I MAFIOSI E IL PAPA AD AGRIGENTO
SI SENTIRONO COLPITI DA QUELLE PAROLE
di Giuseppe Savagnone (Avvenire, 21.06.2006)
Pagliarelli, Cruillas, Resuttana, Boccadifalco, Passo di Rigano, San Lorenzo, Partanna Mondello, Acquasanta, Altarello, Pagliarelli, Uditore... Sono nomi che non dicono nulla a chi non è nato a Palermo, ma che indicano altrettante borgate del capoluogo siciliano dove tutti i palermitani sanno quale potere abbia la mafia. La cattura, l’altra notte, di numerosi capi mandamento potrebbe essere un passo decisivo nella lotta contro questo potere.
A portare a questo risultato sono state la decifrazione dei famosi "pizzini" rinvenuti nel rifugio di Bernardo Provenzano al momento della cattura e le intercettazioni, sia ambientali che telefoniche, attraverso le quali gli investigatori sono riusciti a penetrare nella complessa rete di collegamenti tra i capi mafiosi. Grazie a quest’opera paziente è stato anche possibile portare alla luce l’organigramma di "Cosa Nostra": un capo, una triade che sostituiva la commissione provinciale - momentaneamente impossibilitata ad operare per lo stato di detenzione di quasi tutti i suoi membri -, i capi mandamento.
Impressiona l’organicità di questa struttura, pur dopo tanti colpi subiti dalla mafia negli ultimi anni. Ma, al tempo stesso, se ne avverte anche, finalmente, la vulnerabilità. Si può ben ritenere che allo stato attuale i vertici della criminalità organizzata siciliana - nella città che tradizionalmente ne ha costituito il cuore - siano stati colpiti e neutralizzati.
Certo, non bisogna illudersi. Proprio il fatto che la mafia abbia saputo riorganizzarsi, nel recente passato, dopo la cattura di Riina e di tanti suoi luogotenenti, costituisce un monito per chi volesse ritenere chiusa la partita. Altri subentreranno a riempire i vuoti creatisi con questi ultimi arresti. Ma i successi ottenuti dalle ultime operazioni di polizia dimostrano che ormai "Cosa Nostra" deve aspettarsi di avere vita difficile.
Un particolare importante colpisce, tra i dati emersi dalle registrazioni ambientali: il disappunto con cui i boss a tutt’oggi commentavano le forti parole pronunciate nel 1993 "a braccio" da Giovanni Paolo II contro la mafia nella valle dei Templi. La loro eco ritorna ancora alla mente: "Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, un popolo che ama la vita (...) non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole la civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Vita, Via, Verità e Vita".
Oggi scopriamo che questo grido non ha lasciato indifferenti uomini che pure trattavano con tanto cinismo di omicidi e prevaricazioni di ogni genere. E veniamo a sapere - dai «testimoni» più inaspettati - che gli interventi della Chiesa hanno contribuito a intaccare, in questi anni, il clima di perversa «solidarietà» che circondava e proteggeva, a livello sociale, l’organizzazione mafiosa. È un titolo di merito, ma anche una responsabilità. In una stagione in cui molti negano al Papa e ai vescovi il diritto di pronunziarsi sulle grandi questioni di etica pubblica, questa scoperta che viene dalle macerie fumanti della mafia evidenzia piuttosto che i pastori della comunità cristiana non possono e non devono tacere: per rispetto alla propria missione, ma anche a vantaggio del bene comune.
Si tratta di far comprendere meglio a tutti che il vangelo è una risorsa etica insostituibile della società civile e che le prese di posizione in suo nome, anche quando insistono su questo o quel punto, non intendono mai essere settarie, perché mirano invece a suscitare quella globale "civiltà della vita" evocata profeticamente da Giovanni Paolo II ad Agrigento. Dove la "vita" che la Chiesa ha a cuore e che continuer&a grave; a difendere ad ogni costo non è solo quella, come alcuni credono, degli embrioni o dei malati in coma irreversibile, ma di tutti i deboli come di tutte le vittime delle ingiustizie e della violenza, nel cui volto viene calpestato e vilipeso ogni giorno il volto stesso di Dio. E ciò non può comportare - come non l’hanno comportato le parole di Giovanni Paolo II contro la mafia - alcuna invadenza né alcuna mancanza di rispetto per la laicità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Testimone. Il giudice beato. Rosario Livatino tra Vangelo e Costituzione
Pregava per i mafiosi uccisi e si preoccupava di chi era in carcere. La testimonianza di uno dei killer convertito. Dai malviventi era considerato incorruttibile per il suo essere cattolico praticante
Antonio Maria Mira sabato 8 maggio 2021
Due date segnano la vita, breve ma intensa, di Rosario Livatino, il “piccolo giudice” che oggi nella cattedrale di Agrigento sarà proclamato beato, in quanto “martire in odio alla fede”. Il 18 luglio 1978, primo giorno da magistrato, ad appena 26 anni, scrive sulla sua agenda con una penna rossa: «Oggi ho prestato giuramento; da oggi sono in Magistratura».
Poi, a matita, aggiunge: «Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige». Costituzione e Vangelo. Ogni mattina, prima di entrare in tribunale ad Agrigento, andava a pregare nelle vicina chiesa di San Giuseppe. Sul comodino teneva la Bibbia, piena di appunti, e il Rosario, così come sulla scrivania in Tribunale accanto ai Codici. Fede e Giustizia. Con la maiuscola, come scriveva lui. Il 21 settembre 1990, come tutte le mattine, stava raggiungendo il tribunale da Canicattì, dove viveva coi genitori. Sul viadotto Gasena della statale 640 viene affiancato da una moto e una Fiat Punto che lo bloccano.
Dopo i primi colpi, tenta di fuggire nella scarpata ma uno dei killer della Stidda lo raggiunge e lo finisce. Ben sette colpi, l’ultimo sul volto come a dire: «Devi tacere per sempre».
Killer e mandanti sono stati individuati e condannati (ma secondo i suoi colleghi dietro ci sarebbe anche altro). Fondamentale fu la coraggiosa testimonianza di Pietro Nava, agente di commercio presente in quel momento, e che da allora ha dovuto cambiare nome e vita, lui e la famiglia, ma che ripete «lo rifarei ancora».
Uno dei killer, Gaetano Puzzangaro, in carcere si è pentito, testimoniando per la causa di beatificazione, a partire dalle ultime parole di Livatino: «Picciotti, che cosa vi ho fatto?». A ricordo c’è una stele con la scritta “A Rosario Livatino martire per la giustizia”, così come lo definì Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 dopo un incontro commuovente coi genitori del magistrato. E che poi lo portò, nella Valle dei Templi, a quel “grido del cuore”, come lo definì lui stesso: «Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!».
