LA MOGLIE DI ...
di RENATE SIEBERT (UNA CITTÀ, n. 138, aprile 2006)
Se la donna della mafia ha assunto via via nuovi ruoli, economico, di relazioni e di collegamento con il carcere, non vuol dire che il potere mafioso, un potere totalitario fondato sul potere di vita e di morte, non resti fondamentalmente maschile. Forse i figli che, a differenza di un tempo, vanno a scuola e all’università, possono diventare il punto debole della catena mafiosa. I ragazzi di Locri. INTERVISTA A RENATE SIEBERT.
Renate Siebert è docente di Sociologia del Mutamento presso l’Università della Calabria. Ha pubblicato, tra l’altro, E’ femmina però è bella. Tre generazioni di donne al Sud, 1991; Le donne, la mafia, il Saggiatore 1994; Mafia e quotidianità, il Saggiatore 1996; Storia di Elisabetta, Pratiche Editrice 2001.
Qual è il ruolo delle donne nella mafia, hanno effettivamente del potere?
E’ un argomento oggi molto discusso. Io non credo si possa parlare di potere vero e proprio, questo almeno è ciò che mi risulta, anche da interviste fatte a magistrati sulla ‘ndrangheta in Calabria. Non condivido quindi la lettura che talvolta hanno fatto i giornali, soprattutto in passato, per cui la mafia sarebbe femmina, ecc. Io sono molto cauta su tutto questo filone. Qualche anno fa è uscito un libro, La grande madre mafia, che cercava appunto di analizzare la mafia in base a degli archetipi operanti nella società meridionale (e già su questo ho dei dubbi) per cui la madre diventa la figura sociale che, attraverso relazioni “malate”, distorte, trasmetterebbe ai figli lo stile mafioso. Vedere la donna come “cuore” della mafia, tra l’altro, è anche una forma di colpevolizzazione che io francamente trovo aberrante, perché se c’è un luogo in cui vige un dominio quasi caricaturalmente patriarcale quello è proprio la mafia.
Teresa Principato e Alessandra Dino, nel loro libro Mafia Donna. Le vestali del sacro e dell’onore, hanno elaborato piuttosto il concetto di “temporanea delega del potere”, affermando che le donne sono sempre più attive, soprattutto in questioni finanziarie, come la gestione dei patrimoni o la riscossione del pizzo, anche perché sono molto più scolarizzate che in passato (spesso sono diplomate e laureate) però sempre e soltanto sul piano della delega. Non mi risulta esserci un’organizzazione criminale capeggiata da una donna. Perlomeno i magistrati calabresi, Salvatore Boemi e altri, lo escludono. Da una donna un mafioso può accettare la mediazione, ma solo nella misura in cui essa fa da tramite, parla “a nome di”. Rimane sempre la moglie o la sorella di un capoclan in carcere, che da lì le delega le uccisioni.
Qualcuno ha parlato anche di un percorso emancipatorio per le donne della mafia...
Ne abbiamo discusso a un convegno a Palermo di qualche anno fa. E’ innegabile che negli anni passati alcune donne abbiano effettivamente assunto ruoli di rilievo all’interno della mafia, però da qui a dire che sono diventate “pari” agli uomini ce ne passa. E comunque se anche questa fosse la tendenza, mi sembra che sarebbe più il caso di quello che viene chiamato un processo di emancipazione “perverso”.
Rimanendo sulla questione emancipazione, le mie riserve nascono dal fatto che, se vogliamo prendere sul serio le parole, l’emancipazione ha sempre a che vedere anche con un processo di liberazione, non è puro attivismo o pura omologazione. Allora io sarei comunque molto restia a parlare di emancipazione in un contesto totalitario.
Fino adesso ho avuto la sensazione che, nella mafia, le donne siano non solo bene accette, ma che vengano proprio coinvolte già da molti anni nella gestione economica del potere. Dove mi sembra che il discorso cambi è quando si tratta del potere inteso come dominio, che pur essendo sempre abbinato a quello economico, lo trascende. Cioè il potere della mafia sta nella sua capacità di dare la morte. Ora sul “dare la morte” io credo che intanto gli uomini non si fidino delle donne perché pensano che non siano capaci (del resto le statistiche criminali lo dimostrano: le donne sono pochissimo assassine e moltissimo vittime di uomini assassini). Allora se il potere mafioso, storicamente, non è mera accumulazione di denaro, ma è un’altra cosa che, gratta gratta, è sempre legata a una forma di dominio antica, ancestrale, violentissima, questo chiama in causa un altro tema importante, che è quello del rapporto tra donne e violenza. Comunque, a me pare che, anche nei casi in cui si sono registrati episodi di prepotenza, aggressione, violenza femminile, questi avvenivano sempre all’interno di una condizione di subordinazione, casomai inconsapevole. Cioè non si può non vedere che in quell’ambiente le donne sono subordinate, che chi ha in mano il potere sono sempre e comunque gli uomini.
Tu, a proposito di mafia, sottolinei molto questa presenza di un duplice potere...
Sì, nella mafia c’è il potere economico e il “potere potere”, cioè il dominio, dove il potere economico è indubbiamente fondamentale, ma non è l’elemento ultimo. E’ proprio la natura di questo potere ciò che fa sì che la mafia non sia un’organizzazione criminale qualsiasi. E’ un potere che nasce da un’autoinvestitura, dal convincimento profondo di essere un’élite criminale che decide chi può vivere e chi deve morire. Badalamenti in teleconferenza l’ha sempre ribadito: “La giustizia sono io”. C’è proprio questo mettersi quasi al posto di Dio, l’euforia dell’uccidere, del dominare. Roberto Scarpinato, in un suo saggio, racconta che Francesco Marino Mannoia diceva: “Io prima di entrare in Cosa Nostra non ero nessuno, una volta affiliato tutti si piegavano a me”. Ecco, questo non ha prezzo.
