Un omaggio e un augurio al nostro Presidente della Repubblica, GIORGIO NAPOLITANO
LA SVOLTA DI SALERNO... E LA LOTTA PER LA LIBERTA’ E LA DEMOCRAZIA, OGGI!
di Federico La Sala
Caro Direttore,
trovo più che necessario e urgente accogliere la sollecitazione di Giorgio Napolitano (sull’Unità del 13.10.2004, p. 25, su "Angelo Oliva e la memoria della sinistra"): "Troppe vicende e figure del passato [...] rischiano di scivolare nell’ombra della rimozione e dell’ignoranza, nel modo più freddo e ingiusto per le persone, nel modo più sbagliato per la comprensione dei processi storici che condizionano ancora il nostro presente". Credo che non sia proprio il caso sottolinearlo, e ciò non solo per il passato, ma soprattutto per il presente e il futuro del nostro stesso Paese. Se me lo consente, così io - proprio ieri - ad un amico filosofo così rispondevo sullo stesso tema:
1. «l’ "anomalia" del PCI è stata la sua "forza-debolezza"!!! Tenere insieme "comunismo" e "democrazia" - in Italia (e nei confronti dello stesso comunismo sovietico) è stato il segno di una grandissima creatività politica e culturale - (e permettimi la connessione e la battuta) non a caso è legata a Salerno la Svolta (altro che quella di Heidegger)!.
La battaglia per la libertà e per la democrazia è stata una costante della storia del Partito - il guaio che lo è stato troppo poco e, soprattutto, non ha puntato - nello sforzo di pensare il nesso cristianesimo e comunismo - al basso della società civile italiana e della ’società civile’ della chiesa cattolica - al livello antropologico, ma ha puntato all’alto delle forze politiche statali (la DC) e della Gerarchia della Chiesa Cattolica ..... il compromesso storico - nelle sue radici - andava ben al di là della logica del "compromesso" e (a mio parere) getta ancora luce e possibilità sul nostro presente e sul nostro futuro!!!»;
2. « non sottovalutare "la cosa"(Heidegger): le mie considerazioni (da non esponente né avvocato del Pci!!!) indicano in un’altra direzione e cercano di dire qualcosa di "essenziale" (e non superficiale - su tantissimi e tantissimi fatti sono più che d’accordo con te!!!) su un momento fondamentale della storia d’Italia (e d’Europa - o, se preferisci, dell’Essere) e su problemi che ancora ci attanagliano - a livello planetario e di umanità.
Se permetti, dietro la svolta di Salerno c’è (sul piano filosofico) Hegel, Marx, e il Cristianesimo, dietro Heidegger c’è il misticismo della "foresta nera" di un "naturalismo" platonizzato (chiuso e cieco), che ne segna la "differenza" profonda. Il totalitarismo nazi-fascista non è uguale al totalitarismo comunista (vedi a proposito anche la recente "battuta" del Wojtyla!), né tantomeno (se vuoi) al totalitarismo della linea Gramsci-Togliatti-Berlinguer.
Dietro c’è un’altra antropologia! Possiamo dire quello che vogliamo - ma l’"anomalia" c’è e resta (e niente potrà cancellarla!). Senza nulla togliere alla ricerca di Heidegger (del resto come di Platone, e altri!!!), nella storia della cultura del pianeta terra sicuramente hanno una portata maggiore .... la scuola medica salernitana [per una sana e robusta costituzione] e, ancora (se permetti), la svolta di Salerno per una sana e robusta Costituzione - assunta filosoficamente! Così è (a mio parere), se ti pare»;
3. «portare "la cosa" al livello "essenziale" - e il discorso non è sul nazismo e sulla compromissione di Heidegger ma sulla ragione stessa del totalitarismo sia di destra e sia di sinistra, e sia di centro (quello del profitto): il problema è questo. Heidegger non ha toccato il fondo e il fondamento - pur nella sua grandezza ha ’copiato’ Platone e non ha capito Nietzsche!: con la "svolta" e dopo la "svolta" non ha chiarito proprio niente - e il nazismo come del resto lo stalinismo non sono stati solo scivolate o incidenti di percorso. Il problema è il platonismo - come ho detto: Heidegger vi resta impigliato se vuoi alla grande e totalmente, per il suo radicale rigetto della tradizione ebraico-cristiana - la tradizione marxista e il Pci in partcolare ha la possibilità di uscita proprio per il suo legame con la tradizione ebraico-cristiana! Questa è la differenza - e questa differenza è antropologica e "teologica".... non azzerabile».
A questo punto, credo sia proprio utile riaprire il dibattito sulla "svolta di Salerno" (e riattivare come ha fatto giorni fa Sylos Labini - con il C.L.N. - il filo con la nostra memoria unitaria della lotta per la libertà e per la democrazia) e dargli tutta l’importanza che merita - sia sul piano storico e culturale sia sul piano filosofico e politico. Quell’eredità è ancora attiva e presente non solo nella memoria di milioni di cittadini e cittadine, ma nei principi della nostra stessa Costituzione e della nostra vita democratica.
I nipotini di Heidegger come di Popper (che scriveva "la società aperta e i suoi nemici" proprio nello stesso anno della svolta di Togliatti e del Pci) stanno facendo di tutto per buttare a mare e nel fango non solo e non tanto "la miseria dello storicismo" quanto e soprattutto la nostra stessa dignità di esseri umani e di cittadini e cittadine d’Italia e di Europa.
P. S.
La connessione della "svolta" di Salerno con Heidegger, Platone, e Popper è appunto assunta, in polemica con la "svolta" di Heidegger e la critica di Popper a Hegel e Marx (nemici della società aperta), filosoficamente - e non è e non vuol essere affatto un’interpretazione storica! Il mio discorso è un altro: ciò che è avvenuto veniva da lontano e portava (e porta - a mio parere) lontano; per tale evento, vale il classico - non sanno di farlo, ma lo fanno, c’è un "carico di teoria" che eccede l’interpretazione strettamente storiografica e tocca livelli più profondi della nostra stessa tradizione culturale. E credo di averlo detto con chiarezza, quando ho parlato della differenza (e di antropologia e "teologia") non azzerabile in alcun modo tra il totalitarismo nazista e il totalitarismo comunista, e ho detto della "grandissima creatività" di Togliatti e del Pci che apre al governo Badoglio e a tutti gli altri partiti e comincia a muoversi sulla strada maestra della libertà e della democrazia.
E’ più che vero: resistono macigni, pesi, illusioni nella testa e sulle spalle - ma Togliatti e il Pci (pur con tutte le sue ambiguità - e sono state tante) non era e non è stato una specie di Pnf di sinistra - aveva una "radice" più forte e più sana che lo ha portato ben al di là della vecchia speculare alleanza partito fascista-idealismo gentiliano-chiesa cattolica e pienamente nell’orizzonte della democrazia senza "se" e senza "ma".
E questo prima della stessa Chiesa Cattolica - il cui totalitarismo istituzionale è ormai in crisi definitiva, proprio per non aver avuto il coraggio di accettare la "svolta" del Vaticano II e di tagliare il cordone proprio con quel naturalismo razzista, astuto, cieco e violento (edipico-platonico) di cui ho detto.....
Federico La Sala (Lunedì, 18 ottobre 2004)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA LINGUA D’AMORE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI E LA COSTITUZIONE.
FLS
Novecento.
L’antifascismo cristiano di Aldo Moro
di Agostino Giovagnoli (Avvenire, mercoledì 29 settembre 2021).
È online il volume dell’Edizione Nazionale degli scritti ’73-’78. La sua opposizione alle destre non era generico antitotalitarismo, ma anzitutto una questione morale
Tra i principali nemici della democrazia in Italia, Moro ha individuato il fascismo, che non solo aveva sconfitto la democrazia nel primo dopoguerra ma che continuava anche a costituire il suo avversario più pericoloso in età repubblicana. È una visione non condivisa da una parte della storiografia, che ha insistito sul carattere particolare e irripetibile del fascismo inteso come fenomeno politico italiano sviluppato tra le due guerre.
A Moro sembrò però che diversi motivi mostrassero la persistenza di un pericolo fascista anche dopo il 1945: molti italiani non avevano mai preso le distanze dal fascismo, anche tra gli elettori della Dc; un importante partito politico, il Movimento sociale italiano, aveva radici nella Repubblica sociale italiana; nel corso degli anni sono sorti numerosi gruppi che si richiamavano al fascismo; c’è stato chi ha progettato colpi di Stato o radicali cambiamenti politici in nome del fascismo; aggressioni, azioni violente, attentati terroristici - come la strage di piazza Fontana, quella di Brescia, l’attentato all’Italicus ecc. - sono stati attuati da soggetti che si richiamavano esplicitamente al neofascismo. Fuori dall’Italia, inoltre, nei suoi anni si sono affermati movimenti politici ispirati al fascismo, dalla Grecia al Sudamerica.
Su tutto ciò Moro ha fondato la convinzione che il fascismo continuasse a essere presente, in forme più o meno sotterranee, e che costituisse ancora il principale pericolo per la democrazia italiana. Ciò non contraddice le ferme convinzione anticomuniste, che si trovano largamente espresse anche in questo volume. Tuttavia, l’ampio schieramento internazionale e interno contro il comunismo allestito durante la Guerra Fredda, rendeva quest’ultimo per l’Italia una minaccia meno immediata.
Nella visione di Moro, l’antifascismo ha occupato un posto rilevante. Com’è noto, egli non è stato un antifascista durante il regime e non ha partecipato alla Resistenza dopo il 1943. Tuttavia, pur partendo da un contesto afascista, fin dai primi giorni dopo l’8 settembre ha espresso posizioni antifasciste e si deve proprio a lui un importante chiarimento sul carattere antifascista della Costituzione repubblicana. Appaiono pretestuose e infondate le interpretazioni che lo negano, facendo leva sulle sue perplessità in tema di epurazione. Divenuto segretario della Democrazia cristiana nel 1959, impresse alla politica del suo partito una forte impronta antifascista.
La vicenda del governo Tambroni fu da lui affrontata con prudenza e abilità ma anche con grande determinazione e a distanza di tempo continuò a considerarla il maggiore pericolo - che egli aveva contribuito a scongiurare - corso dalla democrazia italiana dopo il 1945. Proprio sul terreno dell’antifascismo, Moro ha realizzato non il suo successo più vistoso ma quello di maggiore spessore storico, portando gran parte dell’istituzione ecclesiastica e del mondo cattolico ad abbandonare nostalgie e legami ancora molto forti con l’eredità fascista.
Interagendo con Giovanni XXIII - che simpatizzava con l’iniziativa sua e di Fanfani - con Paolo VI - interlocutore attento, ma spesso preoccupato e prudente - e con molti vescovi italiani, il leader democristiano ha così promosso l’approdo definitivo dei catto- lici alla democrazia e favorito l’isolamento del fascismo. Negli anni Settanta, Moro è tornato più volte sul pericolo fascista. All’inizio del decennio, si era manifestata in Italia una forte spinta a destra e nel 1972 il Movimento sociale aveva raddoppiato i suoi voti rispetto alle elezioni del 1968, mentre si moltiplicavano gli atti di violenza neofascista.
Nell’intervista del giugno 1973 che apre questo volume, il leader democristiano parlò di una «pericolosa componente fascista della destra italiana» che si era fatta «più evidente e più aggressiva ». Moro la interpretava come un «fenomeno [non] occasionale, ma profondo»: «il fascismo è l’altra faccia, quella negativa, del grande moto rinnovatore del mondo». Era dunque un fascismo pericolosamente vitale quello che vedeva davanti a sé. «Nella sensibilità del leader democristiano - osserva Guido Formigoni -, era molto forte il rischio di contraccolpi reazionari della stagione della mobilitazione sociale». Ne scaturiva il dovere di scelte chiare per la Dc e una rinnovata chiusura dell’area di governo alla destra fascista.
Si trattava, come ha notato George Mosse, di «svolgere un’azione di contenimento esterno nei confronti della destra non cercando di inglobarla e di addomesticarla, ma respingendola in un certo modo in un ghetto». Ma per Moro non bastava: «una accorta azione di governo, un atteggiamento responsabile dei partiti, che non offra, per la sua serietà, pretesti al montare della protesta di destra sono, insieme con le nostre convinzioni morali, il migliore (ed urgente) antidoto al fascismo risorgente in Italia e forse incoraggiato altrove».
In particolare, opporsi al fascismo significava «evitare anche il rischio della radicalizzazione della lotta politica, che renderebbe l’influenza reazionaria e fascista determinante»; «significa[ va] evitare un potente coagulo di forze a sinistra intorno al Partito comunista»; «significa[ va] dare articolazione alla vita democratica in raccordo con il Partito Socialista ed in piena intesa con quello socialdemocratico e repubblicano, i quali rappresenta[va]no tradizioni ed ispirazioni importanti e costitui[ va]no una solida garanzia per il Paese».
Era il centro-sinistra, inteso come espressione dell’incontro fra tradizioni politicoideologiche diverse e settori della società differenti, la principale risposta politica alla minaccia fascista. L’antifascismo costituiva per Moro una piattaforma ideale, morale e politica condivisa da partiti diversi, che li avvicinava sulle scelte di fondo malgrado divergenze e contrasti, vincolandoli a posizioni comuni in difesa della democrazia. Seppure collegato all’eredità storica dell’opposizione al fascismo durante il regime e alla stagione resistenziale, il suo antifascismo aveva soprattutto una concreta valenza politica, che emerse incisivamente per esempio nei suoi interventi in occasione del golpe in Cile del 1973, cui la Democrazia cristiana cilena e quelle di altri Paesi risposero in modo ambiguo, evitando una netta condanna che invece Moro pronunciò con chiarezza.
L’antifascismo di Moro era però diverso da varie forme di antifascismo presenti nella cultura politica di sinistra. A differenza di altri cattolici, il suo non si perdeva, per così dire, in un generico antitotalitarismo, ma le sue radici cattoliche gli ispiravano un antifascismo anzitutto morale, prima che propriamente politico, con una particolare accentuazione del rifiuto della violenza.
La sua opposizione al fascismo, inoltre, si basava su un solido fondamento pluralista, che ne rifletteva il carattere democratico, incompatibile con politiche basate sul partito unico, come nel caso comunista. Moro negava anche che si potesse includere la Democrazia cristiana italiana o suoi esponenti in un’interpretazione arbitrariamente estesa del fascismo, come avvenne con la campagna contro il ’fanfascismo’ o altre simili.
Non lo faceva solo per difendere il suo partito, ma anche perché profondamente convinto che tra il centro e l’estrema destra dovesse intercorrere una netta separazione, che non era emersa con chiarezza nel caso cileno ma che invece in Italia era stata decisiva per rendere possibile nel secondo dopoguerra una storia politica tanto differente da quella del primo dopoguerra.
Inedito.
Patria, sovranismo, fascismo e comunismo: in Rete il Moro che non ti aspetti
Con una cerimonia in diretta dal Quirinale da domani vengono resi disponibili online gli scritti dello statista. Si parte dal periodo giovanile degli studi e dell’Azione cattolica
di Angelo Picariello (Avvenire, domenica 23 maggio 2021)
Si sente parlare molto in questi tempi di epurazione della vita pubblica italiana dagli elementi compromessi con il fascismo. In modo pressoché unanime si invocano provvedimenti in questo senso; provvedimenti immediati, rigorosi, senza discriminazione alcuna. Non si può non notare, almeno avendo riguardo alle espressioni verbali, che il nostro popolo con questa pressante richiesta assume una posizione di intransigenza, senza rendersi perfettamente conto che essa, così assunta senza discriminazione, rischia di conservare ed approfondire il solco fatale che ha diviso per tanti anni il popolo italiano, distinguendo coloro che sono al centro da quelli che sono ristretti ai margini della vita nazionale. [...]
Non può certo meravigliare che il popolo italiano, pur condotto per natura a perdonare e dimenticare ed alieno da ogni ferocia, sia giunto a questo punto di esasperazione e di intransigenza. Troppi e troppo grandi sono i nostri dolori di ieri e di oggi; troppe sono le previste dure conseguenze della dittatura per noi stessi e per i nostri figli; troppo grande l’offesa arrecata alla nostra libertà e dignità di uomini; troppe ingiustizie furono perpetrate in nome di un falso particolaristico ideale di Patria, perché non sorga naturale in tanti il desiderio di giustizia. [...] Non si può, ancora, non tener presente che quest’opera di epurazione sembra condizione preliminare per un realmente nuovo indirizzo della nostra vita politica ed a garanzia dell’efficacia della nostra stessa azione armata contro l’oppressore tedesco, per conseguire in definitiva la nostra libertà. Si osservi pure che proprio l’eliminazione totale e definitiva degli elementi fascisti dalla vita pubblica italiana sembra la sola forma idonea ad assicurare il nostro popolo contro il ritorno in forza, sempre possibile, dei negatori della libertà e della vita altrui, i quali verrebbero così ancora a tradire la libertà, avvalendosi delle possibilità che quest’ultima generosamente ad essi consente. Sicché l’epurazione appare non solo come giusta reazione per quello che fu fatto soffrire a noi, ma come la sola idonea misura di sicurezza per un leale e costante rispetto della nostra libertà per l’avvenire.
Tutto quello che si è detto sin qui è certo esatto, ma non si tiene abbastanza conto di altri meno chiari ed imbarazzanti aspetti della situazione, i quali invitano ogni persona assennata a considerare con maggiore spirito di prudenza queste cose ed i progettati drastici provvedimenti. Innanzi tutto intanto bisognerebbe definire il "fascista". È troppo nota, perché occorra riprenderla qui, la distinzione tra fascista di tessera e fascista di fede. [...] Si consideri ancora che il giustissimo desiderio di rendere sicura l’Italia da un ritorno della vecchia dittatura, la quale già una volta tradì la libertà, se si concreti soltanto in una reazione feroce e piena di odio, se sia tutta realizzata cioè con metodo e spirito fascista, finirebbe per dare ai signorotti di ieri una pericolosa aureola di martiri, giustificando la loro accusa che altri prosegua in fondo per la stessa strada, sostituendo alla richiesta tessera fascista una tessera antifascista e - perché no? - magari fissando dei privilegi di anzianità per coloro che parteciparono all’opera di epurazione. Ciò, s’intende, per nulla esclude che siano adottati provvedimenti di giustizia e di sicurezza a carico di tutti i responsabili e i pericolosi. Ma intanto li vuole misurati, giusti, realizzati soprattutto con la forza e con i limiti della legalità e cioè con mente serena e senza spirito di parte o di vendetta.
Quello che sembra in definitiva giusto e necessario è una misura di garanzia e non una vendetta volgare; cioè una misura di garanzia che sia irrogata, la parola non sembri strana, perché è semplicemente cristiana ed italiana, con spirito di comprensione e di amore, nell’intento cioè di persuadere e di rieducare alla vita civile ed al rispetto della libertà, anziché porre soltanto impedimenti fisici o giuridici a nuovi possibili attentati al nostro vivere umano e civile. Qui è veramente il nucleo dell’assillante problema. Che l’epurazione si debba fare prima o poi è una cosa secondaria. Quello che conta è vedere quel che debba intendersi per epurazione e se si debba essere attenti ad una umana e cristiana voce di comprensione o se si debba fascisticamente tirare diritto. E qui soccorre la comune considerazione che l’etica è veramente cosa economica, che anzi un agire sistematicamente contro di essa è umanamente e socialmente impossibile, che un perdono generoso, e tuttavia sempre vigile, (salvi s’intende i casi più gravi) non è solo un omaggio reso ai supremi valori di fraternità e di umanità della vita, ma pure un calcolo accorto, almeno per chi guardi lontano, per ricostruire una società che ebbe troppo a soffrire di alcune divisioni, perché non abbia ora bisogno urgente di unità.
Aldo Moro
Napolitano dimesso dall’ospedale: andrà in clinica per la riabilitazione
Quattro settimane fa il presidente emerito della Repubblica era stato sottoposto a un intervento di sostituzione della valvola aortica
di CARLO PICOZZA (la Repubblica, 22 maggio 2018)
Il presidente emerito Giorgio Napolitano ha lasciato la Cardiochirurgia del San Camillo alla volta della clinica Villa Betania dove sarà sottoposto alla riabilitazione cardiorespiratoria e motoria. Era martedì 24 aprile, quattro settimane esatte fa, quando, in emergenza, il cardiochirurgo Francesco Musumeci ha sottoposto l’ex capo dello Stato alla sostituzione della valvola aortica e di un ampio tratto dell’aorta ascendente con reimpianto delle coronarie. Napolitano, nel pomeriggio di quel giorno, aveva avvertito dolori al torace mentre era in visita alla moglie Clio, ricoverata in una clinica della capitale. Si era allarmato e aveva subito avvertito il suo cardiologo di fiducia, Roberto Ricci, primario nell’ospedale Santo Spirito dove, visitato il paziente, la diagnosi non lasciava grandi speranze: "Dissecazione acuta dell’aorta ascendete". In altre parole, l’arteria maggiore rischiava di rompersi da un momento all’altro.