Il primo, e non l’ultimo, regalo di Rosario Livatino, magistrato di grande qualità ma anche di grande umanità. Rispettava gli imputati, anche quelli che si erano macchiati dei più gravi delitti. Per lui erano innanzitutto persone. Così quando entravano nel suo ufficio si alzava e stringeva la mano. Andava all’obitorio a pregare accanto al cadavere di mafiosi uccisi. E in un caldissimo Ferragosto andò personalmente a portare in carcere il mandato di scarcerazione per un recluso. E a chi si stupiva rispose: «All’interno del carcere c’è una persona che non deve restare neanche un minuto in più. La libertà dell’individuo deve prevalere su ogni cosa».
Coerente con quella frase, sempre trovata in una delle sue agende. «Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Soprattutto nel suo difficile lavoro. E i mafiosi lo sapevano benissimo, come si legge nel decreto di beatificazione. «Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di “Cosa nostra” Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile di Livatino, lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante». E inizialmente avrebbero voluto ucciderlo proprio davanti alla chiesa dove andava a pregare.
Persona semplice non amava, per carattere e per scelta, il palcoscenico. Mai un’intervista e pochissime foto. Ma non viveva da recluso né nascondeva le sue idee. Così fu segretario della sottosezione di Agrigento dell’Anm e impegnato nell’Azione cattolica. Il 21 agosto 1989 lascia la Procura ed entra in servizio come giudice a latere e si occupa dei sequestri dei beni mafiosi, tra i primi a applicare la legge Rognoni-La Torre che introduceva questa nuova forma di contrasto. E lo fa molto bene, confiscando anche i beni di boss del suo paese, gli stessi dove ora opera la cooperative che porta il suo nome. Davvero “il piccolo giudice” era un pericolo per gli interessi mafiosi.
Tutto il territorio agrigentino era scosso da una “guerra” di mafia, con centinaia di morti, che vedeva contrapposti i clan emergenti, gli stiddari, e “Cosa nostra”, che poi si allearono proprio per ucciderlo. Livatino indaga, assieme ai suoi colleghi, scopre l’organigramma della mafia agrigentina e non solo di questa (stretta la collaborazione con Falcone e Borsellino). Poi individua i legami tra mafia, grandi imprese e politica, locale e nazionale. Combatte chi deturpa l’ambiente, decenni prima che si parlasse di ecomafie. Sapeva di essere a rischio. Scrive in una delle agende: «Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni». E poi quasi implora: «Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori». Papà Vicenzo e mamma Rosalia ai quali lui, figlio unico, era attaccatissimo, proteggendoli. Non volle mai la scorta. «Non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia».
Sensibile e generoso, andava, in gran silenzio, dal suo procuratore capo a dire: «Dottore, quel fascicolo, con “quei nomi” lì, per piacere, non lo dia ai miei colleghi che sono sposati e hanno dei figli». Quei nomi erano pericolosi, e Livatino lo sapeva bene. Eppure girava con la sua utilitaria, una piccola Ford Fiesta color amaranto, riconoscibile da lontano. Unica protezione quelle tre lettere “S.T.D.” che scriveva in tutte le sue agendine, anche in quella che venne trovata nella scarpata dove aveva tentato di fuggire. Volevano dire Sub tutela Dei, un affidarsi al Signore ogni giorno, fino a quell’ultimo giorno.
La fede criminale
GLI affiliati alle ‘ndrine rinchiusi nel carcere di Larino hanno deciso di non partecipare più alla messa. Da settimane attuano una sorta di sciopero religioso.
DOPO la scomunica pronunciata da Papa Francesco per i detenuti è inutile - hanno detto al cappellano don Marco - andare a messa - È inutile quando si è stati esclusi dai sacramenti.
di Roberto Saviano (la Repubblica, 07.07.2014)
L’anatema di Bergoglio è giunto potente e inaspettato nelle carceri che ospitano gli uomini di ‘ndrangheta. Gran parte del mondo ha interpretato la scomunica come una mossa teologica, un’operazione morale fatta più per principio che per reale contrasto alle organizzazioni criminali. Un gesto morale considerato importante per dare una nuova direzione alla Chiesa ma che difficilmente avrebbe potuto incidere nei comportamenti dei padrini, degli affiliati, dalla manovalanza mafiosa. Quale danno avrebbe mai recato ad un boss una condanna metafisica che non ha manette, non ha sequestri di beni, non ha ergastoli ma che semplicemente esclude spiritualmente dalla comunità cristiana e dai suoi sacramenti?
Da queste domande era nata la diffidenza di molti che temevano che la presa di posizione del Papa contro i clan fosse inutile. Un gesto bello, nobile, ma innocuo. Ma non è così e la “protesta” dei duecento detenuti affiliati lo dimostra. Intanto è una prima volta, un unico nella storia criminale e non è affatto quello che potrebbe sembrare ad una prima lettura: ossia una semplice conseguenza della scomunica.
Quando si tratta di organizzazioni mafiose ogni azione, ogni parola, ogni gesto non può esser letto nel suo significato più semplice e elementare. Dev’essere inserito nella complessa grammatica simbolica che è la comunicazione dei clan. Questo sciopero della messa non parla ai preti, non parla alla direttrice del carcere, non parla nemmeno al Papa. Questo sciopero non dice: «Il Papa ci ha tolto la patente di cristiani, non possiamo più battere le strade della messa e della comunione ». Perché questo è falso.
Papa Francesco nel suo viaggio in Calabria ha fatto un gesto comunicativamente geniale, è andato a trovare i detenuti nel carcere di Castrovillari e ha detto loro «anche io sbaglio, anche io ho bisogno di perdono»: è in questa frase la vera forza della sua dichiarazione di scomunica. Non è contro l’uomo che in carcere appartiene all’organizzazione ma contro l’organizzazione. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa.
Quella degli affiliati non è quindi una sorta di protesta contro una Chiesa che ha abbandonato in contraddizione con il vangelo («ero carcerato e siete venuti a trovarmi») il conforto ai detenuti. È un manifesto. È una dichiarazione di obbedienza alla ‘ndrangheta, la riconferma del giuramento di fedeltà alla Santa. Questo sciopero è un gesto che deve arrivare all’organizzazione stessa. La scelta di andare a messa nonostante la scomunica avrebbe potuto far apparire gli affiliati sulla strada del tradimento, alla ricerca di quel nuovo percorso di pentimento che Francesco gli ha indicato.
Sottolineano: siamo scomunicati perché ‘ndranghetisti, e nessuna occasione simbolica è lasciata sfuggire dagli uomini dei clan per ribadire soprattutto dalle segrete di un carcere la loro fedeltà. Si sciopera contro la messa in questo caso per dichiararsi ancora uomini d’onore e non lasciare alcun sospetto di allontanamento dalle regole dell’Onorata Società. Quando ci si affilia la “santina” di San Michele Arcangelo viene fatta bruciare tra le mani unite e aperte a forma coppa e le parole pronunciate sono definitive: «In nome di nostro Signore Gesù Cristo giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche il mio stesso sangue».
