La felicità? Non costa niente
di Salvatore Natoli *
Debbo confessare che questa mia riflessione è nata dopo la lettura della novità di un giovane autore tedesco, Kai Hensel dal titolo: Quale droga fa per me? Una conferenza introduttiva, in scena a Milano, con la regia di Andrée Ruth Shammah. Il testo è la prima tappa del percorso «Capire il presente». La pièce rappresenta, per usare una formula delle filosofie dell’esistenza, il «male di vivere».
E non v’è dubbio che si vive male. Ma è un destino o un’evenienza? La vita è malattia? Oggi è divenuto di moda parlare di consulenza filosofica, della filosofia come terapia, impiegandola come fosse un farmaco. Da qui se ne dovrebbe trarre la conseguenza che chi sta bene non ha alcun bisogno di filosofia. La conseguenza è impropria perché è errata la premessa. Al contrario, la filosofia ricerca il senso dello stare al mondo e lo fa perché il mondo di per sé incuriosisce. La filosofia, infatti, non nasce dal dolore ma dalla meraviglia, e per intendere il nostro stare al mondo bisogna comprendere il mondo in cui si è, e quindi uscire da sé: per questo gli antichi, e valga per tutti Aristotele, intendevano la filosofia come amore del sapere per il sapere.
Sono allora tentato di formulare il paradosso: chi pratica la filosofia evita d’ammalarsi e quindi, in subordine, chi s’ammala può ritrovare nella filosofia una terapia. Dico questo perché la conferenza-confessione inizia con una citazione di Seneca: «una nave che non conosce la sua destinazione non avrà mai vento favorevole». Questo pensiero suggerisce l’idea che la vita è navigabile, che non è affatto una malattia e meno che mai inguaribile - secondo la sentenza Sileno -; al contrario può capitare d’ammalarsi, ma ciò accade perché si perde la strada o addirittura non si riesce neppure ad imboccarla.
Nella società contemporanea molte sono le cause di malessere ma una delle ragioni, specie nel mondo cosiddetto occidentale, è proprio quella del medio benessere e soprattutto della routine. Per «medio benessere» intendo l’acquisizione di un tenore di vita, bene o male, tranquillo, sia pure con alcuni problemi, ma anch’essi di assoluta routine. Come racconta la protagonista, vi è una qualche difficoltà a pagare il mutuo e il figlio ha problemi a scuola con i compagni. In compenso però si abita «in una deliziosa casa liberty in una stradina tranquilla fiancheggiata da alberi». E tuttavia la vita è vuota: l’amore coniugale è diventato abitudine, i rapporti sessuali peso, i figli, anche voluti bene, obbligo. In queste circostanze la patologia ha un nome ben preciso: noia. È questo è il vero male di vivere. Non il dolore: quand’anche crudele, può divenire, come ben sapevano Leopardi e Nietzsche, uno stimolante della vita, una sfida. È comunque meglio che non vi sia.
Nel grigiore, il male di vivere si manifesta nel non sapere più per cosa vivere. E allora la droga diviene una via di fuga, l’evasione dal medio benessere. E questo benessere, nella pièce è rappresentato in modo talmente medio che perfino il suonare di flauto del ragazzino - una delle tante convenzioni sociali - finisce per dare fastidio. L’unico problema del benessere è mantenerlo. E allora un amante da una qualche parte per rinnovarsi o più modestamente per prendere respiro, va bene. Spesso non si ha la forza di rompere che è pur sempre provare dolore. La logica del benessere tende a contenere il rischio. La droga, quindi, per avere la forza di affrontare la vita reale. Il consumo di droga è poi uno strano fuggire, dal momento che sta diventando così normale da scambiarsi le merci e prestarsi reciproci favori. È un modo per rendersi reciprocamente disponibili e magari cordiali, senza l’esigenza di riconoscersi. La droga per un verso è via di fuga, per l’altro mette al margine. In questa condizione si patisce il disagio, ma si percepisce più acutamente il disagio del mondo, il suo lento sfaldarsi. Ci si interroga. A fronte di questo ci si sente ancor più impotenti, ma il disagio del mondo lo si guarda pur sempre dal proprio. La droga permette di evadere, ma non di guarire.
Certo l’assunzione di droga può essere considerata una sorta d’esperienza del limite, un modo di tentare l’oltre. Potrebbe avere effetti creativi. Solo che, chi sperimenta, calcola il rischio e s’avventura. Chi è in fuga, non sa dove va ma neppure si ferma: semplicemente non arriva. Precipita. La droga è una via di fuga apparente; nei fatti è strada senza uscita, vicolo cieco: disperazione.
L’antica catechesi insegnava che i peccati contro lo Spirito Santo non possono essere mai perdonati: ebbene uno di questi era la desperatio salutis. Chi infatti ritiene di non potere trovare salvezza, non la potrà mai ricevere proprio perché la ritiene preliminarmente impossibile. Non si attaccherà a nessuna mano che lo possa tirar fuori dal baratro perché ha perso ogni fiducia. Solo l’amore per la vita può salvare la vita. Ma l’amore per la vita non coincide con l’amore di sé, poiché la vita è relazione. Per guadagnare quel che Nietzsche chiamava la «grande salute» bisogna liberarsi in primo luogo, dall’ossessione dell’io.
Molto spesso perdiamo la curiosità per il mondo perché lo riduciamo ai nostri bisogni, lo rendiamo la tautologia di noi stessi e perciò non può darci che nausea. È necessario uscire da sé, guardarsi da fuori per capire chi siamo e qual è il nostro posto nel mondo. È proprio quello che insegnava Seneca quando diceva che bisogna guardarsi ex alto, con gli occhi di Dio, se un Dio esiste. O con quelli degli altri se con Spinoza si ritiene che solo l’uomo è utile all’uomo: homo homini deus.
Per far questo bisogna avere la capacità d’amare. Alla fine, a questo s’appella la stessa protagonista della pièce. Ma amare non è né può mai essere un possedere, bensì è sapere accogliere e soprattutto ascoltare. Solo la voce dell’altro, che viene da fuori ci porta fuori, ci libera dal peso insopportabile della nostra monotona ripetizione.
*
www.unita.it, Pubblicato il: 11.10.06. Modificato il: 11.10.06 alle ore 8.54
VITA E FILOSOFIA.
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
Alla cura anti-stress adesso provvedono i consulenti filosofici
di Luciana Sica (la Repubblica, 10.10.2011)
Nessuno ne parla come di una terapia, tanto meno come di un’alternativa all’analisi: nel "prenderla con filosofia" non affascina l’enigmaticità dell’inconscio ma il rigore del pensiero, secondo l’idea che la sofferenza non è psicologica ma culturale: deriva dalla perdita di ogni bussola della mente, dal mondo indecifrabile e insensato in cui viviamo. Esclusa ogni ricetta sbrigativa controi più svariati disagi esistenziali, la consulenza filosofica punta a giocare sulla funzione critica del dubbio, scommette su scenari e argomenti nuovi, tenta di elaborare un punto di vista diverso e non schiacciato sulla realtà.
