Le chiese invisibili
di Barbara Spinelli (La Stampa,04/5/2008)
Il reverendo Jeremiah Wright ha un’idea molto cupa dell’America in cui vive, e le parole che pronuncia rischiano di esser letali per Barack Obama, il senatore nero dell’Illinois che aspira alla Casa Bianca. Forse metterà addirittura fine al suo sogno. Ma quello che il pastore nero di Chicago sta dicendo in questi giorni, e che tanta angoscia suscita in Obama, conviene ascoltarlo attentamente: la storia che narra, sulla Chiesa nera e la questione razziale, è di massima importanza anche per l’Europa e l’Italia.
Nessuno Stato europeo lo confessa a se stesso, ma anche le nostre nazioni stanno diventando multietniche, minacciate dalla questione razziale che torna a struggere l’America. Si possono erigere barriere, si possono istituire guardie cittadine che al posto dello Stato repubblicano assicurano pulizie etniche nei quartieri (le destre parlano di ronde, le sinistre di sentinelle), ma la realtà non per questo svanirà e la realtà è ormai fatta di più appartenenze, più frammenti di culture, religioni: irreversibilmente.
Con questi frammenti le democrazie possono negoziare convivenze basate sul rispetto e la legge comune oppure possono entrare in conflitto anche violento. Le elezioni Usa sono cruciali perché di questo si discute: di odii acquattati negli interstizi del Paese. Di un razzismo che per gli americani è come la pornografia, scrive Bob Herbert sul New York Times: tutti la denunciano, pochi le resistono. Razza e scontro civile sono ottimo combustibile nelle campagne elettorali, così come la sicurezza e lo straniero sono stati ottimi combustibili nel voto italiano.
Oltre che pornografiche, scrive Herbert, queste ossessioni sviano l’attenzione da quel che conta: le guerre fallimentari in Iraq e Afghanistan, il clima, l’economia. Sconnettono più che mai la fantasia e gli spaventi dalla realtà. Bloccano la conversazione post-razziale che Obama invoca fra neri e bianchi.
Una delle cose fondamentali che ha detto il reverendo concerne quella che ha chiamato, in due interviste del 25 e 28 aprile, Chiesa invisibile.
Quando i cittadini d’una nazione non vogliono vedere la realtà, quando immaginano soluzioni semplici e la complessità diviene loro insopportabile, quando nascondono a se stessi le proprie responsabilità, il rancore e il risentimento dei discriminati e degli ultimi si rifugia in luoghi che si estraniano dalla pòlis, facendosi invisibili: opachi a chi non vuol capire, correggere. Opachi specialmente a chi per mestiere dovrebbe esplorare l’inesplorato: stampa, televisione. La Chiesa nera invece di esser esplorata è divenuta Chiesa Invisibile: scuro monolito, impaurente. L’invisibilità offre scudi e lance, offre covi più che luoghi d’incontro.
L’Islam integralista in Francia è cresciuto in scantinati adibiti al culto, non nelle moschee visibili dove aleggiano forse pensieri ostili ma almeno c’è luce. In Europa e Italia pensiamo di tenere a bada i risentimenti dell’Islam, vietandogli le moschee come a Bologna. Più le vietiamo, più l’Islam europeo si trasformerà, anch’esso, in Chiesa Invisibile.
Il reverendo Wright provoca pericolosamente, con gesti trasgressivi che rovinano la trasgressione sostanziale di Obama. Difende le parole antisemite dette vent’anni fa da Farrakhan, leader nero della Nazione dell’Islam. Sostiene che l’Aids fu inoculato negli afro-americani per sfinirli. Afferma che i governi Usa si sono tirati addosso, con azioni terroriste, l’11 settembre. In un primo tempo Obama ha respinto questi estremismi, senza però demonizzare il reverendo ma cercando di convincere chi lo segue ad avere una visione dell’America meno maledicente, soprattutto meno statica.
È accaduto in uno dei più memorabili discorsi, quello di Filadelfia del 18 marzo. È stato il momento in cui il candidato era più forte: lo era perché oltrepassava l’ossessione dei mezzi di comunicazione sui gesti provocatori di Wright, non sminuendoli ma narrandone le sorgenti. Disse cose essenziali: che il conflitto razziale veniva esagerato da Wright, ma esisteva. Che la rabbia non risolve alcunché ma esiste, va indagata. Che il rancore nero spiega l’alienazione risentita di tanti bianchi americani, e che anch’essa va capita, resa visibile. Che per risolvere i conflitti occorre complicare e non semplificare, negandoli:
Un’altra verità messa in luce da Wright è che nella cultura americana esiste una tradizione nera, affatto diversa da quella europea e bianca. Può dar fastidio, ma tale è la realtà. È vero che le società democratiche sono oggi frantumate, in America come in Europa e Italia, e che alla frantumazione si può rispondere in due modi: immaginando omogeneità inesistenti o accettando la varietà. Una varietà che il reverendo descrive con un’immagine bella: Dio ha creato gli uomini diversi, «come fiocchi di neve». La musica nera, il vivere nero: c’è dell’Africa in questo e Obama è anche questo. La sua scommessa è di superare la divisione, di render visibile non solo quel che è relegato nell’invisibile - ignorato, sprezzato - ma anche quel che ha permesso a un nero di aspirare alla Presidenza. È il tentativo di trasformare gli Stati Uniti in un’«Unione più stretta», ha detto a Filadelfia. È straordinario come certe parole trovino eco negli stati europei. Anch’essi si ripromettono un’Unione sempre più stretta. Anche nelle nostre nazioni urge un’unione più stretta, che eviti ingiustizie, divisioni, conflitti.
Negare la diversità e le radici sociali dei conflitti può aiutare, nelle elezioni. Ma trasforma ciascuno di noi in uomini senza occhi, sconnessi dalla realtà (l’accusa più frequente a Bush è di essere incurious). Genera paura: utile ai demagoghi, non ai riformatori. Il momento più debole della campagna di Obama è venuto dopo Filadelfia, la scorsa settimana, quando ha dovuto rompere brutalmente con il reverendo. Ha dovuto farlo perché attanagliato da una stampa che s’è gettata su Wright come se in lui fosse il demoniaco della campagna. La semplificazione ha vinto, come in Italia, sul complicato e il reale.
È una semplificazione faziosa, inoltre. L’eccitazione contro il reverendo non ha mai colpito gli evangelicali che hanno sostenuto i fallimenti di Bush. Il pastore più vicino a McCain è John Hagee, e le sue parole sono ancora più incendiarie di quelle di Wright. Hagee è convinto che l’uragano Katrina s’è giustamente abbattuto su New Orleans perché la città era, come Gomorra, preda del peccato e dei gay. Sostiene la necessità di un grande Israele, perché lì tornerà Gesù. Chiama la Chiesa cattolica «grande prostituta di Babilonia». Razzismo, guerra ai diversi, odio dello straniero: questi gli ingredienti delle sue prediche. Ma nessuno, nella stampa mondiale, si sogna di connetterli a Bush e McCain.