La scomunica di Papa Francesco sta diventando un meccanismo in grado di alzare come un grimaldello le inaccessibili blindate che isolano i codici mafiosi dal resto della società civile. Bisogna insistere e agire, isolare quelle parti di chiesa saldate alla cultura mafiosa che ancora resistono, come dimostra quel che è accaduto sempre ieri a Oppido Mamertina, in Calabria, dove la processione ha reso l’omaggio alla casa di don Giuseppe Mazzagatti. Un “inchino” dovuto per non alterare un vecchio boss che ancora tiene (rispetto alle giovani generazioni) al vecchio rito e che - come in molti hanno lasciato trapelare - da decenni finanzia feste patronali e iniziative religiose nel suo territorio.
Nell’Italia della crisi i simboli contano come reale e spessa sostanza, non sono un orpello di facciata. Alla scomunica religiosa deve seguire una scomunica civile assoluta, che permetta l’esclusione del meccanismo mafioso dalle dinamiche quotidiane, economiche, sociali. Un’esclusione vera, radicale, definitiva.
Il patto dei mafiosi nel nome di Dio
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 26.03.2014)
COSÌ come esistono gli atei devoti, esistono anche i mafiosi devoti. Adorano sopra ogni cosa le processioni, e idolatrico è il loro culto di certe Sante, i riti di iniziazione a Cosa nostra. E le immaginette votive che l’affiliando brucia nel fuoco dopo averci versato sopra il proprio sangue: Roberto Saviano l’ha raccontato sabato su queste colonne. Fuoco, sangue, sacrificio: sono i segni, per l’eletto, di rinascita battesimale a nuova vita.
Contro quest’idolatria è insorto Papa Francesco, il 21 marzo, con parole sommesse ma durissime. Come già Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9 maggio ’93, ha chiamato alla conversione il malavitoso, prospettandogli l’inferno: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo all’altra vita». Francesco sa il rapporto antico, intenso, mimetico, che Cosa nostra ha con la religione. La sua invocazione non è diversa da quella che la Chiesa, nell’ultimo decennio, ha rivolto ai terroristi che abusano dell’Islam. Non pronunciare invano il nome di Dio: è uno dei primi comandamenti del Decalogo, l’ingiunzione fa ritorno.
Ancora più rivelatori delle parole sono i gesti di Francesco: l’abbraccio delle vittime di mafia, la mano tesa a Don Ciotti, il fondatore di Libera vissuto per anni ai margini della Santa Sede e finalmente chiamato a parlare accanto al Pontefice, venerdì nella chiesa di San Gregorio VII a Roma.
Il Papa ha ascoltato, assorto, rimproveri non leggeri: Ciotti ha incitato la Chiesa a non collaborare mai più con la mafia, a fare autocritica. Ha ricordato che, in passato, essa non ha curato un male di così enormi risvolti umani e sociali. Ha citato i momenti di luce (in particolare Don Pino Puglisi, Don Peppe Diana, Don Cesare Boschin, ammazzati nel ’93, ’94, ’95) e al tempo stesso i «silenzi, le sottovalutazioni, gli eccessi di prudenza, le parole di circostanza».
Ha anche nominato espressamente la Procura di Palermo, impegnata in uno dei più cruciali processi italiani - quello sui patti fra Stato e mafia - esigendo a voce alta che i «magistrati onesti non siano lasciati soli». Ha fatto il nome del più minacciato fra di loro: Nino Di Matteo, condannato a morte da Totò Riina e tuttavia nome incandescente, che i rappresentanti dello Stato si guardano dal menzionare. È un j’accuse pesante, quello di Luigi Ciotti. E l’ha lanciato nel cuore della Chiesa, sicuro d’avere a fianco la sua massima autorità. Forse è la più grande novità di questi giorni. L’Altra Chiesa, quella di Don Gallo e Don Puglisi, da periferia che era diventa centro.
Gian Carlo Caselli, presente alle cerimonie e poi alla marcia di Libera per la XIX Giornata della memoria e dell’impegno, ha detto una cosa importante: che la Chiesa parla alle menti se ha profeti, «e per un profeta non è difficile arrivare più in là della politica». È facile soprattutto in Italia, dove la politica s’inabissa nei silenzi elusivi, nelle smemoratezze.
Caselli lo ripete fin da quando, insediato a capo della Procura di Palermo, disse in un convegno della Chiesa di Sicilia, nel ’93: «È necessario analizzare le ragioni per cui rilevanti componenti della Chiesa (...) hanno potuto, e per molto tempo, sottovalutare la realtà della mafia, e conviverci senza articolare una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società ».
Se Falcone e Borsellino vennero uccisi con le loro scorte, fu «perché lo Stato, ma anche noi cristiani, noi Chiesa, non siamo stati sino in fondo quel che avremmo dovuto essere (...). Quante volte, invece di vedere il prossimo, ci siamo accontentati dell’ipocrisia civile e del devozionismo religioso». Già allora chiedeva al Vaticano uno scatto di responsabilità: lo stesso implorato venerdì da Don Ciotti. Lo scatto che tarda a venire nella politica. Antonio Ingroia, ex pubblico ministero a Palermo, osserva come manchi, nei primi discorsi di Renzi premier, ogni accenno alle procure minacciate. Come sia vasto, e voluto, il mutismo sul processo Stato-mafia (Huffington Post,3-3-14).
Cosa significa, a questo punto, il «convertitevi» ripetuto tre volte da Francesco, e prima di lui da Giovanni Paolo II? Cos’è precisamente il mutar vita, per chi si dice uomo d’onore? Alcuni libri essenziali sono stati scritti su Chiesa a mafia (da Alessandra Dino, “La mafia devota”; da Vincenzo Ceruso, “La Chiesa e la mafia”; da Letizia Paoli, ricercatrice a Friburgo, “Fratelli di mafia”) e sempre il nodo è la conversione. In una libera Chiesa che vive in un libero Stato il senso è chiaro, ma non sempre spiegato nella sua sostanza.
Conversione e pentimento non sono una pacificazione, un adeguarsi alle esteriorità di una fede. Nell’esteriorità il mafioso eccelle, e già Sciascia lo scriveva: il cristianesimo «consente a quelle esplosioni propriamente pagane». Convertirsi, come disse nel ’97 Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo dopo Pappalardo, «esige la detestazione sincera del male commesso, la volontà risoluta di non commetterlo più, di riparare i danni arrecati alle persone e alla società, rimettendosi alle legittime istanze della giustizia umana».
