Messaggio del presidente della Repubblica al convegno organizzato
nel 25esimo anniversario dell’omicidio di La Torre e Di Salvo.
Napolitano: "Solo un grande movimento
di popolo può sconfiggere la mafia"
Il ministro Amato: "Occorre tagliare le ricchezze dei
boss.La mafia è un’impresa con risorse illimitate e
molto scorretta. I partiti facciano pulizia applicando
il codice etico" *
ROMA - "Oggi come ieri solo un grande movimento di popolo, di opinione e di cultura, può sconfiggere la mafia, facendo prevalere i principi della pacifica convivenza civile e difendendo la libertà e le istituzioni democratiche". Questo il messaggio che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato al presidente del Centro Studi ed Iniziative Culturali Pio La Torre Onlus, Vito Lo Monaco, in occasione del convegno "Dalla mafia delle armi alla mafia dei capitali", che si svolge nel 25/o anniversario dell’assassinio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo.
La mattina del 30 aprile del 1982 Pio La Torre, deputato del Pci e "papà" della legge che ha introdotto il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni dei boss, era a Palermo e stava andando alla sede del partito in macchina, una Fiat 132. Con lui c’era l’amico e collega Rosario Di Salvo. A un semaforo la macchina fu accostata da due grosse moto che fecero fuoco e uccisero i due politici. Quegli uomini, hanno accertato poi i processi, erano stati mandati da Totò Riina.
Napolitano è molto soddisfatto per la scelta di ricordare due figure come quelle di La Torre e Di Salvo e di farlo in continuità con la loro battaglia contro la mafia anche adeguando e aggiornando gli strumenti di analisi e di intervento. "Non va dimenticato - scrive il capo dello Stato - il forte originale contributo che Pio La Torre seppe dare al fine di introdurre innovazioni fondamentali nella legislazione antimafia, puntando a colpire la potenza economica e finanziaria della criminalità organizzata. Lo straordinario esempio di moralità, combattività e impegno nelle istituzioni, in continuo rapporto con i cittadini che ci ha dato La Torre e il ricordo del sacrificio suo, di Di Salvo e di quanti hanno perso la vita nella lotta alla criminalità organizzata, sono da additare specie alle giovani generazioni".
Si fa sentire il segretario dei Ds Piero Fassino che, nonostante la differenza di età, ben ricorda Pio la Torre. "L’impegno, l’intelligenza, la generosità con cui La Torre visse ogni giorno la sua straordinaria esperienza politica - ricorda Fassino - ne fanno una delle personalità più importanti della storia del Pci e sono per tutti noi, soprattutto per i più giovani che non hanno avuto la fortuna di conoscerlo, un esempio di virtù politica e di coraggio civile".
Ospite d’onore del convegno di Palermo è il ministro dell’Interno Giuliano Amato. "La priorità nella lotta alla mafia è portarle via i soldi, solo così possiamo decapitare i clan del disonore", sintetizza il ministro dell’Interno. Il suo è l’intervento più atteso del convegno. "La mafia - spiega - è diventata essa stessa economia, opera come impresa, ha come capitale le grandi risorse accumulate ma ha due vantaggi tanto irregolari quanto competitivi: non ha limiti nelle risorse e sotto il tavolo c’è il ricatto della violenza che opera nei confronti degli amministratori che hanno sempre la pistola contro la schiena. Tutto ciò un’offesa al senso di onore che ha la Sicilia". Infine un messaggio alla politica: "I partiti possono e devono fare pulizia al loro interno applicando un codice etico. Dove non può arrivare la giustizia che non può colpire i sospetti, deve poter arrivare la politica".
Tagliare le risorse economiche è la priorità anche per il presidente della Commissione antimafia Riccardo Forgione non ha dubbi: il vero modo per mantenere in vita La Torre è proseguire sulla strada che lui ha indicato, cioè "aggredire i patrimoni dei mafiosi". "La mafia - insiste Forgione - mette in conto il carcere, ma non tollera che le si confischino i patrimoni, e noi non possiamo più tollerare che ci vogliano 5 anni dal momento del sequestro di un bene alla sua destinazione sociale".
* la Repubblica, 28 aprile 2007
SONDAGGIO CHOC, PER I GIOVANI LA MAFIA E’ PIU’ FORTE DELLO STATO *
PALERMO - Nel giorno in cui per ricordare Pio La Torre tutti si preoccupano di indicare una strategia piu’ efficace e piu’ mirata nella lotta alla mafia, un’indagine rivela che tra i giovani di Palermo serpeggiano pessimismo e diffidenza. Addirittura allarmante il giudizio secondo il quale la mafia sarebbe piu’ forte dello Stato.
I dati che svelano una percezione cosi’ inaspettata vengono snocciolati dagli stessi autori della ricerca, coetanei degli intervistati, dal palco del teatro Politeama dove siedono tra gli altri il ministro Giuliano Amato, il presidente della Commissione antimafia Francesco Forgione, il procuratore di Palermo Francesco Messineo. Emanuela Sala e Laura Magna, seduti accanto a loro, spiegano che nella loro scuola, il liceo classico ’’Giovanni Meli’’, alcuni studenti coordinati dai professori Isabella Albanese e Fabio D’Agati hanno promosso un sondaggio tra i compagni divisi in due gruppi: uno ’’sperimentale’’ e l’altro di ’’controllo’. In tutto 173 ragazzi ma con una maggiore rappresentanza femminile (il 60 per cento circa).
Tra le domande ce n’era una che si proponeva di definire il modo in cui i giovani del campione si pongono davanti allo Stato e a Cosa nostra. E’ piu’ forte l’uno o l’altra? E’ piu’ forte la mafia, ha risposto il 66,7 per cento del gruppo ’’sperimentale’’ e addirittura il 71,9 di quello di ’’controllo’’. Solo il 17,9 del primo e il 12,4 del secondo si e’ detto convinto della supremazia delle istituzioni. C’e’ poi una fascia grigia che non riconosce maggior forza a nessuno, il 4,7 non sa e il 5,2 non risponde. Dati che impressionano la platea del teatro Politeama, tra l’altro affollata da tanti giovani che evidentemente credono ancora nella possibilita’ di sconfiggere il potere mafioso. E gli stessi autori del progetto di ricerca avvertono subito il bisogno di cercare, nelle risposte dei loro compagni, una chiave possibile di interpretazione. ’’Abbiamo trovato che lo Stato democratico appare debole perche’ permette alla mafia di esistere. Lo Stato, secondo molti, viene facilmente sconfitto dalla mafia perche’ e’ colluso, se non identificato, con la stessa mafia’’. ’’Forse - riflettono ancora gli autori della ricerca - abbiamo bisogno di conoscere meglio la storia dell’antimafia e dei traguardi finora raggiunti’’.
E solo cosi’ si puo’ forse ’’correggere’’ l’impatto scoraggiante delle risposte. In chiave ottimistica gli ragazzi ammettono che il concetto di ’’debolezza’’ dello Stato puo’ essere spiegato con il prezzo elevato ’’pagato per combattere contro un nemico nascosto ma ben organizzato’’. Altri risultati del sondaggio rivelano comunque la consapevolezza che la mafia condizioni molto (40,8 per cento) o abbastanza (83,6) la vita di un giovane palermitano. Per il 23 per cento invece poco e per il 14,9 per nulla. Ma con chi parlano di mafia questi ragazzi? Tra di loro poco: solo il 28,8. Ne discutono di piu’ in famiglia (32,9) ma soprattutto con i docenti (34,1).
Scuola e famiglia vengono cosi’ individuate come le agenzie educative per eccellenza che dovrebbero aiutare i giovani a prendere coscienza che tra mafia e Stato non puo’ esserci partita.
ANSA » 2007-04-28 15:31
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GIOVANNI FALCONE, PAOLO BORSELLINO, ANTONINO CAPONNETTO. UN URLO PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE
CHIESA, POLITICA, E ... "MAMMASANTISSIMA". INTERVISTA AL CARDINALE PAPPALARDO
MAFIA: LA CHIESA, L’ITALIA.... e W O ITALY. L’URLO DI KAROL J. WOJTYLA AD AGRIGENTO (1993)
Il sindaco di An ha deciso di reintitolare l’aeroporto al generale Magliocco
In 2.000 alla manifestazione di protesta con Veltroni. Interviene anche il Quirinale
Comiso, scontro sul nome dello scalo
Napolitano: "Giusto ricordare La Torre"
Il leader del Pd: "La lotta alla mafia non è di una parte, deve impegnare tutti"
ROMA - E’ scontro a Comiso sul nome dell’aeroporto: Pio La Torre o Vincenzo Magliocco. La guerra tra vecchia e nuova giunta comunale ha provocato vivaci polemiche e prese di posizione, compresa quella del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenuto con un messaggio a sostegno del ricordo di Pio La Torre, in occasione della manifestazione dedicata all’esponente politico vittima della mafia, alla presenza del leader del Pd Walter Veltroni.
La manifestazione, a cui hanno partecipato oltre duemila persone, è stata organizzata per intitolare l’aeroporto a Pio La Torre contro la decisione del sindaco, Giuseppe Alfano (An), che lo ha nuovamente dedicato al generale Vincenzo Magliocco. La precedente giunta comunale aveva infatti deciso di intitolare lo scalo al segretario del Pci siciliano che si batté per la smilitarizzazione della base Nato e fu ucciso dalla mafia nel 1982. Ma il nuovo sindaco ha cancellato la delibera e ha ripristinato per l’aeroporto il vecchio nome.
