof, in Baviera, il famoso “Nido delle aquile” di Hitler, alla fine della seconda guerra mondiale fu trovata e conservata una spazzola per capelli appartenuta alla Braun.
Gli scienziati analizzando i capelli hanno trovato una specifica sequenza nel Dna mitocondriale, un minuscolo genoma che viene trasmesso per linea materna nel corso delle generazioni e che apparterrebbe allo “haplogroup” N1b1, in genere associato agli ebrei askenaziti. Lo haplogroup è una sequenza di Dna mitocondrale trasmessa per linea materna, e, come è noto, anche l’ebraismo si trasmette di madre in figlia.
QUANDO LA 17ENNE EVA Braun si innamorò perdutamente di Hitler, questi ordinò al suo braccio destro Martin Borman di indagare approfonditamente sulla famiglia di Eva per avere la garanzia che fosse una vera “ariana” e che non avesse antenati ebrei.
I capelli usati dagli scienziati sono quelli recuperati nell’estate del 1945 da Paul Baer, capitano della 7a armata Usa, che comandava i soldati messi a presidiare Berghof. I capelli sono stati sottoposti al vaglio di esperti ed è stato accertato che erano di Eva Braun. Il figlio di Baer li vendette a un collezionista il quale a sua volta li rivendette a John Reznikoff. Il conduttore del programma ha comprato da Reznikoff 8 capelli della Braun per la somma di 2.000 dollari.
Il conduttore del programma, Mark Evans, ritiene che Eva Braun non fosse al corrente delle sue origini ebraiche e ricorda che nel 19° secolo in Germania diversi ebrei askenaziti si erano convertiti al cattolicesimo. Evans ha persino tentato di contattare due discendenti di Eva Braun per far esaminare il loro Dna, ma le due donne hanno rifiutato di offrire un campione da sottoporre al test.
Evans non sta nella pelle: “È un risultato straordinario. Non avrei mai sognato di poter arrivare a un risultato del genere, che si fa beffe di tutte le idee razziste e fasciste che hanno insanguinato l’Europa nel XX secolo”.
Arendt e Eichmann la stupidità del male
Così, a confronto con Joachim Fest, la filosofa approfondì la sua analisi su uno dei maggiori responsabili della Shoah
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 28.05.2013)
«Più che della “banalità del male” si dovrebbe parlare della banalità delle conclusioni della signora Arendt. Il processo ad Eichmann fu fatto da ignoranti, voluto da Ben Gurion per giustificare la fondazione dello Stato di Israele. Hannah Arendt, che aveva seguito tutto da lontano, racconta un sacco di assurdità». Queste parole pronunciate giorni fa a Cannes, con la consueta passione, da Claude Lanzmann, autore del film Shoah, ripropongono la polemica violentissima scoppiata negli Anni 60 all’uscita dell’ormai celebre libro della filosofa ebrea, tedesca, americana Hannah Arendt, La banalità del male, appunto.
È una polemica «fuori tempo»? No. C’è infatti il rischio che la ricezione di questo libro diventi essa stessa banale (è inevitabile questo gioco di parole perché fa parte del problema). Che l’opera sia citata quasi esclusivamente per il suo titolo, ignorandone la complessità, la tortuosità e la problematicità.
Siamo quindi grati all’editore Giuntina d’avere tradotto in italiano un libro che inquadra e fa la sintesi di questa problematica ( Hannah Arendt, Joachim Fest, Eichmann o la banalità del male. Interviste, lettere, documenti, pp. 214, € 14). In esso troviamo una documentazione accurata della polemica iniziata nel marzo 1963 in America dall’Organizzazione degli ebrei emigrati dalla Germania e proseguita con moltissimi interventi tra cui quelli di personaggi di spicco come Golo Mann e Mary McCarthy.
Si è trattato di un vero e proprio processo alle intenzioni e ad alcune tesi del libro che investono non soltanto la personalità di Eichmann ma anche la corresponsabilità dei Consigli ebraici nell’organizzazione della deportazione e quindi della eliminazione degli ebrei. Hannah Arendt lo ha definito «il capitolo più fosco di tutta quella fosca storia».
In effetti è un tema terrificante e tuttora controverso, in cui guazzano anche incorreggibili antisemiti e negazionisti. Quanto a Eichmann, «altro che burocrate ottuso: era un demonio: violento, corrotto, furbissimo», prosegue oggi Lanzmann, respingendo tutti i tentativi della Arendt di darne un’immagine diversa, anche se negativa.
Già nel 1964 Golo Mann aveva riconosciuto che la Arendt aveva tracciato un ritratto a suo modo fedele di Eichmann. «Non si trattava di un mostro, di un sadico, nemmeno di un fanatico antisemita, bensì di un uomo oltremodo comune: ambizioso quanto altri, obbediente, scaltro e stupido quanto altri; rispetto alle persone più colte era animato da un misto di ammirazione e risentimento; fiutò delle opportunità per una nuova carriera bramoso di svolgere il grande compito omicida in maniera puntuale come qualsiasi altro compito gli fosse assegnato».
Dove sbaglia allora l’autrice? Il fatto che fosse un essere razionale e non un idiota, che fosse un marito tenero e un padre amorevole, nonché un amico disponibile non giustifica - scrive Golo Mann - che Eichmann venga presentato «così innocuo e bonario come lo dipinge la Arendt. Con osservazioni del genere non si risolve il problema della crudeltà e diabolicità dell’uomo».
Ecco il punto: il contrasto tra la «normalità persino bonaria dell’individuo e la mostruosità e diabolicità del suo comportamento» non può essere liquidato come «banalità del male». Questa definizione è frutto di una «saccente dialettica che genera una notte in cui i buoni non sono buoni e i cattivi non sono cattivi».
Non era certamente questa l’intenzione della Arendt. Ma per sostenere la sua tesi non usa argomenti del tipo: sì, anche l’uomo comune - immesso in un meccanismo più grande e potente di lui - si deresponsabilizza arrivando a comportarsi come un mostro. L’autrice non descrive Eichmann come un impotente automa. Analizza puntigliosamente quanto sia lucido e consenziente, accetti e si identifichi consapevolmente con la funzione che esercita perché lo fa sentire «potente» al punto che senza di essa perde la sua stessa identità. L’autrice non dice neppure che «un Eichmann alberga in noi, ciascuno di noi ha dentro di sé un Eichmann». No. La sua spiegazione è più impegnativa anche se a prima vista sconcertante: Eichmann - dice - è «stupido».
Lo spiega in una conversazione radiofonica con Joachim Fest dopo aver raccontato un episodio (ripreso da Ernst Jünger) di «normali» contadini tedeschi che trattano come esseri subumani prigionieri russi perché questi per fame rubano il cibo dei porci. Era questa «la stupidità scandalosa» che pure Eichmann condivideva in un universo di rapporti diverso. «Ed è questo che propriamente ho inteso quando parlai di banalità. In ciò non c’è nulla di abissale, cioè di demoniaco. Si tratta semplicemente della mancata volontà di immaginarsi davvero nei panni degli altri».
È facile immaginare quanto insoddisfacente suoni questa risposta, soprattutto per le vittime che si sono trovate davanti alla brutalità e al sadismo di questi «uomini comuni», «stupidi», «incarnazione della persona media».
La nostra insoddisfazione è mitigata se leggiamo e inquadriamo queste tesi, che suonano un po’ astratte, nel contesto delle conversazioni tra Hannah Arendt e Joachim Fest, che si svolgono nel periodo in cui quest’ultimo sta lavorando e pubblicando le sue biografie su Hitler e Albert Speer. È evidente che i due autori si scambiano simpateticamente riflessioni che nella diversità delle sensibilità hanno in comune l’interesse di conoscere quel mondo «borghese» o semplicemente quel «tedesco medio» che è stata la vera spina dorsale del regime nazionalsocialista. Apparentemente c’è poco in comune tra il burocrate Eichmann e il brillante architetto Speer, intimo di Hitler. Ma si intuisce lo stesso universo di seduzione e complicità che porta in grembo la nuova tipologia criminale, che la Arendt ha creduto di fissare nel concetto di «banalità del male».
La Arendt di fronte a Eichmann Lo scandalo del mostro banale
Per la filosofa il processo riguardava lui, non l’ideologia nazista
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 22.05.2013)
Un gran libro del Novecento, La banalità del male, di Hannah Arendt, compie quest’anno mezzo secolo e non ha perso nulla della sua forza morale e politica. Quando fu pubblicato provocò scandalo in tutto il mondo, rotture di antiche amicizie, conflitti non sopiti (insulti ancora oggi del regista Lanzmann al Festival di Cannes), ma anche un’ampia condivisione di chi si ritrovava e si ritrova in quelle idee, espressione di profonda libertà intellettuale, razionali e insieme amaramente appassionate. Negli anni diede vita ad almeno un migliaio di pubblicazioni sull’orrore della Shoah e sulle sue interpretazioni. Ha avuto insomma una funzione stimolatrice. Che continua.
Dalla casa editrice Giuntina sta ora per uscire Eichmann o la banalità del male, di Hannah Arendt e Joachim Fest, un libro intelligente che serve a fare il punto su quella questione controversa e sulla polemica che ne seguì. Il libro raccoglie la preziosa intervista andata perduta e ritrovata di recente della Arendt allo storico tedesco Joachim Fest, trasmessa nel 1964 da una radio bavarese; il carteggio inedito fra i due; lettere; documenti; la feroce stroncatura di Golo Mann; il saggio di Mary McCarthy consonante con le opinioni della filosofa tedesca; un’accurata bibliografia.
La banalità del male uscì nel 1963 in Israele, l’anno seguente in Germania e in Italia (Feltrinelli). Questo della Giuntina è un libro utile a raccogliere le idee per chi sa e a suscitare desiderio di sapere per chi non sa.
Hannah Arendt, filosofa della politica (1906-1975), ebrea tedesca, lasciò la Germania nel 1933, all’avvento del nazismo. Autrice, tra l’altro, di un’opera di grande rilievo, Le origini del totalitarismo, visse esule a Parigi e poi negli Stati Uniti, dove insegnò nelle più rinomate università.
Nel 1961 accettò, non a cuor leggero, la proposta del «New Yorker» di seguire a Gerusalemme il processo contro il criminale di guerra Adolf Eichmann, capo della sezione ebraica della Gestapo, esecutore degli ordini di Heydrich, catturato nel 1960 dal Mossad israeliano in Argentina. (Il processo finì con la condanna a morte di Eichmann impiccato nel 1962).
Che cosa provocò la polemica contro La banalità del male? La Arendt scrisse sul settimanale americano una serie di reportage, li arricchì e ne trasse poi il libro con quel titolo che offese molti. Ma, come scriverà Joachim Fest, biografo di Hitler e di Speer, in una raccolta di ritratti, Incontri da vicino e da lontano, pubblicata, come gli altri suoi libri, dalla Garzanti, la Arendt «non aveva minimamente inteso definire banale lo sterminio, né tantomeno il male in sé. Aveva semmai voluto descrivere quel male, nella sua terribile incarnazione in uno squallido personaggio».
Hannah Arendt aveva le carte in regola per scrivere quel che vide e quel che sentì: Eichmann visto da vicino non era un angelo caduto, ma un uomo meschino, mediocre, bugiardo, privo di ogni morale, un millantatore. Il suo grado nella gerarchia di comando non era elevato, tenente colonnello. Ubbidiva, felice di farlo, sofferente se gli mancavano gli ordini. Sapeva organizzare e negoziare, fu impeccabile nel far funzionare i trasporti della morte, il suo compito.
Era un «depositario dei segreti della soluzione finale», aveva visto con i propri occhi quel che bastava per conoscere bene quella terribile macchina di distruzione. Non aveva ucciso con le proprie mani, non aveva di certo il potere e l’autorità di Hitler o di Himmler. Quel che a lui interessava era la carriera e per farla era necessario che fosse il proprio gruppo a uccidere il maggior numero possibile di ebrei. L’azienda della morte.
Era un uomo comune, «normale»: «nel senso che non era un’eccezione nel contesto del Terzo Reich». Quella «normalità» di Eichmann faceva gelare il sangue alla filosofa-giornalista che aveva potuto verificarla durante le 121 udienze del processo.
Con il suo libro la Arendt ruppe ogni schema. Il procuratore generale (e il primo ministro Ben Gurion) avrebbero voluto che quello diventasse il processo al nazismo. Secondo la scrittrice, invece, il processo doveva fondarsi su quel che Eichmann aveva fatto, non su quel che gli ebrei avevano sofferto e atrocemente pagato. Era necessario che stessero fuori dal dibattimento le domande senza risposta: «Com’è potuto accadere?»; «Perché gli ebrei andavano alla morte come agnelli al macello?». E anche: «Come hanno potuto i capi ebraici contribuire allo sterminio degli ebrei?».
L’accenno alla correità dei consigli ebraici nella Shoah, per evitare mali peggiori, naturalmente, scatenò aspri risentimenti. La Arendt fu accusata di essere incapace di amore per il suo popolo, ci fu anche chi disse che aveva calunniato le vittime e scagionato la Gestapo. La verità fa male, in ogni epoca.
Nell’intervista a Fest, la Arendt difende se stessa soprattutto con ironia sull’ipocrita commedia degli intellettuali. Preferisce affrontare i temi nodali: il potere che è più forte del crimine; l’incapacità di immaginarsi nella mente degli altri; se si può essere innocenti in un regime totalitario; la tipologia degli assassini privi di un movente, «incomparabilmente più terribili di qualsiasi altro assassino»; i nazisti che non si sono per nulla pentiti; la mentalità del funzionario parossisticamente ubbidiente anche agli ordini più malvagi. «Ma in nome di Dio - esplode la Arendt -, fate che sia un altro a sporcarsi con questa faccenda! Tornate a essere uomini». Il passato irrisolto, il passato che non passa.
Il lungo viaggio di Bauman alle radici del male
di Leopoldo Fabiani (la Repubblica, 10.03.2013)
“Unde malum? ”. Per cercare la risposta all’eterna domanda sulle origini del male, Zygmunt Bauman si concentra sul Novecento, secolo degli stermini di massa e di quell’“unicum” della storia umana che è l’Olocausto. La ricerca contenuta in questo breve testo (Le sorgenti del male, Erickson, pagg. 108, euro 10), riprende i temi che il sociologo polacco aveva svolto nel 1992 in Modernità e Olocausto (il Mulino), per arrivare però a conclusioni sensibilmente differenti. Si parte dalla confutazione di alcune tesi illustri.
Innanzitutto l’idea che la malvagità sia prerogativa di alcune psicologie particolari. Il male come frutto di predisposizioni naturali, del carattere “perverso” di certi individui, secondo il celebre studio di Adorno sulla “personalità autoritaria” che avvalorava l’idea di una “autoselezione dei malfattori”. Ma il pensiero in fondo consolante che solo alcune persone siano capaci delle atrocità, per cui dovremmo solo individuare i “mostri” e difendercene, non regge alla prova della storia e delle ricerche scientifiche.
A dircelo sono, per esempio, gli esperimenti dello psicologo sociale Philip Zimbardo (L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Cortina). Nel famoso “caso di Stanford” un gruppo di persone perfettamente normali è diviso tra coloro chiamati a fare i carcerieri e quelli destinati a essere prigionieri. Ed ecco che i primi subito si trasformano in sadici violenti, con una metamorfosi sbalorditiva. L’esperimento, che risale agli anni Settanta, ha trovato conferme clamorose nello scandalo dei prigionieri torturati dai soldati americani nel carcere di Abu Grahib.
Si torna allora alla “banalità del male” teorizzata da Hannah Arendt e al suo ritratto di Adolf Eichmann come persona del tutto “normale”, bravo padre di famiglia e anche amico degli animali. Con la perturbante conclusione che il male è fra noi e che chiunque, in certe circostanze e in assenza di una forza morale fuori dal comune, può diventare, da un giorno all’altro, un mostro.
Ma nemmeno questo è sufficiente, perché, sostiene Bauman, siamo di fronte a una descrizione, non a una spiegazione, del fenomeno. Lo sguardo del sociologo si distoglie allora dalla Shoah e si volge ad altri fra gli eventi assurdi e terribili del secolo passato. La distruzione nell’inverno del ’44 delle città tedesche e il lancio dell’atomica su Nagasaki nell’agosto del ’45.
Decisioni senza alcuna giustificazione “strategica”, ma solo ragioni “tecniche” ed “economiche”. Non c’era nessun bisogno di radere al suolo centri abitati senza fabbriche o caserme. E nemmeno, dopo Hiroshima, di tirare una seconda atomica. Quelle bombe, secondo le testimonianze degli stessi protagonisti, alti ufficiali alleati o il presidente americano Truman, furono usate per il semplice fatto che erano state costruite e non andavano lasciate nei magazzini. La macchina, una volta messa in moto, vive di vita propria.
Sulle orme delle riflessioni di Günther Anders, Bauman si concentra così sul predominio della tecnica. Arrivata a una potenza che supera l’immaginazione umana, e capace di realizzare in ogni momento le proprie potenzialità illimitate.
A questo si aggiunge la perdita di sensibilità dovuta all’abitudine, come scriveva Joseph Roth in Ebrei erranti (Adelphi): «Le catastrofi croniche sono così spiacevoli per i vicini che questi ultimi diventano gradualmente indifferenti sia alle catastrofi, sia alle loro vittime, quando non sviluppano in proposito una vera e propria impazienza». Anders avvertiva: può succedere di nuovo solo perché è già successo. Del male dobbiamo dunque avere paura: far sapere agli uomini che hanno bisogno di essere sempre in allarme «è il compito morale più importante dei nostri giorni».
Hannah Arendt eroina al cinema
L’ultimo film di Margarethe von Trotta dedicato alla filosofa si concentra sul processo a Eichmann e la nascita della «Banalità del male»
di Gherardo Ugolini (l’Unità, 23.02.2013)
BERLINO FA DISCUTERE «HANNAH ARENDT», L’ULTIMO FILM DI MARGARETHE VON TROTTA, DA POCO USCITO NEI CINEMA DELLA GERMANIA. La regista conclude con questa pellicola una sorta di «trilogia al femminile» su grandi donne della storia tedesca, i cui primi due capitoli erano dedicati rispettivamente a Rosa Luxemburg (film Rosa L. del 1985) e alla monaca medievale Ildegarda di Bingen (Vision del 2009). Girare un film su un filosofo ricostruendone biografia e pensiero non è per nulla facile; si rischia nella migliore delle ipotesi di produrre un documentario, e nella peggiore una fiction noiosa e inguardabile.
Margarethe Von Trotta ha evitato entrambe le cose, sfornando una pellicola fresca e ricca di tensione dalla prima all’ultima sequenza. Merito anche del soggetto, visto che Hannah ha avuto una vita quanto mai interessante, dalla giovinezza trascorsa tra Königsberg e Berlino fino all’esilio americano.
In mezzo l’approdo a Marburgo dove andò appositamente per studiare filosofia con Martin Heidegger, il legame sentimentale col grande pensatore, poi il trasferimento a Heidelberg dove si addottorò con Karl Jaspers, l’espatrio a Parigi in seguito all’avvento del nazismo e dopo l’occupazione tedesca della Francia la prigionia in un campo di raccolta e da lì la rocambolesca fuga negli Stati Uniti, dove Arendt cominciò una nuova esistenza lavorando come docente in alcune università americane.
Senza contare le polemiche suscitate dalle sue principali pubblicazioni, a partire dallo studio sulle Origini del totalitarismo del 1951 in cui tracciava un rischioso parallelismo tra dittatura nazista e staliniana.
Ebbene, Margarethe von Trotta, che sul suo personaggio si è documentata accuratamente leggendo biografie e parlando con testimoni diretti, ha scelto di concentrarsi su un solo segmento del percorso biografico di Hannah, un segmento breve ma decisivo, ovvero gli anni tra il 1960 e il 1964.
L’evento fondamentale di quel periodo, che assorbì interamente le passioni e le energie della filosofa, fu il processo contro Adolf Eichmann, l’architetto dell’Olocausto che dopo la guerra era riuscito a trovare riparo in Argentina, ma che nel 1960 fu sequestrato dal Mossad e portato in Israele. Arendt seguì da cronista il processo a Gerusalemme raccontando le sue impressioni in una serie di reportage per il giornale The New Yorker e raccogliendo poi il materiale nel pamphlet La banalità del male, destinato a diventare celebre.