Pentirsi comporta un’accettazione delle regole della pòlis, distinte da quelle vaticane: un divenire cittadino. Implica collaborazione con i magistrati, perché se non si fa giustizia in terra il rimorso è vano. E implica, nella Chiesa, l’abbandono della doppiezza. È doppiezza quel che disse Padre Schirru contro i pentiti e le «pratiche della delazione», nel Giubileo del 2000. O la protezione offerta ai latitanti da innumerevoli parroci, le connivenze in cambio di favori.
È scandalo il vuoto che si creò in ambito ecclesiastico quando fu ucciso Don Puglisi. Il «convertitevi» concerne i mafiosi, e al contempo quella parte del clero che fu connivente per almeno quarant’anni, sino alla fine degli anni 80: proprio gli anni in cui fu complice Andreotti, secondo la sentenza in Cassazione del 2004 che lo assolse parzialmente, e confermando il reato di «concreta collaborazione » lo prescrisse soltanto.
La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta - lo è ancora - dalle esplosioni idolatriche dei mafiosi. Più volte, scrive Vincenzo Ceruso, i parroci non vedono contraddizione tra la loro appartenenza religiosa e l’essere affiliati di Cosa Nostra. Così come c’è stato uno Stato malavitoso nello Stato, c’è stata una chiesa del delitto nella Chiesa. Così come c’è stata una trattativa Stato-mafia (nelle ultime ore si riparla di trattative anche con le Brigate rosse, nel rapimento Moro), ci sono stati patti fra Chiesa e mafia.
Allo Stato Cosa nostra contende il monopolio della forza, alla Chiesa il monopolio religioso: «Molti religiosi hanno attuato una strategia analoga a quella dei rappresentanti dello Stato, alternando negoziazione e competizione, ma più spesso contrattando gli spazi del sacro» (Ceruso, ibid, pp. 203-4).
Nel dopoguerra la Dc contribuì a legittimare Cosa nostra. Dominante era la voce preconciliare dell’arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini: detrattore di Danilo Dolci e del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, ammiratore di Francisco Franco. Letizia Paoli fornisce i dati evocati nel processo Andreotti: tra il ’50 e il ’92 (anno in cui sono ammazzati Falcone e Borsellino) il 40-75% dei parlamentari Dc e il 40% degli eletti in Sicilia occidentale erano apertamente sostenuti dalla mafia. Su questo passato la Chiesa ancora tace. La conversione che rivendica non la coinvolge. Sono stati numerosi gli arcivescovi denunciatori, ma ancor più i preti complici non processati.
Forse lo scatto invocato da Ciotti (la «pedata di Dio») deve avvenire anche nella curia, e fin dentro le parrocchie. Altrimenti l’anatema profetico che viene dall’alto sarà, come dice Caselli: «acqua che scivola sul marmo».
Per capire come sia difficile separare la mafia dalla politica ecco la storia di quando Giovanni Paolo II (novembre ’82) è sceso in Sicilia per condannare con un discorso durissimo il fenomeno mafioso che "distrugge la società". Non si sa grazie a quali mani a condurre il Papa Mobile è stato incaricato Angelo Siino, detto Bronson, importantissimo uomo d’onore. Se la mafia si infila nella sicurezza del Vaticano figuriamoci come le riesca facile condizionare la politica della Libertà.
L’autista del papa era il “ministro delle finanze” di cosa nostra
di Elio Camilleri *
Il 21 novembre 1982, in una Palermo tristissima dove “la speranza dei siciliani onesti” era stata uccisa con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, arrivò Karol Wojtyla. Era la prima vota che arrivava in Sicilia e i cristiani buoni e onesti lo accolsero con gioia e si sentirono meno soli e meno disgraziati. Lui ebbe parole giuste, ferme e piene di coraggio per i malati dell’ospedale civico e per gli operai del Cantiere navale; era andato pure all’università per incontrare il corpo accademico e pure per i prof. trovò le parole giuste. Le cronache raccontano della visita alla comunità greco - ortodossa di Piana degli Albanesi e ai “terremotati” della valle del Belice.
Ma la cronaca è morta, diceva Benedetto Croce, e spira ogni giorno con le pagine del quotidiano che la riporta ed invece la Storia è viva ed essa ci pone alcune domande, ancora oggi, a distanza di tanti anni dal giorno di quella visita. Ma quanto era forte la mafia a Palermo nel !982? E chi comandava a Palermo? I Carabinieri o la Questura. E la Chiesa? E il Cardinale Pappalardo che appena un mese prima aveva pronunciato l’indimenticabile omelia di “Sagunto che brucia” quanto “contava” nell’organizzazione del viaggio del Papa? Chi ha gestito i trasferimenti del Papa, chi ha ritenuto di garantire la sicurezza di Wojtyla, che già il 13 maggio dell’anno precedente era stato raggiunto da due colpi di pistola sparati da Mehmet Ali Ağca? Chi ha scelto, in definitiva, l’autista della “papa mobile”? Chi ha permesso che la persona del Capo della Chiesa Cattolica fosse affidata, per tutto il tempo della visita a uno dei personaggi più importanti di Cosa nostra?. Sembra proprio incredibile, ma è così: l’autista di Karol Wojtyla fu Angelo Siino, detto Bronson, pilota di rally e ministro delle finanze e dei lavori pubblici di Cosa nostra, braccio destro di Bernardo Provenzano e dispensatore, per conto della Cupola, di appalti e tangenti, i primi per gli imprenditori “amici”, le seconde per gli “amici” politici. Naturalmente, Karol Wojtyla di tutte queste storie non ne sapeva niente.
(“Marca elefante non paga pizzo” è il libro di Tommaso Maria Patti che sarà presentato il 9 settembre alle 19,30 presso la libreria Tertulia di Catania. Interverranno Simone Luca, presidente di Addiopizzo, Marisa Acagnino, presidente di sezione al tribunale di Catania e l’autore del libro il quale ha già deciso di devolvere ad Addiopizzo Catania i diritti d’autore del volume. Giorgia Coco leggerà alcuni brani ).
Santità, ma quanto ci costa? *
Proseguono le polemiche su Papa Ratzinger a Palermo. ”Due milioni e mezzo di euro: questa è la spesa prevista per la visita del Papa a Palermo il prossimo 3 ottobre. Una somma spropositata per qualsiasi genere di evento, se si pensa agli enormi problemi della città e ai soldi che saranno sprecati per opere di cui non resterà nulla”. Lo afferma in una nota il Centro Impastato, intitolato all’esponente di Lotta continua ucciso dalla mafia nel ‘78. ”L’arcivescovo di Palermo Paolo Romeo - aggiunge la nota - ha polemizzato con chi ha fatto notare questo spreco di risorse pubbliche con riferimenti davvero sorprendenti: ‘Pensate a quanto si spende per le cene dei magistrati con scorta”’.