"La scelta di Comiso consente di richiamare in un luogo appropriato l’impegno politico e sociale dell’onorevole La Torre, appassionatamente schierato a favore della pace e della distensione internazionale, e al tempo stesso per il progresso economico, sociale e civile della Sicilia" ha affermato Giorgio Napolitano in un messaggio al presidente del "Centro studi e di iniziative culturali Pio La Torre", Vito Lo Monaco.
"Le sue battaglie raccolsero un vasto consenso popolare" ha aggiunto il Capo dello Stato, "e lo esposero alle minacce della mafia, di cui cadde vittima in un sanguinoso agguato che mirava a far tacere la sua voce e bloccare il processo di rinnovamento e di sviluppo dell’isola. Tuttavia la sua testimonianza non fu vana: essa divenne patrimonio generale del popolo siciliano e favorì la nascita di un comune sentire e di movimenti unitari che hanno rinsaldato la trama della democrazia".
Il circolo territoriale di Alleanza nazionale di Comiso ha difeso la scelta del sindaco e ha riconfermato "la piena approvazione della decisione della giunta comunale di restituire all’aeroporto l’intitolazione al generale Vincenzo Magliocco, (insignito, non si dimentichi, di una medaglia d’oro, due d’argento e una di bronzo)".
Ieri il sindaco di Comiso aveva invitato Veltroni a un confronto per illustrargli sia le ragioni che hanno indotto l’amministrazione comunale a tornare a intitolare al generale Magliocco l’aeroporto, sia le contestuali iniziative programmate dal comune per onorare la memoria di Pio La Torre. Ma il leader del Pd ha fatto sapere che è disponibile all’incontro solo nel momento in cui il sindaco ripristinerà l’intitolazione dell’aeroporto a La Torre. Veltroni oggi era a Comiso alla manifestazione, insieme a Fabio Mussi per le sinistre e a Beppe Giulietti dell’Italia dei valori.
"La lotta alla mafia non è di una parte, deve impegnare tutti. E’ impensabile - ha detto Veltroni - che un sindaco sulla base di sondaggi abbia deciso di cancellare il nome di un uomo che ha perduto la sua vita per combattere la mafia. Questo la dice tutta sull’Italia di oggi e la dice tutta su chi governa questo comune e non solo". E ancora: "Chi fa il sindaco, indossa la fascia tricolore, ha il dovere di rappresentare tutti i cittadini, anche quelli che non lo hanno votato. Che facciamo cambiamo i nomi delle strade in base a chi vince le elezioni? Questo sarebbe un regime, ma per fortuna in Italia non siamo in un regime. In Italia c’è ancora la democrazia".
* la Repubblica, 11 ottobre 2008
È quanto emerge da una ricerca del centro studi Pio La Torre nelle scuole della Sicilia
Secondo i ragazzi la politica è fortemente collusa con l’organizzazione criminale
Mafia, i giovani siciliani sfiduciati:
"Cosa Nostra più forte dello Stato"
Il questore di Palermo: "La domanda è stata mal posta" *
ROMA - La mafia è più forte dello Stato. Quello che suona come un grido d’allarme per le istituzioni, arriva dagli studenti siciliani. Un giudizio impietoso che non risparmia neanche la politica, ritenuta fortemente collusa con Cosa Nostra. È quanto emerge da una ricerca realizzata dal centro studi "Pio La Torre" sugli alunni degli istituti scolastici della Sicilia.
Un’indagine che tratteggia anche un ritratto inquietante del boss mafioso, immorale ma forte. E quindi inevitabilmente "fascinoso". Se lo Stato rischia di uscire perdente dal confronto con la mafia a rimetterci è soprattutto la Sicilia, che secondo gli studenti dell’isola deve la sua arretratezza economica, alla presenza dei clan. Per questo la maggior parte degli intervistati non ha dubbi: "la mafia non serve per andare avanti". Ma sconfiggerla al momento sembra davvero difficile.
Mafia più forte dello Stato. È questo il primo dato che emerge dalla ricerca del Centro Studi Pio La Torre tra 2.368 studenti di 47 istituti superiori siciliani, presentata stamattina a Palermo, in occasione del 26esimo anniversario dell’assassinio del segretario del Pci siciliano. Lo pensa il 50,9% degli intervistati. Solo il 16,8% del campione percepisce le istituzioni più forti, mentre per il 20,6% Stato e mafia sono ugualmente forti. Un senso di sfiducia che non risparmia il luogo in cui si vive. Gli studenti dichiarano di sentire molto la presenza di Cosa Nostra nelle loro città (56,1%) in particolare perché dedita allo spaccio di droga (58,4%) e al "pizzo" (59,3%). Per questo il 55,% degli intervistati non crede che la mafia possa essere un giorno sconfitta.
Politica compromessa. Il sentimento di pessimismo non risparmia la politica. Il 56% dei giovani siciliani ritiene la classe dirigente siciliana fortemente compromessa con il fenomeno mafioso. Una piovra che mantiene un rapporto molto stretto con gli esponenti politici (88,6%) e che si alimenta reciprocamente con l’arretratezza economica dell’isola, influendo negativamente (85,6%) sullo sviluppo della Sicilia. Proprio le condizioni economiche della loro regione, fanno dire all’89,1% dei ragazzi "di non aver bisogno della mafia" per la costruzione del loro futuro. Anzi, Cosa Nostra, resta per il 41,8% degli studenti, un "ostacolo per il proprio avvenire".
Il fascino del boss. L’uomo di Cosa Nostra è sentito come un soggetto immorale ma competente, forte, potente e attivo. I tratti che caratterizzano il mafioso sono, infatti, forte tradizionalismo (per il 69,2%), maschilismo (78,5%), omertà (68,2%), prepotenza (91,5%). Una visione che risente anche delle influenze fascinose di cinema e tv, che restano per i ragazzi il principale strumento di informazione.
Per questo oltre la metà degli studenti sostiene che la mafia, al contrario dello Stato, sa come farsi rispettare. E il 73,9% sostiene che la forza dei boss sta nella loro capacità di incutere paura. "Lo Stato - spiegano gli autori della ricerca - rischia di uscire perdente dal confronto con la mafia quando il terreno di confronto è quello della brutalità, del dominio, della sottomissione, che nell’immaginario dei giovani legittima il rispetto di cui gode il mafioso".
I commenti. Che lo Stato esca sconfitto dal confronto con la mafia, non può non sembrare sorprendente agli uomini delle istituzioni. Secondo il questore di Palermo, Giuseppe Caruso: "Così come è stata posta la domanda è stata data una risposta fuorviante perché si è chiesto chi incute maggiore rispetto tra mafia e Stato. Gli studenti non vedono lo Stato - ha concluso Caruso - in una posizione di subalternità". Stupito anche il procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo:"Sono sorpreso che si abbia questa percezione. Secondo me si tratta di una affermazione che non ha alcun fondamento. È vero esattamente il contrario, cioè che lo Stato ha ormai preso la decisiva e definitiva preminenza sulla mafia, in un processo irreversibile da cui non si torna indietro".
* la Repubblica, 23 aprile 2008.
Mafia, l’Impero guadagna ancora
di Elio Veltri *
La ricerca della Confesercenti sul fatturato delle mafie, calcolato 90 miliardi di euro, colloca la Mafia SpA al primo posto tra le aziende italiane. Ma la cifra è per difetto dal momento che si tratta del “fatturato commerciale”, quello che riguarda da vicino la vita e l’attività regolare degli esercenti. Se a questo aggiungiamo la voce più significativa che è quella della droga, seguita dal traffico di armi, il fatturato totale diventa ancora più impressionante. Per quanto riguarda la sola cocaina di cui la ‘ndrangheta, per i rapporti con Mancuso, leader dei cocaleri, rinchiuso in un carcere d’oro della Colombia e non estradabile in virtù dei buoni rapporti con il presidente Urribe, si calcola che il fatturato sia 60 volte quello della Fiat che nel 2006 è stato di 13 miliardi di euro. Si tratta quindi di una potenza economica che se potesse entrare nelle graduatorie ufficiali farebbe impallidire gruppi come Telecom, Eni, Fiat, Fininvest, ecc. A tutto questo va aggiunto che il valore dei patrimoni consolidati della mafie viene stimato 1000 miliardi di euro e cioè 2 milioni di miliardi di vecchie lire e che secondo la Dia (direzione investigativa antimafia) gli affiliati, dedotti dalla densità criminale delle regioni meridionali sarebbero (dati del 1993) un milione e ottocentomila. Sarebbe sufficiente confiscare e vendere il 20 per cento dei patrimoni per risolvere il problema del debito pubblico e dei servizi prioritari.
Ma non è finita. La maggior parte dei proventi delle attività criminali viene investita in economia legale, con la conseguenza di turbare profondamente i mercati e la concorrenza sul mercato interno e la competitività delle imprese sul mercato globale, dal momento che nessun imprenditore costretto a prelevare denaro in banca può reggere la concorrenza. È sufficiente osservare il livello di cementificazione del paese per rendersi conto che non è dovuto alla domanda di case a prezzi di mercato quanto alla necessità di lavare denaro sporco. La verità è che la finanza legale non ha più confini certi e si mescola ogni giorno con la finanza criminale o comunque illegale, compresa quella che serve per organizzare il terrorismo. Altrimenti i paradisi fiscali, che nessuno chiede di chiudere, a cosa servirebbero?