La conferma era giunta a stretto giro da Musumeci che, d’accordo con Ricci, indicava di trasportare con urgenza Napolitano al San Camillo per sottoporlo al delicato intervento chirurgico. L’operazione era durata tre ore e mezzo, dalle 22 all’1.30. E da subito, nella Terapia intensiva cardiochirurgica, i clinici avevano guardato con soddisfatto stupore alle capacità di recupero di Napolitano.
"Nonostante l’età, quasi 93 anni", spiega Musumeci, "il presidente emerito ha risposto bene, senza complicazioni e velocemente, alle nostre cure; un recupero eccellente". "L’intervento di Napolitano", aggiunge il cardiochirurgo che, nella Londra degli anni Ottanta, è stato allievo di uno dei maestri della Cardiochirurgia mondiale, Magdi Yacoub, "dimostra che è l’età biologica che conta, le buone condizioni cliniche del paziente e non il numero degli anni: le tecnologie oggi a disposizione consentono interventi impensabili fino ad alcuni anni fa". Ora Napolitano è affidato alle cure dei fisioterapisti che, nel quartiere Aurelio della capitale, metteranno a segno gli ultimi atti della sua riabilitazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
POPULISMO: IL ’GIOCO’ DEL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO. Come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" fosse identica al "tutto".
Monito del Presidente Napolitano: una democrazia sa sempre reagire "alle chiusure e al populismo".
Federico La Sala
Giuseppe Vacca
La parabola tracciata da Pci e Dc
Lo storico e politico esamina l’epoca di Togliatti e De Gasperi e quella di Berlinguer e Moro, analizzando rapporti e intrecci
di Mario Ricciardi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06.05.2018
Dopo le ultime elezioni il sistema politico italiano sembra avviato a una nuova transizione di cui allo stato attuale è difficile prevedere l’esito. In circostanze del genere si avverte spesso il bisogno di uno sguardo retrospettivo, che ci aiuti a dare un senso agli eventi cui ci troviamo ad assistere risalendo alle loro cause remote.
Leggendo le prime pagine del nuovo libro di Giuseppe Vacca si potrebbe pensare che proprio di questo tipo di indagine si tratti. Vacca, infatti, scrive: «ho vissuto con disagio gli ultimi conati dei discendenti del Pci di agitare il mito di Berlinguer come ultima risorsa identitaria e con rammarico il precipitare di una lotta senza principi contro la nuova leadership di Renzi, impegnata a rimettere l’Italia in asse con l’Europa».
In realtà questo è l’unico riferimento esplicito all’attualità di un libro che ripercorre le complesse vicende dei rapporti tra comunisti e democristiani a partire dal 1943, quando, con la caduta del Fascismo, i partiti politici escono dalla clandestinità e cominciano a porre le basi su cui fonderanno la repubblica. La narrazione si conclude nel 1978, l’anno del rapimento e poi dell’uccisione di Aldo Moro.
A fare da protagonisti delle vicende del libro non sono quindi Renzi e i suoi avversari odierni, ma alcune tra le principali figure della storia politica del Novecento italiano: Togliatti, De Gasperi, Berlinguer e Moro. La “svolta di Salerno”, il referendum istituzionale, la Costituente, e gli anni della Guerra fredda fanno da sfondo alla storia di due partiti che, nella narrazione di Vacca, sono destinati, nonostante ostacoli e incomprensioni, a incontrarsi. La chiave di lettura è quella della peculiare interpretazione del comunismo elaborata da Togliatti. Che lo porterà, dall’impegno a fianco dell’Unione Sovietica, e del suo leader Stalin, negli anni della lotta antifascista, fino alla critica dello stalinismo e al tentativo di disegnare una «via italiana al socialismo» che mettesse da parte la rivoluzione in favore di un ampliamento graduale del consenso con l’obiettivo finale di edificare una nuova società attraverso il metodo democratico.
Nel ricostruire questi eventi, e il complesso rapporto tra Togliatti e De Gasperi, l’autore assume soprattutto il punto di vista del primo. Questo non è sorprendente. Vacca viene dalle fila del Pci, ed è un fine conoscitore della storia e del pensiero del leader comunista. C’è tuttavia un prezzo da pagare per questa scelta. A essere messo a fuoco è soprattutto il punto di vista di Togliatti, mentre quello di De Gasperi emerge piuttosto per contrasto. Le cose cambiano quando sulla scena arrivano Berlinguer e Moro. In questa seconda fase della storia dei rapporti tra «i due grandi partiti popolari» Vacca, che a questo punto è un testimone e non più semplicemente uno storico, assume una prospettiva meno parziale, che mette davvero in risalto gli sforzi genuini di comprendersi e di trovare una qualche forma di collaborazione dei due.
La storia si conclude però con una tragedia, l’uccisione di Moro, che impedisce a Berlinguer di completare il lungo percorso verso il riformismo intrapreso da Togliatti. Tra le pagine più interessanti del libro ci sono, a mio avviso, proprio quelle in cui si ricostruiscono il contesto internazionale e i vincoli di carattere economico che impediranno alla prospettiva del Compromesso Storico di acquistare un senso politico compiuto. Dopo la morte di Moro, e la rapida liquidazione dell’ipotesi di «equilibri più avanzati» per la democrazia del nostro Paese, il Pci sembra non essere più in grado di decifrare i segni della spinta verso la modernità che, nel giro di qualche anno, avrebbe cambiato radicalmente l’intera Europa portando con sé il comunismo stesso.
La ricostruzione di Vacca ha talvolta il difetto di essere esclusivamente descrittiva. Nelle numerose pagine dedicate all’evoluzione delle posizioni di Togliatti, ad esempio, si mette raramente in questione la coerenza di fondo di passaggi che potrebbero essere letti come del tutto strumentali, tentativi di trovare un compromesso accessibile tra l’imperativo dell’obbedienza al dogma di Mosca e l’esigenza del Partito di sopravvivere a un ambiente nuovo, e per molti versi poco familiare, come quello di una nascente democrazia parlamentare.
Questo difetto di critica si avverte anche quando affiora il tema della “nazione”. Se da un lato si comprende perfettamente il senso politico che per il Togliatti della seconda metà degli anni Quaranta ha il recupero del discorso risorgimentale, dell’emancipazione nazionale, e dell’incontro tra le istanze di libertà del popolo e quelle della nazione, meno evidente è la coerenza teorica di questa strategia politica. In che senso sia possibile preservare una critica materialista dell’economia politica come quella propugnata da Marx con il recupero - via Croce e Gramsci - della tradizione di pensiero italiano che risale a Machiavelli.
Un altro aspetto del libro di Vacca che offre il fianco alla critica è la quasi assenza dei socialisti, e in particolare del Psi di Craxi dalla ricostruzione. Un difetto significativo perché sarà proprio la rivalità tra il leader socialista, che abbraccia la modernizzazione, e Berlinguer, che invece la osserva con diffidenza, a plasmare gli anni che seguono la morte di Moro.
A costo di semplificare brutalmente, si potrebbe dire che alla fine l’incontro tra comunisti e democristiani c’è stato, ma esso non è avvenuto sulla vaga piattaforma di un “compromesso storico” che sfugge agli sforzi di definizione, ma sulla lettura della modernizzazione economica e sociale del Paese che Craxi, dall’osservatorio privilegiato di Milano, aveva riconosciuto. Per questo appaiono riduttive e poco convincenti le critiche che Vacca rivolge alla redistribuzione della ricchezza come obiettivo dei riformisti e all’impegno radicale e socialista in difesa dei diritti civili. Per tornare all’attualità, è sempre sul nodo irrisolto di chi abbia davvero vinto il “duello a sinistra” sul piano dei principi normativi e delle politiche che li attuano che fa perno l’opposizione a Renzi cui allude Vacca.
Queste critiche non cancellano, comunque, il valore di un libro pieno di spunti e di informazioni interessanti. Un contributo importante per chi voglia comprendere le vicende della sinistra italiana negli ultimi settanta anni.
Classici rivisitati
Gramsci, ora di te ci fidiamo
Attraverso l’utilizzo dei migliori strumenti filologici, la nuova edizione dei «Quaderni» ridisegna e completa il profilo del pensatore
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.12.2017)
È ormai un dato di fatto acquisito: Antonio Gramsci, insieme a Croce e Gentile, è la figura più rilevante del pensiero italiano del XX secolo, ed è oggi l’autore italiano più conosciuto e più tradotto nel mondo: in Europa come in Asia, negli Stati Uniti e specialmente nell’America del Sud, dove da tempo la sua opera conosce una fortuna straordinaria .
Tanto più diventa necessario disporre di una edizione affidabile dei suoi testi, di tutti i suoi testi - di quelli precedenti il carcere e di quelli carcerari, anche per cogliere le diverse fasi della riflessione di Gramsci e i mutamenti, talvolta assai rilevanti, che connotano lo sviluppo del suo pensiero - mutamenti che si possono cogliere anche a livello linguistico, nelle trasformazioni del lessico di Gramsci su punti centrali della sua ricerca - a cominciare dalla interpretazione del pensiero di Marx.
Non è facile però allestire una edizione affidabile e rigorosa degli scritti gramsciani per una serie di motivi, connessi anche alla loro gestazione e alla loro complessa “fortuna” : redatti in carcere fra il 1929 e il 1935, vengono messi in circolazione molti anni dopo, nella seconda metà degli anni quaranta . Il primo testo di Gramsci pubblicato in Italia furono Lettere dal carcere, stampato dall’editore Einaudi, e ad esse, sempre presso Einaudi, seguirono i volumi organizzati nella cosiddetta edizione tematica, impiantata sui “quaderni speciali”, anche per gli obiettivi che si proponeva l’edizione.
L’opera di Gramsci è entrata dunque in circolazione in una situazione profondamente diversa da quella in cui furono scritti , quando tutti i punti di riferimento di Gramsci erano cambiati, e questo rendeva, ovviamente, più complessa una loro adeguata, ed esauriente, decifrazione. Ma a complicare la situazione si aggiungevano le particolari traversie politiche dei Quaderni, salvati grazie alla accortezza di Palmiro Togliatti, il quale riuscì a custodirli e a farli arrivare in Italia e, di fatto, a gestirne la prima edizione italiana, quella tematica uscita presso Einaudi sopra ricordata.
Come dimostra l’organizzazione del materiale, si trattava di una sapiente operazione politica, che mirava a collocare Gramsci nel pieno della battaglia politica e culturale in corso in Italia in quegli anni, facendone l’avversario principale, anzi il demolitore, della figura e dell’opera di Benedetto Croce, considerato ancora, a quel momento, la personalità più influente della cultura borghese nel nostro Paese. I Quaderni, nell’edizione tematica, sono organizzati in modo da poter rappresentare un punto di vista alternativo, anzi opposto a quello di Croce, in tutti i campi: letterario, estetico, politico, storiografico....
Di questa edizione sono stati mostrati poi i limiti, le carenze, le omissioni (comprese le importanti Note autobiografiche del quaderno 15), che certo ci sono, e si spiegano - anche se non si giustificano - con la funzione politica che Togliatti intendeva far svolgere a Gramsci, quale fondatore del Partito Comunista Italiano e ideatore della strategia culturale e politica seguita nel dopoguerra. In ogni caso, fu in questo modo che Gramsci venne fatto conoscere a nuove generazioni di italiani , trasformandolo in un momento centrale della loro formazione etico-politica .
Fu però lo stesso Togliatti a comprendere che Gramsci era altro, e di più , e che il suo pensiero travalicava gli orizzonti di un partito per configurarsi come uno dei vertici del pensiero italiano; a capire, insomma, che Gramsci era un classico e che in questi termini andava proposto e decifrato.
È da questa temperie, alla quale Togliatti diede un contributo decisivo avviando anche una nuova riflessione sulla storia delle origini del PCI sulla base di nuovi documenti, che nacque il progetto di una nuova edizione dei Quaderni, allestita da Valentino Gerratana, pubblicata nel 1975 dall’editore Einaudi.
Un’opera, va detto subito, di eccezionale rilievo, che pose su basi moderne lo studio di Gramsci , pubblicando i Quaderni nella loro integrità; proponendone una datazione e numerandoli secondo la data di avvio, ipotizzata o accertata; mostrando, anche attraverso soluzioni grafiche, come i testi di Gramsci fossero da distinguere almeno in due tipologie: quelli di cui esisteva una doppia redazione e quelli in unica redazione, mentre l’edizione tematica aveva escluso le annotazioni di prima stesura dei Miscellanei .
È da questa edizione che sono scaturiti i lavori degli anni successivi, imperniati su un saldo intreccio di filologia e filosofia, con un’attenzione alle “varianti” gramsciane che ha contribuito a mutare in modo sostanziale l’immagine tradizionale di Gramsci .
Con l’edizione di Gerratana il profilo di Gramsci quale classico che andava studiato, decifrato e interpretato come si studiano i classici era ,in buona parte, acquisito. Ma, come accade in testi così complessi e stratificati - anche per i modi e le situazioni in cui furono scritti -, molti problemi restavano ancora aperti, a cominciare dalla datazione dei Quaderni, dei tempi e dei modi in cui essi erano venuti alla luce ; problema che, a sua volta, ne implicava un altro, pregiudiziale, non ancora messo a fuoco in maniera adeguata: come lavorava Gramsci in carcere, in che modo ,e con quali criteri, aveva utilizzato, i quaderni. -Ed è proprio su questi problemi che si è lungamente impegnato Gianni Francioni nelle sue ricerche e raccogliendo intorno a sè una equipe di studiosi che stanno ora lavorando con lui alla nuova edizione dei Quaderni, di cui è ora uscito, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, il tomo che inizia la pubblicazione dei dodici quaderni miscellanei - dieci per intero - redatti da Gramsci tra il febbraio del 1929 e il giugno del 1935.
Merito di questo lavoro - che rientra nella nuova edizione nazionale degli scritti di Gramsci istituita dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, su iniziativa della Fondazione Gramsci - é, in primo luogo, quello di essere imperniato su una nuova datazione dei Quaderni sulla base di una tesi ben sostenuta ed argomentata: Gramsci lavorava contemporaneamente a diversi Quaderni; i quaderni
“misti“, così li definisce Francioni, erano utilizzati per lavori differenti.
E questo significa che la successione esterna dei Quaderni non corrisponde allo svolgimento effettivo del lavoro di Gramsci, che quindi deve essere decifrato, e periodizzato, tenendo conto di come egli effettivamente lavorava quando redigeva le note che compongono i Quaderni: dalla primavera del ’32 fino al giugno del ’35, Gramsci si impegna, ad esempio, nella sistemazione dei quaderni monografici, ma continuando a lavorare nei miscellanei. Una ricerca complessa e difficile che ha consentito di entrare nell’officina di Gramsci, utilizzando gli strumenti della migliore tradizione filologica italiana: quella che, in una parola, fa capo a Gianfranco Contini e ai suoi “esercizi di lettura”- a cominciare da quello su “come lavorava l’Ariosto.
Una nuova edizione; una nuova periodizzazione; e quindi una nuova interpretazione del pensiero di Gramsci, perché, si sa, periodizzare è interpretare , come conferma l’Introduzione al volume . Si tratta di un’opera importante e significativa, e non solo per gli studi gramsciani, e lo dimostra il ricchissimo apparato di note che correda il volume. E fa piacere che essa, come tutti gli altri volumi dell’edizione già usciti, appaia per i tipi dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, la sede più indicata e più prestigiosa per ribadire la classicità dell’opera di Gramsci . In questo caso il tempo - che divora ogni cosa - ha restituito a Gramsci quello che gli era dovuto .
L’autore è Professore di Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Scuola Normale Superiore
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....
Gianni Ferrara
Dov’è la dottrina comunista dello Stato
di Tommaso Edoardo Frosini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 16.07.2017)
A metà degli anni Settanta, Norberto Bobbio pubblicò un articolo nel quale poneva la domanda: esiste una dottrina marxista dello Stato? Per poi argomentare una risposta sostanzialmente negativa. Adesso, Gianni Ferrara, insigne costituzionalista e già deputato indipendente del Pci, pubblica un libretto che si fonda sulla seguente affermazione: è esistita una dottrina marxista della costituzione e della democrazia. Con specifico riferimento al caso italiano, e grazie al contributo di tre leader comunisti: Gramsci, Togliatti e Berlinguer.
Certo, non è una tardiva risposta alla domanda di Bobbio; ma non è nemmeno, come si sarebbe indotti a pensare, un déjà-vu: un libretto che rispolvera un passato nel tentativo di declinarlo al presente. Certo, c’è molta nostalgia nelle pagine di Ferrara e c’è anche l’orgoglio di sentirsi ancora parte di un mondo ideologico da tempo tramontato. Nella convinzione, giusta o sbagliata, che la lotta per la democrazia in Italia è stata, e tutta intera, la storia del Partito comunista italiano. Rivendicazione coraggiosa ma debole, che valorizza oltremodo una teoria politica ponendola in maniera egemone rispetto alle altre. Sebbene la storia abbia dato chiaramente indicazioni diverse. Sebbene le società siano cresciute e si siano sviluppate nel solco del liberalismo, quale teoria politica della società aperta.
La dottrina politica di Gramsci ha davvero influenzato la nascita della democrazia in Italia? Direi proprio di no. L’idea dell’egemonia gramsciana, quale combinazione di forza e consenso e di direzione intellettuale e morale, si mostra come contrapposta al concetto di pluralismo e libertà, perché comprime lo sviluppo dell’individuo costringendolo in un perimetro ideologicamente chiuso, da rappresentarsi in forma diretta e solo per il tramite del partito politico, quale moderno principe. Vale la pena quantomeno di ricordare come, qualche anno prima, Tocqueville avesse chiaramente raccontato la democrazia come libero associazionismo.
La dottrina politica di Togliatti ha davvero influenzato la nascita della democrazia in Italia? Pur senza negare il contributo fattivo del leader comunista ai lavori della Costituente e quindi al formarsi della Costituzione in Italia, anche qui esprimerei un giudizio di riserva. Ferrara afferma che Togliatti era un fine giurista, come Marx e come Lenin.
Dichiarazione tutta da dimostrare, se è vero come è vero, per dirla con le parole di Calamandrei, Togliatti avrebbe voluto una Costituzione come «un manifesto di propaganda ed anche un po’ predica». Innegabile il suo impegno per la ricerca del compromesso fra culture politiche, la sua ambizione a essere un “rivoluzionario costituente”, ma soprattutto la sua battaglia nel voler fare della democrazia italiana la via al socialismo, e quindi nella direzione generale di una trasformazione economica socialista. Il “fine” giurista, però, non seppe cogliere l’importanza della Corte costituzionale, che definì una “bizzarria”, e i suoi compagni di partito addirittura “un grave atto di lesa democrazia”, quale invece fondamentale baluardo contro la tirannia della maggioranza e per l’affermazione e tutela dei diritti di libertà. Sul punto, mi sembra che Ferrara sia un po’ sbrigativo.
La dottrina politica di Berlinguer ha davvero influenzato la nascita e lo sviluppo della democrazia in Italia? Qui la valutazione deve essere più ponderata. Per il suo apprezzabile impegno ad affermare il principio dell’assoluta indipendenza e sovranità di ogni Stato socialista e di ogni partito comunista. Che si risolse con un progressivo distacco del partito comunista italiano da quello sovietico. E nella costruzione di una democrazia italiana sempre più dinamica per favorire le condizioni per un graduale passaggio al socialismo, sebbene attraverso un “blocco storico”, ovvero la conquista del potere da parte di un blocco di forze politiche e sociali, di cui il partito è parte. Torna, qui, l’idea di egemonia oppositiva al pluralismo e alla libertà.
Ferrara la chiama, sulla scia di Togliatti, «democrazia progressiva»: concetto un po’ vago, a ben vedere, che si identifica con quello di forma di Stato, cioè l’insieme di apparato gius-politico e di comunità umana, come insieme di due entità collegate. Uniti nella lotta per la via italiana al socialismo, per una teoria politica del marxismo. Una lotta, come esplicitato nelle ultime pagine del libro, da muoversi contro la «cappa composta dai Trattati europei», contro un’Europa che si assume essere fonte di diseguaglianze e compressioni sociali. Senza tenere conto, però, che questa Europa, piaccia oppure no, ci ha finora dato la cosa più importante: la pace fra i popoli. E ci ha garantito la libertà: certo, anche economica. Alla domanda di Bobbio, esiste una dottrina marxista dello Stato?, si può oggi agevolmente rispondere che esiste solo una dottrina liberale dello Stato, che si chiama costituzionalismo.
La «svolta di Salerno». Un piano nato a Mosca
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 28.10.2014)
Vuole spiegare ai lettori la cosiddetta «svolta di Salerno», da lei citata in una risposta?