”Qualcuno si chiede - dice il presidente del centro, Umberto Santino - quale messaggio porterà il pontefice? Non c’è da fare nessuno sforzo di immaginazione. Ha cominciato da cardinale scrivendo un libro con Marcello Pera, entrambi alla ricerca dell’identità dell’Occidente, in nome di un cristianesimo da crociata permanente; ha continuato da papa rispolverando vecchi anatemi contro Maometto, per finire con il messaggio ai giovani in cui li ha invitati a mettere Dio al di sopra di attese terrene, come quella, ormai decisamente inattuabile su questa terra, di un posto fisso: in linea con i ministri Gelmini, e Tremonti e con Marchionne, seminatori di disoccupazione, precarietà e cassa integrazione”.
* http://www.livesicilia.it/2010/09/12/santita-ma-quanto-ci-costa/
Agrigento, il presepe è senza i Magi
"Li hanno bloccati alla frontiera"
di Fabio Russello *
"Si avvisa che quest’anno Gesù Bambino resterà senza regali: i Magi non arriveranno perché sono stati respinti alla frontiera insieme agli altri immigrati". C’è scritto questo su un cartello posto all’interno del presepe della Cattedrale di Agrigento alla vigilia dell’Epifania.
GUARDA Il presepe "bloccato alla frontiera
L’iniziativa è del direttore della Caritas di Valerio Landri con l’imprimatur dell’arcivescovo Francesco Montenegro che è stato presidente nazionale della Caritas. "E’ stata un’iniziativa concordata con l’arcivescovo Francesco Montenegro - ha spiegato Valerio Landri - perché abbiamo ritenuto che si dovesse dare un segnale per far riflettere la comunità ecclesiale e civile. Pensiamoci bene: oggi Gesù Bambino, se volesse venire da noi, probabilmente sarebbe respinto alla frontiera. Non abbiamo inteso fare polemica politica, siamo consapevoli che è necessaria una regolamentazione del fenomeno, ma siamo convinti che bisogna anche comprendere il perché questa gente fugge dal suo paese e bisogna dunque pensare all’accoglienza".
Landri ha raccontato anche delle diverse reazioni da parte della gente: "C’è chi ha plaudito alla nostra iniziativa ma anche chi si è lamentato sostenendo che abbiamo voluto sacrificare la tradizione alla problematica legata all’immigrazione. Noi pensiamo che la tradizione non possa essere anteposta ai diritti delle persone".
* la Repubblica, 05 gennaio 2010
PER EVITARE EQUIVOCI E CONFUSIONI LOGICHE E POLITICHE ... SULLO STATO DELL’ "EMBRIONE" E DELLA "VITA" E PORTARE AVANTI LA LOTTA ALLA "mafia" A TUTTI I LIVELLI, E’ BENE RIFLETTERE DI PIU’ e ... RISPETTARE LA LIBERTA’ E L’AUTODETERMINAZIONE DELL’UOMO E DELLA DONNA!!!
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Nel 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti. Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile... Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”). Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?! Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)? O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?! Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” e “Mammona” o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!! Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemlea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!! Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane... Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
(www.ildialogo.org/filosofia, , Sabato, 10 giugno 2006)
Le parole e i fatti.
"E’ importante parlare di mafia, soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi. Non ci si fermi però ai cortei, alle denunce, alle proteste. Tutte queste iniziative hanno valore ma, se ci si ferma a questo livello, sono soltanto parole. E le parole devono essere confermate dai fatti".
(Don Giuseppe Puglisi, ucciso a Palermo 12 anni fa, dalla violenza mafiosa)
L’INCHIESTA.
Tornano in Sicilia i figli dei boss scappati negli Usa per sfuggire ai Corleonesi. E si riprendono il potere perduto
La riscoperta dell’America
nuovo fronte di Cosa Nostra
di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D’AVANZO *
PALERMO - Chi è Frank Calì, e perché tutti lo cercano? Quel nome - il nome di un siculo-americano - ritorna ossessivamente nelle "parlate" degli uomini di Cosa Nostra. Lo fanno a Palermo, lo ripetono nel New Jersey, lo bisbigliano a Corleone. Di Frank sentiremo ancora parlare, giurateci. Eppure, al Dipartimento di Giustizia, Calì non appare mai nei report sulle cinque "grandi famiglie" di New York, i Gambino, i Bonanno, i Lucchese, i Genovese e i Colombo. Soltanto poche, quasi distratte, righe in un dossier dell’Fbi. Più o meno un "signor nessuno" che deve avere però un potere invisibile o ancora sconosciuto, se negli ultimi tre anni per lo meno una mezza dozzina di "delegazioni" di mafiosi siciliani lo hanno raggiunto dall’altra parte dell’Oceano per discutere di "affari". Ma di quali affari? E, soprattutto, di quale portata e per quali progetti?
Questa è la storia, o meglio il primo paragrafo di una storia che soltanto il tempo potrà scrivere. Vi si rintracciano indizi di un prepotente risveglio di Cosa Nostra dopo un muto decennio di ibernazione. La mafia sembra volersi liberare dall’arcaicità violenta dei Corleonesi per ritrovare dalla Sicilia - come in un passato glorioso - ruolo e protagonismo sulla scena internazionale. Nelle loro casseforti ci vogliono mettere soldi, molti soldi. Non vogliono più cadaveri per le strade o "picciotti" nelle galere. A che cosa sono serviti il sangue, le bombe contro lo Stato, gli ergastoli che hanno umiliato le famiglie? A niente. Ecco perché adesso tutti cercano Frank Calì.
Del "signor nessuno" si può dire subito - per quel pochissimo che se ne sa - che è un uomo di rispetto della Famiglia Gambino designato per trattare, con i Siciliani, la nuova avventura. Se sono buone le intuizioni degli investigatori, i mafiosi vogliono ritornare ad essere brokers nel mercato illegale/legale mondiale. Frank Calì serve a tutto questo. È "l’ambasciatore" americano.
Frank Calì ufficialmente è un imprenditore della Italian Food Distribution a New York. Da almeno tre anni, gli agenti dell’Fbi lo vedono intrattenersi con vecchi trafficanti della "Pizza Connection".
E con giovani rampolli delle Famiglie palermitane, nati però negli Stati Uniti. E con gli emissari di Bernardo Provenzano e Totò Riina, i Corleonesi. Un’agenda di incontri che mette insieme amici e nemici di antiche guerre e di mai dimenticati stermini, tutti a far la fila da Frank Calì. L’elenco è lungo. Da lui vanno in più occasioni Nicola Mandalà e Nicola Notaro della Famiglia di Villabate, Gianni Nicchi della Famiglia di Pagliarelli, Vincenzo Brusca della Famiglia di Torretta. Ma forse la traccia più rilevante per capire che cosa sta accadendo è nelle triangolazioni telefoniche tra le utenze di Calì e i cellulari degli uomini di Salvatore Lo Piccolo, ricercato da 27 anni, oggi al primo posto della lista dei latitanti dopo la cattura di Bernardo Provenzano.