Le destre in Italia e America son convinte di fare battaglie minoritarie: una specie di ’68 di destra, contro immaginari establishment di sinistra. In realtà hanno il pieno dominio, e con tanti media complici sognano di assediare tale establishment. Per questo è così importante sapere se Obama, nonostante l’assedio, continuerà a parlare della realtà, trasportando chiese e rancori dall’invisibile al visibile. Chi è visibile impara a sentirsi imputabile, non impunito. Apprende a vivere in un mondo non statico ma in movimento, che si può cambiare e che ci cambia.
Discorso di Barak Obama sul razzismo
(sottotitolato)
Ecco come sarà l’Italia in mano ai razzisti
di Guido Viale (il manifesto, 04.04.2018)
Come sarà l’Italia in mano a partiti razzisti? Cominciamo a chiedercelo. Combattere la solidarietà verso profughi e «stranieri» non la rafforza tra i «nativi», ma distrugge anche quella: promuove sospetto, invidia, insensibilità per le sofferenze altrui, crudeltà. E affida «pieni poteri» a chi governa: non solo per reprimere e tener lontane le persone sgradite, ma anche per giudicare sgradite tutte quelle che non obbediscono. La società che respinge e perseguita gli stranieri non può che essere autoritaria, intollerante, violenta.
La storia del secolo scorso ci ha insegnato che questo è un piano inclinato da cui è sempre più difficile risalire. Ma che risultati possono raggiungere i governi impegnati a fare «piazza pulita» di profughi e migranti? Nessuno. La pressione dei profughi sull’Europa continuerà, perché continueranno a peggiorare le condizioni ambientali dei paesi da cui centinaia di migliaia di esseri umani sono costretti a fuggire a causa del saccheggio delle loro risorse e dei cambiamenti climatici che colpiscono soprattutto i loro territori. Quel degrado ambientale è anche la causa principale delle guerre che creano ulteriori «flussi» di profughi: quando le risorse disponibili si riducono, la lotta per accaparrarsele si fa più feroce.
«Aiutiamoli a casa loro» non vuol dire niente: chi mai li dovrebbe aiutare? Le multinazionali che saccheggiano le loro risorse? I tiranni e i governi corrotti che si appropriano di quel che resta? Le popolazioni locali che non hanno la forza per scrollarsi di dosso quei gioghi? Nessuno di loro, ovviamente; solo la volontà di far ritorno nel proprio paese può rendere coloro che ne sono dovuti fuggire i «catalizzatori» di una rigenerazione sociale e ambientale delle terre dove sono rimaste le loro comunità d’origine.
A condizione che profughi e migranti siano accolti bene; messi in condizione di collegarsi tra loro, di organizzarsi, di consolidare legami con cittadini e cittadine europee, di mettere a punto e far valere insieme a loro programmi di pacificazione dei rispettivi paesi e di contenimento e di inversione del loro degrado.
Niente di tutto ciò è prospettato o perseguito da chi ha ripetuto fino alla nausea «aiutiamoli a casa loro»; e meno che mai verrà fatto da chi ha fatto campagna elettorale promettendo di cacciare i «clandestini» dall’Italia. Quella politica, che abbiamo già vista all’opera con il ministro Minniti, non ha fermato gli sbarchi né li fermerà. Perché, anche se tutte le navi delle Ong solidali e delle marine europee venissero messe nell’impossibilità di operare, l’obbligo di salvare chi è in pericolo in mare resterà in capo ai mercantili in transito, come accadeva prima del programma Mare Nostrum; e il porto di sbarco non potrà che essere in Italia. In compenso ci sono stati e ci saranno sempre più morti, sia in mare che nel deserto; che resteranno per sempre sulla coscienza di chi non fa niente per cercare di garantire ai vivi una via di transito sicura verso l’Europa.
Ma soprattutto ci saranno sempre più violenze, torture, ricatti, estorsioni, schiavismo, sia in Libia che in tutti i paesi in cui si sta cercando o si cercherà di bloccare il transito dei profughi. Respingere i profughi significa renderli schiavi e schiave di bande locali o spingerli a farsi reclutare nelle loro armate; il che moltiplicherà i conflitti e renderà tutti i territori dell’Africa e del Medio Oriente infrequentabili per gli europei, sia turisti che tecnici o uomini d’affari. Il modo più sicuro per strangolare sia l’economia europea che le loro.
Ma che sarà, poi, di coloro che sono già in Italia, o in Europa, come «clandestini»? Espellerli tutti è impossibile: costerebbe troppo e chi continua a prometterlo lo sa benissimo.
D’altronde, nessun governo dei paesi di provenienza è disposto ad accoglierli e anche quelli che firmano accordi in tal senso (in cambio molto denaro) non li rispetteranno: quei rimpatriati a forza creerebbero solo problemi. Quei respingimenti li si può fare, o far fare, solo verso la Libia o verso paesi ridotti nello stesso stato: campi di prigionia e tortura a disposizione di un’Europa trasformata in fortezza.
Per questo i migranti «irregolari» resteranno qui, condannati a una clandestinità permanente, che significa costringere centinaia di migliaia di uomini e donne a delinquere, prostituirsi, farsi reclutare dalla criminalità organizzata di casa in molti ambienti politici (soprattutto quelli che più strillano contro il loro arrivo) e anche tra non pochi addetti all’ordine pubblico. È questo, e non l’arrivo di nuovi profughi, a creare quello stato di insicurezza che i nemici dell’accoglienza e della solidarietà dicono di combattere. Essere sempre più feroci con i profughi non fa che peggiorare la situazione; il che fa molto comodo a quei governi europei che già contano di usare l’Italia come discarica dei migranti che non vogliono accogliere, come noi stiamo usando la Libia.
Ma in Europa ci sono già decine di milioni di immigrati, recenti e no, molti anche già «naturalizzati», cioè cittadini e cittadine europee, che da ogni nuova manifestazione di razzismo, o anche di semplice «rifiuto» dello straniero, sono indotti a viversi sempre più come un «corpo estraneo» nella società; e a covare quello spirito di rivalsa che porta alcuni a voler vendicare in qualsiasi modo le sofferenze inflitte ai loro connazionali o correligionari.
Non è un caso che foreign fighters e terroristi vengano quasi tutti da comunità già insediate in Europa.
Per fermarli non basta la polizia; non si possono controllare tutti. Bisogna prevenire; e lo si può fare solo con più rispetto sia per loro che per i loro connazionali in cerca di una vita nuova in Europa.
I partiti che hanno governato e quelli che governeranno nei prossimi anni sono chiusi a questo ascolto.
