Cultura

Rodotà: la dignità indirizzi le regole - recensione del Direttore editoriale, prof. Gianni Vattimo

mercoledì 13 settembre 2006.
 

Rodotà: la dignità indirizzi le regole

Stefano Rodotà, La vita e le regole, Feltrinelli, pag. 284, euro 19

Se provate a cercare sulla mappa di Roma la via Cecilia Modesta, non la troverete; eppure, come ci spiega Stefano Rodotà nel suo ultimo libro, in questa via risultano domiciliati, per il Comune di Roma che l’ha “istituita” come possibile indirizzo virtuale, tutti coloro che non hanno fissa dimora e tuttavia vogliono mantenere un qualche rapporto con le istituzioni pubbliche e godere ancora di qualche diritto di cittadinanza. E’ quello che Rodotà chiama “istituzionalizzazione a bassa intensità”, una condizione che per adesso è quella dei sans papier, dei senza fissa dimora, dei barboni volontari o involontari, ma che, a leggere il libro del giurista romano, rischia di diventare quella che molti di noi sceglierebbero, o sceglieranno, in un futuro prossimo in cui si siano sviluppati tutti gli elementi di controllo sociale di cui questo libro ci parla. Il tema del libro non è esattamente questo, o solo questo; ma fin dal primo e più significativo capitolo, intitolato al “diritto e al suo limite”, ciò che sembra guidare tutta l’argomentazione dell’autore è per l’appunto la tematica del crescente peso che, nella nostra esistenza quotidiana, esercita la società con le sue varie istituzioni. Rodotà è stato fino a poco tempo fa il titolare dell’ufficio del Garante della privacy, e sia in questa funzione sia nel suo lavoro professionale di giurista e di collaboratore di giornali, ha sempre seguito con particolare attenzione i problemi che la condizione “postmoderna”, della società delle tecnologie informatiche e della ingegneria genetica, pone al diritto. La nuova condizione si può anche riassumere, per lui, nel termine di biopolitica, entrato di recente nell’uso comune; con una bella citazione tratta dal libro Bios, di Roberto Esposito, Rodotà definisce il senso del termine: “Mentre nel regime sovrano la vita non è che il residuo, il resto lasciato essere, risparmiato dal diritto di dare la morte, in quello biopolitico è la vita ad accamparsi al centro.” Le costituzioni moderne, a cominciare da quella italiana, stabiliscono che lo stato deve provvedere a una serie di esigenze che concernono la vita quotidiana dei cittadini, dall’istruzione alla salute, anche a quella psichica; l’autorità pubblica dunque non ha più solo il compito di assicurare l’ordine pubblico, di punire i criminali e di garantire le condizioni esterne del libero svolgimento delle attività di ciascuno. Il diritto, in quanto insieme di leggi scritte e di istituzioni che le fanno rispettare, è il modo fondamentale in cui le società sono uscite dalla violenza della guerra di tutti contro tutti; ma per fare questo devono anche esercitare costrizione, e dunque ricorrere anch’esse a quella violenza che vogliono eliminare. Perché questa violenza repressiva diventi sempre meno necessaria, le leggi si propongono anche di costruire una società in cui gli individui si sentano spontaneamente mossi al rispetto delle leggi; di qui, in ultima analisi, nascono i doveri “positivi” dell’autorità pubblica nei confronti dei cittadini. Ma di qui, anche, deriva quella nuova conformazione “biopolitica” del diritto che invade sempre più largamente la sfera della vita di ciascuno. Una tale invasione non è solo prodotta dal bisogno di aiutare positivamente i cittadini nella costruzione di una “buona vita”. E’ anche resa sempre più necessaria dalla crescente complessità della vita sociale e dagli sviluppi della tecnologia, che creano situazioni imprevedibili per i legislatori del passato. Si possono regolare queste nuove situazioni sulla base delle leggi esistenti? Si noti che proprio questo è sempre stato l’approccio giuridico alla vita: le leggi “ci sono”, si tratta di “applicarle”. Naturalmente, novità ce ne sono state sempre; ma mai così intense come oggi, quando questa continuità sembra divenuta impossibile. Prima via di uscita a cui si pensa è il diritto naturale, che non a caso è ridiventato un tema frequentato da filosofi, religiosi, politici: non solo dal Papa, ma anche da pensatori come Habermas che non esitano a risalire ad Aristotele per districarsi nei problemi posti dalla bioetica recente.