Il suo "scacchiere diplomatico" non è stretto alla Sicilia. Un rapporto congiunto dell’Fbi e della Royal Canadian Mounted Police svela "i legami tra Frank Calì, Pietro Inzerillo e i membri del cartello criminale "Siderno" della ’ndrangheta". Alla sua corte ci sono proprio tutti, dunque. È la circostanza che spinge Fbi e Polizia criminale italiana a lavorare insieme, a scambiarsi informazioni e analisi come negli Anni Ottanta, quando Giovanni Falcone faceva squadra con il procuratore distrettuale Rudolph Giuliani. Si preparano a fronteggiare il nuovo piano di Cosa Nostra: la riscoperta dell’America. Con inaspettati protagonisti. Con nomi che, soltanto fino a qualche anno fa, a Palermo non si potevano nemmeno pronunciare.
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Sono tornati gli Inzerillo. Erano stati massacrati dall’aprile del 1981 all’ottobre del 1983 dai Corleonesi. "Di questi qua - disse Totò Riina - non deve rimanere sulla faccia della terra nemmeno il seme". Morì Totuccio, il rispettato capo di Passo Rigano, e poi morì suo figlio Giuseppe. Morirono in ventuno. Fratelli e zii e nipoti e cugini. Molti scomparvero afferrati dalla "lupara bianca", un impero di 27 società di riciclaggio rimase senza padroni. La scia di sangue si interruppe soltanto con l’intercessione dei parenti di Cherry Hill. Uomini potenti. Allora i più potenti d’America come Charles Gambino. Trattarono una resa senza onore. La Commissione siciliana pretese che gli Inzerillo avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più nell’Isola. Mai più. E’ la regola che dettò la Cosa Nostra di Totò Riina. Allora fu nominato, e lo è ancora oggi, un "responsabile" del rispetto di quel patto. Si chiama Saruzzo Naimo. Ma le regole, in Cosa Nostra, esistono per essere violate e interpretate per gli amici e applicate per i nemici. Così alla spicciolata gli Inzerillo sono rientrati a Palermo. Abitano tutti nella loro borgata di nascita, a Passo di Rigano.
E’ tornato Francesco Inzerillo, figlio di quel Pietro che l’Fbi e la polizia canadese "vedono" sempre con Frank Calì. E poi Tommaso Inzerillo, cugino di Totuccio e cognato di John Gambino, il figlio del vecchio Charles. E un altro Francesco, fratello di Totuccio. Espulso come "indesiderato" dagli Stati Uniti è tornato Rosario, un altro fratello di Totuccio. E’ rientrato Giuseppe, figlio di Santo, ucciso e dissolto nell’acido solforico. Soprattutto è tornato l’unico figlio ancora vivo di Totuccio, Giovanni, nato a New York nel 1972, cittadino americano. A lui è toccato riaprire dopo venticinque anni la casa di via Castellana 346. Insieme a loro, sono riapparsi in città gli Spatola dell’Uditore, i Di Maggio di Torretta, i Bosco, i Di Maio, qualche Gambino. Insomma, quell’aristocrazia mafiosa che i contadini di Corleone avevano spazzato via con "tragedie", tradimenti, agguati. A Palermo gli Inzerillo hanno ricostituito la loro Famiglia. Con quale "autorizzazione"? Con quali appoggi? Con quali garanzie e impegni?
Se la questione è un enigma per gli investigatori, impensierisce ancora di più alcuni alleati palermitani dei Corleonesi che erano stati in prima fila, nella strage degli Inzerillo. La preoccupazione diventa apprensione quando, nei viaggi in America, scoprono che accanto a Frank Calì c’è sempre un Inzerillo. A New York come a Palermo, per uscire dall’isolamento e pensare finalmente alla grande, bisogna fare necessariamente i conti con "quelli là" e le loro influenti parentele d’Oltreoceano.
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Nelle ultime intercettazioni ambientali - una vera miniera di inaspettate informazioni - "il discorso dell’America" è un tormentone tra i mafiosi. Riserva un punto di vista inedito su Cosa Nostra. Liquida ogni lettura convenzionale. Cosa Nostra non è il quieto monolite governato con i "pizzini" dalla furbizia contadina del vecchio Provenzano né è attraversata, come pure si è sostenuto, da una frattura territoriale e culturale. Da un lato, i contadini e i paesi di campagna. Dall’altra, i cittadini, la grande città, le borgate. E’ invece un mondo smarrito e, al tempo stesso, eccitato dalle nuove opportunità. Ora, come per un riflesso condizionato, tentato di mettere mano alla pistola per eliminare ogni irritante contraddizione; ora convinto di dover cercare, senza sparare un colpo, compromessi per far valere la sola ragione che tutti può entusiasmare: fare i piccioli. Fare i soldi. Gli esiti della contesa sono del tutto imprevedibili. Nei prossimi mesi, la guerra ha la stessa possibilità di scoppiare quanto la pace. Chi lavora, con ostinazione paranoide, a una nuova contrapposizione si chiama Antonino Rotolo. E’ il capomandamento di Pagliarelli. Basta ascoltare quali erano i suoi argomenti qualche giorno prima di finire in galera.
"Questi Inzerillo - dice Rotolo ai suoi - erano bambini e poi sono cresciuti, questi ora hanno trent’anni. Come possiamo, noi, stare sereni... Se ne devono andare. E poi uno, e poi l’altro e poi l’altro ancora... Devono starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in Italia li ammazziamo tutti. Come possiamo stare, noi, sereni quando io per esempio - l’ho detto e lo ripeto - so di un tizio che dice a uno dei figli di Inzerillo: "Non ti preoccupare tempo e buon tempo non dura sempre un tempo"... Noialtri non è che possiamo dormire a sonno pieno perché nel momento che noi ci addormentiamo a sonno pieno, può essere pure che non ci risvegliamo più. Alzando la testa questi, le prime revolverate sono per noi. Vero è... Picciotti, non è finito niente. Gli Inzerillo, i morti, li hanno sempre davanti. Ci sono sempre le ricorrenze. Si siedono a tavola e manca questo e manca quello. Queste cose non le possiamo scordare. Questi se ne devono andare, punto e basta, non c’è Dio che li può aiutare... Ce ne dobbiamo liberare e così ci leviamo il pensiero... Per il bene di tutti, noi questo dobbiamo fare. L’avete capito o no che quello, Lo Piccolo, li utilizza già gli Inzerillo? Questa storia non finisce, non finirà mai...". Antonino Rotolo affronta con Alessandro Mannino, nipote prediletto di Totuccio Inzerillo, "il discorso dell’America". Senza giri di parole, in modo brusco.