Né bastano i sermoni per aprirgliele. È dalla pratica attiva della solidarietà che nasce un nuovo modo di vivere.Ed è da una rete di tutti coloro che si impegnano in questo campo che può nascere un’alternativa reale - sociale, politica e culturale - al disastro in cui ci ha trascinato la politica attuale
Stati Uniti
L’eccezionalità americana in crisi
di Gennaro Sangiuliano (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.08.2016)
Gli Stat i Uniti fanno coincidere il loro atto di nascita con la ricorrenza del 4 luglio 1776, giorno della proclamazione della Dichiarazione d’Indipendenza. Ma questo è solo l’inizio informe perché il processo costituzionale si rivelerà più lento e articolato. La Confederazione assumerà pieni poteri solo cinque anni più tardi, dopo che i tredici Stati, che avevano combattuto contro gli inglesi la Guerra d’Indipendenza, si saranno dati ciascuno una propria carta costituzionale e i loro delegati al Congresso Continentale avranno fissato gli articoli della carta confederale (Articoli della Confederazione ed Eterna Unione), approvata finalmente nel 1781 dalle assemblee dei tredici Stati.
I costituenti americani sono tutti influenzati dalle idee del liberalismo classico (da non confondere con i liberal che Giovanni Sartori ha opportunamente definito come i socialisti di una nazione senza socialismo). Determinante è in tutti il pensiero di John Locke, in particolare i Discourses on Government (pubblicati nel 1698 ma scritti nel 1683) e il trattato Some Thoughts Concerning Education che rinvia alla lettura delle opere di filosofia del diritto di Grozio (Huig de Groot 1583-1645) e Samuel Pufendorf (1632-1694).
La struttura costituzionale sarebbe stata modellata con al centro il faro dei diritti naturali e fondamentali dell’uomo: solo dal riconoscimento che questi diritti sono anteriori alla nascita dello Stato, può fondarsi una vera libertà. Vita libera e ricerca della felicità, in altre parole, non erano concesse dall’alto ma erano la diretta conseguenza di forme costituzionali espresse dalla sovranità popolare espressa nel consenso dei cittadini.
John Adams riassunse in questi termini il dibattito interno: «La lotta che si svolge oggidì in quasi ogni campo (...) è quella tra l’idea di uno Stato forte e centralizzato capace di controllare la vita dei cittadini a favore dell’economia e del potere nazionale e l’idea della libertà personale che concede al singolo individuo la maggiore autonomia possibile nell’organizzare come meglio crede la propria vita».
L’eccezionalità del carattere americano è stata la sua immensa fortuna, la peculiarità, quasi l’incidente storico di una dimensione dove, secondo uno dei grandi padri come Thomas Jefferson «non è attraverso il consolidamento o la concentrazione di poteri, ma attraverso la loro distribuzione che si stimola il buon governo».
In questi mesi una lacerante campagna elettorale vede contrapposto un personaggio molto discutibile e sui generis, se non si vuole ricorrere all’abusata categoria del populismo, come Donald Trump, ad una altrettanto discussa leader politica come Hillary Clinton, forse il male minore, ma non certo uno scatto in avanti verso la modernità e nuove idee.
Di fronte a questo scenario molti analisti e commentatori, a cominciare proprio da quelli americani, si domandano quanto sia sopravvissuto della virtuosa eccezionalità americana, soprattutto in termini morali, di quello che Tocqueville individuò come spirito della legge costituzionale.
Nel 2014 uno studio redatto per conto della Princeton University e della Northwestern University concludeva, con qualche esagerazione e molte verità, che gli Stati Uniti vanno perdendo il tratto democratico, lo spirito dei padri costituenti, per diventare sempre più un’oligarchia guidata da élite finanziarie.
Ricorda Diana Johnstone: «Il rapporto intitolato «Testing Theories of American Politics: Elites, Interest Groups, and Average Citizens» (Teorie della politica americana alla prova: le élite, i gruppi di interesse e il cittadino medio) mettendo a confronto quasi 1.800 decisioni politiche adottate tra il 1981 e il 2002 concludeva che ogniqualvolta i ricchi e i potenti hanno voluto qualcosa lo hanno ottenuto. In altre parole, le scelte politiche degli americani al di sopra del 90° percentile di reddito sono state messe in atto, mentre i desideri degli americani medi, al di sotto del 50° percentile di reddito, sono stati ignorati».
Il premio Nobel Joseph Stiglitz rafforza questa visione quando scrive: «La storia dell’America è semplicemente questa: i ricchi stanno diventando più ricchi, i più ricchi tra i ricchi stanno diventando ancora più ricchi, i poveri stanno diventando più poveri e numerosi, e la classe media si sta svuotando. I redditi della classe media sono intatti stagnanti o in discesa e la differenza rispetto ai veri ricchi sta aumentando».
Gli Stati Uniti, luogo simbolo del capitalismo globale s’interrogano di fronte alla perdita di secolari certezze. Peggy Noonan che fu ghowst-writer di Ronald Reagan e oggi è commentatrice politica del «Wall Street Journal» afferma che «c’è una parte d’America talmente esasperata dallo status quo, che abbraccia con entusiasmo i portatori del caos».
Gli americani, come nel resto dell’Occidente, erano abituati al fatto che le generazioni dei figli migliorassero la condizione dei padri, ora, invece, l’American Dream appare tradito perché i figli stanno peggio. Il tema non è strettamente economico, ha molte implicazioni, in primo luogo culturali. Se è vero come afferma Regis Debray che nell’identità americana gioca un ruolo decisivo l’elemento religioso, bisogna capire quanto questo costituisca ancora il collante di milioni di uomini e donne.
Tutto ciò aiuta anche a riflettere in termini più generali sulla validità della pretesa universalistica del modello americano, della dottrina del “manifest destiny” della nazione americana, perché gli Stati Uniti dopo gli indubbi meriti che hanno acquisito nel Novecento, ora appaiono in difficoltà nel recitare ancora questo ruolo nella geopolitica mondiale.
In altri momenti storici, l’America ha avuto serie difficoltà, fu così dopo l’assassinio di John F. Kennedy e quando la sconfitta in Vietnam si saldò con lo scandalo Watergate in una miscela di sfiducia collettiva. Durante gli anni Ottanta seppe rinnovarsi e rilanciarsi vincendo la guerra fredda con l’Urss. In tempi di cronaca elettorale, alla vigilia, ormai del voto, vale la pena rileggere la storia americana.
La rivoluzione di Bernie, un futuro in cui credere
Sanderistas. Sanders lancia «Our Revolution», una strategia politica per insediarsi nella società americana e per divenirne una forza culturalmente egemone
di Michela Pusterla, Francesco Massimo (il manifesto, 28.08.2016)
Il ferro è caldo e va battuto: in sintesi sembra questa la strategia di Bernie Sanders e dei suoi all’indomani della Convention di Philadelphia. Per quanto si sia conclusa in una sconfitta, la campagna per le primarie di Sanders è rimasta ineguagliata per il numero di persone mobilitate e di donazioni ricevute (con un contributo medio di 30 dollari).
E Sanders ha intenzione di non sprecare il capitale politico che è stato capace di accumulare: del resto, l’aveva detto che non sarebbe finita con la Convention e - dopo aver congegnato la campagna elettorale più trascinante della storia d’America e con una lotta per l’egemonia nel Partito democratico ancora tutta da giocare - non intende certo tornare come se niente fosse al suo seggio di Senatore del Vermont.