Interpretata da una bravissima Barbara Sukowa, attrice prediletta della regista, la Arendt che vediamo sullo schermo fisicamente non assomiglia molto a quella storica, ma ne riproduce perfettamente lo stile comunicativo, la tempra ostinata fino a sfiorare l’arroganza, l’arrovellarsi continuo della mente, l’umorismo sottile.
La si vede protagonista, insieme col marito, il poeta Heinrich Blücher, della scena intellettual-mondana newyorkese, in particolare nei circoli dell’emigrazione ebraico-tedesca; la si vede nelle aule universitarie in cui dibatte coi suoi studenti in inglese con forte accento tedesco e con la sigaretta sempre accesa.
Se la relazione giovanile con Heidegger viene solo rievocata attraverso rapidi flashback, al centro del film c’è costantemente la questione del nazismo e del suo significato. È evidente che il processo Eichmann di cui sono anche mostrati spezzoni reali rappresentò per la filosofa una specie di resa dei conti con la storia e con la propria esistenza.
Pensava di trovarsi davanti un mostro bestiale e invece scoprì che Eichmann era un normale e grigio burocrate che aveva architettato deportazioni e massacri eseguendo gli ordini ricevuti e senza neppure pensare a quello che faceva. Non agiva per odio o per cattiveria, ma solo per obbedienza e senza domandarsi mai se ciò che faceva era bene o male.
Nacque da lì la teoria della «banalità del male», ovvero l’idea che in un contesto totalitario si verifichi nell’individuo una scissione totale tra pensiero e morale, fino al compimento di crimini atroci senza rendersene conto. Ma all’epoca quell’interpretazione non fu per nulla compresa. Anzi, Arendt si attirò veleni e inimicizie, soprattutto da parte delle comunità ebraiche, di cui pure faceva parte. Fu accusata di giustificazionismo nei confronti del nazismo, ricevette minacce pesanti e rischiò perfino di essere sospesa dall’insegnamento. Destarono scandalo in particolare le sue osservazioni sulla «passività» degli ebrei di fronte alla Shoah.
Non era facile, ma con Hannah Arend la regista di Anni di piombo e di Rosenstrasse è riuscita non solo a consegnarci un prezioso ritratto di colei che è considerata la più acuta pensatrice del secolo scorso, ma anche a toccare un nervo scoperto della storia tedesca, senza sbavature retoriche e senza ideologismi precostituiti.
Lo sguardo di Hannah sul boia
La Arendt, la banalità del male e Eichmann in un film
di Paolo Lepri (Corriere della Sera, 15.01.2013)
BERLINO - Non è un obiettivo da poco quello che si è proposta Margarethe von Trotta nel raccontare Hannah Arendt. Ha cercato, come ha detto lei stessa, di «trasformare i pensieri in immagini» e ha provato ad entrare nella mente della filosofa ebrea tedesca, espatriata negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo, i cui articoli sul processo Eichmann diventarono un libro, La banalità del male, che ha fatto la storia del Novecento.
Gli interrogativi che quel testo continua a suscitare, cinquanta anni dopo la sua pubblicazione, sono al centro dello sforzo della regista tedesca di fare rivivere la Arendt affidandosi ad un’attrice che è sempre stata quasi il suo doppio davanti alla macchina da presa, Barbara Sukowa (la Marianne di «Anni di piombo», personaggio ispirato alla terrorista della Raf Gudrun Esslin). Tutto questo nonostante il parere contrario dei produttori e chiedendo a Barbara Sukowa una immedesimazione totale con il suo personaggio. «Non farò questo film senza di lei», fu il suo ultimatum. Ed è stata una scommessa riuscita.
«La scelta di un’attrice che non ha nessun tipo di rassomiglianza fisica con la Arendt si è dimostrato un dono del cielo, perché ha eliminato qualsiasi empatia kitsch fin dall’inizio», ha scritto su «Der Spiegel» Elke Schmitter. Si tratta di un confronto fra tre donne, ad una delle quali è stato tributato un omaggio totale. E non è un caso che Adolf Eichmann, invece, appaia solo nelle immagini storiche del processo: nessun attore avrebbe potuto, dice la regista tedesca, interpretare la miseria morale e la mediocrità di quel burocrate dello sterminio, di quell’«impiegato» per il quale si prova solo disgusto.
«Barbara e Hannah si sono fuse insieme», ha detto Margarethe von Trotta, che racconta oggi di non sapere quasi più chi delle due è la donna che ha di fronte, tanto è stato intenso il lavoro di comprensione, di analisi, di ricostruzione, tanto è stata appassionata questa doppia irruzione nella storia. «Improvvisamente - ha aggiunto in una intervista al sito del Goethe Institut - qualcuno in carne ed ossa è davanti a me, con la sua voce, che non è quella di Hannah Arendt. Naturalmente si tratta di un’approssimazione, ma tuttavia è lei, il suo spirito, il suo intelletto, il modo con cui si muove e parla».
Parole appassionate, che spiegano il modo con cui è stato concepito un film che cerca di stabilire un legame totale con l’oggetto della narrazione. Ma l’idea di Margarethe von Trotta non è stata soltanto quella di narrare la storia di una persona, come aveva fatto per esempio con la Sukowa e Rosa Luxemburg. Il film, come si diceva, è una rimeditazione sul modo con cui Hannah Arendt ha elaborato le sue tesi su Eichmann, uno dei maggiori organizzatori della «soluzione finale», fuggito in Argentina, catturato dal Mossad e trasferito in Israele dove fu processato, condannato a morte e impiccato in prigione.
Siamo a Gerusalemme, nel 1961. L’allieva di Martin Heidegger (che compare brevemente in alcune scene dedicate al passato), arriva in Israele da New York, dove viveva con il marito Heinrich Blücher e si trova di fronte, nella gabbia di vetro dell’aula del processo, ad un uomo che non giudica un pazzo, un fanatico o un criminale. Eichmann le sembra un funzionario dell’orrore che ha applicato le istruzioni con diligenza, che non si è mai reso effettivamente conto di quanto stava facendo, perché privo di quei codici morali che dovrebbero guidare le nostre azioni. Un prodotto delle società dell’obbedienza.
Lei vuole capire e cercherà di farlo, anche se la sua lettura della personalità dell’imputato (e dello stesso modo con cui è stato organizzato il processo) contrasta con gli schemi di interpretazione di chi la circonda. Le conversazioni registrate in Argentina dall’olandese Willem Sassen dimostrarono, ricorda «Der Spiegel», che Eichmann «era un convinto antisemita, incapace di usare personalmente la forza, ma determinato a sterminare il popolo ebraico». La parte da lui recitata a Gerusalemme era stata soltanto un inganno, non tale però da togliere forza al nocciolo delle riflessioni svolte dall’autrice di Le origini del totalitarismo.
«Era una donna - afferma Margarethe von Trotta - che si adatta al mio modello personale delle donne di importanza storica che ho ritratto. "Voglio capire" era uno dei suoi principi-guida. Penso che valga anche per me e per i miei film».
La carriera di 80 intellettuali
I volenterosi cervelli di Hitler che inseguivano il mito dell’ariano
di Giovanni De Luna (La Stampa TuttoLibri, 8.12.2012)
In guerra non valgono più i comandamenti religiosi del «non uccidere», e neanche i precetti delle leggi che puniscono l’omicidio. L’uccidere da gesto vietato diventa un atto dovuto. Ed è questo capovolgimento che consente a uomini normali di estraniarsi psicologicamente dalla normalità, di sprofondare in una frequentazione ossessiva con la morte. Anche in guerra ci sono comunque regole da rispettare. Le SS hitleriane non lo fecero. Sterminarono uomini armati e civili inermi, donne e bambini, vecchi e malati. Uccisero con i fucili e le mitragliatrici, ma anche a mani nude e con i bastoni. Impiccarono e fucilarono..
Da sempre ci si chiede come tutto questo sia stato possibile Christian Ingrao, (Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS) prova a rispondere studiando il percorso di 80 intellettuali, (giuristi, storici, filosofi, geografi, economisti), arruolati nel servizio di informazioni delle SS. Lo fa scandagliando gli abissi delle loro esperienze esistenziali; tutti erano bambini all’epoca della prima guerra mondiale, tutti si nutrirono del surplus di violenza che si respirava in quegli anni di fame e di morte (in Germania ci furono due milioni di caduti e almeno 18 milioni di tedeschi ebbero un lutto in famiglia).
A partire da questi esordi, li segue poi negli studi universitari, ne analizza i saperi accademici (più umanistici che scientifici) e colloca le loro biografie individuali in un contesto segnato dalla totale nazificazione della cultura tedesca. Per tutti si trattò di passare dal nazionalismo patriottico dell’adolescenza a un’adesione convinta al nazismo nel segno di un razzismo vissuto come il nuovo fondamento delle loro discipline accademiche. Alla fine di questo percorso erano pronti per l’appuntamento con il loro destino di carnefici. Tra il 1934-35 e il 1938, più dell’80% degli intellettuali delle SS entrò nel SD, il servizio di informazioni.
Tutti furono sedotti dalla proposta di Hitler di partecipare alla rifondazione sociobiologia del Terzo Reich e si impegnarono per legittimare culturalmente la costruzione del «nemico» (i comunisti, i massoni, gli ebrei) nei termini «biologici» voluti dalla politica di sterminio dei nazisti. Poi, a partire dal 1941, dopo l’invasione dell’Urss, smisero le ricerche accademiche ed entrarono in azione in prima persona, partecipando attivamente o addirittura assumendo il comando delle unità mobili di sterminio (Einsatzgruppen) in Crimea, Bielorussia, Ucraina, nei paesi baltici.
Cominciano qui le pagine più crude del libro di Ingrao. Nel delirio bipolitico hitleriano si trattava di riorganizzare quei territori in una nuova architettura etnica dello spazio, ispirandosi al principio razziale della superiorità gerarchica dei tedeschi. Concretamente questo significava una «pulizia etnica» condotta con i metodi della cancellazione fisica di tutte le impurità razziali.
Gli intellettuali delle SS non si limitarono a giustificare «la grande guerra razziale». Vi presero parte senza sottrarsi a nessuna delle nefandezze che Ingrao elenca puntigliosamente, accompagnandoci in un progressivo processo di brutalizzazione che vede cadere uno dopo l’altro ogni tabù: prima si fucilano solo gli uomini in un contesto che è ancora quello della guerra regolare; poi si passa all’uccisione di quelli che vengono considerati «topi o cimici», poi si varca un’altra soglia e si uccidono anche donne e bambini, per arrivare infine al massacro generale.
Quando finì la guerra, pochi erano morti sul campo. La maggior parte si nascose, cambiò identità, lavorò per gli americani. Quando furono scoperti e processati negarono o depistarono. Molti si giustificarono dando la colpo allo «spirito del tempo». Ma quel tempo non lo avevano subito o solo attraversato; erano stati essi stessi a costruirlo. "«Credere, distruggere»: non si limitarono a giustificare «la grande guerra razziale», ma vi presero parte"
Strage di Stazzema
Il debito immenso che la Germania nega
di Furio Colombo (il Fatto, 07.10.2012)
Un gentile ministro tedesco di passaggio da Palazzo Chigi ha voluto porre un rimedio alla sentenza del Tribunale di Stoccarda che ha deciso di non poter processare i superstiti responsabili del massacro di Sant’Anna di Stazzema con le parole: “Mancano le prove”. L’intero processo di Norimberga avrebbe potuto concludersi così. Ha detto il ministro come per rassicurarci: “La legge non cancella Storia”. Ma la Storia trascina pesi, rinfaccia debiti. In un’epoca come questa “debito” è la parola chiave.
È possibile che Spagna e Italia meritino diffidenza per lo stato della loro economia e (come nel caso italiano) per l’ammontare troppo grande del debito. È possibile che questi sguardi sospetti e - a momenti - decisamente ostili e non privi di compatimento e di un disprezzo appena velato dalle buone maniere, vengano dalla Germania, Paese definito spesso “virtuoso” a causa dei conti in ordine e della produzione ben organizzata che continua a fare profitto. È bene ricordare che prima viene la Grecia ad aprire la lista nera di coloro che hanno troppi debiti non pagati e forse non pagabili. La Grecia, considerata ormai, senza tanti riguardi, un Paese non rispettabile da una Unione europea del tutto sottomessa al rigore tedesco dei conti in ordine. Sicuri che Berlino abbia i conti in pari?
Qui cominciano due discorsi. Il primo porta domande senza risposta sul carattere che l’Europa dovrebbe avere e mostrare. Come mai la voglia di punizione e di espulsione prevale oggi con tanta forza sulla ricerca, per quanto difficile, di soluzioni? Perché è più facile e normale e frequente sentire parlare della “fine della Grecia” piuttosto che di un patto comune per salvarla e trattenerla in Europa? L’altro discorso porta a un’altra domanda, che stranamente non viene mai posta (anche perché tutto lo spazio e il tempo è occupato da lodi e glorificazioni): davvero la Germania non ha debiti? E se li ha avuti, li ha pagati? Questo non è un modesto e maldestro tentativo di sviare il discorso in difesa di economie sgangherate. Purtroppo riguarda fatti ed eventi realmente accaduti, persone realmente esistite e realmente eliminate con crudeltà, con violenza e in massa.
Un fatto è appena accaduto. Una Corte tedesca (Stoccarda) ha rifiutato di considerare come avvenuto e come tedesco il massacro di Sant’Anna di Stazzema (uomini, donne, molti bambini, il prete, tutti uccisi davanti alla chiesa) perché “mancavano le prove”, ovvero non era stata rilasciata ricevuta per quel debito senza senza limiti, e non c’era dunque ragione di considerare qualcuno come responsabile.
Negli stessi giorni, i giorni in cui in Italia è morto Shlomo Venezia, per anni operaio gratuito (il compenso: restare provvisoriamente in vita) nella fabbrica della morte detta Auschwitz Birkenau, un sopravvissuto che solo adesso, morendo, ha finito di raccontare la sua storia pazzesca, il deputato Emanuele Fiano ha informato il Parlamento italiano di questo evento: “Mi ferisce in maniera indicibile, a me che sono figlio di un sopravvissuto di Auschwitz, che si possa permettere, in questo Paese, che un sito neonazista, nella giornata di ieri, in concomitanza con la morte di Shlomo Venezia, abbia potuto aprire una pagina dedicata alla festa per la sua morte”. Questo squallido episodio dimostra ancora una volta che il danno prodotto nella vita e nella cultura europea dai vuoti e dalle negazioni della storia è altrettanto grave quanto i delitti compiuti negli anni spaventosi della persecuzione e della guerra.
Per esempio, a pochi chilometri da quella festa, appena un po’ prima dell’evento nazista, si può trovare la rappresentazione fisica di un estremismo più psichico che politico: il monumento-mausoleo di un grande criminale di guerra e di strage, il generale Rodolfo Graziani. L’episodio è moralmente indecente, storicamente assurdo, ma anche frutto di corruzione. Il monumento a Graziani, infatti, è stato pagato con fondi illecitamente ottenuti dalla Regione. È ciò che ci ha fatto giudicare corrotti e non affidabili, fino a poco fa, in Europa. È qui che torniamo al debito, e al senso del debito della Germania.
Quando il Tribunale di Stoccarda, il tribunale di un Paese rispettato che fa da motore a questa Europa, nega, con il peso della sua credibilità e del suo prestigio, che sia accaduta la strage di Sant’Anna di Stazzema, non nega solo un episodio fra tanti di una guerra crudele e terribile. Nega il suo immenso debito e stabilisce una distanza pericolosa. La bella e moderna Germania di oggi non deve, non può sfiorare quel passato senza rendersi conto di quanto sia grave evocare un debito mai saldato, e rifiutare di saldarlo, sia pure, ormai, solo come gesto simbolico. Meglio essere amico degli amici ritrovati e tentare insieme la salvezza di tutti.
La confessione dell’ex SS “È vero, uccisi 25 donne”
Ma per la strage di Sant’Anna di Stazzema la Germania lo ha assolto
«Non può finire così: da noi le condanne sono state confermate in Appello e in Cassazione»
"Svuotai un’intera cartuccera. Erano solo donne, donne di ogni età"
di Niccolò Zancan (La Stampa, 07.10.2012)
Eppure c’è chi ha ammesso. Parola per parola. Orrore su orrore. «Verso la parte terminale del pianoro, dove ricominciava la salita, vi erano due case. Si trattava di case piuttosto piccole, erano rivestite in muratura, ma avevano un aspetto misero. Di fronte a queste case, sedevano in cerchio circa 25 donne».
Questa è la voce di Ludwig Göring nato a Itterbash, Germania, il 18 dicembre 1923, tornitore di casse d’orologio in pensione. Ma, soprattutto, «impiegato alla mitragliatrice» nelle Waffen SS come da dizione giudiziaria tedesca durante la seconda guerra mondiale. E quello che ha messo a verbale davanti alla procura della Repubblica di Stoccarda - e poi anche davanti alla procura militare italiana - è il suo ricordo della strage di Sant’Anna di Stazzema. L’avevano chiamata «operazione antipartigiani». Dopo la notte trascorsa vicino a La Spezia, si ritrovarono di fronte a quelle donne disarmate.
«L’ufficiale di grado più elevato era molto impaziente - racconta Göring - ci sollecitò a fare presto. Urlò: “Posizionare la mitragliatrice! ”. Dopo l’ordine di fare fuoco, sparai sulle donne. Durò pochissimo. Tre uomini cosparsero di benzina i cadaveri e vi appiccarono il fuoco. Improvvisamente vidi che dalla catasta in fiamme si levava correndo un bambino, un ragazzo di circa 10-11 anni, che si allontanò subito di corsa, scomparendo dietro la scarpata che distava circa tre metri. Non avevo visto prima il bimbo. Neanche mentre sparavo avevo notato che vi fosse un bambino con le donne».
Ha ammesso in piena consapevolezza, di fronte al preciso avvertimento avanzato dal procuratore generale Bernard Häubler: «Al testimone si fa rilevare che, qualora sostenga di aver sparato, diviene indiziato di concorso di omicidio e potrebbe rendersi perseguibile per concorso in omicidio doloso semplice o omicidio doloso grave». Ludwig Göring risponde così: «Devo parlare, non importa cosa accadrà. Ora voglio dire la verità. In quello spiazzo si trovava una sola mitragliatrice, azionata da me e dall’artigliere addetto alle munizioni... Ero consapevole che una simile fucilazione era proibita. Ma non avevo scelta: un ordine è un ordine».
C’è, dunque, un reo confesso. Eppure il 1° ottobre anche la posizione di Ludwig Göring è stata archiviata dalla Procura di Stoccarda, insieme a quella degli altri soldati nazisti indagati per la strage del 12 agosto 1944, in cui furono trucidati 560 innocenti. Una sentenza che il presidente Giorgio Napolitano ha definito «sconcertante». E che si è basata, per quanto si è potuto capire, proprio sull’impossibilità di ricondurre le singole azioni criminali a precise responsabilità individuali. E invece ci sono i ricordi lucidi del caporalmaggiore Göring, c’è la sua mano che spara: «Quella mattina la mia compagnia si mise in marcia compatta. Si recò sui monti, formando una linea di fucilieri. La distanza fra i soldati era di circa 10 metri. Io trasportavo la mitragliatrice».
A un certo punto fa addirittura un disegno, indica le posizioni: il pianoro, il bosco, le donne costrette a sedersi in cerchio. Aggiunge: «Stavamo a cinque metri da loro. Tutti spararono. Io svuotai un’intera cartucciera, che non fu ricaricata. Altri soldati spararono con il mitra... Erano solo donne, donne di ogni età, ma non le osservai in modo dettagliato... Mentre ci allontanavamo, i cadaveri stavano ancora bruciando». Gli chiedono: «Ha mai parlato con qualcuno di questi fatti dopo l’accaduto? ». Göring risponde: «Sì, circa quattro settimane fa con mia moglie. Quando ricevetti la convocazione della Procura, me ne chiese il motivo». Gli domandano: «Perché adesso è disposto a raccontare questi accadimenti? ». E lui: «Perché li ho sempre davanti agli occhi, in continuazione, da quando sono accaduti. E specie da quando si parla in televisione di attacchi terroristici, questi fatti mi tornano alla mente. Non riesco a liberarmene».