Certo, è tutto supportato dalla ricchezza, ma, ripeto, è una ricchezza che ha come fine il dominio sul territorio, sugli altri, non è mera accumulazione di denaro; per capirci, la mafia non è la Fiat. Si spiega così, forse, la vita che faceva uno come Provenzano. Cosa lo spingeva? Il potere. Disgiunto, tra l’altro, dall’uso, quantomeno personale, della ricchezza, se è vero che viveva in una latitanza assai poco dorata. Eppure ha scelto e ha difeso quello stile di vita, almeno così pare, perché quell’autoinvestitura e quel potere non hanno prezzo.
C’è sempre la percezione che la società civile meridionale sia debole nella sua opposizione alla mafia...
Io penso che da fuori sia molto difficile capire cosa significhi la pressione della signoria territoriale. “Signoria territoriale” è una definizione di Umberto Santino, che sta a indicare un controllo totalitario sul territorio. Come ho detto, la mafia non è un’organizzazione criminale comune, che punta a singoli atti; ha a che fare con il senso di appartenenza, che coinvolge la comunità, la vita quotidiana di ognuno. E opera concretamente con l’angoscia che circola, col consenso estorto...
E’ una sorta di énclave totalitaria all’interno di una società che nelle sue strutture è invece democratica. Come convivano questi due elementi è molto difficile saperlo nei dettagli, però sarebbe interessante poter fare uno studio sulle reti d’interazione tra la società “normale”, con le sue istituzioni, la sfera pubblica, la scuola, ecc., e quell’altra “cosa” che vi si annida dentro, strumentalizzandola. E dove tutto è sospeso perché vige la pena di morte.
Ecco, in questa mediazione tra le due sfere, alle donne è demandato molto lavoro di tessitura di relazioni, di acrobazie, verrebbe da dire, per poter essere presenti sia nell’una che nell’altra sfera. La donna, poi, garantisce la facciata: gli abitanti di un quartiere sanno bene che lei è “la moglie di..”. Quindi la sua mera presenza, ribadendo la presenza dell’organizzazione criminale sul territorio, finisce per costituire l’affermazione del potere totalitario su quel territorio, anche se la donna, in prima persona, non riveste alcun ruolo codificato. Il vicinato osserverà delle regole e le riconoscerà un potere perché lei si porta appresso il potere del clan.
Non a caso, le donne hanno spesso scoraggiato la collaborazione. Ci sono state mogli che hanno gettato i vestiti del marito fuori dalla finestra, teatralmente, hanno fatto queste tragedie greche... Infatti i magistrati -almeno qui in Calabria me ne hanno parlato, ma credo valga anche per altre zone- sono terrorizzati nel momento in cui il mafioso pronto a collaborare chiede di parlare con la moglie prima di prendere la decisione formale. Perché quasi sempre dopo il colloquio si rimangia la decisione. E mi diceva un magistrato che in Calabria la ‘ndrangheta ha puntato molto su questo. Le donne hanno minacciato i mariti di non fargli vedere più i figli o di fare tabula rasa del rapporto coniugale. Questo ha avuto un effetto più forte che non le vendette trasversali.
Pare che un elemento determinante, in questa scelta, derivi dal fatto che la donna non accetterebbe la caduta di status e di tenore di vita conseguente alla decisione di collaborare con la giustizia. Mentre il mafioso si risparmia il carcere duro, la sua famiglia diventa più povera, con meno disponibilità di denaro, e questo incide nella scelta finale.
Però ci sono anche donne che hanno trovato il coraggio di testimoniare nei processi di mafia e, a volte, da accusatrici sono diventate accusate, non solo nei tribunali ma anche nel contesto di una città, di un paese...
Sì, è vero. In passato ci sono stati episodi di donne provenienti da ambienti popolari, magari non propriamente mafiosi, ma certamente collusi anche solo per prossimità di quartiere, che dopo aver deciso di testimoniare si sono trovate in un duplice isolamento: da una parte l’emarginazione della famiglia, dall’altra i giudici che non hanno dato loro credito, aderendo a quella sorta di senso comune sul ruolo arretrato, tradizionale della donna meridionale, che la vuole priva degli strumenti per sapere cosa sta facendo. C’è una famosa sentenza del tribunale di Palermo del 1983, contro tre mogli di boss, incolpate di essere attive nella gestione dei patrimoni in quanto prestanome, per evadere la legge La Torre. Ebbene, queste tre signore sono state tutte assolte con una sentenza, divenuta storica, in cui si dice che la donna siciliana è così tradizionale da non poter sapere ciò che fa quando firma una carta da prestanome. Ed è su questo senso comune che la mafia ha costruito la sua organizzazione.
Poi occorre fare dei distinguo. Ad esempio, ci sono state alcune donne di importanti capi mafiosi, diventati poi collaboratori di giustizia, che sono state molto abili nel contrattare la collaborazione. La moglie di Buscetta, per esempio, e anche un po’ la moglie di Calderone a Catania. E ce ne sono altri di casi del genere. In parte erano donne con un elevato livello di scolarizzazione, magari qualcuna non veniva da un ambiente mafioso.