Un capitale politico
La campagna di Clinton è giunta esausta all’appuntamento con Trump. La retorica elettorale dell’establishment democratico si regge sulla filosofia del meno-peggio e sulla paura che «such a man» diventi presidente: l’evocazione della paura - l’arma che ha permesso a Trump di ottenere la nomination - gli viene ora rivoltata contro.
E, in fondo, questo argomento ha svolto la sua funzione persuasiva anche su Sanders, che ha accettato la sconfitta alle primarie e chiesto ai suoi sostenitori di appoggiare Clinton nella sua corsa inarrestabile verso la Casa bianca. Un sondaggio recente del Pew Research Center rileva che l’85% dei sostenitori di Sanders voterà democratico a novembre, ma anche che il livello di soddisfazione fra gli elettori sia ai minimi da decenni. Dopo la scelta sofferta di un (imbarazzato) endorsement alla sua nemesi, Bernie Sanders decide di gestire politicamente quell’insoddisfazione che registrano i sondaggi e lancia un nuovo soggetto politico, battezzandolo con un nome che continua la tradizione delle «parole che pesano» inaugurata con «I’m a socialist»: si tratta di Our Revolution.
Creature post Filadelfia
Our Revolution è un’organizzazione noprofit, una creatura post-primarie che nasce per convogliare le energie creative del movimento politico creatosi intorno a Sanders e si pone come obiettivi di rivitalizzare la democrazia americana, potenziare i leader progressisti e aumentare la coscienza politica generale. La logica di fondo è: «Election days come and go, but the struggle must continue». E questa lotta, in particolare, è una lotta che mai prima aveva avuto tanto spazio nell’orizzonte delle elezioni americane.
Our Revolution è stata lanciata con una serie di email alla mailing list dei supporters: email che - fun fact - sono state considerate spam da Gmail, come tutte le precedenti della campagna di Sanders. Sanders invitava i suoi a ritrovarsi tutti per seguire il suo primo grande discorso di ripartenza. Come da manuale di rivoluzione 2.0, il 24 agosto, alle 9 di sera sull’Atlantico, alle 6 sul Pacifico, decine di migliaia di sanderistas si sono trovati in più di 2.600 locations sparse per gli Stati uniti (salotti, backyards, sale in affitto e luoghi pubblici) per collegarsi in streaming con quel senatore del Vermont che ha dato una scossa inaspettata alla noiosissima scena politica istituzionale americana.
Our Revolution riassorbe l’attivismo politico e sociale messo in moto dalla campagna per le primarie e cerca di connetterlo con le esperienze di associazionismo disperse sul territorio che possono servire da infrastruttura per un nuovo movimento politico: un movimento che ambisca ad avere influenza sulla politica ufficiale, a tutti i livelli istituzionali.
«Brothers and Sisters»
Le donne e gli uomini del movimento («brothers and sisters», con l’appellativo usato da Bernie) sono chiamati a candidarsi per tutte le posizioni elettive che saranno rinnovate nei prossimi anni, dagli school board nei distretti amministrativi locali fino al Senato federale. L’8 novembre prossimo - e si tende a dimenticarlo offuscati dal troppo parlare di presidenziali - si voterà anche per l’elezione di undici governatori di Stato (tra i quali il Vermont di Bernie Sanders) e di 435 membri della la House of Representatives e per un terzo dei seggi senatoriali. Quanto al Senato, verrà eletta una cosiddetta Class, cioè 34 senatori, eletti in altrettanti Stati, in questo caso, tra gli altri: California, New York e Vermont (ma non è in gioco il seggio di Bernie Sanders, il cui mandato come junior senator scadrà nel 2018).
«Our Revolution - ha detto Sanders ai suoi sostenitori radunati a Burlington (Vermont) o raggiunti via web - è ispirata dalla storica campagna presidenziale Bernie 2016. Coinvolgerà centinaia di migliaia di persone che lotteranno dal basso per un cambiamento negli school boards, nei loro consigli municipali, assemblee legislative locali e federali.
Non solo: si occuperanno di questioni fondamentali come finanziamento della politica, ambiente, sanità, lavoro, questioni di genere, e faranno tutto quanto è in loro potere per creare un’America fondata sul principio della giustizia economica, sociale, razziale e ambientale». Sanders ha dettato la sua linea politica: Our Revolution è un progetto politico a lungo termine che aspira a mobilitare le nuove generazioni («dai 45 anni in giù») perché «se abbiamo intercettato la grande maggioranza dei giovani di questo Paese, - e menziona esplicitamente i giovani delle minoranze - significa che le nostre idee sono il futuro degli Stati Uniti d’America». Quella che Sanders dice di aver vinto è la «battaglia idologica».
Lo spazio che la stampa americana - e con quella americana quella globale - sta dando a Our Revolution è coerente con quello che ha dato al suo guru per tutti i mesi di campagna per le primarie: irrisorio.
Il New York Times si limita a riportare le vicende interne allo staff di Sanders (l’ammutinamento di vari membri dopo la nomina di Jeff Weaver - che fa campagne per Bernie da più di trent’anni - a presidente dell’organizzazione); al di là della questione del finanziamento all’organizzazione la polemica sullo staff rivela forse che esiste un comando verticistico e che la nostra rivoluzione si fa dal basso, sì, ma il suo apparato manageriale non ama la partecipazione democratica.
In certi quartieri dei berners corre la voce che Weaver rappresenti più un problema che una risorsa, mentre Claire Sandberg e Kenneth Pennington - in fuga dal comitato di Our Revolution - pare stiano navigando verso Brand New Congress.
Movimenti apartitici
Se Our Revolution è la gemmazione ufficiale della campagna «A future to believe in» - in altre parole: si può fregiare a buon diritto del marchio Bernie Sanders - il movimento dei berners ha, com’era prevedibile, messo al mondo anche qualche figlio illegittimo. Uno dei più eclatanti è proprio quello di Brand New Congress, idea di un gruppo di supporters nata come tentativo di pensare al post-novembre quando ancora Sanders era un possibile concorrente di Donald Trump.
Brand New Congress è (per ora) un gruppo informale che si pone gli stessi macro-obiettivi di Sanders (e riproduce la retorica anti-establishment), ma sceglie di concentrarsi sulle elezioni al Congresso del 2018. Bnc si presenta come una piattaforma apartitica di supporto a coloro - preferibilmente non politici di professione - che vogliono candidarsi alle primarie (democratiche o repubblicane: in caso di sconfitta si corre comunque da indipendenti) e condividono con Bnc alcuni punti programmatici: competenza («be good at what they do»), dedizione alla cosa pubblica («serving their people»), rinnovamento delle cariche (rottamazione).
Inoltre Bnc - che si propone in una struttura verticistica - chiede ai candidati che aderiscono al progetto un’adesione totale al programma («agree on the whole platform»), che richiama altre esperienze europee, autodichiaratesi a-partitiche, di discesa in politica attraverso l’antipolitica.