Nel nostro Paese, almeno un terzo della ricchezza prodotta, essendo illegale e criminale, evade fisco e contributi, per cui il peso di mantenere il Paese ricade sul rimanente 65-70 per cento della ricchezza prodotta, alla quale concorrono lavoratori dipendenti, imprenditori, finanzieri senza scrupoli, banche e società finanziarie, che tutti insieme si dividono il carico fiscale del Paese. L’Italia, con il governo precedente e il cosiddetto scudo fiscale, è riuscita persino a fare una grande operazione di Stato di riciclaggio. Altra considerazione: quando partecipo a convegni sulla mafia nel nord del Paese, scopro che gli amministratori locali (non sempre in buona fede) e i cittadini disinformati, pensano che le mafie siano un problema del sud e ignorano che i soldi da ripulire oltre che in tanti altri Paesi del mondo (la ‘ndrangheta investe il 12-13 Paesi) vengono investiti soprattutto nelle regioni del nord. Ma se qualcuno osa dirlo, i sindaci replicano subito che si vuole creare discredito. Poche sere fa ero a Busto Arsizio, in un teatro pieno di giovani e ho informato i presenti che la loro città è al centro degli affari di alcune cosche siciliane e calabresi tra le più note del paese. Inoltre, una di queste, che è di Gela, si è introdotta anche a Pavia e con attività immobiliari.
Sono novità che hanno colto di sorpresa i governanti che negli ultimi 30 anni si sono succeduti? Assolutamente no. Nel 1983 Giovanni Falcone aveva spiegato come tutto sarebbe cambiato con la raffinazione della morfina in Sicilia e l’esportazione di eroina negli Stati Uniti in cambio di valige di dollari portati a spalla e quello che sarebbe avvenuto «nell’intero arco dei Paesi europei utilizzando il nuovo spazio come terreno fertile per investire, con le buone o con le cattive, in attività lucrative di ogni genere, le migliaia di milioni di dollari che si ricavano dalla produzione e dallo smercio di qua e di là dell’Atlantico di eroina e di altri stupefacenti». Nel 1992, nella sua ultima intervista che ne ha accelerato l’assassinio, Paolo Borsellino, del quale ancora oggi non si conoscono i mandanti, diceva le stesse cose. Ora siamo al fallimento e alla sconfitta. L’11 Luglio 2007 nella commissione antimafia Giuseppe Lumia ha detto: «siamo a 25 anni da quella straordinaria intuizione della legge Rognoni - La Torre e siamo a 11 anni dall’approvazione della legge 109 del 1996: per la confisca dei beni i tempi sono insopportabili e le confische sono diminuite». Violante aveva definito su l’Unità una vera vergogna le confische mancate.
Non c’è alcun tumore maligno con metastasi che consenta di intervenire dopo 25 anni dalla sua diagnosi. Purtroppo lo Stato ha alzato da tempo bandiera bianca e ha delegato alle forze dell’ordine e alla magistratura il problema più politico di questo paese e, cronaca di questi giorni, impedendo persino di operare ai magistrati più tenaci e capaci.
* l’Unità, Pubblicato il: 23.10.07, Modificato il: 23.10.07 alle ore 8.36
E la mafia incendia il campo di calcio del centro di don Puglisi
Bruciati 500 metri quadrati. Il 15 settembre è il quattordicesimo anniversario della morte del prete ucciso dalla mafia. Di Liberto, del centro Padre nostro: «Servirebbe l’esercito»
di Cinzia Gubbini (il manifesto, 09.09.2007)
«Sono appena tornato dal convegno delle Acli a Orvieto sui luoghi dell’abitare dove abbiamo parlato tanto di sicurezza, e mi hanno appena comunicato che qui a Palermo hanno incendiato il campo da calcio del nostro centro. Ma dov’è la sicurezza?». E’ un commento amaro quello di Antonino Di Liberto del centro Padre Nostro fondato da don Pino Puglisi, il prete siciliano ammazzato il 15 novembre 1993 dalla mafia.
E’ successo poco prima delle cinque di ieri pomeriggio, mentre a Palermo si svolgeva la manifestazione contro la mafia per esprimere solidarietà al giornalista dell’Ansa Lirio Abbate, minacciato dopo la pubblicazione del libro «I complici» in cui si denunciano gli appoggi politici di cui ha goduto il boss Provenzano. E a pochi giorni dall’apertura della settimana in memoria di don Puglisi per il quattordicesimo anniversario della sua uccisione. Qualcuno, pare, ha dato fuoco a dello sterco. L’incendio si è mangiato 500 metri quadrati del campo da calcio in cui gli operatori del Padre nostro portano a giocare i bambini. E’ la seconda intimidazione in pochi giorni: l’altro ieri mani anonime hanno tagliato alcuni alberi in un terreno del centro. Un’éscalation partita a luglio, quando il responsabile del centro ricevette una telefonata anonima: «Ti ammazziamo». La notizia finì sul tiggì. Il giorno dopo, furono tagliate le quattro ruote di uno dei pulmini usati dagli operatori.
Sta succedendo qualcosa? «Dopo quello che è accaduto all’imprenditore di Catania, dopo quello che sta accadendo qui, dico che questi segnali vanno attenzionati. Se abbiamo paura? Sarei ipocrita a dire di no. Ma non è la prima volta che siamo bersaglio di attentati, eppure la nostra attività non ha mai indietreggiato. Perché questo centro non è mica fatto da me, o dal responsabile, o dagli operatori. Ci sono centinaia di persone che partecipano e tengono viva la nostra attività. Qui nessuno indietreggia». Eppure le intimidazioni continuano: «Quello che facciamo dà fastidio. Perché noi ci siamo. Perché siamo punto di riferimento per le famiglie e per i bimbi del quartiere Brancaccio. E lo sa perché siamo noi i punti di riferimento? Perché non ce ne sono altri».
E’ da qui che parte Di Liberto per parlare di «sicurezza» «Non si può parlare di sicurezza in generale, io non ci sto. E’ chiaro che qualsiasi persona vuole avere la certezza di arrivare a casa incolume. Ma quello che serve a Padova, a Firenze, a Palermo o a Reggio Calabria, è diverso». Per Di Liberto, per esempio, c’è poco da fare: «Qui a Palermo ci vuole l’esercito». Una proposta forte: «Chi dice di no, mi deve proporre un’alternativa seria. Perché qui il controllo del territorio non ce l’ha lo Stato, ce l’ha qualcun altro. Serve un presidio istituzionale. Ma serve uno Stato che non sappia solo essere repressivo. Per i bambini del Brancaccio lo sbirro è quello che alle cinque di mattina bussa a casa per portargli via il padre. E allora ci vuole anche un volto dello Stato che sappia aiutare, sostenere, offrire attività sociali, fare cultura».
E’ preoccupato Di Liberto per un dibattito sulla sicurezza «fatto a sproposito. Bisogna stare attenti a fare proclami. Se la prendono con i rom, con gli immigrati, con i lavavetri, ma questo è pericoloso. Perché da un lato crea ancora più insicurezza nelle persone. Non trasmette il messaggio che lo Stato sa colpire chi commette reati, come mandare i bambini a fare l’accattonaggio, non i rom in generale. Dall’altro perché la politica usa i paroloni, i "faremo" e poi non fa, dando l’immagine di un’istituzione immobile, incapace. E’ proprio così: lo Stato usa il futuro, la mafia invece il presente. C’è, qui e ora». Così succede «che la gente si chieda chi è lo Stato, dov’è. Capita anche a me. Sarò volgare, ma a me sembra che tutti questi paroloni alla fine vanno in culo alla povera gente». Tra cui ci sono anche gli abitanti del Brancaccio, il quartiere dove era nato don Puglisi e anche il suo assassino, Salvatore Grigoli. «L’altro giorno, quando siamo arrivati con la polizia nel luogo in cui erano stati segati gli alberi, dove nessuno ha sentito niente, la gente ci ha detto "che ci fate qui?" Succede ancora questo. Eppure questo è un quartiere di gente per bene, che manda i figli nel nostro centro, perché crede in una speranza. Quella di don Puglisi che diceva: non facciamo delle cose per cambiare il mondo, ma per offrire una testimonianza a chi di dovere che si può».
Cerimonie a Palermo e a Milano per ricordare il generale ucciso dalla mafia
Il figlio Nando: "Mio padre ha amato tantissimo Palermo e questa regione"
Napolitano nell’anniversario di Dalla Chiesa
"Contro la mafia si mobiliti la società civile"
Per il procuratore nazionale antimafia Grasso, "occorre attenuare i benefici per i mafiosi" *
ROMA - La memoria del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa "va onorata tenendo sempre alta la guardia, con un’efficace mobilitazione dello Stato e della società civile contro la criminalità mafiosa". Lo afferma il presidente della repubblica Giorgio Napolitano in un messaggio al Prefetto di Palermo nel giorno del 25esimo anniversario dell’eccidio in cui morirono il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di polizia Domenico Russo.
Stamattina sul luogo della strage, nel capoluogo siciliano, sono state deposte corone di fiori dai parenti delle vittime di mafia e da rappresentati delle istituzioni e della società civile. Poi con un’altra cerimonia, la caserma di corso Vittorio Emanuele, sede del comando dell’Arma, è stata intitolata a Dalla Chiesa. Anche a Milano, in piazza Diaz, è stata deposta una corona di fiori. e poco prima, nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, era stata officiata una messa alla memoria.
"Ricordo mio padre quando lo incontravo in questa caserma, ho imparato a conoscerlo qui, proprio in questa caserma ho potuto apprezzare il lavoro che era capace di svolgere e ho capito che era un lavoro fatto di rischi". Questo il commosso ricordo di Nando Dalla Chiesa. "Mio padre ha amato tantissimo Palermo - ha aggiunto - e questa regione, diceva sempre che qui sarebbe tornato". A scoprire la targa che ricorda il generale e’ stata la "madrina" della cerimonia, Agnese Borsellino, vedova di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia nel 1992.