Raffaello Sacchi
Caro Sacchi,
«Svolta di Salerno» è l’espressione con cui viene generalmente definita la scelta politica compiuta da Palmiro Togliatti dopo il suo ritorno in Italia dall’Unione Sovietica nel marzo 1944. Sbarcato a Napoli il 27, mentre il Vesuvio, risvegliatosi nei mesi precedenti, aveva da poco smesso di vomitare polvere e lapilli, il leader comunista annunciò che il suo partito era disposto ad accantonare per il momento la questione monarchica e a partecipare, con altre forze politiche antifasciste, a un governo presieduto dal maresciallo Badoglio.
Grazie alla mediazione di Enrico De Nicola, fu trovato un compromesso. Vittorio Emanuele III avrebbe trasferito i suoi poteri al figlio, Umberto sarebbe diventato Luogotenente del Regno e la questione costituzionale (monarchia o repubblica) sarebbe stata risolta con un referendum dopo la fine del conflitto.
Il nuovo governo Badoglio fu costituito il 22 aprile e Togliatti divenne vice-presidente del Consiglio. La «svolta», da quel momento, divenne la prova del patriottico realismo di Togliatti e della sua capacità di agire nell’interesse dell’Italia senza attendere istruzioni da Mosca. Fu il piedistallo su cui il Pci costruì l’immagine del leader autorevole e indipendente, capace di realizzare un comunismo italiano.
Le cose, in realtà, erano andate diversamente. Per governare l’Italia dopo la conquista del Sud, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna crearono una Commissione alleata di controllo, ma confinarono l’Urss e altri alleati minori in una commissione consultiva priva di qualsiasi potere.
L’uomo che amministrava la politica estera accanto a Badoglio (un diplomatico, Renato Prunas) capì che la decisione angloamericana regalava all’Italia una carta da giocare. Ebbe colloqui con il rappresentante sovietico (era Andrej Vyšinskij, pubblico inquisitore nei grandi processi staliniani degli anni Trenta) e propose la ripresa dei rapporti diplomatici.
Quando venne in discussione il problema Togliatti, di cui i sovietici avevano già chiesto il ritorno in patria, Prunas non sollevò obiezioni e auspicò che i comunisti avessero con il governo Badoglio un rapporto più costruttivo.
Non è tutto. Mentre facevano ricerche negli archivi sovietici, due studiosi, Viktor Zaslavsky e Elena Aga Rossi, hanno trovato documenti da cui risulta che Togliatti ebbe una lunga conversazione con Stalin al Cremlino, nella notte del 4 marzo 1944, alla presenza di Molotov, e ricevette istruzioni sulla politica che avrebbe dovuto perseguire dopo il ritorno in patria.
Sino a quel momento, il leader comunista italiano era stato contrario a qualsiasi forma di collaborazione con la monarchia e con Badoglio. Nel loro libro (Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca Il Mulino, 1997) Zaslavsky e Aga Rossi sostengono che la partecipazione di Togliatti al governo Badoglio è soltanto uno dei numerosi casi in cui il Pci si è adeguato alle direttive della politica estera sovietica.
La Festa della Liberazione
Ore una: insurrezione
All’alba del 25 aprile 1945 dalle radio italiane risuona la parola d’ordine
«Aldo dice 26 X 1»
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 25.04.2014)
«ALDO DICE 26 X 1». ALL’ALBA DEL 25 APRILE 1945 AL NORD RISUONA DALLE RADIO ITALIANE QUESTA STRANA FORMULA, METÀ SCIARADA, METÀ MISURA DI MOBILÌA. Invece è la parola d’ordine dell’insurrezione che allerta tutte le grandi città ancora occupate dai nazifascisti, e invita i partigiani di pianura e di montagna a sferrare l’attacco. Con i resistenti armati già operanti in territorio urbano. È Milano la prima ad insorgere e a liberarsi prima dell’arrivo degli alleati. Ma l’invito è rivolto a Genova, Torino, Venezia, Novara, Alessandria, Reggio Emilia, Parma, Modena, città queste ultime dove la Resistenza aveva già preso il controllo dei luoghi strategici importanti.
La formula dice «26», come data massima entro cui insorgere e «1» a indicare l’ora d’avvio. Milano è in anticipo. È il luogo simbolico più importante, sede del Clnai con lo stato maggiore operativo della lotta. E lì è il cuore del Nord. Dove il 16 dicembre del 1944 era tornato Mussolini, per annunciare al Lirico che il nemico sarebbe stato inchiodato nella Valle Padana. Invece Alleati e Partigiani sfondano in primavera la Linea Gotica, dopo aver pagato enormi prezzi da Massa Carrara fino a Nord di Pesaro e passando per l’Appennino insanguinato di rappresaglie. L’ora è arrivata perciò e anche l’Unità clandestina parla chiaro: «Insurrezione».
Vale la pena di leggerlo tutto quello strano comunicato, in realtà un telegramma inviato a tutti i comandi di zona partgiani:«Nemico in crisi finale. Stop. Applicate piano E 27. Stop. Capi nemici e dirigenti fascisti in fuga. Stop. Fermate tutte macchine et controllate rigorosamente passeggeri trattenendo persone sospette. Stop. Comandi zona interessati abbiano massima cura assicurare viabilità forze alleate su strade Genova-Torino et PiacenzaTorino. Stop. 24 aprile 1945».
Non è questione di filologia o di enfasi celebrativa ricordare il dettaglio del dispaccio, da cui vien fuori la parola in codice. Perché nel dettaglio c’è una politica di massa che diventa linea generale, da applicare nei luoghi chiave indicati, entro il giorno 26. Eccola: fare prima, insorgere prima dell’arrivo alleato e imprimere alle cose una dinamica precisa. Un principio di autogoverno nazionale. Nello stesso momento in cui si procedeva insieme agli Alleati, ma senza subalternità.
Quindi precise norme di controllo del territorio, presa di possesso dei punti chiave, eliminiazione dei focolai di contro-resistenza e via libera agli angloamericani nell’inseguire i nazifascisti in fuga. Accorciando così i tempi della guerra che ormai volgeva al termine. Dopo lo sfondamento della Gustav e il fallimento dell’offensiva tedesca nelle Ardenne.
In Maggio sarebbe tutto finito ma la Resistenza italiana con il suo apporto, militare e civico, imprimeva un suo sugello agli eventi, accorciando la tragedia e risollevando l’onore di una nazione trascinata nel baratro dal fascismo, e dalle colpe della Monarchia. Non senza le annesse istruzioni, a presidiare fabbriche, edifici, ponti, strade e materiale rotabile. Oltre all’onore, venivano messe in salvo le dotazioni del paese non ancora distrutte dalla furia bellica del biennio 1943-45. Cose che avrebbero consentito al paese pur sconfitto, di pagare un prezzo meno amaro alla disfatta e di piantare le basi per ordinamenti civili saldamente democratici e condivisi.
Insomma grazie alla Resistenza vittoriosa politicamente più che militarmente non ci fu né scenario greco di guerra civile né restaurazione monarchica e conservatrice. E il tutto passando per una alleanza anche con le forze moderate e monarchiche. Contando la «tutela» di chi, come Churchill, avrebbe voluto la continuità con i Savoia e un ruolo puramente ausiliario di partigiani e Cln. Ma come ci si era arrivati a quel «miracolo», che poneva le basi della futura Costituzione e salvava il salvabile di un’Italia in ginocchio?
Almeno due date vanno ricordate al riguardo, ma appartengono all’anno precedente: il 1944. La prima è il 22 aprile 1944: governo di unità nazionale con Badoglio. Che rinvia la questione istituzionale, da risolvere con referendum a guerra finita. E poi, il 31 di gennaio dello stesso anno: il Cln di Roma guidato da Bonomi dà delega al Cln milanese di tramutarsi in Cln alta italia, con dentro comunisti, socialisti, azionisti, democristiani, liberali, monarchici. Presidente Alfredo Pizzoni, liberale. Che rimarrà fino al 27 aprile, per cedere il posto al socialista Morandi.
Il Clnai, assumerà ufficialmente il 26 dicembre 1944, il ruolo di «terzo governo», o «governo ombra» nei territori occupati. E come si accennava non senza frizioni con gli Alleati, timorosi di dinamiche rivoluzionarie imprevedibili. Il miracolo sta in questo: la coesione tra forze opposte in quella situazione drammatica e senza collegamenti. Con il paese spossato e spezzato.
Ma prima c’è un altro miracolo da ricordare, che fu una vera e propria «invenzione»: la Svolta di Salerno. Annunciata da Togliatti dopo il suo ritorno in Italia il 22 marzo 1944, e concretizzatasi nel primo governo di unità nazionale, con gli obiettivi già visti.
La svolta era stata in verità lanciata già a fine settembre 1943 da Mario Correnti alias Togliatti tramite Radio Milano Libertà, che trasmetteva da Ufa, capitale della Baskiria sovietica. E diceva la voce: «Badoglio è il legittimo capo del popolo italiano». Una cosa enorme, rifiutata dall’antifascismo militante, incluso quello comunista. E che crea un’impasse, a partire dal Congresso di Bari 28-29 gennaio 1943 che vede il Cln diviso proprio sulla Monarchia e la linea unitaria da seguire.
È Togliatti che sblocca tutto, proponendo anche la Luogotenenza di Umberto, insieme all’abdicazione di Vittorio Emanuele III. Croce la definì «la bomba Ercoli», certo autorizzata dalla «geopolitica» di Stalin, e però tutta farina del sacco di Togliatti.
Fu quello «sblocco» a consentire di unire azione armata sul territorio e quadro istituzionale legittimo. Popolo e continuità legale dello stato. Contro il nemico principale e per la Liberazione. Di lì, da quel sangue e da quell’intelligenza, viene il primo stato democratico italiano. Di lì veniamo tutti noi e lì dobbiamo sempre ritornare. A quei princìpi, direbbe Machiavelli. Anche quando immaginiamo futuro.
Togliatti, i cattolici e la svolta di Bergamo
Cinquanta anni fa il leader del Pci auspicava «un reciproco riconoscimento di valori»
di Giuseppe Vacca (l’Unità, 27.03.2013)
Il 30 marzo prossimo saranno cinquant’anni dalla pubblicazione del più celebre discorso di Palmiro Togliatti sulla collaborazione fra comunisti e cattolici intitolato Il destino dell’uomo. Il discorso, pronunciato a Bergamo dieci giorni prima, cadeva nel mezzo della campagna per le elezioni del 28 aprile e Togliatti non aveva scelto a caso la città natale di Papa Giovanni XXIII per pronunciarlo: si era agli inizi della coesistenza pacifica ed egli richiamava il recente incontro del Papa con la figlia e il genero di Krusciov che aveva avviato il disgelo fra Mosca e il Vaticano.
Ma era cominciato anche il Concilio, e Togliatti ne seguiva i lavori con molta attenzione sottolineando la «fine dell’età costantiniana», cioè la fine della identificazione della Chiesa con l’Occidente.
Inoltre, dopo il XXII Congresso del Pcus (ottobre 1961) il Pci aveva innovato la sua visione della coesistenza pacifica assumendo come obiettivo concreto il superamento della divisione del mondo in blocchi contrapposti.
Nel discorso di Bergamo, quindi, Togliatti si dirigeva simultaneamente al suo mondo e al mondo cattolico auspicando una collaborazione fondata su «un reciproco riconoscimento di valori». Se in politica interna mirava a prevenire l’isolamento del Pci liberando il confronto con la Dc di Aldo Moro dal vincolo dell’unità fra comunisti e socialisti, le principali novità del suo discorso riguardavano soprattutto la visione storica del mondo del dopoguerra e la revisione della dottrina comunista sulla religione.
Non era la prima volta che Togliatti attirava l’attenzione sulle novità dell’era atomica: l’aveva fatto nel ’45, subito dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, e ancora nel ’54, nell’appello al mondo cattolico «per salvare la civiltà umana».
Ma ora ne traeva tutte le conseguenze: l’avvento dell’era atomica aveva cambiato la correlazione fra la politica e la guerra poiché, di fronte alla possibilità dell’autodistruzione del genere umano, la pace, egli dice, «diventa una necessità». «Ma riconoscere questa necessità, aggiungeva, non può non significare una revisione totale di indirizzi politici, di morale pubblica e anche di morale privata».
Quindi non si poteva più pensare alla guerra come “prosecuzione della politica con altri mezzi” e ciò implicava anche l’abbandono della visione sovietica della coesistenza come «lotta di classe nel campo internazionale», insieme al paradigma classista nell’interpretazione della storia. «Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova».
Il discorso esigeva il superamento ideale della divisione fra credenti e non credenti, e su questo tema la revisione di Togliatti era ancora più radicale poiché, lasciando cadere la visione illuministica e marxista del rapporto fra religione e modernità, egli affermava l’autonomia, l’irriducibilità e la positività del fatto religioso. «Per quanto riguarda gli sviluppi della coscienza religiosa, dichiarava, noi non accettiamo più la concezione ingenua ed errata, che basterebbero l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali (...). Le radici sono più profonde, le trasformazioni si compiono in modo diverso, la realtà è più complessa».
Quindi anche il marxismo, di cui rivendicava la validità ermeneutica perché la società potesse essere organizzata secondo fini stabiliti solidalmente dagli uomini e dalle donne del pianeta, era posto al servizio di una visione schiettamente personalistica: l’obiettivo del «pieno sviluppo della persona umana» come «meta di tutta la storia degli uomini», onde poteva affermare «che la nostra è, se si vuole, una competa religione dell’uomo». Il discorso di Bergamo era intriso della retorica tradizionale sulle responsabilità americane per la guerra fredda e caratterizzato da una visione ottimistica del futuro del socialismo.
Così come, per altro verso, era ricco di intuizioni sulle nuove forme di alienazione e di solitudine dell’uomo nelle società capitalistiche più sviluppate che esigevano anch’esse profonde revisioni concettuali per essere affrontate insieme da credenti e non credenti in una prospettiva personalistica e comunitaria.
Per un inquadramento adeguato Il destino dell’uomo andrebbe quindi inserito in una ricostruzione storica della riflessione e dell’opera politica degli ultimi anni di Togliatti: un periodo di significative revisioni non ancora esplorato nell’insieme. Ma i passi salienti su cui abbiamo richiamato l’attenzione ne costituiscono la cifra più alta e se non altro per questo il discorso di Bergamo merita il nostro ricordo.
La Lectio magistralis tenuta ieri da Napolitano all’Ispi di Milano
Quell’ostracismo a sinistra poi la svolta atlantica
L’Italia e il cammino iniziato dal governo di solidarietà nazionale
di Giorgio Napolitano (Corriere della Sera, 07.02.2013)
La nostra Repubblica, le sue istituzioni, le sue forze politiche più rappresentative, conobbero prestissimo - nonostante il prodigioso approdo dell’Assemblea costituente, con l’approvazione a larghissima maggioranza della Legge fondamentale - una rottura radicale. A partire dal 1948, la divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi contrapposti, a forte connotazione ideologica ancor prima che militare, si rispecchiò nell’antagonismo irriducibile tra i due maggiori schieramenti politici; e quello di opposizione, guidato dalla sinistra socialista e comunista, si identificò col duplice rifiuto iniziale del disegno di integrazione europea e dell’alleanza con gli Stati Uniti d’America.
Quel rifiuto, quella scelta di campo sul piano internazionale, avrebbe rappresentato una fatale palla di piombo al piede del partito divenuto egemone nella sinistra, bloccando a lungo una normale dialettica nei rapporti politici e nelle prospettive di governo del Paese.
Tuttavia, a partire dagli anni 60 si mise in moto un graduale riavvicinamento tra le principali forze politiche italiane nell’impegno europeistico, e innanzitutto nella partecipazione al Parlamento europeo. Fu necessario invece ancora un decennio per il superamento, nella sinistra, dell’ostracismo verso la Nato.
Ma un sostanziale ripensamento si fece strada di fronte alla sempre più scoperta e dura caratterizzazione - fin dall’intervento militare del 1968 in Cecoslovacchia - della leadership sovietica in termini di chiusura a ogni evoluzione democratica in seno al blocco dell’Est, e di negazione di ogni sovranità e libertà di determinazione nei Paesi membri del Patto di Varsavia.
Il punto di arrivo di quei processi di ripensamento e riavvicinamento venne segnato con la risoluzione, davvero «storica», approvata dal Senato e dalla Camera nell’ottobre e nel dicembre del 1977, cioè nel periodo del governo di «solidarietà nazionale». La risoluzione recava le firme dei rappresentanti - e ottenne il voto dei gruppi parlamentari - di tutti i partiti dell’«arco costituzionale». Quei partiti si riconobbero solidalmente, per la prima volta, «nel quadro dell’Alleanza atlantica e degli impegni comunitari, quadro» - cito - «che rappresenta il termine fondamentale di riferimento della politica estera italiana». Quel comune riferimento fu sottoposto - anche negli anni 80 - a non trascurabili tensioni e prove, ma non venne mai più offuscato.
Ma la questione oggi è quella del mutamento profondo della cornice mondiale entro cui è chiamata ad operare la politica estera e di sicurezza nell’Italia, pur in continuità con quegli ancoraggi fondamentali sanciti dal più vasto arco di forze politiche 35 anni orsono... Non si può, a questo proposito, non ripartire dal decisivo spartiacque rappresentato - tra il 1989 e il 1991 - dalla dissoluzione del Patto di Varsavia e quindi della stessa Unione Sovietica. Si aprì allora una fase che sarebbe durata fino alla fine del Ventesimo secolo o agli inizi del successivo.
E si può dire che mai si era avuta una simile affermazione del primato mondiale dell’Occidente, un simile esplicarsi della sua forza di attrazione politica, economica e ideale, insieme con la sopravvivenza - al lungo periodo della sfida con la superpotenza sovietica - degli Stati Uniti come sola superpotenza militare. Apparve allora non irragionevole parlare di mondo unipolare, e perfino di «fine della storia». Ma nel primo decennio di questo XXI secolo lo scenario mondiale è venuto esibendo trasformazioni tali da imporre ben diverse categorie di giudizio e di previsione.
L’emergere di nuove grandi realtà e forze protagoniste, innanzitutto, ma non solo, sul terreno economico - la Cina, l’India, il Brasile - il nuovo dinamismo di Paesi del Sudest asiatico e anche di un grande Paese come la Turchia nella vasta regione a cavallo tra l’Europa e l’Asia, il recupero di posizioni e il consolidamento, anche politico, della Russia, forte della valorizzazione delle sue risorse energetiche, hanno sancito un processo di spostamento del centro di gravità dello sviluppo mondiale dall’Atlantico al Pacifico. Ecco che allora una crescente attenzione è stata rivolta - guardando al mondo dall’Occidente - al «resto», come lo si è definito: sempre meno semplice e secondario «resto», ma decisivo quadrante del mondo in via di cambiamento.
È stato messo l’accento sui limiti della potenza americana, e sulle difficoltà di un’Europa ancora debolmente integrata e in perdita di produttività, si è evocata l’immagine di un «mondo post-americano» e si sono assunte con allarme le proiezioni del calo già in atto del peso demografico ed economico dell’Occidente. Né si può trascurare l’incidenza di un più complesso fenomeno, quello del drammatico sminuirsi del «global standing» dell’America, della sua credibilità presidenziale e nazionale, e della condivisione delle sue istanze di sicurezza.
Questa severa valutazione è stata motivata da Brzezinski sulla base di una drastica critica alle reazioni della presidenza di George Bush al terribile colpo sferrato da Al Qaeda al cuore dell’America l’11 settembre del 2001. Una drastica critica dell’impostazione e conduzione della pur giusta immediata risposta militare in Afghanistan, della grave decisione unilaterale di muovere guerra all’Iraq, dell’incapacità di esprimere una strategia di isolamento dell’estremismo e del terrorismo islamico dal più vasto mondo musulmano. Rispetto a quell’improvvido corso della politica internazionale degli Stati Uniti, una svolta lungimirante fu intrapresa dal presidente Obama. Ma egli era ormai alle prese con una nuova durissima prova.
La crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008 per effetto - seguo la traccia della prima e forse più penetrante analisi, quella di Tommaso Padoa Schioppa - di una «resa dei conti sul disavanzo con l’estero degli Stati Uniti» e dello «scoppio della bolla immobiliare», entrambe generatrici di un’onda di «grande panico», si è propagata in Europa e ha introdotto uno «sconvolgimento complessivo nel corpo dell’economia globale».
Quel che non ha retto è stato il «modello di crescita senza risparmio dell’economia degli Stati Uniti». Siamo in effetti in un mondo che poggia su ben più numerosi pilastri, e che nello stesso tempo si può definire, come lo definisce Charles Kupchan, «un mondo di nessuno»; un mondo che si caratterizza per la graduale redistribuzione e comunque, innanzitutto, per la dispersione del potere globale ma è anche esposto al moltiplicarsi di focolai di crisi e di minacce alla sicurezza collettiva. Si impone quindi la ricerca di nuove sedi e scelte di governance globale innanzitutto sul piano economico, una nuova e più avanzata prospettiva multilateralista, un nuovo quadro di cooperazione e solidarietà...