Infine Bnc è pronta a presentare propri candidati anche alle primarie repubblicane, qualora sia il partito più forte nel distretto in questione, scelta che la distingue da Our Revolution. Quanto al legame di questo progetto con Our Revolution, per ora si registra un mutuo ignorarsi.
Con il lancio di Our Revolution Sanders inaugura una strategia politica che riesce a sfruttare la flessibilità del sistema politico americano, aperto alle incursioni degli outsider, e che evoca una volontà di insediarsi in profondità nella società americana e di divenire una forza politicamente e culturalmente egemone, ma soprattutto autonoma dal Partito democratico.
Se all’indomani della Convention e dell’endorsement quasi obbligato a Clinton, Sanders e il suo movimento sembravano destinati ad essere cooptati all’interno del partito ora sembra che abbiano preso una strada diversa. Sanders potrà così rispettare il patto con Clinton ma allo stesso tempo comincia a costruire un’organizzazione politica a partire dalle numerose cariche elettive che il sistema politica americano prevede.
Dall’altro lato, Our Revolution continuerà a dialogare con tutte i gruppi, come i Verdi di Jill Stein o i trotzkisti di Socialist Alternative, che hanno sostenuto o seguito con simpatia la campagna di Sanders ma che non ne hanno condiviso l’endorsement a Hillary, e che appoggiano Stein alle Presidenziali di novembre. Our Revolution, invece, guarda ben al di là delle Presidenziali, anche se non manca di volerne influenzare l’esito: ambisce ad essere i luogo di il catalizzatore di tutte le esperienze politiche di base che, pur animando la vita politica del Paese, ne restano ai margini perché disperse.
Dal 2011 gli Stati uniti sono stati attraversati da un ciclo di lotte ampio e innovativo: la battaglia del Wisconsin (la più grande mobilitazione operaia e anti-austerity nella storia dell’America contemporanea), Occupy Wall Street, la «Fight for 15$» (la lotta dei lavoratori dei fast food), le mobilitazioni studentesche per l’accesso all’educazione superiore gratuita, la People’s Climate March e, soprattutto, Black Lives Matter.
La campagna di Sanders non è certo l’espressione a livello elettorale di queste esperienze - anzi, ha dimostrato dei limiti nel dialogarci - tuttavia emerge dalle stesse dinamiche. Ma ad ora non è dato sapere se Our Revolution sarà lo strumento che finalmente coalizzerà questi soggetti, organizzerà il 99% e preparerà la resa dei conti con gli oligarchi di Wall Street.
Michelle Obama: "Ogni giorno mi sveglio in una casa costruita da schiavi" *
Il sogno americano è vivo e vegeto, e secondo Michelle Obama, la sua vita ne è la prova.
Il discorso, tenuto al City College di New York, dalla first lady davanti ai laurenadi, ha emozionato e riscosso applausi e approvazioni.
"È ’la storia che assisto ogni giorno - ha detto - quando mi sveglio in una casa che è stata costruita dagli schiavi, e guardo le mie figlie - due belle nere giovani donne - andare a scuola, salutando loro padre, il presidente degli Stati Uniti ".
La signora Obama ha continuato a ricordare ai laureati che, mentre i padri fondatori non avrebbero potuto immaginare il giorno in cui un uomo di colore potrebbe essere il presidente, "tutti voi siete il frutto della loro visione."
"La loro eredità è molto la vostra eredità. E la vostra eredità. E non lasciate che nessuno vi faccia pensare in modo diverso. Voi siete la prova vivente che il sogno americano dura ancora nel nostro tempo".
Harvard e il web rimangono stregati dal discorso di laurea di Donovan *
«Prendiamo il volo»: è il titolo dell’originale discorso poetico tenuto da un giovane laureato afroamericano durante la consegna dei diplomi alla Harvard Graduate School of Education, e diventato virale su Facebook, dove è stato visto da oltre 8 milioni di persone guadagnando l’attenzione delle celebrità. L’hanno condiviso, tra gli altri, la super star Justin Timberlake e la candidata presidenziale democratica Hillary Clinton.
Nel video, di circa 4 minuti, Donovan Livingston si rivolge ai suoi compagni di corso rievocando gli storici ostacoli che hanno impedito ai neri di ottenere un’educazione. Il discorso comincia con una citazione dell’educatore riformatore Horace Mann («L’istruzione, al di là di tutti gli altri dispositivi di origine umana, e un gran equalizzatore delle condizioni dell’uomo») del 1948, quando «io non potevo leggere, non potevo scrivere e ogni tentativo di farlo era punibile con la morte».
E prosegue con riferimenti a influenti afroamericani, come il poeta Langston Hughes e l’abolizionista Harriet Tubman. I versi parlano di disuguaglianze razziali nel sistema educativo, di cosa significhi essere studente di colore ad Harvard e invitano la classe del 2016 a utilizzare il proprio ruolo di educatori per aiutare gli altri a realizzare il loro pieno potenziale e a «spiccare il volo», andando oltre i loro limiti, il loro curriculum, i loro standard. «Sono stato un buco nero in classe per troppo tempo, assorbendo ogni cosa, senza irradiare la mia luce... - ha declamato Donovan - Ma quei giorni sono passati. Io appartengo alle stelle». E adesso insegna «con la speranza di trasformare i contenuti in navi spaziali e i problemi in telescopi, affinché un bambino possa vedere il loro potenziale dal punto in cui si trovano».
«Educare richiede una pazienza degna di Galileo», ha sottolineato. «Come educatori, piuttosto che coprire con le vostre voci il fruscio delle catene, rimuoviamole, togliamoci le manette, svincolati dal peso ingombrante della povertà e del privilegio», ha proseguito. «Siamo nati per essere comete, per sfrecciare attraverso lo spazio e il tempo, per lasciare il segno in ogni impresa in cui ci tuffiamo», ha aggiunto, ricordando che «Il cielo non è il limite. È solo l’inizio».
Ma, ha ammonito, «è una ingiustizia dire che l’educazione è la chiave mentre continui a cambiare la serratura». Figlio di due insegnanti - papà in pensione e mamma logopedista, che lavora con gli studenti con handicap - Livingston spera ora di diventare un membro della facoltà, che ha deciso di postare il suo intervento su Facebook perché è «uno dei discorsi degli studenti più forti e sentiti che avete mai udito».
Il presidente eletto annuncia: pronuncerò la tradizionale frase sulla Bibbia di Lincoln
Obama, no agli atei: «Giurerò invocando Dio»
Intentata un’azione legale ma Barack, religioso, assicura che non rinuncerà all’invocazione: «Che Dio mi aiuti»
di Ennio Caretto (Corriere della Sera, 14.01.2009)
WASHINGTON - Il nome di Dio viene invocato molto spesso dallo stato americano. «In God we trust», Confidiamo in Dio, è il motto stampato sulle sue banconote. «One nation under God», Una nazione sotto Dio, figura nel Giuramento alla bandiera dal ’54, l’era dell’anticomunismo. «God bless America », Dio benedica l’America, è la chiosa finale dei discorsi presidenziali. E alla sua inaugurazione, il nuovo presidente chiede «So help me God», Che Dio mi aiuti. Una tradizione, sostengono molti storici, iniziata da George Washington nel 1789 (è tuttavia dubbio) e osservata solo da alcuni suoi successori, ma divenuta prassi dal ’33, con Franklin Roosevelt, il quale forse segretamente dubitava di riuscire a salvare il Paese dalla Grande depressione senza l’appoggio divino.