Alla cerimonia ha partecipato anche il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, "gli strumenti per combattere la mafia ci sono - ha detto il magistrato -, ma abbiamo anche bisogno di riforme che cerchino di attenuare i benefici per i mafiosi che non possono avvalersi di patteggiamento allargato, concordato di pena in appello o degli sconti previsti dal rito abbreviato. Io sono per la linea del doppio binario: distinguere, cioè, come aveva ben intuito Dalla Chiesa, tra le garanzie che può avere un cittadino comune e istituire poi un ordinamento assolutamente particolare per la criminalità organizzata".
Un messaggio al prefetto di Palermo è stato inviato anche dal presidente della Camera Fausto Bertinotti. "Nella sua profonda adesione ai valori della Costituzione repubblicana e nel rigore civile e morale che ne hanno segnato il difficile impegno contro il terrorismo e contro la mafia - si legge nel messaggio - la comunità nazionale continua a trovare un importante punto di riferimento, cui debbono guardare con grande attenzione i giovani, i movimenti e le associazioni".
Per il ministro dell’Interno, Giuliano Amato, "celebrare oggi Dalla Chiesa deve significare, oltre che il giusto tributo all’uomo, anche ribadire la ferma volontà dello Stato di proseguire la sua battaglia sulla base di ciò che egli fece e quindi ci insegnò: l’importanza del metodo del coordinamento, innanzitutto, e la ferrea volontà di vincere la battaglia con la collaborazione di tutte le forze della società".
* la Repubblica, 3 settembre 2007
Dalla Chiesa, Napolitano: «Società contro la Mafia»
a.g. *
Palermo rende omaggio al prefetto dei 100 giorni, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa assassinato la sera del 3 settembre 1982. Nell’agguato di via Isidoro Carini morirono anche la moglie del generale Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
Venticinque anni dopo alla cerimonia di commemorazione corone di fiori sostituiscono la scritta «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti», che poche ore dopo i massacro apparve sul luogo del triplice omicidio. «Occorre fare in modo che il sacrifico del generale Dalla Chiesa non resti vano» ha dichiarato il procuratore nazionale Pietro Grasso «bisogna tesaurizzare gli insegnamenti che ci ha lasciato sia in relazione al modo di condurre le indagini, sia sotto il profilo umano e dell’impegno». «Mi auguro» ha aggiunto Grasso «che si tragga esperienza dal passato: quando lo Stato di fronte ad una presa di posizione forte della mafia ha avuto una reazione globale e concreta».«Certamente» conclude «negli ultimi tempi c’è un ulteriore pressione di Cosa Nostra sotto il profilo delle intimidazioni». Ma soprattutto il procuratore ha sottolineato come «ancora oggi non sia del tutto chiaro il contesto nel quale è maturato questo efferato assassinio» per il quale sono stati condannati all’ergastolo i boss Antonio Madonia e Vincenzo Galatolo e a quattrodrici anni di carcere i collaboratori di giustizia Paolo Anselmi e Calogero Ganci. «Qualcuno» ha continuato Grasso «voleva ucciderlo già tre anni prima del suo insediamento a Palermo». Il procuratore ha ricordato anche la richiesta coraggiosa del generale Dalla Chiesa di assumere poteri di coordinamento avendo compreso la necessità di «far convergere contributi diversi nella medesima direzione».
«A venticinque anni dall’efferato omicidio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente della polizia di stato Domenico Russo, avvertiamo con speciale intensità il valore del suo impegno al servizio delle istituzioni democratiche», scrive il Presidente della camera Fausto Bertinotti, in un messaggio al prefetto di Palermo Giosuè Marino. «Nella sua profonda adesione ai valori della costituzione repubblicana e nel rigore civile e morale che ne hanno segnato il difficile impegno contro il terrorismo e contro la mafia, la comunità nazionale continua a trovare un importante punto di riferimento cui debbono guardare con grande attenzione i giovani, i movimenti e le associazioni che con il proprio entusiasmo e la propria capacità di proposta animano l’azione di contrasto della società civile alla violenza della criminalità organizzata».
Dopo le celebrazioni nella Chiesa di Santa Maria Monserrato a piazza Croci è seguita la cerimonia di titolazione al generale Dalla Chiesa della caserma sede del Comando regionale carabinieri Sicilia. «Il generale Dalla Chiesa aveva senso dello Stato, spirito di giustizia, onestà e temperamento. E aveva un’istintiva generosità e profonda umiltà. È un’icona del nostro tempo che suscita rispetto e ammirazione non solo tra i militari dell’Arma» dice Gianfrancesco Siazzu, comandante generale dell’Arma dei carabinieri, che aggiunge «la signora Agnese Borsellino è la madrina della cerimonia». Agnese Borsellino è la vedova del magistrato Paolo, ucciso nella strage di via d’Amelio il 19 luglio 1992 a Palermo.
«Bisogna creare una mobilitazione generale di persone che sentano come decisiva la lotta alla mafia» dichiara invece il sottosegretario agli Interni, Alessandro Pajno durante la cerimonia. «Il cambio culturale di mentalità». In tal senso si muove la decisione di Confindustria, di espellere dall’associazione chi paga il «pizzo». «Si tratta di un passo importante» ha aggiunto Pajino. «Confindustria avrà il sostegno dello Stato. Le forme e i modi saranno esaminate e successivamente decise, ma il governo non lascerà solo chi ha capito che pagare il pizzo è un disvalore.
* l’Unità, Pubblicato il: 03.09.07, Modificato il: 03.09.07 alle ore 19.25
L’ufficio requirente di Caltanissetta riapre l’inchiesta sulla strage del 19 luglio 1992
Secondo gli inquirenti apparati deviati del settore informativo avrebbero avuto un ruolo nell’attentato
Borsellino, per la strage di via D’Amelio
la procura indaga sui servizi segreti *
ROMA - La procura della Repubblica di Caltanissetta indaga sul probabile coinvolgimento di apparati deviati dei servizi segreti nella strage di via d’Amelio in cui morì il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. La notizia è stata confermata all’agenzia di stampa ANSA da ambienti qualificati.
Il procuratore aggiunto, Renato Di Natale, coordina l’inchiesta sui mandanti occulti della strage avvenuta il 19 luglio 1992. Secondo l’ipotesi degli inquirenti ci potrebbe essere la mano di qualcuno degli apparati deviati dei servizi segreti che ha forse avuto un ruolo nell’attentato.
Questa pista di indagine, che in un primo momento era stata accantonata ed archiviata, è stata ripresa nei mesi scorsi dagli investigatori in seguito a nuovi input d’indagine.
I magistrati stanno valutando una serie di documenti acquisiti dalla procura di Palermo e che riguardano il telecomando che potrebbe essere stato utilizzato dagli attentatori. A questo apparecchio è collegato un imprenditore palermitano. I processi che si sono svolti in passato hanno solo condannato gli esecutori materiali della strage, ma nulla si è mai saputo su chi ha premuto il pulsante che ha fatto saltare in aria Borsellino e gli agenti di scorta.
Un altro elemento sul quale è puntata l’attenzione degli inquirenti, è "la presenza anomala" di un agente di polizia in via d’Amelio subito dopo l’esplosione. Si tratta di un poliziotto - già identificato dai magistrati - che prima della strage era in servizio a Palermo, ma venne trasferito a Firenze alcuni mesi prima di luglio dopo che i colleghi avevano scoperto da una intercettazione che aveva riferito "all’esterno" i nomi dei poliziotti di una squadra investigativa che indagava a San Lorenzo su un traffico di droga.
* la Repubblica, 17 luglio 2007
L’INCHIESTA.
Tornano in Sicilia i figli dei boss scappati negli Usa per sfuggire ai Corleonesi. E si riprendono il potere perduto
La riscoperta dell’America
nuovo fronte di Cosa Nostra
di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D’AVANZO *
PALERMO - Chi è Frank Calì, e perché tutti lo cercano? Quel nome - il nome di un siculo-americano - ritorna ossessivamente nelle "parlate" degli uomini di Cosa Nostra. Lo fanno a Palermo, lo ripetono nel New Jersey, lo bisbigliano a Corleone. Di Frank sentiremo ancora parlare, giurateci. Eppure, al Dipartimento di Giustizia, Calì non appare mai nei report sulle cinque "grandi famiglie" di New York, i Gambino, i Bonanno, i Lucchese, i Genovese e i Colombo. Soltanto poche, quasi distratte, righe in un dossier dell’Fbi. Più o meno un "signor nessuno" che deve avere però un potere invisibile o ancora sconosciuto, se negli ultimi tre anni per lo meno una mezza dozzina di "delegazioni" di mafiosi siciliani lo hanno raggiunto dall’altra parte dell’Oceano per discutere di "affari". Ma di quali affari? E, soprattutto, di quale portata e per quali progetti?
Questa è la storia, o meglio il primo paragrafo di una storia che soltanto il tempo potrà scrivere. Vi si rintracciano indizi di un prepotente risveglio di Cosa Nostra dopo un muto decennio di ibernazione. La mafia sembra volersi liberare dall’arcaicità violenta dei Corleonesi per ritrovare dalla Sicilia - come in un passato glorioso - ruolo e protagonismo sulla scena internazionale. Nelle loro casseforti ci vogliono mettere soldi, molti soldi. Non vogliono più cadaveri per le strade o "picciotti" nelle galere. A che cosa sono serviti il sangue, le bombe contro lo Stato, gli ergastoli che hanno umiliato le famiglie? A niente. Ecco perché adesso tutti cercano Frank Calì.