Nel Medio Oriente e in Africa del Nord il «risveglio politico globale» si è manifestato con maggiore forza, ma con esiti e sviluppi assai diversi... In Siria una leadership, che era apparsa qualche anno fa sensibile all’esigenza di affrancarsi da pesanti tutele esterne e di avvicinarsi all’Europa, e che aveva, nel solco di una tradizione politica laica, garantito rispetto del pluralismo religioso, ha reagito nel modo più brutale, aggressivo e sanguinario alla contestazione popolare e ad ogni opposizione.
Ma anche là dove le primavere arabe sono state coronate da indubbio successo e hanno dato avvio a un processo di rinnovamento politico-istituzionale, sono seguiti caotici contraccolpi. Rispetto a questi fenomeni ci siamo atteggiati, come istituzioni italiane, nel solco di una storica strategia condivisa di attenzione e impegno nel Mediterraneo e di amicizia verso il mondo arabo.
La grande posta in giuoco, nel rapporto non solo col mondo arabo ma col più vasto mondo musulmano, è quella del superamento di radicali, devastanti contrapposizioni. Fa testo in questo senso lo storico discorso pronunciato dal presidente Obama nel giugno 2009 al Cairo. E fa testo anche per l’equilibrio con cui egli pose in quel contesto la questione del conflitto israelo-palestinese, in termini non acritici né verso gli uni né verso gli altri, sollecitando una soluzione basata sulla convivenza tra due Stati nella pace e nella sicurezza. È in questo approccio che si è riconosciuta e si riconosce l’Italia...
Ma torno ora alla tendenza generale che si può cogliere nel processo di trasformazione in atto. La crisi scoppiata nel 2008 e non ancora superata ha dato la prova di quanto sia profonda e stringente l’interdipendenza globale, la rete e l’intreccio dei rapporti, in ogni senso, tra tutte le economie del mondo, e come sia ineludibile l’affrontare insieme problemi di comune interesse. Può essere troppo audace il parlare di «alba di una nuova era di multilateralismo». Ma la prospettiva dovrebbe essere questa.
Peraltro, anche se il G20 ha affrontato con successo la prova del rafforzamento delle istituzioni multilaterali partendo dall’allargamento e irrobustimento del Fondo monetario internazionale, molti altri traguardi appaiono ardui e sappiamo come anche in altri fori, compresi quelli che fanno capo alle Nazioni Unite, si proceda a fatica verso risposte soddisfacenti a sfide di portata globale.
Nel mio riflettere e operare di questi anni sui temi della politica estera e di sicurezza italiana, ho cercato di cogliere la profondità delle trasformazioni nel quadro mondiale ma non ho mai ceduto alla suggestione di un fatale declino dell’America e dell’Occidente. Restiamo legati da ogni punto di vista all’amicizia e alleanza con gli Stati Uniti... Come italiani e come europei, siamo soprattutto legati a un patrimonio storico comune di idealità, di principi e di valori, che ci fanno identificare, a fianco dell’America, con l’Occidente come luogo della democrazia e dei diritti umani.
Perciò il punto d’arrivo del percorso politico e istituzionale che ho vissuto negli ultimi sette anni è la parte che ora tocca fare all’Europa nella prospettiva di un rinnovato ruolo dell’Occidente. E dicendo Europa, intendo Europa unita. In questo mondo l’Unione Europea saprà porsi «all’altezza delle sue potenzialità e responsabilità?». È una domanda che la crisi attuale dell’Unione, dell’eurozona e più in generale del progetto europeo, non ci dà alibi per eludere.
L’impegno a superare la crisi, traendone tutte le lezioni, deve corrispondere proprio all’esigenza di portarci, in quanto Europa unita, all’altezza delle nuove responsabilità. Ciò comporta un’accresciuta volontà di procedere in tutte le direzioni individuate dalle istituzioni europee per rafforzare, completandola, l’Unione economica e monetaria e imprimerle una nuova capacità di promozione dello sviluppo economico e sociale dell’Europa. Ma non basta. È indispensabile procedere sul serio verso l’Unione politica.
ITALIA, 1945-2012: IERI COME OGGI ....
25 APRILE: FESTA DELLA LIBERAZIONE.
PER LA PACE E LA GIUSTIZIA...
L’ITALIA SI E’ LIBERATA DAL NAZIFASCISMO (1945) E DALLA MONARCHIA (Referendum, 1946).
Gli italiani e le italiane hanno ripudiato il dio della guerra (Marte): non sono più figli e figlie della Lupa! Hanno conquistato la libertà e sono diventati cittadini-sovrani e cittadine-sovrane!
RIPRENDIAMO IL CAMMINO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI,
NON ALLONTANIAMOCI DALLA DIRITTA VIA E NON RICADIAMO NELLA SELVA OSCURA!!!
NON DIVENTIAMO ANCORA E DI NUOVO ANIMALI AL GUINZAGLIO DEI SACERDOTI E DELLE SACERDOTESSE DEL DIO DELLA GUERRA!!!
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA:
Art. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 11.
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
SVEGLIAMOCI, SANIAMO LE NOSTRE FERITE!!!
NELLA TEMPESTA CHE CI CIRCONDA SEMPRE PIU’ E RISCHIA DI TRAVOLGERCI DEFINITIVAMENTE
TENIAMO FERMI I PRINCIPI DELLA NOSTRA SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE!!!
Federico La Sala
ANTONIO GRAMSCI (1924). "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo":
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L’ITALIA FERITA E SCONCERTATA. DOPO CHE IL SUO PAPA HA BENEDETTO E GUIDATO L’ATTACCO, BRUNO FORTE SI CHIEDE "COME CURARE L’ALBERO MALATO DELLA POLITICA". Una nota di premessa sull’inizio dell’offensiva e le sue "riflessioni sui nostri tempi", oggi
IL CASO
E Pio XII ordinò: «Aiutate quegli ebrei»
di Angelo Picariello (Avvenire, 31 marzo 2011)
Quando morì, il 31 marzo1961, cinquant’anni fa, la notte di venerdì santo, gli fu trovata indosso biancheria «rattoppata da mani poco esperte, con tutta probabilità le sue», né fu possibile trovarne di nuova per l’ultima vestizione. Morì come era vissuto, monsignor Giuseppe Maria Palatucci. Francescano, compagno di seminario di padre Massimiliano Kolbe, fondatore della prestigiosa rivista Luce Serafica e poi vescovo di Campagna, nel Salernitano, si trovò a dover fronteggiare le richieste di aiuto di centinaia, migliaia di ebrei, assegnati negli anni al campo di internamento di San Bartolomeo, e ricevette, per questo, cospicui aiuti vaticani, la cui riferibilità, nero su bianco è ora attribuibile direttamente alla volontà di Pio XII.
Una precisa direttiva del Santo Padre, che si evince già da una lettera datata 20 settembre 1940 del canonico della cattedrale, don Alberto Gibboni il quale (inviato in missione a Roma dal vescovo proprio per perorare la richiesta di aiuti già inviata da qualche giorno) viene ricevuto prima dal cardinale Domenico Tardini, sostituto della Segreteria di Stato. «Per il sussidio - scrive don Gibboni al vescovo - mi ha mandato a monsignor Montini, il quale spedirà subito a lei una somma coll’istruzione per distribuirla tra gli internati. Per l’avvenire mi ha detto che ci tratterà come Genova: ogni volta che busseremo, ci aprirà». Un nuovo documento, questo, che viene alla luce dal prezioso archivio di monsignor Palatucci, comprendente ben 1276 lettere, perorazioni varie e relativi riscontri inerenti la situazione degli ebrei a Campagna. Di ben 188 documenti consta il solo carteggio con la Segreteria di Stato.
Un’opera enorme di catalogazione ancora in corso, curata da don Franco Celetta, parroco a Montella, cittadina natale del vescovo. Documenti che aprono squarci importanti sulle direttive impartite per contrastare le persecuzioni razziali. Ben 36 le lettere intercorrenti fra il vescovo e monsignor Giovan Battista Montini, con un’attenzione meticolosa, da parte di quest’ultimo, alle modalità di impiego, che lascia presupporre un vero e proprio incarico affidato al futuro Paolo VI per gestire nella Segreteria di Stato la delicatissima materia.
E suona come una conferma il riferimento, nella lettera del canonico della cattedrale, ai fondi già inviati a Genova, dove è ben nota l’opera di salvataggio che promosse il cardinale Boetto. La promessa di sussidi al vescovo di Campagna si materializza nel giro di pochi giorni. Il 2 ottobre 1940 il segretario di Stato cardinale Luigi Maglione scrive: «L’Augusto Pontefice si è degnato di accogliere l’esposto e mi ha ordinato di far pervenire a Vostra Eccellenza l’importo di lire 3.000, che le trasmetto con l’unito assegno sul Banco di Roma. Sua Santità, in omaggio all’intenzione degli offerenti, mi ha pure incaricato di FarLe noto che questo denaro è preferibilmente destinato a chi soffre per ragioni di razza».
Precisazione, questa, di assoluta rilevanza storica, da ricollegare al fatto che i campi di internamento del Sud d’Italia ospitavano anche dissidenti politici. E il vescovo non faceva mai mancare, accanto al ringraziamento per i fondi pervenuti e le dettagliate informazioni sul loro utilizzo, l’aggiunta di ulteriori richieste. Il 29 novembre 1940 Montini scrive di suo pugno la lettera che pubblichiamo qui a lato. Poi, di nuovo, il primo maggio del 1941, è il giovane sostituto della Segreteria di Stato che scrive al vescovo: «Il Santo Padre, al quale ho esposto la cosa, si è degnato destinare allo scopo da Lei esposto la somma di lire 5.000 e affida alla carità e alla prudenza dell’Eccellenza Vostra la distribuzione di quei soccorsi che, a suo giudizio, sembrano più urgenti».
Non mancano altre sette lettere intercorse con casa Savoia, per chiedere l’interessamento, su casi spinosi riguardanti singoli internati, del Principe Umberto, che aveva conosciuto nelle esercitazioni militari tenutesi sui monti dell’Irpinia, nel 1936. Nel carteggio il vescovo informa anche il Vaticano del legame operativo nell’opera di salvataggio col nipote Giovanni (commissario dell’ufficio stranieri a Fiume e poi questore reggente, fino alla deportazione a Dachau, dove morì).
E proprio nel corso di una cerimonia di commemorazione e intitolazione di una strada all’eroico commissario, che si tiene nell’aprile del 1953 a Ramat Gan, in Israele, il vescovo Palatucci ricostruisce come «a un certo punto, non potendo con le mie forze aiutarli, dando denaro, vesti, e anche, alle volte, viveri, mi rivolsi al Santo Padre gloriosamente regnante, Pio XII, perché mi mandasse dei sussidi, sicché in quegli anni, io potei aiutare gli ebrei con una somma di circa centomila lire: somma a quel tempo molto rispettabile».
Questa, dunque, la somma totale. I tedeschi in ritirata dopo lo sbarco a Salerno degli Alleati, nel settembre del ’43, si recarono a Campagna, ma ripresero la marcia a mani vuote: complici gli agenti e la popolazione, gli ebrei erano già tutti riparati nelle montagne. Il presidente Napolitano, nel 2006 ha assegnato la medaglia d’oro tanto all’eroico paese quanto al vescovo. Al pari dei fratelli francescani Antonio e Alfonso, monsignor Palatucci riposa a Montella, accanto all’altare del convento san Francesco a Folloni, sorto sul luogo dove il santo di Assisi riposò di ritorno dal pellegrinaggio alla Grotta di San Michele Arcangelo sul Gargano. Oggi, nel cinquantesimo della morte, il comune di Campagna ne commemora la figura alla presenza dell’arcivescovo di Salerno monsignor Luigi Moretti.
Angelo Picariello
Il caso
Palatucci, la ricerca continua
di Angelo Picariello (Avvenire, 25 marzo 2015)
La ricerca su Giovanni Palatucci continua. Le cifre sull’entità dei suoi salvataggi restano controverse ma della possibilità paventata dal New York Times che potesse essere rivista la sua collocazione fra i Giusti fra le Nazioni non si parla più, anzi per meglio dire lo Yad Vashem non risulta mai che abbia preso in considerazione l’ipotesi.
Il Gruppo di ricerca istituito per tentare di fare chiarezza sulla figura dell’ex commissario dell’ufficio stranieri di Fiume (poi divenuto questore reggente, dopo l’armistizio) dopo i clamorosi echi mediatici internazionali dell’indagine del New York Levi Center che era arrivato a descriverlo tendenzialmente come un delatore dei tedeschi, chiude con un sostanziale nulla di fatto i suoi lavori.
La commissione costituita presso la Fondazione Centro di documentazione Ebraica contemporanea di Milano era stata istituita su richiesta dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, è stata coordinata dal presiedente del Cdec Michele Sarfatti. Il gruppo, insediatosi il 17 dicembre 2013, ha tenuto sei riunioni plenarie a Roma e Milano. Un anno e quattro mesi di lavori sintetizzati da uno stringato documento finale, che ha portato all’«acquisizione di nuove fonti documentarie», accanto all’esame di «documenti già noti e studi già pubblicati».
Tuttavia, «dopo molti mesi di lavoro, l’esperienza del gruppo si conclude senza la produzione di una Relazione finale». Al di là delle posizioni diverse di partenza ha pesato la «complessità dell’esame delle testimonianze orali, in particolare nel periodo 1943-1944». È stata quindi valutata la possibilità di escluderle dalla relazione finale. Ma non sarebbe stato fatto un gran servizio alla verità, visto che un’opera svolta spesso in clandestinità non poteva e non può essere ricostruita senza il decisivo apporto delle fonti orali.
«Il gruppo ha quindi dibattuto con diversità di opinioni se fosse o no giusto produrre una relazione finale priva della parte sulle testimonianze, convergendo infine sulla non opportunità di produrla per evitare ad essa critiche di parzialità o di incompletezza». Una riflessione svolta «con amarezza, essendo consapevole che il proprio lavoro di ricerca documentaria e analisi storiografica aveva raggiunto un livello importante e innovativo».
Per Roberto Malini, storico e studioso della Shoah, in questi mesi messosi a sua volta al lavoro per approfondire le ricerche sul commissario di origini irpine morto deportato a Dachau, «la posizione assunta dalla Commissione è matura ed equilibrata. Il gruppo di ricerca si riunì - ricorda - in seguito alle dichiarazioni rese al New York Times da Natalia Indrimi del Levi Center, che annunciava uno studio corredato da prove inoppugnabili contro Palatucci, studio che invece non è mai stato pubblicato. E mentre la Commissione iniziava i lavori, altri storici si sono messi al lavoro per tentare di riparare alla cattiva informazione diffusa dal quotidiano newyorkese. Le ondate di revisionismo e negazionismo, basate su considerazioni livorose e non su evidenze storiche, destano preoccupazione presso studiosi ed educatori che si impegnano quotidianamente affinché la memoria dei milioni di vittime e degli eroi che difesero la civiltà negli anni dell’orrore non venga offuscata».
Anche la famiglia ha ripreso le sue ricerche. Antonio De Simone Palatucci, avvocato montellese nipote diretto del commissario morto a Dachau, ha continuato le sue nel fondo di famiglia. Spunta un documento del 1953, un resoconto della cerimonia che portò al primo riconoscimento, in Israele, per Palatucci, con l’intestazione di una strada a Ramat Gan alla presenza dei due zii del poliziotto, il vescovo di Campagna Giuseppe Maria Palatucci e il fra’ Antonio Palatucci, superiore dei francescani. La traduzione dall’ebraico del puntuale resoconto di quella giornata su un giornale locale restituisce ora alcune curiosità. Colpisce la presenza, fra le autorità, del rabbino di Budapest Fabiano Herschkoovits, a riprova che gran parte dei salvataggi riguardarono proprio ebrei jugoslavi in fuga (il che accresce di molto il numero dei salvati da Palatucci), colpisce l’entusiasmo della gente del posto, molti testimoni diretti dei fatti risalenti a soli 8 anni prima. Colpisce infine che il sindaco Krinizi e anche l’articolista ebreo parlino per tre volte di Palatucci come un «martire». Esattamente 60 anni dopo c’è chi ha provato a ribaltare i fatti, ma a quanto pare le prove non ci sono.
Al contrario, fra le poche cose trapelate dei lavori della commissione emerge che un giovane studioso, Ivan Jelicic, ha trovato un documento in cui persino i partigiani jugoslavi presentavano Palatucci come un benefattore degli ebrei. «Ho inviato il comunicato da parte della Commissione Palatucci al professor David Cassuto e agli altri storici del Memoriale Yad Vashem con cui collaboro e so che lo leggeranno con sollievo», dice Malini.
Ora si può guardare avanti con più serenità. «È stato un lavoro fecondo - assicura Michele Sarfatti - tutti, nessuno escluso, hanno dato il loro contributo. Alcuni aspetti sono stati confutati, ma ne sono emersi di nuovi, molti e molto importanti. Il mio auspicio - conclude il presidente della commissione - è che questa opera di ricerca continui, per avvicinarsi il più possibile alla ricostruzione di una figura, ma anche di un periodo della nostra storia, fra i più complessi e difficili.
La svolta 1989. Democratici, però di sinistra: quella resta l’idea giusta
di Achille Occhetto (l’Unità, 4.02.2011)
Le celebrazioni della ricorrenza dei 90 anni di storia del Pci hanno messo in evidenza come quella vicenda abbia rappresentato un pezzo rilevante della storia d’Italia, un architrave della costruzione dello stato democratico e della medesima ricostruzione del paese.
Lo stesso si può dire dell’ultimo atto della vita di quel partito, della svolta e del passaggio dal Pci al Pds. In continuità con la funzione nazionale esercitata dai comunisti italiani anche la fine e il nuovo inizio non si presentano solo come un evento interno, un affare dei comunisti e della loro crisi, bensì come un passaggio di fase nella stessa storia del paese. Infatti, come dicemmo nei giorni della svolta, la campana del nuovo inizio non suonava solo per noi, avrebbe suonato per tutti i partiti e per l’insieme del sistema politico. Tuttavia la grandezza di quella storia, la sua ineludibile funzione nazionale che ha contraddistinto la capacità di un blocco sociale e della sua classe dirigente di orientare il corso storico del paese conviveva con i germi della sua crisi.
Uno degli aspetti più rilevanti di quella vicenda sta in quel particolare connubio tra revisionismo socialista democratico, apertura intellettuale e un giustificazionismo storico, una doppiezza tra la funzione democratica esercitata in Italia e quello che lo stesso Togliatti aveva chiamato il legame di ferro con l’Urss, che, in una fase rilevante della sua storia, lo aveva portato a forme di favoreggiamento se non di copertura dei delitti staliniani. Successivamente il Pci spingerà, in modo particolare con Berlinguer, fino alle estreme conseguenze la sua sofferta trasformazione democratica, pur rimanendo invischiato dentro il vecchio involucro. Da queste sommarie considerazioni si possono ricavare due riflessioni.
La prima, è che la tesi contraria alla svolta secondo cui non c’era bisogno di cambiare un partito che non aveva più niente a che vedere con i paesi dittatoriali dell’Est, in realtà, può essere presentata come la tesi più favorevole alle ragioni della mutazione, in quanto solo all’interno della contraddittoria e incompleta evoluzione del Pci l’idea stessa della svolta avrebbe potuto trovare il proprio terreno di coltura.
Ciò non poteva accadere, e non a caso non è accaduto, dentro gli altri partiti comunisti europei ampiamente compromessi con gli errori e gli orrori del socialismo reale. Solo una formazione politica che portava dentro di sé la metamorfosi poteva sentire l’esigenza di spaccare il vecchio involucro nel quale si sentiva costretta.
La seconda riflessione è che lo stesso processo di continua evoluzione che stava alle spalle del nuovo inizio smentisce l’altra tesi critica, quella secondo la quale con la svolta si sarebbe compiuto un atto di coraggio, ma isolato, improvviso e privo di cultura politica. In realtà la cultura della svolta va ricercata in tutto il corso di revisione critica di cui abbiamo parlato, e ha il suo momento di precipitazione nell’insieme degli atti politici assunti nell’89’ e nello stesso 18 ̊ congresso di quell’anno, alla fine del quale si diede allo stesso partito l’appellativo di «nuovo Pci»: una prima pudica voglia di cambiamento del nome, la timida confessione che tra i contenuti e la forma del vecchio partito c’era una discrepanza. Una parte della cultura della svolta è già contenuta lì.