Gli dice: "Tu sei il nipote di Totuccio Inzerillo il quale, con altri, senza ragione alcuna sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma a loro nessuno gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci hanno trovato. Peggio per loro. Non siamo stati noi a cercarli. Così si è creata questa situazione di lutti e di carceri. La responsabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e se ci sono carcerati. Quindi io ti dico che non c’è differenza tra voi, che avete i morti, e le famiglie che hanno la gente in galera per sempre, perché sono morti vivi. Quindi, i tuoi parenti devono rimanere all’America, devono rimanere sempre reperibili. Ai tuoi parenti garanzie non ne può dare nessuno. I tuoi parenti se ne devono andare e ci devono fare solo sapere dove vanno perché noi li dobbiamo tenere sempre sotto controllo".
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Anche Antonino Rotolo ha spedito a New York il suo fidato "messaggero", Gianni Nicchi, giovane e "sperto". Al rientro dalla missione, si fa raccontare e quel che ascolta non gli piace. Rotolo, se sono sincere le sue parole, non si fida delle promesse di Frank Calì. Crede che siano soltanto "chiacchiere" per restituire Palermo agli Inzerillo. I suoi sospetti lo isolano dentro Cosa Nostra. Salvatore Lo Piccolo - il suo competitore nelle borgate - ha già chiuso l’accordo con gli Americani. L’ago della bilancia è Provenzano. Però anche a Provenzano fa gola riallacciare i rapporti con i suoi antichi nemici e ritrovarseli dopo un quarto di secolo al suo fianco. Negli ultimi mesi della sua latitanza, finita l’11 aprile del 2006, mette in moto tutta la sua sapienza ambigua. In un rosario di "pizzini" inviati ai suoi, finge di non sapere che gli Inzerillo sono già tutti a Palermo. Minimizza la rilevanza di quel ritorno. Quando gli capita, consiglia di accoglierli "se vogliono passare il Natale con i loro parenti" o se devono scontare scampoli di pena in Italia, una volta espulsi dagli Stati Uniti. E’ l’abituale inganno "corleonese". In realtà, il lavorio di mediazione con gli Americani è l’ultima grande fatica del Padrino di Corleone.
Da due anni, "il vecchio" si adopera per il recupero totale alle fortune di Cosa Nostra degli Inzerillo, soprattutto dei loro legami con la mafia americana. Nicola Mandalà è l’uomo più fidato dell’inner circle di Bernardo Provenzano. Lo aiuta a farsi operare alla prostata in una clinica di Marsiglia. Fa due viaggi a New York per incontrare Frank Calì e Pietro Inzerillo. E’ possibile che Mandalà, generosamente finanziato con 40 mila dollari a trasferta, abbia fatto tutto questo senza un mandato di Provenzano? Un altro "contadino" di Corleone va in America. E’ quel Bernardo Riina che sarà poi arrestato come "ultimo anello" che conduce i poliziotti nel rifugio di Montagna dei Cavalli. Bernardo Riina costituisce una società a New York insieme a suo figlio nel gennaio del 2006. Appena cento giorni prima della cattura del suo Padrino. E’ il ponte lanciato dalla Sicilia all’America. E’ un capovolgimento di schemi e di logiche dove i Corleonesi - dati per spacciati dopo l’arresto dei suoi rappresentanti più famosi - non solo non stanno abbandonando i posti di comando di Cosa Nostra ma, al contrario, provano a penetrare un altro mondo: gli Stati Uniti. Il personaggio chiave è, dunque, il nostro misteriosissimo Frank Calì che distribuisce Italian Food su tutta la costa atlantica. Ancora più misteriose, al momento, sono le occasioni economiche e finanziarie che le due mafie prevedono di cogliere insieme. Tempo e buon tempo non dura sempre un tempo. Cosa Nostra si prepara alla sua nuova stagione.
* la Repubblica, 12 luglio 2007
La vera emergenza
di Claudio Fava *
Ci voleva il presidente dell’Associazione degli Industriali siciliani per farci capire che, nel Paese reale, l’emergenza mafiosa non sono i lavavetri ma i mafiosi: con un gesto senza precedenti Ivan Lo Bello ha comunicato che caccerà dalla sua associazione gli imprenditori che pagano il pizzo a Cosa Nostra. Sono bastate due righe d’agenzia per ribaltare il suggerimento di consociativismo mafioso che l’ex ministro dei Trasporti Lunardi propose qualche anno fa ai siciliani spiegando che alla mafia non c’è rimedio, e che dunque conviene abituarsi a conviverci. Un rimedio dunque c’è: basta non pagare. Ci perdonerà l’assessore Cioni di Firenze, ma ci sembra lontanissima, parole da un altro pianeta, anche la sua fiera intervista di qualche giorno fa.
Quella con cui annunciava la crociata contro gli stracci e i secchi dei maghrebini agli incroci della città. Se parliamo di sicurezza (e di rischi: quelli veri), il Paese reale oggi non sono i semafori di Firenze ma la periferia di Catania. Al signor Vecchio, presidente dei costruttori edili, hanno fatto quattro attentati in otto giorni: bombe, incendi, saracinesche divelte... L’ultimo, due giorni fa, dopo che era già stata disposta dal prefetto la protezione ventiquattrore su ventiquattro nei suoi confronti: una tanica piena di benzina lasciata davanti al deposito di un suo cantiere. Come dire: lo Stato può pure tentare di proteggervi con scorte e vigilanza, ma se noi mafiosi vogliamo farvi saltare in aria l’azienda, non ci ferma nessuno. Dal canto suo, il signor Vecchio ha fatto sapere, per la quarta volta (con una lettera aperta che l’Unità ha pubblicato ieri in prima pagina), che alle cosche lui non pagherà un centesimo.
In altri tempi, tempi non troppo remoti, a un imprenditore così tenace nel rivendicare la propria dignità di cittadino e di uomo, avrebbe fatto subito eco il saggio ammonimento degli altri imprenditori: non fare l’eroe, paga, campa tranquillo, pensa ai figli,che tanto per recuperare i piccioli ti basta evadere un poco di tasse... Andò più o meno così sedici anni fa con l’imprenditore Libero Grassi a Palermo. Grassi non pagò, andò il televisione e davanti a qualche milione di italiani spiegò che se si fosse piegato a quel miserabile ricatto mafioso non avrebbe più avuto la forza di guardare in faccia i figli. Due giorni dopo il presidente della sua associazione di categoria gli fece sapere, a mezzo stampa, che era un fesso, che a Palermo pagavano tutti e che quel baccano non serviva nemmeno al buon nome della Sicilia. Per Grassi fu una condanna a morte: isolato, umiliato, a completare il lavoro ci pensarono un paio di ragazzotti assoldati dalla cosca che pretendeva il pizzo. Lo ammazzarono sotto casa scaricandogli una pistola in testa, così gli altri avrebbero imparato da che parte stare.