Il verbale è datato 25 marzo 2004. Una ricostruzione confermata successivamente anche davanti al capo della procura militare italiana, Marco De Paolis. Per la stessa strage ha ottenuto dieci condanne. «Senza mancare di rispetto a nessuno - spiega adesso - non può finire così. C’è qualcosa che stride. Da noi la sentenze di condanna sono state confermate in appello e in Cassazione. E tutte si sono basate su prove documentali e testimoniali». Anche sulla confessione tardiva del caporalmaggiore Göring.
La memoria non si archivia
di Enzo Collotti (il manifesto, 3 ottobre 2012)
La sentenza con la quale la magistratura di Stoccarda ha disposto l’archiviazione del procedimento contro gli appartenenti al reparto delle Watten-Ss imputati della strage di Sant’Anna di Stazzena e già condannati dalla giustizia italiana ripropone vecchi interrogativi e ne apre di nuovi sia sul terreno tecnico sia dal punto di vista etico e politico. Si presenta anzitutto un conflitto tra magistrature: è possibile che la magistratura tedesca non sia in grado di accertare quanto appurato dai giudici italiani? La difformità di valutazioni, a parte produrre le conclusioni abnormi che sono sotto gli occhi di tutti, rischia di incrinare ogni fiducia delle popolazioni nei confronti della giustizia.
Poiché non è la prima volta che questo accade, nella prospettiva di una unione europea segnala a dir poco una incongruenza che richiede sicuramente un intervento riparatore. Come si può pensare che, indipendentemente dalla dimostrazione delle responsabilità dei singoli militari delle Waffen-Ss, la popolazione dell’area teatro della strage prenda per buona l’ipotesi di essere stata vittima di un’azione non premeditata? L’archiviazione giudiziaria non archivia la memoria e rischia di inasprire ferite che solo con una lenta opera di riconciliazione, di cui sono stati e sono protagonisti anche cittadini e politici tedeschi, erano e sono in via di superamento.
Ma c’è ancora un altro versante del discorso che va considerato. Il conflitto tra la giustizia e la storia. Risulta veramente strano che la magistratura di Stoccarda, alla luce dell’esperienza pluridecennale della giustizia tedesca con crimini commessi dai nazisti in Europa non sia in grado di inquadrare la strage di Sant’Anna nel suo contesto storico. È ben vero che il giudice deve provare le responsabilità individuali ma è altrettanto incontestabile che queste si collocano all’interno di precisi contesti.
Il giudice non è tenuto a compiere lui un’indagine storica, ma certo è tenuto a non ignorare che esiste un’ampia letteratura che può aiutarlo a valutare. Che una strage di centinaia di persone, con centinaia di vittime tra donne e bambini, non gli suggerisca che di ben altro si trattava che non di caccia ai partigiani, è un fatto che non denota insufficienza di informazioni ma piuttosto l’inadeguatezza (per non dire l’incompetenza) del giudice.
La politica delle stragi non è un’invenzione della storiografia, fece parte della strategia della Wehrmacht, e non solo delle Ss, nel tentativo di controllare i territori occupati dell’Europa intera e di intimidire le popolazioni insofferenti dell’oppressione dei nazisti e dei loro collaboratori. Nel caso dell’Italia, la brutalità delle violenze naziste dopo l’8 settembre 1943 non fu soltanto reazione alla secessione dal conflitto dell’alleato fascista, fu tra le opzioni tattiche strategiche adottate per superare le difficoltà del controllo del territorio.
La guerra ai civili non è stata studiata soltanto da storici italiani, su di essa hanno attirato l’attenzione studiosi tedeschi - da Friedrich Andrae a Gerbard Schreiber, a Luiz Klinkhammer: essa caratterizzò la fase più acuta della campagna d’Italia, quando i tedeschi pensavano di non avere più nulla da perdere.
Se i giudici di Stoccarda avessero tenuto presente questo contesto certo non sarebbe sfuggito loro che l’eccidio di Sant’Anna non era avvenuto per caso. Quali che possono essere le cause che hanno reso ulteriormente difficile la valutazione di questo caso - e certo i colpevoli ritardi della giustizia italiana causati dall’armadio della vergogne vanno messi nel debito conto - il comportamento della magistratura tedesca risulta inspiegabile. Per le popolazioni direttamente colpite suona come la capitolazione di fronte all’inesplicabilità della storia e alla viltà di uomini che oggi mentono senza scrupoli come senza scrupoli allora ammazzarono.
Shlomo nel Sonderkommando
Il destino che Primo Levi non capì
Addetto al trasporto dei corpi ai forni, testimone assoluto della Shoah. Sbagliato parlare di «zona grigia»
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 18.01.2019)
Svastiche nere, impudenti e minacciose, erano comparse d’un tratto a segnare i negozi degli ebrei lungo viale Libia e nelle strade attigue del quartiere romano. Di là Shlomo ci passava ogni giorno per tornare a casa. La vista di quelle croci uncinate lo straziò, lo afflisse. Era all’inizio degli anni Novanta. Non voleva, non poteva crederci. Ma qualche tempo dopo, mentre camminava, si trovò faccia a faccia con alcuni fascisti che volantinavano sbraitando. La tensione era forte. Qualche passante rifiutava il volantino, rispondeva per le rime. I fascisti erano pronti alla violenza. Per un attimo ebbe l’impulso di intervenire. Poi pensò che la risposta sarebbe stata un’altra. Nel 1992 Shlomo Venezia cominciò a parlare.
Dunque esisteva un membro del Sonderkommando, di quelle Squadre speciali, costrette a operare tra la camera a gas e il forno crematorio! Era, anzi, un ebreo italiano. Quel nome, «Venezia», rievocava il tempo in cui i suoi antenati, espulsi dalla Spagna nel 1492, si erano fermati nella città della laguna, prima di proseguire per le coste greche. Shlomo era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923. Il padre aveva trasmesso ai figli la cittadinanza italiana, quasi fosse una difesa che avrebbe dovuto proteggerli. In casa si parlava ladino, o meglio, giudeo-spagnolo, ricordo di quel leggendario passato perduto. La famiglia tentò di fuggire durante l’occupazione nazista; furono, però, catturati e deportati ad Auschwitz, dove giunsero l’11 aprile 1944. A Shlomo fu «iniettato» il numero 182727. Passate le prime selezioni, gli fu proposto un «lavoro supplementare» per una doppia razione di cibo. «Se avessi saputo che quel lavoro consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al crematorio, avrei preferito morire di fame; (...) quando compresi era troppo tardi». Così ha confessato nel libro Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 in Italia da Rizzoli e tradotto in moltissime lingue.
Impossibile immaginare che cosa dovette provare un ventenne costretto a vivere per mesi accanto ai forni crematori. Quando scrive Shlomo non indugia su di sé, sulle sue emozioni, sul suo dolore. Con «onestà irreprensibile» - come ha notato Simone Veil nelle pagine introduttive dell’edizione francese - ricostruisce la catena dell’annientamento: dalla discesa negli spogliatoi all’avvio nelle camere spacciate per «docce», dal trasporto nei forni fino all’incinerazione. Chi voglia capire che cos’è stata davvero la Shoah, questa ignominiosa fabbricazione di cadaveri, questa degradazione della morte, deve leggere la sua testimonianza che non può essere paragonata ad altre.
Shlomo lo sapeva. Perciò aveva taciuto così a lungo. I nazisti avrebbero voluto eliminare l’ebreo e il testimone. Lui invece era sopravvissuto non solo per raccontare la rivolta del Sonderkommando, la marcia attraverso la neve, la liberazione, ma anche per dire quel che nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Era consapevole di essere il superstite assoluto. Perché era stato in quel luogo, tra la camera a gas e il forno crematorio, peculiarità dello sterminio hitleriano, che sarebbe stato sempre decisamente negato. Shlomo Venezia è il superstite, non nel senso del testimone terzo, bensì in quello del superteste, in grado di parlare, per sé e per gli annientati, perché è sopra-vissuto, rimasto oltre - oltre la camera a gas, il crematorio, lo sterminio. Unica e preziosa, la sua testimonianza sarebbe stata perciò la più temuta dai negazionisti.
È tempo, però, anche di sollevare una questione troppo a lungo tabuizzata. Shlomo Venezia ha rivelato il suo «terribile segreto» solo dopo la morte di Primo Levi, che aveva puntato l’indice contro i membri delle Squadre speciali ricorrendo a termini molto duri, a verdetti non di rado sprezzanti. Proprio in quel contesto aveva coniato l’espressione «zona grigia» con cui rinviava alla «complicità» di coloro che erano stati costretti alla colpa.
Aveva ragione quando scrisse che le Squadre erano state «il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo». Ma per il resto lui, che parlava da Auschwitz-Monowitz, campo di concentramento, non di sterminio, avrebbe forse dovuto rivedere il suo giudizio a partire dalla testimonianza di Shlomo Venezia. Quell’industrializzazione della morte, che nelle officine hitleriane ha evitato il faccia a faccia con le vittime, è stato il sapiente trionfo dell’anonimato e l’intenzionale frantumazione della responsabilità. Così i criminali tentarono in seguito di definirsi innocenti. E oggi sappiamo che, se c’è stata resistenza, se c’è stata rivolta, ciò è avvenuto grazie ai membri del Sonderkommando.
Chi l’ha conosciuto, sa quanto soffrisse di un’angoscia tetra, di una disperazione sorda, che rischiavano di logorarlo. Dopo il filo spinato del lager, il pericolo era il silenzio in cui avrebbero potuto spegnersi le sue parole. Eppure Shlomo, combattente instancabile, ha vinto la sua battaglia.
Soldaten, i ciarlieri carnefici di Hitler
Dalle tecniche di sterminio degli ebrei alle stragi di civili, agli stupri di massa In un libro le conversazioni dei soldati tedeschi prigionieri degli Alleati: si raccontano gli orrori della guerra, con pochi dubbi e qualche ironia
di Giorgio Boatti (La Stampa, 01.05.2012)
Un catalogo degli orrori. Un repertorio di crudeltà che va ben al di là della ferocia insita in ogni guerra. Soldaten, il libro in uscita da Garzanti, con cui lo storico Sonke Neitzel e lo psicologo sociale Harald Welzer ricostruiscono il mondo interiore dei soldati di Hitler, non è lettura per palati fini. O per sensibilità delicate.
Per oltre quattrocento pagine i due studiosi attingono alla montagna di verbali - desecretati dagli archivi inglesi e americani - che riportano le intercettazioni delle conversazioni tra combattenti tedeschi, detenuti nei campi di prigionia di Trent Park e Wilton Park nel Regno Unito e di Fort Hunt negli Usa.
I verbali sono il frutto del lavoro della rete dei Secret Interrogation Center allestiti da Londra già all’inizio della guerra e dei Joint Interrogation Centre resi operanti dagli americani a partire dall’estate del 1941. Sul milione di prigionieri caduti in mano alleata sono circa 10.000 i militari tedeschi e 563 gli italiani (su questi ultimi, in Soldaten, emerge piuttosto poco) trasferiti, dopo opportuna selezione, in questi luoghi di detenzione speciale. L’obiettivo non è raccogliere prove per punire azioni criminali, ma fornire all’intelligence alleata materiale prezioso sull’avversario che si sta ancora fronteggiando. Quella che si effettua è una sorta di vivisezione operata su una significativa campionatura del grande corpo delle armate di Berlino. Ne emergono schegge taglienti, impietosi reperti di una guerra senza regole che viene esposta con una schiettezza che nessun interrogatorio potrebbe mai afferrare.
I kamaraden, ignari - o, forse, in alcuni casi, incuranti - di essere intercettati dalle «cimici» installate nelle baracche di questi campi speciali, si raccontano l’un l’altro quella che per loro, alla fine, è stata solo la pratica quotidiana del mestiere di soldati di Hitler. Nelle oltre 150.000 pagine dei documenti vagliati dai due studiosi prendono corpo, attraverso le voci dei diretti protagonisti, i dettagli più raccapriccianti del secondo conflitto mondiale: dalle modalità operative dello sterminio degli ebrei alle esecuzioni dei prigionieri, dalle stragi di ostaggi civili alla pratica dello stupro di massa nelle terre occupate. Sino alle «battute di caccia» con cui carnefici volontari, in un caso persino gli appartenenti a una banda musicale inviata ad allietare le truppe al fronte, chiedono di «sparare assieme» ai reparti «specializzati» nell’eliminazione di ebrei e partigiani.
Tutto accade come fosse la cosa più scontata e normale. In Soldaten si spiega come questi siano i frutti maturati in Germania in poco più di sei anni, dall’avvento di Hitler nel 1933 allo scoppio della guerra - della convinta adesione della maggioranza della società tedesca al mito della «razza eletta». Le riserve e gli interrogativi, quando ci sono, si rifugiano in privatissimi ambiti. Nella vita pubblica la comunità dei prescelti esige degli esclusi: gli ebrei, i matti, gli zingari, gli oppositori. Nei confronti di questi, già in tempo di pace, una condotta collettiva e individuale sempre più disumana diventa la norma. Questo indurrà l’uomo della strada, il padre di famiglia esemplare - una volta rivestito nell’uniforme - a convivere con ogni efferatezza.
Ancora una volta la Storia dimostra che non conta l’irrealtà di una situazione quanto il fatto che chi vi è immerso la possa percepire come reale.
Come dice il sociologo americano William I. Thomas, anche i fatti immaginari - ad esempio il «complotto ebraico» da estirpare per salvare la Germania - finiscono con l’avere conseguenze reali: l’infinito sgranarsi di brutalità e crimini rievocato, senza rimorsi né dubbi, nelle intercettazioni di Soldaten, ne è la prova. Secondo lo storico Wolfram Setter furono poco più di un centinaio i casi di «Rettungswiderstand», ovvero di resistenza agli ordini finalizzata a salvare vittime. Cento su oltre 17 milioni di soldati inquadrati nella Wehrmacht nel corso dei sei anni di guerra. Tutti gli altri si adeguarono. Da volonterosi carnefici, da zelanti complici o da obbedienti comparse marciarono compatti sino in fondo al baratro. Facendo tacere ogni compassione e umanità.
Eichmann, l’aguzzino che cercò di passare da innocente pedina
Una mostra a Firenze ricostruisce la vicenda del criminale nazista che fu processato e giustiziato a Gerusalemme di Sonia Renzini (l’Unità, 08.02.2012)
Imperturbabile, nella gabbia di vetro stretto tra due guardie, con gli occhiali e le cuffie, rasato e ben vestito. No, a vederlo così Eichmann non sembra quel criminale efferato che le cronache e la storia hanno rivelato, ma ora è un uomo senza potere, sconfitto dalla storia e dalla civiltà, che cerca di difendersi di fronte a quell’umanità che ha calpestato senza né scrupoli né pudore. Per conoscerlo davvero bisogna vederlo prima, quando giovanissimo simpatizza per l’estrema destra e si iscrive al partito nazista, diventa spedizioniere della morte e nel ’42, all’apice della sua carriera, mette a punto a Wannsee la soluzione finale. Istantanee sparse, ma tasselli fondamentali per ricostruire il mosaico di una figura complessa e sondare le ragioni di quella follia.
È il momento del processo, quello in cui il mondo si interroga, portato ancora una volta, oggi come nel ’61 all’attenzione dell’opinione pubblica. Attraverso le immagini che corrono sui monitor, le foto d’archivio, articoli di giornale dell’epoca, documenti e ricostruzioni storiche, testimonianze. Una traccia indelebile della nostra memoria ripercorsa nella mostra già approdata a Berlino e a Vienna e ora, per volontà della Regione Toscana e della fondazione Museo e centro di documentazione della deportazione e Resistenza di Prato diretta da Camilla Brunelli, a Firenze, alle Murate, neanche a farlo apposta tra le mura delle ex prigioni della città (fino al 18 febbraio). Di nuovo a catalizzare l’attenzione è il tentativo di difesa del gerarca nazista di uomo qualunque che eseguiva gli ordini, e ora insinua il dubbio, fastidioso e penetrante, che tutto quello orrore fosse solo un’emanazione della normalità, semplice banalità del male, come scrisse Hannah Arendt, inviata del New Yorker. Fu veramente così?
«PICCOLO INGRANAGGIO»
Eichmann si definì un piccolo ingranaggio di una macchina, la Arendt trovò inquietante che in effetti fosse uno come tanti, ma quante volte abbiamo saputo di mostri fin troppo «perbene». Eichmann è padre di 4 figli e marito di Vera Liebl e, soprattutto, è un grande servitore dello Stato, troppo. Una mappa geografica dell’Europa mostra i suoi spostamenti per lavoro, un’agenda fittissima di viaggi compiuti per essere certo di adempiere bene il suo dovere, nel suo caso si tratta di vigilare sull’effettivo sterminio degli ebrei. Come un manager moderno non esita a precipitarsi da Vienna, dove vive, a Berlino, a Praga. Non si accontenta di starsene dietro una scrivania, lui parte, arriva, si accerta. «Ero qui e dappertutto, nessuno poteva sapere quando sarei comparso», dirà Eichmann orgoglioso nel ’57 al giornalista ex Ss Willem Sassen. Una missione più che un compito. Sempre a Sassen confiderà: «Burocrate lo fui davvero, ma a questo attento burocrate si unì un combattente fanatico per la libertà del mio sangue, al quale appartengo».
Eccoli i risultati di tanta devozione, poco più in là una serie di foto mostra i volti in bianco e nero di vecchi e bambini, in mano una valigia, a volte niente, prima e dopo essere saliti sul treno diretto ad Auschwitz, in fila o ammucchiati. A Skopie in Macedonia nel ’43, a Ioannina in Grecia nel ’44, a Hanau in Assia nel ’42, a Westerbork nei Paesi Bassi e a Ž-linain Slovacchia, a Budapest in Ungheria, ad Auschwitz. È una lista lunghissima ed Eichmann la mette a punto fin nel minimo dettaglio, attento che tutto fili come deve, senza intoppi o rallentamenti, salvo darsi alla macchia quando non c’è più niente da fare. Allora cambia nome, lavora come operaio forestale, gestisce una fattoria avicola e fugge a Buenos Aires, nel ’50, dove condurrà una vita ritirata con il nome di Ricardo Klement e sarà catturato dal servizio segreto israeliano che lo confinerà in un’aula di tribunale di Gerusalemme da cui uscirà impiccato nel ’62.
È la parte più suggestiva della mostra, la Shoah diventa una realtà, ingombrante e irremovibile, il procuratore Hausner fa sfilare i sopravvissuti uno dietro l’altro, per ricordare che tutto quanto è stato vero, anche se non sembra possibile. Hanno la voce rotta, a tratti interrotta, qualcuno sviene. Inizia il compito della storia e della memoria, si tratta di capire come tutto ciò sia potuto accadere.
Un male senza banalità
di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 27 gennaio 2012)
Per quanto strano possa sembrarci oggi, è relativamente recente la centralità della memoria dello sterminio del popolo ebraico nella coscienza occidentale. Non che non si sapesse cosa era accaduto: ne parlavano i nostri libri di scuola, ma era presentata solo come una grande tragedia fra gli innumerevoli lutti della seconda guerra mondiale. È stato necessario molto tempo perché si elaborassero in tutte le loro implicazioni l’enormità, la specificità e l’unicità del fenomeno: e anche da parte delle vittime è spesso dovuto passare il tempo necessario perché si potesse trovare la forza di raccontare ciò che appariva indicibile.
Commemorazione da un lato, istituzionalizzata nella giornata della memoria del 27 gennaio, e ricerca e riflessione dall’altro sembrano procedere spesso su binari paralleli che raramente si incontrano. Una felice eccezione è stata rappresentata quest’anno in Italia dal convegno fiorentino su Shoah, modernità e male politico che ha teso a fare il punto su acquisizioni e dibattiti più recenti della storiografia internazionale come della riflessione filosofica e sociologica sulla Shoah.
Le prime caratteristiche che emergono dal complesso dei lavori sono senza dubbio quelle dell’ampliamento e dell’approfondimento della tematica. Ampliamento geografico, in primo luogo: l’apertura degli archivi sovietici consente di includere in maniera documentata territori come quelli della Bielorussia e in parte dell’Ucraina, a pieno titolo inseriti nella fabbrica dello sterminio, come anche del collaborazionismo e delle complicità che ovunque accompagnarono il fenomeno. Viene confermata la partecipazione diretta allo sterminio della Wehrmacht e della polizia, a lungo negata o sottaciuta nell’autorappresentazione tedesca (Browning).