Infatti il 18° congresso aveva innovato profondamente la cultura politica almeno su quattro punti: 1) l’affermata centralità della questione ecologica come nuovo fondamento della critica del modello di sviluppo e non come mero ambientalismo a sé stante; 2) il riconoscimento del valore del mercato nel contesto di una ridefinizione del rapporto tra pubblico e privato: 3) la sostituzione del dirigismo con il sistema delle regole: 4) il primato della libertà, che sarà ulteriormente rafforzato e definito nella carta di intenti del nuovo partito.
Da allora francamente non si sono visti altri significativi apporti innovativi che si muovessero, beninteso, sul terreno della sinistra. La stessa ipotesi di una nuova formazione politica fondata sulla contaminazione dei diversi riformismi di cui è ricca la nostra storia sta alla base del nuovo inizio.
Le diversità tuttora in campo nella sinistra con la stessa nascita della Sel si riferiscono più ai modi di tale contaminazione che alla sua necessità. E sui modi si fanno sentire anche sensibili differenze nel medesimo Pd.
Purtroppo quando si arriva al momento del congresso di Rimini avevamo alle spalle un anno di logoramento, perché malgrado lo splendore del precedente congresso di Bologna, che aveva sancito il cambiamento del nome, il dibattito interno invece di aprirsi sul come, si era ancora attardato sul se. Al punto che prima del congresso fu presentato all’opinione pubblica il nuovo simbolo corredato da una carta di intenti. Il simbolo fece grande clamore, la carta di intenti, a proposito di cultura politica, non fu discussa. Eppure in quel testo si trova il meglio delle tesi innovatrici presenti al tempo nella elaborazione della socialdemocrazia europea assieme alle novità dei nostri apporti.
Ma allora chiediamoci: alla Bolognina e successivamente al congresso di Rimini nella sostanza che cosa è successo? Se si guarda al fatto storico nella sua essenzialità è successo che con la svolta si è spostato il più grande partito comunista dell’occidente dal campo teorico e politico dell’Internazionale comunista e del marxismo leninismo al campo dell’Internazionale socialista. Punto e a capo. Questo, al di là dei sofismi della cronaca corrente, è quello che è successo. Ed è successo malgrado il disappunto di molti socialisti che non possono negare quel fatto storico solo perché non abbiamo accettato il tipo di unità socialista propostoci da Craxi.
Il 4 febbraio del 1991 la maggioranza del Pci è passata all’area del socialismo democratico dopo alcuni anni di intenso lavoro ideale e politico. Io stesso, assieme a Napolitano e a Fassino, ho incontrato i grandi della socialdemocrazia, da Willy Brandt a Kinnock passando per Moroy, Gonzales fino a Mitterand per chiedere loro l’ingresso nell’Internazionale socialista. Io stesso sono cofondatore del Partito del socialismo europeo. L’essenzialità di quella scelta va ancor oggi ricordata perché lo stesso congresso di Rimini si trovò a fronteggiare due insorgenze: quella che veniva da una parte di coloro che non avevano accettato la svolta e che approderanno alla scissione, e le differenti valutazioni sulla situazione internazionale e sul craxismo. Se si aggiunge che proprio in quei giorni si è nel pieno della guerra del Golfo, si può meglio capire la tensione e la cupezza del momento. Momento sicuramente sfortunato, ma che non muta la sostanza di alcune scelte di fondo. Come abbiamo visto, i rapporti da tenere con il Psi di Craxi hanno costituito una differenza anche tra i fautori della svolta, differenza che tuttavia non poteva indurre a considerare le posizioni critiche verso Craxi come posizioni di per sé antisocialiste. Si è trattato di una legittima differenza politica, che merita il massimo rispetto, ma che non contraddice il dato fondamentale: il 4 febbraio del 1991 il Pds nasce come partito dell’Internazionale socialista, collocato nel gruppo socialista del parlamento europeo e cofondatore del Pse.
Il vero problema oggi sarebbe quello di giudicare la cultura politica che è seguita nel corso degli anni successivi. Si tratta di un giudizio complicato e difficile, reso ancora più difficile dalla diversità di intenzioni presenti negli stessi protagonisti del congresso di Rimini.
Una prima differenza va riscontrata tra chi voleva uscire da sinistra dalla crisi del comunismo e chi si muoveva nella direzione di un riformismo più moderato, a cui facevano seguito tre fondamentali differenti visioni della prospettiva. La prima, come abbiamo visto, muoveva sostanzialmente nella direzione dell’unità socialista, proposta che la maggioranza del partito considerò allora come una sorta di annessione che ci avrebbe fatto fare un duplice salto mortale, dalla fuoriuscita dalle rovine dal comunismo per entrare sotto le rovine del pentapartito. La seconda, era quella di dare immediatamente vita al partito democratico, particolarmente caldeggiata da Veltroni, a cui risposi dicendo che concordavo con il riferimento forte e centrale a democratico obiettando però che ci potevano essere diversi partiti democratici, di orientamento moderato o cattolico. E risposi: democratico sì, ma di sinistra. Nasce così la proposta di chiamare il nuovo partito «Partito democratico della sinistra». Di qui la terza visione, da me caldeggiata, quella della costituente di una nuova formazione politica, che andasse oltre le culture del ‘900, pur riconoscendo che nello scontro storico tra comunismo e socialismo democratico aveva vinto quest’ultimo.
Diverse erano le passioni che la svolta fece sprigionare da quel vaso di Pandora che era il Pci. Ma al di là di queste, ancora una volta appare un altro fatto storico incontrovertibile: la svolta si inserisce nel contesto di una gigantesca mutazione geopolitica. Non si presenta come un problema dei comunisti, neppure come un atto provinciale. Cambia il mondo, cambiano i partiti, mutano i soggetti nazionali e internazionali legati allo scontro centrale del secolo, muta la lotta per l’egemonia planetaria, si passa dal bipolarismo al monopolarismo per approdare, con Obama, al multilateralismo. Si affollano nuovi problemi planetari (l’Islam, il terrorismo), due grandi rischi di distruzione del pianeta: quello nucleare e quello ecologico. In tutto questo c’è del progresso, ma ci sono anche delle perdite secche.
Molte sono le acquisizioni positive sul terreno della nostra liberazione interiore: il faro della libertà è diventato più nitido nelle nostre menti. La liberazione dalle idee oppressive del collettivismo autoritario, del conformismo e monolitismo di partito, della contrapposizione dell’uguaglianza alla libertà, del terrore di sbagliare davanti al dogmatismo dell’ideologia e ai suoi rappresentanti autorizzati: il capo, la direzione, il comitato centrale. Non c’è più tutto questo, ma il nuovo rischio è il vuoto. Il rischio di buttare via con l’acqua sporca anche il bambino.
Dio è morto, ha gridato un grande filosofo a cavallo tra l’800 e il 900; le ideologie sono morte, abbiamo gridato noi. Ma attenzione, non vanno sostituite con il potere per il potere, con la mancanza di senso e di un sistema di valori. Occorre alimentare e aggiornare un sistema di valori, ma anche di idee che mantenga limpida la differenza tra destra e sinistra. Solo cosi, tutta quella sofferenza, la fatica dell’innovazione, avrà avuto un significato positivo.
Perché Togliatti aprì alla monarchia
Svelato il mistero della svolta di Salerno
Il governo Badoglio chiese ai sovietici di far cambiare posizione al Pci
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 05.02.2011)
Al sardo Renato Prunas, segretario generale del ministero degli Esteri dal novembre 1943 al novembre 1946, tutti riconoscono il merito di aver rimesso in piedi la diplomazia italiana dopo la catastrofe dell’ 8 settembre. Ma ora un libro dello storico Marco Clementi sui rapporti fra Italia e Urss dal 1943 ai primi anni Cinquanta, L’alleato Stalin, getta nuova luce sul ruolo che lo stesso Prunas ebbe all’origine della «svolta di Salerno» , l’apertura verso la monarchia operata dal leader comunista Palmiro Togliatti al suo ritorno in Italia dall’Urss, nel marzo del 1944. Quella mossa colse di sorpresa le altre forze antifasciste, che fino ad allora avevano rifiutato di collaborare con il governo guidato dal maresciallo Pietro Badoglio e avevano reclamato l’uscita di scena del re Vittorio Emanuele III. In seguito all’iniziativa del Pci, nell’aprile 1944 si formò un nuovo governo, sempre guidato da Badoglio, in cui entrarono tutti i partiti del Cln, senza che vi fosse l’abdicazione formale del sovrano. La scelta di Togliatti venne a lungo presentata dalla storiografia marxista come il primo passo della «via italiana al socialismo» perseguita dal Pci, che lo avrebbe caratterizzato sempre più come un partito d’indirizzo nazionale e democratico, tendenzialmente autonomo dai sovietici. Una versione dei fatti che perse credibilità quando fu possibile accedere agli archivi di Mosca, perché emerse che in precedenza Togliatti si era pronunciato per una posizione d’intransigenza verso Badoglio, che venne poi scartata in seguito a un incontro che il leader del Pci, poco prima di partire per l’Italia, ebbe al Cremlino con Stalin. Era dunque al dittatore sovietico che andava attribuita, scrissero Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky nel libro Togliatti e Stalin (Il Mulino), la responsabilità decisiva della svolta.
Ora però il saggio di Clementi evidenzia un altro elemento importante. A suggerire e sollecitare il cambio di rotta del Pci era stato alcune settimane prima proprio Prunas, nel corso di un colloquio del 12 gennaio 1944 con l’inviato di Stalin Andrej Vishinskij, il famigerato inquisitore dei processi di Mosca. In quell’incontro non solo vennero poste le basi per il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’Urss, avvenuto il 13 marzo, ma Prunas sottolineò l’esigenza di «un mutamento nell’atteggiamento del Partito comunista italiano, oggi violentemente antigovernativo» .
Se il Pci avesse abbandonato quella posizione «sterile» , disse, ciò avrebbe influenzato anche gli altri movimenti antifascisti. E si sarebbe probabilmente arrivati alla costituzione di un «largo governo democratico» . Le parole di Prunas, nota Clementi, prospettano «esattamente i passaggi politici che sarebbero culminati nella svolta di Salerno» . E non meno significativa appare la disponibilità mostrata da Vishinskij, il quale gli rispose che a Mosca vi erano «alcuni comunisti italiani intelligenti e competenti» . Se a questo si aggiunge che, come risulta dal registro delle persone ricevute da Stalin al Cremlino, Vishinskij era presente, con il ministro degli Esteri Vjaceslav Molotov, all’incontro che Togliatti ebbe con il despota sovietico, nella notte tra il 3 e il 4 marzo 1944, prima di partire per l’Italia, sembra di poter concludere che alla svolta di Salerno Prunas diede un grosso contributo.
Clementi non ha dubbi: scrive che in tutta la vicenda il ruolo del Pci «appare secondario non solo rispetto a quello di Mosca, ma anche rispetto a quello del governo italiano, che fu il vero ispiratore della nuova politica» . Ci fu insomma, secondo l’autore, una convergenza d’interessi tra l’esecutivo guidato da Badoglio e rappresentato da Prunas, che voleva consolidarsi sia all’interno sia sul terreno delle relazioni internazionali, e il Cremlino, che vedeva di buon occhio un rafforzamento politico del regno del Sud, per non lasciare l’Italia liberata totalmente alla mercé degli angloamericani. Quanto a Togliatti, in sostanza «funse da garante per la politica sovietica in Italia» .
Un dato sorprendente è che il resoconto del colloquio tra Prunas e Vishinskij non è affatto inedito. Uscì nel 1974 in una pubblicazione della Farnesina e venne poi riprodotto nella raccolta ufficiale dei documenti diplomatici italiani. Eppure nessuno studioso ha mai prestato particolare attenzione al passaggio in cui Prunas auspicava quella che sarebbe stata la svolta di Salerno. Come mai?
Interpellato dal «Corriere» , Clementi risponde così: «Dopo l’apertura degli archivi di Mosca, che schiudeva un mondo fino allora impenetrabile, l’interesse degli storici si è concentrato sui documenti sovietici e sul rapporto tra l’Urss e il Pci, mentre le carte italiane e le relazioni tra gli Stati sono rimaste un po’ in ombra. Al contrario gli specialisti di storia diplomatica, seguendo una linea di ragionamento internazionalistica, hanno trascurato il legame tra quel contesto e le scelte di Togliatti. D’altronde ricordo una lezione di Paolo Spriano, autore di una famosa storia del Pci, in cui spiegava a noi studenti che nulla è più inedito dei documenti già pubblicati, perché allo studioso può sempre sfuggire qualcosa» .
Il libro di Clementi non si esaurisce nel riesame della svolta di Salerno, ma tratta molte altre questioni, dalla sorte dei prigionieri italiani in Russia al nodo di Trieste, con un approccio piuttosto comprensivo verso l’Urss, anche sul patto Molotov-Ribbentrop. Ma non manca di sottolineare la mentalità censoria dei sovietici, che non solo chiesero ripetutamente al governo italiano di far sparire dalle librerie i volumi a loro sgraditi, ma imposero al vicesegretario del Pci, Luigi Longo, di rimaneggiare pesantemente l’edizione russa del suo libro sulla Resistenza, Un popolo alla macchia: dopo lo scoppio della guerra fredda, quel testo appariva troppo generoso verso gli angloamericani e gli antifascisti non comunisti.
© Il libro: Marco Clementi, «L’alleato Stalin. L’ombra sovietica sull’Italia di Togliatti e De Gasperi» (Rizzoli, pp. 395, € 20), in uscita mercoledì 9 febbraio.
IL CASO.
Dall’11 febbraio al 15 luglio 1944 fu sede del governo provvisorio Ora la città, nell’ambito dei 150 anni, chiede il giusto riconoscimento
Salerno, la capitale dimenticata
di ANGELO PICARIELLO (Avvenire, 01.02.2011)
Salerno capitale dimenticata.
Salerno culla della Costituzione e della Repubblica, chiede un posto nelle celebrazioni dei 150 anni. L’11 febbraio 1944 infatti, e fino al 15 luglio, la sede del governo vi si trasferì da Brindisi e l’esecutivo rientrò nel pieno dei poteri: i sottosegretari di cui si componeva la piccola compagine brindisina vennero nominati ministri e i territori già liberati (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna, e c’era persino Campione d’Italia) vennero affidati dagli Alleati all’amministrazione italiana. A Salerno venne anche ripristinata la Corte di Cassazione e stampata la Gazzetta ufficiale, nella tipografia ’Spadafora’, e poi alla ’Volpe’.
Ed è proprio sull’edizione datata ’Salerno, sabato 8 luglio 1944’ che, dal decreto luogotenenziale 151 (’Assemblea per la nuova costituzione dello Stato, giuramento dei membri del governo e facoltà del governo di emanare norme giuridiche’) si possono rintracciare le basi della Costituzione repubblicana, stabilendosi che «dopo la liberazione le forme istituzionali saranno scelte con un referendum dal popolo italiano che eleggerà, anche, a suffragio universale, diretto e segreto un’Assemblea Costituente per deliberare la nuova Costituzione dello Stato». Il decreto, a firma di Umberto di Savoia, principe di Piemonte, luogotenente generale del Regno, era stato adottato il 25 giugno dal nuovo esecutivo guidato da Ivanoe Bonomi, che aveva preso il posto, tre giorni prima, del generale Pietro Badoglio.
Salerno dunque, al pari di Roma, Firenze e Torino, avrebbe meritato la consegna del Tricolore nella cerimonia inaugurale dello scorso 7 gennaio a Reggio Emilia. Capitale vera e propria, ne è convinto il professor Nicola Oddati, curatore della mostra ’Salerno Capitale, la città della Costituzione’, visitata anche dal capo dello Stato l’autunno scorso. «L’ho spiegato al presidente Napolitano», dice Oddati, docente di Storia contemporanea a Salerno. Si registrò un’evoluzione politico istituzionale, completata propria da questo decreto: «Esso sospendeva lo Statuto Albertino, nominava il luogotenente del Re e varava la Costituzione provvisoria, cosicché gli atti del governo assumeranno da allora in poi, in attesa dell’elezione del nuovo Parlamento, pieno valore di legge, non più di mera decretazione d’urgenza. Cessa, così, il governo provvisorio sotto tutela anglo americana retto da Badoglio. Non a caso gli Alleati sono preoccupati, e contrastano la nascita dell’esecutivo Bonomi». Salerno era stata già snodo cruciale della storia della Liberazione.
Martoriata da quattro giorni di bombardamenti lungo tutto il litorale, che comportarono un altissimo tributo: «400 morti, migliaia di feriti, oltre 100 ponti danneggiati, un quinto dei fabbricati industriali perduto’, come ricordò Gabriele De Rosa in un convegno, del 1994, proprio su ’Salerno capitale’. Con lo sbarco di Salerno partì l’operazione Avalanche ( Valanga), che vide impegnati, dal 9 settembre, dopo la divulgazione dell’armistizio, 170mila soldati alleati e un migliaio di navi. Il colonnello americano Thomas Aloysius Lane, nominato governatore della città, si recò a rendere omaggio a monsignor Monterisi, unica autorità ancora presente in città.
L’Arcivescovo gli raccomandò: «Siete il rappresentante di nazioni civili presso una nazione civile. Date ordini precisi perché siano rispettate le donne, le proprietà private e gli edifici del culto». Poi sarà lo stesso arcivescovo a opporsi con forza al tentativo di Badoglio di requisire il seminario, in vista del trasferimento da Brindisi della sede del governo, che avverrà nel febbraio 1944.
Nella nuova compagine governativa, che si riunirà presso il Palazzo dei Marmi (attuale sede del Comune) entrano anche due salernitani, in due dicasteri chiave: Raffaele Guariglia agli Esteri e Giovanni Cuomo all’Educazione Nazionale. Con quest’ultimo viene istituito il Magistero, con sede a Palazzo Pinto, in via Mercanti, timida riappropriazione della dignità accademica perduta, dopo i fasti della scuola medica salernitana, soppressa in epoca napoleonica. Con il ’patto di Salerno’ dell’aprile 1944, tra il Comitato di Liberazione Nazionale e Casa Savoia, si decide tra l’altro di sospendere la scelta tra Monarchia e Repubblica fino alla fine della guerra. Palmiro Togliatti ne è fra i fautori, con la cosiddetta ’svolta di Salerno’ (quanti eventi legati al nome della città), che segna la sospensione, anche da parte della componente comunista, della disputa sulla forma di Stato. Anche il re Vittorio Emanuele III alloggiò a Villa Guariglia, casa gentilizia a Raito appartenente alla famiglia del ministro degli Esteri.
«E fu proprio in quella villa che si posero le basi per la nostra grande Costituzione, - spiega Oddati -, lì poterono approfondire la conoscenza, anche umana, personaggi come Croce, De Gasperi, Saragat, Togliatti, Gronchi, Sforza. In cucina le protagoniste furono più di tutte Maria Romana De Gasperi, figlia dello statista (che ha raccontato proprio in questi giorni come si desse da fare anche da segretaria e dattilografa) e Maria, la mamma di Enrico Berlinguer. Fra l’altro, proprio a Salerno Mario Berlinguer (che era responsabile dell’epurazione) presentò a Togliatti suo figlio Enrico, che ne rimase molto colpito e l’incaricò di rifondare il movimento giovanile comunista. Basta tutto ciò per dare a Salerno la dignità di excapitale? ». Reggio Emilia, se dovesse reperire un esemplare in più dello storico Tricolore, sa ora a chi destinarlo.
RISCHIESTA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI UN INTERVENTO-MESSAGGIO DI CHIARIFICAZIONE E PACIFICAZIONE AL PARLAMENTO E AL PAESE
150 anni dell’Unità d’Italia: il 17 marzo
festa nazionale, ma solo per quest’anno *
ROMA - Il 17 marzo, festa del tricolore per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, sarà festa nazionale. Lo ha annunciato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta: «Penso che non si andrà a scuola né al lavoro. Ma sarà festa nazionale solo per il 2011, l’anno della ricorrenza», ha precisato.
Letta ha poi spiegato alcuni dettagli: «Il 2 giugno prossimo saranno invitati 26 capi stato europei, più quelli degli Stati Uniti e Russia, a cui si aggiungeranno quelli dei paesi in cui ci sono le comunità italiane più numerose, più radicate e più legate all’Italia. I capi di stato parteciperanno alla parata del 2 giugno caratterizzata sui 150 anni, poi, dopo la colazione al Quirinale, in Campidoglio daranno un saluto all’Italia».
Ancora il 17 marzo il presidente Napolitano si recherà non solo all’Altare della patria, ma anche al Pantheon, dove è sepolto re Vittorio Emanuele II che fu il primo Capo di Stato italiano. Ma, prevenendo ogni ulteriore quesito o polemica, Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni, ha precisato: «Questo non significa che altri successori potranno essere più o meno traslati nella stessa sede. L’Italia - ha sottolineato - fu fatta da Mazzini, Cavour, Garibaldi e da Vittorio Emanuele».