L’oggetto rimane comunque sfuggente, misterioso, evanescente. Sarà anche probabile che spesso Platone è meglio del Prozac, ma è esclusa la prescrizione dei filosofi al posto dei farmaci, a differenza di quanto promette quel titolo ad effetto del bestseller un po’ facile di Lou Marinoff. Si potrà seguire il percorso di Hegel o Foucault, di Nietzsche o Popper, magari utilizzare il trascendentalismo di Kant o la fenomenologia di Husserl o la riflessione ontologica di Heidegger, ma fa sorridere l’idea di un collage di dotte citazioni e aforismi folgoranti adattati ai problemi di chi non si fida di un piccolo Freud e rischia di affidarsi a un Socrate in versione bonsai. In più, se rimanda a una questione culturale anche molto sofisticata, la consulenza filosofica neppure ancora si configura come un mestiere.
È vero che in Italia, già da una decina d’anni, associazioni più o meno autorevoli e soprattutto master universitari formano consulenti filosofici. Non si sa però con precisione quanti sianoi "professionisti" - più di quattrocento, secondo una stima di massima - e soprattutto se e dove svolgano un’attività che in molti preferiscono definire una "pratica".
Neri Pollastri, nome notissimo nell’ambiente, che per Apogeo ha scritto due libri importanti, il secondo con un titolo problematico: Consulente filosofico cercasi, è il fondatore e l’attuale presidente di un’associazione ormai "storica" come Phronesis. Ma non si affanna a nascondere la realtà: «Sono uno di quei tre o quattro che in tutta Italia vivono facendo esclusivamente il consulente filosofico. Lavoro a Firenze: nel mio studio e da un anno anche in un Centro di salute mentale, insieme con psichiatri e psicoanalisti: un esperimento davvero interessante... Come mi definirei? Una persona che con i suoi strumenti puramente filosofici indaga sulla visione del mondo di un’altra che ne fa richiesta. È una definizione minima, lo so, ma è anche la sola condivisa a livello internazionale. Certamente non dò mai consigli e tanto meno spiegazioni di storia della filosofia: chi viene da me è interessato a ben altro».
È stato il tedesco Gerd Achenbach a inaugurare nel 1981, giusto trent’anni fa, la consulenza filosofica. Da allora si è diffusa in diversi Paesi, come l’Olanda e Israele, la Francia e soprattutto gli Stati Uniti- dov’è diventata una tecnica di problem solving. Come documenta un articolo del Washington Post, ci sono trecento "philosophical counselors" in 36 States che rispondono a un dettagliato elenco di problemi: divorzi, stress da lavoro, rovesci economici, difficoltà genitoriali, malattie croniche, complicate questioni sentimentali. Disagi esistenziali più che patologie evidenti.
Dice Umberto Galimberti, analista junghiano e "apripista" dei master di consulenza filosofica nell’università di Venezia in cui insegna: «Oltre alle emozioni, si ammalano anche le idee che spesso sono anche più forti degli istinti. Se la capacità di ragionare è deficitaria, se si hanno delle idee sbagliate in testa, servirebbe innanzitutto acquisire nuovi strumenti mentali per rendere la propria condizione meno irriflessa. È in questo scenario - quando non c’è più rimedio nella religione, forse neppure in psicoterapia, e tanto meno in farmacia - che va situata la pratica filosofica come critica radicale all’esistente, nel passaggio epocale dalla società della disciplina - del permesso e del proibito - a quella dell’efficienza, del ce la faccio o non ce la faccio...». Ma lei, professore, nel suo studio fa l’analista o il consulente filosofico? «Valuto di volta in volta, ma ormai per un 50 per cento dei casi faccio consulenza filosofica: alcuni di quelli che vengono da me, la chiedono esplicitamente».
Ma chi sono questi "consultanti" che Achenbach chiama "ospiti"? Ne traccia l’identikit Annalisa Decarli, che fa parte dell’Osservatorio critico sulle pratiche filosofiche presso l’ateneo di Trieste: «Sono persone normali che vivono crisi coniugali, lutti, impasse professionali, difficoltà con i figli... E che in alcun modo si considerano "malate". Hanno fra i trenta e i cinquant’anni e sono soprattutto donne: gli uomini non sono più del 30 per cento del totale». A istituire l’Osservatorio è stato cinque anni fa Pier Aldo Rovatti, che ha curato per Mimesis Consulente e filosofo: «È un libro nato da un convegno in cui si faceva il punto sullo stato dell’arte delle pratiche filosofiche in Italia, discutendo a più voci il tema della consulenza individuale, della funzione del filosofo in azienda, nelle scuole, nelle istituzioni pubbliche... Le iniziative concrete intanto si sono moltiplicate, ma almeno per me è l’aspetto filosofico la posta in gioco di tutto: la funzione radicalmente critica del dubbio. Questo era anche il senso del mio libro uscito da Cortina: La filosofia può curare?».
Tra le "iniziative concrete", in questa rigogliosa giungla della filosofia antiaccademica, c’è anche il tentativo di creare felicità spirituale negli ambienti di lavoro, c’è Il business del pensiero, almeno secondo il titolo di un saggio tagliente di Alessandro Dal Lago. Ci sono i manager folgorati dalla filosofia, com’è il caso di Andrea Vitullo, l’autore di Leadershit ("Rottamare la mistica della leadership e farci spazio nel mondo", Ponte alle Grazie), un economista che con la sua società "Inspire"- così si chiama - propone la strategia della consulenza filosofica a grandi banche, aziende farmaceutiche, imprese familiari, multinazionali - come Intesa Sanpaolo, Volvo Trust, Cisco. Dice lui: «Il nostro è un approccio di cuore, di testa, di pancia. L’irrazionale conta moltissimo e la gente ha un bisogno disperato di rintracciare un senso in quello che sta facendo. Funziona così: due consulenti filosofici, che provengono dai master di Venezia e Verona, portano le persone a riflettere su di sé attraverso interventi di gruppo, workshop o anche coaching one to one ».
Socrate dall’agorà in ufficio, per lavorare meglio, meno solitari e meno alienati. E poi, tra scuole e scuolette, anche gli "Sportelli del Filosofo" disseminati nelle città. A Roma ce n’è uno aperto dal Comune e affidato a Rosanna Buquicchio, attivissima presidente di "Vivere con Filosofia": «Affrontiamo il disagio esistenziale dei nostri consultanti attraverso un dialogo che si fonda sullo stile e il metodo della filosofia. Mediamente abbiamo avuto una sessantina di richieste l’anno, il servizio è gratuito...». In questi giorni la sua associazione ha ospitato nella capitale Ran Lahav, guru americano "alla ricerca della saggezza" (come si legge nel titolo di uno dei suoi libri usciti da Apogeo). E però lui stesso sembra dubitare del successo dell’impresa, se il tema della conferenza lasciava aperto l’interrogativo di fondo. Infatti: "La filosofia oggi può ancora aiutare?".