Cadono molti luoghi comuni, fortunati e tenaci, come quelli formulati da Hanna Arendt su Eichmann ne La banalità del male: il vertice dello sterminio non era costituito da grigi burocrati, che si limitavano ad eseguire ordini, ma era formato da personale molto qualificato e competente.
Non era la feccia della società, come ci piacerebbe credere, ma una élite di rango anche accademico: antropologi, giuristi, studiosi di scienze sociali, architetti, persone in ogni caso convinte di perseguire una missione che volevano portare fino in fondo (Collotti). Più che opportunismo, era adesione ideologica, che trovava il suo fondamento in un antisemitismo di massa che nel corso della guerra si poneva l’obiettivo di effettuare una trasfusione di sangue nel corpo dell’Europa, cambiando radicalmente la natura del continente.
Antigiudaismo di massa
Contestualizzare la Shoah è tema arduo ma inevitabile, per non farne celebrazione dai toni quasi religiosi e catartici, e include anche inevitabilmente un elemento di comparazione, largamente usata e forse anche abusata in maniera cervellotica negli ultimi vent’anni. Anche chi, fondatamente, teorizza l’unicità e al tempo stesso l’incomparabilità del fenomeno deve aver preliminarmente compiuto una comparazione che giustifichi il suo convincimento.
Le domande di fondo di una contestualizzazione sono quelle riassunte da Browning in questi termini: «Perché gli ebrei? Perché i tedeschi? Perché nel XX secolo?». Alla prima domanda forse è più facile rispondere oggi, perché sono stati ampiamente ripercorsi i sentieri di un antisemitismo e di un antigiudaismo profondamente radicati nell’Europa cristiana (Battini), di intensità diversa nelle singole fasi di questo percorso, e in grado di riaccendersi nei momenti di crisi, in cui la ricerca di un capro espiatorio dei mali della società ritrovava il suo archetipo ideale.
Meno banale e ricca di implicazioni nuove è la domanda: perché i tedeschi? Oggi può sembrarci una domanda scontata, avendo alle spalle una lunga elaborazione, che è stata anche in parte riflessione autocritica della parte migliore della società tedesca, sulla formazione storica del «carattere tedesco» (Burgio, anticipato in sintesi su questo giornale il 19 gennaio). Ma probabilmente un osservatore della fine dell’Ottocento, chiamato a pronosticare il paese che avrebbe avuto più problemi con la questione ebraica nel secolo successivo, avrebbe indicato nella Francia dell’affaire Dreyfus il luogo più critico, mentre in Germania l’integrazione ebraica appariva in via di definitivo compimento. L’intensità e la rapidità dell’affermazione di un antisemitismo di massa tra le due guerre sono tra i fenomeni più sconvolgenti dell’Europa fra le due guerre, premessa necessaria in Germania della costruzione sociale dello sterminio.
Quello che oggi appare indubbio è il coinvolgimento amplissimo e rapido della «società civile» tedesca e delle sue istituzioni portanti. Già nel 1935 sulle toghe nere dei giudici viene applicata un’aquila che regge fra gli artigli una svastica e una spada, e il ritratto di Hitler incombe nelle aule dei tribunali (Schminck-Gustavus). Una adesione così vasta da rendere problematica e sterile la «denazificazione» del secondo dopoguerra. Per la penuria dei giudici, fu istituito il principio per cui ogni giudice non iscritto al partito nazista doveva farsi affiancare da un magistrato compromesso. I risultati furono generalmente assolutori, e anche le condanne vennero in breve annullate da provvedimenti di grazia.
«Non possiamo buttare via l’acqua sporca, finché non abbiamo acqua pulita», è la frase molto significativa attribuita al cancelliere Adenauer: un problema che era indubbiamente serio (e non ignoto, peraltro, anche a noi italiani, ove si pensi che il primo presidente effettivo della Corte Costituzionale - dopo la presidenza onorifica e inaugurale di Enrico De Nicola - fu Gaetano Azzariti, che era stato anche l’ultimo presidente del Tribunale della Razza). Né le cose sembrano essere andate molto meglio nella Rdt, al di là della propaganda ufficiale, dove una rapida conversione al nuovo partito unico garantiva spesso assoluzione e continuità di carriera.
Il secolo della razza
Ma il problema tedesco ha molte altre dimensioni, e contribuisce a porre nuovi interrogativi proprio l’ultima domanda, quella relativa alla periodizzazione. Non mancano certamente i residui di una retorica sul «secolo assassino» e l’agitarsi del fantasma indistinto del «totalitarismo» onnicomprensivo, la più fortunata tra le molte approssimazioni banalizzanti di Hanna Arendt. È molto stimolante l’emergere di una periodizzazione che pone a cavallo tra Otto e Novecento il processo unificato di un racial century (1850-1945). Quel «secolo della razza» che si dipanò in strettissimo collegamento con imperialismo e colonialismo e che produsse rituali e abituali atrocità, e nel quale per la prima volta l’elemento razziale divenne non accessorio ma fondante di espansione e dominio. Da questo punto di vista, assumono un valore prima ignorato gli stermini coloniali a sfondo razziale compiuti nell’Africa Sud-occidentale tedesca, pratica nella quale, come sappiamo, i tedeschi non furono isolati nel novero delle potenze coloniali.
La logica coloniale, come quella imperialistica, è uno dei termini di inquadramento possibili, ma quello che emerge come il vero tratto comune e indispensabile di tutti gli stermini rimasti nella memoria di quello che potremmo definire «secolo lungo», è soprattutto l’elemento della guerra, incubatrice indispensabile per la costruzione sociale e culturale dei genocidi. Vale per turchi e armeni, come per giapponesi e cinesi, e per tutte le popolazioni decimate nelle guerre coloniali.
E da questo punto di vista, va ricordato che tutta l’espansione ad Est fu concepita dalla Germania come guerra di sterminio (Bartov), che i venti milioni di russi uccisi furono dal punto di vista quantitativo l’apice di questa pratica, e che l’estirpazione del popolo ebraico era parte di un progetto di ristrutturazione razziale dell’Europa, e soprattutto di quella orientale, sbocco prestabilito dello spazio vitale che la Germania riservava a sé.
Theodor Adorno, a caldo, paragonò il trauma di Auschwitz per l’umanità del XX secolo a quello che era stato il terremoto di Lisbona del 1755 per Voltaire e gli illuministi. Ma in realtà la portata dell’interrogazione prodotta dallo sterminio era molto più ampia di quella che aveva potuto coinvolgere credenti o deisti come i philosophes, perché andava oltre i termini della fede e investiva l’umanità nel suo complesso (Neuman). Da allora la coscienza occidentale non ha smesso di chiedersi come è stato possibile, e, anche, se può essere ancora possibile (Seppilli).
Colpisce che in molte relazioni, e soprattutto in quella di Zygmunt Bauman, venga richiamato l’episodio recente di Abu Ghraib nella guerra irachena degli Stati Uniti. Non certo per effettuare una comparazione impossibile o istituire un parallelismo privo di senso. Ma per osservare, come in un esperimento di laboratorio, che in clima di guerra dei tipici ordinary men, ragazze e ragazzi della porta accanto, possano trasformarsi - se dotati di potere illimitato e convinti di portare a termine una missione - in qualcosa che loro stessi avrebbero ritenuto impensabile nella loro vita normale.
Il processo
Quella mostra su Eichmann che ribalta le tesi della Arendt
Alla vigilia del Giorno della Memoria, la storia del criminale nazista in un’esposizione a Firenze
di Susanna Nierenstein (la Repubblica, 19.01.2012)
Si intitola Il processo. Eichmann a giudizio, ma potrebbe quasi chiamarsi "Processo ad Hannah Arendt" la mostra che arriva da Berlino ed è pronta ad aprirsi negli spazi delle Murate, le ex-prigioni di Firenze, il 23 gennaio (fino al 18 febbraio), quattro giorni prima del Giorno della Memoria. La visione e la lettura dei numerosi video e documenti del procedimento che iniziò l’11 aprile 1961 a Gerusalemme dopo il clamoroso rapimento da parte del Mossad, l’11 maggio 1960, del direttore del Dipartimento Affari Ebraici IV B 4 delle SS rifugiato in Argentina - dell’organizzatore prima dell’espulsione degli ebrei dalla Germania, del loro trasferimento ad Est e poi dei trasporti verso i campi di sterminio da tutta l’Europa occupata -, la lettura proposta dai curatori tedeschi, dicevamo, si differenzia infatti dalla diffusa interpretazione della filosofa tedesca che seguì (ma solo in parte!) l’avvenimento epocale nella capitale israeliana per il New Yorker e vide in Eichmann "la banalità del male". Il Male che Eichmann incarna non ha niente di "banale", come mette in luce il percorso creato dalle fondazioni berlinesi Topografia del Terrore e Memoriale degli Ebrei Assassinati in Europa, la statura di Eichmann non è affatto quella di un grigio burocrate incastrato nel motore della tirannia come una qualsiasi rotella inconsapevole e necessaria al meccanismo.
La visione della filosofa tedesca era senz’altro legata alla sua tesi sulla cappa psicologica invincibile del totalitarismo, e serviva forse a salvare dalla colpa collettiva il popolo tedesco in mezzo a cui si era formata e forse persino Heidegger, il suo maestro, che al nazismo aveva aderito. La Arendt alla fin fine così si dimostrava aperta alla tesi della difesa di Eichmann: «ho solo obbedito agli ordini, sono stato solo un dente di un ingranaggio, non sono mai stato antisemita», senza attribuire la giusta importanza né allo svelamento inedito dei testimoni, né alla personale convinzione ideologica nazista che aveva spinto lui come milioni d’altri "volenterosi carnefici" al genocidio.
Ecco invece subito nell’esposizione portata in Italia dalla Regione Toscana e, attraverso la cura di Camilla Brunelli, dalla Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Prato, le tappe della sua biografia: legato fin da giovanissimo alla destra austriaca che chiedeva l’annessione alla Germania e si nutriva di antisemitismo, presente nell’estremismo militante, lettore attento fin dalla fine degli anni Venti di giornali nazional-socialisti, parte di quel misero 3% che nel ’30 in Austria votò per il partito nazista a cui aderisce definitivamente nel ’32. Nel Reich dal ’33, all’indomani della vittoria di Hitler, Eichmann riceve una formazione paramilitare nelle SS e nel ’34 entra nel Servizio di Sicurezza del Reichfuehrer Himmler, e ben presto con gradi sempre più alti nell’unità "Affari ebraici", dedita a forzare gli ebrei a lasciare la Germania.
Alla conferenza di Wansee del ’42 che mise a punto il piano della "soluzione finale" fu uno degli organizzatori (e lì, lo vediamo dire in tribunale, si sentì sollevato come Ponzio Pilato perché erano stati "i protagonisti, i papi del Reich" a decidere, anche se era lui stesso a prospettare le soluzioni possibili). Himmler lo definì "lo specialista" quando nel ’44 lo chiamò come sempre a deportare velocemente mezzo milione di ebrei ungheresi ad Auschwitz, un "maestro" della spoliazione, dell’emigrazione forzata, e ben presto del trasferimento nei lager. Persino nella sua deposizione nel ’61 in Israele Eichmann chiama gli ebrei "parassiti".
Cosa ci vide di "banale" Hannah Arendt? La sua intuizione, o la sua forzatura, che tanto ha condizionato la riflessione sulla Shoah come di un evento fatale perpetrato da uomini senza volto, non funziona (fu l’autorevole Raul Hilberg a dirlo per primo, seguito ben presto tanti altri storici): una mappa mostra gli infiniti spostamenti di Eichmann in tutti i luoghi caldi dello sterminio, la storiografia più recente riportata in catalogo in bel saggio di Gerhard Paul ne certifica le continue iniziative, la partecipazione attiva alla macchina della morte, la conoscenza esatta di quel che stava avvenendo, l’antisemitismo convinto (il comandante di Auschwitz Rudolf Hoess l’aveva definito "ossessionato dalla questione ebraica"). Un quadro confermato anche dall’intervista data nel 1957 da Eichmann a Willem Sassen, un giornalista ex SS (in Italia nel ’61 la pubblicò Epoca).
Ma la mostra, che dedica una parte curata da Valerie Galimi alla ricezione del processo in Italia e alla Shoah italiana anche con la registrazione inedita della deposizione in aula di Hulda Campagnano, unica testimone nata nella penisola, non si occupa solo della colpevolezza di Eichmann. Nell’esposizione si affrontano tutte le tappe e gli uomini del processo, le battaglie legali, i capi d’imputazione, la volontà del procuratore generale Hausner di farne un evento che documentasse ogni fase e aspetto della persecuzione dal ’33 al ’45 (come ricorda David Cesarani in catalogo), attraverso gli uomini e le donne che l’avevano vissuta, per dare ai fatti, a differenza di Norimberga che aveva usato soprattutto documenti scritti, una dimensione umana e un impatto drammatico.
Il processo fu trasmesso da tutte le radio e le televisioni del mondo. La Shoah uscì dalla sua aura fantasmica e divenne volti, lacrime, svenimenti, racconti puntuali. Per la costruzione della memoria nacque una nuova era, quella del testimone, delle voci che non si possono più cancellare, un rapporto vivente che parlava anche agli stessi giovani di Israele ponendo fine al silenzio che aveva circondato i sopravvissuti, ridandogli un’identità fondamentale, come spiega assai bene il saggio di Annette Wieviorka in catalogo. Sono parole e sguardi che potremmo ascoltare e vedere in parte nella mostra. Ed è importante ora che i testimoni se ne stanno andando. Deborah Lipstadt, vinta la causa contro lo storico negazionista Irving, ha scritto un libro proprio sul processo ad Eichmann. Perché? le è stato chiesto. Perché il negazionismo non è affatto scomparso e nel mondo arabo va per la maggiore, ha risposto, perché i testimoni sono fondamentali, perché bisogna ascoltare chi minaccia un popolo di sterminio: le parole deliranti del ’33 divennero fatti.
Eichmann fu condannato il 15 dicembre 1961, giustiziato a mezzanotte del 31 maggio 1962, cinquanta anni fa esatti. Il suo corpo fu cremato in un luogo segreto e le sue ceneri disperse nel Mediterraneo.
Due bicchieri di cognac per brindare alla soluzione finale
Settanta anni fa a Wannsee la Conferenza dei capi nazisti che decise lo sterminio della popolazione ebraica
VOLONTEROSI CARNEFICI. S’erano resi conto che il lavoro non poteva essere condotto con mezzi convenzionali
I PRIMI TENTATIVI A bordo di camion, per verificare se si potevano ottimizzare le procedure con l’uso dei gas
di Walter Barberis (La Stampa, 18.01.2012)
I volti scarni e i corpi macilenti delle poche migliaia di superstiti che si presentarono allo sguardo sbalordito dei soldati dell’Armata rossa il 27 gennaio 1945, ai cancelli del campo di Auschwitz finalmente liberato, erano ciò che restava dei milioni di vittime passate dalle camere a gas e incenerite nei forni crematori. L’incredibile piano di sterminio di tutti gli ebrei d’Europa aveva avuto inizio esattamente tre anni prima, il 20 gennaio 1942, a Wannsee, un ameno sobborgo di Berlino. Lì, in una casa patrizia requisita a una ricca famiglia ebrea, il principale collaboratore di Himmler, Reinhard Heydrich, aveva convocato i responsabili di tutti i dicasteri e gli uffici ritenuti utili per deliberare la cosiddetta «soluzione finale».
Era risultato chiaro fin dall’autunno del 1941 che l’eliminazione fisica degli ebrei non avrebbe potuto essere portata a termine con mezzi convenzionali. Gli Einsatzgruppen, le unità speciali affiancate all’armata tedesca che avanzava sul fronte orientale, avevano operato con solerzia, ma i massacri di intere comunità ebraiche parevano dire che ben difficilmente i nazisti avrebbero potuto raggiungere il loro fanatico obiettivo di eliminare dalla faccia della terra l’intera popolazione ebraica nei tempi ragionevoli di una guerra.
Fucilati e gettati in fosse comuni, gli ebrei sterminati si contavano a decine di migliaia; ciò voleva dire che per quanto si adoperassero con zelo feroce, le mani di quegli uomini non riuscivano a realizzare risultati numericamente soddisfacenti. E non solo: per quanto risucchiate in una dimensione di pura follia e addestrate a uccidere senza ombra di pietà donne, vecchi e bambini, quelle SS imbrattate di sangue da capo a piedi, giorno dopo giorno, non avrebbero potuto reggere i ritmi che imponevano la ricerca, il rastrellamento e l’eliminazione fisica degli ebrei insediati nelle campagne e nei centri urbani di gran parte dell’Europa. E anche se storditi dall’alcol e non di rado dalle droghe, la loro tenuta nervosa aveva pur sempre dei limiti. Era già stato accertato che dopo un paio di mesi di quella vita gli uomini perdevano il controllo, davano segni di squilibrio mentale, diventavano inefficienti, inservibili. Dunque si imponeva un’altra soluzione.
Nell’autunno del 1941, in alcune zone del governatorato polacco e nelle terre di confine dell’Unione Sovietica attaccata dai nazisti, si fecero le prime prove. Erano tentativi rudimentali, con i camion, che tendevano a capire se si potevano accelerare i tempi e ottimizzare le procedure di eliminazione con i gas. Prima con i semplici gas di scarico ricondotti nei cassoni degli automezzi stipati di ebrei, poi con l’ausilio dell’acido cianidrico, da subito valutato efficace. Quegli esperimenti suggerirono l’idea di trasformare i campi di concentramento e di lavoro allestiti per gli ebrei negli anni precedenti in campi di sterminio. Usando il gas in ambienti chiusi, capaci di contenere svariate centinaia di persone, con turni adeguatamente veloci, si sarebbero potute eliminare migliaia di persone in un solo giorno in ciascuno dei campi.
I vertici del Reich presero segretamente la decisione. Alle SS il compito di coordinare il grande sterminio con procedure industriali. Occorreva la complicità e il concorso di molte organizzazioni e di centinaia di migliaia di persone: una immensa burocrazia doveva individuare gli ebrei, catturarli, trasportarli nei campi; le industrie chimiche dovevano produrre le quantità richieste di acido cianidrico, quelle metallurgiche costruire gli inceneritori, le banche provvedere a incamerare i beni degli ebrei, le ferrovie riorganizzare i loro orari. E molto altro ancora.
Scelti accuratamente, i rappresentanti dei vari dipartimenti dello Stato tedesco vennero convocati a Wannsee. La ferrea regia di Heydrich li avrebbe dovuti informare delle decisioni e convincere della loro necessità. Ignari e sorpresi dall’annuncio, anche i più incalliti antisemiti, uomini come il generale delle SS Hofmann, o il dottor Kritzinger, rappresentante della cancelleria del Reich, e ancora il dottor Stuckart, il giurista che aveva di fatto redatto le leggi razziali del 1935, rimasero perplessi di fronte all’enormità della decisione. Abbozzarono obiezioni e soluzioni alternative. Ma la decisione era già stata presa: loro erano lì solo per ratificarla.
Heydrich, coadiuvato dal capo della Gestapo Müller e dal segretario della riunione, Adolf Eichmann, nel volgere di un’ora o poco più ridusse tutti alla più cieca obbedienza. Ora era soltanto questione di dettagli organizzativi. Sciolta la riunione fra abbondanti libagioni, Heydrich e Müller invitarono il tenente colonnello Eichmann a unirsi a loro in un brindisi: quel paio di bicchieri di cognac con i più alti gradi del potere criminale nazista rappresentarono il culmine della sua carriera. Lo avrebbe candidamente dichiarato di fronte ai giudici di Gerusalemme quindici anni dopo, al processo che lo condannò all’impiccagione per crimini contro il popolo ebraico.
Quella riunione a Wannsee aveva trasformato Eichmann in uno specialista di trasporti verso l’inferno. Il suo unico commento, rimasto solo nella villa in cui aveva organizzato l’incontro, ascoltando il finale di un quintetto di Schubert con il quale si erano deliziati i suoi superiori, fu: «Non capirò mai come si possa apprezzare questa spazzatura sentimentale viennese». Ottuso e zelante, ingranaggio fondamentale della macchina di morte, Adolf Eichmann si apprestava a diventare l’icona di quella che Hannah Arendt avrebbe definito «la banalità del male».
