Pierre Vidal-Naquet (1930-2006), storico dell’antichità, è stato direttore dell’École des hautes études en sciences sociales. Nato da una famiglia ebrea ma laica, all’età di quattordici anni perde entrambi i genitori, deportati ad Auschwitz. Militante nella lotta contro la guerra d’Algeria e per i diritti dei palestinesi, ha scritto numerosi saggi sulla Grecia antica e sulla storia contemporanea.
A.
Un Eichmann di carta
Anatomia di una menzogna.
di Pierre Vidal-Naquet *
Ho esitato a lungo prima di accettare di rispondere all’amichevole richiesta di Paul Thibaud, direttore di Esprit (e che fu anche negli anni 1960-1962, direttore di Verité-Liberté, Quaderni d’informazione sulla guerra di Algeria) e di scrivere queste pagine sul preteso revisionismo, a proposito di un’opera di cui gli editori ci dicono senza ridere: Gli argomenti di Faurisson sono seri. Bisogna rispondere”. Le ragioni di non rispondere erano molteplici [...] Rispondere come, se la discussione è impossibile? Procedendo come si fa con un sofista, cioè con un uomo che assomiglia a colui che dice il vero, e di cui bisogna smontare pezzo per pezzo gli argomenti per smascherarne la falsità. Tentando, anche, di elevare il dibattito, di mostrare che l’impostura revisionista non è la sola che orna la cultura contemporanea, e che bisogna capire non solo il come della menzogna, ma anche il perché.
Ottobre 1980
1. Il cannibalismo, la sua esistenza e le relative spiegazioni
Marcel Gauchet ha dedicato la sua prima cronaca su Débat (n. 7, maggio 1980) a quel che ha chiamato "l’inesistenzialismo". Una delle caratteristiche della cultura contemporanea è, infatti, quella di tacciare d’un sol colpo di inesistenza le realtà sociali, politiche, ideali, culturali, biologiche che erano ritenute le più consolidate. Vengono ripiombati nell’inesistenza: il rapporto sessuale, la donna, il dominio, l’oppressione, la sottomissione, la storia, il reale, l’individuo, la natura, lo Stato, il proletariato, l’ideologia, la politica, la pazzia, gli alberi.
Questi giochetti sono deprimenti, possono anche distrarre, ma non sono necessariamente pericolosi. Che la sessualità e il rapporto sessuale non esistano non disturba gli amanti, e l’inesistenza degli alberi non ha mai tolto il pane di bocca a un boscaiolo o a un fabbricante di pasta da carta.
Talvolta può, tuttavia, succedere che il gioco cessi di essere innocente. Come quando si chiamano in causa non la donna, la natura o la storia, ma questa o quella espressione specifica dell’umanità, o un momento doloroso della sua storia.
In quella lunga fatica che è stata la definizione dell’uomo di fronte agli dei, di fronte agli animali, la frazione dell’umanità cui apparteniamo ha scelto in particolare, almeno da Omero e da Esiodo nell’ VIII secolo a.C., di presentare l’uomo come colui che, a differenza degli animali, non mangia il suo simile.
Così diceva Esiodo nel suo poema Le Opere e i Giorni: “Tale è la legge che Zeus figlio di Crono ha prescritto agli uomini: che i pesci, gli animali selvatici, gli uccelli alati si divorino, perché tra loro non c’è giustizia". Esistono trasgressioni alla legge, di rado nella pratica, più spesso nei racconti mitici. Esistono soprattutto trasgressori classificati come tali: sono certe categorie di barbari che per ciò stesso si escludono dall’umanità. Un ciclope non è un uomo.
Non tutte le società collocano in questo preciso punto la linea di separazione. Ce ne sono alcune, né più né meno “umane” della società greca o della società occidentale moderna, che ammettono il consumo di carne umana. Non ce n’è nessuna, credo, che riduca questo consumo a un atto come gli altri: la carne umana non appartiene alla stessa categoria di quella degli animali cacciati o d’allevamento. Naturalmente queste differenze sfuggono all’occhio degli osservatori esterni, smaniosi di trattare da non-uomini coloro che sono semplicemente diversi. [...]
[...] Dividere il reale dall’immaginario, dare un significato all’uno e all’altro è un lavoro che tocca all’antropologo, allo storico, si tratti di antropofagia, di riti nuziali o dell’iniziazione dei giovani [...]
[...] come molti storici, miei predecessori e miei contemporanei, mi sono interessato alla storia dei miti, alla storia dell’immaginario, pensando che l’immaginario sia un aspetto del reale e che se ne debba fare la storia come si fa quella dei cereali e della nuzialità nella Francia del XIX secolo. Certo questo “reale” è, tuttavia, nettamente meno “reale” di quel che siamo soliti chiamare con tale nome. Tra i fantasmi del marchese di Sade e il Terrore dell’anno II c’è una differenza di qualità, ed anche, al limite, un’opposizione radicale: Sade era un uomo piuttosto mite. Una certa volgarizzazione della psicanalisi è responsabile di questa confusione tra il fantasma e la realtà.
Ma le cose sono più complesse: una cosa è attribuire all’immaginario una parte nella storia, una cosa è definire immaginaria, come Castoriadis, l’istituzione della società, un’altra è stabilire, alla maniera di Baudrillard, che il reale sociale è composto solo di relazioni immaginarie. Quest’affermazione estrema ne comporta un’altra che dovrò spiegare: quella che dichiara immaginaria tutta una serie di avvenimenti molto reali. Come storico, mi sento in parte responsabile dei deliri di cui mi sto per occupare [...] (pp. 5-8).
Sostituire la storia col mito è un procedimento che non farebbe danno se esistesse un criterio assoluto che permettesse di distinguere a prima vista l’uno dall’altro. La caratteristica della menzogna è quella di presentarsi come verità. Certo, questa verità non ha sempre una vocazione universale. Può essere la verità di una minuscola setta, una verità da non mettere in tutte le mani (p. 48)
Quando un racconto fittizio è fatto come si deve, non contiene in se stesso í mezzi per distruggerlo in quanto tale. È una vecchia storia che si può seguire, volendo, dai tempi dell’antica Grecia. I poeti sapevano che potevano dire il vero e il falso e mischiarli l’un l’altro per virtú di somiglianza. Le Muse, “figlie veridiche del grande Zeus", così parlavano a Esiodo: "Sappiamo raccontare menzogne simili alle realtà; ma sappiamo anche’ quando vogliamo, proclamare verità”. Questa prossimità’, questa inquietante rassomiglianza è è combattuta dalla nascente filosofia che separa, che oppone la verità all’apparenza.
Anche la storia interviene in questo dibattito. Mentre in Israele essa appare come espressione dell’ambiguità umanato, in Grecia gioca sull’opposizione del vero e del falso. “Scrivo - dice il primo storico, Ecateo di Mileto - ciò che credo essere vero, perché le parole dei greci sono, a quel che mi sembra, numerose e ridicole". Ma, da Ecateo a Erodoto e da Erodoto a Tucidide ogni generazione di storici si sforza di squalificare la precedente, come il vero può squalificare il mitico ed il menzognero.
Con Platone la filosofia entra a sua volta nel gioco e gli fa fare un passo decisivo. Perché, se Platone deriva da Parmenide l’opposizione di apparenza e verità, il suo discorso tratta prima di tutto il mondo degli uomini, dunque quello dell’apparenza e di un’apparenza che sta sull’orlo della verità, che ne è il contrappunto, l’imitazione menzognera e ingannatrice. Tra il sofista e colui che egli imita, ci sono rassomiglianze “come tra il cane e il lupo, infatti, come tra la bestia più selvaggia e l’animale più addomesticato. Ora, per assicurarsi bene, bisogna stare continuamente in guardia più di tutto sulle rassomiglianze. È infatti, un genere di cose assai pericoloso" (Sofista, 231a); tutto il dialogo del Sofista è una riflessione sulla quasi impossibilità di distinguere il vero dal falso, e sull’obbligo che abbiamo, per smascherare il mentitore, di riconoscere al non essere una certa forma d’esistenza. Ma colui che possiede la verità è anche colui che ha il diritto di mentire.
Platone illustra nella Repubblica la teoria della bella menzogna; scrive nel libro III delle Leggi una storia fabbricata di Atene, in cui la battaglia di Salamina, perché combattuta sul mare sotto la democrazia dei marinai, è eliminata dal racconto della seconda guerra medica.
Nel prologo del Timeo e nel Crizia realizza, in questo campo, il suo capolavoro: inventare di sana pianta un continente sparito, l’Atlantide, avversario di un’antica e perfetta Atene: racconto veridico, dice e ripete Platone, menzogna emblematica in realtà, che il lettore filosofo impara facilmente a decrittare. Ma le affermazioni di Platone sulla realtà dell’Atlantide fanno ancora oggi, dopo piú di ventitré secoli, delle vittime e dei profittatori di queste vittime.
Un tal discorso, certo, diventa pericoloso solo quando si appoggia sul potere di uno Stato e acquista il valore di monopolio. Platone non fece legge in nessuna città greca, ma è vero che il Basso impero, da Diocleziano in poi, pagano o cristiano, diventò a modo suo platonico.
Lasciamo passare i secoli. Viviamo oggi "l’era dell’ideologia". Come potrebbe Auschwitz sfuggire al conflitto delle interpretazioni, alla divorante rabbia ideologica? Bisogna inoltre segnare i limiti di questa permanente riscrittura della storia che caratterizza il discorso ideologico. “Sionisti e polacchi ci presentano già versioni molto divergenti su Auschwitz, dice Faurisson (Vérité, p. 194).
È vero. Per gli israeliani, o almeno per i loro ideologi, Auschwitz è lo sbocco ineluttabile e logico della vita di diaspora e tutte le vittime dei campi della morte avevano la vocazione di diventare cittadini d’Israele, il che è una doppia falsità.. Quanto ai polacchi, non è sempre facile distinguere in ciò che scrivono quel che deriva dalla verità obbligatoria - per esempio la riverenza davanti alle decisioni ufficiali della commissione sovietica d’inchiesta all’indomani della liberazione - e quel che è ideologia integrata, nazionalista prima di tutto.
La storica polacca Danuta Czech scrive qualcosa di abbastanza sorprendente: “Konzentrationlager Auschwitz-Birkenau serviva a realizzare il programma dello sterminio biologico dei popoli, soprattutto dei popoli slavi, e in particolare del popolo polacco e dei popoli dell’Urss, oltre che degli ebrei e di coloro che erano considerati ebrei secondo i decreti di Norimberga...”.. Ma né i polacchi né gli israeliani, certo, trasformano nella sua essenza la realtà del massacro. [...] (pp. 49-51).
Si può certo sostenere che ognuno abbia il diritto alla menzogna e al falso, e che la libertà individuale comporti questo diritto, riconosciuto, nella tradizione liberale francese, all’accusato per la su difesa. Ma il diritto che il falsario può rivedicare non gli deve essere concesso in nome della verità. [...] Né l’illusione, né l’impostura, né la menzogna sono estranee alla vita universitaria e scientifica [...] Le pubblicazioni di Faurisson sono quelle che sono, - cercate di leggere Nerval nella “traduzione” di Faurisson, - ma esistono e hanno il loro posto nell’ordine universitario. Nessuno è obbligato a rivolgergli la parola.
Vivere con Faurisson? Ogni altro atteggiamento supporrebbe che imponessimo la verità storica come verità legale, atteggiamento questo che è pericoloso e suscettibile di altri campi d’applicazione. Ognuno può sognare una società in cui i Faurisson sarebbero impensabili, ed anche cercare di lavorare per la sua realizzazione, ma esistono, come il male esiste, intorno a noi, e in noi. Riteniamoci ancora fortunati se, in questo grigiore che è il nostro, possiamo immagazzinare qualche particella di verità, Provare qualche frammento di soddisfazione. Giugno 1980, rivisto nel maggio 1987 (pp. 55-56).
* INDICE:
Pierre Vidal-Naquet, Un Eichmann di carta. Anatomia di una menzogna(1980)
1. Il cannibalismo, la sua esistenza e le relative spiegazioni. 2. La "Vieille Taupe" e i cannibali. 3. La storia e la sua revisione. 4. Il metodo revisionista. 5. Mosca, Norimberga, Gerusalemme. 6. I conti fantastici di Paul Rassinier. 7. La guerra giudaica. 8. L’arte di non leggere i testi. 9. Platone, la menzogna e l’ideologia. 10. Vivere con Faurisson?
* Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, Editori Riuniti, Roma 1993 - senza le note.
Pierre Vidal-Naquet (1930-2006), storico dell’antichità, è stato direttore dell’École des hautes études en sciences sociales. Nato da una famiglia ebrea ma laica, all’età di quattordici anni perde entrambi i genitori, deportati ad Auschwitz. Militante nella lotta contro la guerra d’Algeria e per i diritti dei palestinesi, ha scritto numerosi saggi sulla Grecia antica e sulla storia contemporanea.
B.
LA STORIOGRAFIA SOTTO IL COMANDO DELLA "IMMAGINAZIONE": I SOGNI DEI VISIONARI CHIARITI CON I SOGNI DELLA METAFISICA (E DELLA METASTORIA)
LINK:
C.
La lezione di Vidal-Naquet sul confine tra realtà e narrazione. Carlo Ginzburg racconta come l’antichista, confutando le tesi di Faurisson sulla Shoah impresse una svolta alle ricerche sul passato
La storia non si arrende alla fiction dei negazionisti
di Carlo Ginzburg (Corriere della Sera, 27.11.2008, p. 45)
Vidal-Naquet mi si è imposto, per così dire, come interlocutore mentale al principio degli anni 80, in coincidenza con un mutamento del clima intellettuale e, in senso lato, politico, che ho percepito per la prima volta (con un ritardo di cui non finisco di stupirmi) leggendo il saggio di Arnaldo Momigliano intitolato La retorica della storia e la storia della retorica: sui tropi di Hayden White.
Contro la riduzione della storiografia a mera narrazione o a mera retorica, contro una storia della storiografia che ignorava deliberatamente i dati documentari, Momigliano si chiedeva polemicamente: «Ma possiamo veramente credere che Ranke e Tocqueville sarebbero gli stessi se scoprissimo che avevano frainteso i dati documentari che usavano o che avevano lavorato su dei falsi senza accorgersene?». Poco prima aveva scritto: «Ranke era interessato, come ogni storico è sempre stato, a prove nuove e sicure: le prefazioni alle sue opere maggiori insistono su questo punto».
Non era la prima volta che Momigliano affrontava questo tema. Nel 1974, in un saggio intitolato Storicismo rivisitato, egli aveva rapidamente criticato la tesi della riduzione della storia a retorica «assai acutamente sviluppata» da Hayden White nel suo Metahistory (1973). Oggi mi chiedo se la decisione di dedicare nel 1981 un intero saggio a Hayden White possa essere stata sollecitata da uno scritto che Momigliano non menziona: Un Eichmann di carta, che Vidal-Naquet aveva pubblicato su Esprit un anno prima (ma la contiguità cronologica potrebbe essere cosi stretta da invalidare la mia ipotesi).