Intervista al professor Gerd B. Achenbach
Chiedilo al filosofo
Un consulente esistenziale
Rivolgersi a un pensatore per far luce su problemi e grovigli interiori è una pratica
un po’ misteriosa, irrisa e temuta dal mondo della psicologia, ma ormai molto diffusa
"Noi cerchiamo di dare soprattutto un chiarimento sul senso della vita, sui suoi malintesi"
"Quelli che vengono da me certo soffrono ma io preferisco chiamarli ospiti"
di Luciana Sica (la Repubblica, 14.06.2008)
ROMA. Oggi l’essenza del dolore sembra soprattutto legata alla difficoltà di reperire un senso per l’esistenza, allo sconcerto che il mondo procura, al bisogno irrisolto di comprendere quel che spiazza e amareggia. E’ un disagio esistenziale diffuso che ferisce e disanima, e che forse può trovare una "risposta" nella consulenza filosofica - quest’oggetto ancora misterioso e visto con sussiego: un po’ irriso, un po’ temuto.
In questi giorni è a Roma Gerd B. Achenbach, il filosofo tedesco che ha "inventato" nel 1981 questa singolare pratica ormai diffusa nel mondo. Poco più che sessantenne, molto charmant e spiritoso, ha insegnato nelle università di Klagenfurt e Berlino, ma oggi si occupa esclusivamente di consulenza filosofica (e di formazione). È un antiaccademico, anche se l’espressione a lui non piace - certo, la sua filosofia applicata al quotidiano sembra una festa dello spirito. Ha scritto molti libri tradotti un po’ ovunque: da noi sono usciti da Apogeo, e il più recente s’intitola Del giusto nel falso, un capovolgimento di un celebre passo di Adorno nei Minima moralia: «Non si dà vera vita nella falsa». Le posizioni di Achenbach sono originali, radicali, nette - difficile dire quanto siano state correttamente recepite dai suoi epigoni.
Professore, intanto è giusta per lei la definizione di "inventore" della consulenza filosofica?
«È un termine che non mi entusiasma. Preferisco dire che ho fondato questa pratica - così come non si inventa, ma si fonda, si costituisce una famiglia».
Domanda scorretta e irritante: la consulenza filosofica è una terapia alternativa?
«No, la consulenza filosofica non è una terapia alternativa ma un’alternativa alla terapia».
È comunque una professione d’aiuto...
«È soprattutto un chiarimento sul senso della vita, sui suoi malintesi, sulle sue banalizzazioni. Se l’esistenza si misura esclusivamente sul successo, il danaro, la bellezza, la giovinezza l’essere umano collassa, svanisce, inevitabilmente vive la propria vita come un progressivo inarrestabile declino. Per dirla con Voltaire, chi non possiede lo spirito della propria età subisce i malanni dell’età... Uno dei sintomi della sindrome da burnout, che in inglese significa proprio bruciarsi, è il lavoro eccessivo, l’ossessione della carriera che conduce al deserto emozionale. Oggi a esserne colpite sono anche le donne che hanno corretto un errore facendone un altro: una volta individuavano il senso della vita nell’allevamento dei figli, ma poi i figli crescevano e si ritrovavano invase dal senso del vuoto, oggi lavorano come dannate e alla sera si sentono comunque svuotate, depersonalizzate. Il problema principale è che c’è la costrizione ad essere "qualcuno", e intanto vengono meno i presupposti per essere un individuo».
Si può dire allora che la consulenza filosofica è una terapia delle idee, di un’erronea visione di sé e del mondo? A cosa mira?
«Nella migliore delle ipotesi, a un’illuminazione sui malintesi che rendono la vita non viva. È necessario innanzitutto capire cosa vuole, qual è l’obiettivo di chi chiede una consulenza.
Molto spesso aspira a un obiettivo irraggiungibile, perde di vista - anzi, disprezza - quel che è possibile avere, e questa ad esempio è una ricetta infallibile per essere infelici».
È vero che la consulenza filosofica, secondo le sue intenzioni, è ametodologica, non ha cioè un metodo?
«È vero e non è vero. Il metodo riguarda la via, il percorso che sta facendo il consultante, che io preferisco chiamare "l’ospite"... Magari vorrebbe una vita risolta, positiva, e invece si trova sull’orlo di un precipizio. È chiaro che il consulente deve avere una qualche conoscenza per correggerne i passi falsi, ma è comunque un lavorare insieme, è un filosofare».
In genere gli "ospiti" che la consultano hanno una qualche patologia?
«Vede, un filosofo tende a risalire al senso etimologico di un termine, e patologia viene da pathos che letteralmente significa sofferenza. Le persone che si rivolgono a me senz’altro soffrono: molti hanno tentato il suicidio, ma assolutamente non vogliono che la loro disperazione venga considerata una malattia, e in effetti "disperazione" non è un termine medico. Insomma, i miei ospiti non avranno una patologia in senso stretto ma stanno male, e soprattutto io non sono un patologo: io sono un filosofo».
Solitamente quanto dura o quanto dovrebbe durare una consulenza filosofica?
«La mia consulenza più bella dura da ventisei anni e credo che finirà quando uno dei due andrà a trovare l’altro al cimitero».
Interminabile... proprio come l’analisi!
«E’ veramente difficile stabilire un tempo».
Anche per la seduta, se così si può dire?
«Il minimo è un’ora, ma può durare anche una giornata se l’ospite viene - che so - da Milano».
È vero che in tutto il mondo sono meno di una decina i professionisti che vivono esclusivamente di consulenza filosofica?
«Secondo me, sono di più: io ne conosco parecchi in Olanda, in Israele, in America...».
Gente che vive dell’aiuto a pensare.
«Non a pensare, a vivere! Per dirla con Hegel, "la filosofia è la domenica della vita" e il nostro obiettivo è un cuore che pensa, esistendo invece molto spesso un pensiero senza cuore e un cuore irragionevole. Anche il coraggio è importante, il "farsi coraggio", un aspetto più emotivo che razionale».
C’è un’espressione italiana, non del tutto estranea a questa nostra chiacchierata, ed è "prenderla con filosofia" - che vuol dire con saggezza ma anche con un certo distacco se non proprio con umorismo... Nella consulenza filosofica l’ironia ha una qualche cittadinanza? O la caccia improbabile al senso di sé e del mondo rende tutto terribilmente cerebrale e serioso?
«Nel mio lavoro l’ironia è importantissima, è l’unica arma a disposizione per evitare gli ingarbugliamenti del pensiero. Ironia è una parola che ha anche un’accezione diversa, quella che gli è stata assegnata dal nostro più grande scrittore del Novecento, Thomas Mann: una modalità per riconoscere e accettare i nostri limiti. L’ironia dal volto umano è fondamentale: è quella che ci consente di amare gli altri».
Nel mondo variegato della psicologia c’è chi teme l’avvento di un esercito di nuovi socrati... Distante mille anni luce dai modelli medico-scientifici che dominano la cultura anglosassone, la consulenza filosofica non entra in rotta di collisione proprio con la psicoanalisi?