Del "signor nessuno" si può dire subito - per quel pochissimo che se ne sa - che è un uomo di rispetto della Famiglia Gambino designato per trattare, con i Siciliani, la nuova avventura. Se sono buone le intuizioni degli investigatori, i mafiosi vogliono ritornare ad essere brokers nel mercato illegale/legale mondiale. Frank Calì serve a tutto questo. È "l’ambasciatore" americano.
Frank Calì ufficialmente è un imprenditore della Italian Food Distribution a New York. Da almeno tre anni, gli agenti dell’Fbi lo vedono intrattenersi con vecchi trafficanti della "Pizza Connection".
E con giovani rampolli delle Famiglie palermitane, nati però negli Stati Uniti. E con gli emissari di Bernardo Provenzano e Totò Riina, i Corleonesi. Un’agenda di incontri che mette insieme amici e nemici di antiche guerre e di mai dimenticati stermini, tutti a far la fila da Frank Calì. L’elenco è lungo. Da lui vanno in più occasioni Nicola Mandalà e Nicola Notaro della Famiglia di Villabate, Gianni Nicchi della Famiglia di Pagliarelli, Vincenzo Brusca della Famiglia di Torretta. Ma forse la traccia più rilevante per capire che cosa sta accadendo è nelle triangolazioni telefoniche tra le utenze di Calì e i cellulari degli uomini di Salvatore Lo Piccolo, ricercato da 27 anni, oggi al primo posto della lista dei latitanti dopo la cattura di Bernardo Provenzano.
Il suo "scacchiere diplomatico" non è stretto alla Sicilia. Un rapporto congiunto dell’Fbi e della Royal Canadian Mounted Police svela "i legami tra Frank Calì, Pietro Inzerillo e i membri del cartello criminale "Siderno" della ’ndrangheta". Alla sua corte ci sono proprio tutti, dunque. È la circostanza che spinge Fbi e Polizia criminale italiana a lavorare insieme, a scambiarsi informazioni e analisi come negli Anni Ottanta, quando Giovanni Falcone faceva squadra con il procuratore distrettuale Rudolph Giuliani. Si preparano a fronteggiare il nuovo piano di Cosa Nostra: la riscoperta dell’America. Con inaspettati protagonisti. Con nomi che, soltanto fino a qualche anno fa, a Palermo non si potevano nemmeno pronunciare.
***
Sono tornati gli Inzerillo. Erano stati massacrati dall’aprile del 1981 all’ottobre del 1983 dai Corleonesi. "Di questi qua - disse Totò Riina - non deve rimanere sulla faccia della terra nemmeno il seme". Morì Totuccio, il rispettato capo di Passo Rigano, e poi morì suo figlio Giuseppe. Morirono in ventuno. Fratelli e zii e nipoti e cugini. Molti scomparvero afferrati dalla "lupara bianca", un impero di 27 società di riciclaggio rimase senza padroni. La scia di sangue si interruppe soltanto con l’intercessione dei parenti di Cherry Hill. Uomini potenti. Allora i più potenti d’America come Charles Gambino. Trattarono una resa senza onore. La Commissione siciliana pretese che gli Inzerillo avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più nell’Isola. Mai più. E’ la regola che dettò la Cosa Nostra di Totò Riina. Allora fu nominato, e lo è ancora oggi, un "responsabile" del rispetto di quel patto. Si chiama Saruzzo Naimo. Ma le regole, in Cosa Nostra, esistono per essere violate e interpretate per gli amici e applicate per i nemici. Così alla spicciolata gli Inzerillo sono rientrati a Palermo. Abitano tutti nella loro borgata di nascita, a Passo di Rigano.
E’ tornato Francesco Inzerillo, figlio di quel Pietro che l’Fbi e la polizia canadese "vedono" sempre con Frank Calì. E poi Tommaso Inzerillo, cugino di Totuccio e cognato di John Gambino, il figlio del vecchio Charles. E un altro Francesco, fratello di Totuccio. Espulso come "indesiderato" dagli Stati Uniti è tornato Rosario, un altro fratello di Totuccio. E’ rientrato Giuseppe, figlio di Santo, ucciso e dissolto nell’acido solforico. Soprattutto è tornato l’unico figlio ancora vivo di Totuccio, Giovanni, nato a New York nel 1972, cittadino americano. A lui è toccato riaprire dopo venticinque anni la casa di via Castellana 346. Insieme a loro, sono riapparsi in città gli Spatola dell’Uditore, i Di Maggio di Torretta, i Bosco, i Di Maio, qualche Gambino. Insomma, quell’aristocrazia mafiosa che i contadini di Corleone avevano spazzato via con "tragedie", tradimenti, agguati. A Palermo gli Inzerillo hanno ricostituito la loro Famiglia. Con quale "autorizzazione"? Con quali appoggi? Con quali garanzie e impegni?
Se la questione è un enigma per gli investigatori, impensierisce ancora di più alcuni alleati palermitani dei Corleonesi che erano stati in prima fila, nella strage degli Inzerillo. La preoccupazione diventa apprensione quando, nei viaggi in America, scoprono che accanto a Frank Calì c’è sempre un Inzerillo. A New York come a Palermo, per uscire dall’isolamento e pensare finalmente alla grande, bisogna fare necessariamente i conti con "quelli là" e le loro influenti parentele d’Oltreoceano.
***
Nelle ultime intercettazioni ambientali - una vera miniera di inaspettate informazioni - "il discorso dell’America" è un tormentone tra i mafiosi. Riserva un punto di vista inedito su Cosa Nostra. Liquida ogni lettura convenzionale. Cosa Nostra non è il quieto monolite governato con i "pizzini" dalla furbizia contadina del vecchio Provenzano né è attraversata, come pure si è sostenuto, da una frattura territoriale e culturale. Da un lato, i contadini e i paesi di campagna. Dall’altra, i cittadini, la grande città, le borgate. E’ invece un mondo smarrito e, al tempo stesso, eccitato dalle nuove opportunità. Ora, come per un riflesso condizionato, tentato di mettere mano alla pistola per eliminare ogni irritante contraddizione; ora convinto di dover cercare, senza sparare un colpo, compromessi per far valere la sola ragione che tutti può entusiasmare: fare i piccioli. Fare i soldi. Gli esiti della contesa sono del tutto imprevedibili. Nei prossimi mesi, la guerra ha la stessa possibilità di scoppiare quanto la pace. Chi lavora, con ostinazione paranoide, a una nuova contrapposizione si chiama Antonino Rotolo. E’ il capomandamento di Pagliarelli. Basta ascoltare quali erano i suoi argomenti qualche giorno prima di finire in galera.
"Questi Inzerillo - dice Rotolo ai suoi - erano bambini e poi sono cresciuti, questi ora hanno trent’anni. Come possiamo, noi, stare sereni... Se ne devono andare. E poi uno, e poi l’altro e poi l’altro ancora... Devono starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in Italia li ammazziamo tutti. Come possiamo stare, noi, sereni quando io per esempio - l’ho detto e lo ripeto - so di un tizio che dice a uno dei figli di Inzerillo: "Non ti preoccupare tempo e buon tempo non dura sempre un tempo"... Noialtri non è che possiamo dormire a sonno pieno perché nel momento che noi ci addormentiamo a sonno pieno, può essere pure che non ci risvegliamo più. Alzando la testa questi, le prime revolverate sono per noi. Vero è... Picciotti, non è finito niente. Gli Inzerillo, i morti, li hanno sempre davanti. Ci sono sempre le ricorrenze. Si siedono a tavola e manca questo e manca quello. Queste cose non le possiamo scordare. Questi se ne devono andare, punto e basta, non c’è Dio che li può aiutare... Ce ne dobbiamo liberare e così ci leviamo il pensiero... Per il bene di tutti, noi questo dobbiamo fare. L’avete capito o no che quello, Lo Piccolo, li utilizza già gli Inzerillo? Questa storia non finisce, non finirà mai...". Antonino Rotolo affronta con Alessandro Mannino, nipote prediletto di Totuccio Inzerillo, "il discorso dell’America". Senza giri di parole, in modo brusco.
Gli dice: "Tu sei il nipote di Totuccio Inzerillo il quale, con altri, senza ragione alcuna sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma a loro nessuno gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci hanno trovato. Peggio per loro. Non siamo stati noi a cercarli. Così si è creata questa situazione di lutti e di carceri. La responsabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e se ci sono carcerati. Quindi io ti dico che non c’è differenza tra voi, che avete i morti, e le famiglie che hanno la gente in galera per sempre, perché sono morti vivi. Quindi, i tuoi parenti devono rimanere all’America, devono rimanere sempre reperibili. Ai tuoi parenti garanzie non ne può dare nessuno. I tuoi parenti se ne devono andare e ci devono fare solo sapere dove vanno perché noi li dobbiamo tenere sempre sotto controllo".