STORIA
Così il Reich pianificò lo sterminio degli ebrei
esiste ancora una copia del protocollo
Il documento uscito dalla riunione segreta del 20 gennaio 1942 sulla "soluzione finale" fu trovato per caso dopo la sconfitta del nazismo, fotocopiato e riprodotto in vari testi didattici, ma si pensava che l’originale non esistesse più. Invece c’è. E Welt online ha pubblicato quelle agghiaccianti 15 pagine dattiloscritte
dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI *
BERLINO - Esiste ancora una copia del protocollo della riunione segreta in cui, il 20 gennaio 1942, alti ufficiali delle SS e dignitari d’alto rango del Partito nazionalsocialista (Nsdap) e dell’amministrazione del Terzo Reich discussero e organizzarono con precisione e metodicità industriale il genocidio del popolo ebraico. Per decenni, è stato custodito come documento storico negli archivi dello Auswaertiges Amt, il ministero degli Esteri tedesco. Il documento fu trovato per caso, dopo la disfatta dell’Asse, da ufficiali delle forze armate americane, e consegnato ai giudici del processo di Norimberga, la grande istruttoria degli Alleati contro i criminali nazisti. Fu più volte fotocopiato e riprodotto in testi storici e scolastici, ma si pensava che l’originale non esistesse più. Invece eccolo qui: in quelle 15 pagine dattiloscritte ingiallite dal tempo, pubblicate da Welt online 1 (edizione digitale del quotidiano liberalconservatore vicino al governo Merkel) oggi tutti, soprattutto i giovani, possono ritrovare la prova schiacciante della Shoah. E’ l’ennesima smentita ai negazionisti, ai nostalgici e agli storici revisionisti che spudoratamente affermano che l’Olocausto sarebbe stato inventato a posteriori dai vincitori della seconda guerra mondiale (Usa, Regno Unito, Urss, la Polonia del governo in esilio a Londra, la Francia libera di De Gaulle e i molti Paesi e movimenti di resistenza loro alleati). Nossignore: tutto vero, confermato ancora una volta dalla lettura di quell’agghiacciante documento.
FOTO LE 15 PAGINE DEL PROTOCOLLO 2
Era il freddo 20 gennaio 1942 quando un gruppo di alti responsabili nazisti si riunirono in una bella, lussuosa villa nel quartiere elegante di Wannsee, nell’area sudovest di Berlino. "Geheime Reichsache!", cioè "top secret del Reich", dice il timbro in rosso in cima al documento. L’idea di redigere il protocollo della riunione e di stamparne trenta copie venne ad Adolf Eichmann, l’alto ufficiale delle SS che fu poi il progettista-ingegnere dell’esecuzione dell’Olocausto nei minimi dettagli anche tecnici, dal numero di treni-bestiame piombati alla cadenza delle esecuzioni di massa quotidiane col gas Zyklone-B in dosi ben calcolate prodotto dalla diligente, moderna azienda IG Farben, con colpi alla nuca, con criminali esperimenti "medici" in cui i deportati erano cavie destinate alla morte, fino alla "sinergia" con governi e polizie collaborazioniste esistenti ovunque tranne che in Polonia nell’Europa occupata dall’Asse.
Già alla riga tre del documento, come si vede nelle immagini, una piccola frase chiarisce di cosa si trattava in quell’incontro al Wannsee: "die Endloesung der Judenfrage", cioè "la soluzione finale del problema ebraico", in esecuzione degli ordini del Fuehrer Adolf Hitler e del vertice della tirannide, a cominciare dallo spietato, sadico capo delle SS, Heinrich Himmler. Il testo del protocollo, redatto da Eichmann, parla chiaramente di "evacuazione verso l’Est". Annotazioni d’accompagno scritte dal suo stretto collaboratore Reinhard Heydrich spiegano che si tratta "dell’esecuzione pratica della soluzione finale del problema ebraico".
Il protocollo su ordine di Eichmann fu dattiloscritto in trenta copie. Più tardi però, quando fu loro chiaro che la guerra da loro scatenata si sarebbe conclusa con la disfatta tedesca, i gerarchi nazisti, le SS, la Gestapo, tutti i singoli personaggi e istituzioni che ne avevano una copia, la distrussero. In marzo e aprile del 1945, il regime eliminò migliaia di documenti che contenevano le prove dei crimini contro l’umanità, in una corsa contro il tempo contro gli Alleati vittoriosi: a Ovest gli angloamericani di Patton, Eisenhower, Bradley e Montgomery, a est l’Armata rossa guidata dai marescialli Zhukov e Rokossovskij, le unità militari dell’Armia Krajowa polacca comandata dal governo in esilio a Londra e le divisioni polacche nelle forze armate sovietiche.
Distrussero tutte le copie, tranne una, la numero sedici. Sembra che un funzionario del ministero degli Esteri, convinto nazista, e giudicato anche rozzo e corrotto, Martin Luther, riuscì a conservarla nel sogno di compromettere il suo ministro, Joachim von Ribbentrop. SS e Gestapo scoprirono i piani di Luther, che fu internato a Sachsenhausen. Ma nessuno distrusse la copia. Che restò negli archivi sotterranei del ministero. Dopo la disfatta del "Reich millenario", i sovietici che avevano preso Berlino, setacciarono insieme a inquirenti Usa, britannici e francesi ogni archivio delle istituzioni naziste. Così quel protocollo finì in mano a Robert Kempner, un esule antinazista tedesco divenuto cittadino e ufficiale americano. Kempner non volle credere ai suoi occhi, e la trasmise subito a Telford Taylor, il giudice americano capo della Corte alleata che giudicò i capi del regime nazista a Norimberga. "Oh Dio, ma è un documento vero?", disse il giudice Taylor sotto shock, poi lo esaminò subito coi colleghi britannico, sovietico e francese.
Il processo di Norimberga si concluse con numerose condanne a morte. Alcuni dei capi del nazismo, come Hermann Goering, si suicidarono. Degli estensori del protocollo, uno era già caduto vittima dei suoi crimini, l’altro avrebbe reso conto più tardi al mondo del suo ruolo. Reinhard Heydrich fu il sadico governatore di Praga occupata, ogni giorno faceva affiggere nelle strade manifesti con le foto dei resistenti o dei sospetti assassinati. Un commando suicida della resistenza cecoslovacca si assunse l’incarico: si fece addestrare nel Regno Unito dalle truppe speciali britanniche, poi fu paracadutato presso Praga da aerei per missioni segrete della Royal Air Force. Uccisero Heydrich in un attentato, poi si tolsero la vita per non cadere prigionieri e non parlare sotto tortura.
Eichmann era fuggito in Argentina, ma il Mossad, l’efficientissimo servizio segreto dello Stato d’Israele intanto sorto, lo scovò, e in una straordinaria missione lo rapì e lo portò in Israele con un quadrimotore DC 4 cargo con false registrazioni di volo trasporto merci. Al processo a Gerusalemme Eichmann ammise freddo ogni colpa, senza mostrare alcun pentimento. Fu condannato a morte e impiccato. Ma la caccia agli ultimi criminali nazisti continua, guidata da Efraim Zuroff al Centro Simon Wiesenthal con la collaborazione dei servizi americani, israeliani, tedeschi e di altri Paesi. Quelle pagine ingiallite con il piano del più orrido crimine della Storia incoraggiano a ricordare, e a non smettere di ricercarli.
Maestri del Novecento
Kojève: perché obbediamo al Capo
“La nozione di autorità” (1942) del filosofo russo, proposto da Adelphi, aiuta a capire le crisi politiche di oggi, da Obama a B.
di Andrea Tagliapietra (il Fatto Saturno, 4.11.2011)
SE AL GIORNO d’oggi, come recita la sempreverde battuta di Woody Allen, “Dio è morto, Marx è morto e anch’io non mi sento tanto bene”, non c’è da meravigliarsi che la nozione di “autorità” ci appaia come un oggetto misterioso, che viene spesso confuso con il “potere” e finanche con la “legalità” dell’esercizio della forza da parte dello Stato, nonché con le pratiche retoriche persuasive che garantiscono ai governanti la conservazione del potere nel tempo. Infatti, la riflessione filosofico-politica sembra privilegiare un taglio genealogico, spiegandoci come l’autorità sorge e si trasmette, o analitico-descrittivo, isolando colui che la esercita e le sue qualità, ma non ne tematizza quasi mai l’essenza. Compito che viene svolto, invece, con iconica chiarezza, da Alexandre Kojève in un libro che, redatto nel 1942, come molti lavori del filosofo franco-russo giacerà a lungo in un cassetto, inedito, vedendo la luce in Francia solo nel 2004.
La nozione di autorità ci viene proposto oggi dai tipi di Adelphi per la cura di Marco Filoni che, oltre ad accompagnare il testo con una pregevole postfazione, ha il merito di rendere nella nostra lingua la splendida sobrietà della scrittura di Kojève, che traspone l’hegeliana fatica del concetto, giocata in chiaroscuro sui limiti espressivi del tedesco, nella prosa geometrica e cristallina di Cartesio, dove, al contrario, tutto sembra essere dicibile con la massima efficacia e rigore.
Ad Hegel, del resto, e alle ormai mitiche lezioni sulla Fenomenologia dello spirito, tenute da Kojève all’Ecole pratique des hautes études di Parigi dal 1933 al 1939, vera officina segreta del pensiero, non solo francese, del Novecento, rinvia anche il libro sull’autorità, perché è indubbiamente hegeliana la scoperta della sua essenza dialettica.
L’autorità, spiega Kojève, è una forma di relazione attiva, anzi di azione e reazione, dove il tratto decisivo, che la distingue dal potere, dalla forza e dalla violenza, è dato dalla rinuncia libera, cosciente e volontaria all’opposizione e alla resistenza di chi le si sottomette. Non si può, quindi, comprendere l’autorità senza adottare il pensiero intrinsecamente sociale e storico della dialettica del reale. Per capire l’autorità bisogna descrivere non soltanto chi la detiene (infatti le teorie analitico-descrittive dell’autorità mancano il bersaglio), ma soprattutto coloro che la riconoscono.
Chiarita l’essenza dell’autorità Kojève passa a distinguerne le quattro forme “semplici, pure o elementari” in corrispondenza con quattro capitali prestazioni teoriche del canone filosofico occidentale: la dottrina di Platone, che viene esemplificata dal “personaggio concettuale” del Giudice, che guarda all’autorità nello specchio eterno della giustizia; quella di Aristotele, espressa nella figura del Capo, che proietta l’autorità nel futuro del progetto (spesso rivoluzionario); quella detta genericamente teologico-scolastica, incarnata nella persona del Padre, che custodisce l’autorità nel passato ereditario e causale della tradizione e, infine, quella di Hegel, che si estrinseca nel ruolo del Signore, che afferma l’autorità nella tirannide esecutiva del presente.
A partire da questo cristallo teorico, di rara trasparenza malgrado i continui richiami alla natura sommaria del suo lavoro, Kojève sviluppa prima un’analisi fenomenologica, metafisica e ontologica delle forme pure e/o miste, ossia combinate, con cui l’autorità si dà storicamente , e poi una serie di deduzioni che ne prendono in esame le applicazioni politiche, morali e psicologiche. Intessuta nell’esposizione, una filosofia della storia della nozione di autorità rimarca il senso decisivo della crisi e dell’eclisse moderna dell’autorità del Padre - è il tramonto della teologia politica, ma anche della forma più diffusa con cui l’autorità si dà nel mondo della vita, quella del “padre di famiglia”, ossia dei genitori nei confronti dei figli - che rende difficile ricomporre le altre tre forme di autorità in un’unità organica, che si intravede appena nella teoria della separazione dei poteri giudiziario (Giudice), esecutivo (Signore) e legislativo (Capo).
Una divisione che sempre più spesso è un aperto conflitto, ossia, come insegnano vuoi le miserevoli cronache italiane, vuoi le notizie dei continui scontri tra Obama e il Congresso che ci giungono dall’altra sponda dell’Atlantico, tutt’altro che un esempio d’autorità. Non abbiamo qui lo spazio per seguire Kojève nella sua vertiginosa ars combinatoria dialettica: un esercizio di stile che riduce sapientemente a poche precise definizioni intere sezioni della storia politica occidentale e della corrispondente speculazione teorica. Del resto, come già osservava lapidario Jacob Taubes a proposito del modo geniale e aristocratico di trattare i problemi da parte del nostro filosofo, «alcuni scrivono libri interi su ciò che Kojève risolve, con eleganza, in una nota».
Alexandre Kojève, La nozione di autorità, a cura di Marco Filoni, Adelphi, pagg. 145, • 29,00
Le polemiche sulla Arendt a 50 anni dal caso Eichmann
L’11 aprile 1961 cominciava lo storico processo che portò alla "banalità del male"
di Michela Marzano (la Repubblica, 11.04.2011)
A cinquant’anni di distanza dal processo di Adolf Eichmann, la nozione di "banalità del male" teorizzata da Hannah Arendt ha ancora un senso? L’11 aprile 1961 comincia a Gerusalemme uno dei processi più spettacolari del Ventesimo secolo, quello dell’uomo che, durante il regime nazista, aveva coordinato l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i campi di concentramento e di sterminio. L’annuncio della cattura e del processo di uno dei principali attori della soluzione finale riapre un capitolo rimasto ancora in sospeso dopo Norimberga e attira l’attenzione e la curiosità di tutti coloro che, più o meno deliberatamente, cercano di dimenticare gli orrori della Seconda Guerra mondiale.
Che cosa aveva potuto spingere un alto funzionario a mettersi al servizio di un progetto folle e scellerato? Si trattava di un "mostro" o di un "uomo qualunque"? Due anni dopo Hannah Arendt pubblica il proprio resoconto del processo e formula, per la prima volta, un’ipotesi scabrosa: Eichmann non è un "mostro"; chiunque di noi, in determinate condizioni, può commettere atti mostruosi. Ma si può osare parlare della Shoah evocando, anche solo come ipotesi teorica, l’idea che il male possa essere banale?
A Parigi, la Fondation pour la Mémoire de la Shoah celebra in questi giorni il cinquantesimo anniversario del processo e organizza una serie di dibattiti e una mostra imponente: dall’8 aprile al 28 settembre il pubblico può avere accesso a molti documenti inediti, estratti di film, registrazioni e fotografie del processo. A Washington, il Center for Advanced Holocaust Studies ospiterà a maggio un convegno internazionale con la partecipazione della storica Deborah Lipstadt che critica aspramente, nel suo recentissimo The Eichman Trial, la posizione della Arendt. Dopo David Cesarani e Saul Friedländer, che contestano l’idea che la sola "macchina burocratica" abbia potuto portare avanti lo sterminio, la Lipstadt mette in discussione il concetto di "banalità del male". Banalizzare il male contribuirebbe solo ad "assolvere" la cultura europea dalla colpa di antisemitismo. Ma di quale banalità stiamo parlando? Hannah Arendt non voleva assolvere nessuno. Non intendeva fornire alcuna spiegazione storica della catastrofe nazista. Cercava una chiave di lettura antropologica e filosofica dell’azione umana. Della cattiveria. Dell’incapacità di rendersi conto del male compiuto...
Durante il processo, Eichmann non smise mai di proclamare la propria innocenza, spiegando come nella sua vita non avesse fatto altro che ubbidire agli ordini, rispettato le leggi e fatto il proprio dovere. «Le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso», scrisse allora Arendt per spiegare l’inspiegabile. Esiste una "banalità del male" che non si può non prendere in considerazione se si vuole evitare di ricadere nella spirale infernale dei genocidi. Non certo perché il male, in sé, sia banale. Né perché coloro che lo compiono possano essere ritenuti banali. Ma perché tutti possiamo fare il male, talvolta senza rendercene conto, anche se non siamo né sadici né mostruosi. Non si tratta di negare che la perversione esista e che alcune persone provino una jouissance particolare nel far soffrire gli altri. Si tratta piuttosto di spiegare che il bene e il male non sono separati da una barriera invalicabile. Anche se la barriera esiste sempre, superarla è molto più facile di quanto non si possa immaginare.
Nessuno di noi è al riparo dalla barbarie. Nessuno può sapere come si sarebbe comportato o come si comporterebbe in circostanze particolari. Anzi, tutti possiamo "banalmente" fare il male, perché barbarie e civiltà convivono in ogni essere umano. La cieca obbedienza al dovere può indurre chiunque ad agire senza riflettere. E quando si smette di pensare, non si è più capaci di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il concetto di banalità del male non è dunque né un semplice slogan, come commentò Gershom Scholem al momento dell’uscita del libro di H. Arendt, né un modo per minimizzare quello che la stessa filosofa tedesca considerava la "più grande tragedia del secolo".
Al contrario. È forse l’unica possibilità per spiegare la radicalità del male umano: radicale proprio perché banale; radicale perché tutti possono farlo, talvolta banalmente, anche se alcune persone scelgono di non farlo. Non è difficile capire perché si faccia il male. La vera difficoltà è altrove: come si fa a fare il bene, quando è così facile scivolare nella barbarie, quando basta lasciarsi andare al flusso delle pulsioni per dimenticare la nostra comune umanità?
Il burocrate dell’orrore che portava gli ebrei nei lager
Dopo 50 anni, Berlino ricorda il processo al nazista Eichmann
di Laura Lucchini (il Fatto, 07.04.2011)
I numeri dei deportati erano indicati su un grafico dietro alla sua scrivania. “Ne è certo?” chiede il pubblico ministero israeliano Gideon Hausner. “Sì”, risponde Adolf Eichmann. “Quindi intende dire che la sua sezione sapeva con assoluta esattezza quante persone stavate deportando e quale era la loro destinazione?”. “Sì, lo sapeva. Era mio compito informare al riguardo i miei superiori”.
La condanna a Gerusalemme
QUESTO STRALCIO dell’interrogatorio di Adolf Eichmann è un momento fondamentale del processo contro uno dei principali responsabili dell’Olocausto celebrato a Gerusalemme nell’aprile del 1961, cioè 50 anni fa. La registrazione completa dell’interrogatorio fa parte della mostra Il processo: Adolf Eichmann davanti al tribunale inaugurata l’altro ieri a Berlino per ricordare questo giudizio-chiave nella ricostruzione dell’orrore nazista e della persecuzione d icui furono oggetto gli ebrei da parte del Terzo Reich. Eichmann, che dopo essere stato condannato alla pena capitale dal tribunaledi Gerusalemme fu impiccato nel 1962,fu un ingranaggio decisivo della macchina che rese possibile l’eliminazione sistematica di sei milioni di ebrei.
Nato a Solingen nel 1906 era stato, in particolare, il responsabile del traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei nei campi di sterminio. Prese parte a tutte le fasi della cosiddetta soluzione finale con la quale Hitler e i suoi accoliti pianificarono l’annientamento definitivo e totale degli ebrei in Germania e poi nei paesi occupati. Dalla Conferenza di Wannsee del gennaio 1942 fino alla organizzazione dei treni diretti ad Auschwitz, tutta la parte burocratica dello sterminio passò per le mani di questo uomo che finì per diventare l’esempio perfetto ed emblematico del funzionario nazista che si limitava ad eseguire gli ordini.
Il suo ruolo e la sua psicologia furono analizzati in un celebre libro della filosofa Hannah Arendt, La banalità del male. Qui la Arendt sostiene la tesi secondo cui il male può anche non avere radici, non avere memoria e proprio per questo - cioè per l’assenza di un dialogo “morale” - uomini apparentemente banali possono trasformarsi in autentici agenti del male.
Gabriel Bach, il pubblico ministero israeliano che nel 1961, insieme a Gideon Hausner, sostenne l’accusa contro il criminale nazista, l’altro ieri era presente all’inaugurazione della mostra presso il centro di documentazione berlinese Topografia del Terrore. Gabriel Bach, oggi ottantaquattrenne, seduto in prima fila durante la conferenza stampa, aveva con sè una cartella.