«La filosofia non può certamente delimitare i propri spazi e devo dire che non sono assolutamente interessato alla questione. Come filosofo, non intendo affatto muovermi in quello che considero il vicolo cieco della psicoanalisi... Il conflitto c’è, ma si potrebbe anche obiettare che è la psicologia ad aver invaso il campo della filosofia senza averne le competenze. In ogni caso, i grandi psicoanalisti a me non danno alcun fastidio e gradirei che gli altri fossero più ragionevoli: un esercito di piccoli Freud è altrettanto temibile».
Consulenza filosofica e psicoanalisi hanno in comune di essere pratiche destinate a un’élite culturale, non crede?
«Che vuole che le dica? Le persone veramente stupide da me non vengono».
Le piacciono i "Cafè Philo", quelle discussioni filosofiche pubbliche che vanno tanto di moda? Non pensa che siano un fenomeno da salotto che depauperano la filosofia?
«Dipende sempre da chi li conduce, e ci sono tanti di quei pessimi filosofi in giro...».
Un incontro oggi a Roma
ROMA - Gerd B. Achenbach è la "guest star" di una giornata di studi in programma per oggi su "la consulenza filosofica", la professione che il filosofo tedesco ha inaugurato nel 1981 come Philosophische Praxis e che si è rapidamente diffusa in altri Paesi, a cominciare dall’Olanda (in Italia è arrivata più di recente, nel ’99).
"Identità e consulenza filosofica" è il titolo dell’intervento che tiene Giacomo Marramao, mentre Giusy Randazzo affronta la questione controversa di "una proposta di legge per la consulenza filosofica". Rosanna Buquicchio, con una relazione su "Lo sportello pubblico di consulenza filosofica a Roma", è la principale artefice dell’appuntamento organizzato dall’Associazione Psicofilosofia (si terrà nella sala convegni dell’Associazione stampa romana). L’interprete dal tedesco è Claudia Podehl.
Natoli: una carriera da pensatore tra Giobbe e Severino
di ILARIO BERTOLETTI (Avvenire, 04.04.2008)
La forma dell’intervista è uno dei generi privilegiati della fi¬losofia contemporanea. Co¬me se, risultando impossibile un pensiero che pretenda di racchiu¬dere in un sistema l’esperienza, il dipanarsi di domande e risposte tra un autore e un interlocutore fosse il modo per la filosofia di ripristinare il dialogo come forma per eccellenza del suo comunicare.
A questo genere letterario è ricorso anche Salvatore Natoli nel suo ultimo libro, a cura e con postfazione di Francesca Nodari: un’intervista nella quale l’autobiografia, con la contingenza degli eventi accaduti, fa da sfondo al dipanarsi di un pensiero tra continuità e cesure. La formazione in Sicilia, lo studio dei tragici, l’incontro negli anni Sessanta con l’Università Cattolica ove svolgevano il loro magistero pensatori come Bontadini, Severino e Mancini. Lo studio dei classici (Aristotele e Cartesio), i primi lineamenti di un’ermeneutica genealogica, dove il rigore del concetto appreso alla scuola di Severino si coniuga con la lezione di Foucault riguardo alla storicità delle categorie filosofiche. Di qui il lavoro storiografico di questa ermeneutica, in opere ormai classiche - L’esperienza del dolore, La felicità - che ricostruiscono gli scenari attraverso i quali la tradizione occidentale ha pensato le situazioni-limite dell’umano, fino al delinearsi di quel che, al momento, appare l’approdo del pensiero natoliano, l’«etica del finito». Un’etica ove il richiamo ai greci più che un ritorno indica un modello da reinterpretare.
Natoli osserva come nella parola éthos risuonino insieme i significati di morale e dimora. Una pluralità di significati che dà una torsione particolare all’etica come disciplina filosofica: non calcolo di ciò che è utile ai più, né astratta determinazione di doveri, ma ricostruzione degli orizzonti di senso attraverso cui gli uomini scandiscono le varie tappe della vita: la nascita, l’abitare la terra e la costruzione della propria identità, la vecchiaia e la morte. Una prospettiva che, pur nella distanza da una scelta di fede, è anche perspicua investigazione dell’Antico e del Nuovo Testamento. La parole bibliche sono «parole eterne». La disputa di Giobbe, le meditazioni di Qohelet, l’invocazione di Gesù sulla croce: in gioco è la destinazione ultima dell’uomo. Ad apparire costante nel cammino di Natoli è la stringente logicità dell’argomentazione unita all’attenzione per la ricaduta esistenziale della pratica filosofica.
Una filosofia che interroga la vita evitando la scorciatoia della retorica dell’immediatezza, ma che anzi, nel tener ferma la distanza dello sguardo teoretico, rivendica uno dei sensi profondi dell’etimo racchiuso nella parola filo-sofia: amo¬re, tensione alla saggezza. Un compito mai finito.
Salvatore Natoli
LA MIA FILOSOFIA
Forme del mondo e saggezza del vivere
Ets editore. Pagine 136. Euro 12,00.
Parole per nutrire il corpo
Una storica della filosofia, Paola Bianchini, e una psichiatra, Laura Dalla Ragione, riuniscono le loro esperienze nella cura dei disturbi alimentari scrivendo un libro titolato «Il cuscino di Viola» per Diabasis
di Franco Lolli (il manifesto, 07.12.2006)
Il dibattito intorno ai disturbi del comportamento alimentare, sempre più intenso man mano che si fa più inquietante la diffusione di questi problemi, si alimenta ora di un importante contributo, titolato Il cuscino di Viola. Dal corpo nemico al corpo consapevole (ed. Diabasis), scritto a quattro mani da una storica della filosofia, Paola Bianchini, e da una psichiatra, Laura Dalla Ragione, che hanno riunito le loro esperienze nello sforzo di sottolineare, con credibilità e determinazione, quanto sia necessario al processo terapeutico assegnare una speciale considerazione alla parola e al corpo. Il cuscino di Viola, da cui il libro prende il titolo, è quello su cui la ragazza di cui si parla ha scritto le parole che hanno scandito il suo lavoro terapeutico a Palazzo Francisci di Todi, la prima struttura pubblica dedicata ai disturbi alimentari: sono parole, quelle di Viola, sedimentate come un prezioso distillato, che raccoglie i frutti della fatica necessaria alla propria riabilitazione: in segno di gratitudine, quelle parole le ha lasciate in dono alle altre ragazze e agli operatori della struttura che l’ha seguita nel suo tragitto di cura.
Alla parola, più che a ogni altro mezzo, le autrici del libro riconoscono il potere di produrre una trasformazione nell’economia del godimento che caratterizza il fenomeno anoressico-bulimico, attribuendole il sofisticato e delicato compito di disincagliare il soggetto dalle secche del silenzio in cui il sintomo prolifera; e tanto fiduciosa è l’attribuzione di senso alla parola da avere spinto le due autrici ad affidarsi a una esperienza del tutto inedita nel panorama terapeutico dei disturbi alimentari: quella di introdurre nel percorso riabilitativo uno spazio riservato alla riflessione filosofica, uno spazio dedicato allo scambio verbale e alla costruzione di un sapere.