Certo, allora l’accostamento tra il saggio di Momigliano e quello di Vidal-Naquet mi s’impose a un certo punto come evidente. Capii che disfarsi della nozione di prova, cancellando il confine tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche, non era un gesto innocuo. Una delle conseguenze possibili di una posizione del genere era la cancellazione del passato, esemplificata nella maniera più infame dal cosiddetto negazionismo. «Neppure i morti saranno al sicuro» aveva scritto Walter Benjamin in una delle sue tesi sulla storia.
Ricordo di aver cominciato a leggere il saggio di Vidal- Naquet con un senso di dolorosa incredulità. Non riuscivo a capacitarmi che un uomo i cui genitori erano stati uccisi ad Auschwitz si fosse imposto di confutare in maniera particolareggiata le tesi negazioniste di Faurisson. Ma dopo poche pagine i miei dubbi si dileguarono. Oggi penso che quelle pagine di Vidal-Naquet costituiscano una testimonianza di energia intellettuale e morale assolutamente straordinaria, oltre a essere un esempio di pedagogia storica nei senso più alto del termine.
Uso il termine «pedagogia» a ragion veduta: le tesi di Faurisson non costituiscono in alcun modo una sfida per gli storici, anche se possono aver sollecitato il chiarimento o l’approfondimento di alcuni dati di fatto. Era politicamente importante che qualcuno confutasse quelle tesi; Vidal-Naquet l’ha fatto.
Ma l’importanza della confutazione va molto al di là del suo miserabile bersaglio. Il malessere che le tesi dei negazionisti hanno suscitato nella mente di alcuni che le consideravano moralmente e politicamente riprovevoli mi sembra molto più significativo (e sintomatico) delle tesi stesse. Sostenere, come è stato fatto, che nessuna prova esterna può confutare le tesi di Faurisson e dei suoi seguaci, è semplicemente assurdo. Bisogna dunque rimettere al centro della discussione la nozione di prova che Momigliano aveva sollevato a proposito di Hayden White. Ma su questo punto Vidal-Naquet aveva, e da molto tempo, idee chiarissime.
Cominciai a riflettere su questi temi in un saggio intitolato, per l’appunto, Prove e possibilità, apparso nel 1984 come postfazione all’edizione italiana di The Return of Martin Guerre di Natalie Davis. Come esempio della tendenza diffusa a leggere i libri di storia come testi chiusi in sé, privi di riferimenti alla realtà esterna, citai gli scritti di Michel de Certeau e Le miroir d’Herodote di François Hartog. A proposito di quest’ultimo segnalai che il tentativo di analizzare la descrizione del mondo scita proposta da Erodoto come un’entità autonoma risultava alla fine insostenibile: il confronto con la realtà, cacciato dalla porta, rientrava dalla finestra.
Allorché scrivevo quelle frasi ignoravo che la tesi di François Hartog su Erodoto aveva sollecitato una discussione tra Michel de Certeau e Pierre Vidal-Naquet che si riallacciava, almeno indirettamente, al tema del negazionismo. Qualche anno più tardi Vidal-Naquet rievocò quella discussione in una lettera a Luce Giard, inclusa in una raccolta dedicata alla memoria di Michel de Certeau.
Scriveva Vidal-Naquet: oggi siamo diventati consapevoli, grazie a de Certeau, della dimensione inevitabilmente soggettiva legata allo scrivere di storia. E tuttavia, si chiedeva, «non resta indispensabile ricollegarsi a quest’anticaglia, “il reale”, “ciò che è autenticamente accaduto”, come diceva Ranke nel secolo scorso?». E continuava: «Ne ho avuta viva consapevolezza al momento dell’affaire Faurisson (...).Faurisson è, beninteso, agli antipodi di de Certeau. È un materialista con gli zoccoli, che, nel nome del reale più tangibile, derealizza tutto ciò che tocca, la sofferenza, la morte, lo strumento della morte. Michel de Certeau si preoccupò fortemente per questo delirio perverso e me ne scrisse (...). La mia impressione era che ci fosse un discorso sulle camere a gas, che tutto dovesse passare attraverso il dirlo, ma che, al di là, o piuttosto al di qua del dire, ci fosse qualcosa di irriducibile che, in mancanza di meglio, io continuerei a chiamare il reale. Senza questo reale, come si potrebbe distinguere il romanzo dalla storia? Gli risposi su questo tema, e il nostro dialogo riprese a Besançon, durante la discussione di una tesi memorabile, quella di François Hartog su Erodoto (giugno 1979), in cui entrambi siedevamo nella commissione. Mi sentivo, a dire il vero, profondamente implicato. Scrivendo a Certeau, io gli parlai della nostra responsabilità».
Mi auguro che questo carteggio tra Vidal-Naquet e de Certeau venga pubblicato per intero. Il passo che ho letto mostra che le tesi, insensate e ignobili, di Faurisson avevano portato alla luce un tema inquietante, che toccava in profondità i due interlocutori. La confutazione delle tesi negazioniste costringeva ad affrontare la questione dell’oggettività della ricerca storica. Vidal-Naquet concedeva «c’era un discorso sulle camere a gas, che tutto doveva passare per il dirlo»: ma sulla materialità del reale, che precede qualunque discorso, continuava ad insistere. Lo storico è responsabile perché il suo lavoro ha una dimensione, al tempo stesso, oggettiva e soggettiva.
Le tesi deliranti di Faurisson, morto a 89 anni: dove osano i negazionisti
La Soluzione Finale? “Un pacifico trasferimento di ebrei”. Le camere a gas? “Mai esistite”
di Elena Loewenthal (La Stampa, 23.10.2018)
Se ricordare la storia della Shoah è diventato un imperativo morale lo si deve anche a Robert Faurisson, lo storico francese negazionista nato nel 1929 e morto ieri a Vichy. Per lui le camere a gas non erano mai esistite perché tecnicamente non potevano funzionare, sulla base di presunti studi dedicati alla forma delle porte, alle dimensioni dei pertugi da cui passava lo Zyklon B. Per lui Hitler non aveva mai neanche pensato di perseguitare chicchessia a causa della sua razza o della sua religione, per lui il diario di Anne Frank - sul quale si accanì con una attenzione degna di un manuale di psicanalisi più che di storiografia - era un falso. Per lui la conferenza di Wansee del 1942, in cui venne costruita la strategia operativa della Soluzione Finale, fu dedicata all’organizzazione di un pacifico trasferimento delle masse ebraiche verso Est.
Nato a Shepperton, Inghilterra, da padre francese e madre scozzese, Faurisson si era laureato alla Sorbona e aveva fatto l’insegnante di Lettere nei licei - venendo peraltro ripetutamente segnalato alle autorità scolastiche per le sue invettive razziste - prima di avviarsi nel 1969 alla carriera accademica. Dal 1973 al 1980 insegnò letteratura contemporanea presso la Seconda Università di Lione. Il 29 dicembre 1978 pubblica su Le Monde un testo intitolato «Il problema delle camere a gas», in cui si dichiara convinto che non siano mai esistite. Nelle settimane successive escono sul giornale francese molte obiezioni e testimonianze, a firma fra gli altri di Pierre Vidal-Naquet e di Léon Poliakov. A seguito di questo affaire, Faurisson viene sospeso dall’università e dal 1980 sino al suo pensionamento è trasferito su sua richiesta al Centre National de Télé-Enseignement (Cnte).
Se l’episodio del 1978 sta al centro della sua vicenda, la carriera «intellettuale» di Faurisson è costellata di tali esternazioni. La sua cifra culturale fu sempre la provocazione, la negazione della Shoah fu l’ossessione della sua vita. E di negazione si trattava, non di revisionismo critico. Faurisson scagliava le sue tesi, formulava le sue domande retoriche, osservava il panorama di repliche e il polverone che ne veniva fuori costituiva per lui l’evidenza del fatto che non esistesse prova alcuna per dimostrare che la Shoah fosse avvenuta.
Il primo «affaire Faurisson» innescò infatti una catena di «scandali» che il 1980 e il 1990 lo coinvolsero insieme con altri personaggi della galassia negazionista, di cui il più celebre adepto è il britannico David Irving: dalla difesa pubblica di militanti neonazisti al lancio di tesi sostenute da oscuri personaggi come Jean-Claude Pressac, al sostegno del negazionismo di Stato iraniano.
Forse era inevitabile che l’evento più assurdo della storia umana - lo sterminio di sei milioni di persone che, non va dimenticato, sarebbe stato l’anticamera per la costruzione di una «umanità» selezionata in cui solo gli ariani avrebbero avuto licenza di esistere - diventasse così presto l’oggetto di una stortura pseudo-storiografica. Come è stato possibile che, a poco più di trent’anni dai campi di sterminio, si negasse quella storia e ci si costruisse intorno un vero e proprio movimento d’opinione? Non erano bastate le testimonianze, le baracche di Auschwitz, il silenzio di milioni di persone sparite nel fumo dei forni crematori, a conferire alla Shoah la «dignità» della certezza.
Sarà proprio la sua natura di catastrofe inaudita ad aver dato in qualche storto modo manforte alla scuola negazionista di cui Faurisson è stato il capostipite e rimane ancor oggi il maître-à-penser. Una mente umana sana non può accettare quella storia. Eppure è stata, e non fu una mostruosa devianza: si deve accettare quello che è stato come parte innegabile del nostro passato. I negazionisti non lo accettano. Da Faurisson in poi, e con i suoi scritti non di rado deliranti come punto di riferimento, cercano di dimostrare che non è mai avvenuta, perché non era possibile che avvenisse. E dalla negazione alla nostalgia per quel tempo in cui la Shoah non sarebbe mai avvenuta, il passo è pericolosamente breve.
1 La prima delle sei installazioni che compongono il percorso multimediale della mostra, da oggi al 27 gennaio nel palazzo del Quirinale. 2. Il Presidente Sergio Mattarella (accompagnato dall’esperto di installazioni multimediali Paco Lanciano) tra i vagoni piombati ricostruiti in mostra. 3. La pagella che annunciava l’espulsione dalle scuole di tutti gli insegnanti e gli studenti ebrei per decisione del governo
Robert Faurisson, l’«inventore» della menzogna negazionista
Il personaggio. Scomparso a 89 anni a Vichy l’uomo che ha definito la strategia globale e il vocabolario dei nuovi antisemiti. Nel 1978 tentò di accreditare le sue tesi su «Le Monde». Poi, arrivò il sostegno dell’estrema destra internazionale e della Repubblica Islamica di Ahmadinejad
di Guido Caldiron (il manifesto, 23.10.2018)
Per una di quelle bizzarre casualità della storia nelle quali è lui stesso più volte inciampato nella sua lunga attività di propagandista della menzogna, se ne è andato proprio a Vichy, la cittadina il cui nome si è trasformato nel simbolo stesso del fascismo alla francese. Eppure sarebbe riduttivo considerare Robert Faurisson, scomparso domenica ad 89 anni, come una semplice figura dell’estrema destra, per quanto sia stato interprete della strategia più aggressiva e pervicace che da questi ambienti sia venuta negli ultimi decenni.
QUELLO CHE PER MOLTI VERSI può essere considerato come «l’inventore» del negazionismo riguardo l’Olocausto - non il primo ad esprimere tali posizioni, ma tra i primi a comprendere e sfruttare la pericolosa porosità del mondo dell’informazione e dei media a tali inquietanti suggestioni -, ha infatti cercato fino alla fine di affermare quella che oggi potrebbe essere forse definita coma la più terribile e oltraggiosa tra le «fake news».
Docente nei licei dell’Auvergne prima e poi all’Università di Lione II, operando sempre nel campo della critica letteraria, a metà degli anni Settanta Faurisson inizia ad indirizzare al quotidiano Le Monde una serie di missive che ruotano tutte intorno al medesimo tema, che costituirà l’autentica ossessione della sua vita. La negazione dello sterminio ebraico aveva caratterizzato neofascismo e neonazismo fin dall’immediato dopoguerra, proprio in Francia era stato uno scrittore fascista come Maurice Bardèche a cercare di riscrivere tra i primi la storia dell’Olocausto, seguito da un ex deportato passato tra le fila dei suoi carnefici come Paul Rassinier e da figure di primo piano del nascente Front National, come François Duprat, cui si deve lo slogan «prima i francesi», morto nel 1978.
MA CON LA PUBBLICAZIONE in quello stesso anno da parte di Le Monde di uno dei testi di Faurisson, intitolato «Le problème des chambres a gaz», cui seguirà un confronto sulle pagine del celebre quotidiano, l’opzione negazionista farà, seppure momentaneamente, la sua apparizione nel dibattito intellettuale, tentando di trovare spazio e legittimazione all’interno di una sedicente «battaglia delle idee». Dopo Faurisson, una lunga serie di storici dilettanti, privi di alcuna reale competenza in materia, come di documenti, materiali o testimonianze a sostegno delle loro posizioni, tenteranno di accreditare una tesi ripugnante in base alla quale la verità della Shoah corrisponderebbe invece alla «menzogna del XX secolo».
Prima che lo storico Henry Rousso attribuisca nel 1987 a questa autentica offensiva propagandistica il termine oggi consueto di «negazionismo» e che, in anni ancor più recenti, Valérie Igounet ricostruisca in Portrait d’un négationniste (Denoel), l’itinerario politico e culturale di Faurisson, nostalgico del collaborazionismo e che agli studenti dell’ateneo lionese chiedeva di riflettere sull’autenticità o meno del Diario di Anna Franck, in molti, anche a sinistra, riterranno di dover levare la propria voce a difesa della libertà di espressione di Faurisson, più volte condannato per le sue violente provocazioni nel segno della «negazione dei crimini contro l’umanità» e alla fine escluso dall’insegnamento.
MA PROPRIO mentre Faurisson e gli altri capofila del circuito europeo dei negatori della Shoah, dopo una prima apertura di credito intellettuale nei loro confronti, cominceranno a presentarsi come «vittime del sistema» e a denunciare la «repressione» nei loro confronti, l’intera strategia di cui sono portatori diverrà globale. Dopo aver incassato in un primo tempo il sostegno dell’estrema destra europea, già nel 1976 con la nascita dell’Istitute for historical review in California, finanziato dall’ideologo antisemita Willis Carto, Faurisson troverà una nuova platea internazionale, mentre i suoi scritti potranno circolare oltre i limiti delle legislazioni anti-razziste del Vecchio continente, prima di approdare alla rete. Non solo.
PER IL TRAMITE DI RADIO ISLAM, inizialmente basata a Stoccolma, i negazionisti, ancora una volta Faurisson in testa, incasseranno quindi il sostegno delle autorità iraniane che, in particolare durante l’amministrazione di Ahmadinejad, fino al 2013, organizzeranno più volte «convegni» di questo circuito a Teheran. Ed anche in Francia, il nuovo antisemitismo che specula sulle tragedie del Medioriente vedrà delle inedite convergenze intorno alla figura di Faurisson, come indica la presenza di quest’ultimo sul palco di Dieudonné una decina di anni fa.