***
Anche Antonino Rotolo ha spedito a New York il suo fidato "messaggero", Gianni Nicchi, giovane e "sperto". Al rientro dalla missione, si fa raccontare e quel che ascolta non gli piace. Rotolo, se sono sincere le sue parole, non si fida delle promesse di Frank Calì. Crede che siano soltanto "chiacchiere" per restituire Palermo agli Inzerillo. I suoi sospetti lo isolano dentro Cosa Nostra. Salvatore Lo Piccolo - il suo competitore nelle borgate - ha già chiuso l’accordo con gli Americani. L’ago della bilancia è Provenzano. Però anche a Provenzano fa gola riallacciare i rapporti con i suoi antichi nemici e ritrovarseli dopo un quarto di secolo al suo fianco. Negli ultimi mesi della sua latitanza, finita l’11 aprile del 2006, mette in moto tutta la sua sapienza ambigua. In un rosario di "pizzini" inviati ai suoi, finge di non sapere che gli Inzerillo sono già tutti a Palermo. Minimizza la rilevanza di quel ritorno. Quando gli capita, consiglia di accoglierli "se vogliono passare il Natale con i loro parenti" o se devono scontare scampoli di pena in Italia, una volta espulsi dagli Stati Uniti. E’ l’abituale inganno "corleonese". In realtà, il lavorio di mediazione con gli Americani è l’ultima grande fatica del Padrino di Corleone.
Da due anni, "il vecchio" si adopera per il recupero totale alle fortune di Cosa Nostra degli Inzerillo, soprattutto dei loro legami con la mafia americana. Nicola Mandalà è l’uomo più fidato dell’inner circle di Bernardo Provenzano. Lo aiuta a farsi operare alla prostata in una clinica di Marsiglia. Fa due viaggi a New York per incontrare Frank Calì e Pietro Inzerillo. E’ possibile che Mandalà, generosamente finanziato con 40 mila dollari a trasferta, abbia fatto tutto questo senza un mandato di Provenzano? Un altro "contadino" di Corleone va in America. E’ quel Bernardo Riina che sarà poi arrestato come "ultimo anello" che conduce i poliziotti nel rifugio di Montagna dei Cavalli. Bernardo Riina costituisce una società a New York insieme a suo figlio nel gennaio del 2006. Appena cento giorni prima della cattura del suo Padrino. E’ il ponte lanciato dalla Sicilia all’America. E’ un capovolgimento di schemi e di logiche dove i Corleonesi - dati per spacciati dopo l’arresto dei suoi rappresentanti più famosi - non solo non stanno abbandonando i posti di comando di Cosa Nostra ma, al contrario, provano a penetrare un altro mondo: gli Stati Uniti. Il personaggio chiave è, dunque, il nostro misteriosissimo Frank Calì che distribuisce Italian Food su tutta la costa atlantica. Ancora più misteriose, al momento, sono le occasioni economiche e finanziarie che le due mafie prevedono di cogliere insieme. Tempo e buon tempo non dura sempre un tempo. Cosa Nostra si prepara alla sua nuova stagione.
* la Repubblica, 12 luglio 2007
La democrazia è che i generali vanno a casa
di Raniero La Valle
Riceviamo da Enrico Peyretti questo articolo di Raniero La Valle della rubrica “Resistenza e pace” che uscirà su Rocca (rocca@cittadella.org ) del 15.06.07 *
Resistenza e pace
Si può salvare la Repubblica? Le istituzioni tengono, ma lo spirito è debole. Ciò che è accaduto con la vicenda Visco-Speciale e con la fallita “spallata” al governo Prodi, ha fatto accendere un segnale di allarme rosso. Altre volte la Repubblica è stata in pericolo, per Servizi deviati, generali golpisti, stragi di Stato, oscuri giochi delle parti tra Brigate Rosse e ceti politici antimorotei; abbiamo avuto perfino un capo dei contrabbandieri al comando della Guardia di Finanza e un vertice della magistratura ridotto a un porto delle nebbie; ma il gioco politico che si svolgeva alla luce del sole era formalmente corretto, la cultura democratica era fuori discussione, l’opposizione rispettava le regole e la coscienza pubblica era sana. È grazie a ciò che delle grandi emergenze democratiche sono state superate con relativa facilità, e di alcune si è perso perfino il ricordo.
Ma ora è la politica stessa, nelle sue espressioni quotidiane e pubbliche, che si è trasformata in un gioco al massacro; le rappresentazioni serali del confronto politico traboccano di odio, sete di vendetta, disprezzo per l’avversario; un distinto signore come l’ex democristiano D’Onofrio tratta beffardamente il ministro Padoa Schioppa in Senato come un minorato psichico, come un ignorante della Costituzione e come un intruso al palazzo. La percezione che lo schieramento battuto alle elezioni ha del governo legittimo del Paese, è che si tratti di una banda di usurpatori; il loro imperdonabile delitto, ogni momento additato alla esecrazione degli “Italiani”, è che, approfittando di un attimo di distrazione di Berlusconi o di qualcuno dei suoi elettori ed alleati, essi abbiano rubato il potere all’unica parte politica sana del Paese, designata a governarlo per diritto divino; e poiché per meglio gestire il potere destra e sinistra hanno creato un sistema in cui il conflitto politico non si può più dirimere attraverso le procedure parlamentari e il Parlamento non è più il luogo dove si formano e cadono i governi, l’unico assillo dell’opposizione, l’unico suo discorso politico, l’unico suo contributo al dibattito pubblico è del come si possa abbattere il governo a spallate, come lanciargli contro veleni e dossiers, come mobilitare la piazza e inventarsi scioperi fiscali e insomma come ristabilire, con le buone o con le cattive, la normalità di un governo della destra.
In quest’ultima occasione, l’uso di una testa d’ariete come il comandante della Guardia di Finanza contro l’esecutivo e in particolare contro il titolare della lotta all’evasione fiscale, è stato francamente eversivo. Se il ministro Padoa Schioppa non avesse finalmente rivelato quale era il punto politico della contesa, il governo non avrebbe meritato di sopravvivere, per questa sua incapacità di motivare e far capire perfino le cose buone che fa. E il punto politico era che la separazione dei poteri riguarda solo l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, e che non esistono altri poteri o corpi separati che possano rivendicare una loro autonomia, e tanto meno le Forze Armate che sono tenute per legge a conformarsi ai principi democratici della Repubblica; e che se esiste un conflitto tra un generale e il governo, o va via il generale o va via il governo; ma se va via il governo non siamo più in Italia e in Europa, bensì in una “repubblica delle banane”.
Ora il vero problema è come mettere in sicurezza la Repubblica, come evitare che attentati e rischi di questo genere possano ripetersi. È inutile fare appello a un ammorbidimento del clima politico, al senso dello Stato dei protagonisti e almeno all’educazione degli eletti (si fa per dire) ai seggi parlamentari.
La salvezza delle istituzioni non può dipendere dal ravvedimento dei singoli. Occorre reintrodurre delle garanzie oggettive: una governabilità che non significhi l’inamovibilità dell’esecutivo per l’intera legislatura, un Parlamento che riacquisti il suo ruolo come fonte e limite del potere di governo, un’opposizione che sia vincolata all’obbedienza alle leggi della democrazia e al rispetto delle persone (la immunità dei parlamentari riguardo alle opinioni espresse nell’esercizio del mandato non può estendersi alla licenza di insulto e di annientamento simbolico dell’avversario), una legge elettorale che produca una vera rappresentanza e che non trasformi una minoranza in maggioranza schiacciante, una regola del gioco che non costringa i partiti ad alleanze innaturali con forze dall’opposto sentire politico, una ripresa di autorità e dignità della politica che faccia venir meno quel vuoto che oggi è riempito dalla supplenza caricaturale dei media che mettono in scena la politica come spettacolo nell’arena di un set televisivo.
Soprattutto è necessario che il gregarismo di masse cui è stata tolta ogni seria informazione e cultura politica non venga elevato a rango costituzionale mediante l’instaurazione di un presidenzialismo irresponsabile e l’istituzionalizzazione del culto della personalità; e che lo stesso “criterio” del politico cessi di essere la contrapposizione col nemico, e torni ad essere il bene comune e l’interesse generale.
Raniero La Valle
* Il Dialogo, Mercoledì, 13 giugno 2007
2 giugno Festa della Repubblica: mettere in sicurezza la Costituzione *
di COORDINAMENTO REGIONALE TOSCANO
DEI COMITATI PER LA DIFESA DELLA COSTITUZIONE
Comunicato stampa
Il 2 giugno 1946 gli Italiani e, per la prima volta, le italiane elessero il loro Parlamento, che, chiudendo definitivamente la drammatica parentesi fascista, assunse il compito di scrivere la Costituzione della nascente Repubblica. Il testo, approvato a larghissima maggioranza da una assemblea pur composta da rappresentanti di forze politiche ormai appartenenti a fronti opposti degli schieramenti internazionali, entrò in vigore il 1 gennaio 1948.
Il 25 e 26 giugno 2006, a 60 anni di distanza, una larga maggioranza popolare, che ha superato gli schieramenti politici ed è composta da uomini e donne di generazioni successive, respingendo con il referendum costituzionale il tentativo di stravolgerne i contenuti, ha riconfermato di ritenere quella Costituzione il contratto fondamentale della nostra convivenza civile.
In questi anni le nostre società sono cambiate anche in modo allora imprevedibile per i Costituenti, ed è lecito pensare ad adeguamenti del testo originario che, rispettando l’impianto complessivo di un sistema parlamentare rappresentativo e nell’intento di proseguire nella realizzazione degli obiettivi incompiuti, tengano conto delle nuove esigenze. Non è però accettabile ignorare l’inequivocabile espressione di volontà uscita dal verdetto referendario dello scorso anno proponendo, in nome di una presunta migliore governabilità, formule che contraddicono o si allontanano dalla natura parlamentare della nostra democrazia.