Le continue invocazioni a Dio hanno così disturbato gli atei americani - secondo cui sono incostituzionali - che un loro esponente di punta, il medico californiano Michael Newdow, ha citato a giudizio (a nome di 10 associazioni e 17 persone) i comitati organizzatori dell’inaugurazione di Obama, i due predicatori Joseph Lowery e Rick Warren, che terranno le preghiere, nonché il presidente della Corte suprema John Roberts, chiedendo che alla cerimonia non si pronunci la parola «Dio» e Obama non concluda il solenne giuramento - «Svolgerò fedelmente l’incarico di presidente, e farò del mio meglio per preservare proteggere e difendere la Costituzione » - col fatidico «So help me God». È difficile che il tribunale federale sentenzi in tempo - la citazione è del 31 dicembre scorso - anzi è probabile che finisca per respingerla.
Ma Obama, che è religioso e giurerà sulla Bibbia di Lincoln, il presidente dell’abolizione della schiavitù, l’ha anticipato affermando che dirà «Dio mi aiuti». È un’invocazione che non intacca il principio della separazione Stato-Chiesa, hanno notato i portavoce, e che non viola la Costituzione, il cui primo articolo vieta al Congresso di stabilire una religione in America. Un atto di fede appropriato in un momento molto delicato per il Paese.
Newdow ha incassato. Ha spiegato di non avere citato Obama personalmente «perché come cittadino ha il diritto di osservare la sua religione », ma di sperare ancora che dica «So help me God» in privato. E ha aggiunto che se bocciato dal tribunale ricorrerà in appello, per ottenere che dopo le elezioni del 2012 Obama o il suo successore rinuncino al «Dio mi aiuti».
Una missione impossibile? Newdow fallì già nel 2001 e nel 2005 all’insediamento di Bush alla Casa Bianca, epoca in cui i neocon si battevano perché l’America si definisse una repubblica cristiana. I credenti americani lo attaccarono. «Vuole che lo stato smentisca l’esistenza di Dio», ribatté Scott Walter della Fondazione della libertà di religione. «Ma i nostri valori si basano su di essa».
Obama, il razzismo e l’italia
di Barbara Spinelli (La Stampa, 19.10.2008)
Non è la prima volta che gli italiani s’interrogano su propri difetti e chiusure, pur credendo d’essere un popolo per natura buono, aperto al forestiero e innocente. L’innocente spesso è attratto dal male - specie dai vizi contrari alle proprie virtù - perché certi mali li ha magari patiti, ma non vedendoli in sé non li conosce. È quel che succede oggi, con il moltiplicarsi di xenofobie e violenze. Dopo la caduta di Prodi i vizi si sono dilatati, e non solo a causa di dispositivi come le impronte digitali ai bambini rom o il reato di clandestinità, ma perché in concomitanza con quella caduta son svaniti d’un tratto un gran numero di tabù e inibizioni.
La volontà di creare classi separate per i bambini immigrati che non padroneggiano l’italiano, manifestata dalla Lega, nasce in questo clima, già torbido. Sul New York Times del 12 ottobre, Rachel Donadio osserva che la xenofobia è particolarmente forte in Italia, «trasformatasi solo di recente in Paese d’immigrazione». Ragionare sull’integrazione è difficile quando il multiculturalismo cessa di essere una possibilità diventando un fatto, e dai cieli dell’ideologia tocca atterrare sul pavimento del reale. Il razzismo è bestia strana: a volte esiste prescindendo dalle razze (l’antisemitismo senza ebrei in Est Europa o Asia), altre volte è diffuso pur essendo condiviso da pochi (il razzismo senza razzisti in America).
Tanto più importante è quello che accadrà negli Stati Uniti, il 4 novembre. Se Barack Obama dovesse vincere, molte cose cambierebbero nei Paesi europei tentati dalla chiusura allo straniero, non solo nella politica ma nel costume e nella conversazione cittadina. Per forza il ragionamento sulla mescolanza di culture incorporerebbe le scosse d’Oltreoceano.
Come nella finanza mondiale, anche queste scosse hanno le caratteristiche della tempesta perfetta, del perfect storm raccontato dallo scrittore Sebastian Junger. Così son chiamate le tempeste i cui effetti sono massimizzati dal concorrere imprevisto di circostanze diverse, che mutano non solo l’agire ma il pensare. Analoga tempesta potrebbe scompaginare le nostre società, qualora Obama vincesse.
Sono decenni che intellettuali e politici s’ingegnano a denunciare il politicamente corretto, che negli Anni 70 impedì di analizzare seriamente le differenze fra culture o generi, e addirittura negò tali differenze. Questa idealizzazione produsse un’ideologia contraria non meno astratta, fautrice del politicamente scorretto, che senza speciali patemi condona la xenofobia. Anche nel rapporto col diverso, come nella finanza, i paradigmi dominanti sono inciampati sulla realtà, fallendo.
Naturalmente il razzismo - come il fascismo - non è lo stesso di ieri. Mutano le parole, gli atti. Ma se un politico consapevole come Fini comincia ad allarmarsi, c’è da stare attenti. Il fondatore di An conosce bene il lato buio dell’innocenza italiana. Se dice, come giovedì alla sinagoga romana, che «razzismo e xenofobia sono una sorta di mostro che può risorgere in forme e modalità diverse»; se aggiunge che «in Italia ci sono troppe, troppe dimostrazioni di ignoranza, paura, avversione», e che questi fenomeni, «se non affrontati nei modi dovuti, possono diventare razzismo», vuol dire che qualcosa di marcio c’è.
Meglio chiamarlo xenofobia, perché il razzismo si concentra sulla natura genetica del diverso. Ma all’origine è sempre la diversità che incollerisce, e nascondersi dietro distinguo linguistici non aiuta. Perfino la religione può divenire un diversivo: il giornalista Nicholas Kristof sostiene che le voci su Obama musulmano sono in realtà surrogati della calunnia razziale (New York Times, 21 settembre). Non sarà razzismo quello che abbiamo davanti, ma di certo è il sentimento che l’antropologo Claude Lévi-Strauss descrisse nel ’52 e nel ’71 (Razza e Storia. Razza e cultura, Einaudi 2002): è paura dell’ibrido culturale. Questo sentimento, unito a ingredienti come l’ignoranza citata da Fini e alla diseguaglianza mondiale che accentua le migrazioni di popoli, sfocia in razzismi moderni spesso sottovalutati anche dai liberali.