Affrontiamo il tema della memoria. Le donne, le vedove, le figlie, forse sono state le uniche che l’hanno tenuta viva, che l’hanno posta come questione cruciale...
Sicuramente. La zona grigia costituita dalla collusione tra mafia e pubbliche amministrazioni ha spesso fatto sì che gli stessi servitori dello Stato uccisi non venissero ricordati. Ricordo la signora Costa: fece grandi battaglie ma non ci fu verso di scrivere la parola “mafia” sulla lapide. La vedova del giudice Terranova invece non potè mettere la lapide sotto casa, sul posto dove era stato ucciso il marito: tutto il codominio si rivoltò e la lapide venne collocata in un posto neutro lì vicino, mi pare una cabina elettrica, una cosa vergognosa. Su queste lapidi si sono scatenate delle vere battaglie: spesso la notte vengono distrutte e bisogna ogni volta rimetterle a posto. Insomma, una cosa brutta, perché la mafia, come strategia di dominio, non si limita a uccidere, ma cerca di annientare anche la memoria delle persone. Addirittura si accanisce contro i cadaveri: tira fuori persone già sepolte per bruciarle. Una pretesa di dominio davvero totalitaria. La mafia deve dominare il presente, il futuro e proiettare le ombre anche sul passato. Non deve rimanere fuori niente. In Meridione è stato molto forte il fenomeno delle donne sindaco. So che hanno avuto molti problemi per la disastrosa situazione economica e amministrativa dei comuni...
Beh, ad ogni modo le donne sindaco non ci sono più. E’ stato un fenomeno forte negli anni ‘90, all’epoca di Tangentopoli, quando la politica era diventata più cauta ed era tutto un po’ sospeso, ma ora è scemato notevolmente. Da quando i partiti sono tornati a prendersi tutto, le donne sono scomparse.
Negli anni ‘90, vuoi per Tangentopoli, vuoi per le stragi a Palermo del 1992, che avevano accentuato la repressione dello Stato, c’era una situazione assolutamente stagnante, tutto era fermo, i finanziamenti della Cassa del Mezzogiorno si erano interrotti di colpo, così, mentre la barca stava affondando sono state elette le donne. A volte erano donne di partito, altre volte rappresentanti della società civile, di associazioni e movimenti, in qualche caso erano anche andate a vivere altrove e sono state richiamate dagli amici. Sono state elette quasi tutte con liste civiche (era entrata in vigore la nuova legge elettorale dei sindaci) e non solo donne, ma anche giovani uomini, specie nei punti caldi, a Corleone, come a Lamezia, una città con una presenza mafiosa molto forte e di lunga data, o in comuni particolarmente compromessi, dove era stato persino sciolto il Consiglio comunale, come a Stefanaconi, dove è subentrata Elisabetta Carullo.
Hanno fatto quel che potevano, in condizioni spesso ostili, tra mille difficoltà, con comuni in dissesto, con immensi debiti, con un’abitudine anche della cittadinanza a non rispettare le leggi, per esempio non pagando le tasse o le multe, con un personale assunto chissà come in passato, quindi con un vero boicottaggio delle pratiche.
Tra l’altro nessuna di loro aveva intenzione di fare carriera politica, erano tutte donne che avevano altro da fare. E quindi non erano lì per chiedere a tutti i costi di essere rielette. Volevano solo svolgere il compito del quale la cittadinanza le aveva investite. Allora no agli investimenti nel cemento e basta, no alla retorica del posto di lavoro per un mese, ma parchi, verde, battaglie per la memoria, per i morti di mafia.
Tutte battaglie in un primo momento molto ben viste. Però il clientelismo funziona, nel senso che porta molto a pochi ma dà l’illusione di fare favori a tutti. E quindi perché pagare le multe o le tasse? E’ così che il grande entusiasmo iniziale in qualche caso è scemato e molte non sono state rielette. Alcune poi si sono trovate contro anche le liste dei propri partiti di riferimento perché considerate ingestibili, magari perché non si piegavano alla disciplina di partito, al quale il più delle volte non erano nemmeno iscritte.
Invece le associazioni femminili che si battono contro la mafia...
A metà degli anni ’80 era stata creata un’associazione di donne siciliane contro la mafia, composta non solo di vedove -anzi loro non amano essere chiamate così- ma anche di militanti anti-mafia, se così possiamo definirle, che su stimolo di alcune vedove, questo sì, in particolare Giovanna Terranova, avevano mandato una petizione all’allora presidente Pertini per una raccolta di firme per accelerare l’iter per l’approvazione della legge La Torre sul sequestro dei beni di mafia, legge che giaceva da tempo nel cassetto. Tra l’altro, è l’associazione che ha inventato tutto il lavoro di educazione alla legalità nelle scuole, perché la legge nazionale, se non erro, viene dopo la legge regionale, sia in Sicilia che in Calabria.
L’altra cosa fondamentale è che non hanno mai abbandonato le donne che testimoniavano. Per esempio, le due donne che hanno testimoniato al maxiprocesso, Vita Rugnetta e Michela Buscemi, sono state lasciate sole non soltanto da tutti i loro parenti e amici, ma anche dallo Stato (c’era stata una raccolta di fondi perché i familiari delle vittime potessero presentarsi come parte civile, però queste due donne erano rimaste escluse perché una delle prerogative per poterne usufruire era che le vittime avessero avuto la fedina penale pulita).