L’asse portante del libro, del resto, è costituito proprio dalle parole delle ragazze ospiti del Centro: è intorno ai loro scritti e ai frammenti delle loro lettere che la costruzione teorica prende forma, spingendo verso l’elaborazione di una strategia di cura che «usa la parola, l’amore, il coraggio, la paura, come strumenti di guarigione». La parola, dunque, è intesa come un’arma potente, in grado di frantumare l’incantesimo mortifero nel quale il soggetto è imprigionato. Ma mentre le due autrici attribuiscono una importanza cruciale alla facoltà del simbolico di arginare, almeno in parte, l’irruenza delle pulsioni, assicurando pacificazione e conforto, al tempo stesso sottolineano l’importanza del corpo, e del suo ingombro invasivo, nella patologia anoressico-bulimica.
In questione non è tanto la eventuale disfunzionalità organica di un corpo ridotto a organismo malato, a macchina biochimica da riparare, quanto la complessità di quel processo che porta alla assunzione soggettiva del proprio corpo in un mondo che ha eletto le fattezze fisiche a strumento di affermazione, di esibizione, di persuasione e di esaltazione narcisistica.
L’incidenza del corpo nel sintomo anoressico-bulimico è un dato clinico evidente e incontestabile: è nel corpo, infatti, che la sofferenza del soggetto si incarna e si incista, attraverso un trattamento spietato che ne modifica l’aspetto, la funzione, il significato, la progettualità. Scheletrito o gonfiato, eccessivo o minimizzato, mortificato o esibito con orgoglio, desesualizzato o iperinvestito eroticamente, immobilizzato o stressato dall’attività, rifiutato o estetizzato, qualunque sia l’eccesso in cui si manifesta, il corpo è utilizzato come segnale di una impasse soggettiva che invoca l’intervento dell’altro per mettere fine al processo di autodistruzione.
«Corpi in cerca di autore» è lo slogan con cui viene felicemente definito il rapporto che le ospiti del Centro di Todi devono stabilire con la propria fisicità; al corpo, infatti, è affidato il compito di rappresentarle, ma proprio a causa degli eccessi, a volte spudorati, cui viene sottoposto, il corpo risulta evaporato o quantomeno eclissato. Il lavoro terapeutico consiste, allora, proprio nello scovare l’autore di un corpo che non è più in grado di dire niente della persona che lo abita. Quel che si rende più di tutto necessario è sollecitare la responsabilità personale affinché si riesca a superare la barriera abbagliante della fisicità, affinché si riescano a interpretare i sintomi inviati dal corpo arrivando a rintracciare l’unicità della persona, la sua singolarità fino a quel momento rimasta in ombra. E lo si ottiene bucando la cortina dell’evidenza offerta dal fenomeno sintomatico - scrivono Bianchini e Dalla Ragione - per cercarne, come in filigrana, il protagonista.
Questa estrema attenzione alla irripetibilità di ciascuna persona, al di là delle somiglianze con gli altri che i sintomi possono offrire, si configura come la trama principale del testo, tra le cui pagine ricorrono considerazioni sulla intensità della sofferenza, che eccede la semplice dimensione organica, lasciando intuire la scrupolosità clinica e la serietà teorica delle autrici. Il valore del loro libro, infatti, sta nella capacità di mostrare la stratificazione della sintomatologia anoressico-bulimica, portando alla luce il disagio psichico, il profondo malessere e il turbamento esistenziale di chi soffre di queste patologie, troppo spesso liquidate semplicisticamente come malattie dell’appetito. E come si rende evidente mano a mano che si procede nella lettura, i problemi che riguardano il cibo, il peso e l’immagine di sé costituiscono, essenzialmente, una maschera, una specie di camuffamento inconscio del soggetto che tenta di contrastare una angoscia non espressa e perciò stesso ancora più temuta e invadente, che poco ha a che fare con le calorie o la bilancia.
Compito della cura sarà dunque far sì che il dolore, la paura, la sofferenza possano trovare un lessico per esprimersi, perché - come scrive Viola alludendo al Centro dove è stata curata - «le parole possono farti ammalare», ma al tempo stesso «qui ho capito che le parole possono farti guarire».
Consolazioni
Clienti disperati cercasi per idee a buon mercato
In una sorta di manuale scritto da Peter B. Raabe e titolato «Teoria e pratica della consulenza filosofica» l’interlocutore diventa «cliente» e il procedimento discorsivo imita il fare terapeutico Segno emblematico di illusioni adatte alla mercificazione, la «consulenza filosofica» è al centro di un libro scritto da Pier Aldo Rovatti con l’intento di correggere le derive del «professionismo»
di Marco Bascetta (il manifesto, 10.10.2006)
Tra convegni, pubblicazioni, interviste e interventi sulla stampa quotidiana, la «consulenza filosofica», promossa da illustri cattedratici, trasfusa in master e specializzazioni, sembra avviarsi, anche in Italia, a un’espansione senza resistenze. Nella convinzione, del tutto indimostrata, ma ideologicamente saldissima, di incontrare il favore del mercato e una crescente domanda. Si immaginano così aziende interessate all’intervento del filosofo per motivare i propri dipendenti, singoli delusi dalle psicoterapie rivolgersi alla «consolazione della filosofia» e, magari, committenze pubbliche che affianchino, per esempio nelle carceri, al prete e all’assistente sociale, il consulente filosofico. Per quanto improbabili, questi scenari vengono sconsideratamente venduti sul mercato della formazione e delle illusioni occupazionali. Non varrebbe nemmeno la pena di tornare sull’argomento se la «consulenza filosofica» non rappresentasse un segno emblematico del nostro tempo e, più precisamente, della sua mercificazione.
Obiettivi scambiati per pericoli
È in questo contesto, e con l’intento di correggere tempestivamente le possibili derive del «professionismo filosofico» che Pier Aldo Rovatti dedica un agile, intelligente volumetto La filosofia può curare? (Cortina, pp. 99, Euro 9) alla «pratica» della filosofia e cioè a quel possibile uso del pensiero critico che non è solo approfondimento e trasmissione delle conoscenze, ma costruzione del sé e resistenza contro i poteri disciplinari e i dispositivi dello sfruttamento. Strana operazione, quella di Rovatti, tanto che al termine della lettura e proprio in virtù delle sue argomentazioni, si è portati ad escludere che la filosofia come «consulenza» pratica, con un qualche valore critico, possa mai esistere.