A questo proposito, non è facile - per chi vi sia interessato - definire una posizione filosofica generale di Rodotà. Anche sul tema della manipolazione genetica - il diritto dei genitori a intervenire sull’embrione per evitargli malattie o procurargli disposizioni (per loro) positive - Rodotà cita bensì le posizioni “estreme” di Hans Jonas e di Juergen Habermas, entrambe orientate a condannare ogni tipo di intervento preventivo di questo genere; o perché (Jonas) ogni individuo ha diritto a un genotipo soltanto suo e irripetibile, il che esclude soprattutto la clonazione; o perché (Habermas) la “programmazione genetica” crea comunque “una dipendenza che precede l’ingresso nella comunità morale”, e dunque configura una preliminare limitazione della libertà. L’estremismo di Jonas e Habermas non viene discusso tematicamente da Rodotà. Non diremmo però che egli si schieri dalla parte di questo nuovo giusnaturalismo, religioso o laico che sia, anche perché, come a noi pare opportuno, i suoi argomenti sono tutti riferiti a valori giuridici “positivi”, quelli sanciti soprattutto da carte costituzionali e dalla Carta dei diritti europea. E’ da questi documenti, e anche dal senso comune che ad essi in qualche modo risale, che Rodotà trae quelli che ci sembrano i valori direttivi del suo discorso: soprattutto l’idea di “dignità” della persona umana che, nella nuova situazione postmoderna (globalizzazione, biotecnologie, controlli crescenti resi possibili dall’informatica e necessari per esigenze di sicurezza), è minacciata anzitutto dal dominio del mercato. Così: si può donare un organo del proprio corpo, non si può venderlo; una donna può offrirsi di essere madre “di sostituzione” per solidarietà con un’altra donna che non può generare, ma non può farlo a scopo di lucro; le informazioni sul destino “genetico” di ciascuno di noi possono, a certe condizioni, essere messe a disposizione dei soggetti interessati, ma non ceduti a enti (assicurazioni) o datori di lavoro che potrebbero usarli come discriminanti. La dignità che sta a cuore a Rodotà (come a tutti noi) non è solo quella che vieta di far commercio del corpo umano e della personalità che vi si incarna. Difficile però - almeno a noi pare così - dire se anche la difesa del “genotipo”, cioè della individualità irripetibile di ciascuno, che deve lottare contro il rischio di costruzione di personalità puramente virtuali (c’è chi sul web si costruisce tanti io diversi; ma il potere può anche, da parte sua, cambiarmi tutti i “connotati” che ha nelle sue banche dati, facendo di me un altro...), non sia il qualche modo legata a una concezione “patrimoniale” dell’io. Anche qui, non ci sembra che sia in gioco qualcosa come un diritto “naturale” nel senso forte del termine: per esempio, la stessa clonazione non è diversa da ciò che la natura fa spesso con i gemelli. E’ vero però che nessuno di noi si sentirebbe a proprio agio in un mondo di cloni liberamente moltiplicantisi.

Semmai, una conclusione che Rodotà suggerisce - e non a proposito dei cloni, ma per esempio dei brevetti sul software (e sui farmaci!) e in genere del copyright - è che le nuove tecnologie, che pongono tanti problema al diritto, vadano anche (ma purtroppo non necessariamente) nella direzione di un mondo sempre meno ossessionato dalla proprietà (donazione di organi, condivisione di invenzioni, forse persino cloni...) e sempre più “costretto” a riconoscere che tutti, in qualche modo, siamo legati a tutti gli altri più di quanto siamo stati abituati a credere.

Gianni Vattimo

già su La Stampa (Tuttolibri)


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