E’ intervenuta allora l’associazione, che è stata presente fin dall’inizio, le ha sempre accompagnate, anche durante il dibattimento. Perché l’aula, quando c’è un processo per mafia, è piena di parenti dei mafiosi, e trovare il coraggio di guardare in faccia l’assassino di tuo marito o di tuo figlio, e testimoniare: “Sì, è lui quello che ho visto...”, con tutta l’aula contro, in più avendo rotto con la propria famiglia, è molto pesante.
E’ facile sentenziare: “Ah, sono omertosi, non parlano, eccetera”. Ma qui c’è sempre una minaccia di morte, ed è una pressione seria, non è una cosa così. Perché poi quando sono accaduti fatti analoghi in Lombardia o in Toscana, dove la presenza della mafia e della ‘ndrangheta è forte, i cittadini mica hanno parlato!
Quale potrebbe essere una via d’uscita?
Mah, intanto occorre un’amministrazione pubblica decente, anzi, ancora prima un’amministrazione “per il bene pubblico”. Qui nessuno, o quasi, gestisce per il bene pubblico. E’ tutto privato. Ed è chiaro che nella gestione privata, la mafia è molto più avanti, più brava, più efficiente. Tranne che poi uccide. Sennò sarebbe un’ottima amministratrice.
Da parte dello Stato, invece, c’è una colpevole sottovalutazione del problema. Le risorse per le istituzioni diminuiscono sempre di più, in Calabria i magistrati ormai non hanno più nemmeno i soldi per la benzina.
Ma quando parlo di abbandono da parte dello Stato non mi riferisco solo alle parti, diciamo “infette”, parlo proprio di strutture e infrastrutture di una normale società. E’ possibile che un intercity, che peraltro ora hanno abolito, per andare da Bari a Reggio Calabria, 400-500 chilometri, impieghi dieci ore? Un treno così lo vorrei vedere sulla tratta Brescia-Milano. E però noi paghiamo un prezzo identico per chilometro. Ecco, è questa la presenza dello Stato qualificata che vorrei vedere. C’è un disprezzo del Mezzogiorno che parla anche attraverso questo tipo di cose.
Il problema di fondo, però, è la disoccupazione. So di dire una cosa banale, ma il problema è talmente grosso che è difficile capire anche solo da dove iniziare. In poche parole, credo che la mafia sia un datore di lavoro. E meno funziona l’amministrazione pubblica più la mafia, in maniera speculare, può presentarsi come quella che sa fare funzionare le cose. Ne deriva, ovviamente, che o si fa funzionare meglio la pubblica amministrazione, oppure la mafia continuerà a ricevere consenso. Ricordo, una volta, all’università, in un corso sulla mafia, una discussione con una studentessa che mi disse: “Se noi in un piccolo comune chiediamo l’erogazione dell’acqua almeno per tot ore al giorno e dopo una prima, una seconda e una terza domanda non otteniamo risposta, e poi va mio padre dal tal dei tali, che batte il pugno sul tavolo, l’acqua arriva immediatamente...”.
Credo allora che alla base ci sia soprattutto il mal funzionamento delle strutture amministrative o delle infrastrutture, tipo treni e affini. La mafia ti dà lavoro, ti paga e gestisce i servizi meglio dello Stato. Ed è diabolico il fatto che proprio la presenza mafiosa, inquinando le strutture amministrative, le faccia funzionare sempre peggio.
Hai parlato di una modalità di dominio quasi caricaturalmente patriarcale nella mafia. C’è un problema di identità maschile?
In effetti l’esasperata virilità, con la connessa messinscena di ferocia, tipiche della mafia, potrebbero derivare da un problema legato all’identità maschile. E non è un caso che chi è attirato dalla mafia sia quasi sempre uomo.
Comunque sono ipotesi, pur suffragate da testimonianze. Per entrare nella mafia bisogna dimostrare di essere capaci di uccidere. E di solito si viene scelti, non è che uno bussa ed entra. I ragazzini vengono avvicinati dopo un’attenta osservazione, e per entrare, per essere reputati adatti, devono appunto dimostrare di essere capaci di uccidere. Si inizia uccidendo un animale e poi si passa a un uomo. Dopodiché uccidere diventa un mestiere, una qualità professionale potremmo dire. E non si deve uccidere con piacere, non vogliono tipi sadici dentro l’organizzazione, anzi credo che ci sia stato un caso, in Sicilia, di uno che è stato eliminato proprio perché gli piaceva troppo uccidere. Perché uno così sfugge al controllo. No, qui siamo in presenza di un’etica professionale perversa in base alla quale si deve uccidere a sangue freddo perché l’uccisione è l’ultima ratio per l’imposizione di potere sul territorio. E allora, psicologicamente parlando, per esserne capaci, occorre un autocontrollo e un dominio sulle proprie emozioni tali da provocare un vero e proprio processo di anestetizzazione.
Ricordo un collaboratore di giustizia superprotetto, intervistato da un gruppo di psicologi dell’università di Palermo, che era stato un killer durissimo, aveva ucciso almeno una ventina di persone, e si lamentava di essere costretto a prendere ansiolitici perché, diceva, lì era pieno di albanesi e lui aveva una gran paura che gli entrasse un ladro in casa. E parlava sul serio. E non è l’unico che dopo la collaborazione ha avuto bisogno di aiuto psicologico -magari senza generalizzare, perché c’è anche chi lo fa per calcolo, per non andare in prigione- perché la riapertura delle emozioni deve essere un processo difficile, sconvolgente. Uno che fa il killer da anni e anni e si riduce ad aver paura del ladro, e ne ha una paura tale da dover prendere degli ansiolitici, ci parla di qualche cosa...