Dalle pagine di Le Monde allo Zénith di Parigi non c’è dubbio che Robert Faurisson abbia interpretato fino in fondo la sua parte di «assassino della memoria», come scrisse Pierre Vidal-Naquet già molto tempo fa a proposito dell’offensiva del negazionismo
Faurisson, una vita dedicata alla menzogna
di Wlodek Goldkorn (la Repubblica, 23.10.2018)
Robert Faurisson, morto domenica a casa sua a Vichy, all’età di 89 anni, è stato l’uomo che ha dedicato la sua vita a demolire il più importante dei tabù su cui poggia la civiltà occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Quel tabù, recente, ma così forte da aver cambiato il nostro modo di vedere l’intera storia dell’umanità, ha un nome, che a sua volta porta il nome di un luogo maledetto e che non avrebbe dovuto esistere né essere immaginato, ma che è esistito e fu edificato da esseri umani. Umani che, a loro volta, per citare Hannah Arendt, pensavano di avere il diritto di eliminare dalla faccia della terra un’intera categoria di altri esseri umani e perfino la loro memoria. Stiamo parlando di Auschwitz. E di un tabù che esiste grazie alla forza della memoria di alcuni uomini e donne capaci di raccontare l’inenarrabile, ciascuno a modo suo; e tra questi un grande scrittore come Primo Levi e un’importante testimone come Liliana Segre.
La memoria può essere declinata in tanti modi quanti sono i testimoni, gli interpreti, gli esegeti. Essendo materia politica perché ci parla del futuro, la memoria è per definizione oggetto di contesa e di divisioni. Ma un conto è discutere sulla forma che si vuole dare al racconto della Shoah e perfino alle cause della catastrofe epistemologica, etica ed estetica della civiltà europea, altra storia è negare che la Shoah ci sia stata. Ecco, Faurisson era diventato celebre (per modo di dire) quando nel 1978 pubblicò un pamphlet in cui negava che sei milioni di ebrei fossero morti nelle camere a gas. Da allora, in Occidente, sono state fatte leggi per punire il negazionismo e lui stesso fu condannato dai tribunali, ma ancora prima dalla comunità degli storici: a partire da un gigante come Pierre Vidal-Naquet.
Finché ci sarà la memoria, ci saranno le polemiche intorno alla storiografia della Shoah. E anche il modo in cui vengono costruiti i musei per ricordare quel che è successo è stato e sarà oggetto di discussioni, spesso molto aspre. E ci fu perfino chi diceva che i campi di sterminio nazisti erano una specie di reazione al bolscevismo. Ma Faurisson è andato oltre. Ci spieghiamo: oggi, tranne qualche eccentrico, nessuno osa dichiararsi razzista, augurare l’estinzione di altri popoli; merito di una specie di super-io ormai interiorizzato, legato appunto al tabù di Auschwitz. Abolire quel tabù come voleva Faurisson avrebbe significato riaprire le porte dell’abisso.
PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo"):
I «QUADERNI NERI» DI HEIDEGGER 1931-1948
CONVEGNO INTERNAZIONALE
I "Quaderni neri" non sono stati una pietra tombale sul pensiero di Heidegger. Al contrario, è avvenuto un fenomeno inconsueto, che va ben al di là dell’interesse suscitato solitamente dagli inediti di un filosofo. Si è aperto un intenso dibattito che ha varcato i confini dell’accademia e che mostra ancora una volta la rilevanza del pensiero di Heidegger nell’orizzonte contemporaneo.
Il convegno aprirà il confronto su un ampio spettro di questioni: non soltanto politiche, ma anche teologiche e filosofiche. E si interrogherà sul modo in cui i "Quaderni neri" stanno modificando, di fatto, la filosofia continentale.
Direzione scientifica: Donatella Di Cesare
Partecipano: Gérard Bensussan, Joseph Cohen, Donatella Di Cesare, Jesus Adrian Escudero, Sebastiano Galanti Grollo, Rico Gutschmidt, Alessandra Iadicicco, Alberto Martinengo, Gian Luigi Paltrinieri, Riccardo Pozzo, Peter Sloterdijk, Francesco Valerio Tommasi, Peter Trawny, Gianni Vattimo, Paolo Vinci, Vincenzo Vitiello, Judith Werner, Holger Zaborowski, Raphael Zagury-Orly
Informazioni organizzative: Alberto Martinengo (alberto.martinengo@unimi.it)
Informazioni per gli studenti: Marcello Di Trocchio (marcello.ditrocchio@gmail.com)
Con il patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania
Con il sostegno di Alexander von Humboldt-Stiftung, Sapienza Università di Roma, Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee-CNR, Dipartimento Scienze Umane e Sociali, Patrimonio Culturale-CNR
IL PRECEDENTE DEGLI ARMENI
Intervista a Pierre Vidal-Naquet
realizzata da Marco Bellini [1996]*
Si può parlare di unicità della Shoah?
Non ho mai creduto a una unicità assoluta della Shoah. In particolare, ho sempre pensato che il massacro degli armeni nel 1915 abbia costituito un precedente terribile. Beninteso, per massacrare gli armeni non si sono impiegati dei mezzi industriali, è stato un lavoro "artigianale", se così posso dire, per compiere il quale i dirigenti turchi hanno fatto affidamento su un popolo che era il rivale di sempre degli armeni, cioè il popolo curdo. Infatti, una gran parte del massacro degli armeni è stata opera dei curdi. Ma le teste pensanti a Istanbul e Costantinopoli erano teste fredde e moderne: Enver Pascià era un uomo dal comportamento del tutto razionale e quando si leggono le sue interviste con il pastore Leptius, (pastore protestante tedesco, presidente dell’Associazione per l’amicizia tedesco-armena, che per primo in Europa, nel 1916-17, diede testimonianza del massacro degli armeni avvenuto nell’Impero Ottomano, ndr) o testi simili, non vi sono dubbi al riguardo.
D’altronde, qualcuno aveva predetto in modo straordinario quello che sarebbe successo agli ebrei, proprio operando una comparazione anticipata con il genocidio armeno del 1915. Parlo di Franz Werfel, scrittore ebreo austriaco, che nel 1932, poco prima dell’avvento di Hitler al potere, scrisse un libro intitolato I quaranta giorni di Mussa Dagh, che costituisce un’analisi magistrale del genocidio degli armeni. E’ un libro assolutamente straordinario, che rileggo di tanto in tanto, e che ha un valore di anticipazione: in esso, emblematicamente, un ebreo, parlando di una montagna chiamata simbolicamente "La montagna di Mosè", perché Mussa vuol dire Mosè, descrive molto nettamente la volontà sterminatrice dei turchi, a proposito della quale noi oggi abbiamo a disposizione numerosi documenti.
-E’ uscito ora in Francia un piccolo libro il cui autore è Leslie Davis e il titolo della traduzione francese è La province de la mort. In esso sono raccolti i rapporti inviati da un console americano, che si trovava in mezzo all’Anatolia, al suo governo. Non si tratta di documenti rivisti in seguito dall’autore, come forse potrebbero essere le memorie dell’ambasciatore americano a Costantinopoli Morgenthau: sono documenti presi dal vivo, scritti sul momento da qualcuno che, per di più, non amava affatto gli armeni. Di conseguenza, per quello che riguarda il genocidio degli armeni, non nutro alcun dubbio. E neanche le obiezioni mi sembrano valide.
Per esempio, si dice che gli armeni che si convertirono all’Islam, sfuggirono, almeno in linea di principio, al massacro, questo, però, non diminuisce il fatto che si sono uccisi gli armeni perché erano armeni. Ascolto spesso spiegazioni del tipo: "Sì, ma è stato un atto militare, perché gli armeni erano nemici dei turchi, erano filo-russi". Che gli armeni non avessero il governo turco nel cuore non è del tutto falso, ma non si può spiegare con ciò il fatto che nel centro dell’Anatolia si raccogliessero gli armeni per ucciderli. Si può comprendere un fenomeno di frontiera nella regione del Caucaso, ma non si può comprendere il fatto che tutto ciò sia avvenuto nel cuore dell’Anatolia.
Insomma, personalmente trovo che il raffronto con la Shoah sia molto evidente, con alcune differenze. In primo luogo, lo sterminio degli armeni non ha assunto quel carattere industriale che invece ha avuto lo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. In secondo luogo, mentre gli armeni erano riconoscibili come armeni sotto ogni aspetto, l’ebreo tedesco, per l’essenziale, in nulla poteva essere distinguibile da un tedesco ordinario. Gli armeni erano percepiti come una popolazione straniera. Quel che è abbastanza strano nel caso degli armeni è che avevano avuto un ruolo importante nel movimento dei Giovani Turchi che nel 1908 aveva preso il potere. Il genocidio è stato un fenomeno evidentemente legato alla guerra, ma anche il genocidio degli ebrei è legato alla guerra, in particolar modo alla guerra all’est. Come giustamente ha messo in luce Arno Mayer, il giudeo-bolscevismo era uno dei fantasmi di Hitler.
Quando si può parlare di genocidio?
Il carattere di genocidio è dato dal fatto che si uccidono le persone non perché hanno fatto questo e quest’altro, ma semplicemente perché sono nate. A mio avviso, per esempio, si può parlare di genocidio in Ruanda. Un’amica molto cara mi ha detto che non si era in presenza di un genocidio perché il 30% di morti era costituito da hutu, i cosiddetti "hutu moderati". Senza dubbio, ma il 70% era costituito da tutsi, che pure non erano piccoli agnelli innocenti, ma spesso, a loro volta, autori di massacri; tuttavia, non c’è dubbio che ci sia stata la volontà di sterminare i tutsi. Semplicemente, tutto ciò è avvenuto in Africa e di conseguenza questo carattere genocida lo si è visto meno. C’è stato un genocidio, sotto molti aspetti, nella Cambogia di Pol Pot, dove sono stati uccisi i componenti di quello che era chiamato "il popolo nuovo", semplicemente perché non erano stati alla macchia insieme ai Khmer rossi, perché erano abitanti delle città.
E’ possibile parlare di un genocidio in Bosnia?
Direi che ci sono degli elementi di genocidio, ma non c’è stato un genocidio generalizzato. Quando, dopo la presa di Srebrenica, si sono uccisi quanti più uomini possibile perché musulmani o perché avrebbero potuto servire nell’esercito bosniaco, è evidente che questa è un’azione che presenta aspetti di genocidio. E certamente i croati non si sono comportati a Mostar meglio di quanto si siano comportati i serbi a Srebrenica. Non sono d’altra parte assolutamente certo che i musulmani siano completamente puri, ma, alla fine, non hanno avuto la possibilità, e forse nemmeno la volontà, di sterminare gli altri. Detto ciò, è assolutamente criminale quel che hanno fatto i serbi! E’ criminale e fa pensare a un fenomeno presente nella storia dell’Impero Ottomano: si tagliano le teste dei nemici e se ne fanno delle montagne. E’ una vecchia immagine, che si ritrova già nell’Oriente assiro: il re vincitore che contempla montagne di teste. Questo fatto ci dice che il rapporto del simbolico con la realtà è una cosa poco conosciuta. Pur non avendo alcuna indulgenza nei confronti dei serbi, esito, tuttavia, a impiegare la parola "genocidio". Si uccidono, è vero, dei musulmani perché sono circoncisi, li si riconosce dalla circoncisione: a un musulmano vengono calate le mutande, si vede se è circonciso, lo si uccide; molti sono gli esempi di questo genere. Non c’è stato, però, il progetto di sterminare tutti i musulmani.
Che a Srebrenica non siano state uccise le donne bosniache è un elemento di differenza veramente impressionante: se si risparmiano, pur violentandole, le donne, non si ha a che fare con qualcosa della stessa natura della Shoah.
Le farò un altro esempio: nel 1982, quando l’esercito israeliano invase il Libano, ho visto la gente sfilare sotto uno striscione: "Abbasso il genocidio del popolo libano-palestinese". Ora, al di là del fatto che non esiste alcun popolo libano-palestinese, lo scopo degli israeliani non era certo quello di sterminare tutti gli arabi, ma semmai quello di respingerli. E’ stato senz’altro criminale, è stato condannato all’epoca molto duramente, ma anche in questo caso, ancora, si può parlare di pulsioni genocide in un affaire come Sabra e Chatyla, senza alcun dubbio, ma tutto ciò non fa parte di un sistema genocida.
Dunque il concetto di unicità della Shoah non è corretto...
No. Durante la seconda guerra mondiale c’è stato, oltre al genocidio degli ebrei, quello degli zingari, meno completo e meno sistematico di quello degli ebrei, cionondimeno anche gli zingari venivano uccisi in quanto zingari. C’è stata anche la volontà di distruggere i quadri della Polonia: i preti, i professori universitari, ecc., così come i commissari politici dell’Unione Sovietica. Le Einsatztruppen, che di fatto sono alla base della manifestazione primaria del genocidio degli ebrei, erano incaricate di uccidere anche i commissari politici bolscevichi, questo è assolutamente certo. Detto questo, però, bisogna riconoscere che non si è voluto sterminare i polacchi semplicemente perché erano polacchi e i russi perché russi. In questo senso, durante la seconda guerra mondiale il carattere unico della Shoah è impressionante.
Perché allora questo concetto di unicità, almeno in Italia, è ancora così radicato?
In Italia avete una leggera tendenza a utilizzare formulazioni un po’ esagerate. Mi ricordo di aver letto dei libri italiani su questo o quel "campo di sterminio", e questi "campi di sterminio" erano talvolta dei campi di prigionieri di guerra, talvolta dei campi di deportazione come Buchenwald o Dachau che non erano affatto dei campi di sterminio. Di conseguenza, penso che pur ricordando che il sistema di sterminio era contenuto nel sistema di concentramento, - questo è un fatto incontestabile-, bisogna quanto meno ricordare che a Buchenwald e a Dachau quando si scendeva dal treno non si era immediatamente gasati. Questa è una grande differenza, e si è impiegato molto tempo per accorgersi di questa differenza. Se lei prende i libri degli anni immediatamente successivi alla guerra, vedrà che il simbolo dell’impresa nazista dello sterminio non è Auschwitz, ma Buchenwald. Questo perché era lì che era stato ritrovato il maggior numero di superstiti.
E Auschwitz ha prevalso, quale simbolo della Shoah, su Treblinka, che era un centro di puro sterminio, perché ad Auschwitz è stato ritrovato un numero maggiore di superstiti, di testimoni: i testimoni di Treblinka possono contarsi letteralmente sulle dita di una mano. Treblinka era un campo dove una volta arrivati si era immediatamente gasati.
Non restava in vita che un piccolissimo numero di persone necessario per far funzionare la macchina.
Dunque, fra lo sterminio e la stessa logica concentrazionaria c’è un salto?