Appare inoltre inquietante la disinformazione che circonda la proposta di referendum Guzzetta-Segni sulla legge elettorale, che ci riporterebbe alla mussoliniana legge Acerbo del 1925. La scorciatoia referendaria in questo caso, mentre sembra voler dare risposta alla ’crisi della politica’, fonde in realtà l’antipolitica e la tentazione di mortificare il ruolo del Parlamento per arrivare a modifiche alla forma di governo dello stesso tenore di quelle scongiurate con il risultato referendario dello scorso anno
A fronte del riaffiorare di proposte di riforma in senso presidenzialistico ed accentratore, i Comitati toscani per la Difesa della Costituzione, componenti del Comitato Nazionale ’Salviamo la Costituzione’ presieduto del Presidente Emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ritengono assolutamente indispensabile che il Parlamento proceda senza ulteriori indugi all’aggiornamento dell’articolo 138 della Costituzione, innalzando la maggioranza necessaria alle modifiche costituzionali e garantendo sempre la possibilità del ricorso al referendum, come peraltro previsto al primo punto del programma elettorale dell’attuale maggioranza di governo.
Solo così otterremo per tutti la garanzia che le ’regole del gioco’ democratico non possano essere modificate in base ad interessi contingenti da parte di maggioranze che possono non essere rappresentative della reale volontà popolare.
I Comitati invitano tutti, e in particolare i rappresentanti eletti dai cittadini nelle sedi istituzionali, a festeggiare quest’anno, unitamente alla Repubblica, la sua Carta fondamentale, frutto del lavoro e dell’impegno morale di uomini e donne che seppero mettere l’interesse del Paese al di sopra di quello delle singole parti, trovando un mirabile equilibrio fra libertà e doveri, principi ideali e strumenti giuridici.
Firenze, 1 giugno2007
(per il Coordinamento: Francesco Baicchi 348 3828748, del Comitato di Pistoia)
Articolo tratto da:
FORUM (57) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
* IL DIALOGO, Sabato, 02 giugno 2007
Il Partito dell’Oblio
di Gian Carlo Caselli *
La mafia è più forte dello Stato. Ne sono convinti i ragazzi del liceo «Giovanni Meli» di Palermo. Tantissimi (71,9%). Un po’ meno, ma sempre tanti (66,7%), se hanno partecipato al «Progetto educativo antimafia» recentemente organizzato dal Centro Pio La Torre. Pensano al voto di scambio e alle varie forme di connivenza o collusione in base a cui «lo Stato permette alla mafia di esistere». Qualcuno - c’è da scommetterci - proverà a scagliare il solito anatema (comunisti!), oppure cercherà di svalutare l’opinione dei ragazzi accusandoli di radicalismo, immaturità, superficialità... Si dà il caso, invece, che i ragazzi di oggi leggano (specie su internet) un sacco di roba, tanto da essere - spesso - ben informati. In ogni caso, la loro percezione della forza mafiosa e della debolezza dello Stato va confrontata con alcune vicende degli ultimi 15 anni (naturalmente mi riferisco ai fatti, non all’evaporazione di essi che la black propaganda cerca di contrabbandare). I fatti sono questi. La stagione di grande tensione seguita alle feroci stragi del 1992 ha determinato, anche fra i giudici, una crescita di attenzione alla complessità del fenomeno mafioso e alla sua non riducibilità esclusivamente alla cosiddetta «ala militare». Di qui l’apertura (anche) di procedimenti a carico di imputati «eccellenti» appartenenti alla borghesia politica, imprenditoriale e professionale (cioè a settori che da sempre, secondo le analisi più accreditate, hanno un ruolo centrale nella storia della mafia). Ovviamente non in base a teoremi politico sociologici ma a precise emergenze probatorie, valutate con serietà e senza timidezze. Le cosiddette «relazioni esterne» sono, infatti, lo specifico della mafia rispetto alle altre organizzazioni criminali. Se si indagasse soltanto sulla faccia «illuminata» del pianeta mafia, e non anche sulla sua parte «in ombra», si garantirebbe l’impunità al vero perno della potenza mafiosa.
Ma l’abbandono dell’antico, consolidato sistema (ammettere in teoria i rapporti fra mafia e politica per negarli poi nella prassi giudiziaria) non è stato indolore: pur di scongiurare il salto qualitativo nell’azione di accertamento dei legami e delle collusioni con Cosa Nostra, lo Stato (o, più esattamente, alcuni suoi rilevanti settori) ha preferito tirare il freno e si è così persa una grande occasione di vincere la guerra con la mafia. Le tappe di questa strategia rinunciataria sono note: la definizione della ricerca della verità come inaccettabile «cultura del sospetto»; l’accusa a pubblici ministeri e giudici di costruire teoremi per ragioni politiche; la delegittimazione pregiudiziale dei «pentiti» di mafia, intrecciata con l’insinuazione di un loro scorretto rapporto con gli inquirenti (diffusa già ai tempi del «pool»: chi non ricorda le ironie sul fatto che Falcone portasse cannoli a Buscetta?). Alla fine, si è inscenato un vero e proprio processo alla stagione giudiziaria che ha seguito le stragi del ’92, deliberatamente ignorando gli imponenti risultati investigativi e processuali ottenuti in questi anni. Il problema da risolvere (invece che i mafiosi ed i loro complici) sono diventati... i magistrati antimafia. E questo vergognoso andazzo continua tutt’ora, favorendo quella che Francesco La Licata, in un suo vecchio libro, ha chiamato la «cultura dell’amnesia» propria del «partito dell’oblio»: con sullo sfondo la «scelta del quieto vivere che storicamente sta alla base del successo di Cosa Nostra».
È difficile, allora, dire che i ragazzi del liceo «Meli» prendono cantonate se percepiscono in un certo modo i rapporti fra Stato e mafia. Forse non lo sanno, ma la pensano come uno dei più autorevoli storici della mafia, Salvatore Lupo, che spesso ha sostenuto esservi addirittura una «richiesta di mafia» nel nostro Paese, presente in parti della società civile, dell’imprenditoria, della politica, del sistema economico-finanziario e delle istituzioni. Al punto che, secondo Lupo, i positivi risultati nel contrasto alla mafia sono stati ottenuti non dallo Stato - che anzi avrebbe ampiamente ostacolato il lavoro svolto da altri - ma da esponenti, minoritari in tutti e tre in settori, dell’opinione pubblica, della politica e delle istituzioni (il che spiega perché tali positivi risultati siano fin qui stati non definitivi ma solo ciclici). Dunque, perché i ragazzi del «Meli» cambino idea, occorre che questa minoranza diventi finalmente maggioranza. Un traguardo, purtroppo, che non sembra vicino.
* l’Unità, Pubblicato il: 03.05.07, Modificato il: 03.05.07 alle ore 11.06
L’uomo che tolse la «roba» ai boss
di Francesco Forgione*
Due giorni fa, nella valle del Marro, nel cuore della piana di Gioia Tauro, una cooperativa di giovani che lavora sui beni confiscati alla potente famiglia mafiosa dei Piromalli, è stata saccheggiata, derubata dei trattori, perfino delle vecchie zappe e, ad opera compiuta, i bravi hanno saldato le due ante della grande saracinesca del magazzino. Quasi a dire, nel macabro simbolismo mafioso: per voi qui la porta è ormai chiusa.
Ma i giovani e i lavoratori al mattino sono rimasti a presidiare la loro nuova terra che, per alcuni di loro, rappresenta anche l’unica opportunità di lavoro. Alla fine, per quei mafiosi sarà un boomerang, nonostante questa intimidazione, quelle terre non torneranno mai più nelle loro mani.
Gli uomini delle cosche tollerano il carcere, subiscono l’ergastolo, convivono con la morte ma le loro ricchezze, i loro patrimoni, le loro terre, i loro soldi non vogliono che vengano toccati. Non possono accettare questo livello della sfida della democrazia e dello stato.
Per questo, più che per ogni altra cosa, 25 anni fa, la mattina del 30 aprile del 1982, Cosa Nostra uccideva il deputato e segretario regionale del Pci siciliano, Pio La Torre ed il suo collaboratore Rosario Di Salvo. Pio la Torre era stato il primo a capire che le mafie andavano colpite al cuore, nella loro capacità di accumulare ricchezza e di tessere relazione col mondo dell’economia e della finanza, in una fitta rete di coperture e collusioni politiche ed istituzionali.
Davvero non c’è niente di rituale in questo anniversario e nei momenti di riflessione che sta stimolando in tutta Italia. Pio La Torre è stato un militante e dirigente sindacale e comunista del suo tempo, protagonista di quella straordinaria e tragica stagione di lotte che, nell’immediato dopoguerra, vide il movimento contadino, il sindacato, i socialisti e i comunisti, impegnati nella costruzione di una democrazia che, in Sicilia, già dallo sbarco degli alleati, doveva scontrarsi con un blocco di potere dominante nel quale l’organicità dei rapporti tra la mafia, gli agrari e una parte delle classi dirigenti democristiane doveva segnare lo sviluppo della regione e il corso politico dei decenni successivi, per incidere anche sugli equilibri politici nazionali.
Già la strage di Portella della Ginestra, il 1 maggio del 1947, dava il segno a questo corso.
Sono gli anni nei quali, dopo l’assassinio di Placido Rizzotto, Pio La Torre va a Corleone a dirigere la Camera del Lavoro e le lotte al feudo. Anni nei quali, fino e dopo la riforma agraria, si consuma una strage continua di contadini, sindacalisti, capi lega, con la polizia di Scelba impegnata a depistare e a mandare in galera i dirigenti socialisti e comunisti di quelle lotte, La Torre tra questi. È la stagione nella quale già si salda l’intreccio tra la lotta alla mafia e le lotte sociali e democratiche. La Torre per tutta la vita - prima quando da deputato comunista fu l’autore della relazione di minoranza nella Commissione Antimafia nel 1976 e poi con il ritorno in Sicilia per dirigere il suo partito - tiene sempre ferma questa idea di lotta di massa, nella tessitura di una trama sociale e democratica che doveva prefigurare un diverso sviluppo del sud e un diverso modello di società. È sua la norma che ci consente di colpire le mafie nel carattere associativo, è soprattutto sua la grande intuizione dell’aggressione ai patrimoni e alle ricchezze dei mafiosi.