Ho saputo anche di un altro caso, in Sicilia, sempre in ambito di collaborazione: era un colletto bianco, cioè uno di quelli che vengono definiti appoggi esterni, per i quali non si può parlare di vincolo associativo perché è più utile che rimangano fuori, ma sono comunque mafiosi a pieno titolo. Era un imprenditore, mi pare, e raccontava di aver accompagnato al night un gruppo di affiliati, coi quali aveva continui rapporti di lavoro.
Era un night dove questo signore era ben introdotto e aveva presentato loro un sacco di belle ragazze, e commentava: “Io non li capisco, sono stati seduti tutta la sera attorno al tavolo, e non hanno nemmeno guardato tutte queste femmine. Parlavano monotonamente di chi avrebbero ucciso...”. E tutto questo dietro un paravento di virilità patriarcale. Non so, se lo dovranno pur raccontare che vivere così è una buona cosa...
Qualcuno parla anche dell’onore degli uomini di mafia. Non so, io sull’onore ci andrei cauta. Di onore ce n’è ben poco in quello che fa la mafia. E credo che su questo ci sia poco da illudersi. Forse questo alone di segretezza, questo presentarsi come onnipotenti, può attirare qualcuno con un’identità fragile, che si fa abbagliare da questa ostentata virilità. Una volta dentro, però, non si può più uscire. E poi sparano alle spalle e in questo non vedo un grande senso dell’onore.
Possiamo tornare al rapporto tra donne e violenza?
Premesso che non ne sappiamo molto (e questo al di là della mafia) certo è che le statistiche criminali affermano che il 95% della popolazione carceraria è maschile, non solo in Italia, e di quel 5% solo una minima parte è condannata per fatti violenti, di solito sono reati contro il patrimonio, furti nei grandi magazzini, ecc.
I tentativi di spiegazione sono vari, alcuni vengono anche dal movimento femminista, e riconducono questo fenomeno alla differente socializzazione delle bambine. Alla bambina viene inculcato che la sua vita è sempre a rischio, il corpo femminile è violabile, quindi non bisogna muoversi troppo, dopo una certa ora non bisogna uscire, né frequentare tutti quei luoghi dove si annida la violenza o la possibilità di essere aggrediti. Ne deriva una tendenza, non tanto alla passività, quanto all’evitamento del rischio. Mentre i maschietti si muovono di più, vengono incoraggiati diversamente.
Storicamente, poi, la devianza femminile viene spesso gestita in famiglia, o tuttalpiù psichiatrizzata, piuttosto che criminalizzata pubblicamente. Quante donne sono scomparse nei manicomi pur senza avere nessuna malattia? Casomai erano solo ragazze vivaci, che cominciavano a diventare troppo devianti rispetto alle norme, a dire “voglio questo, voglio quello”.
In Germania sono usciti diversi libri che si interrogano sul “tipo di violenza” femminile a partire dal ruolo delle donne sotto il nazismo. E’ questa, credo, la domanda da porsi all’interno del contesto mafioso, “è diverso o non è diverso l’essere violenti di uomini e donne in quell’ambito?”.
Le donne di mafia a quanto pare sono molto partecipi, molto attive, ma non compiono azioni violente. Trasportano armi, latitanti, fanno tutta una serie di transazioni, con la droga soprattutto, fanno il corriere, mettono a disposizione appartamenti per le riunioni, però è molto raro che arrivino a uccidere. Non a caso, come dicevo, rispetto al dare la morte, gli uomini non si fidano delle donne, ritengono che non abbiano la freddezza necessaria a uccidere familiari, bambini, ecc. E’ vero, invece, che purtroppo le donne sono spesso vittime di violenze pesanti e ripetute anche all’interno della loro famiglia, e che talvolta proprio questo ha portato alla collaborazione.
E i figli dei mafiosi? Spesso si dice che costituiscano il punto debole dell’organizzazione...
La questione intergenerazionale in ambiente di mafia è un problema duro, a volte doloroso, perché con l’affiliazione non viene affiliato solo l’individuo, ma l’intera famiglia, sulla quale si mette una sorta di ipoteca, perché è proprio questa a garantire all’organizzazione il suo tacito assenso. Questo rende particolarmente rigide le relazioni di autorità all’interno della famiglia. Nelle organizzazioni mafiose non ci sono mezze misure che io sappia, rispondere no a un’ingiunzione dall’alto comporta la morte.
Per questo la questione intergenerazionale in futuro rappresenterà un punto di cerniera estremamente importante, da tenere d’occhio, perché costituisce la forza dell’organizzazione, ma potrebbe diventare un punto di fragilità, di vulnerabilità. Perché, se nel processo di crescita da giovane ad adulto/a, uccidere simbolicamente il padre, in termini freudiani, è un passo quasi obbligato, nella mafia, dove non c’è molto spazio per muoversi autonomamente, questo passaggio diventa assai complicato. Quello è un mondo che sanziona ogni autonomia, e quasi sempre con la morte. Gli insegnanti che hanno in classe figli di noti mafiosi ci raccontano che il rapporto con questi bambini non è per niente facile.