Infatti proprio quelli che Rovatti indica come i pericoli e le derive della «consulenza filosofica» sono precisamente gli obiettivi che i sostenitori della «professione» si propongono. Basta andarsi a sfogliare qualcuno dei trattati-manuali che cominciano a circolare nel panorama editoriale italiano. In primo luogo Rovatti, che segue l’impianto foucaultiano della «cura di sé», insiste su una decisa presa di distanza dalla «dimensione autoritaria e coercitiva della cultura terapeutica» che oggi si presenta più frequentemente come ragionevole e ragionato «invito all’autolimitazione», come riconquista di un equilibrio «sano» e dunque pacificato. Fatto sta che i teorici della «consulenza filosofica» non mostrano alcuna inclinazione a distinguersi, quanto al «gioco di potere», dagli psicoterapeuti. E Foucault, come Rovatti stesso rileva, è un autore del tutto ignorato dai cultori della professione. Sarà un caso? Se dunque l’autore ha in mente una foucaultiana «politica della soggettività» dovrebbe percepire come fumo negli occhi quella idea di «professione», di «lavoro produttivo» di «funzionalità», che sta al centro del progetto della «consulenza filosofica» e agli antipodi del pensiero critico e della sua pratica politica. «La politica della filosofia - scrive Rovatti - comporta infatti una respirazione-contro, non semplici spazi per riflettere meglio ma per indirizzare il pensiero proprio contro quella cultura aziendale che ti chiede, perfino con l’offa della filosofia, di essere più riflessivo, cioè più produttivo». È una formulazione pienamente condivisibile. Ma per quale ragione le aziende, corteggiate dai consulenti filosofici e continuamente invocate nelle pubblicità dei relativi master, dovrebbero mettersi simili serpi in seno? La filosofia, come esercizio critico e come pratica di resistenza è del tutto incompatibile con l’idea di «professione», di «consulente», di terapeuta, di specialista retribuito. La si potrà vedere all’opera nei seminari autogestiti delle università occupate, nelle riviste, nei numerosi dibattiti in centri sociali e collettivi politici, perfino nelle scuole e nelle università nelle quali la rassegnazione, la noia, la routine e la riforma Zecchino-Berlinguer non abbiano finito di devastare le menti, piuttosto che nello studio di un consulente, con il busto di Socrate sulla scrivania e la parcella nel cassetto.
In una sorta di manuale, appena uscito per le edizioni Apogeo, scritto da Peter B. Raabe e titolato Teoria e pratica della consulenza filosofica, (pp. 330, Euro 18) l’interlocutore del filosofo è definito «cliente» e la procedura discorsiva segmentata per fasi predefinite che scimiottano per filo e per segno il procedimento terapeutico. Il resoconto dei casi concreti, al termine del volume, rivela una farraginosa evoluzione, condita di qualche dotta citazione, della «posta del cuore». Ecco dunque il folto menu di «arte della vita» che la «consulenza filosofica» sottopone al cliente: «la consulenza matrimoniale, il lutto, il lavoro pastorale, la consulenza accademica e l’attenuazione dei problemi, la consulenza sulla carriera e il management consulting, lo sviluppo dell’autostima, questioni e problemi di autoidentità, problemi religiosi o spirituali, questioni esistenziali o relative al senso della vita, problemi di acculturazione, problemi specifici di certi periodi della vita o della mezza età, questioni sociali e politiche, problemi interpersonali, familiari, intergenerazionali sia di gruppo sia individualmente, sensi di colpa, depressione, rabbia e così via, associati ai problemi che abbiamo elencato, o derivanti da questi».
Di tutto, dunque, ma dominato, nell’elencazione stessa delle possibili «prestazioni filosofiche», più dalle tonalità dell’adattamento, dell’equilibrio, della ricomposizione, che da quelle della critica e del conflitto. In questi panni ci si vede più Francesco Alberoni che Michel Foucault. Siamo in una dimensione del tutto antitetica alla «politica della soggettività», a quell’esperienza critico-pratica del pensiero, rivendicata da Rovatti contro l’autorecinzione accademica della filosofia. La spiegazione dei caratteri che dominano la teoria e la pratica della consulenza filosofica, nonché l’interesse delle «aziende» universitarie per questa nuova merce formativa, risiede nella sua genealogia, nelle circostanze e nel tempo storico in cui compare sulla scena.
La consulenza filosofica nasce nella Repubblica federale tedesca nel 1981 ad opera di Gerd B. Achenbach e trova fertile terreno nel mondo anglosassone. Due sono i fattori che ne determinano la nascita. Il primo, evidente, è la disoccupazione intellettuale di massa, vissuta come patologia sociale piuttosto che come crisi di sistema. Il secondo è l’affermarsi della produzione immateriale, l’immissione delle facoltà intellettuali, delle sensibilità individuali, delle esperienze e delle capacità relazionali nel dispositivo della produzione e dell’accumulazione del profitto. O meglio, la percezione distorta, acritica quando non apologetica, di questi fenomeni. È appunto negli anni ’80, durante la cosìddetta «svolta linguistica» dell’economia, che si affermano concetti (meglio ideologie) come «capitale umano» o «professionalità», formula applicata alle occupazioni più improbabili, come principio di disciplinamento produttivo «universale» in quanto non limitato ad alcun contenuto specifico, come invece accadeva per le vecchie concrete professioni. Condizioni, queste, assolutamente proprie della postmodernità e all’interno delle quali è del tutto privo di senso evocare Socrate, Epicuro, Seneca e altri mostri sacri della filosofia antica (curiosamente non si citano mai i sofisti che, se non altro per la loro inclinazione mercenaria, sarebbero più strettamente imparentati con i nostri consulenti). Il consulente filosofico si sviluppa, seppur con minore fortuna, probabilmente per la sua discutibile utilità, insieme con addetti alle pubbliche relazioni e pubblicitari, psicologi aziendali e «creativi» d’ogni genere, consulenti finanziari e animatori dei villaggi-vacanze, conduttori di Talk show ed «esperti di immagine».
Una pratica fuori mercato
Insomma, fino allora i filosofi avevano interpretato il mondo, ora si trattava di metterli al lavoro, ben guardandosi dal cambiarlo. E, tuttavia, nonostante questo fiorire di «professionalità» immateriali, il mondo non pullula di filosofi che campino delle loro consulenze. Sarà perché è l’agente di borsa ad avere maggior dimestichezza con la metafisica applicata e sono Beppe Grillo o Adriano Celentano a incarnare la filosofia morale del presente, sarà perché la filosofia (ormai di ogni stilista, di ogni strategia di marketing, di ogni discoteca o agenzia di viaggi si dice che abbia la sua «filosofia») a tutto serve tranne che a fare «il filosofo», come che sia il consulente non decolla.
Una minima percezione del tempo in cui viviamo dovrebbe sconsigliare l’invenzione di un nuovo specialismo nel generale tramonto degli specialismi. Ed è sconsolante vedere prestigiose università e illustri accademici vendere agli studenti siffatte fandonie. Allora ben venga la strada indicata da Rovatti, ma con la consapevolezza che l’esercizio del pensiero critico, la cura di sé e degli altri, non è una professione, ma la pratica che tutte le scardina, non sta nel mercato ma lo eccede. E se non rende niente, pazienza. L’astuzia della ragione trova sempre il modo di sbarcare il lunario.