C’è un salto, ma si iscrivono in un insieme, quello hitleriano, nel quale la detenzione concentrazionaria del nemico, del nemico reale o presunto, deriva, come Hannah Arendt ha profondamente sentito, dalla volontà nazista di sopprimere il Politico. A partire dal momento in cui si sopprime il Politico, ci si arroga il diritto non di discutere con il proprio nemico, ma di metterlo da parte e, nel caso estremo, di eliminarlo.
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Una Repubblica turca costruita sulla negazione delle minoranze
Il genocidio armeno e i suoi sviluppi ulteriori
L’arresto e l’esecuzione delle élite intellettuali armene di Istanbul nella notte dal 24 al 25 aprile 1915 segnano l’inizio del genocidio. In qualche mese i due terzi degli armeni dell’Impero ottomano, ovvero circa un milione trecentomila persone, scompaiono. Da cent’anni in qua, tutte le minoranze della Turchia pagano il prezzo dell’impunità e delle denegazioni dello Stato.
Vicken Cheterian, giornalista, autore di War and Peace in the Caucasus: Russia’s Troubled Frontier, C. Hurst - Columbia University Press, New York, 2009
Le Monde Diplomatique, edizione online, aprile 2015
http://www.monde-diplomatique.fr/2015/04/CHETERIAN/52845
(Traduzione dal francese di José F. Padova)
Istanbul, novembre 2013. Una conferenza dedicata agli Armeni islamizzati riempie per la terza giornata di fila una sala di quattrocento posti all’Università del Bosforo. Una giovane donna si alza e prende la parola: «Su Internet ho seguito la conferenza per due giorni. E ho deciso di venire qui oggi per raccontarvi la storia di mio nonno, che è stato uno di loro». Se ha sentito la necessità di raccontare la conversione forzata del suo progenitore, parla anche di ciò che lei stessa ha vissuto - e della società nella quale vive.
Dopo il genocidio del 1915-1916 il destino degli armeni islamizzati e «turchizzati» a forza è restato un argomento tabù. Si è dovuto aspettare novant’anni perché un’avvocatessa turca e militante per i diritti umani, la signora Fethiye Cetin, osasse rompere il silenzio pubblicando le Memorie di sua nonna, una giovane armena la cui famiglia fu deportata e massacrata, mentre lei stessa era stata portata via e sistemata presso una famiglia turca (1). Le hanno allora scritto dozzine di persone asservite a quel medesimo destino. Quando ne ha raccolto le testimonianze in un nuovo libro (2), nessuno ha voluto veder reso pubblico il suo nome e neppure altre informazioni, come la sua data di nascita.
Resta difficile contare i discendenti delle due o trecentomila donne e bambini armeni che sono stati convertiti a forza. Il loro numero potrebbe raggiungere i due milioni. Durante lunghi anni hanno mantenuto il silenzio sulle loro origini e sul destino subito dai loro progenitori. Eppure, tutt’attorno a essi lo si sapeva. I loro vicini di casa consideravano con disprezzo questi convertiti, che non avevano aderito all’islam per fede ma per interesse, per sfuggire a morte certa. Indicati con l’espressione «gli avanzi della spada» (3), nella società turca contemporanea sono stati stigmatizzati. Per di più lo Stato conservava i documenti sulle loro origini e sbarrava loro l’accesso a determinati posti, per esempio nelle forze armate o nella scuola.
Spoliazione dei beni e della memoria
Commemorare il genocidio armeno, il centenario del quale cadrà il 24 aprile prossimo, non rientra soltanto nel campo del ricordo. Esso rivela cose che riguardano i vivi e getta una luce spietata sulla moderna civilizzazione e su alcuni dei suoi gravi fallimenti. Non soltanto essa non ha reso giustizia alle vittime, ma ha tollerato un secolo di diniego del crimine da parte della Turchia, come pure l’indifferenza di chi guardava. Lo Stato turco nega ancora che abbia avuto luogo un genocidio, pretendendo che gli eccidi fossero dovuti a conflitti fra comunità, che la deportazione dell’intera popolazione armena fosse una necessità militare in tempo di guerra, perfino che gli armeni fossero ribelli, colpevoli essi stessi degli assassini di massa o di essere al servizio degli interessi della Russia.
Che succede quando un genocidio avviene, quando un popolo è annientato all’ombra di un conflitto più grande e la classe politica internazionale si comporta in seguito come se nulla fosse successo? Che prezzo paghiamo per il fallimento della giustizia e quali sono le conseguenze sulla nostra cultura politica?
Un crimine che non è riconosciuto come tale può ripetersi. Gli armeni, che erano stati l’obiettivo principale del genocidio, non furono i soli: i greci ottomani, gli assiri e gli yazidi furono ugualmente vittime di massacri e di deportazioni miranti ad annientarli in quanto comunità (4). Alla fine della guerra, quando l’Impero ottomano, sconfitto, fu occupato dalle forze alleate, alcuni sopravvissuti armeni e assiri tornarono alle loro case. Ma dopo la guerra d’indipendenza, le vittoriose forze nazionaliste turche di Mustafa Kemal Atatürk si dedicarono a uno scambio di popolazioni con la Grecia e costrinsero coloro che erano ritornati a esiliarsi in Siria, sotto dominio francese, o in Iraq, controllato dai britannici. Così l’intera Anatolia fu svuotata dalle sue popolazioni cristiane.
Istanbul, la cui popolazione era in gran parte cristiana, fu il solo luogo in cui Greci e Armeni continuarono a vivere dopo il cataclisma. Una violenza di stato devastante si accanì in permanenza contro di essi, in duplice maniera: privandoli dei loro mezzi di sussistenza economica e mettendo in pericolo la loro incolumità fisica. Negli anni ’30 una grande quantità di beni appartenenti alla Chiesa e alle Opere armene fu confiscata, fra li altri il cimitero di Pangalti, vicino al parco Gezi, dove ormai svettano hotel di lusso. La comunità ebraica benestante della Turchia europea fu decimata a conclusione di massacri organizzati dallo Stato turco, nei «pogrom della Tracia del 1934 (5)». La Seconda guerra mondiale fornì una nuova occasione per aggredire le minoranze erodendo la loro posizione economica. Con il pretesto di lottare contro gli «speculatori», il governo introdusse un’imposta sulla ricchezza, pagabile unicamente in denaro contante, il cui ammontare era stimato in modo arbitrario dagli agenti fiscali comunali e variava secondo le comunità, poiché un armeno poteva essere assoggettato a un’imposta cinquanta volte maggior di quella di un «musulmano» (6). Questa «imposta» mirava a eliminare la borghesia delle minoranze, le cui proprietà erano vendute ai musulmani a un prezzo molto inferiore al loro valore. Quanto a coloro che non furono in grado di pagarla, non soltanto si confiscarono i loro beni, ma essi furono esiliati in campi di lavoro forzato vicino a Erzurum, all’est del Paese.
Il conflitto per Cipro decimò ancor più le minoranze. Nel settembre 1955 alcuni pogrom orchestrati dallo Stato scoppiarono a Istanbul in seguito a voci false di un attentato contro la casa di Atatürk a Salonicco, in Grecia. I servizi segreti fecero venire a Pera (l’attuale Beyoglu) interi autobus di individui che aggredirono le imprese, le scuole e le istituzioni religiose appartenenti a greci e ad altre minoranze, mentre la polizia si limitava a osservare, intervenendo soltanto quando i facinorosi se la prendevano per sbaglio con beni appartenenti a musulmani. Questi maltrattamenti costrinsero decine di migliaia di greci all’esilio.
In Anatolia la memoria delle popolazioni deportate fu cancellata. L’abbandono dell’alfabeto arabo per quello latino, imposto da Atatürk, è stato celebrato per decenni come una vittoria della «modernità». Ma diede anche la possibilità che decine di migliaia di nomi geografici con consonanza armena, assira, curda o araba fossero sostituiti da denominazioni con assonanza turca. Migliaia di chiese e monasteri furono fatti saltare con la dinamite (7). Due paragoni danno un’idea della misura di questa cancellazione. Nel 1914 la popolazione armena nell’Impero ottomano rappresentava, secondo il Patriarcato armeno, circa due milioni di abitanti su un totale stimato di sedici fino a venti milioni: oggi in Turchia non restano che circa sessantamila armeni, soltanto quaranta chiese sono ancora in piedi, delle quali trentaquattro a Istanbul.
Durante lunghi anni gli attivisti in cerca di giustizia hanno fatto valere che, se il genocidio non fosse stato riconosciuto, si sarebbero incoraggiati nuovi crimini. Durante la prima guerra mondiale l’esercito ottomano era sotto il controllo tedesco e migliaia di ufficiali tedeschi assistettero direttamente, o perfino parteciparono, all’eliminazione dei cristiani ottomani (8). La Germania del periodo fra le due Guerre, in preda a una grave crisi, non ne trasse alcuna lezione; i nazisti presero esempio anche dai nazionalisti turchi (9).
Ma è proprio in Turchia che si possono vedere le conseguenze peggiori di questa impunità. Nelle province orientali i curdi, che avevano svolto un ruolo essenziale nel genocidio degli armeni ottomani, furono ben presto stigmatizzati a loro volta. Essi erano rimasti fedeli di volta in volta agli Ottomani, ai Giovani Turchi e ad Atatürk. Ma quest’ultimo tradì la sua promessa di accordare loro l’autonomia e mise fine al califfato per instaurare uno Stato nazionale turco. Quando i curdi si rivoltarono le loro sollevazioni furono schiacciate e seguite da massacri e deportazioni. Fu loro persino rifiutata l’esistenza di un’identità curda. Semplicemente essi non esistevano e chiunque osasse dire il contrario era punito.
La chiave di volta dello «Stato profondo»
La Turchia non è riuscita a sbarazzarsi dell’eredità tragica del genocidio. La struttura [statale] responsabile del crimine costituì in seguito la spina dorsale della Repubblica kemalista, nata sulle rovine dell’Impero. L’Organizzazione speciale (OS o Teskilati Mahsusa) era una struttura segreta all’interno del Comitato Unione e Progresso (CUP), il partito al potere sotto l’Impero ottomano, creata allo scopo di fomentare l’agitazione nelle popolazioni ottomane degli imperi zarista e britannico. Se questa missione fallì sul fronte esterno, l’OS svolse invece un ruolo-chiave sul fronte interno, nell’organizzazione delle deportazioni e dei massacri. Gli ex ufficiali dell’OS intervennero in modo decisivo durante la guerra d’indipendenza (1920-1922) lanciata da Atatürk contro le forze greche, francesi e britanniche, prima di formare la chiave di volta dello «Stato profondo»: una rete di ufficiali all’interno della Repubblica turca, che godevano di potere illimitato e che sfuggivano a ogni inquadramento legale. Essi repressero sistematicamente i progressi democratici della società, commettendo assassinii politici e combattendo tanto la guerriglia curda quanto quella di sinistra. E si diedero anche, al riparo di uno Stato-schermo, a un enorme traffico di droga (10).
La violenza del passato nutre la violenza. Durante la guerra dell’Alto Karabakh, Ankara ha subito preso partito a favore dell’Azerbaijan. Dal 1993 in poi mantiene un blocco contro l’Armenia e contro l’antica repubblica autonoma che di fatto le è collegata (11). La frontiera turco-armena resta ermeticamente chiusa e pesantemente sorvegliata, come al culmine della Guerra fredda. Il viaggio del presidente Abdullah Gül a Erevan e la firma del Protocollo di Zurigo nell’ottobre 2009 hanno fatto pensare che la Turchia potrebbe intervenire in modo positivo e contribuire a una soluzione di pace (12). Ma i testi non sono mai stati ratificati. Il Presidente armeno Serge Sarkissian il 16 febbraio scorso ha annunciato che il suo Paese si ritirava dal Protocollo e denunciava «l’assenza di volontà politica del governo turco» e «l’alterazione costante che esso causa allo spirito e ai termini del Protocollo». Ankara sembra incoraggiare il governo dell’Azerbaijan alla conservazione di una posizione massimalista, mentre quest’ultimo minaccia sempre regolarmente di ricorrere alla forza per risolvere il conflitto.
Dopo un silenzio durato molti decenni la Turchia ha improvvisamente ritrovato la memoria degli Armeni, grazie al lavoro di un pugno di uomini e donne coraggiosi. Ragip Zarakolu, difensore dei diritti umani ed editore, ha tradotto in turco diversi libri sul genocidio armeno, ciò che è costato a lui e a sua moglie di essere perseguito e incarcerato a più riprese. Taner Akçam ha avviato ricerche sulla tortura in Turchia che lo hanno condotto a scoprire i massacri di Armeni alla fine del XIX secolo e, alla fine, il genocidio. La sua collaborazione con l’eminente storico armeno Vahakn Dadrian ha dato alla luce un certo numero di opere storiche e ha ristabilito legami e amicizia fra intellettuali armeni e turchi che il genocidio aveva interrotto (13).
Un piccolo gruppo di professori dell’Università del Michigan ha cominciato a studiare la storia turco-armena in una prospettiva di ricerca interdisciplinare. Le sette conferenze internazionali che hanno organizzato hanno permesso di fare uscire il genocidio armeno dai margini del mondo universitario per metterlo al centro degli studi ottomani e di quelli relativi al genocidio (14).
Ma spetta a Hrant Dink, giornalista turco-armeno e redattore del settimanale Agos, il merito di aver attirato, egli da solo, l’attenzione dell’opinione pubblica turca sulla questione armena. Egli si è rivolto alla coscienza dei turchi con parole semplici: c’era un popolo chiamato gli Armeni che viveva su queste terre, non c’è più, che cosa gli è successo? Dink è stato perseguitato dallo Stato, trascinato da un processo all’altro, finché fu assassinato in pieno giorno davanti alla sede del suo giornale, nel 2007. Questo assassinio ha suscitato una manifestazione di massa, in cui le centomila persone che seguivano il suo feretro cantavano: «Noi siamo tutti Hrant Dink! Noi siamo tutti Armeni». Dink ha detto un giorno che i due popoli sono malati: «Gli Armeni soffrono di traumatismo, i Turchi di paranoia». Si può sperare che la verità abbia il potere di guarire?
Columbia University Press, New York, 2009.
(1) Fethiye Cetin, Le Livre de ma grand-mère, L’Aube, La Tour-d’Aigues, 2006.
(2) Ayse Gül Altinay et Fethiye Cetin, Les Petits-Enfants, Actes Sud, Arles, 2011.
(3) Laurence Ritter et Max Sivaslian, Les Restes de l’épée. Les Arméniens cachés et islamisés de Turquie, Thaddée, Paris, 2012.
(4) Cf. par exemple Joseph Yacoub, Qui s’en souviendra ? 1915 : le génocide assyro-chaldéo-syriaque, Cerf, Paris, 2014.
(5) Cf. Rifat N. Bali, Model Citizens of the State : The Jews of Turkey During the Multi-Party Period, Fairleigh Dickinson, Madison, 2012.
(6) Cf. Stanford J. Shaw et Ezel Kural Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey, vol. 2, Cambridge University Press, 1977.