D’altra parte, siccome la struttura parentale si sovrappone e si intreccia in modo così organico alla struttura organizzativa, e non esiste differenza tra privato e pubblico - è proprio in questo senso che la mafia è totalitaria - allora anche la relazione fra persone della stessa famiglia non è più una questione individuale, ma è sempre una questione di clan. Si è dentro anche non volendo perché l’organizzazione criminale si sovrappone alle relazioni familiari e di vicinato. Quindi non si sfugge neanche volendo, perché chi ti vive accanto vede e sa tante cose...
E’ un tema molto complicato. L’unico paragone che mi viene in mente è quello con i figli dei gerarchi nazisti. I figli si sono rivoltati contro i padri, però con molto dolore, con molta difficoltà. E comunque in quel caso era più facile perché il confronto è avvenuto dopo la fine del nazismo quindi non comportava nessuna minaccia di morte. Mentre qui ribellarsi a un padre di mafia è dura. In questo senso il confronto con le nuove generazioni sarà cruciale per il futuro.
Non so come si possa crescere in un ambiente dove c’è un controllo assoluto e quasi un obbligo di esprimere violenza. Ho però l’impressione che questo impoverisca la vita psichica. Dove tutto viene agito, i bambini vengono educati ad agire le pulsioni anziché sublimarle. E’ chiaro allora che parlare di educazione alla legalità a diciotto anni è troppo tardi, i processi di elaborazione mentale e psichica delle pulsioni devono partire molto prima, fin dalla scuola materna.
Parlerei un po’ del caso di Locri...
E’ stata un’esplosione non programmata, né prevedibile, che ha aperto una breccia importante. Me ne accorgo anche qui a Cosenza, mi arrivano moltissime richieste dalle scuole. E anche moltissime email su dove trovare illibro sulle donne e la mafia che ho scritto dodici anni fa e che è esaurito. Si è messo in moto qualcosa che era comeimpietrito. E poi c’era questa spontaneità dei ragazzi... Ho visto in televisione qualche incontro tra i ragazzi delle scuole di Locri e alcuni ragazzi di Roma. C’era questo bisogno di conoscersi, senza alcuna pregiudiziale, tipo “tutti quelli del Sud sono sotto la mafia”, che finisce per diventare una stigmatizzazione. Questi sono ragazzi “uguali”, anzi forse hanno una sensibilizzazione maggiore di un ragazzo di Brescia, perché sono cresciuti confrontandosi con un enorme problema collettivo.
La cosa più interessante è che sono venuti allo scoperto anche i genitori di questi ragazzi, dicendoci: “Noi avremmo voluto combattere ma non avevamo il coraggio”. Trovo importante che si tematizzi anche una dinamica tra le generazioni, che induca a riflettere come mai i genitori di questi ragazzi non sono stati in grado di fare nulla. Ogni volta che vado in una scuola nella Locride oppure a Reggio Calabria, incontro gente bravissima. Però, per quanto uno possa essere bravo, se vive in un contesto intrecciato così tragicamente, è molto difficile che riesca a cambiare le cose. Ecco, i fatti di Locri hanno intaccato il muro protettivo che ognuno nel suo piccolo si era costruito negli anni.
Renate Siebert, Le donne, la mafia, Il saggiatore, Milano 1994, Est, Milano 1997, pp. 464, lire 10.000.
Renate Siebert, Il razzismo. Il riconoscimento negato, Carocci, Roma 2003, pp. 172, euro 17,20.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IN NOME DELLA FAMIGLIA DI "MAMMASANTISSIMA" E DI "MAMMONA"
CHIESA, POLITICA, E ... "MAMMASANTISSIMA". INTERVISTA AL CARDINALE PAPPALARDO
MAFIA: LA CHIESA, L’ITALIA.... e W O ITALY. L’URLO DI KAROL J. WOJTYLA AD AGRIGENTO (1993)
Confesso, ero tentato di bloccare il film su mia madre.
Dopo lo sconcertante intervento di Riina junior a Porta a porta, complice Rai 1, pubblichiamo la lettera di Giovanni Impastato.
di redazione (100 Passi Journal, 11.04.2016)
Caro direttore generale della Rai, come lei certamente sa, mio fratello, Peppino Impastato, è stato barbaramente ucciso dalla mafia il 9 Maggio 1978. Dopo il film I Cento Passi di Marco Tullio Giordana, due anni fa sono stato coinvolto da Matteo Levi della casa di produzione “11 Marzo Film” nel progetto di una pellicola che avrebbe dovuto raccontare il coraggio di mia madre, Felicia Bartolotta che, con fierezza e tenacia, si è battuta contro tutto e tutti per ottenere verità e giustizia.
Il film dedicato a mia madre è stato realizzato ed è stato prodotto da una delle reti che stanno sotto la sua direzione, Rai 1, la stessa che nella trasmissione “Porta a Porta” ha messo in onda l’intervista del figlio di Totò Riina. Questo figlio che, a differenza di Peppino, di mia madre e di tutta la nostra famiglia, non rinnega un padre mafioso, anzi lo difende e nega ogni condanna pronunciata contro di lui.
Tutti conoscono, compreso lei, la storia del criminale al quale sono imputabili diverse stragi e le uccisioni di molti padri e figli innocenti. Ritengo inconcepibile che sia stata permesso di dare spazio a questa persona senza pensare alle conseguenze di un messaggio negativo e diseducativo soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Una messa in onda lontana anni luce dal “dovere di cronaca” e che può ricondursi piuttosto a un’operazione di basso livello editoriale per l’uscita di un libro che non merita di essere promosso e tanto meno dalla nostra tv pubblica.