Alla fine della conferenza stampa ne ha svelato il contenuto: foto, stampe originali dell’aula del tribunale, immagini che lo ritraggono in prima fila con Adolf Eichmann a pochi metri di distanza, seduto dietro un vetro con due poliziotti a fianco. “Cosa ricordo di più di quel processo? Forse il mio primo incontro con Eichmann. Avevo appena terminato di leggere un libro nel quale si descriveva con quanta crudeltà assassinava i bambini nei campi di concentramento. Gliene parlai. Mi rispose che se ci si è posti l’obiettivo di eliminare una razza, allora bisogna eliminare tutte le generazioni, bambini compresi. Da un punto di vista logico il suo ragionamento non faceva una piega”. Il processo fu possibile grazie a un’azione oggetto di molte polemiche e controversie. Il burocrate nazista nel 1950 era riuscito a fuggire in Argentina: lavorava in una fabbrica della Mercedes Benz nelle provincia di Buenos Aires quando fu sequestrato dal Mossad, trasferito clandestinamente in Israele e processato.
Fu il primo processo contro un criminale nazista celebrato in Israele e si concluse con la condanna a morte di Adolf Eichmann. Al processo potè assistere tutto il mondo in quanto fu filmato e trasmesso per televisione (la relativa documentazione fa parte della mostra di Berlino). Molti, tra i quali la stessa Hannah Arendt, cittadina americana ma di origine tedesca e di religione ebraica, condannarono il tribunale per la sua mancanza di imparzialità.
Assassinare bambini senza provare nulla
“È UN’ACCUSA ridicola”, ha detto l’altro ieri Gabriel Bach. “La sentenza poggiava su prove incontestabili e in nessun momento del procedimento si ebbe la sensazione che la sentenza fosse già stata scritta e che già si sapeva come sarebbe andata a finire”. Quanto ad Hannah Arendt, Gabriel Bach ha ricordato che “prima del processo mi avevano avvertito che dagli Stati Uniti sarebbe arrivata una filosofa per scrivere un libro contro il processo. Come a dire che si sapeva già da prima quale era la sua posizione”.
La mostra di Berlino,che rimarrà aperta fino a settembre, raccoglie tutta una serie di testimonianze dei protagonisti del processo e i filmati degli interrogatori più significativi oltre al materiale messo a disposizione dai mass media di tutto il mondo che all’epoca seguirono il dibattimento. La mostra organizzerà fino a settembre diversi incontri con esperti e testimoni diretti dell’Olocausto.
Copyright El Paìs; traduzione Carlo Antonio Biscotto
IL CASO
Caso Eichmann, Arendt imputata?
di Vito Punzi (Avvenire, 1 aprile 2011)
Con la ricorrenza, il prossimo 11 aprile, dei cinquant’anni dall’inizio a Gerusalemme del processo ad Adolf Eichmann, l’organizzatore a livello burocratico dello sterminio degli ebrei europei da parte dei nazisti, la storica americana Deborah Lipstadt ha appena pubblicato un libro (The Eichmann Trial, Nextbook/Schocken) con l’intento di ricostruire le fasi del processo, mettendo in discussione i giudizi espressi da Hannah Arendt con gli articoli scritti all’epoca, da inviata, per "The New Yorker" e poi raccolti nel volume Eichmann a Gerusalemme (1963).
La Lipstadt, pur riservando alla filosofa un solo capitolo del libro, lancia nei suoi confronti accuse molto dure, tanto da far sembrare il suo un vero e proprio "processo ad Hannah Arendt". La storica ne critica in particolare la definizione di Eichmann come semplice "burocrate" e come uomo "terribilmente normale" (e lo descrive piuttosto come «uomo colto che sposò l’idea della causa razziale»). Le accuse più gravi, accompagnate da giudizi piuttosto gratuiti sulla persona (la Arendt sarebbe stata "frivola" e "crudele"), sono tuttavia quelle di aver minimizzato l’antisemitismo, fino ad assolverlo nei fatti, e di non essere stata una convinta sionista.
Le critiche della Lipstadt in realtà non sono nuove e tuttavia meritano un approfondimento. La posizione della Arendt rispetto alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina è stata chiara fin dal 1940, quando ancora si trovava in Francia a fianco di un convinto sionista come Erich Cohn-Bendit: secondo lei quella soluzione, il "sogno" di Theodor Herzl, non avrebbe risolto il problema delle minoranze ebraiche in Europa. Di fronte alla minaccia delle deportazioni, meglio sarebbe stata, una volta sconfitto il nazismo, la creazione di un’unione di Stati al cui interno gli ebrei potessero godere del riconoscimento di minoranza nazionale e di una rappresentanza in un Parlamento europeo.
Giunta negli Usa nel 1941, alla Arendt venne affidata su "Aufbau", un giornale per gli esuli ebrei di lingua tedesca, una rubrica per trattare questioni attinenti la politica ebraica: evidentemente per stima, ma anche perché, come ha scritto opportunamente la studiosa arendtiana Antonia Grunenberg, «intellettuale sionista alquanto dotata, energica e bellicosa». Certo è che dopo aver preso le distanze, nel 1942, dalla "Conferenza Biltmore", con la quale si chiedeva la costituzione di uno Stato israeliano con minoranza araba, la sua posizione fu sempre più isolata. E a poco servì la creazione del "Gruppo dei giovani ebrei", insieme a Josef Mair, anche perché lotte e rancori all’interno del movimento sionista erano allora all’ordine del giorno: non a caso la Arendt e Mair si rivolsero polemicamente «a tutti coloro che sanno che la lotta per la libertà non può essere guidata né da notabili né da rivoluzionari internazionali».
Negli ’47 e ’48 la filosofa conobbe Judah Magnes, «leggendario capo sionista» (così Grunenberg), già rettore dell’Università Ebraica di Gerusalemme e propugnatore di una federazione arabo-israeliana. Condividendo con lui la critica all’establishment sionista, la Arendt lavorò come sua intermediaria e persona di fiducia negli Usa. Insomma è davvero difficile condividere il giudizio di Gershom Scholem, fatto proprio dalla Lipstadt, per cui la filosofa «mancava di amore per il popolo ebraico». Quanto ad Eichmann, le questioni gravi messe in luce dalla Arendt furono due: il ruolo dell’accusato in relazione agli eventi e il giudizio che si dovesse dare sull’operato degli stessi ebrei e sulla politica delle loro organizzazioni durante le fasi attuazione dello sterminio.
I suoi articoli provocarono subito critiche durissime da parte dell’intera comunità ebraica (le stesse riprese oggi dalla Lipstadt nel suo libro). Con la definizione di "banalità del male", secondo i suoi critici, avrebbe mirato alla banalizzazione del crimine. In realtà, come essa stessa scrisse rispondendo a Scholem che l’accusò di aver creato uno "slogan", secondo la Arendt «il male è sempre e solo estremo, non "radicale", e le motivazioni che spingono al male non vanno ricercate sul piano del profondo e del demoniaco. Esso può invadere tutto e devastare il mondo intero, precisamente perché si propaga in superficie come un fungo. Solo il bene ha profondità e può essere radicale».
In questo senso l’aver fatto di Eichmann un "mostro", l’averlo posto sul banco degli imputati con intenti che non erano solo giuridici (affrancare il popolo ebraico dal ruolo di vittima), per la Arendt rappresentò una commistione non salutare tra politica e giustizia. La storia potrebbe anche averle dato torto, ma da qui a dire, come fa ora la Lipstadt - non storica ma polemista -, che la filosofa ha fornito allora «una versione dell’Olocausto in cui l’antisemitismo ha un ruolo minoritario», ce ne corre.
Vito Punzi
Eichmann. Riemerge lo scontro sull’esecuzione *
Nel giorno in cui Israele ripropone, in dichiarazioni del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, il volto dell’intransigenza, sul riconoscimento di uno Stato palestinese, dagli Archivi di Stato emerge un’anima ebrea travagliata e combattuta: documenti ora pubblicati rivelano che l’impiccagione nel 1962 del gerarca nazista Adolf Eichman fu al centro di un dibattito nazionale, fuori e dentro il governo dell’allora premier Ben Gurion, sull’opportunità o meno di eseguire la condanna a morte pronunciata nel 1961.
Eichmann, rintracciato nel 1960 dal Mossad in Argentina, dove si era rifugiato nel ’50 con falsi documenti rilasciatigli in Italia, fu catturato con azione da commando e fu portato in Israele per esservi processato, condannato, giustiziato. La pubblicazione su internet di molti documenti originali da parte degli Archivi di Stato israeliani avviene nell’imminenza del 50° anniversario dell’apertura del processo, l’11 aprile 1961.
I testi gettano squarci di luce sulle circostanze della cattura, del giudizio, della condanna e dell’esecuzione di uno dei responsabili dell’organizzazione della cosiddetta “soluzione finale” della questione ebraica, verso la fine della Seconda Guerra Mondiale. Eichmann, che era un ufficiale delle Ss, organizzò i convogli ferroviari che trasportarono ebrei ed altri deportati verso i campi di sterminio.
Il processo ad Eichmann “resta - afferma la direzione degli Archivi - una pietra miliare nella storia di Israele e nell’atteggiamento degli israeliani sull’Olocausto”. I testi riguardano anche le ripercussioni diplomatiche dell’irrituale arresto e l’atteggiamento del governo di Ben Gurion sulla copertura mediatica dell’evento, la condanna e l’esecuzione.
Proprio all’approssimarsi dell’esecuzione si aprì un dibattito persino aspro sulla opportunità di mettere, o meno, a morte Eichmann. Dirigenti politici come Levy Eshkol e Yosef Burg, filosofi come Martin Buber e Natan Rothenstreich e la “poetessa nazionale” Lea Goldberg erano contrari: gli intellettuali, in extremis, chiesero un atto di clemenza al capo dello Stato Yitzhak Ben Zvi, ma prevalse la linea dell’intransigenza del premier Ben Gurion: Eichman fu impiccato il 31 maggio 1962 e le sue ceneri furono disperse in mare. (g. g.)
* il Fatto Quotidiano, 05.04.2011
COSA PUBBLICA
di Mario Pezzella (il manifesto, 01.10.2010)
La rilettura della filosofia di Hannah Arendt da parte dello studioso Miguel Abensour * consente di mettere a fuoco una visione dell’agire politico che non ha lo scopo di edificare una «buona società», ma l’affermazione della libertà dei singoli
Ricostruendo il suo cammino intellettuale, nell’ultimo libro Pour une Philosophie politique critique, Abensour ricorda quanto decisivo sia stato il suo confronto con l’opera di Hannah Arendt: «Dovevo approfondire la questione così nuova della natalità, prendere le misure dell’antiplatonismo della Arendt e valutare ciò che significava il gesto, a prima vista sconcertante, che consisteva nell’andare a cercare la filosofia politica di Kant nella Critica del giudizio».
Abensour aveva negli Settanta approvato la rinascita della «filosofia politica», come antidoto a una concezione sociologica o economicista dell’azione storica; successivamente, egli non ha condiviso la sua trasformazione in disciplina accademica e il tentativo di giustificare la concezione liberale e parlamentare della democrazia come l’unica pensabile e possibile. Lo studio della Arendt gli permette di elaborare il suo pensiero, di giungere prima a una «critica della filosofia politica», e poi - in positivo - a una filosofia politica critica. La Arendt, così riletta da Abensour, appare come la pensatrice di una moltitudine insorgente e radicale, critica verso ogni forma di democrazia formale e spettacolare, pronta a opporre il suo momento istituente e creativo a quello inerte e costituito dello Stato.
Dentro la caverna di Platone
In questa prospettiva, il termine stesso di «filosofia politica» è paradossale, quasi un tentativo di unire due concetti di per sé contraddittori. Filosofia e politica non appartengono piuttosto a tradizioni differenti e alternative? Secondo la Arendt «la filosofia politica avrebbe innanzitutto il torto di essere il frutto dello spirito corporativo dei filosofi. Oggetto della ricerca non sarebbe più la questione della città, della città buona, ma il rapporto del filosofo alla città. Alla domanda sul regime politico migliore si sostituirebbe la ricerca del regime capace di proteggere il filosofo dalle passioni della moltitudine». La Arendt, come è noto, amava definirsi uno «scrittore politico», nella linea di Machiavelli, Montesquieu e Tocqueville: questi avrebbero esaltato l’elemento irriducibile della pluralità, del conflitto e della moltitudine nella storia, mentre i filosofi avrebbero piuttosto cercato di ricondurre i molti all’Uno, la contraddizione alla quiete, il molteplice a una codificazione istituita e immutabile.
Questa critica è ben visibile - secondo Abensour - nell’analisi dedicata dalla Arendt al mito della caverna di Platone, che è insieme una ripresa e una critica della lettura heideggeriana del noto testo della Repubblica. Gli uomini incatenati nella caverna danno un’immagine totalmente negativa della vita pubblica e della polis; ad essi il filosofo, illuminato dalla visione delle Idee, dovrebbe portare ordinamento e armonia. Ma il tentativo non finisce troppo bene, secondo la Arendt: perché in realtà i disgraziati e recalcitranti cittadini proprio non ne vogliono sapere di essere illuminati dall’alto di un’autorità estranea e non condivisa. Come già aveva scritto Heidegger, è perfino prevedibile una lotta mortale tra il «liberatore» e i prigionieri che non vogliono saperne di essere liberati.
Il potere della polis
L’immagine della caverna e dei prigionieri suppone dunque un’immagine negativa dell’agire politico, a cui il filosofo vuole opporsi ed imporsi, per affermare contro un simile caos l’unità e l’autorità regolatrice. Una visione dell’essere-in-comune totalmente negativa, un’ostilità alla polis, concepita come luogo di disordine e iniquità, inducono il filosofo ad imporre dall’esterno un argine al dilagare della corruzione e della morte; come se la città e l’agire dei cittadini fossero irrimediabilmente condannati all’ignoranza e all’impotenza. Questa visione negativa della politica spinge Platone a modificare addirittura la sua teoria delle idee nella Repubblica: più che oggetto di visione contemplativa, esse divengono istanze normative, in base a cui dev’essere ordinata la vita della città.
L’azione politica ha la potenza di inserire nell’essere la discontinuità salvatrice, il balenio di un possibile che prima non era, e che essa estrae alla luce del significato. L’essere-per-la nascita affiora soprattutto nel tempo sospeso di una cesura storica, nell’intervallo che segna la discontinuità tra un’epoca e l’altra, quando come diceva Walter Benjamin, la dialettica degli eventi resta «in bilico».
Nella breccia che si apre tra un ordine in declino e un possibile ignoto, che ancora non si è solidificato e alienato in un nuovo regime, si apre il tempo dell’azione politica vera, inaugurale e iniziale. L’azione politica introduce il nuovo e il possibile nella ripetizione sempre uguale del tempo e rompe la catena del destino e della necessità. Tra l’essere-per-la-nascita e l’essere-per-la-morte vi è dunque la stessa differenza che passa tra le modalità del possibile e del necessario: «Una denota l’ingresso nella possibilità, l’altra ne segna l’estinzione». La nascita è per la Arendt potenza originante, da cui scaturisce l’azione politica come affermazione di un inizio.
Ma come è possibile che l’azione inaugurale, la vitalità della cesura, il potere istituente dei cittadini, si diano durata e resistano alla tentazione di creare un ordine altrettanto stabile e alienato del precedente?
La Arendt trova sostegno in un pensatore, che pur non avendo mai scritto una vera e propria «filosofia politica», ha concepito una innovativa teoria del «senso comune»: si tratta di Kant e della sua opera in apparenza più lontana dalla politica, La critica del giudizio. Il senso comune è pensato come «una condizione di possibilità» della comunicabilità universale, e rivela la volontà degli uomini di creare un mondo in cui ogni singolarità venga riconosciuta nella sua differenza specifica; essi realizzano così il desiderio di persuadersi l’uno con l’altro e l’aspirazione a giudizi universali e condivisi. La Arendt estende il significato del giudizio di gusto kantiano all’ambito del giudizio politico: «Ogni giudizio, ma anche ogni azione, dovrebbe rispondere a questa esigenza originaria di comunicazione universale, dandosi come obiettivo di far passare nell’effettività, sotto forma di legge tale idea di umanità, rinviando a un contratto originario. La comunicazione non è un dato dell’esperienza. Ogni giudizio di gusto è attraversato, lavorato da questo contratto originario e dall’esigenza di comunicabilità universale che esso comporta».
I diritti contro la legge
Interpretando in tal modo la Arendt, Abensour si ricollega alle origini del giacobinismo rivoluzionario francese (a Saint-Just è dedicato un suo saggio politico importante, che introduce le opere complete). Saint-Just considerava l’istituzione repubblicana come il braciere destinato a conservare il fervore costituente della rivoluzione, evitando che esso si spenga nella morta cenere della legge, nella sua tendenza a trasfigurare l’attività legiferante in potere costituito e immutabile: «L’istituzione, più matrice che cornice, contiene in sé una dimensione immaginaria, di anticipazione, che possiede di per sé una potenza stimolante, tale da far nascere, da generare costumi o piuttosto attitudini e comportamenti, che vadano nel senso dell’emancipazione, da essa annunciata. In questo senso l’istituzione, "sistema di anticipazione" come dice Gilles Deleuze, si oppone alla legge, nella misura in cui essa contiene un appello - appello di una libertà ad altre libertà -, che la differenzia radicalmente dal vincolo caratteristico della legge».
Come evitare il passaggio dal gioco reciproco del senso comune, gestazione della volontà generale dei cittadini, a un nuovo regime statico-inerte, fondato sulla violenza e il terrore? Il senso comune è il principio a priori della decisione politica democratica, che si oppone al principio autoritario fondato sulla sottomissione e sulla asimmetria dei rapporti di padronanza. Per praticarlo occore tuttavia la desueta virtù del coraggio civico: se la vita sotto il dominio si limita «alla ripetizione della vita e al suo ciclo ripetitivo», l’azione politica espone nello spazio pubblico dell’apparire, in cui, coem sostiene Hannah Arendt, «ogni cosa ed ogni uomo si espongono alla vista altrui».
Tal eroismo non ha però nulla di sacrificale o di romantico, e in particolare di differenzia da quello evocato da Heidegger in Essere e tempo. Non è la risposta all’appello sovrumano del destino, ma il coraggio civico che si applica a criticare ogni regime che voglia porsi come fatalità inviata da un dio. Solo la mancanza di un dio e dei suoi «eletti» presunti può salvarci, nell’ambito politico. L’eroismo si condensa qui nella singolarità del dissenso di fronte a una legge, statuita deprivando e ingannando il «senso comune» dei cittadini, eludendo l’arena della persuasione e della comunicazione. Contro le decisioni occulte delle elites combatte la «democrazia insorgente», come la chiama Abensour, che riattiva incessantemente il conflitto dei diritti contro le leggi, il disaccordo tra la realizzazione del principio di eguaglianza e la sua restrizione a una parte sola dei cittadini. Le istituzioni che possono dar forma a tale insorgenza, sono quelle consiliari e comunaliste, che la Arendt ha descritto - nella loro possibile efficacia pragmatica oltre che nel loro orientamento utopico - nel libro Sulla Rivoluzione.
La natura del conflitto
Alla filosofia politica fondata su principi primi e sul dominio dell’Uno, la Arendt oppone il pensiero ampliato di Kant, più un processo e un metodo che una determinazione di contenuti: esso esprime il continuo tentativo di accordare i nostri giudizi a quelli degli altri, senza poter sapere se avremo successo e quale risultato finale emergerà dal confronto. Il pensiero ampliato si costituisce come intelletto collettivo, intessuto dai cittadini, nel movimento continuo della comunicazione e della persuasione, nel dissenso contro le leggi che tendono a bloccare tale attività, nell’apertura ripetuta del tempo storico, che non si appaga di alcuna soluzione definitiva.
Il senso comune non mira a una «società buona» che concluda armonicamente (e tirannicamente) la storia, ma ad una accettazione del conflitto e della disunione e al loro riassorbimento in «giudizi politici» condivisi e contingenti.
Paradossalmente, solo l’accettazione e il dispiegamento del conflitto può affermare il bene «comune» ed evitare che esso, divenendo di fatto particolare, ed espressione di una parte sola, degeneri in una guerra distruttiva e autodistruttiva.