Dagli Usa arriva l’allarme: per risparmiare tempo e soldi, le pillole sostituiscono la psicanalisi. Ecco cosa succede in Italia
In America le pillole sostituiscono sempre più il divano dello psicanalista
La fuga dal lettino di Freud
Per i "mali dell’anima" si prescrivono sempre più farmaci Soprattutto negli Stati Uniti, dove diminuisce il ricorso alle terapie psicologiche: in dieci anni sono scese dal 44 al 29% Ma in Italia, per ora, l’analisi ha ancora la meglio Nel nostro paese gli specialisti sono molti. A mancare sono le strutture adatte Anche ai bambini iperattivi vengono prescritti farmaci per il deficit di attenzione Molti interrompono non perché stanno meglio, ma perché non hanno i soldi
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 2.10.2008)
In America la pillola spodesta la parola. Più facile ricorrere al farmaco che alla psicoterapia. Agli effetti immediati della pasticca, piuttosto che a defatiganti colloqui sul divanetto, s’affidano sempre più gli psichiatri che operano negli Stati Uniti. La tendenza è stata documentata dalla autorevole rivista Archives of General Psychiatry, che ha fornito cifre significative: le cure medico-psicologiche oggi in corso in America soltanto per il 29% si basano sulla terapia della parola, mentre dieci anni fa la percentuale era intorno al 44%. Sempre più numerosi - dice ancora lo studio di Ramin Mojtabai e Mark Olfson - sono gli psichiatri specializzati in terapie farmacologiche e sempre meno quelli attrezzati per la psicoterapia.
In America la pillola spodesta la parola. Più facile ricorrere al farmaco che alla psicoterapia. Agli effetti immediati della pasticca, piuttosto che a defatiganti colloqui sul divanetto, s’affidano sempre più gli psichiatri che operano negli Stati Uniti. La tendenza è stata documentata dalla autorevole rivista Archives of General Psychiatry, che ha fornito cifre significative: le cure medico-psicologiche oggi in corso in America soltanto per il 29% si basano sulla terapia della parola, mentre dieci anni fa la percentuale era intorno al 44%. Sempre più numerosi - dice ancora lo studio di Ramin Mojtabai e Mark Olfson - sono gli psichiatri specializzati in terapie farmacologiche e sempre meno quelli attrezzati per la psicoterapia. Non ammette equivoci il grafico che copre l’intero arco di tempo tra il 1996 e il 2005, analizzato sulla base del funzionamento degli ambulatori medici: se prima il 19% degli psichiatri sceglieva per tutti i pazienti la psicoterapia, ora il numero precipita al 10,8 per cento, quasi la metà. Freud ricacciato in soffitta, come sintetizzano i giornali americani? In realtà le medicine minacciano di liquidare non solo l’analisi più ortodossa, ma oltre le quattrocento varietà di psicoterapia oggi praticate negli Stati Uniti.
A cercare le cause di questa nuova tendenza, ci si imbatte in molte ragioni, alcune d’ordine banalmente materiale. I soldi, innanzitutto. Massimo Ammaniti, professore alla Sapienza di Psicopatologia dello sviluppo, ci fa notare come siano cambiate le norme delle assicurazioni americane, che prima rimborsavano le psicoterapie e oggi prevalentemente gli psicofarmaci. La questione dei costi è influente. Non è un caso che la dittatura della pillola dilaghi ovunque tranne che a New York.
«Se sei ricco e abiti a Manhattan», ha dichiarato il dottor Mojtabai, «è più facile risolvere i traumi infantili presso lo studio di qualche psicoanalista». Più difficile per un navajo in Arizona. Con buona pace di Woody Allen, che non dovrà rinunciare a un fortunato filone cinematografico.
Il denaro spiega molto, ma non tutto. La consuetudine con la pillola è anche il frutto d’una mentalità diffusa. Dall’infanzia alla senescenza, il farmaco è percepito dagli americani come rimedio risolutivo. «Capita spesso», dice Ammaniti, «che le maestre elementari chiamino i genitori a scuola per suggerire indicazioni farmacologiche destinate ai bambini iperattivi. Oggi la sindrome più denunciata è quella da deficit di attenzione, l’Attencion Deficit Hyperactivity Disorder. L’uso della categoria diagnostica mi pare fin troppo disinvolto: gli italiani sono molto più cauti nel fare diagnosi in campo infantile. E soprattutto nel somministrare ricette».
Il nostro paese appare ancora distante dalla pratica americana, pur con qualche avvisaglia di omologazione. «Il rischio è di andare in quella direzione», lamenta Simona Argentieri, psicoterapeuta di formazione freudiana. «Da noi troppo spesso prevale un uso improprio della pillola per tamponare le difficoltà del vivere. Quella tra disturbo e psicofarmaco rischia di diventare una correlazione meccanica, una scorciatoia meno impegnativa della psicoterapia, che richiede tempi più lunghi, soprattutto umiltà e intelligenza del cuore». Il farmaco, secondo la studiosa, accontenterebbe un po’ tutti. I pazienti, alleggeriti dal’incubo di doversi mettere in discussione. E i medici, talvolta costretti a incontri frettolosi in strutture pubbliche inadeguate. «Anche da noi ha attecchito la filosofia sintetizzata nel Diagnostic Statistical Manual, il manuale più diffuso al mondo con il nome di Dsm. Hai tali sintomi? Allora prenditi questa pillola. L’emozione è ridotta pura reazione neurochimica. Per il paziente non c’è più ascolto, solo una ricetta medica».
A favore della pasticca giocano le industrie farmaceutiche, ma anche una letteratura medica internazionale che sempre più incoraggia l’integrazione tra le diverse terapie. «Tra psicoterapia e farmaco non c’è più contrapposizione assoluta, come poteva accadere un tempo», interviene Nino Dazzi, ordinario di Psicologia, oggi alla guida della commissione ministeriale che regola gli accessi alla professione. «In alcuni casi, l’associazione tra pillola e parola può essere quella che funziona meglio. Ma il problema si pone se a spingere a favore del farmaco non è la sindrome del paziente, ma i servizi pubblici insufficienti. L’impressione è che non sia possibile praticare la psicoterapia come invece sarebbe richiesto, e che dunque la soluzione farmacologica risulti il rimedio quasi obbligato».
Difettano i servizi pubblici, non certo gli psicoterapeuti. In Italia operano nutrite leve di professionisti molto attrezzati, selezionati da una legge tra le più rigorose in Europa. Si accede alla professione o specializzandosi in Psichiatria con una formazione medica o dopo la laurea in Psicologia con un diploma di specializzazione conseguito presso una delle Scuole abilitate alla formazione. «La gran parte di queste Scuole è privata», spiega Dazzi, «ma la nostra commissione dà o nega l’autorizzazione sulla base di alcuni requisiti rigidamente fissati». Qui è forse la specificità italiana, la presenza di una vasta area di operatori che interviene nel campo della salute mentale senza ricorrere alla pasticca. «Mentre in America gli psicologi possono somministrare farmaci», spiega Ammaniti, «da noi questa facoltà è interdetta ai terapeuti sprovvisti di laurea in Medicina».