Per questo di La Torre continuiamo a parlarne al presente, ora serve una nuova volontà.
Dopo 25 anni, non possiamo rassegnarci al fatto che tra il sequestro di un bene mafioso e la sua consegna ad uso sociale passino tra 10 e 15 anni o che, dopo la confisca, i mafiosi continuino a vivere nei loro palazzi e a lavorare sui loro terreni. Bisogna intervenire e modificare la legge 109 del ’96. Separare le misure di prevenzione patrimoniale da quelle personali, per molti versi superate, è ormai maturo il tempo di normare la «pericolosità sociale dei beni, dei patrimoni e delle ricchezze dei mafiosi» e non solo, com’è oggi, dei soggetti criminali, per uniformare a questo principio l’intera legislazione di contrasto e occorre concentrare ogni sforzo sui flussi finanziari. Se le mafie muovono annualmente un fatturato di 100 mila milioni di euro e larga parte di questi entra nel circuito economico legale il tema della trasparenza dell’economia e del mercato diventa centrale. Dovrebbe esserlo anche per le imprese e la Confindustria ancora troppo mute. Invece, in questo momento i processi per riciclaggio in Italia sono solo 6. Nessuno fa la propria parte nel denunciare le operazioni sospette: banche, finanziarie, notai. Sono questioni che illustreremo al governatore Draghi, tra qualche settimana in Commissione Antimafia. Insomma, nella lotta alle cosche serve nuovo impulso.
La Politica deve riappropriarsi della sua centralità. A partire dalla formazione delle liste, dalla selezione degli eletti, che non possono avere alcun sospetto di collusione e dalla bonifica della pubblica amministrazione, dal più piccolo comune ai vertici della burocrazia, il vero tessuto connettivo di un sistema di potere nel quale si saldano gli interessi delle mafie, delle imprese e della politica. È questa la lezione di Pio La Torre che non potrà vivere senza una dimensione di lotta generale, di partecipazione, di ricostruzione di valori forti come quelli che lo videro protagonista, nei mesi precedenti la sua morte, di quello straordinario movimento per la pace contro i missili a Comiso. La Torre saldava l’impegno pacifista al contrasto alla mafia, pronta a trasformare la base di Comiso e gli appalti per la sua costruzione in un grande affare e denunciava che la Sicilia dei missili, nel Mediterraneo, sarebbe diventata l’incrocio per i traffici più oscuri ed illeciti, da quelli dei servizi segreti di tutto il mondo, a quelli di armi e di droga. Quel disegno andava fermato con un grande movimento di popolo. Proprio lui che si batté per adeguare il codice penale, che scrisse l’art.416 bis, lo strumento del contrasto giudiziario alle mafie, indicava come la lotta a Cosa Nostra potesse essere vinta solo fuori dalla aule dei tribunali, nella dimensione sociale delle lotte per la giustizia e la democrazia. È questa, ancora oggi, l’antimafia che dovremo far vivere quotidianamente con il nostro impegno e la trasparenza della politica e delle istituzioni.
*Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia
* l’Unità, Pubblicato il: 29.04.07, Modificato il: 29.04.07 alle ore 8.16
LETTERA CON MINACCE DI MORTE ALLA VEDOVA FORTUGNO *
LOCRI (REGGIO CALABRIA) - Una lettera contenente minacce di morte e’ stata inviata alla parlamentare dell’ Ulivo Maria Grazia Lagana’, vedova del vicepresidente del Consiglio regionale, Francesco Fortugno, ucciso il 16 ottobre 2005. La lettera e’ giunta stamani all’ abitazione della parlamentare, a Locri.
Nella lettera, realizzata con ritagli di giornale, c’e’ la scritta: ’’Ti controllo, smettila di agitarti, nessuno di potra’ salvare’’. Sulla busta c’ era l’ affrancatura della posta prioritaria e l’ indirizzo del destinatario. Subito dopo avere ricevuto la lettera, la parlamentare si e’ recata negli uffici del Commissariato di Siderno della Polizia di Stato per denunciare l’ accaduto. La vigilanza che la polizia effettua sulla parlamentare e’ stata subito rafforzata. Secondo i primi accertamenti, la lettera sarebbe stata spedita ieri, ma non e’ stato ancora possibile stabilire dove dal momento che sopra c’ e’ il timbro dell’ ufficio postale di Lamezia Terme dal quale passa tutta la corrispondenza spedita in Calabria.
* ANSA» 2007-04-28 15:21
LA STORIA, DURO COLPO ALLA MALAVITA SOTTO LA MOLE
La cosca del poker
C’era un patto tra mafia e ’ndrangheta. Decimati i padroni del gioco d’azzardo
di MASSIMO NUMA (La Stampa, 23/4/2008)
Sei boss del crimine organizzato in cella, centoquindici persone denunciate, cinque bische sequestrate. E’ la sintesi dell’operazione «Gioco duro», della sezione anti-racket della squadra mobile, coordinata dal capo, Sergio Molino, e dal responsabile dello Sco, il vicequestore Marco Martino (pm Maurizio Laudi, Onelio Dodero, Antonio Malagnino e Dionigi Tibone). Accusa, associazione per delinquere di tipo mafioso. Al centro, il business delle bische clandestine.
Indagine lunga, nata da un delitto avvenuto a Barriera Milano, vittima il gestore del night «Champagne», Vincenzo Casucci. Giustiziato dal racket perché, nel suo locale, si giocava ai dadi. Un danno per i club privé delle cosche. Uno sgarro pagato con il sangue. Da lì, anno 2001, passo dopo passo, parte l’indagine sulle bische, saldamente in mano alle famiglie calabresi e ai residui dei clan mafiosi siciliani. Siamo già nel 2006. Carte e dadi, un modo come un altro per far soldi, con meno rischi del narcotraffico e conseguenze penali quasi irrisorie. «Dunque - osservano i pm - un’importante e lucrosa forma di finanziamento per le organizzazioni malavitose di origine calabrese. L’attività ha consentito inoltre di verificare che i gruppi criminali dominanti nella zona di Torino gestivano le attività di controllo del gioco d’azzardo intascando decine di migliaia di euro».
I sei sono Giuseppe Belfiore, 52 anni; Aldo Cosimo Crea, 34 anni, e il fratello Adolfo, 37 anni, già detenuto a Bologna per una condanna definitiva per un’estorsione avvenuta a Torino; Antonio Samà, 40 anni; Natale Genovese, 53 anni; Alfonso Triggiani, 37 anni, detto «Tenerone». Sequestrati i circoli Ermitage, Euro 5, Fight Club, Billard Top e Number One. Gli indagati sono Renato Riccio, Giuseppe Possomato, Giuseppe Pace, Gianluca Arcadi, Michele Elmo e Raffaele Dragone.
Personaggi di altro profilo criminale, i Crea, finiti a Torino nel 2001 per sfuggire alla faida. In Calabria, a Locri, erano sfuggiti per miracolo a un attentato dinamitardo. Assieme a Giuseppe «Peppe» Belfiore, avevano costituito un «cartello» torinese. Belfiore assistito dal suo legale di fiducia, Carmine Ventura, ha fatto alcune «dichiarazioni «spontanee»: «Non sono un mafioso, non so nulla delle bische, sono in difficoltà economiche». Professione, assicuratore. Un mutuo da pagare per la sua casa di Airasca. Spesso in viaggio per l’Olanda, su una Porsche Cayenne intestata a un amico. Gli hanno trovato anche un catalogo di diamanti. Prezzi e caratteristiche delle pietre. Indirizzi di Amsterdam e Anversa.
Fu il pm Malagnino ad occuparsi, per primo, dei fratelli Crea. Che a Torino avevano trovato un ambiente ideale, per riorganizzare la cosca. Gente serie. Un lavoro di copertura, niente lussi. Al contrario dei soci torinesi, amanti di auto di lusso e vestiti firmati. E scarpe. Tante scarpe: «Hai l’armadio delle Hogan!», commenta la moglie di un boss, al cellulare.
Intrecci e amicizie ancora da verificare. L’indagine sulle bische è solo l’inizio. C’è la storia dello «Zio», Mario Ursini, costretto a lasciare Torino, incalzato dalla polizia. Lo seguono persino sino a quando lui, diretto a un bar dove deve ricevere soldi dai soci dei club; ha lasciato i cellulari nell’auto, parcheggiata lontana. Gli agenti lo sorprendono e lo «Zio» si arrende: «Adesso basta, me ne devo andare via». Insopportabile pressing.
Gente cauta. I Crea, nelle bische, non sono mai entrati. I colloqui di lavoro, solo sui marciapiedi davanti a casa. Telefoni spenti, camminando avanti e indietro. Per ore. Lontani da microspie, dalla rete delle intercettazioni.
Un blitz dietro l’altro. Al Billard Top di via San Paolo, la punta di diamante, i frequentatori hanno finto di guardare un film porno. Fiches e carte, nascoste anche nei calzini. Quindici grammi di cocaina, nella plafoniere di un neon. All’appello, mancano ancora gli usurai. Così il cerchio si chiude.