Non penso - come sostiene Bruno Vespa - che sia questo il modo di conoscere o studiare il fenomeno. Ma è piuttosto un modo per far crescere l’audience al costo di calpestare la dignità di molte persone - come noi - che hanno pagato un prezzo altissimo con il sacrificio dei propri cari. Non si può giocare con il sangue delle nostre vittime cercando forzatamente lo scoop e destando la curiosità del pubblico con operazioni di cattivo gusto fino a mitizzare il mafioso.
Le confesso di essere molto in difficoltà, dopo quello che è successo, nell’accogliere con entusiasmo il film su mia madre, pur rispettando il lavoro e il valore del regista Gianfranco Albano, degli sceneggiatori Monica Zappelli e Diego De Silvia e di una straordinaria interprete come Lunetta Savino. E le confesso anche che tanto è stato il mio sconcerto in queste ore che ho pensato a una diffida alla sua azienda di trasmettere il film. Ma non permettere al pubblico di conoscere la storia di mia madre sarebbe come darla vinta a un’informazione malata di protagonismo che, pur di affermarsi, è pronta anche a calpestare il dolore dei parenti di tante vittime innocenti.
Le storie di mia madre, di Peppino, di tutti noi e di tanti altri, compresi quei figli delle mafie, che hanno fatto la scelta coraggiosa di rinnegare i loro stessi padri (una fra tutte Rita Atria), meritano di essere raccontate. Siamo noi la linfa di questo paese e, finché vivremo, lotteremo per sconfiggere il potere mafioso, a dispetto di questi indegni spettacoli che i media ci offrono.
Giovanni Impastato
Caro Falcone, come fummo ingenui Giuseppe Ayala
È difficile credere quanto di frequente mi capiti di pensare a Falcone. Non c’è niente da fare, mi manca. L’approssimarsi del 23 maggio mi espone, poi, ogni anno a tutta una serie di sollecitazioni che ancora di più marcano la sua assenza. Con il passare degli anni, oggi siamo a quindici, mi sono, così, accorto di un fenomeno che non mi aspettavo. A proposito di Falcone (ma anche di Paolo Borsellino) la memoria e i ricordi affiorano nella mia mente in modo diverso.
La memoria è un monolite. Imponente e definito. È l’eredità che il loro sacrificio ci ha lasciato.
I ricordi sono un’altra cosa. Sono personali. Riaffiorano puntuali, ma non sono sempre gli stessi. Prevalgono sempre di più quelli legati ai sentimenti, alle fragilità, alle delusioni. Alla incredibile tenerezza dell’uomo Falcone. Il fratello maggiore che un figlio unico si è trovato accanto per dieci, irripetibili anni.
Sarà, penso, questa la ragione per cui mi soffermo sempre più spesso a riflettere sulla solitudine che, a parte Francesca, fu la sua compagna più fedele e presente. Una solitudine pesante, non solo perché certamente non voluta, ma soprattutto perché sommamente ingiusta e immeritata. E, proprio per questo, assai difficile da sopportare. Ne posso dare testimonianza perché ne ho condiviso lunghi tratti.
I lettori la coglieranno nel prezioso libro di Giommaria Monti, che l’Unità si accinge a riproporre, il quale, non a caso, l’ha scelta come filo conduttore del suo racconto. Una solitudine determinata da un progressivo isolamento. Voluto certamente anche da chi era animato soltanto da pulsioni meschine, come l’invidia, la frustrazione e la gelosia per la sua inarrestabile crescita di notorietà (oggi si direbbe visibilità) e, quindi, anche di peso che finì con il renderlo un corpo estraneo in seno ad una corporazione che, infatti, al momento opportuno reagì. Era quella dei magistrati, concentrata nel garantire a tutti i colleghi certezze a prescindere dai meriti. Si avanzava in carriera a due condizioni: invecchiare e non demeritare. Una concezione davvero strana della meritocrazia. Ecco perché era scomodo.
Ma lo era anche su un altro fronte. Quello del potere tra virgolette che, salve le dovute eccezioni, mal sopportava un’azione giudiziaria che rischiava di scardinare consolidati equilibri elettorali, clientelari e affaristici. Un’azione, insomma, cinicamente ritenuta, un rischio che era assi pericoloso correre persino da parte di chi con la mafia aveva ben poco a che fare ma che di quel sistema campava. Burattini, certo, ma nelle mani dei «pupari» garanti degli interessi mafiosi ospiti del «Palazzo».
Si saldò, così, non un complotto, ma una convergenza di comportamenti e prese di posizione che di fatto lo isolò progressivamente. Nella quale finirono, ad un certo punto, per intrupparsi anche quelli che si accreditavano come schierati dalla sua parte, ma che pretendevano di più. I più sciocchi, certo, ma non per questo i meno dannosi. E, umanamente, tra i più spregevoli.
Non v’è dubbio, insomma, che «il più capace e famoso magistrato italiano fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni)». Non si tratta dell’opinione di un amico. Si tratta di una sentenza della Corte di Cassazione del 2004, anch’essa riportata da Monti nel suo libro. Leggere per credere. Il guaio fu che, naturalmente al di là delle singole volontà (tutte?), accadde esattamente quello che Giovanni aveva teorizzato nel suo colloquio con Marcelle Padovani. Queste le sue testuali parole: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».