Per l’Italia vale anche un diverso clima culturale, segnato da alcune riforme fondamentali. Quella di Franco Basaglia, esattamente trent’anni fa, è considerata l’architrave d’una rivoluzione di tipo copernicano. «Potrà essere criticata o giudicata insufficiente», interviene Luigi Onnis, ordinario di Psichiatria e direttore dei servizi di psicoterapia al Policlinico Umberto I di Roma, «ma quella riforma ha avuto l’effetto di mutare radicalmente l’approccio alla malattia mentale. Il paziente non viene più trattato soltanto farmacologicamente e non soltanto dentro le istituzioni. Questo implica il riconoscimento che i problemi alla base della malattia mentale non sono soltanto biologici ma anche di natura psicologica ed esistenziale. Da questa acquisizione non si può tornare indietro». Una sensibilità registrata perfino dai bugiardini di alcuni psicofarmaci. «Nelle edizioni italiane di molti farmaci si legge che la somministrazione funziona solo se è accompagnata da una psicoterapia adeguata. Un buon segnale, no?».
Se quella italiana è una storia più complessa, che dovrebbe preservarci dall’indigestione di psicopillole, rimane il fatto che oggi la psicoanalisi in senso classico - tre sedute alla settimana, per un numero infinito di anni - è un bene di lusso riservato a un’élite. «Gli stessi psicoanalisti stanno rivedendo le modalità per allargare il campo», dice Onnis. «In questi anni è entrato in crisi l’indirizzo più ortodosso, che richiede molto tempo e molti soldi. Tendono nettamente a prevalere trattamenti più brevi, che possono dare risultati altrettanto soddisfacenti».
Anche Simona Argentieri riconosce l’efficacia di queste cure meno onerose: «Talvolta bastano un colloquio o degli incontri episodici, o una volta alla settimana per un breve periodo: l’importante è permettere al paziente di proseguire in piena autonomia». Ma in un paese impoverito come il nostro, perfino la terapia più breve rischia di essere incompatibile con la rata del mutuo da pagare. «Moltissimi miei amici psicoterapeuti», interviene Dazzi, «mi raccontano di pazienti che concludono la terapia non perché soddisfatti o placati, ma perché non se la possono più permettere».
Scavare nell’interiorità rischia di diventare pratica da ricchi, senza peraltro avere le caratteristiche del passatempo miliardario. La pasticca come rifugio alternativo? «A parte che non è economica», avverte Onnis, «non è mai risolutiva e provoca cronicità». Nella sfida con la pillola, in Italia, la parola resiste ancora.
___
Ma nel futuro tornerà la cura della parola
Depressione anoressia e paura dell’abbandono hanno bisogno di essere seguite
di Benedict Carey (la Repubblica, 2.10.2008)
Le teorie psicanalitiche, che nell’attuale era dei farmaci appaiono in crisi, hanno però, dietro l’angolo, la possibilità di una rivincita. Anzi, secondo alcuni esperti, il futuro del lettino è comunque assicurato, perché la "terapia della parola" conferma la sua efficacia contro alcune malattie mentali. Lo sostengono gli autori di uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association. L’articolo è il primo a parlare in questi termini della psicoanalisi e a essere pubblicato su una delle più importanti riviste scientifiche: l’aspetto interessante è che gli studi sui quali esso si basa non erano noti ai medici. Questo settore ha resistito all’indagine scientifica per molti anni, in considerazione del fatto che il processo della terapia è molto individualizzato e di conseguenza non si presta di per sé a un simile studio. La premessa fondamentale è l’idea di Freud che i sintomi affondino le loro radici in conflitti psicologici latenti, spesso presenti da lungo tempo, che possono essere portati alla luce in parte tramite un esame approfondito durante il rapporto terapeuta-paziente.
Gli esperti nondimeno mettono in guardia dal rischio di dare un peso eccessivo alle conclusioni illustrate nell’articolo, ancora insufficienti a loro parere per affermare la superiorità della terapia psicoanalitica rispetto ad altre, quali la terapia cognitiva comportamentale o un approccio a più breve termine. Secondo loro, infatti, gli studi sui quali si basa la ricerca non sono sufficienti. «Questo studio però contraddice di sicuro il concetto che la terapia cognitiva o qualche altro trattamento a breve termine siano migliori» ha detto Bruce E. Wampold, presidente del dipartimento di consulenza psicologica dell’università del Wisconsin. «Quando è ben praticata, la terapia psicodinamica per alcuni pazienti si dimostra valida come qualsiasi altra e questo mi sembra determinante per una terapia intensiva simile».
Gli autori della ricerca - il dottor Falk Leichsenring dell’università di Giessen e Sven Rabung dell’University Medical Center Hamburg-Eppendorf, entrambi in Germania - hanno analizzato i casi nei quali la terapia prevedeva incontri frequenti (più di una seduta alla settimana) e durasse da almeno un anno o che durasse da almeno 50 sedute. I ricercatori hanno quindi analizzato studi che avevano seguito pazienti affetti da una molteplicità di problemi mentali, tra i quali la depressione grave, l’anoressia nervosa, i disturbi della personalità borderline, caratterizzata dalla paura dell’abbandono e da cupi accessi e grida di disperazione e disagio. La terapia psicodinamica - ha spiegato Leichsenring in un messaggio di posta elettronica - "ha dato esiti significativi, considerevoli e stabili, che sono oltretutto significativamente aumentati tra la fine delle sedute vere e proprio e gli incontri di controllo successivi".
Dall’analisi della ricerca non è emersa una correlazione diretta tra i miglioramenti del paziente e la durata del trattamento, ma il miglioramento è stato in ogni caso accertato e gli psichiatri hanno detto che era chiaro che i pazienti con problemi emotivi gravi e cronici avessero tratto vantaggio dall’attenzione costante e frequente dedicata loro dallo psicoanalista.
«Se a grandi linee definiamo personalità borderline quella che preclude di regolare le proprie emozioni, questa caratterizza moltissime persone che si presentano negli ambulatori medici, anche se la loro diagnosi è di depressione, di bipolarismo in età pediatrica o di abuso di sostanze stupefacenti» ha detto il dottor Andrew J. Gerber, psichiatra della Columbia. Per alcuni di questi pazienti, ha proseguito Gerber, "dall’articolo si evince che se si vuol far sì che i miglioramenti durino nel tempo occorre impegnarsi in una terapia a lungo termine".
Barbara L. Milroad, professoressa di psichiatria al Weill Cornell Medical College, che pratica come Gerber la terapia psicodinamica, ritiene di importanza fondamentale procedere a ulteriori studi per garantire la sopravvivenza di una terapia così valida. «Cerchiamo di essere concreti» ha detto Milroad. «Molti grandi centri medici hanno chiuso i programmi di tirocinio in terapia psicodinamica perché non c’erano adeguati riscontri sulla sua efficacia».
c.2008 New York Times News Service (Traduzione di Anna Bissanti)