(7) Pour plus de détails, cf. Raymond Kévorkian, Le Génocide des Arméniens, Odile Jacob, Paris, 2006, et Raymond Kévorkian et Yves Ternon, Mémorial du génocide des Arméniens, Seuil, Paris, 2014.
(8) Cf. Vahakn N. Dadrian, German Responsibility in the Armenian Genocide : A Review of the Historical Evidence of German Complicity, Blue Crane Books, Watertown, 1998.
(9) Cf. Stefan Ihrig, Atatürk in the Nazi Imagination, Harvard University Press, Cambridge, 2014.
(10) Lire Kendal Nezan, « La Turquie, plaque tournante du trafic de drogue », Le Monde diplomatique, juillet 1998. Cf. aussi Ryan Gingeras, Heroin, Organized Crime, and the Making of Modern Turkey, Oxford University Press, New York, 2014.
(11) Lire Philippe Descamps, « Des récits irréconciliables », Le Monde diplomatique,décembre 2012.
(12) Cf. le chapitre III de War and Peace in the Caucasus : Russia’s Troubled Frontier,Hurst & Company, 2009.
(13) Cf., par exemple, Vahakn N. Dadrian et Taner Akçam, Judgment at Istanbul : The Armenian Genocide Trials, Berghahn Books, New York, 2011.
(14) Certains de leurs travaux ont été publiés dans Ronald Grigor Suny, Fatma Müge Göçek et Norman M. Naimark (sous la dir. de), A Question of Genocide : Armenians and Turks at the End of the Ottoman Empire, Oxford University Press, 2011.
24 aprile 2015. A 100 anni dal genocidio armeno
di Miriam Rossi *
Oggi il mondo ricorda il genocidio armeno a un secolo esatto dal suo avvio, col rastrellamento di circa 200 intellettuali armeni nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 in quella che era ancora chiamata Costantinopoli. Nessuno sarebbe sopravvissuto alla deportazione verso l’interno della Penisola Anatolica, anzi la sorte di quegli uomini sarebbe stata condivisa da circa un milione e mezzo di armeni obbligati a incamminarsi tra la primavera del 1915 e il 1916 verso la Mesopotamia attraverso marce forzate definite “della morte”, in base a un progetto politico di “purificazione” etnica della popolazione dell’Impero Ottomano. La contestualità degli eventi bellici della prima guerra mondiale nonché la privazione delle guide spirituali e politiche della popolazione armena predisposta in quella prima strategica azione del 24 aprile di 100 anni fa dal ministro degli Interni ottomano Taalat Pasha, consentirono di fatto di trovare un popolo frastornato e allo sbando, privo di sostegno esterno o di forze proprie per opporsi a quel destino disumano.
Lo sterminio programmato degli armeni offrì infatti, suo malgrado, la fattispecie di riferimento con cui nei primi anni Trenta del ‘900 il giurista Raphael Lemkin coniò il termine “genocidio”, neologismo atto a indicare “un piano coordinato di diverse azioni miranti alla distruzione dei fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, con l’obiettivo di annientare i gruppi stessi attraverso la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali del gruppo”. Nonostante la piena coincidenza di questa definizione con gli avvenimenti ampiamente documentati e il riscontrato obiettivo dello sterminio su basi etniche e religiose, il genocidio degli armeni, “primo genocidio del XX secolo” come ha voluto ricordare Papa Francesco nell’omelia di domenica 12 aprile dinanzi a una delegazione delle massime autorità politiche e religiose armene, non è ovunque riconosciuto. Se dunque i crimini del nazismo e dello stalinismo, entrambi citati da Papa Bergoglio nel proseguo del suo intervento, così come altri crimini genocitari commessi più recentemente in Cambogia, Ruanda, Burundi e Bosnia, hanno scritto nelle pagine della storia i nomi delle vittime e dei carnefici, pur nella complessità delle dinamiche conflittuali, paradossalmente il primo caso riconosciuto di genocidio appare ancora aperto. La negazione del massacro da parte delle autorità della Turchia, eredi del passato ottomano, continua a suscitare tensioni diplomatiche che animano di tanto in tanto le cronache dei media internazionali. Proprio le recenti esternazioni del Pontefice a ridosso di un anniversario tanto importante ha sollevato un prevedibile vespaio da parte del governo di Ankara e la messa in moto delle diplomazie tra Vaticano e Turchia.
Eppure il Primo Ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, giusto nella medesima ricorrenza dello scorso anno aveva posto fine al negazionismo presentando le proprie “condoglianze” a nome della Repubblica Turca ai discendenti degli armeni sterminati nel 1915 sotto l’Impero Ottomano. Un’ammissione epocale perché per la prima volta un capo del governo turco aveva ammesso quanto accaduto, pur non spingendosi però a riconoscere nell’eccidio un atto di genocidio, un’azione che suscita una ben più alta riprovazione. La lotta contro il negazionismo dello Stato turco va dunque avanti e ampio seguito stanno ottenendo le attività promosse dall’Associazione “Remember 24 April 2015”, che ha organizzato per oggi una grande manifestazione a Istanbul per commemorare l’anniversario lanciando un appello all’unione tra i popoli, non solo per rendere giustizia agli armeni massacrati ma anche per dare un messaggio di garanzia delle libertà fondamentali e di piena democrazia. “Ricordo ed esigo” è lo slogan del centenario: ricordare ed esigere non solo per tener viva la memoria di ciò che è stato fatto, ma anche per condannare, giudicare ed esigere il riconoscimento del genocidio armeno nell’ottica che altri genocidi non possano accadere. Il negazionismo si configura infatti come una forma di prosecuzione del genocidio; da questa ragione deriva il forte impegno della società civile per convogliare in questo anniversario un’occasione per lenire il trauma del genocidio trasmesso da una generazione all’altra nelle comunità armene e, inoltre, per battersi contro il razzismo e l’odio che investe gli armeni e altre minoranze non musulmane.
Una ferita che a distanza di 100 anni non permette ancora alla Turchia di confrontarsi con il proprio passato e di riconoscere dunque il fatto storico nella sua pienezza. Le ragioni sono identificate dallo studioso turco Taner Akçam, tra i primi ad affrontare apertamente la questione del genocidio armeno in Turchia, nella coincidenza tra i padri fondatori del moderno stato turco e coloro che si sono macchiati di genocidio e che hanno generato la classe politica che si è poi mantenuta ininterrottamente al potere. Tuttavia fu lo stesso “padre” della Turchia moderna, Mustafa Kemal Atatürk, a definire l’eccidio armeno “un atto vergognoso” mettendo in piedi la macchina giudiziaria per processare i diretti responsabili del massacro. Un’esposizione che va contestualizzata nei complessi negoziati che la Turchia stava allora trattando da Paese sconfitto all’indomani del primo conflitto mondiale e dunque nel tentativo di dimostrare la propria serietà istituzionale, anche dando prova di democrazia e giustizia col caso armeno. Alla firma del Trattato di pace e in mancanza dell’accordo sul mantenimento dell’integrità territoriale della Turchia, la persecuzione degli autori del genocidio perse di significato. “Come potrebbero spiegare che per novant’anni hanno mentito? Se anche lo facessero non funzionerebbe” argomenta oggi Akçam. Sviluppare una nuova identità nazionale turca risulta allora indispensabile per il riconoscimento del genocidio, conosciuto in Turchia da appena il 10% della popolazione.
Miriam Rossi
Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale e autrice di diversi saggi scientifici e di una monografia in materia. Attualmente impegnata nel campo della cooperazione internazionale, è referente per l’associazione COOPI Trentino e collabora con altre realtà del Terzo Settore a livello di formazione, progettazione e comunicazione.
* UNIMONDO.ORG, Venerdì, 24 Aprile 2015 (ripresa parziale).
La recita di un codardo che merita solo l’oblio
di Stefano Jesurum (Corriere della Sera, 18 ottobre 2013)
E adesso anche il video-testamento. Diciamolo: tutto ciò che è accaduto dopo la morte di Erich Priebke e intorno a quella salma è l’ultimo obbrobrio compiuto dal boia delle Fosse Ardeatine e dai suoi compari, a cominciare da Paolo Giachini. Un «avvocato», Giachini, che nella registrazione del centenario ergastolano e nostalgicamente intitolata Vae victis, Guai ai vinti, presenta il capitano delle SS secondo i più triti canoni del negazionismo come un soldato tedesco di stanza a Roma «con compiti di antiterrorismo e lotta alla guerriglia». L’intero copione è stato preparato con puntiglioso rigore e con la collaborazione del moribondo.
Ogni passaggio della macabra pagliacciata ricorda troppo la «banalità del male» che i grandi processi della Storia ci hanno insegnato. Per questo ho orrore per Priebke e per i suoi compari. Perché hanno fatto vincere ancora una volta l’odio, risvegliandolo. Quel carro funebre preso a calci dalla disperazione della Memoria, quelle braccia alzate nel saluto romano, il pianto dei sopravvissuti chiamati ancora una volta a ricordare, le domande dei nostri figli, dei nostri nipoti. Il sale di nuovo versato sulle ferite di chi, come noi, ha avuto pezzi di famiglia passati per i camini; di chi, come molti, ha avuto un parente o un amico torturato e ucciso perché antifascista; di chi ha ascoltato la sera i racconti su quel prete buono fucilato insieme ai suoi parrocchiani.
Le immagini e le parole del video-testamento sono le immagini e le parole di un vigliacco che accusa della strage delle Fosse Ardeatine i gappisti dell’attentato a via Rasella e i superiori che hanno impartito gli ordini. Non una volta che si sia preso le proprie responsabilità. Dice Giachini che Priebke si sarebbe pentito. Ad ascoltarlo non sembra proprio. E comunque non ci interessa. Il «pentimento» sarebbe servito a lui e alla sua coscienza, non alle persone che non torneranno a noi. Che scompaia nell’oblio.
Guardo il video e sento l’urlo muto di Primo Levi: «Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi, alzandovi. Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi»
Seppellire Priebke ma ricordando tutto
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 16.10.2013)
TUTTO sta a non dimenticare chi è stato, a seppellirlo nel silenzio, a fuggire le cerimonie vistose; ma seppellirlo si deve. È quanto si può dire su Erich Priebke, l’ufficiale delle SS che sotto gli ordini di Kappler, capo della Gestapo a Roma, si rese colpevole dei 335 morti delle Fosse Ardeatine.
Tutto sta a non prendere il suo colore,a non somigliargli: a fare l’impossibile - mescolare pietà e orrore - perché l’impossibile e il difficile sono sorte dell’uomo che pensa, conosce se stesso, non segue l’istinto. I vocabolari che usiamo sono colmi di emozione, di sdegno, anche di argomenti etico-politici, ma non hanno nulla a vedere col dilemma dei giorni scorsi: che fare, del corpo di chi fu tuo assassino? Come rispondere alla provocazione inaudita che è stata tutta la sua esistenza, visto che Priebke fino all’ultimo non s’è pentito, giungendo sino a chiamare «cucine » le camere a gas, nel testamento?
In mezzo a tanta ira meglio probabilmente non usare parole così intime, e abissali: pietà, amore. E forse aveva ragione Nietzsche quando ci riteneva capaci, sì, di amore del prossimo, «cioè di noi stessi»: non però dell’incommensurabile lontano, della radicale alterità. Forse amore e pietà sono parole troppo calde, mentre qui ci vuole qualcosa che trattenga l’istinto, che lotti contro la primordiale inclinazione naturale, che sia più asciutta e più imperiosa perfino del senso di giustizia. Meglio la parolaLegge. Che non necessariamente coincide con il giusto,o placa il dolore delle vittime.
Seppellire il nemico - come salvare il naufrago, o soccorrere la vedova e l’orfano: l’imperativo nasce da una cultura plurimillenaria, che oltrepassa l’ordine giuridico. Non a caso Antigone dà a quest’imperativo il nome di «legge non scritta», impartita dagli Dèi prescindendo dalle leggi della pòlis. Rispettare il corpo non più padrone di sé: dai tempi di Sofocle, prima che apparisse Cristo, è norma inviolabile. Il corpo stesso è pura incandescenza: non inumato esala miasma, contagio. Ricordiamo che nòmos, legge, è in origine la porzione di terra distribuita e assegnata. Compresa la porzione della tua tomba.
Tumulare il nemico non è amnesia, né amnistia. Il solo sospettarlo ci rende infinitamente sospetti: vuol dire che tumulare e scordare tendono a congiungersi, sono nelle nostre corde: anche questo è orrore. La memoria dei misfatti sopravvive alla morte: sinistro è dubitarne. Oggi Roma celebra il 70° anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto, e non commemoreremo meglio se avremo vietato a Priebke la sua porzione di terra. Se l’avremo consegnato ai lefebvriani della Confraternita San Pio X di Albano Laziale, che l’useranno politicamente. Se il sindaco di Albano avrà resistito al passaggio della salma in città, e il carro funebre sarà stato assaltato. Nulla è cancellato di quel che Priebke fece, e mai rinnegò. È normale (dunque normacondivisa) che la città di Roma tremi, e fatichi a seppellire chi disseminò morti ignorando ogni legge morale. Ma è norma anche dire a se stessi: «tra noi non così», la tomba gli spetta proprio perché lui la negò.
Colpisce il decreto severo del vicariato, che regge la Diocesi romana: nessun funerale in chiese o cimiteri; solo preghiere in casa del defunto. È previsto dal rito delle esequie, è nel diritto canonico, e gli italiani si sentono capiti. Ma non è scelta risolutiva, perché riguarda il funerale, non il seppellimento. I lefebvriani ne hanno profittato. Perché non è all’altezza - vertiginosa, labirintica - della domanda di Antigone: che si fa del corpo nemico? E cos’è questa cosa che non parla più e tuttaviadice:il corpo? È adeguato allalegge non scritta,non restituirlo alla terra? La casistica cattolica è conforme agli atti di Gesù?
Né possiamo sorvolare lo scabroso, nascosto nelle pieghe dei decreti vicariali: lo sconcertante diniego opposto a altre sepolture, su cui varrà la pena meditare. Nel 2006, la stessa diocesi negò i funerali a Welby, reo di eutanasia e suicidio. Fu sorda alla domanda della moglie, credente e praticante. Il rifiuto dei funerali di Priebke è forse difendibile, ma se non s’accompagna a un ravvedimento su Welby tutto si confonde e pericola. In qualche modo i due dinieghi producono un grumo atroce, accomunano.
La Chiesa non potrà uscirne se non con una conversione, separando Welby da Priebke. Che si faccia ammenda e la sua morte sia dopo sette anni onorata. Che siano sconfessate le parole di Ruini, allora vicario di Roma: la Chiesa poteva concedere il rito religioso, purché si potesse dire che erano mancati nel ribelle «piena avvertenza e deliberato consenso».