Proprio perché sta trasformandosi, l’Italia deve fabbricarsi con urgenza un pensiero e una politica lungimiranti sulla società multiculturale. Isolare dalle classi i bambini stranieri, schedare i rom: sono mosse emotive non solo pericolose ma sterili, come la storia di molti Paesi europei insegna. Lo ricorda il linguista Tullio De Mauro: «Più le classi sono eterogenee, migliori sono i risultati degli alunni. Dei più bravi e dei peggiori» (Corriere della Sera, 17 ottobre). Chi lascia passare simili idee accetta che l’integrazione avvenga in tali modi: sbrigativi, brutali, e infruttuosi. Lévi-Strauss descrive le trappole di un’integrazione che accorpa il diverso odiando la varietà: «è in pericolo la civiltà», la sua capacità di preservarsi mutando. Il progresso avviene solo «quando si creano coalizioni di culture»: solo in tal caso, scrive, non si ha storia stazionaria, solitaria, ma storia cumulativa come nel Rinascimento o nel Neolitico. L’avversione al meticciato espressa da Marcello Pera, il 21 agosto 2005, fu un contributo non minore alla tempesta odierna: sinonimo di bastardo, il meticcio era sospettato di aprire le porte «all’immigrazione incontrollata», al declino demografico, «e così via, di allarme in allarme».
Il discorso sulla razza che Obama ha tenuto a Filadelfia il 18 marzo è decisivo anche per l’Italia che sta divenendo melting pot, crogiolo dove varie culture formano la nazione. L’editore Rizzoli ha avuto l’ottima idea di pubblicarlo, con una prefazione di Giancarlo Bosetti (Sulla razza, 2008). Conviene leggerlo, perché aiuterà a capire meglio presente e futuro. Ci si renderà conto che molto resta da fare, per eliminare non solo i pregiudizi dei bianchi ma anche dei neri. Ambedue sono chiamati a una rivoluzione mentale, da Obama. I bianchi devono scoprire che esiste ormai un razzismo senza razzisti, come spiegato da importanti sociologi (Eduardo Bonilla-Silva, Racism without Racists, 2003; Michael Brown, Whitewashing Race, 2005). Ma anche le minoranze nere, accecate da pregiudizi, devono trasformarsi.
Il fatto è che dal dopoguerra esiste una sorta di consenso progressista, a proposito delle minoranze, modellato sulla storia israeliana e sull’idea che ogni minoranza oppressa o discriminata, cominciando dai neri americani, ha da compiere un Esodo dalla schiavitù. L’Esodo è il nuovo mito planetario, e in genere si combina con il rigetto dell’assimilazione avvenuto nell’ebraismo europeo. Ambedue - mito e rigetto - vanno oggi rimeditati: la frammentazione identitaria non può divenire il modello d’ogni minoranza, pena l’impossibilità di quella coalizione delle culture cui accenna Lévi-Strauss quando invoca una storia cumulativa, non statica. L’assimilazione va rinominata, ma da essa occorrerà ripartire.
È come se Obama avesse appreso da Lévi-Strauss le insidie delle solitudini storiche che fossilizzano. Quando dice che l’Unione creata dai fondatori americani non è compiuta ma da compiere, quando ricorda al reverendo Wright della Chiesa Nera che «la società non ha nulla di statico» ma può cambiare, migliorare, smaschera gli stereotipi bianchi e anche la fuga dei neri nell’identità chiusa e nella disperazione. L’audacia della speranza è possibile perché le società vive non sono immobili. Vale anche per l’Italia.
L’uomo xenofobo ha le passioni tristi descritte da Spinoza: risentimento, paura che svuota il futuro, incapacità di sperare e perfino desiderare. Acchiappa salvagenti con gesti di naufrago, pensando che la vita sia un gioco a somma zero, in cui guadagniamo se l’altro perde. Una vittoria di Obama farebbe bene non solo all’America, e non perché sia un candidato nero o di sinistra. Perché confuterebbe la storia stazionaria in cui ogni civiltà stagna e perisce.
Il candidato democratico fa sognare la folla radunata a Berlino
E ai microfoni di Sky Tg 24 dice: "Verrò presto in Italia"
Obama: "Abbattere tutti i Muri
che dividono popoli e razze"
Il discorso davanti a oltre 100 mila persone entusiaste
Grande enfasi sulla collaborazione tra Usa e Unione europea *
BERLINO - Barack Obama verrà presto in Italia: "La amo, un Paese meraviglioso, prometto che verrò appena possibile", dice il candidato democratico ai microfoni fi Sky Tg 24. Proprio nel giorno in cui, da Berlino, pronuncia un trionfale discorso davanti alla Colonna della Vittoria, applaudito da oltre centomila tedeschi entusiasti: "L’America non può isolarsi, l’Europa neanche. E’ arrivato il momento di costruire nuovi ponti, di abbattere i Muri che dividono popoli e razze".
"Vogliamo una Unione europea forte - sostiene il senatore dell’Illinois - l’Europa è il migliore partner degli Usa". E allora, prosegue, "insieme bisogna unirci per salvare il pianeta". Abbattendo tutte le diversità: tra neri e bianchi, tra musulmani e ebrei, tra ricchi e poveri. "Usa e Europa dovranno fare di più per questo - aggiunge - non vi parlo da candidato americano - ha aggiunto - ma da cittadino del mondo. Non assomiglio agli americani che hanno parlato qui prima di me, la mia storia personale è diversa, una storia americana. Il padre di mio padre era un servo degli inglesi, un cuoco".
"Ringrazio la Merkel e il ministro degli Esteri Steinmeier per il benvenuto che mi hanno dato - dice ancota Obama - ma ringrazio soprattutto Berlino. Questa città come molte altre conosce il sogno della Libertà". E ancora: "Persone del mondo guardate Berlino, dove il Muro è caduto e dove la storia ha provato che non c’è una sfida che non si può combattere per il mondo unito".
Tra i suoi passaggi più politici, da segnalare quelli sull’Iran ("deve abbandonare le sue ambizioni nucleari militari") e sull’Afghanistan: "L’America non può farlo da sola, il popolo afghano ha bisogno delle nostre truppe e delle vostre truppe (europee, ndr)".
In definitiva, per Obama, un grande successo. In questo tour europeo che prosegue a Parigi, e che segue le trasferte in Afghanistan e in Israel. E con la capitale tedesca caduta in piena obamamania. E se nel 1963 John Kennedy è passato alla storia per la celebre frase "Ich bin ein berliner", oggi l’aspirante presidente ha conquistato tutti con un semplice "I love Berlin".
La frase è stata pronunciata al termine dei suoi colloqui con il ministro degli Esteri tedesco Frank Walter Steinmeier. Dopo gli incontri con le autorità, tra cui questa mattina il ricevimento in Cancelleria del capo di governo tedesco Angela Merkel, Obama ha fatto una scappata all’hotel di lusso Ritz Carlton, per fare un’oretta di fitness. Poi, il bagno di folla, con circa 100 mila persone pronte a seguire il suo discorso alla Siegessaeule, la Volonna della vittoria, che sorge al centro del Tiergarten.