* Il Messaggero, Giovedì 20 Gennaio 2011 - 14:44 Ultimo aggiornamento: Venerdì 21 Gennaio - 14:54
No, non fu Lenin il nostro pane
Ma l’egemonia sì
L’idea originale dei comunisti italiani fu soprattutto quella di farsi classe dirigente prim’ancora di andare al potere Ma il peso del legame con l’Urss resta sulla nostra generazione
di Alfredo Reichlin (l’Unità, 21.01.2011)
È il 150esimo anniversario dell’Italia unita. E tutto spinge a ripensare i caratteri del moto risorgimentale, il ruolo che in esso ebbero le classi dirigenti, gli intellettuali, le masse popolari. E poi, quanto il fascismo usò e distorse il mito risorgimentale e quanto le forze che guidarono la Liberazione e la Ricostruzione della democrazia italiana non solo si rifecero ai valori risorgimentali ma incisero sul vecchio blocco storico che si era costituito al tempo dall’unità d’Italia, sia fondando la Repubblica e sia dando alle forze popolari un ruolo e un posto che esse nella storia d’Italia non avevano avuto mai.
È in questo quadro che questa Mostra si colloca. Sappiamo benissimo che il PCI è storia conclusa e la sua vicenda è del tutto irripetibile. Ma se questo è vero è altrettanto vero che essendo per tanti aspetti questa vicenda non separabile da quella nazionale essa pesa nel bene così come nel male anche sul modo di essere dell’Italia di oggi. E sono molte le cose di oggi che, a loro modo, spingono a tornare sul grande interrogativo su cosa in realtà sia stato quella strana «giraffa»: il PCI. Era questa la singolare immagine che Togliatti usava spesso per definire il suo Partito. E non era affatto il mascherare o rinnegare l’appartenenza al movimento comunista internazionale né rinunciare a rivendicare la propria origine nella rivoluzione russa. Del resto, nessuno come lui difese quel famoso «legame di ferro» con la Russia staliniana.
Ciò che egli voleva dire era un’altra cosa: che venivamo da lontano, e in primo luogo da quelli che egli definì i nostri padri, i pionieri del socialismo. Quegli uomini straordinari che all’inizio del secolo XX dettero alle plebi contadine della Valle Padana una formazione politica tale per cui la politica era tutt’uno con una fede e un ideale di riscatto umano. Ma era, al tempo stesso una lotta per il progresso civile sorretti da una visione del mondo e una cultura che andavano ben oltre gli orizzonti della buona amministrazione. Era, quel socialismo italiano la formazione di una nuova umanità. E il suo segno rimane. Ecco un grande tema che mi limito solo a sfiorare ma che nella Mostra è molto presente: è il carattere originale, di massa di questo partito. Partito di governo perché partito di popolo. Ma proprio qui sta il lato tragico della singolare vicenda del PCI. Il partito il quale si pose il compito di conciliare per la prima volta la classe con la nazione e di insegnare alle masse povere intrise di sovversivismo che cos’è la democrazia e perché è interesse dei ceti sfruttati e subalterni difendere lo Stato democratico, che tuttavia è lo stesso partito che per il suo legame con l’URSS staliniano ha contribuito a rendere incompiuta la democrazia italiana. E questa responsabilità pesa sulla mia generazione. La Mostra comincia dalla Prima guerra mondiale ma si incentra sul rapporto del PCI con la Repubblica. Eppure tante cose testimoniano che la cultura politica di quel comunismo italiano veniva da molto più lontano.
Da quei problemi irrisolti che tennero gli italiani ai margini dei grandi movimenti che avevano segnato in Europa l’avvento dell’Età moderna.: la rivoluzione inglese che aveva affermato la supremazia del Parlamento. E poi i sommovimenti religiosi e sociali innestati da Lutero nel mondo contadino tedesco. E soprattutto la gloria della Rivoluzione francese, l’Illuminismo e i Diritti dell’Uomo. L’Italia, invece, per secoli restò ai margini e subì il potere temporale dei Papi. Coloro che oggi riducono il Risorgimento a una sorta di conquista regia dalla quale si possa tornare indietro dimostrano che di questa storia non hanno consapevolezza.
La forza dei comunisti italiani è stata quella di pensarsi come parte delle grandi correnti riformatrici europee. I nuovi giacobini e i nuovi italiani. E io penso che proprio da qui veniva l’idea di un partito diverso rispetto alle formazioni rivoluzionarie concepite sul modello strettamente classista, bolscevico. Il PCI non fece sua la visione del potere che veniva da Lenin. L’idea sulla cui base edificò se stesso era molto diversa: al fondo era l’idea dell’egemonia. Una classe diventa dominante se prima ancora di andare al potere diventa dirigente. E questo fu il pane che noi mangiammo insieme con tante altre sciocchezze. Fu un’ idea nostra, originale della rivoluzione italiana.
Non «fare come in Russia» ma affrontare noi le grandi questioni irrisolte che avevano bloccato il cammino del popolo italiano. Grandi questioni storiche, non riducibili alla prepotenza dei padroni: la questione contadina, la questione meridionale, la questione vaticana, cioè il problema di come combinare la pace religiosa con le libertà politiche e civile: laicità dello Stato e riconoscimento dell’apporto che una coscienza religiosa può dare alla coscienza sociale e civile.
Perché Palmiro Togliatti fu traduttore di Voltaire
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 15.11.2010)
Il primo volume della serie «I classici del pensiero libero» - il Trattato sulla tolleranza di Voltaire - è apparso con una sua prefazione. Posseggo una precedente edizione dell’opera, pubblicata da Editori Riuniti nel 1949 con la prefazione, nientemeno, di Palmiro Togliatti. Conosciamo l’abilità del «Migliore» nel vendere al suo ipnotizzato pubblico le verità apodittiche della «Via al socialismo». Credo tuttavia che meriti un commento la sua tesi secondo cui «tra il razionalismo illuministico e il marxismo la differenza è senza dubbio grande», essendo «la nostra dottrina del tutto nuova».
Gianni Celletti, Ravenna
Caro Celletti,
Togliatti non si limitò a scrivere una prefazione al Trattato. Ne fu anche il traduttore. Eravamo, come lei ricorda, nel 1949, vale a dire in una fase in cui gli scontri della guerra fredda erano particolarmente aspri. Il Pci era stato estromesso dal governo De Gasperi nel 1947. Un anno dopo, nel 1948, i comunisti si erano impadroniti del potere a Praga con un colpo di Stato. E nei mesi in cui Togliatti traduceva Voltaire, l’Italia firmava a Washington il Patto Atlantico. Ma non erano quelle le ragioni per cui il segretario del Pci decise di dedicarsi alla traduzione del più famoso libello politico di Voltaire.
Nella sua prefazione spiegò ai lettori che il Trattato sulla tolleranza era un lucido atto d’accusa contro il fanatismo religioso, l’arroganza della Chiesa, lo strapotere del clero. Può sembrare, continuava Togliatti, una battaglia del passato, ormai vinta. Ma è resa nuovamente attuale da «recenti episodi» e dal «risorgere di una baldanza clericale al servizio di una estrema resistenza e reazione capitalista».
Devo aggiungere che Togliatti aveva una parte di ragione. La Chiesa non era al servizio del capitalismo, ma sembrava decisa a governare i costumi italiani con un pugno di ferro e a servirsi della Democrazia cristiana perché l’Italia assomigliasse alla Spagna di Franco e al Portogallo di Salazar più che ai Paesi del continente con cui avrebbe tentato di lì a poco la strada dell’integrazione europea.
Dopo avere difeso Voltaire e l’utilità del trattato nella situazione italiana di allora, Togliatti dovette tuttavia sfumare il suo pensiero. I philosophes francesi erano gli eredi del razionalismo europeo e avevano il grande merito di avere spinto più in là le frontiere della ragione. Erano quindi dei precursori a cui era giusto rendere omaggio. Ma «la nostra dottrina è del tutto nuova, perché trova nella realtà stessa e nel suo sviluppo la ragione e la molla del rinnovamento del mondo». Tra l’Illuminismo e il materialismo dialettico vi era quindi un salto di qualità, un cambiamento di passo.
La «nuova storia», salutata da Goethe sul campo di battaglia di Valmy, non cominciava dalla presa della Bastiglia, ma dal grande manifesto che Marx e Engels avevano scritto nel 1848. L’esperienza razionalista restava tuttavia fondamentale. Chi la ignora, concludeva Togliatti, finisce «per mettere capo ancora una volta al passato o aprire la strada alla sua resurrezione».
Scrivendo queste parole Togliatti non si rese conto che potevano essere utilizzate per l’Unione Sovietica. Nella sua prefazione vi è a questo proposito un passaggio in cui descrive il processo intentato contro Jean Calas (il protestante di Tolosa falsamente accusato di avere ucciso un figlio), «uno di quei processi che disonorano i giudici e la giustizia, e ancora oggi e troppo di frequente offendono gli animi onesti». Capì che queste parole si adattavano perfettamente ai grandi processi staliniani degli anni Trenta?
Il Presidente Napolitano a Salerno il 14 e il 15 settembre *
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è partito in treno da Roma per Salerno. Al suo arrivo, il Capo dello Stato ha raggiunto la sede comunale dove ha visitato la mostra di fotografie e filmati su Salerno Capitale, città della Costituzione, allestita dallo storico Nicola Oddati nel Salone dei Marmi.
A seguire, al Teatro Augusteo è previsto l’incontro istituzionale con i rappresentanti delle amministrazioni comunali e gli interventi del sindaco De Luca, del Presidente della Provincia, Cirielli, e del Presidente della Regione, Caldoro.
Nel pomeriggio, il Capo dello Stato visita la galleria di arte moderna Il Catalogo per una rievocazione del poeta Alfonso Gatto; quindi è atteso a Pastena all’inaugurazione di un asilo nido e, a seguire, al Castello di Arechi.
In serata, il Capo dello Stato assiste al Teatro Verdi al concerto Zukerman Chamberplayers.
Mercoledì 15 settembre il Presidente Napolitano raggiunge Giffoni Valle Piana, ospite del Giffoni Film Festival, la rassegna cinematografica per ragazzi che celebra i 40 anni di attività.
IL DISCORSO
Napolitano: "Ricorso a popolo
non è balsamo per ogni febbre"
Il presidente della Repubblica a Salerno: "Basta con la penosa disputa contabile fra Nord e Sud". "Contro di me polemiche allusive e non sempre garbate".
SALERNO - "Il ricorso al popolo non è il balsamo per ogni febbre". Parlando a Salerno in un incontro con gli amministratori locali il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano elogia Silvio Berlusconi e la sua decisione di continuare a governare. "La stabilità politica è un valore", chiosa il capo dello Stato che però coglie l’occasione per togliersi qualche sassolino.
Napolitano non ha dimenticato gli attacchi di agosto da parte di esponenti della maggioranza e lo dice. "Contro di me polemiche allusive e non sempre garbate". Poi avverte governo e maggioranza: "Un Paese democratico vive secondo le regole". Quanto al federalismo il presidente è chiaro: fermare quella che chiama "la penosa disputa contabile fra Nord e Sud", ha chiesto di tenere conto di tutti i dati disponibili "che danno un quadro di flussi tra regioni del Nord e del Sud ben più ampio di quelli dei soli trasferimenti pubblici e assai più favorevole al Centro-Nord". "Sul federalismo - ha continuato - bisogna smetterla di giocare con le parole. Si deve attuare il titolo quinto ma quando si parla di federalismo solidale, cooperativo, ogni volta che il parlamento deve varare i provvedimenti, il senso di queste parole deve essere mantenuto".
"Apprezzamento per impegno Berlusconi". "Il fatto che negli ultimi giorni ci sia una crescente fiducia sulla prosecuzione dell’attività governativa e parlamentare è un’evoluzione auspicabile e costruttiva", ha sottolineato Napolitano. Il presidente della Repubblica ha espresso pertanto "apprezzamento per le recenti dichiarazioni fatte da Silvio Berlusconi di voler andare fino alla prosecuzione della legislatura e per il rilancio dell’attività di governo".
"Polemica non garbata nei miei confronti". Però Napolitano ha rimproverato alla maggioranza il fatto che quest’estate si siano "succeduti per settimane, ogni giorno", interventi riconducibili a una "polemica allusiva e non sempre garbata nei miei confronti". "Mi si è così premurosamente spiegato - ha accusato il presidente - come il ricorso al popolo, ovvero alle urne, sia il sale della democrazia e il balsamo per tutte le sue febbri. Si è mostrato stupore per il fatto che il presidente della Repubblica non apparisse pronto, con la penna in mano, a firmare un decreto di scioglimento delle Camere. Il particolare che così veniva trascurato - ha proseguito - è che la vità di un paese democratico e delle sue istituzioni elettive, nelle quali si esprime la volontà popolare, deve essere ordinata secondo regole per potersi svolgere in modo fecondo, per produrre i risultati attesi".
"Sì al federalismo, ma senza giocare". Bisogna attuare il federalismo, andare avanti, "ma non bisogna giocare con le parole", ha detto ancora il presidente della Repubblica a Salerno. "Si tratta di stabilire come intendere il federalismo, non si tratta di tornare indietro o mettere i bastoni fra le ruote. Si deve attuare il titolo quinto ma - ha aggiunto - quando si parla di federalismo solidale, cooperativo, ogni volta che il parlamento deve varare i provvedimenti, il senso di queste parole deve essere mantenuto".
"Bloccare penose dispute contabili". Attuare il federalismo, tra l’altro, ha ricordato Napolitano, è anche un modo di porre fine "a penose dispute contabili e recriminazioni sul dare e l’avere tra Nord e Sud". Il Capo dello Stato ha chiesto di tenere conto di tutti i dati disponibili "che danno un quadro di flussi tra regioni del Nord e del Sud ben più ampio di quelli dei soli trasferimenti pubblici e assai più favorevole al Centro-Nord". E, sempre in riferimento al Mezzogiorno, Napolitano ha sottolineato come "nel Mezzogiorno ci sono troppi giovani che hanno concluso il loro ciclo formativo e si trovano senza lavoro e senza prospettive. E’ nostro dovere storico dare loro risposte. Questa è la questione numero uno del nostro Paese".
* la Repubblica, 14 settembre 2010
LA VISITA
Napolitano ai ragazzi di Giffoni
"Per la scuola servono risorse e qualità"
Il presidente della Repubblica incontra il giovane pubblico del festival del cinema per bambini e ragazzi. "Serve rilancio culturale e morale della politica" *
GIFFONI VALLE PIANA (Salerno) - Un entusiasmo caloroso e contagioso sventolando bandierine tricolore al grido di "Presidente, presidente" ha dato il benvenuto al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che questa mattina ha incontrato il giovane pubblico del Giffoni Film Festival, la rassegna che da 40 anni si dedica al cinema per bambini e ragazzi. "Come state crescendo bene" ha detto Napolitano rispondendo alle articolate domande dei giovani, "anche grazie al Giffoni Film Festival che non devo continuare a lodare".
"Servono più risorse per la scuola ma anche più qualità in termini di attività formative e impegno a produrre buoni risultati, e questo dipende dagli insegnanti da un lato e dagli studenti dall’altro" ha detto il Capo dello Stato rispondendo alla domanda di una giovane studentessa a proposito dei tagli alla scuola e alla cultura. "Bisogna investire di più nella cultura. L’ho detto più volte, non posso prescrivere al governo come e quanto deve investire" ha aggiunto. "La Costituzione fa riferimento ai capaci e meritevoli - ha ricordato - indica una strada per incoraggiare il merito, bisogna andare avanti in questa direzione".
In un momento di crisi economica "occorre fare scelte, non si può tagliare in modo indifferenziato" ha detto Napolitano, citando l’esempio della Germania che ha previsto "tagli anche alla spesa sociale, ma allo stesso momento ha annunciato un aumento della spesa per ricerca e formazione: si devono stabilire delle priorità e fare delle scelte. Questo è possibile anche in Italia". Il presidente della Repubblica ha anche sottolineato che "andare all’estero per studiare è cosa molto importante, positiva ed essenziale per la crescita della comunità: sono brevi fughe d’amore, poi si rientra. Per ragioni pratiche si va via e non credo perchè questi giovani talenti non stiano bene in Italia".
"Da qualunque parte politica si provenga e da qualunque parte si sia eletti bisogna sentire di essere il presidente di tutti gli italiani: questo è lo sforzo che continuerò a fare fino all’ultimo giorno del mio mandato" ha dichiarato Napolitano rispondendo a una domanda su come si conciliano le convinzioni personali e di partito con il ruolo di garante imparziale. "Io ho il dovere di essere fuori dalla mischia perché chi ha scritto la Costituzione ha voluto che fosse così per il presidente della Repubblica. Non c’è nessun trucco" ha risposto Napolitano spiegando che dopo cinquant’anni di "politica schierata" gli è capitato, inaspettatamente, di fare quest’altra cosa, come già nel 1992, il presidente della Camera. "Già allora mi era chiaro che dovevo essere imparziale, dovevo far rispettare le stesse regole a tutti, a maggioranza e opposizione. Lo stesso al Quirinale. Il potere del presidente della Repubblica è stato definito ’un potere neutro’ già nell’800".
Quanto poi alla sua appartenenza politica, Napolitano ha ricordato che la sua scelta fu fatta "65 anni fa, poi è chiaro che con l’età si è più maturi e ci si spoglia anche di passioni di parte che sono una cosa importantissima, ma un conto è la gara che è un elemento vitale e un altro la contrapposizione cieca. Gli ideali rimangono, ma possono essere rivisti. Le esperienze contano, conta vedere come si sono realizzati con la politica. Sposare il programma di un partito politico è un’altra cosa". La politica, ha detto, "è anche gara, competizione, non dovrebbe mai essere contrapposizione totale. Tutti i presidenti della Repubblica hanno avuto un passato politico in cui erano schierati. Ma c’è un tempo in cui gareggiare e un altro tempo in cui essere garanti".
Napolitano ha più volte fatto riferimento al dopoguerra e allo spirito che ha illuminato i giovani che come lui hanno scelto la politica in quel preciso momento storico. "Quando ho iniziato a fare politica io il Paese era distrutto - ha raccontato il presidente della Repubblica - si era molto motivati a partecipare. Bisogna costruire qualcosa di simile al clima di grande slancio che c’era nel 1945, dopo la guerra, recuperando qualcosa che non può essere perso che è la nobiltà e la moralità della funzione politica".
"Bisogna ricostruire un clima di rilancio culturale e morale della politica - ha ribadito il presidente - la politica è ricerca delle soluzioni, ma ci deve anche essere spessore culturale e moralità". Sulla possibilità, poi, di trovare un’intesa anche fra schieramenti diversi, il Capo dello Stato ha aggiunto che "Quando si coopera tra persone diverse, con storie diverse, l’essenziale è capire quali sono i problemi e trovare gli interessi comuni. Si tratta di scegliere gli obiettivi da raggiungere e raggiungerli insieme". Per il Capo dello Stato "non si tratta di fare un miracolo, è tutto realizzabile basta spogliarsi dello spirito di partigianeria e talvolta anche di qualche egoismo e meschinità".
* la Repubblica, 15 settembre 2010
Liberazione libertà e l’Italia di oggi
di Tobia Zevi (l’Unità, 29 aprile 2010)
Festa della «Libertà» e festa della «riunificazione». Con questi due termini il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica hanno rispettivamente definito il 25 aprile appena trascorso, introducendo un punto di vista innovativo nelle celebrazioni. Ciò potrebbe di per sé essere considerato positivo: il rischio di queste manifestazioni, infatti, è soprattutto quello di trasformarle in rituali ripetitivi, stanchi, poco sentiti dalle persone. Le due parole introducono concetti diversi, che meritano una riflessione.
Perché «libertà» e non «liberazione»? Come è già stato notato da alcuni osservatori l’idea della liberazione implica una transizione, un movimento, una contraddizione. Ci si libera da qualcuno. Esattamente ciò che è avvenuto in Italia tra 1943 e 1945: una guerra civile, una lotta per il riscatto nazionale, molto sangue versato anche da chi aveva ragione, cioè i partigiani liberatori d’Italia insieme agli Alleati. Perdere questa dimensione storica, temporale, sofferta della nostra uscita dal nazi-fascismo significa rinunciare a comprendere davvero il senso di ciò che accadde, sia per esaltarne le pagine eroiche sia per ricordare gli errori che furono commessi.
Quanto all’idea della riunificazione, mi pare che oggi sia questa la chiave che restituisce il senso profondo della giornata. «Riunificare l’Italia» non vuol dire solamente accorciare la distanza scandalosa tra Nord e Sud, né soltanto individuare una «memoria condivisa» quando si discute della storia italiana. «Riunificare l’Italia», oggi, significa ricomporre i pezzi di un puzzle che rischia una disgregazione irrimediabile. Come? Integrando in maniera seria, lungimirante e umana donne e uomini che ogni giorno arrivano nel nostro paesi spinti dalla povertà o dalla guerra.
Provando a garantire a tutti i medesimi diritti e le stesse tutele, riducendo le moltissime ingiustizie cui si assiste quotidianamente.