Lo ha rammentato Adriano Prosperi domenica su Repubblica: «Welby fino all’ultimo e con piena lucidità rifiutò di riconoscersi in quella religione che gli imponeva di vivere a forza, attaccato a una macchina». Il vicariato apparve a tanti, cattolici e non, «gelidamente crudele». Tanto più la scelta oggi, mischiata com’è col caso Welby.
C’è chi ha chiesto, per non sperdere il dolore inflitto da Priebke, che il corpo venisse cremato d’imperio e le ceneri gettate non in una fossa, ma «in una fogna». Questo èprendere il colore dei morti, mimetizzarsi col male. Questo è dare tutto il potere alle Erinni, che lavano il sangue col sangue: solo digiusta vendetta e cruenza è fatto il loro mondo. Perché ancora non regnano gli Dèi che prescrivono leggi più forti del diritto del sangue, e le Erinni ancora non sono tramutate. Son tramutate non allontanando il ricordo dell’ira, ma mettendole al centro della Città, nell’Areopago, a futura memoria, e chiamandole non più Vendicatrici ma Benevole, Eumenidi.
Per questo i vocabolari vanno usati con timore e pudore: tanto bollente è la traccia lasciata dalle Furie. Forse le parole più misurate sono state dette da chi ha proposto di seppellire Priebke fuori dalle mura di Roma. Oppure da quel veterano inglese, Harry Shindler: che «il boia Priebke venga seppellito nel cimitero tedesco di Pomezia. Sarà in compagnia dei suoi pari, visto che in quel cimitero ci sono soldati tedeschi che presero parte a parecchie stragi in Italia, come quella di Marzabotto. Sarà in buona compagnia».
Ricordo personalmente quel cimitero. Nei primi ‘60, gli allievi della scuola tedesca a Roma erano condotti regolarmente alla necropoli. Ancora non era cominciata lapolitica della memoriatedesca. Ne ho ricordo perché frequentavo quella scuola. In due, ci rifiutavamo di andare e s’accendevano discussioni. Non mi offendeva che i compagni ci andassero, ma come ci andavano: senza pensarci, dato che «era nel programma».
Penso che lì il corpo di Priebke avrebbe il suo posto. Avrebbe il suo posto anche in Germania, forse: nella città natale di Henningsdorf. Su Wikipedia, Priebke è annoverato tra «i figli e le figlie della città». Sarebbe appropriato e decente che Henningsdorf si dicesse pronta a accogliere la salma, prima o poi. Senza attendere che l’Italia lo chieda. Quale che sia la soluzione, una cosa pare chiara: la crudeltà con cui Priebke infierì non giustifica che noi s’infierisca sulle sue spoglie. Non è nemmeno la legge del taglione, perché occhio per occhio ha un significato preciso e non c’è modo di pareggiare i suoi misfatti. Né è questione di perdonare. Solo gli uccisi potrebbero.
Al tempo stesso non possiamo dimenticare chi siamo, oggi. La nostra storia recente non edifica. Il corpo di Saddam Hussein mostrato in TV quando fu estratto dal buco dov’era nascosto fu un abominio. Così quello di Bin Laden gettato in mare e rimosso. E Gheddafi linciato sotto gli occhi plaudenti dell’occidente. Fermiamoci un momento, prima di esibire certezze morali. Restare umani non è cosa facile. Perché nell’umano abita con tutta naturalezza il disumano delle Erinni, e perché Priebke, come nel racconto di Borges, è «simbolo di una detestata zona» della nostra anima.
Come si usa la memoria
di David Bidussa (Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2012)
«La memoria non è il ricordo. La memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro». Lo ha detto di recente Piero Terracina uno degli ultimi testimoni di Auschwitz ancora in vita. Sono parole dense che faccio mie e alludono a questioni che in Italia ci riguardano direttamente.
Vorrei proporne tre: 1) abbiamo aperto una riflessione storica e critica sul passato oltre la commemorazione? 2) Abbiamo un calendario civile che esprima quell’idea di memoria? 3) Quella memoria ha un rapporto con la nostra quotidianità?
Storia della Shoah in Italia (Utet, 2010) è una grande opera che due anni fa un gruppo di storici (Simon Levis, Marcello Flores, Enzo Traverso, Anne Marie Matard Bonucci) ha proposto per ripensare quell’evento in relazione alle metamorfosi, della società italiana, nel tempo lungo tra Risorgimento e attualità indagando le lunghe premesse nell’Italia liberale, le vicende della persecuzione; mettendo l’accento sui perseguitati, i persecutori, la grande e diffusa indifferenza, ma anche sulla delazione, sulle sottrazioni di beni e cose; poi sul lento rientro e sulle molte forme di rappresentazioni di quella vicenda che "fanno memoria" di quell’evento (cinema, letteratura, arte, monumenti, web).
Perché quell’operazione culturale di alta qualità e innovativa, ha cozzato sostanzialmente nel silenzio? Che cosa significa fare politiche e pedagogie della memoria oltre la commemorazione? Questa è la questione che quella discussione mancata ci lascia in eredità.
Credo che in Italia oggi questa questione abbia un valore particolare, maggiore che in altri contesti nazionali europei, perché noi oggi siamo un Paese che non ha più un calendario di feste pubbliche, collegate alla propria storia, che abbiano una funzione pedagogica, riflessiva e soprattutto formativa di un ethos pubblico. Paradossalmente, perché siamo il Paese con più date memoriali nel proprio calendario.
Ha ricordato lo storico Giovanni De Luna (La repubblica del dolore, Feltrinelli) come negli ultimi dieci anni sull’Italia si è abbattuta una valanga di date. Oltre al 27 gennaio, abbiamo il 10 febbraio il «giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe; il 9 maggio come «giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo; il 12 novembre «giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace». Poi abbiamo il 4 ottobre, «già solennità civile in onore dei Patroni speciali d’Italia San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena», dichiarata anche «giornata della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse»; il 2 ottobre giorno della Festa dei nonni.
Siamo pieni di tante date di feste e di giorni della memoria, ma abbiamo uno scarso rapporto critico con la storia. Quella ridondanza rischia di incrementare la sacralizzazione del passato e l’irrilevanza degli eventi terribili che accadono nel nostro presente. Si dirà: rispetto a tutte le altre date che ho elencato il «giorno della memoria» ha stabilito una sua "tradizione". Ci è riuscito in forza di una dimensione internazionale (il 27 gennaio non è una data che si riferisce a un fatto accaduto in quel giorno in Italia), ma anche in forza di una certa ambiguità.
Nel suo intervento al Parlamento italiano, il 27 gennaio 2010 il Premio Nobel Elie Wiesel ha sottolineato come porre il problema della memoria significhi come ricordare e non se ricordare. «A qualsiasi livello della politica e al più alto livello della spiritualità - ha detto Wiesel - il silenzio non aiuta mai la vittima: il silenzio aiuta sempre l’aggressore». È un ottimo spunto. Il cuore di questa considerazione, tuttavia, non sta nel l’uso della parola, bensì nella funzione. Ovvero deve rispondere alla domanda: che ce ne facciamo della memoria?
Il senso comune fa coincidere il «giorno della memoria» con impegno contro l’oblio. È lodevole, ma a me pare che la premessa sia errata. Nessuno, né tra i carnefici, né tra gli spettatori, si è mai dimenticato niente. Semplicemente pensava o che fosse un merito (perciò l’ha tenuto bene a mente) o che non valesse la pena preoccuparsi (e l’ha collocato tra le cose viste, ma di secondariaimportanza). Nel caso dei carnefici, sconfitto il nazismo, essendo iniziata dopo una stagione in cui bisognava nascondere le proprie emozioni e ciò che si era fatto, occorreva sviluppare una doppia memoria (chi si reinventa un passato da dire in pubblico deve sempre tenere a mente tutto ciò che dice, non può mai distrarsi). Nel caso di chi ha visto e non ha fatto niente perché quel problema rimane sullo sfondo rispetto ad altre cose che lo riguardavano e che ritiene ancora lo riguardino in misura rilevante.
Ma se «la memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro», l’operazione che connette e condiziona il futuro nasce non già dal ricordare ma dal disagio che la memoria procura. La memoria è lo strumento che consente di valutare "gap" tra sapere che cosa sia la verità e la giustizia e la consapevolezza che il proprio "io" ha mancato in qualche punto.
Una questione che mentre si preoccupa di riappacificarci col passato, apre questioni laceranti con i fatti del nostro presente e interroga in forma drammatica il nostro agire. L’episodio più eclatante in senso tragico riguarda Srebrenica e, soprattutto, il disagio che l’Europa ha provato, facendo di tutto per non confrontarsi con ciò che quelle scene significavano se non dopo, a evento consumato, quando ormai negare non era più possibile. Quando nel maggio del 2011 è stato catturato Ratko Mladic, molti, ricordando lo sterminio di Srebrenica del luglio 1995, hanno detto che Srebrenica ci aveva "rivelato" Auschwitz. Ne dubito. Noi di fronte a Srebrenica abbiamo scoperto un’altra cosa, ma non siamo in grado di dirlo perché dovremmo fare i conti con il disagio della memoria.
Srebrenica 11 luglio 1995, è la dimostrazione che sapere che sta accadendo qualcosa, vederlo persino, non impedisce che quella cosa non solo sia possibile, ma che avvenga. E soprattutto abbiamo scoperto che dopo, noi, non i carnefici, siamo ancora in grado di vivere senza sentire la vergogna. A Srebrenica, in breve noi abbiamo scoperto, ma non siamo disposti ancora a riconoscere, che non è vero che lo sterminio avviene perché nessuno lo sa e che se avessimo saputo, non sarebbe potuto avvenire. Ma che lo sterminio avviene, lo vediamo in diretta e complessivamente continuiamo a pensare che sono "fatti loro". Comunque che non ci riguarda. Srebrenica luglio 1995, uno sterminio che è avvenuto non mentre tutti eravamo in vacanza, ma in un giorno infrasettimanale (per la cronaca era martedì), a poca distanza di qui, costituisce un evento ineludibile per riflettere sul senso della memoria e sulla sua funzione. Non era la prima volta. Quindici mesi prima era già avvenuto in Rwanda. Anche allora era prevalso il silenzio.
Shoah: la storia e la memoria
di Furio Colombo (il Fatto, 22.01.2012)
"Dal viaggio della memoria non si esce indenni”. Comincio con questa frase il testo che sto dedicando alla Shoah (il 27 gennaio è il Giorno della Memoria) perché l’ho ascoltata con emozione in un film nuovo e diverso che proprio in questi giorni si può (si deve) vedere in Italia.
Cito altre frasi: “Se una storia non viene raccontata diventa qualcos’altro. E così ho scritto per te nella speranza che questa storia accompagni anche te. Siamo tutti figli della nostra storia”.
Il film è La chiave di Sara, l’autore è il poco noto Gilles Paquet-Brenner, che qui si rivela un grande regista, la storia si svolge in Francia nel 1942. E oggi, mentre guardiamo il film, la domanda non è “che cosa avresti fatto allora” (che, certo, ricorre continuamente) ma è: “che cosa farai adesso”, dopo avere saputo che tutto ciò è accaduto davvero, e come è accaduto.
L’originalità della domanda fa del film un esperimento unico. Per arrivare a quell’espediente e ricollegare i tranquilli cittadini di oggi a un giorno dimenticato, anzi insignificante per quasi tutti (Parigi, 11 luglio 1942) basta la banale vicenda di un appartamento da ristrutturare. Ci pensa con bravura il marito architetto mentre la moglie, giornalista, ha da fare con la frase di un discorso dell’allora presidente Chirac. Deve ricostruire per il suo settimanale d’attualità il riferimento di Chirac al Vél d’Hiv e ai fatti tremendi che in quel Velodromo si sono all’improvviso verificati, portando arresti di massa di intere famiglie, detenzione, violenza, deportazione, una tragedia priva di senso che ha sconvolto, travolto e in gran parte ucciso, attraverso la deportazione, diecimila persone, un terzo bambini.
“La chiave di Sara” e la rimozione francese
LA GIORNALISTA del film nota alcune cose: nessuno dei suoi giovani e abili colleghi sa niente o ha mai sentito parlare del Vél d’Hiv (come i parigini hanno a lungo chiamato per brevità il Velodromo d’inverno della città, fino alla dismissione). Non esiste una sola fotografia di diecimila persone ammassate per giorni, con i loro vecchi e i loro bambini, in uno stadio senza acqua e senza servizi igienici. Non esistono targhe o monumenti visibili (bisogna sapere e cercare). E una volta informati, i giornalisti nella redazione del settimanale di attualità, condannano la “cattiveria dei nazisti”. Tocca alla collega più anziana informarli: non i nazisti, i francesi.
“Noi, siamo stati noi”. È un delitto francese, e per questo Chirac chiedeva scusa. Chiedeva scusa a chi? Intanto il marito architetto sta ristrutturando a regole d’arte l’appartamento, che è sempre appartenuto ai suoi genitori e ai suoi nonni. Sempre? Bastano due generazioni per risalire a chi sapeva, e non ha mai pronunciato il nome ebreo di chi era stato strappato da quell’appartamento, rendendolo libero all’improvviso, in tempo di guerra, in piena Parigi.
È il segreto del film La chiave di Sara che ha questo di grande: il gioco terribile del “tu che cosa avresti fatto? ”si gioca adesso, e vi partecipa una famiglia parigina in cui nessuno è fascista e nessuno è antisemita, eppure deve decidere: si abita in quella casa espropriata con l’espediente della deportazione al Vél d’Hive poi ad Auschwitz, da cui, forse, nessuno di quella famiglia è tornato vivo? Non vi dirò di più del film (c’è di più e per questo va visto).
Ma i lettori si saranno accorti che, per la prima volta dopo dieci anni e tante discussioni (alcune nobili, alcune colte, alcune difficili da condividere) mi sono imbattuto in un regista e uno sceneggiatore che hanno proposto la domanda: perché il Giorno della Memoria? E hanno dato una risposta: Perché il giorno della memoria è adesso.
Per spiegare il mio sollievo devo riferirmi al saggio appena pubblicato da Valentina Pisanty, Abusi di Memoria, negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori, pag. 137, euro 16) a cui Il Fatto ha dedicato una pagina nei giorni scorsi.
La Pisanty scrive in apertura del suo saggio: “Da dove derivano tanto il fastidio che taluni provano nei confronti del Giorno della Memoria, quanto la carità pelosa con cui altri lo celebrano? Il difetto, si direbbe, sta nel manico, e cioè nella scelta di rubricare la rievocazione della Shoah sotto la categoria della Memoria anziché della Storia. E ciò, si badi bene, non a ridosso degli eventi, quando gli italiani avrebbero potuto attingere ai ricordi vivi di uno sterminio appena perpetrato per interrogarsi sulle proprie responsabilità dirette, ma a distanza di decenni, quando la comunità commemorante cominciava a sentirsi sufficientemente estranea agli eventi in questione da poterli chiudere in una teca da museo. Come ha spiegato Maurice Halbwachs (1950) la memoria collettiva è sempre funzionale agli interessi, alle sensibilità, e ai progetti di chi la gestisce, e i filtri culturali che selezionano gli episodi ritenuti memorabili dipendono dai pensieri dominanti delle società a cui fanno capo”.