Non tutti hanno imparato, non tutti si sono rassegnati. Il presidente degli industriali siciliani, che non fa solo accademia ma rischia anche le proprie aziende e la propria pelle, è uno che non s’è rassegnato. E che ha deciso di portare solidarietà al signor Vecchio senza chiacchiere ma nell’unico modo possibile: mandando a dire ai mafiosi che in Sicilia, tra quelli che non pagheranno più il pizzo, non ci sarà solo il costruttore catanese.
Certo adesso arriveranno i primi pelosissimi distinguo. Qualche commerciante si agiterà dicendo che lui il pizzo non sa cosa sia. Qualche collega di Lo Bello argomenterà che sì, certo, adesso denunciamo, però lo Stato, signori miei, dov’è lo Stato? che fanno a Roma? e cosa c’entriamo noi poveri cristi siciliani? Qualche gioielliere palermitano continuerà a pensare quello che ha sempre pensato: lui non paga il pizzo, al massimo fa un regalo, ecco, un regalino ogni tanto a certi amici, che così non gli fanno più rapine, risparmia sulla vigilanza e tiene la saracinesca alzata fino alle dieci di sera. E a Firenze qualcuno continuerà a lustrarsi con lo sguardo con gli strofinacci sequestrati durante la giornata ai lavavetri. Come se fossero kalashnikov e non scopette.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.09.07, Modificato il: 02.09.07 alle ore 13.01
LIBRI
I sacrilegi delle mafie
Padrini e picciotti ostentano la loro devozione, che in realtà più che fede è superstizione. E quando i preti oppongono alla cultura omertosa la vera religione, sparano: da don Peppino Diana a don Puglisi
Il saggio di Alessandra Dino evidenzia il processo di maturazione della Chiesa nei confronti della mentalità mafiosa, verso un sempre maggior impegno nell’educazione dei giovani
DI GOFFREDO FOFI (Avvenire, 15.11.2008)
La mafia devota di Alessandra Dino, antropologa palermitana, è uno dei testi più significativi usciti sulla questione mafiosa ( intendendo con mafia anche le associazioni criminali di altre regioni come camorra, ’ ndrangheta, Sacra corona unita). Affrontando l’argomento da un punto di vista trascurato, procedendo a molte interviste con magistrati, preti, pentiti, vedendo della questione gli aspetti più specificamente religiosi ma anche collocandoli sullo sfondo di una più generale questione civile, la Dino aiuta a comprendere un ambiente, una cultura, distinguendo nettamente tra gli aspetti esteriori - quelli, diciamo, di una ritualità di facciata, che serve al mafioso per affermare il suo potere all’interno di una comunità, o quelli di una devozione deviata - e quelli più intimi del dilemma morale che può investire, come è ben noto o come si vorrebbe che fosse, anche il criminale più incallito.
Hanno sconcertato molti, le professioni e le espressioni di fede di alcuni noti mafiosi ( per esempio Provenzano), e la “ lettura” dei comportamenti religiosi di altri - o di un pentitismo sulle cui motivazioni alcuni sacerdoti hanno espresso dei dubbi, perché spesso causato soltanto dall’interesse alla riduzione della pena e dunque moralmente inautentico. Tra i preti che la Dino ha accostato ci sono quelli che sembrano partecipare ( ma più ieri che oggi) di una cultura ambientale coinvolgente, quelli che molto più seriamente distinguono tra il ruolo della Chiesa e il ruolo dello Stato e rivendicano la netta differenza dello sguardo, della posizione, dei doveri nei confronti di chi pecca ( e delinque), e quelli infine che insistono sulla “questione morale” vedendone gli aspetti più latamente etici, civili, sociali. Se di cultura-ambiente si tratta, è su questa che essi pensano di dover intervenire, e lo hanno fatto a volte (don Peppino Diana a Casal di Principe, don Puglisi a Palermo) lasciandoci la vita.
Oggi che molti libri ( non ultimo Gomorra) hanno messo in rilievo la profondità dei legami e degli interessi mafiosi in settori molto importanti dell’economia e della finanza e ben oltre i territori tradizionali, in tutto il Paese e altrove, in Europa come in America; oggi che le classi dirigenti di molti Paesi ( la stessa grande Russia) trattano con le mafie e se le fanno alleate, ovviamente a caro prezzo; oggi che il disordine morale della post- modernità abbassa enormemente il livello di difesa della morale dei singoli, occorrerebbe affrontare anche la questione mafiosa da presupposti assai vasti, che mettano in discussione l’intero assetto di società la cui prosperità deriva in parte dal crimine. Se è vero che, secondo le stime, il Pil italiano è prodotto per il dieci-dodici per cento dall’economia criminale ( e non vengono considerati in questi calcoli, per esempio, la produzione e lo smercio di armi) ne deriva che le risposte alle attività mafiose dovrebbero essere ben più radicali che quelle esclusivamente giudiziarie. E, di fatto, come si sconfiggono le mafie? Non credo, personalmente, che i “professionisti dell’antimafia” riescano sempre a incidere in profondità nel concreto delle culture mafiose, né che la denuncia sia di per sé sufficiente ( in un Paese come il nostro dove la denuncia sembra spesso un’arte e un mestiere, una retorica e un alibi: milioni di denunce giornalistiche, cinematografiche, letterarie, ma anche di buona propaganda sul territorio, hanno cambiato relativamente poco, anche se hanno costretto le mafie a inventare nuovi modi di agire).
La risposta viene da molte delle interviste e delle considerazioni che ne ricava la Dino, e sintetizzando si può dire che sono tre i modi necessari: l’intervento nell’economia, che è il fondamentale perché se non cambia l’economia non scema il potere che le organizzazioni mafiose possono avere su un ambiente sociale, l’attrazione che possono esercitare sui più deboli - per esempio i giovani, i precari, i disoccupati; quello giudiziario, del rispetto delle leggi, il cui vero limite consiste nella constatazione che le leggi non tutti le rispettano, nelle nostre classi dirigenti; e infine l’educazione, l’intervento assiduo e radicato in un territorio soprattutto nei confronti dei più giovani, per allargare la loro visione e dar loro solide fondamenta etiche. È in questo settore, dice la Dino, che la Chiesa può intervenire con efficacia, oltre che sul terreno che le è proprio della cura delle anime.