L’azione politica resta esposta a una contingenza radicale, pur guidata da una potenza trascendentale e utopica: «L’idea del senso comune o il senso comune come idea, richiama precisamente a qualcosa che non è dell’ordine dell’esperienza, pur abitandola come il trascendentale, in cui soltanto l’esperienza e il pensiero che la costituisce possono trovare il loro luogo fondativo (...) Il trascendentale è presente in seno all’empirico come rappresentazione di un altrove, senza il cui riferimento l’empirico non reggerebbe, l’esperienza perderebbe il suo principio di orientamento». Se non è possibile dedurre il contenuto della decisione da un principio generale e astratto, è però opportuno lasciarsi guidare da una unità di misura (la relazione simmetrica tra uguali) e dal «pensiero ampliato», che esalta il confronto delle opinioni e critica ogni forma di asservimento.
• MIGUEL ABENSOUR
Dal «comunista» Blanqui alla critica dello Stato
Miguel Abensour è un filosofo della politica atipico per la Francia. Atipico perché ha intrapreso un percorso di ricerca che si discosta da quelli seguiti da Jacques Ranciere, Alain Badiou, Etienne Balibar, solo per citare gli studiosi che più di altri hanno cercato di sviluppare una critica radicale della democrazia liberale. Se per Ranciere o Balibar o Badiou la democrazia è caratterizzata dalla presa di parola dei senza potere o come contesto per un superamento del capitalismo, per Abensour è una forma politica che garantisce la libertà dei singoli perché non prevede istituzioni centrali (lo Stato) preposte alla decisione politica. Studioso del giacobinismo, in particolare di Saint-Just, e dell’utopia socialista a partire dal «comunista» Blanqui e William Morris, si è interessato della filosofia di Emmanuel Levinas e di Martin Buber. Oltre a questo saggio su Hannah Arendt («Hannah Arendt contro la filosofia politica?», Jaca Book, pp. 179, euro 24) in Italia è stato pubblicato «La democrazia contro lo Stato» (Cronopio, pp. 207, euro 18.50).
storia
Un saggio ricostruisce il ruolo del gerarca nazista nel cammino che portò alla «soluzione finale»: puntava al genocidio già dai primi anni Trenta
Heydrich, l’architetto della Shoah
di ANTONIO AIRÒ (Avvenire, 18.09.2010)
Il 20 gennaio 1942, a Wannsee, una conferenza ad alto livello dei maggiori esponenti del nazismo pianificava la ’soluzione finale’ mettendo in cantiere la deportazione (e la sicura morte della gran parte di essi) degli undici milioni di ebrei, uomini, donne, bambini, giovani e anziani, residente in Europa. La decisione del maggior genocidio della nostra storia era stata anticipata in un discorso di Hitler nel novembre precedente (senza alcun atto ufficiale successivo) e confermata sostanzialmente dopo la scelta di dichiarare la guerra agli Stati Uniti. «Il conflitto mondiale incombe su di noi: l’annientamento degli ebrei è la conseguenza necessaria».
Ma la conferenza (il cui verbale sarebbe stato rielaborato da Adolf Eichmann) sanciva il ruolo e l’autorità di Reinhard Heydrich, personaggio ai vertici delle SS, interprete fedelissimo delle intenzioni del Führer, dietro Himmler «intellettuale antisemita e razzista fanatico ». Personaggio quasi sconosciuto al mondo degli storici, Heydrich, come risulta dal documentato saggio di Édouard Husson, docente di Storia contemporanea alla Sorbona, è invece l’’architetto’ che darà sostanza ad un progetto inumano che nasceva da lontano e che la guerra avrebbe portato a compimento con la vittoria del Reich, ponendo fine con la conquista della Russia «al complotto ebraico mondiale ».
Nelle pagine del libro - con un ampio ricorso alle fonti, molte inedite e la cui interpretazione non sempre è di agevole lettura - emerge come la soluzione finale della questione ebraica sia per Heydrich quasi un’ossessione che affondava le sue radici nelle ripetute affermazioni di Hitler fin dal 1919 e che egli, con uno zelo e un’obbedienza assoluta che coinvolgeva tutti i settori del partito e del regime (militari compresi), portava avanti. Un genocidio che negli anni Trenta sarebbe stato avviato con il ricorso all’eutanasia con la quale si eliminavano i soggetti più deboli della società tedesca, ebrei in testa. «Le uniche autorità che si mobilitarono contro i metodi genocidi dei nazisti furono le Chiese», osserva Husson. All’inizio della guerra lo zelo di Heydrich arrivò a proporre l’arresto di tutta una serie di personalità cattoliche e il loro invio nei campi di concentramento. Il suggerimento rientrò perché Hitler aveva deciso di rinviare la questione a dopo la vittoria germanica nel conflitto e «il cristianesimo fosse sradicato» nel popolo tedesco.
La soluzione finale si sarebbe riproposta con l’occupazione della Polonia. Questa sarebbe divenuta un laboratorio con l’inclusione degli ebrei nelle diverse fasi di eliminazione fisica della classe dirigente di quel Paese e la deportazione generalizzata nei ghetti realizzati nelle città. L’occupazione della Francia - e l’armistizio con Parigi - faceva emergere il progetto di deportare la gran parte degli ebrei nel Madagascar.
Il 3 luglio 1940 Hitler faceva intendere in un discorso che se la Gran Bretagna avesse cooperato a questo piano «non avrebbe più avuto la preoccupazione di uno Stato ebraico in Palestina». Hitler continuò a pensare alla lontanissima colonia francese come sede obbligata degli ebrei sopravvissuti per per lunghi mesi.
Ma la resistenza degli inglesi faceva saltare questa ipotesi e Heydrich riponeva in primo piano un ’genocidio lento’ con il trasferimento degli ebrei nei Paesi dell’Est europeo. La conquista della Russia, accompagnata dalla ’liquidazione’ di ebrei, zingari, funzionari politici di quella nazione - conseguenza di una rapida vittoria delle truppe tedesche - avrebbe risolta la questione ebraica. Intanto un decreto del settembre 1941 imponeva agli ebrei l’identificazione con la stella gialla, secondo le indicazioni di Heydrich. E decine di convogli di deportati partivano verso l’Unione Sovietica.
La rapida vittoria del Reich non si verificava. L’entrata in guerra degli Stati Uniti allargava il conflitto. La conferenza del 20 gennaio poneva quindi le basi per la soluzione finale con la deportazione generalizzata degli ebrei europei. Quelli residenti nell’Unione Sovietica sarebbero stati lasciati morire nei campi di lavoro forzato. Nel maggio 1942 Heydrich sarebbe stato ucciso dai partigiani a Praga. Il genocidio degli ebrei non si sarebbe però fermato: sei milioni di morti il bilancio.
Édouard Husson
HEYDRICH E LA SOLUZIONE FINALE
La decisione del genocidio
Einaudi. Pagine 406. Euro 32 ,00
A BUENOS AIRES
Il figlio aveva una fidanzata ebrea
Così fu identificato Eichmann
Il criminale nazista fu impiccato in Israele nel 1962 *
Adolf Eichmann venne scoperto in Argentina grazie al fatto che il figlio ventenne si era innamorato di una ragazza ebrea di 16 anni, residente come la famiglia del criminale nazista a Buenos Aires. Lo rivela un documentario che va in onda domenica sera sulla prima rete televisiva tedesca Ard, basato sulle ricerche della storica amburghese Bettina Stangneth. Nel 1956 il figlio di Eichmann, Klaus, si era innamorato di Silvia Hermann, il cui padre Lothar era riuscito a scampare all’Olocausto dopo essere stato internato per sei mesi nel campo di concentramento di Dachau. Nessuno dei due ragazzi conosceva la storia delle rispettive famiglie, così quando Silvia condusse Klaus a casa dei suoi genitori, Lothar Hermann chiese al figlio del criminale nazista che cosa avesse fatto il padre in Germania durante il nazismo. «È stato in guerra ed abbiamo fatto numerosi trasferimenti, abitando per un certo tempo perfino a Praga. Papà diceva che eravamo lì per diffondere nel mondo i valori tedeschi».
RICONOSCIMENTO E CATTURA - Dopo pranzo Hermann chiese alla figlia come si chiamasse il suo ragazzo, ma dopo aver appreso il nome di Eichmann era rimasto sconvolto. Poco fiducioso nelle autorità argentine, Lothar Hermann aveva scritto a Fritz Bauer, il procuratore generale tedesco che stava dando la caccia ai nazisti superstiti. «La informo che, secondo le mie informazioni, qui a Buenos Aires vive il criminale nazista Adolf Eichmann», aveva scritto il supersite della Shoah, il quale aveva pregato la figlia, che nel frattempo aveva lasciato Klaus Eichmann, a riallacciare i suoi rapporti con il figlio dello sterminatore di Auschwitz, in modo da verificarne con assoluta certezza l’identità. Da quel momento si era messa in moto la macchina che nel maggio 1960 avrebbe permesso al Mossad, il servizio segreto israeliano, di rapire Eichmann per condurlo in Israele, dove al termine di un lungo processo venne impiccato il 31 maggio 1962. Per timore di rappresaglie da parte dei nazisti superstiti, Lothar Hermann aveva fatto emigrare nel 1974 la figlia negli Stati Uniti, dove vive tuttora con un’altra identità. (Fonte Agi)
Israele - Riflessione
«Sulla strada per diventarlo»
di Piero Stefani *
Nell’immediato secondo dopoguerra lo storico francese Jules Isaac, che aveva visto sterminata nei lager gran parte della sua famiglia, pubblicò un libro intitolato Gesù e Israele (Marietti, 2001). Esso si proponeva di contribuire a estirpare il pregiudizio antiebraico all’interno della Chiesa cattolica. Il testo, costruito per argomenti, dopo aver sottolineato l’appartenenza di Gesù al popolo d’Israele e l’origine ebraica del cristianesimo, inizia a confutare le varie accuse antigiudaiche, a cominciare da quella secondo cui la dispersione del popolo ebraico rappresenta una punizione divina per aver rifiutato il vangelo e per aver messo a morte Gesù. In realtà, afferma Isaac, la diaspora ha un’origine molto più antica: già all’inizio del I secolo d. C. la maggior parte degli ebrei viveva fuori della terra d’Israele. Si tratta di una semplice verità storica; eppure il pregiudizio cristiano, che ben sapeva della grande, antica comunità ebraica di Alessandria e della predicazione evangelica nelle sinagoghe dei paesi mediterranei, continuava a ripetere: fino al 70, il popolo d’Israele era indipendente, poi, persa (per punizione divina) la patria, iniziò la triste diaspora.
Il sionismo ha creato molti miti nazionali. Eventi prima trascurati nella tradizione ebraica (per es. Masada) sono stati eroicizzati; la diaspora è stata considerata spesso in modo cupo; tuttavia alcuni dati storici continuavano a imporsi. Non è vero che tutto è cominciato con il 70, né sul fronte del prima, né su quello del dopo: la seconda guerra giudaica terminò solo nel 135 e la “paganizzazione” di Gerusalemme a opera di Adriano ebbe luogo soltanto allora. Tuttavia, almeno all’interno dell’attuale dirigenza dell’ebraismo italiano, anche i riferimenti agli inizi del II sec. sembrano ormai particolari trascurabili. Non è raro perciò assistere a una paradossale, quanto consapevole, riproposizione del pregiudizio antiebraico (eccezione fatta, si intende, delle motivazioni teologiche). «I fattori che rendono veramente speciale la presenza ebraica in Italia sono molteplici. Innanzi tutto la sua antichità poiché la sua origine risale a 2 mila 200 anni fa, al periodo della Roma repubblicana, oltre due secoli e mezzo prima di quel fatale anno 70 che vide la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito e l’inizio della diaspora, la dispersione degli ebrei nel bacino del Mediterraneo e nei tre continenti» (Renzo Gattegna). La frase accosta due termini incompatibili: gli ebrei vivono in diaspora prima che essa cominci. Si potrebbe obiettare che si trattava di piccoli frange. Tuttavia, come si è detto, si trattava di ben altre dimensioni: già nel primo secolo - senza che intervenissero particolari coercizioni esterne - la maggioranza del popolo ebraico viveva fuori della terra d’Israele.
L’invenzione di miti storici è parte organica della costruzione di ogni identità collettiva. Spesso importa poco se essi siano palesemente falsi sul piano dei fatti. Per affermarsi, il regime di cristianità fu obbligato a inventare il mito della punizione ebraica e a esasperare la cessazione del culto sacrificale del Tempio di Gerusalemme; per buona parte dell’ideologia sionista è inevitabile riferirsi alla visione della patria perduta e riconquistata. Il pericolo più alto che si annida nella retorica di un ritorno all’antica indipendenza, è di presentare lo Stato d’Israele come fatalmente costituito in base all’intreccio di due componenti: l’essere a un tempo ebraico e democratico. È una contraddizione di fondo che grava su di esso fin dalla sua nascita nel 1948 e che ha reso tuttora impossibile - assieme a molti altri fattori - la soluzione del nodo israelo-palestinese. Non si tratta solo di problemi istituzionali e civili di non poco conto legati al confronto interno tra religiosi e laici; quanto è in gioco è il modo stesso di presentarsi come stato. Prospettarsi come «Stato ebraico» significa rendere la componente demografica un problema costituzionale e politico ineliminabile. Se i territori occupati nella guerra del 1967 non sono stati mai annessi in modo definitivo è solo perché tale operazione avrebbe impedito di mantenere a Israele anche solo la parvenza di essere sia ebraico sia democratico. Tuttavia, sull’altro versante, la non volontà di dar luogo, in tempi storicamente ragionevoli, a uno stato palestinese indipendente ha trascinato Israele in una contraddizione da cui non è più uscito: da più di quarant’anni la sua indipendenza nazionale si regge anche in virtù della negazione di quella di un altro popolo. Tutti gli scadimenti etici e politici israeliani derivano, in ultima analisi, da questo nodo.
Un grande intellettuale israeliano del Novecento - da sempre sionista - Y. Leibowitz dichiarò in un’intervista nel 1988: «“Le sue posizioni relative ai territori occupati sono basate su una valutazione puramente pragmatica, razionale, strategica, economica, sociologica, politica di questo stato di cose?” “Politica. Detesto il fascismo. E lo Stato d’Israele, mantenendo una dominazione violenta sopra un’altra nazione diverrà necessariamente fascista. Non lo è ancora. Possediamo un alto grado di libertà di stampa e di libertà di parola. A tutt’oggi lo Stato non è ancora fascista. Ma è sulla strada per diventarlo» (Il Regno documenti 1,1989, p. 62).
Più di vent’anni dopo siamo in realtà allo stesso punto, «è sulla via per diventarlo», il che è, a un tempo, conferma e smentita delle previsioni di allora. Per comprendere adeguatamente questa qualifica bisogna però tener presente cosa Leibowitz intendesse per fascismo: si trattava innanzitutto di una posizione che attribuisce all’esistenza dello stato un valore in se stesso. Nella fattispecie, ciò lo renderebbe non già (come per l’originaria ispirazione della maggior parte del sionismo) «Stato degli ebrei», ma appunto integralmente «Stato ebraico». Una conseguenza di ciò è che la difesa dello stato diventa valore supremo in base al quale tutto diviene lecito. Tutto si giustifica in virtù della sicurezza, il diritto è quindi sistematicamente calpestato. Con ogni probabilità è già irrimediabilmente tardi, né all’orizzonte si vedono tendenze che vanno in questa direzione; rimane comunque un passaggio imprescindibile alla pacificazione dell’area: il fatto che Israele cessi, una volta per tutte, di essere «Stato ebraico» per diventare solo democratico.
Piero Stefani
* Il Dialogo Sabato 05 Giugno,2010 Ore: 18:09
La «banalità del male»
di Giorgio Forti (il Manifesto, 2.06 2010)
Le forze armate israeliane hanno attaccato «vittoriosamente» la flottiglia dei volontari disarmati che, partiti da molti Paesi, volevano raggiungere Gaza, portando 10mila tonnellate di cibo, cemento per ricostruire, libri e quaderni per le scuole, medicinali ed altri generi di prima necessità. Tutte cose per sopravvivere meno miserabilmente a Gaza: ma è proprio questo che Israele non vuole, che Gaza diventi un posto vivibile. Perché i palestinesi arabi se ne debbono andare, con le buone o con le cattive. Quella terra, come Gerusalemme e tutta la Cisgiordania, nei progetti sionisti sono la Terra di Israele, promessa da Dio al popolo di Israele, la Nazione Ebraica.
L’ideologia nazionalista ha conquistato la maggioranza degli ebrei in Israele e nella diaspora, distruggendo la cultura internazionalista a cui tanto avevano contribuito, in Europa ed in America, dal 17esimo secolo in poi. La Nazione è l’idolo più sanguinario che l’umanità abbia mai adorato e richiede la completa dedizione dei suoi figli, per la vita e la morte, senza distinzione tra figli e figliastri al servizio dei figli. L’infedeltà alla Nazione ed al suo feticcio, la bandiera, è punito con la massima severità: è tradimento.
Il governo israeliano ha in questi mesi ribadito questi concetti, e su questa base sta riducendo lo spazio della libertà di esprimersi, a voce e per iscritto. È già stato preannunziato che chi non giura fedeltà allo Stato ebraico può esser privato della cittadinanza, e quindi espulso, così stabilendo di diritto (di fatto lo era già da tempo) che Israele è la Stato degli Ebrei, fondato sull’etnia e ... sulla religione, anche se solo una minoranza la pratica. La Nazione è il vero ente unificante: ad essa hanno ubbidito i soldati che hanno assassinato in mare un certo numero di persone, ubbidendo agli ordini dei loro ufficiali, i quali hanno ubbidito al governo di Israele.
Ricordate «la banalità del male» di Hannah Arendt, che aveva seguito come corrispondente il processo Eichmann? L’assassino di Auschwitz, alla domanda del giudice se si riconoscesse colpevole, ha risposto: «No, nel senso dell’accusa», perché non ha fatto che ubbidire al suo capo. Anche i soldati che hanno ucciso più persone (sapremo presto il numero esatto) hanno ubbidito agli ordini ed hanno ucciso per «banale» ubbidienza, magari con convinzione.
Eppure, proprio in Israele è stata teorizzata e messa in pratica dai Refusenicks la disubbidienza agli ordini ingiusti, perché il primato spetta alla coscienza personale. Esistono dunque due volti di Israele: quello violento della nazione razzista, maggioritario, e quello per ora ultraminoritario delle donne e uomini che resistono al primo, e considerano i loro coabitanti palestinesi come uguali in umanità, diritti e doveri. Il resto del mondo, soprattutto Europa e Stati Uniti, hanno una precisa responsabilità nel promuovere questo secondo Israele, che diventi quello del futuro. Ma per questo dovrebbero loro stessi liberarsi della idolatria nazionale, il che non sembra imminente.
Fuga di morte
di Giorgio Agamben (il manifesto, 2 giugno 2010)
Molti ricordano i versi della poesia «Fuga di morte» in cui Paul Celan evocava nel 1952 lo sterminio degli ebrei: «La morte è un maestro dalla Germania / ti colpisce con palle di piombo e ti colpisce preciso». È triste per chi, come me, è legato alla cultura ebraica, dover dire che oggi «La morte è un maestro da Israele». Ed è tanto più triste, perché i soldati che hanno attaccato le navi dei pacifisti non soltanto hanno agito come pirati in acque internazionali, ma soprattutto hanno agito come guardiani del Lager in cui Israele ha trasformato la Palestina.
Verso la catastrofe
di Moni Ovadia *
Era inevitabile che accadesse. L’insensato atto di pirateria militare israeliano contro il convoglio navale umanitario con la sua tragica messe di morti e di feriti non è un fatale incidente, è figlio di una cecità psicopatologica, della illogica assenza di iniziativa politica di un governo reazionario che sa solo peggiorare con accanimento l’iniquo devastante status quo. Di cosa parliamo? Dell’asfissia economica di Gaza e della ultraquarantennale occupazione militare delle terre palestinesi, segnata da una colonizzazione perversa ed espansiva che mira a sottrarre spazi esistenziali ad un popolo intero.
Dopo la stagione di Oslo, il sacrificio della vita di Rabin, non c’è più stata da parte israeliana nessuna vera volontà di raggiungere una pace duratura basata sul riconoscimento del diritti del popolo palestinese sulla base della soluzione due popoli due stati. Le varie Camp David, Wye Plantation, Road Map sono state caratterizzate da velleitarismo, tattiche dilatorie e propaganda allo scopo di fare fallire ogni accordo autentico. Anche il ritiro da Gaza non è stato un passo verso la pace ma un piano ben riuscito per spezzare il fronte politico palestinese e rendere inattuabili trattative efficaci. Abu Mazen l’interlocutore credibile che i governanti israeliani stessi dicevano di attendere con speranza è stato umiliato con tutti i mezzi, la sua autorità completamente delegittimata.