Questa lunga e disturbante citazione mi serve per far notare la vistosa incoerenza con quanto si può leggere, appena poche righe prima, nello stesso capitolo (il primo) del libro della Pisanty. Cito: “La Shoah non è, come ci si è a lungo raccontati, un increscioso incidente di percorso frutto di incosciente faciloneria, piuttosto che una reale e diffusa intenzione omicida, ma un crimine anche italiano che, per decenni, gli italiani hanno spazzato via a copi di amnistia e di amnesia. Non per niente ci sono voluti quattro anni prima che Furio Colombo riuscisse a far discutere la proposta di legge in Parlamento: evidentemente nessuna delle parti politiche interpellate aveva particolare premura di affrontare la questione”.
Valentina Pisanty è studiosa al di sopra di ogni dubbio quanto alla qualità scientifica e alla integrità morale, più che mai sul tema della Shoah. Ma il problema è logico. Quando ho scritto e proposto la legge sul Giorno della Memoria (che ovviamente sarebbe stato stravagante chiamare “il Giorno della Storia”) ero esattamente, per età e generazione, una delle persone giovani (nel mio caso al tempodelliceo) che, “aridossodegli eventi” aveva chiesto invano agli insegnanti, tutti membri del Cln o di diverse componenti della Resistenza) di parlare della Shoah come “delitto italiano”.
Ho raccontato questo colpevole vuoto nella mia introduzione al primo testo americano sulle leggi razziali e la persecuzione italiana (Susan Zuccotti, The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue, Survival, University of Nebraska Press, 1987,1992). E appena eletto deputato (1996) ho fatto ciò che non ho potuto fare a “ridosso degli eventi”. L’ho fatto ai nostri giorni, contro notevoli resistenze.
Il delitto italiano e la responsabilità
AVRÒ ESPRESSO “gli interessi della cultura dominante” o piuttosto l’ ossessione che non mi aveva mai abbandonato su ciò che potevo ancora testimoniare del tempo in cui ero vissuto, e soprattutto su ciò che avrebbero potuto fare i pochi sopravvissuti che erano ancora in grado andare nelle scuole a raccontare, a consegnare ai più giovani la loro “chiave di Sara”, come faranno anche alcuni di loro venerdì prossimo?
Ho detto ai miei colleghi deputati, nell’intervento finale con cui ho cercato di ottenere l’unanimità, che la Shoah era un delitto italiano, e l’ho fatto con la intenzione di negare per legge la presunta estraneità italiana allo sterminio degli ebrei. Ho chiesto ai deputati di ricordare che in quegli stessi banchi, in quella stessa Camera, centinaia di deputati italiani avevano votato all’unanimità le peggiori leggi razziali d’Europa, firmate dal solo re europeo che ha accettato di perseguitare una parte del suo popolo, violando perfino lo Statuto Albertino del tempo. Dov’è l’errore se dico che mai Storia e Memoria hanno coinciso in modo così netto, facendo insieme da impedimento a un vuoto che molti vorrebbero ancora?
Chi sacralizza la Shoah
di Valentina Pisanty (il Fatto, 20.01.2012)
L’8 febbraio 2011 Alberto Cavaglion pubblica una breve riflessione sulla newsletter dell’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) in cui depreca l’appropriazione delle parole “Se non ora, quando? ” da parte del comitato promotore della giornata di mobilitazione nazionale delle donne programmata per il 13 febbraio. Ciò che lo infastidisce è il presunto oltraggio al titolo del romanzo di Primo Levi, ridotto a slogan femminista e messo al servizio di un progetto politico contingente - rovesciare Berlusconi e il berlusconismo - che secondo Cavaglion non può essere paragonato (pena la banalizzazione) alla resistenza ebraica sul fronte orientale raccontata da Levi.
[...] Da un punto di vista strettamente filologico, l’accusa non è infondata. Nel romanzo di Levi, “Se non ora, quando” è il verso della letteratura rabbinica. In rapporto alle vicende della guerra, la canzone inquadra la lotta partigiana in una storia al contempo più vasta e più particolare, e cioè la trama millenaria della diaspora, sino allo sterminio in corso e al soprassalto di rivalsa con cui si fa largo una nuova idea di autodeterminazione del popolo ebraico.
[... ] La canzone attinge a un archivio di storie - Davide e Golia, l’assedio di Masada, la ghettizzazione, la resistenza, la nascita del sionismo - che concorrono a definire un’identità ebraica stratificata e conflittuale, fondata su valori apparentemente inconciliabili quali l’orgoglio e l’umiltà, la forza e la dolcezza, l’intransigenza e la tolleranza; valori nei confronti dei quali il testo di Gedale sollecita una drastica presa di posizione: se non ora quando?, appunto. Pur non essendo di indole particolarmente vendicativa, i gedalisti scelgono la lotta armata perché sanno che l’alternativa è il camino. [... ]
INTERVISTATA da Repubblica (14 febbraio 2011) sulla scelta dello slogan, Francesca Izzo - una delle promotrici della manifestazione del 13 febbraio - ha risposto: “Mi è venuto così, stava nelle mie orecchie e corrispondeva esattamente a quel che volevamo dire. Ci è piaciuto e lo abbiamo usato”. In questa dichiarazione c’è tutto ciò che serve per inquadrare il tipo di operazione semiotica compiuta sul frammento dalle promotrici della manifestazione. Nulla a che vedere con una rilettura critica del romanzo di Levi, il quale resta sullo sfondo come dato enciclopedico condiviso. Il gioco linguistico è tutt’altro: si tratta - come sempre con gli slogan - di ideare un “grido di guerra” icastico e memorabile, dotato cioè delle caratteristiche necessarie per bucare lo schermo sovraffollato della comunicazione politica. [...] Generalmente, la citazione drammatizza le circostanze problematiche descritte dai discorsi in cui è di volta in volta trapiantata, iniettandovi un supplemento di pathos e adombrando un possibile (benché raramente esplicitato) parallelo con la guerra all’ultimo sangue combattuta dai partigiani ebrei contro i nazisti.
[... ] Per un conoscitore dei romanzi di Levi quale Alberto Cavaglion è, si capisce che la disinvoltura con cui i linguaggi del giornalismo e della politica si sono impossessati di “Se non ora, quando? ” possa risultare irritante. [...] A rileggere la nota dell’8 febbraio, è evidente che l’indignazione di Cavaglion non è tanto rivolta alla pratica banalizzante in sé, quanto all’infrazione di un tabù più specifico. La parola-chiave è “sacrilegio”: “Oggi vedo che nessuno protesta per quello che a me sembra un sacrilegio”.
MA “SACRILEGIO” significa “profanazione di oggetto, persona o luogo sacro”. In che senso il frammento di Levi può dirsi sacro e in che cosa consisterebbe la violazione della sua sacralità? La controversia sulla citazione di Levi è un sintomo apparentemente trascurabile di una tendenza culturale ben più macroscopica. Ne hanno già parlato diversi autori [...], tutti concordi nel riconoscere che negli ultimi decenni la Shoah (o meglio, l’insieme dei discorsi che confluiscono nella memoria pubblica di questo evento) è soggetta a un meccanismo di sacralizzazione per effetto del quale il genocidio ebraico viene estrapolato dalla serie dei fatti storici e ricollocato in una dimensione “altra” - la dimensione del sacro, per l’appunto - che lo sottrae all’uso comune, ossia ai procedimenti del discorso ordinario, banalizzazione inclusa. [... ] Resta da capire da dove Cavaglion - e altri come lui - tragga l’idea che la memoria dello sterminio ebraico, con tutta la costellazione di testi che a essa fa capo, appartenga per diritto alla sfera del sacro.
Abusi di memoria di Valentina Pisanty, Bruno Mondadori PAGG. 151 16 EURO
Gli equivoci della Memoria
di Valentina Pisanty e di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 24 gennaio 2012)
Caro Furio,
grazie della menzione e dell’occasione che mi dai per spiegare meglio una materia complicata di cui vorrei chiarire alcuni aspetti. Innanzitutto sgombero il campo da un possibile equivoco: quando ho suggerito che forse “il difetto sta nel manico, e cioè nella scelta di rubricare la rievocazione della Shoah sotto la categoria della Memoria anziché della Storia”, non intendevo affatto contestare l’importanza e la legittimità del Giorno della Memoria in quanto tale.
Ho seguito con partecipazione l’appassionata battaglia parlamentare con cui sei riuscito a far approvare la legge 211, rompendo decenni di silenzio sul razzismo fascista, e penso che il Giorno della Memoria abbia tuttora una rilevante funzione pedagogica da svolgere. Ciò che invece mi lascia perplessa è un diffuso equivoco di fondo sul senso di questa ricorrenza, che molti tendono a considerare come un’occasione celebrativa, nel triplice significato di commemorazione solenne, di cerimonia rituale e di glorificazione di una qualche identità collettiva (ma quale?). È questo, del resto, il senso delle altre ricorrenze prescritte dal calendario istituzionale, dove l’evento ricordato è edificante, se non addirittura gioioso: attributi evidentemente incompatibili con la storia delle persecuzioni razziali e della Shoah.
Forse l’equivoco si insinua già nella scelta della data del 27 gennaio, che da una parte fa pensare alla fine dell’incubo (qualcosa da “festeggiare”, dunque), e dall’altra stempera la specificità italiana dell’evento commemorato. Ricordo che in origine avevi proposto il 16 ottobre, e sarebbe interessante capire perché il Parlamento abbia bocciato questa data, ben più pertinente. La citazione di Halbwachs sugli usi politici della memoria evidentemente non getta alcuna ombra sulle intenzioni di una legge pensata come stimolo a studiare senza indulgenza i trascorsi razzisti di un paese che per lungo tempo si è consolato con il mito degli italiani brava gente. Ma le applicazioni della legge non sempre ne colgono o ne rispettano l’intenzione. Mi è sembrato perciò opportuno definire meglio i termini di una Memoria che - nel momento in cui diventa memoria critica, e non celebrazione stucchevole di non si capisce bene quale identità collettiva - confluisce sì nella Storia, come giustamente sottolinei.
Valentina Pisanty
Cara Valentina,
sono grato della tua attenta risposta che mi permette di aggiungere qualche precisazione e qualche notizia. Una notizia, è, per esempio, che la Memoria evocata dalla legge che ne prende il nome (“Giorno della Memoria”) per ragioni che potremo studiare e discutere, non ha mai dato luogo a “occasioni celebrative nel triplice significato di commemorazione solenne, di cerimonia rituale e di glorificazione”. C’è stata e c’è una risposta dei media, questo sì. Ma nessun movimento di autorità e istituzioni,come avviene invece, per esempio, per eventi militari o date di storia politica. Molti insegnanti sensibili e preparati ne parlano nelle scuole. Ma non mi risulta che vi sia mai stata una circolare ministeriale in proposito.
Quanto ai “viaggi della memoria” di molte scuole (se non sbaglio iniziati a Roma quando era sindaco Veltroni) sono ormai una tradizione bella, radicata e sporadica, iniziata prima della legge. Come vedi, glorificazione e celebrazione appaiono uno scampato pericolo. Resta il problema di parlare, e di invitare a parlare, di ciò che, certo in Italia, è stato a lungo taciuto. E c’era la necessità storica e politica di dichiarare per legge (questo è l’unico frutto giuridico di quelle poche righe) che la Shoah è un delitto italiano.
Si tratta di una certificazione che chiude per sempre ogni dibattito sul fascismo. È vero, la data da me indicata nella prima stesura era il 16 ottobre, la notte del 1943 in cui 1017 cittadini italiani ebrei sono stati strappati dalle loro case a Roma da soldati tedeschi su indicazioni dettagliate della polizia italiana. Tutto ciò è avvenuto nel silenzio di Roma, a 500 metri dal Vaticano. E il treno italiano per Auschwitz ha viaggiato in orario per giorni e per notti con un carico umano che non è mai più ritornato.
La data non è stata cambiata dal Parlamento. Il 27 gennaio era già stato indicato come possibile "giorno della memoria " di tutta l’Unione europea e suggerito vivamente da Tullia Zevi, allora presidente delle Comunità Ebraiche italiane, per indicare, nella caduta dei cancelli di Auschwitz non la fine di un incubo (che finirà solo nel maggio successivo) ma la vastità del delitto che Auschwitz-Birkenau,più di altri campi, rappresentava: ebrei ma anche Rom, omosessuali e tanti fra coloro che avevano avuto il coraggio di opporsi. L’identità collettiva, Valentina, è quella di coloro che anche oggi dicono no, qualunque sia il rischio.
Furio Colombo
E il fascismo sparì dal dizionario
Una parola abusata per troppo tempo, che qualcuno ha proposto di abolire.
Ma si può censurare la realtà storica?
Anticipiamo uno stralcio del contributo dell’autore alla raccolta Società totalitarie e transizione alla democrazia. Saggi in memoria di Victor Zaslavsky, a cura di Tommaso Piffer e Vladislav Zubok, Il Mulino, pagg. 543, eur 37,00, in libreria dal 1° dicembre
di Emilio Gentile (Il Fatto Quotidiano, 25.11.2011)
MISONE IL CHENESE, annoverato da Platone fra i sette saggi dell’antica Grecia, era un filosofo contadino che l’oracolo di Delfi aveva detto essere il più saggio fra i Greci. Tuttavia, pochissime tracce del suo pensiero sono state tramandate. Ma fra le pochissime, ve n’è una che conferma la sua saggezza: «Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole». Più che ai filosofi, la massima di Misone dovrebbe attagliarsi agli storici, che studiano la genesi e lo svolgimento delle esperienze umane del passato, alle quali sono quasi sempre associate parole nuove - qui diremo i concetti - usate da coloro, che quelle esperienze vissero, per denominarle e definirle lasciandole poi in eredità ai posteri. Le cose e le parole tramandate dalla storia sono l’oggetto della ricerca e dell’interpretazione degli storici. Ma gli storici non sono sempre concordi nell’interpretare le esperienze del passato come non lo sono nel definire il significato dei concetti ad esse associati.
Un caso fra i più recenti, universalmente noto, è la parola “fascismo”. La parola ebbe origine in Italia da un movimento politico, la cui esperienza iniziò, si svolse e si concluse fra il 1919 e il 1945. Durante lo stesso arco di tempo, la parola “fascismo” fu applicata ad altri movimenti politici sorti fuori d’Italia negli anni fra le due guerre mondiali, per essere poi ulteriormente estesa, dal 1945 ai giorni nostri, a movimenti, ideologie, regimi, mentalità, costumi e comportamenti i più svariati e i più disparati, disseminati in ogni parte del mondo, e persino in tempi e luoghi precedenti di molti anni la comparsa del fascismo in Italia. Con l’inflazione del termine, anche il suo significato è stato continuamente elasticizzato fino a perdere ogni consistenza propria e ogni attinenza con il fenomeno storico da cui ebbe origine.