Evitando che lungo tutta la penisola proliferino localismi ed egoismi di ogni genere, tanto che tutti sono d’accordo nel costruire parcheggi, ferrovie e centrali elettriche, purché non lo si faccia nella propria provincia. Ricucendo il solco che si è creato tra le persone comuni, le istituzioni e la politica, che rende il nostro paese ostaggio di una sfiducia endemica. In quest’ottica l’idea della riunificazione può davvero essere una chiave moderna e attuale per celebrare la Liberazione.
Perché occorre continuare a ricordare e a studiare un momento fondamentale della nostra storia, ma farlo impegnandosi a migliorare l’aspetto dell’Italia di oggi. Per impedire ai soliti quattro scalmanati col fischietto di essere, loro, i protagonisti di una festa di tutti.
«Perché tanti giovani stanno con i Partigiani? Per fare vera politica»
Parla Chiara Gribaudo educatrice ventottenne di Borgo San Dalmazzo: «Con la Resistenza e la Costituzione si può ancora immaginare l’altra Italia»
Rifondare l’antifascismo «La nostra Carta è chiara: lì c’è il federalismo vero basato sulle autonomie comunali e c’è il ripudio della xenofobia attuale»
di Toni Jop (l’Unità, 24.04.2010)
Sanno che non si può dare niente per scontato, che c’è bisogno della loro energia, che la vitalità è contagiosa come il credere insieme ai valori dell’antifascismo e della democrazia. Sono i giovani che «stanno» con i Partigiani, ragazze e ragazzi che hanno raccolto il testimone mai come ora preziosissimo per motivi anagrafici e per problemi politici dagli italiani che possono raccontare quello che hanno visto e vissuto durante il fascismo, la guerra e la lotta partigiana. Sanno che sono liberi di pensare e di muoversi perché prima di loro si è mobilitata una moltitudine a combattere per questo. È soprattutto loro questo 25 aprile. Perché contrastano l’arroganza (e il fascismo non più «velato») di chi vorrebbe cancellare la Festa della Liberazione con il silenzio, con l’imperio o con la forza del mercato. Rispondono allestendo stupefacenti iniziative solari e coinvolgenti, e persino commoventi. Come quella della Liberi Nantes, che farà tornare in vita il campo di calcio «XXV Aprile», fino a ieri abbandonato e lasciato alle intemperie. Chi sta coi Partigiani sa che la democrazia e l’antifascismo hanno bisogno di cure.
Parlano di secessione ma a Roma ci stanno comodi, parlano di territorio e democrazia, ma per loro la soluzione è un nuovo statalismo centralista appeso a un leader che impone atti di fede e osservanza assoluta. Mistificano tutto, dalla storia al vocabolario. Sto nell’Anpi anche per trovare una casa che ospiti i valori su cui voglio fondare la mia esistenza». Chiara Gribaudo ha 28 anni, è nata, vive e lavora come educatrice precaria a Borgo San Dalmazzo, una decina di chilometri da Cuneo. Terra, a proposito, di buon vino e di partigiani.
Chiara, che senso ha iscriversi all’Anpi alla tua età?
«Tu chiamale, se vuoi, tradizioni. Ecco, vengo da una realtà che si è conquistata una medaglia d’oro per ciò che ha fatto per salvare dallo sterminio molti ebrei. A Borgo c’era un campo si smistamento. Sono figli di questa terra Duccio Galimberti, Nuto Revelli, Giacosa, Mauri, Barbato».
Mai militato nelle file di un partito di sinistra?
«Sì, ci ho provato. Sinistra giovanile, Ds, poi Pd. Ho fatto anche le primarie, ma mi sono sganciata. Mi ha respinto una fredda burocrazia, cercavo un caldo dibattito, ma non voglio sparare sulla sinistra, ha già abbastanza problemi per suo conto...»
Così, ti sei rifugiata nell’Anpi, delusa...
«Abbastanza. Nell’Associazione ho trovato quello che cercavo: lì sono custoditi tutti i valori in cui mi riconosco, dall’antifascismo alla Costituzione. È la Costituzione la cerniera che tiene assieme il nostro passato e il nostro presente. Attuare pienamente la Costituzione è già un grandioso programma politico, nella Carta ci sono tutte le risposte di cui la gente oggi ha bisogno. Non è un Vangelo, ma se si tocca lo si deve fare con immensa attenzione e sulla base di una coralità leale».
Questo vale anche per l’unità d’Italia?
«È stata la lotta partigiana che ha attualizzato il senso dell’unità del Paese. I partigiani combattevano contro fascisti, nazisti e invasori, sono morti per difendere l’integrità fisica e morale di un intero paese, né per il Nord, né per il Sud».
Cosa ti dice la parola «federalismo»?
«Penso faccia parte del mio bagaglio culturale se sta a indicare uno smistamento dei poteri verso il basso, in direzione di istituzioni molto rappresentative, come i comuni. Ma non credo che la Lega operi in questa direzione, le interessa rifondare il potere statuale su basi etniche, decisamente orribile e orribile la mistificazione cui fanno ricorso. Ma attenzione: non criminalizziamo tutti quelli che votano Lega. Non si identificano con Borghezio e nemmeno con la secessione. Il federalismo fiscale può essere utile se non è una mannaia contro i più deboli. L’Italia, ripeto, deve essere una comunità solidale stretta attorno alla Costituzione».
Speriamo. Ma oggi dobbiamo ben registrare una sorta di territorializzazione delle zolle politiche: a Nord la Lega, al centro il centrosinistra, a Sud...In mezzo c’è il presidente della Repubblica, delicato ago della bilancia...
«Sì, un ago che, lo ammetto, potrebbe fare qualcosa di più in questa direzione. Intanto, converrebbe rifondare l’antifascismo; diciamo che l’antifascismo è il pilastro su cui riorganizzare moralmente il paese, togliendo terreno ai riscrittori della storia, come Pansa e soci. Siamo stati troppo tolleranti nei confronti di chi, come il premier, ha inteso sottrarsi a un principio politico comune a tutti i paesi occidentali. Bisogna inserire nella scuola lo studio di pagine non lontane della nostra vicenda collettiva. Sai come mi sono avvicinata all’Anpi? Ascoltando, alle superiori, i racconti di ex partigiani...». Scommetti su una identità italiana? «Sì, a patto che accetti di essere un’identità sempre in costruzione, multipla, fondata anche sulla relazione con gli ultimi arrivati».
25 APRILE
Salerno, Cirielli "cancella" la Resistenza
"Liberi solo grazie agli americani"
Il presidente della Provincia fa affiggere manifesti celebrativi ma senza citare la lotta di liberazione. "Fra i partigiani c’era anche chi, su commissione della Russia, voleva instaurare la dittatura comunista. L’Italia si è salvata grazie al sacrificio di migliaia di giovani Usa" *
SALERNO - Alla vigilia del 25 aprile scoppia il "caso Salerno". Il presidente della Provincia Edmondo Cirielli, l’ex deputato di An oggi Pdl e presidente della commissione Difesa della Camera, "cancella" dal manifesto celebrativo la Resistenza e la lotta di liberazione dall’occupazione nazifascista. A Salerno campeggiano i manifesti della Provincia ma su di essi non c’è nessun riferimento - come fanno notare esponenti locali del centrosinistra - alla Resistenza partigiana e alla lotta al nazifascismo, bensì un elogio all’esercito americano "per l’intervento nella nostra terra che ha sancito un’alleanza che ha garantito un luogo periodo di pace e di progresso economico e sociale senza precedenti e che ha salvato l’Italia, come l’Europa, dalla dittatura comunista". Il centrosinistra salernitano parla di "provocazione da guascone" di Cirielli: "Non si può rinnegare la storia" e "piegarla alle contingenti convenienze della politica".
"Polemiche costruite ad arte", si difende il diretto interessato. Che si difende dalle accuse di revisionismo: "La presa di distanza dalle conseguenze nefaste, per la democrazia, dell’esperienza fascista - spiega - è inequivocabilmente scritta nel testo: ’la festa del 25 aprile celebra la riconquista della libertà del popolo italiano e la difesa dei valori fondanti per la dignità dell’uomo e per la convivenza civile e democratica della nostra comunità nazionale. Il riconoscimento dell’impegno, del ruolo svolto dagli italiani che hanno sacrificato la loro vita a fianco degli alleati per la conquista della libertà è ugualmente presente in maniera centrale come fondativo della nostra nuova Italia".
Cirielli punta il dito contro "una certa cultura antidemocratica per anni a servizio, a volte anche a pagamento, della Russia comunista", cultura che, a suo giudizio, vorrebbe "negare alle giovani generazioni la possibilità di conoscere una serie di verità storiche", come ad esempio quella che "senza l’intervento e il consequenziale sacrificio di centinaia di migliaia di giovani americani, l’Italia non sarebbe stata liberata e la coalizione non avrebbe sconfitto la germania nazista", che "la Resistenza era un movimento composito che intruppava anche persone che non combattevano per la libertà e per la democrazia, ma per instaurare una dittatura comunista in italia". Infine, che "se ci avesse liberato l’Armata Rossa, anziché gli americani, per 50 anni non saremmo stati un paese libero".
* la Repubblica, 23.04.2010
Così Gramsci disobbedì a Marx
Contro le sue indicazioni, applicò il «cesarismo» a Napoleone III, Mussolini e forse anche Stalin
di Luciano Canfora *
È un bel regalo per i filologi l’edizione anastatica dei 29 Quaderni del carcere (e tre di traduzioni) di Antonio Gramsci. L’iniziativa è realizzata congiuntamente da «L’Unione Sarda», quotidiano che quest’anno compie 120 anni, e dall’Istituto della Enciclopedia Italiana, che ha già dato avvio - coi Quaderni di traduzioni - alla finalmente critica «edizione nazionale» dell’intera opera gramsciana. L’ideale sarebbe stata l’edizione fac-simile dei Quaderni , che invece sono raggruppati, nell’edizione anastatica, in diciotto tomi, il quattordicesimo dei quali rispecchia - opportunamente - il formato grande (da registro) dei Quaderni 10, 12, 13 e 18. L’edizione fac-simile avrebbe permesso di poter studiare anche quei dettagli paleografici (colore dell’inchiostro, struttura fisica del manoscritto etc.) che sono fondamentali per qualunque analisi filologica seria.
Il cammino percorso, da quando Togliatti al San Carlo di Napoli (29 aprile 1944) annunciò l’esistenza dei Quaderni , è stato lungo e accidentato. In principio ci fu l’edizione cosiddetta «tematica », pilotata da Togliatti (e Giulio Einaudi) politicamente fondamentale ma filologicamente pazzesca. Poi, dopo un quarto di secolo (1975), la cosiddetta «edizione critica» di Valentino Gerratana, che per lo meno restituiva l’integrità del testo ma non comprendeva né metteva a frutto il dato primario del modo di scrivere, e quindi di comporre, cui Gramsci era costretto dalla situazione pratica in cui si trovò. Poi vennero gli studi di Gianni Francioni: L’officina gramsciana (Bibliopolis) è del 1984. Francioni mise al centro della ricerca sui Quaderni il dato fondamentale: «Il problema cruciale dei Quaderni del carcere - come egli scrive - è quello della loro cronologia». (La cosiddetta «edizione critica» suggeriva, a torto, l’idea che la successione numerica dei Quaderni da 1 a 29 fosse anche cronologica. Invece quella numerazione non è d’autore ed è almeno in parte casuale).
Francioni, guardando direttamente gli autografi, mise alla base della ricostruzione la dinamica compositiva di Gramsci, determinata dalla regola carceraria di non poter disporre in cella di più di due quaderni contemporaneamente. Egli «incominciava » il medesimo quaderno in più punti diversi; e inoltre stabiliva raccordi tra di essi. E, soprattutto, aveva creato un gruppo a parte di Quaderni «speciali» in cui far confluire la rielaborazione più matura di parti - anche ampie - già scritte.
Questi Quaderni speciali sono importanti non solo perché racchiudono, sistematicamente, seconde redazioni d’autore le quali, raffrontate con le prime stesure, fanno comprendere lo sviluppo di un pensiero (e spesso si tratta di tematiche capitali), ma perché sono più vicine alla forma-libro verso cui la miriade di riflessioni avviate da Gramsci soprattutto nei «Miscellanei» doveva convogliarsi. Beninteso, anche queste per Gramsci erano stesure provvisorie, ma è evidente a noi lettori che rappresentano uno stadio avanzato.
Severamente egli avverte al principio del Quaderno 11 ( Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura ), «il maggiormente elaborato e organizzato tra tutti i monografici » (così Francioni): «Le note contenute in questo quaderno, come negli altri, sono state scritte a penna corrente, per segnare un rapido promemoria. Esse sono tutte da rivedere e controllare minutamente, perché contengono certamente inesattezze, falsi accostamenti, anacronismi. Scritte senza aver presenti i libri cui si accenna, è possibile che, dopo il controllo, debbano essere radicalmente corrette proprio perché il contrario di ciò che è scritto risulta vero». (Anche nella trascrizione di questa avvertenza si nota l’utilità dell’anastatica. L’autografo rivela infatti che è scritto «risulta» e non l’insensato «risulti», come trascrisse Gerratana.
L’autografo mostra chiaramente che Gramsci scrive normalmente la «t» come una «l» tagliata donde l’illusione che sulla piccolissima lettera finale della parola ci sia un puntino!). L’anastatica è corredata da eccellenti prefazioni paleografiche e critiche, quaderno per quaderno, redatte da Francioni. Il quale, in certo senso, ci dà oggi - grazie a questa edizione - un’idea concreta del grande lavoro che sta preparando per l’edizione nazionale dei Quaderni. Ma veniamo ai vantaggi filologici dell’anastatica. Gramsci, come abbiamo visto, dice di aver scritto «a penna corrente» ( currenti calamo ) « per segnare un rapido promemoria». La sua grafia non solo è estremamente posata e regolare, ma quasi sempre priva di correzioni e ripensamenti stilistici. Poiché siamo certi che non v’è «alle spalle » di questi quaderni una «brutta copia» andata persa, è di immediata evidenza - ora che abbiamo davanti l’autografo - che Gramsci componeva direttamente in forma stilisticamente già compiuta le sue pagine. Solo l’autografo poteva consentirci questa considerazione, che è rilevante rispetto al quesito (che invero è d’obbligo di fronte ad ogni significativo autore): come componeva, e quindi come scriveva, Gramsci? Il suo costante addestramento linguistico (traduzioni dai fratelli Grimm, da Goethe, dal saggio di Finck sui ceppi linguistici, da numerosi narratori russi, esercizi di lingua inglese: tutto questo è nei Quaderni A, B, C, ma traduzioni appaiono anche in altri quaderni), l’interesse suo costante per la «questione della lingua in Italia», sono tra i fattori che aiutano a comprendere lo straordinario fenomeno di una scrittura così spontaneamente matura.
Ma c’è anche il lunghissimo suo tirocinio giornalistico, palestra straordinariamente efficace al fine di imporre allo scrivente il costume di dire direttamente, e senza contorsioni stilistiche o ornamenti professorali, ciò che intende dire. Per valutare la sua prosa l’autografo è dunque la base primaria. C’è poi l’altro aspetto: la rielaborazione e l’ampliamento di parti già scritte. Anche qui regna l’essenzialità: e la scarsa disponibilità di carta dovuta alle stupide restrizioni carcerarie ha avuto la sua parte. Ma bisognerebbe avviare un’indagine sistematica sulle sue varianti d’autore. Si capirebbe molto di più in profondità quello che avvenne nel suo instancabile laboratorio mentale. Vorrei fare solo qualche esempio. Un tema di straordinaria importanza, teorica e politica, è per lui il fenomeno del «cesarismo ». È già di per sé significativo che egli lo assuma e gli dia quel rilievo di categoria sommamente utile alla comprensione della storia otto-novecentesca. Marx, nella prefazione alla seconda edizione del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte ( giugno 1869) aveva perentoriamente «vietato» l’uso di cesarismo fuori dello studio della storia antica. Gramsci «disobbedisce» senza alcun problema, anzi ingigantisce, giustamente, quella categoria, divenuta - con la guerra e le rivoluzioni del dopoguerra - uno strumento ermeneutico prezioso. La prima stesura del paragrafo cesarismo è nel «miscellaneo» Quaderno 9, la seconda, quasi raddoppiata, è nello «speciale» Quaderno 13.
Il fenomeno che si coglie raffrontando le varianti è l’attenuazione della polarità tra il cesarismo «progressivo » e «regressivo»: polarità che, pure, costituisce il punto di partenza della riflessione. Nel secondo capoverso della stesura A (Quaderno 9) Napoleone III, in opposizione al I, costituisce il prototipo del «cesarismo regressivo». Invece nel lunghissimo nuovo capoverso aggiunto nella stesura B (Quaderno 13) si dice di Napoleone III che «il suo Cesarismo (...) è obbiettivamente progressivo sebbene non come quello di Cesare e Napoleone I», perché «la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo etc.». La riflessione non è oziosamente classificatoria né meramente storiografica. Basti pensare che con l’esemplificazione Gramsci si spinge fino al presente: fino al governo Mac Donald (un laburista che guida un ministero di conservatori) ed al governo di Mussolini: «Così in Italia nell’ottobre ’22, fino al distacco dei popolari e poi gradatamente fino al 3 gennaio ’25 e ancora fino all’8 novembre ’26 si ebbe un moto politico-storico in cui diverse gradazioni di cesarismo si succedettero fino a una forma più pura e permanente, sebbene anch’essa non immobile e statica». Il grande assente, il non detto, di questa pagina è Stalin (siamo nel 1934), anch’egli emerso vincente da un aspro conflitto di classi (operai, contadini, «nep-men»). Orbene, se si considera che la premessa da cui Gramsci parte è che il cesarismo «esprime sempre la soluzione arbitrale, affidata ad una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica» (di forze cioè che «si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca») la riflessione ha delle implicazioni molto attuali. In queste pagine - nella prima e soprattutto nella seconda stesura - è racchiuso un giudizio meditato sia sull’esperienza del fascismo che - probabilmente - su quella dello stalinismo, considerati non già con l’occhio e il tono agitatorio di chi è immerso nella lotta e ne è parte, ma assunti in una razionalità della storia di cui la categoria del «cesarismo» è la chiave. Ed è forse una chiave primaria per intendere l’intero corpus gramsciano carcerario, cioè successivo alla sconfitta ed al progressivo affermarsi del «Cesare».
Luciano Canfora
* Corriere della sera, 28 agosto 2009
Da Helsinki il presidente chiede sensibilità anche verso la Carta europea
E poi dice: "L’Italia ha bisogno della crescita, bisogna concentrarsi sulla ricerca"
Napolitano sulla Costituzione
"In Italia c’è una questione aperta"
HELSINKI - "In Italia credo ci siano questioni ancora aperte sulla piena identificazione nei principi e nei valori della Costituzione. Occorre un forte moto di patriottismo costituzionale, per il quale credo ci siano le condizioni".
Sono le considerazioni del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla conferenza stampa che ha chiuso la sua trasferta di due giorni in Finlandia. Parlando della situazione del nostro Paese, il capo dello Stato ha anche detto che "serve un grande sforzo per rilanciare la crescita".
Ecco il ragionamento di Napolitano: "Credo che in Italia - ha detto - sia ancora una questione aperta la piena identificazione che ci dovrebbe essere da parte di tutti nei principi e nei valori della Costituzione repubblicana che sono rispecchiati nella Costituzione europea richiamata nel Trattato di Lisbona". Il presidente lo ha dichiarato rispondendo a una domanda dei giornalisti sulla caduta di tensione che c’è in vari paesi europei, rispetto ai motivi originari che furono alla base della costruzione europea, come strumento per mettere fine agli orrori creati dalla guerra e dal nazifascismo.
Sulla necessità di una ripresa della crescita economica, il capo dello Stato ha spiegato che "è essenziale puntare su fattori fondamentali come la debolezza della capacità di concentrarsi sulla ricerca e la formazione. E’ una questione che deve essere affrontata anche dalle politiche pubbliche".
Napolitano ha poi espresso "non solo un sentimento di solidarietà al giudice Giacomo Montalbano (la cui villa è stata bersaglio di un’attentato incendiario, ndr) ma una riaffermazione dell’importanza dell’impegno di tutti magistrati che, come lui, lottano per l’impegno alla legalità anche con sacrificio personale e gravi rischi". Convinzioni, queste, da lui riportate anche al procuratore antimafia Piero Grasso, che ha incontrato proprio nella capitale finlandese.
* la Repubblica, 10 settembre 2008.