L’Autorità Nazionale Palestinese è stata la foglia di fico dietro alla quale sottoporre i palestinesi reali e soprattutto donne, vecchi e bambini ad una interminabile vessazione nella prigione a cielo aperto della Cisgiordania e nella gabbia di Gaza resa tale da un atto di belligeranza che si chiama assedio. Ma soprattutto l’attuale classe politica israeliana brilla per assenza di qualsiasi progettualità che non sia la propria autoperpetuazione.
È riuscita nell’intento di annullare l’idea stessa di opposizione grazie anche ad utili idioti come l’ambiziosissimo “laburista” Ehud Barak che per una poltrona siede fianco a fianco del razzista Avigdor Lieberman. Questi politici tengono sotto ricatto la comunità internazionale contrabbandando la menzogna grottesca che ciò che è fatto contro la popolazione civile palestinese garantisca la sicurezza agli Israeliani e a loro volta sono tenuti sotto ricatto dal nazionalismo religioso di stampo fascista delle frange più fanatiche del movimento dei coloni, una vera bomba ad orologeria per il futuro dello stato di Israele.
La maggioranza dell’opinione pubblica sembra narcotizzata al punto da non vedere più i vicini palestinesi come esseri umani, ma come fastidioso problema, nella speranza che prima o poi si risolva da solo con una “autosparizione” provocata da una vita miserrima e senza sbocco. Le voci coraggiose dei giusti non trovano ascolto e anche i più ragionevoli appelli interni ed esterni come quello di Jcall, vengono bollati dai falchi dentro e fuori i confini con l’infame epiteto di antisemiti o antiisraeliani. Se questo stato di cose si prolunga ancora il suo esito non può essere che una catastrofe.
* l’Unità, 01 giugno 2010
Il caso Chomsky e la democrazia in Israele
di Carlo Tagliacozzo (il Fatto, 23.05.2010)
Il caso dell’ingresso negato a Chomsky in Israele e Palestina merita qualche considerazione. Non è un caso isolato, ma trattandosi di un personaggio di altissimo profilo ha avuto l’attenzione dei media. Centinaia e centinaia di giovani e non giovani attivisti che vogliono portare la loro solidarietà ai palestinesi vengono respinti all’ingresso in Israele e per 5 anni non possono più andarci.
Ma il caso Chomsky ha una sua specificità: si tratta di un accademico della più alta istituzione americana, il MIT. Gli israeliani e i loro sostenitori, ma anche larghissima parte dei loro critici dinanzi alla proposta del boicottaggio accademico si inalberano inorriditi in nome della libertà di ricerca. Nel caso di Chomsky si è applicato un boicottaggio individuale, in quanto persona non gradita che si recava nella Palestina occupata e non in Israele. Un esempio che dovrebbe far riflettere quanti sostengono che Israele sia “l’unica democrazia in medio oriente”.
Le navi di pace sfidano Israele
Lieberman: li fermeremo
I pacifisti non demordono: la «Flotta della solidarietà» proverà oggi a forzare il blocco navale israeliano per raggiungere Gaza. La tensione è altissima. La marina dello Stato ebraico è pronta all’abbordaggio.
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 29.05.2010)
I falchi di Gerusalemme «abbordano» la Flotta della solidarietà. Il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, bolla come un atto di «propaganda violenta contro Israele» la spedizione della flottiglia multinazionale delle organizzazioni non governative di «Free Gaza» salpate in questi giorni con l’intenzione dichiarata di spezzare il blocco contro la Striscia.
AVIGDOR ATTACCA
«Nella Striscia di Gaza non c’è crisi umanitaria», sostiene Lieberman, in polemica con diverse istituzioni internazionali, nel corso di una riunione ad hoc durante la quale ha ribadito che il suo governo non permetterà ai battelli di raggiungere la meta. «Israele aggiunge si sta comportando nel modo più umanitario possibile e lascia passare migliaia di tonnellate di cibo e materiale verso Gaza, malgrado i crimini di guerra e i lanci di razzi di Hamas». L’iniziativa delle Ong rincara la dose è dunque solo «un tentativo di propaganda violenta contro Israele» cui Israele risponderà «non consentendo alcuna violazione della sua sovranità: in mare, nei cieli o a terra». Secondo voci riportate dai media delle regione, le forze di sicurezza israeliane hanno già provveduto a mettere in campo sistemi di disturbo delle comunicazioni attorno alla Striscia sottoposta dallo Stato ebraico a una forte limitazione di accesso di merci e persone fin dall’ascesa al potere degli islamico-radicali di Hamas, nel 2007 e hanno predisposto tende e servizi attorno al porto di Ashdod (sud di Israele): dove hanno annunciato di voler dirottare la flottiglia, per poi provvedere al rimpatrio forzato degli attivisti e al trasbordo via terra dei loro aiuti sotto il proprio controllo. I moniti israeliani non hanno in ogni caso scoraggiato i responsabili della traversata, promossa da Ong registrate in Turchia, Svezia, Grecia, Cipro, Irlanda e Algeria, con la partecipazione anche di alcuni pacifisti italiani.
DETERMINATI A PROSEGUIRE
La tensione è altissima. La flottiglia internazionale ha rimandato a oggi la partenza, secondo quanto hanno reso noto gli organizzatori. «Abbiamo cambiato due volte i programmi perché gli Israeliani minacciavano di catturare l’imbarcazione turca e quindi abbiamo deciso di rinviare il raduno di tutte le imbarcazioni», spiega Audrey Bomse, una delle organizzatrici del movimento «Free Gaza», che guida l’iniziativa. Un altro problema, aggiunge Bomse, è stato un guasto tecnico che ha colpito uno dei natanti. Sette imbarcazioni cariche di aiuti umanitari si sono radunate nelle acque internazionali al largo di Cipro per fare rotta su Gaza. La «Flottiglia» trasporta tonnellate di medicinali, materiali da costruzione, generatori di corrente, carrozzine elettriche e materiale scolastico per la popolazione della Striscia (1,5milioni di persone, in maggioranza donne, bambini e adolescenti).
PALAZZO CHIGI ALLERTATO
La «Freedom Flotilla Italia» ha inviato-27maggio ore19:42-un fax al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta. «Di sicuro saprà si legge nel messaggio che agenzie di stampa hanno riportato come il Governo di Israele ha ripetutamente minacciato di impedire al convoglio, denominato Freedom Flotilla, di giungere a Gaza ricorrendo anche alla forza ed all’arrembaggio. Non saprà forse, signor sottosegretario, che la Freedom Flotilla navigherà unicamente in acque internazionali e nella acque territoriali di Gaza, sicché qualsiasi azione della marina israeliana si configurerebbe come atto di pirateria, ciò che la comunità internazionale non può permettere...Ci rivolgiamo perciò a lei auspicando vivamente che il Governo Italiano svolga con immediatezza perché le navi giungeranno tra breve in vista della acque territoriali di Gaza - i passi necessari per invitare il Governo Israeliano al rispetto delle norme del diritto internazionale che non riconoscono ad Israele alcun diritto su Gaza da dove ha ritirato con scelta unilaterale il proprio esercito. Lo stesso assedio di Gaza che dura da un anno e mezzo è arbitrario ed illegittimo Restiamo in fiduciosa e vigile attesa, confidando in una sua risposta rassicurante...». La risposta, finora, è solo una: il silenzio. Inquietante. Complice.
CONTRO L’ASSEDIO
La flottiglia umanitaria sulla rotta di Gaza
sfida il blocco della marina israeliana *
NICOSIA - Freedom Flotilla, il convoglio di 6 navi che intende rompere l’assedio di Gaza sfidando il blocco israeliano, si trova attualmente di fronte alle coste libanesi. Le navi, guidate da una nave turca, con più di 600 persone a bordo, sono state per giorni ancorate in acque internazionali al largo di Cipro. Stamane gli organizzatori avevano detto che erano partite ma più tardi hanno precisato che il convoglio si era spostato di 25 miglia nautiche dalla posizione iniziale ed era stazionaria. "E’ stata una decisione strategica quella di spostarci", ha detto Greta Berlin, la portavoce di Free Gaza, uno degli organizzatori.
"Siamo partiti - ha aggiunto la Berlin - poco dopo le 16. La marina israeliana blocca una zona a circa 20 miglia nautiche dalla costa di Gaza, dove noi contiiamo di arrivare nella tarda mattinata o all’inizio del pomeriggio di domani, lunedì". Il convoglio umanitario dovrà fare uno stop al limite di queste acqua internazionali prima di tentare di arrivare allo scopo lunedì mattina.
Le navi portano più di 700 passeggeri di 40 nazionalità diverse e vogliono consegnare 10 mila tonnellate di aiuti umanitari, tra cui cemento, medicine, generi alimentari, e altri beni fondamentali per la popolazione di Gaza. In ogni caso, tutto materiale espressamente vietato dal governo israeliano, che ha reso noto una lista di 2.000 oggetti ai quali è interdetto l’accesso a Gaza, compresi gli aghi con il filo, le gomme per cancellare, i libri, stoviglie, coperte, occhiali, sedie a rotelle....
Invece a bordo delle navi ci sono anche case prefabbricate, 500 sedie a rotelle elettriche, oltre a cinque parlamentari (di Irlanda, Italia, Svezia, Norvegia e Bukgaria) ed esponenti di Ong, associazioni e semplici cittadini filo-palestinesi intenzionati a forzare il blocco di aiuti umanitari a Gaza. L’obiettivo della spedizione, salpata giovedì dalla Turchia, è rompere l’assedio a Gaza e introdurre materiale. Le autorità israeliane hanno minacciato di utilizzare la forza se i militanti insisteranno nel tentativo di avvicinarsi alle coste, ed hanno avvertito che rischiano arresto, espulsione e la confisca del carico.
Secondo la Berlin, Israele rischia il disastro mediatico se tenterà di intercettare gli attivisti: "L’unico scenario che ha qualche senso per loro è smetterla di fare i ’bulli’ del Medio Oriente e lasciarci passare". Lo stato ebraico prevede, se i mezzi navali si rifiuteranno di tornare indietro, di riorientarle verso il porto israeliano di Ashdod, a sud di Tel Aviv e poi rispedire i militanti nei loro Paesi. Secondo Tsahal, dopo un controllo di sicurezza il carico sarà inviato a Gaza per essere distribuito.
* la Repubblica, 30.05.2010
La nostra giustizia e quella di Dio
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 30.05.2010)
Monsignor Charles J. Scicluna ha il titolo di «promotore di giustizia» presso la Congregazione per la dottrina della fede. In termini di giustizia laica è il pubblico ministero. In quanto tale ha il compito di trattare i «delicta graviora», cioè quelli dei sacerdoti colpevoli di pedofilia e di uso della confessione per indurre penitenti a rapporti sessuali. In questa veste ha raccontato di aver esaminato circa 9.000 casi di religiosi accusati di quei crimini (in una intervista al quotidiano «Avvenire» del 13 marzo scorso). Lo ha fatto nel corso di procedure segrete, sulla base delle norme canoniche.
Il dilagare della questione dei pedofili sulla stampa mondiale e nei tribunali laici ha spinto il «promotore di giustizia» ad assumere una nuova veste, quella di pubblico e spietato accusatore dei preti pedofili. La voce che è risuonata in San Pietro è stata l’arringa del pubblico ministero che chiede la condanna più dura. Quella chiesta ieri da Scicluna è una condanna a morte eterna: secondo lui sui colpevoli grava la minaccia dell’Inferno, dell’eterna dannazione. Ma non può sfuggire il fatto che questa retorica giudiziaria di accusatore dei delinquenti svolge la funzione di coprire le responsabilità dell’istituzione. Scicluna è il difensore d’ufficio dell’autorità ecclesiastica in generale e di quella della Congregazione in particolare. Tanto più forte l’accusa di quelli quanto più netta la difesa di questa.
Non è la prima volta che vediamo ricorrere a un doppio registro di questo genere: già ai tempi del rito della «purificazione della memoria» di papa Wojtyla, le colpe del passato di cui chiedere perdono erano state quelle di singoli cristiani restando santa la Chiesa con i suoi pontefici. Quanto alla minaccia dell’Inferno proferita ieri da monsignor Scicluna, si può immaginare il tormento di un uomo di Chiesa mentre pronuncia una sentenza del genere.
Tuttavia resta il fatto che quella pur tremenda sentenza rimanda ad altro e remoto giudizio, diverso da quelli terreni, un giudizio del quale ognuno è libero di pensare quel che vuole. Da molto tempo l’immagine dell’Inferno come luogo di perenne sofferenza oltre la morte è entrata in crisi anche tra i cristiani, come ha dimostrato la ricerca dello storico inglese D. P. Walker. Declino irreversibile. Da secoli si è andata diffondendo sempre più la convinzione che il vero inferno è qui tra gli uomini, sulla terra. E contemporaneamente si è affermata la distinzione fondamentale della giustizia moderna: quella tra reato e peccato: una distinzione che è all’origine delle legislazioni e delle culture moderne. Il peccato riguarda la coscienza del credente e può essere trattato nel segreto della confessione. Il reato riguarda la giustizia. Per i crimini c’è il codice penale, c’è l’obbligo della denunzia da parte di chi ne è a conoscenza.
Nei riti segreti della Congregazione vaticana questa distinzione fondamentale per ora non si è affermata. Nell’intervista già citata il monsignore ammetteva che nei paesi di cultura anglosassone e in Francia i vescovi a conoscenza di quel tipo di reati sono obbligati a denunziarli all’autorità giudiziaria. In Italia no, perché qui la legge dello stato non lo impone: e in questi casi le autorità della Congregazione vaticana non obbligano i vescovi a denunciare i propri sacerdoti. Ecco il problema che gli anatemi di questi giorni non riescono a nascondere. Un problema per noi cittadini, per lo stato italiano colpevole di tollerare nel suo sistema giudiziario infrazioni come questa al principio dell’uguaglianza davanti alla legge. A noi cittadini corre l’obbligo di ricordare che lo Stato ha le sue leggi e che i suoi inferni sono le prigioni. È allo Stato che spetta obbligare per legge i vescovi e qualunque autorità ecclesiastica a denunziare delitti come questi.
Quanto alla Chiesa, anch’essa ha la sua colpa, diversa da quelle dei singoli religiosi ma non meno grave: quella della connivenza, del segreto con cui ha coperto finché ha potuto i casi dei preti pedofili. E non possiamo nascondere lo sconcerto davanti alle parole di monsignor Scicluna quando chiede la nostra comprensione per le sofferenze della Chiesa e dei vescovi nel denunziare i religiosi colpevoli: «Questi vescovi - ha detto nell’intervista a Avvenire - sono costretti a compiere un gesto paragonabile a quello compiuto da un genitore che denuncia un proprio figlio». E’ una scelta di linguaggio veramente singolare in una storia in cui ci sono veri inferni, veri e terribili dolori: e soprattutto figli veri.
MEDIO ORIENTE
Israele, attacco a flotta umanitaria
"Dieci morti e numerosi feriti"
La nave turca trasportava aiuti per la popolazione di Gaza.
Ora
si teme un’escalation di violenza
Ankara: «Attacco inaccettabile»
GERUSALEMME Almeno dieci persone sono morte e una trentina sono rimaste ferite quando tre unità della marina israeliana hanno intercettato e attaccato una imbarcazione turca della «Freedom Flotilla», la missione di organizzazioni non governative internazionale partita ieri dal porto cipriota di Nicosia con aiuti umanitari per i palestinesi di Gaza. È quanto ha riferito la televisione israeliana.
Secondo una ong turca, le vittime sarebbe invece almeno due. Un bilancio, quest’ultimo, riferito questa mattina anche dall’emittente satellitare al Jazeera e dalla tv turca NTV, secondo le quali sono stati uditi numerosi colpi d’arma da fuoco. Tra i feriti, alcuni dei quali sono già stati trasferiti in ospedale, ci sarebbe il capitano della nave assaltata. In Siria, intanto, otto gruppi palestinesi con base a Damasco hanno chiesto agli stati arabi e musulmani di dare supporto alla «Flotilla» ed hanno avvertito Israele di evitare «ogni sciocchezza per ostacolare le navi».
«Ciò potrebbe creare nuove tensioni e imprevedibili reazioni», hanno fatto sapere i gruppi palestinesi, tra cui Hamas e Jihad islamica. Per arrivare nell’enclave palestinese, le sei navi, con a bordo 700 pacifisti pro-palestinesi e 10.000 tonnellate di aiuti umanitari, devono superare il blocco israeliano. Secondo il governo dello Stato ebraico, le imbarcazioni pacifiste della «Freedom Flotilla», dirette verso la Striscia di Gaza «sono una provocazione». «Abbiamo la ferma intenzione di arrivare a Gaza malgrado le intimidazioni e le minacce di violenza che abbiamo ricevuto», aveva detto ieri uno degli organizzatori della «Freedom Flotilla».
Dopo l’assalto alla nave turca, la radio pubblica israeliana ha annunciato questa mattina che la censura militare ha proibito la diffusione di qualsiasi informazione su morti e feriti trasferiti negli ospedali di Israele. La radio pubblica israeliana ha precisato che non dispone di informazioni sul trasferimento dei feriti in ospedali israeliani. Ma numerosi centri sanitari dello Stato ebraico hanno ricevuto l’ordine di prepararsi ad accogliere un numero elevato di feriti.
Il governo di Ankara, che ha convocato l’ambasciatore israeliano, ha definito «inaccettabile» l’attacco israeliano contro la flotta umanitaria e ha messo in guardia da «irreparabili conseguenze». Intanto il movimento islamico Hamas esorta arabi e musulmani di tutto il mondo a «elevare la protesta» dinanzi alle ambasciate israeliane di tutto il mondo, mentre la polizia israeliana ha alzato il livello di allerta in Israele per far fronte a «eventuali disordini» da parte di arabi israeliani.
* La Stampa, 31/5/2010 (8:0)
Israele, assalto alla nave dei pacifisti. Morti 19 attivisti
di Umberto De Giovannangeli *
L’assalto (VIDEO) si è trasformato in un bagno di sangue. Sangue destinato a pesare non solo e non tanto sul già traballante scenario politico-diplomatico mediorientale, ma soprattutto sull’immagine, sull’idea stessa di Israele nel mondo. Di fronte alle immagini dei commandos israeliani che aprono il fuoco sul ponte della nave della Freedom Flotilla, è impossibile, anche per il più strenuo difensore dello Stato ebraico, parlare di diritto di difesa, di pericolo immanente.
Quelle navi portavano aiuti umanitari, non armi. E l’eventuale resistenza opposto dagli assaliti non può giustificare la reazione assolutamente spropositata dei soldati di Tsahal. E tutto questo in acque internazionali. Per Israele è un’onta destinata a durare nel tempo. Per la comunità internazionale, è un banco di prova. L’ennesimo. Quelle immagini di sangue hanno già fatto il giro del mondo. In particolare del mondo arabo e musulmano. Sono destinate a infiammare gli animi, a divenire una straordinaria arma di propaganda per i gruppi della nebulosa qaedista che propugnano il Jihad globalizzato contro il “Nemico sionista” e i suoi alleati. Una reazione inadeguata alla enormità del fatto, alimenterebbe la convinzione che nel tormentato Medio Oriente, l’Occidente, gli Usa in primis, continuino ad adottare la politica dei “due pesi, due misure”, dove la misura adottata verso Israele è quella della sostanziale impunità.
Chiedere, come ha fatto l’Unione Europea, che sia fatta “piena luce” sull’accaduto è una premessa e non il centro di una presa di posizione che non può, non deve tardare. Ma questa tragedia annunciata è anche un banco di prova per Israele, per la sua democrazia: giustificare l’attacco, o pensare di risolvere il tutto con parole di rincrescimento, sarebbe una ulteriore prova di arroganza. E di debolezza. Perché aprire il fuoco su quelle navi non è un segno di forza, ma di debolezza, di vuoto politico. La psicosi dell’accerchiamento, il sentirsi perennemente in trincea, sta portando Israele ad un passo dal baratro, trasformandolo in un ghetto atomico in guerra contro tutto e tutti. Alla fine, anche contro se stesso.
* l’Unità, 31 maggio 2010