La stessa sorte è toccata ad altre due nuove parole, “totalitario” e “totalitarismo”, che fecero la loro comparsa nella storia dopo l’ascesa del fascismo al potere alla fine del 1922. Le due parole furono coniate fra il 1923 e il 1925 per definire la natura e l’originalità del partito fascista, la sua organizzazione, il suo modo di agire e il nuovo regime politico cui esso diede origine. Dopo il 1926, la parola “totalitarismo” fu adoperata per definire altri nuovi regimi politici, che nell’organizzazione e nei metodi del potere avevano somiglianza con il totalitarismo fascista, come il comunismo sovietico e il nazionalsocialismo . Poi, dal 1945 ai giorni nostri, anche l’uso del termine “totalitarismo” ha subito una dilatazione inflazionistica, essendo applicato a movimenti, regimi, ideologie, mentalità e comportamenti i più vari e diversi, al punto da far perdere il significato storico originario del termine e la sua connessione con la “cosa” dalla quale aveva avuto origine.
Quasi novant’anni sono passati dalla comparsa nella storia del fascismo e del totalitarismo. Almeno fino all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, l’associazione fra fascismo e totalitarismo è stata considerata evidente. Invece, a partire dagli anni Cinquanta, ci sono stati studiosi i quali, pur senza avere un’adeguata conoscenza né della storia del fascismo né delle origini del totalitarismo, hanno negato l’associazione fra fascismo e totalitarismo, sostenendo, come fece la filosofa Hannah Arendt nel 1951, che il fascismo non fu totalitario, e che pertanto non aveva senso parlare di “totalitarismo fascista”, riservando l’uso del concetto di totalitarismo esclusivamente per lo stalinismo e il nazionalsocialismo. Altri studiosi hanno invece sostenuto che neppure questi due regimi possono essere definiti totalitari, giungendo quindi alla conclusione che il totalitarismo non è mai esistito, e che pertanto il concetto stesso non ha alcuna utilità. Esempio estremo di questa negazione è stata la proposta, formulata nel 1968 su un’autorevole enciclopedia di scienze sociali, di bandire il concetto di “totalitarismo” dalla storiografia e delle scienze sociali. Un’analoga proposta fu formulata nello stesso anno per il termine “fascismo”, adducendo come motivo l’uso spropositato del termine stesso.
Non mi risulta sia mai accaduto, nella storiografia e nelle scienze sociali, che la controversia su un concetto scaturito dalla realtà storica abbia indotto gli studiosi a concludere con la richiesta della sua messa al bando, cioè ad operare una operazione di censura, solo perché è stato usato a sproposito o perché gli studiosi non sono giunti a darne una definizione unanime. se tale condizione fosse sufficiente per decretare la messa al bando di un concetto storico, dovrebbero essere eliminati dalla storiografia e dalle scienze sociali concetti altrettanto controversi e di uso altrettanto spropositato, come despotismo, dittatura, libertà, rivoluzione, feudalesimo, rinascimento, capitalismo, democrazia, repubblica, bonapartismo, liberalismo, comunismo, socialismo, conservatorismo, radicalismo, e tutti gli altri ismi della storia. Quali conseguenze potrebbe avere un siffatto “negazionismo concettuale” per la storiografia, è facile immaginarlo.
La buona memoria
Dagli scienziati agli storici così continua la lezione di Levi
di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 27 aprile 2011)
Nel tardo pomeriggio dello scorso 11 novembre, a Torino, il professor Massimo Bucciantini prendeva la parola sul tema «Esperimento Auschwitz». La sua era la «Lezione Levi» per il 2011: la seconda di un ciclo organizzato dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi e inaugurato nel 2010 da un italianista di Cambridge, Robert Gordon.
Come già Gordon, anche Bucciantini teneva la sua lezione nell’aula magna (intitolata a sua volta a Primo Levi) della facoltà di Scienze dell’Università di Torino: una sala vasta e austera, sormontata da una riproduzione della tavola mendeleviana degli elementi, nota a tutti i chimici e a tutti i lettori leviani sotto il nome di «sistema periodico». Gli scranni dell’aula erano fittamente popolati da alcune classi del liceo scientifico Galileo Ferraris, docenti e studenti universitari, giornalisti, membri della Comunità ebraica, funzionari della casa editrice Einaudi, lettori (chissà quanto «semplici»).
Un’altra Italia, meno nota a giornali e tv; un’Italia, come Levi diceva di sé, «normale, di buona memoria». Alligna una vasta e sospetta retorica che fa apparire la memoria, secondo i casi, necessaria, doverosa, faticosa, rituale, vana: ma come possa essere «buona» è diventato difficile ricordarselo.
Un esempio - non nella teoria ma nei fatti - viene proprio dal Centro Primo Levi, che è stato fondato tre anni fa da diversi enti pubblici e privati (dalla Regione Piemonte alla famiglia Levi, passando per la Compagnia di San Paolo e la Comunità Ebraica); è presieduto da Amos Luzzatto e diretto dallo storico Fabio Levi (non un parente).
Robert Gordon, che a Primo Levi e alle Virtù dell’uomo normale aveva già dedicato un importante libro (pubblicato in Italia da Carocci), ha fatto notare come nel linguaggio leviano ricorresse l’aggettivo «utile». Le anime belle considerano l’«utilità» come una qualità disdicevole perché non disinteressata. Ma rivestire interesse non è forse un’ottima cosa, nel mondo per nulla diafano delle idee?
Per la memoria, proprio l’utilità è una sorta di condizione di senso: notarlo ha grande importanza, nei tempi in cui per memoria si può intendere anche una macchina che comprime in pochi millimetri quadri intere biblioteche (di cui non sempre sappiamo cosa farci).
Il Centro conserva una buona memoria dello scrittore a cui è intitolato, perché produce cose utili: un sito (www.primolevi.it), una biblioteca, un archivio, l’annuale «Lezione Levi», una collana editoriale con Einaudi (è appena uscito il libro che raccoglie, ampliata e in versione sia italiana sia inglese, la lezione di Bucciantini: sarà presentato al Salone del Libro di Torino). Ecco a disposizione tutte le opere di Levi, traduzioni, saggi, recensioni, audiovisivi... Si tratta di conservare tali materiali o di renderli utili?
La bibliografia su Primo Levi, che riceve cure strenue e minuziose dall’italianista Domenico Scarpa, raccoglie ogni testo, anche minimo, dedicato a Primo Levi: lo censisce, lo indicizza con parole-chiave e lo mette a disposizione degli studiosi, tramite un catalogo che si consulta liberamente nel sito.
Negli anni Sessanta e Settanta, per studiare Primo Levi bastava andare nel centro (urbano) di Torino e fare qualche telefonata e qualche passeggiata tra librerie, biblioteche e archivio Rai ed Einaudi.
Passano gli anni, si accumulano testimonianze sempre più frammentate e disperse per il mondo: oggi, per renderle utili occorrono strumenti telematici e informatici, la memoria e il lavoro di una persona sola non basterebbero.
Proprio la nozione informatica di «memoria» ci aiuta a comprendere che la memoria non è solo conservazione, ma è anche energia, velocità, selezione, possibilità estesa di confronto e collegamento. Né l’utilità va immaginata come una sorta di imbuto che porta energia e risorse dalla collettività a un gruppo ristretto di studiosi.
È in realtà una clessidra, o un prisma in cui la luce converge per venirne ritrasmessa e irradiata. Come sono stati impiegati i mezzi del Centro Studi, da Massimo Bucciantini? Storico della scienza all’università di Siena-Arezzo, Bucciantini si era già cimentato sulla letteratura italiana del Novecento con un libro su Italo Calvino e la scienza (edito da Donzelli).
Ora, oltre a ricordare i rapporti che tra Calvino e Levi intercorsero proprio sui temi scientifici, ha descritto Levi come lo scrittore che ha saputo adoperare gli strumenti sperimentali del «separare, pesare e distinguere» e ha così raccontato Auschwitz non solo come inferno angoscioso, anus mundi, orrore storico, ma come sede di un esperimento scientifico estremo sull’uomo.
Riproducendo nella sua mente e nella sua scrittura tale esperimento nazista e impegnando per i quarant’anni che separano Se questo è un uomo da I sommersi e i salvati la propria intelligenza analitica per coglierne gli aspetti essenziali, Primo Levi ha scoperto l’esistenza della «zona grigia», isolata come un nuovo elemento chimico da posizionare nel Sistema Periodico delle costanti antropologiche: il male non si circoscrive, non si separa dal suo opposto, non è macroscopico ma microscopico.
Questo non serve (solo) agli italianisti per capire Levi. Ai suoi tempi leggere Se questo è un uomo è servito all’anti-psichiatra Franco Basaglia per il suo impegno nella lotta contro la segregazione manicomiale, vinta con la legge che porta il suo nome. Oggi leggere Levi serve per capire, come conclude Bucciantini, che «Quel mondo laggiù e il nostro sono uniti da un vasto e imprevisto camminamento».
Colpiti da un’epidemia di amnesia gli abitanti di Macondo consultano etichette per ricordarsi il nome degli oggetti. Ah, quanto minore scrittore e anche meno fine semiologo di Levi è Gabriel García Márquez! Se la memoria funzionasse così, davvero terremmo solo nomina nuda.
Se Levi e Auschwitz fossero etichette e se dovessimo rileggere Levi al fine di ricordarci di Auschwitz staremmo freschi. Neppure capiremmo alcuna delle sue parole: perché come non c’è etichetta fuori da un sistema di memoria, non c’è memoria fuori dal desiderio di comprendere ciò che non abbiamo mai conosciuto, o fuori dalla necessità di esprimerlo.
MITO, STORIA, E "IMMAGINAZIONE" AL POTERE. (SUL TEMA, SI CFR.: PAUL VEYNE, " I GRECI HANNO CREDUTO AI LORO MITI?", IL MULINO, BOLOGNA 1984):
UNA "ODISSEA" ALL’ALTEZZA DEI TEMPI: LA "STORIA" DI "ULISSE" NARRATA DAL PUNTO DI VISTA DEI "PROCI". Eva Cantarella entusisasta del lavoro di Zachary Mason: una "nuova, bellissima riscrittura dell’Odissea".
Sulla riscrittura dell’Iliade, da aprte di Baricco, nel sito, si cfr.: DALL’ILIADE ALL’ODISSEA: ALESSANDRO BARICCO, IL CIECO OMERO DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
«Il signore degli inganni» di Zachary Mason propone una serie di variazioni sul mito protagonista dell’Odissea
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 14.11.2010)
Emerso dai cumuli di immondizia disseccati di Ossirinco, un papiro pretolemaico ci ha restituito quarantaquattro succinte variazioni della storia di Ulisse: così si legge nella Prefazione a Il signore degli inganni. I libri perduti dell’Odissea di Zachary Mason (Garzanti, pp. 223, 15,60, traduzione di Laura Noulian). Una notizia che sconvolgerebbe il mondo dell’antichistica e non solo, se vera. Ma ovviamente non lo è. È un’invenzione letteraria che consente a Mason di presentare una serie di brevi racconti che parlano, o fanno riferimento, al ritorno di Ulisse dalla guerra di Troia. Di riscrivere, insomma, un’Odissea diversa da quella omerica, piena di colpi di scena e di sorprese.
A cominciare da quella di cui al primo racconto. Tornato in patria, Ulisse scopre che Penelope si è risposata. Ovviamente, che in vent’anni le cose potessero essere cambiate se l’era immaginato, e aveva pensato al peggio (la città abbandonata, Penelope morta), ma che lei avesse smesso di sperare nel suo ritorno, questo no, non se lo sarebbe mai aspettato: «Un viaggio così lungo - pensa - e tanti di quei posti in cui avrei potuto fermarmi». Una frase che l’Ulisse omerico avrebbe ben difficilmente detto.
È un personaggio molto diverso da quello che Omero ci ha insegnato a conoscere, quello dei «libri perduti», e diverse sono anche le sue avventure e le sue scelte. Giunto alla terra dei Feaci, per cominciare, sposa la figlia del re, la bella Nausicaa, sedotto non solo dal fascino di lei, ma anche e in primo luogo avendo presenti «i vantaggi di un nuovo matrimonio rispetto agli svantaggi di un mare senza sentieri» (racconto numero 23).
Questo Ulisse, inoltre, grazie alla proverbiale astuzia, in una delle «variazioni» (numero 21) riesce a sposare Elena: proprio lei, la causa della guerra. E sempre grazie alla sua astuzia riesce a far sì che a Sparta, come moglie di Menelao, vada la fida Penelope (che tanto fida non era, visto che, a breve distanza dal matrimonio, trovando Menelao insopportabile, si lascia sedurre da Paride, e fugge con lui).
Altra sorpresa: le disavventure di Ulisse non sono affatto dovute all’ira di Poseidone, al quale aveva accecato il figlio Polifemo. Dipendevano dal fatto che aveva osato respingere le avances di Atena, la dea sua protettrice (numero 13).
Inutile soffermarsi su altri racconti: a questo punto, le ragioni del successo del libro sono intuibili. Diventato rapidamente un caso letterario, ha entusiasmato la critica anglosassone, che lo ha giudicato (son parole di Simon Goldhill sul TLS) «forse il più rivelatore e brillante incontro in prosa con Omero, dopo James Joyce».
Non è mancato chi ha avvicinato Mason a Borges, e chi leggendolo ha pensato a Calvino. E alle suggestioni e agli accostamenti letterari si potrebbe aggiungere un altro merito non da poco: i «libri perduti» aiutano a riflettere sulla natura e il valore del mito. Nati nella civiltà della scrittura, noi tendiamo a pensare ai testi come a qualcosa di immutabile, ma nelle società orali, quale fu la Grecia arcaica (e in notevole misura anche quella classica), chi ripeteva i racconti tradizionali che fornivano argomento ai miti li modificava, oltre che per seguire il proprio estro poetico, a seconda del messaggio che voleva trasmettere.
Di ogni mito esistevano infinite varianti, che a volte raccontavano storie radicalmente diverse. Un esempio fra tanti: secondo una delle versioni della sua storia Elena non aveva mai abbandonato Sparta e Menelao; secondo altri era partita per Troia, ma non vi era mai arrivata: la nave sulla quale era imbarcata era stata gettata sulle coste egiziane da una tempesta, Elena era stata condotta alla reggia di Memphis, dove era rimasta per tutto il tempo della guerra. A Troia era arrivato un eidolon, un suo simulacro fatto d’aria. Per giustificare Elena, queste versioni fanno combattere a greci e troiani una guerra decennale per una nuvola.
Quel che «i libri perduti» dell’Odissea ci ricordano è che il racconto omerico del ritorno di Ulisse è solo uno dei tanti modi di scegliere e organizzare la materia mitica, che i primi a reinventare i miti furono i greci stessi, e che è stata questa continua reinvenzione a renderli immortali. Ben venga dunque, anche per questo, questa nuova, bellissima riscrittura dell’Odissea.