Salò, Napolitano ferma La Russa
A Porta San Paolo il ministro della Difesa omaggia i fascisti della Repubblica sociale
Il Presidente: la Resistenza fu volontà di riscatto, eroico chi rifiutò di aderire alla Rsi:
«Chi rifiutò l’adesione alla Rsi è simbolo della volontà di riscatto del Paese»
di Marcella Ciarnelli (l’Unità, 09.09.2008)
LETTURA di parte di una pagina senza equivoci della storia del Paese. Ci ha provato a proporla il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, rendendo omaggio ai militari che aderirono alla Repubblica sociale. Ma a smentirla ha provveduto subito con le sue autorevoli parole il presidente della Repubblica che ha ricordato come tra gli autentici simboli della Resistenza ci siano stati, oltre ai partigiani, proprio i militari che non aderirono alla Repubblica di Salò e per questo subirono la deportazione.
Porta San Paolo, sessantacinque anni dopo. Cielo azzurro. Palco rosso delle grandi occasioni. Al governo del Paese c’è il centrodestra. Roma è amministrata da un sindaco la cui militanza politica è nota e che proprio nelle ore precedenti alla celebrazione di questo 8 settembre che segnò anche la difesa strenua della Capitale dalle truppe neonaziste, è inciampato nella nostalgia. E in questa sede, tenta ancora una volta di correre ai ripari correggendo il tiro e condannando «senza esitazioni l’esito liberticida ed antidemocratico di quel regime».
Ma ci pensa il ministro a riaprire la polemica. E con che toni. Non ci è riuscito La Russa a non abbandonarsi ad un revisionismo che sembra aver trovato nuova linfa nei successi elettorali. Così il titolare della Difesa, davanti al Presidente della Repubblica che ascolta e riguarda gli appunti del suo intervento in cui è già prevista la puntualizzazione necessaria ad una rilettura distorta della storia, si lascia andare. E ricorda il sacrificio dei militari della Rsi che «dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della Patria». E cioè «quelli della Nembo che si opposero allo sbarco degli anglo-americani meritando, quindi, il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obbiettività alla storia d’Italia».
Ma il presidente Napolitano non ci sta. La sua puntualizzazione storica è netta. Nel cuore del suo discorso invita a ricordare la Resistenza nella sua intierezza, nel suo «duplice segno: quello della ribellione, della speranza di libertà e giustizia che condussero tanti giovani a combattere nelle formazioni partigiane» e «quello del senso del dovere, della fedeltà e della dignità che animarono la partecipazione dei militari, compresa quella dei siecentomila deportati nei campi tedeschi, rifiutando l’adesione alla Repubblica di Salò». Dal Capo dello Stato è così arrivato l’invito a «rafforzare il comune impegno di memoria, di riflessione, di trasmissione alle nuove generazioni del prezioso retaggio della battaglia di Porta San Paolo, della difesa di Roma e della Resistenza» rivolto a tutti, ma per prime, alle forze politiche che sono state esortate ad «animare un clima di condiviso patriottismo costituzionale».
Il discorso di Napolitano viene da lontano. Segue il filo rosso della riflessione e dell’analisi storica che già furono all’origine del discorso che pronunciò a Cefalonia in occasione della commemorazione dei soldati che lì sacrificarono la loro vita e successivamente a Genova, città medaglia d’oro al valore, nell’anniversario del 25 aprile in cui mise in guardia dalle «false equiparazioni». Resta sullo sfondo quella necessità di una memoria condivisa che parta dal riconoscimento del valore della Resistenza i cui valori si ritrovano nella Carta Costituzionale che deve essere punto di riferimento comune, ma di cui debbono essere assunti i valori senza alcun ripensamento o rilettura di parte.
Il ministro La Russa ha perso l’occasione per farlo. Anche se poi ha cercato di minimizzare l’accaduto raccontando che Napolitano, nel breve tragitto dal palco all’auto, non gli avrebbe fatta nessun appunto al suo discorso.
Le parole del Capo dello Stato dal palco erano state chiarissime. E, quindi, non avevano bisogno di nessuna aggiunta. Ma La Russa ha insistito «nessun contrasto» mentre cominciavano a fioccare le reazioni alle sue parole. «Il cittadino La Russa può pensare quello che vuole, ma il ministro della Difesa è lì per ricordare la lotta antifascista da cui nasce la Repubblica di cui egli è ministro. Invece la repubblichina di Salò è un’altra cosa» ha detto Massimo D’Alema. Per Piero Fassino «non si possono equiparare libertà e dittatura. L’umana pietà non cancella la storia. «Le affermazioni del ministro La Russa e del sindaco Alemanno - afferma Rosi Bindi - non stupiscono e anzi confermano la fragile cultura democratica della destra italiana incapace di riconoscersi nei valori della Resistenza e della Costituzione». Il segretario di Rifondazione, Ferrero chiede le dimissioni del ministro. La destra, ovviamente, fa quadrato.
A 66 anni dall’eccidio della Divisione Acqui, scompare l’ex ufficiale nazista Otmar Muhlhauser La figlia di una delle vittime: "Ha vinto la ragione di Stato"
Cefalonia, morto ultimo imputato
caso chiuso senza colpevoli *
ROMA - Nessun colpevole. A 66 anni dall’eccidio di Cefalonia, la morte dell’ex ufficiale nazista Otmar Muhlhauser, unico imputato nel processo in corso davanti al tribunale militare di Roma per la strage dei soldati italiani, chiude, senza condanne, il procedimento. Muhlhauser, infatti, è morto nella sua abitazione in Baviera. Il prossimo 8 settembre avrebbe compiuto 89 anni.
L’ultima inchiesta sulla strage dei soldati della Divisione Acqui fu aperta dalla procura militare di Roma che, lo scorso gennaio, chiese il rinvio a giudizio di Muhlhauser con l’accusa di aver ordinato la fucilazione del generale Antonio Gandin e di altri ufficiali italiani. Il 5 maggio, alla prima udienza del processo, la difesa di Muhlhauser sostenne che l’imputato era incapace di intendere e di volere. Il giudice dispose una perizia psichiatrica, rinviando al prossimo 5 novembre. Ma la morte di Muhlhauser cancella questa scadenza.
Dell’ufficiale nazista restano questa parole: "Tra gli ufficiali tedeschi si parlava della divisione italiana solo come dei traditori. Con l’ordine del Fuhrer era già chiaro che coloro che appartenevano alla divisione italiana andavo trattati completamente da traditori. Al tradimento vi era solo una risposta: l’esecuzione".
Dunque, la vicenda giudiziaria per il peggior eccidio di militari italiani prigioneri compiuto dai tedeschi nella Seconda guerra mondiale si conclude senza colpevoli. Se si esclude, infatti, la condanna ’simbolica’ inflitta dal tribunale di Norimberga al generale Hubert Lanz (12 anni, ma ne scontò solo tre) tutti i numerosi processi che si sono svolti in Italia e in Germania si sono conclusi con un niente di fatto.
Lo stesso numero complessivo delle vittime di Cefalonia è stato a lungo oggetto di controversie, oscillando da un minimo di 5.000 uomini ad un massimo di oltre 10.000, in pratica l’intera Divisione Acqui. Secondo gli studi più recenti nell’isola greca morirono circa 2.300 militari, un quarto in combattimento e gli altri fucilati dopo la resa; altri 1.500 affogarono nei naufragi delle navi con cui venivano deportati. Per nessuno di loro ci sarà giustizia.
"Ancora una volta ha trionfato la ragion di Stato - afferma Marcella De Negri, figlia di Francesco De Negri, ufficiale fucilato a Cefalonia - Muhlhauser non ha mai avuto alcun segno di pentimento ed ora è morto, tranquillo, nel suo letto".
* la Repubblica, 8 agosto 2009
Costituzione, edizione critica gratis per il 60° *
In occasione del sessantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana, la casa editrice Utet offre in omaggio a tutti coloro che la richiedano (numero verde 800-224664) un’edizione esclusiva commentata da Tullio De Mauro e Lucio Villari.
L’introduzione di De Mauro fornisce un’approfondita analisi storico-linguistica delle 9.369 parole che ricorrono nel testo, con il 74% dei lemmi tratti dal vocabolario di base della lingua italiana: una percentuale altissima rispetto alle consuetudini del nostro corpus legislativo, che testimonia l’impegno dei costituenti per garantire la massima accessibilità al testo da parte di tutti i cittadini.
Villari, invece, sottolinea coma la Costituzione, anche nel panorama delle costituzioni vigenti in Occidente, sia tra le più dirette ed esplicite nella rivendicazione e nella difesa dei diritti democratici.
* Avvenire, 06.09.2008.
LA BATTAGLIA DI CIVITATE
di Umberto Maiorca (Festival del Medioevo)
Nell’anno del Signore 1016, quaranta cavalieri normanni di ritorno dalla Terra Santa sbarcano a Salerno, in quel momento assediata dai saraceni. I cavalieri del nord si presentano a Guaimario IV, signore di Salerno e gli offrono la loro spada. Poi salgono a cavallo e, come racconta il cronista Amato di Montecassino, travolgono i saraceni che assediavano la città. Il signore di Salerno li premia con terre e averi.
Da quel momento fu un susseguirsi di arrivi dal nord Europa di cavalieri pesanti normanni e un lungo elenco di infeudazioni da parte dei duchi longobardi, ben lieti di avere le spade normanne al loro fianco per respingere i saraceni e scacciare i bizantini. Bari, ultima roccaforte greca, cadde nel 1071 quando il sud Italia era, ormai, in mano normanna.
La svolta politica della conquista dell’Italia, però, si può individuare nella battaglia di Civitate tra le forze normanne e un esercito messo insieme da papa Leone IX in risposta alla richiesta di aiuto che giungeva dalle popolazioni del Mezzogiorno.
La conquista del sud Italia e la condizione della popolazione A furore normannorum libera nos Domine è il grido di dolore che, secondo i cronisti del tempo, da più parti del sud Italia si levò alla volta del Pontefice. I cronisti ricordano come già «nel giugno del 1053, poco prima della battaglia di Civitate, si avvicinava il tempo delle messi, ma prima che i contadini le avessero raccolte, quando erano ancora verdi, già i Normanni, mancando di pane, le riscaldavano sul fuoco e le mangiavano tostate». Anche le vessazioni sulla popolazione erano molteplici: «Molti venivano dal Sud, con gli occhi cavati, i nasi tagliati, le mani e i piedi troncati, lamentandosi da far pietà della crudeltà dei normanni».
Le fonti insistono sul «carattere banditesco dell’occupazione normanna in Italia», soprattutto nel periodo in cui i loro comandanti si insediano nei territori di nuova conquista, delineando «una lunga fase iniziale» nella quale «non ci sono dubbi di sorta, poiché Roberto il Guiscardo devastò intere regioni. Fu a questo punto che papa Leone IX, un combattivo alsaziano di circa cinquant’anni d’età, protagonista della grande riforma della Chiesa, decise di impugnare le armi per mettere fine all’anarchia». Il Pontefice, intenzionato a porre fine alle angherie e spoliazioni dei normanni, raccolse «un esercito piccolo, ma di forti cavalieri della sua gente» per andare a combattere i normanni in una battaglia nel corso della quale ci fu «un’immensa strage, molto sangue si sparge dall’una e dall’altra parte» e alla fine «sono vinti coloro che combattono per la giustizia: vincono coloro che combattono la giustizia» secondo Brunone di Segni. Una battaglia che «ebbe un’importanza superiore a quella che si suole ad essa attribuire» e che secondo Gregorovius «è forse la più memoranda che registrino gli annali del papato temporale».
L’avvicinamento alla battaglia Le truppe pontificie, 2.400 fanti longobardi e italici e 700 cavalieri svevi, si muovono da Roma verso Benevento, senza toccare la città, dirigendosi verso il Biferno, vicino Guardia Alfiera. La direttrice di marcia è lungo la vecchia via Traiana-Frentana, con l’intenzione di riunirsi con le truppe del catapano bizantino Argiro, in marcia da Bari con almeno tremila uomini, nei pressi di Civitate.
I normanni, guidati da Umfredo di Altavilla, Riccardo di Aversa e Roberto il Guiscardo, si mettono in marcia per intercettare le truppe pontificie. La notizia dell’arrivo dell’esercito del Papa, però, induce molte popolazioni a chiudere le porte delle città e negare i rifornimenti ai normanni. «La loro situazione era abbastanza grave. Le popolazioni, che per i loro continui soprusi, avevano invocato l’aiuto del papa, traevano speranze ed incoraggiamento dall’arrivo di Leone IX e chiudevano loro le porte. Si doveva avanzare attraverso una regione decisamente nemica, che per il momento non dava più le vettovaglie, ma che poi avrebbe potuto insorgere a lotta aperta». Per questo i normanni avevano poca intenzione di combattere e pensavano ad incontrare il Papa, inviando un’ambasceria e promettendo obbedienza, purché li lasciasse in pace nelle vicende contro i bizantini. I normanni potevano contare su tremila cavalieri e meno di mille lance appiedate. Girando al largo della città di Troia, fortificata e presidiata dai bizantini, puntarono sulla piana di Civitate e a metà giugno si trovano davanti al nemico.
«L’arrivo dei normanni parve disorientare i piani di guerra del Pontefice. Ma gli avventurieri nordici, ritenendo per fama che i mercenari tedeschi fossero moltissimi, bramavano essi pure evitare il combattimento, il cui esito appariva abbastanza dubbio». Furono, quindi, iniziate delle trattative. Leone IX è, però, mal raccomandato, circondato da pessimi consiglieri, soprattutto quegli «alamanni e teutonici che si facevano beffe, per via della loro statura e della loro complessione, dei normanni, più bassi di loro». Il Pontefice spera nell’arrivo dei bizantini. I 700 svevi sono superbi, il Papa non riesce a farli ragionare, ma che cosa puoi dire a guerrieri che combattono valorosamente e con crudeltà, che «preferiscono morire piuttosto che voltare le spalle» e pur essendo digiuni di tecniche di guerra a cavallo rispetto ai normanni, «sono comunque temibili con la spada: infatti sono specialmente lunghe e acuminate le loro spade, capita spesso che colpendo il corpo dal capo lo dividano in due, e stanno a pie’ fermo, quando smontano dai cavalli». Gli svevi sono fiduciosi del numero soverchiante e non vogliono trattare, anzi, «imposero ai nemici l’andata via, previo disarmo, dall’Italia, o la guerra. Leone IX, benché riluttante, dovè piegarsi alla volontà dei duci tedeschi».
I normanni, dal canto loro, erano stanchi e digiuni da tre giorni, non avrebbero voluto combattere, ma visto il fallimento dell’ambasciata si preparano alla battaglia: Umfredo al centro, Riccardo di Aversa all’ala destra e Roberto il Guiscardo, con i suoi calabresi, all’ala sinistra (di riserva, non avendo un fronte nemico diretto al quale opporsi). L’esercito di Leone IX è disposto su due fronti: quello dei cavalieri svevi, in faccia ad Umfredo e quello della soldatesca italica e longobarda (guidati dal duca Gerardo di Lorena e dal principe Rodolfo di Benevento con reparti provenienti dal Lazio, dalla Campania, dalla Marca Anconitana e dai Marsi), dirimpetto a Riccardo di Aversa.
La battaglia Fra i due accampamenti si trovava una collinetta che impediva agli avversari di vedersi direttamente. I normanni, saltata la trattativa, occupano immediatamente quell’altura e guadagnano immediatamente un vantaggio che risulterà favorevole alla vittoria: caricare il fronte nemico a tutta velocità dall’alto verso il basso.
Dall’alto della collina i primi a gettarsi sul nemico sono gli uomini di Riccardo d’Aversa. Una violenta carica di cavalleria, specialità dei normanni, che taglia in due e getta nello scompiglio le forze pontificie volgendole in fuga «per plana, per ardua» scrive il poeta Guglielmo di Puglia. I normanni stringono le fila, serrano gli scudi e pungono con le lance quello che, sempre secondo il poeta, è un «contingente eterogeneo» ed «ammassato senza un minimo di ordine militare, non avendo i soldati nessuna idea di come disporsi in ordine di battaglia». La compattezza della cavalleria normanna trova facile penetrazione nelle forze papali che «mostrano ben presto di non essere altro che una turba fugace disposta a piantare in asso i propri alleati sul campo». I cavalieri di Riccardo di Aversa «giunti di fronte alle fila longobarde, penetrano attraverso le maglie dello schieramento, frazionandolo e rompendone l’ordine, costringendo le unità ad una rotta disordinata», poi si gettano all’inseguimento dei fuggiaschi lungo le sponde del Fortore, compiendo una strage. I fanti gettano le armi e gli scudi, rompono la formazione compatta che poteva significare la salvezza, resistendo alle cariche e cercano scampa nella fuga. Inutilmente. I normanni infilzano alla schiena quanti fuggono, rompono elmi e teste con le spade, molti vengono calpestati dai cavalli.
Umfredo d’Altavilla, al comando del centro normanno, invece, si trova di fronte la forte resistenza dei cavalieri svevi mandati dall’imperatore Enrico III a combattere per il Papa. In questo settore le ripetute cariche normanne non riescono a sfondare i ranghi teutonici. I cavalieri svevi, probabilmente appiedati per lo scontro, menano «fendenti terrificanti che vuotavano d’arcione i normanni o troncavano le gambe dei cavalli». E spingono in avanti la propria posizione. Lo schermo di scudi di apre per falciare i nemici, poi si richiude e avanza di qualche passo. E poi ancora. Tanto che lentamente gli svevi riguadagnano la collina e cacciano indietro le forze normanne.
È a questo punto che entra in scena l’eroe della giornata, colui che assurgerà a comandante indiscusso dei normanni in Italia: Roberto il Guiscardo. Viste le difficoltà incontrate dal fratello, Roberto d’Altavilla, si lancia alla testa del suo contingente di calabresi contro gli svevi. I quali indietreggiano sotto la spinta del Guiscardo. Indietreggiano, ma non si arrendono, continuano a colpire e uccidere. «Nel furore della battaglia era ormai impossibile chiedere pietà, né il Guiscardo poteva permettersi di lasciare in vita guerrieri così irriducibili. I germanici si sistemarono in quadrato e attesero che i normanni tornassero alla carica solo per falciarli ancora e ancora, fino a che la divisione di riserva, magnificamente controllata dal Guiscardo, desistette dall’inseguimento dei fuggitivi e tornò indietro per annientare l’ultima resistenza. Gli impavidi svevi caddero uno dopo l’altro, dopo aver inflitto perdite terribili ai loro avversari». Come accaduto ad Hattin, il 4 luglio del 1186, ai cavalieri templari e ospitalieri, ben consci del loro destino se presi vivi dei musulmani, «i cavalieri svevi cadono nella loro interezza sotto i colpi dei normanni, non viene data loro la possibilità di resa perché combattono fino all’ultimo uomo, in altre circostanze, altri personaggi vengono fatti prigionieri e poi liberati dietro lauti riscatti. Non si accetta il fatto che dei nobili possano arrendersi a dei mercenari, ci si batte con la convinzione di essere comunque superiori, se non per nascita almeno per arte della guerra. Un’ipotesi plausibile è che la maggior parte dei cavalieri svevi abbia scelto di appiedarsi, ancor prima dell’inizio della battaglia per poi stringersi a cerchio nel tentativo di prolungare la resistenza contro la cavalleria normanna, negandosi ogni possibilità di fuga».
La conclusione L’esercito papale è sconfitto, annientato e lo stesso pontefice viene fatto prigioniero. Lascia le mura di Civitate e si consegna ai normanni, pronto al martirio, quando accade l’inverosimile: «La gente dei normanni inginocchiata davanti a lui lo venera, implorando il suo perdono. Il papa benignamente accoglie questi che sono curvi di fronte a lui; tutti quanti gli baciano i piedi» racconta Guglielmo Apulo. I feroci uomini del nord «si inginocchiarono davanti a lui, ottenendo il riconoscimento delle loro conquiste e trattandolo con cortesia inconsueta e, soprattutto, volgendo la propria sete di conquista verso la Sicilia».
Amato di Montecassino scrive: «Il Papa aveva paura e il clero tremava. E i normanni vincitori gli infusero speranza e promisero che con loro il Papa sarebbe stato sicuro, e lo condussero con tutta la sua gente a Benevento, provvedendolo continuamente di pane e di vino e di tutto ciò che gli poteva abbisognare». È Roberto il Guiscardo a prestare il giuramento feudale al Pontefice, dichiara i titoli di Leone IX, di colui dal quale deriva tutto ciò che possiede «e possedendolo già, il suo signore eminente non avrebbe potuto togliergli» alcunché. Il Guiscardo giura di servire la Chiesa romana in cambio del riconoscimento del dominio sul Sud.
Per John Julius Norwich, la battaglia di Civitate «fu altrettanto decisiva, per i normanni italiani, quanto lo sarebbe stata per i loro fratelli e cugini quella che avrebbe avuto luogo, tredici anni più tardi, a Hastings in Inghilterra: mai più sarebbero stati posti in discussione i diritti basilari dei normanni nell’Italia meridionale; mai più si sarebbe pensato a cacciarli dalla penisola».