Sono sicuro. In quel momento Falcone stava parlando di Falcone. E, come al solito, aveva capito tutto. Il gioco era diventato davvero troppo grande. E noi troppo ingenui. Il nostro era stato uno schema che ci sembrava talmente ovvio che lo davamo per scontato. Siamo la punta avanzata delle Istituzioni su uno dei fronti più decisivi per la crescita e la tenuta democratica del Paese. Facciamo bene il nostro lavoro. Portiamo a casa risultati sin’ora mai ottenuti. Lo Stato può vincere. La mafia può essere battuta. Potranno mai lasciarci soli? Ma figurati! E invece... Ma sì, ha proprio ragione il buon Mario Pirani: Falcone come l’Aureliano Buendia di Cento anni di solitudine che dette trentadue battaglie, e le perse tutte.
Giommaria Monti ha con intelligenza selezionato i documenti e le testimonianze più significative. Ne viene fuori anche un autentico campionario degno del più celebre titolo di Victor Hugo, I miserabili. Ha ricostruito un percorso. Inesorabile e drammatico. Ma anche utile, perchè risveglia un sentimento di cui, anche oggi, si sente un gran bisogno: l’indignazione. Che non è sterile se ci sollecita ad essere esigenti e a pretendere, per esempio, che non si ripeta più neanche la «disattenzione» di cui parla nella prefazione Luciano Violante. Su quella disattenzione, sorprendente eufemismo che rischia di ammantare ben altro, avrei molto da dire... non oggi. Intanto, come ho sempre fatto, alla «disattenzione» io continuerò a contrapporre ostinatamente la mia inguaribile indignazione. E la mia infinita tristezza.
* l’Unità, Pubblicato il: 20.05.07, Modificato il: 20.05.07 alle ore 14.15
Catania: la santa e gli assassini
di Claudio Fava *
Accadrà domattina, infallibilmente: i randellatori dello stadio Cibali, i fabbricanti di bombe carta, gli appiccatori di incendi, i «boia chi molla» urlati in faccia ai celerini riporranno i passamontagna in fondo all’armadio, s’infileranno nelle loro tuniche bianca lunghe fino ai piedi, prenderanno in mano ceri votivi al posto delle spranghe e così acconciati, con il viso devoto, accompagneranno sant’Agata patrona in giro per la città, come ogni 5 febbraio da che la memoria ci accompagna. Il tempo della vergogna e del lutto (un poliziotto scannato, cento feriti) sarà durato lo spazio di una notte, giusto il necessario per compilare dichiarazioni di sdegno e necrologi. Poi Catania tornerà alla sua beata irresponsabilità.
Non è un calembour: è il ritratto della mia città, la sua corda morale. L’idea cioè che esista un tempo per gli stadi e uno per i santi, che il poliziotto morto si possa seppellire, la piazza della battaglia ripulire dalle macerie e il giorno dopo ritrovarsi tutti fedeli, tutti cresimati, con lo sguardo ripulito, a sfilare dietro il fercolo della patrona. Fingendo di non sapere che quello stadio e quella santa, le botte e la processione fanno parte della stessa città.
Sarebbe stato un gesto bello e civile chiedere alla santa di rimanere in chiesa a vegliare anche lei questo povero morto. Sarebbe stato un gesto forte e carico di buon senso se il sindaco di Catania, il suo vescovo e le altre (come si usa dire in questi casi) “autorità civili e religiose” avessero deciso che non bastava sospendere la gara podistica e i fuochi d’artificio ma che, di fronte allo scempio e alla follia collettiva di venerdì notte, andava annullata ogni cerimonia religiosa. Anche per costringere questa città, così irriverente, così smemorata, a guardarsi per una volta allo specchio. Senza i paramenti del sacro. Senza i ceri e le candelore.
Invece s’è deciso che tutto continui: tanto, che c’entra la santa con il calcio? La santa non c’entra. I devoti, sì. Uno o due anni fa, tra i fedelissimi intabarrati di bianco ci furono anche pistolettate, e un tale rimase gambizzato proprio mentre i botti per la patrona coprivano quelli del revolver. Il giornali ne riferirono come d’un dettaglio, una cosa curiosa, pittoresca.
Ecco la tragedia: l’idea che questo spazio tra sacro e profano non debba mai essere riempito, che il mafioso possa scannare i picciriddi nelle botti d’acido e poi farsi la comunione in chiesa, che il tifoso possa sparare una bomba carta in faccia al poliziotto e il giorno dopo accompagnare la santa con la candelora del proprio rione. L’idea, insomma, che tutto si possa tenere perché tutto - in fin dei conti - è consentito.
Scriveva venerdì, alla vigilia della partita, il quotidiano locale che Catania è città «sperta». Ovvero si fa rispettare: sempre. Era il loro modo per presentare il derby, per sciacquarlo nei sapori di vecchie furbizie, il solito modo per risolvere tutto con il rumore di una risata. La città è fabbricata su questo tenace concetto di impunità, la nostra “spertezza”, la sana rivolta contro qualcosa d’altro: lo Stato, i suoi poliziotti, i suoi giudici, le sue leggi, le sue regole...
Il calcio non c’entra più, e nemmeno la rivalità tra Palermo e Catania che è una barzelletta, letteratura, cose da gattopardo. C’entra quest’idea malata che laggiù, nell’isola, tutto possa convivere, che tutto si tenga sempre sul palmo della stessa mano, botte e carezze, santi e assassini, spranghe e ceri votivi. In attesa che qualcuno trovi il coraggio per dire che la ricreazione è finita.
* l’Unità, Pubblicato il: 04.02.07, Modificato il: 04.02.07 alle ore 15.08