* la Repubblica, 24 luglio 2008.
Hillary Clinton dà pieno appoggio
a Obama: "Facciamolo eleggere"
WASHINGTON - "Il modo migliore per continuare la nostra lotta e raggiungere i nostri scopi è che i nostri sforzi siano diretti a far eleggere Barak Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Gli faccio le mie congratulazioni, e gli dò il mio pieno sostegno, e chiedo a tutti voi di unirvi a me e di lavorare sodo per Barak Obama così come avete fatto per me". Con queste parole Hillary Clinton ha annunciato la chiusura della sua campagna presidenziale, dando contestualmente pieno appoggio al rivale Barak Obama.
Applaudita da migliaia di sostenitori al National Building Museum, Hillary Clinton ha avuto parole di apprezzamento pieno per Obama: "Sono stata con lui in Senato per quattro anni e in questa campagna per 16 mesi: ho visto la sua forza, la sua determinazione. Con la sua vita Barak Obama ha vissuto il sogno americano: questo sogno dev’essere realizzato. Quando ho iniziato questa campagna volevo che riottenessimo la Casa Bianca, con un presidente che promuovesse la pace e il progresso, ed è questo che faremo sostenendo Barak Obama".
La senatrice Clinton ha ribadito l’importanza dei propri obiettivi, a sostegno dei più deboli, e ha ringraziato più volte i suoi sostenitori: "Questa non è proprio la festa che avevo in programma, - ha ammesso - ma mi piace la compagnia. Vorrei dirvi quanto sono grata a tutti coloro che hanno messo il cuore il questa campagna, che hanno fatto chilometri, che hanno mandato email, contributi, e che hanno investito così tanto nella nostra impresa".
"Un giorno vivremo in un’America in cui ci sarà una classe media più forte. Vivremo in un’America alimentata da energie alternative, un’America più forte: per questo dobbiamo eleggere Obama presidente. Dobbiamo riportare a casa le truppe: un giorno vivremo in un’America più leale con i suoi soldati. Per questo dobbiamo far eleggere Obama presidente", ha ripetuto Hillary Clinton.
"Quando abbiamo cominciato ci siamo fatti una domanda: potrà una donna essere comandante a capo? Abbiamo risposto a questa domanda. E poi ci siamo posti un’altra domanda: potrà un nero essere presidente? Abbiamo risposto anche a questa", ha detto ancora la senatrice democratica.
"Io sono una donna, e come milioni di donne so che ci sono delle barriere e dei pregiudizi, involontari a volte. A differenza di mia madre, ho avuto quest’opportunità, e voglio lasciare un’America migliore a mia figlia: un luogo dove le donne possano godere degli stessi diritti, della stessa paga e dello stesso rispetto. Lavoriamo per raggiungere questi scopi - ha ribadito - non ci sono limiti accettabili, e non ci sono pregiudizi accettabili.
* la Repubblica, 7 giugno 2008
Nella doppia sfida senza storia il confronto in North Carolina
Nell’Indiana testa a testa fino all’ultimo. Poi la spunta la Clinton
Usa: pareggio, ma Obama sale
’Sempre più vicino alla nomination’
Ora il senatore dell’Illinois dovrebbe avere 155 delegati di vantaggio
Secondo gli analisti della Nbc e il sito Drudge Report, Hillary dovrebbe gettare la spugna
di MARIO CALABRESI *
NEW YORK - Hillary Clinton ha pareggiato all’ultimo minuto, a notte fonda, conquistando la vittoria in Indiana per poco più di 20mila voti, dopo aver malamente perso in North Carolina. Un pareggio che la tiene virtualmente ancora in corsa, anche se l’ex first lady ha ora cancellato tutte le apparizioni agli show televisivi del mattino e gli incontri pubblici per oggi. Tanto che i blog e i siti internet più aggressivi sostengono che potrebbe gettare la spugna e già definiscono Barack Obama "The Nominee", il candidato che ha ottenuto la nomination.
Il risultato definitivo dell’Indiana è arrivato all’una e mezza di notte, dopo uno scrutinio mozzafiato: la Clinton fino a tre quarti dello spoglio era in netto vantaggio, tanto che poco prima delle 23 aveva pronunciato il discorso della vittoria a Indianapolis, sottolineando che la sua corsa sarebbe proseguita. Poi il suo margine di vantaggio si era progressivamente ridotto fino ad arrivare ad un pugno di voti, mentre mancava la contea della città di Gary, una sorta di sobborgo di Chicago con una larga maggioranza di elettori neri. Alla fine ce l’ha fatta, ma il vincitore dell’ultimo grande martedì elettorale è Barack Obama che ha conquistato nettamente la North Carolina (56 a 42) e ha dimostrato di essere in partita anche in uno Stato come l’Indiana dove prevale il ceto medio bianco.
Con il 99 per cento delle schede scrutinate, Obama prende 58 delegati in North Carolina e 33 nell’Indiana. Hillary Clinton ne ottiene rispettivamente 42 e 37. Totale di giornata: 91 a 79. Totale generale: 1.836 a 1.681; 155 delegati di vantaggio per Obama. Ora gliene mancano circa duecento per la nomination. Abbastanza per far dire al sito di fossip politico, Drudge Report, ma anche agli analisti della Nbc che la partita è chiusa e che Obama contenderà al repubblicano McCain la presidenza degli Stati Uniti.
Il senatore nero ha festeggiato la vittoria in North Carolina a Raleigh con un discorso assolutamente non polemico, tutto rivolto al voto di novembre e a contrastare John McCain. Obama sembra aver superato le difficoltà degli ultimi giorni legate alle polemiche per le esternazioni del suo pastore, il discusso reverendo Wright, ha promesso di unire il partito "per evitare agli americani altri quattro anni di amministrazione repubblicana, in cui si tagliano le tasse ai più ricchi e alle multinazionali che portano il lavoro all’estero, mentre il ceto medio perde il lavoro, la sanità e le pensioni".
Anche la Clinton, dopo aver promesso battaglia per poter avere anche i voti di Florida e Michigan (due Stati dove ha vinto ma che sono stati "squalificati" per aver anticipato la data delle primarie), ha voluto assicurare che lavorerà per chi verrà nominato e che la cosa fondamentale è la vittoria dei democratici a novembre.
Hillary ora potrebbe essere spinta al ritiro, visto che Obama continua ad avere più delegati, più voti e più Stati, ma potrebbe anche tentare di andare ancora avanti fino alla fine delle primarie, il 3 giugno, sostenendo che Obama non è in grado di conquistare gli Stati dove pesa maggiormente la classe media e che non può così pensare credibilmente di sfidare John McCain a novembre. In questo caso farebbe appello ai superdelegati - i quadri del partito che hanno diritto di voto - chiedendo loro di ribaltare il risultato uscito dalle urne.
Obama per cercare di chiudere definitivamente la partita ha speso oltre sei milioni di dollari per trasmettere quasi 17mila spot televisivi solo nell’ultima settimana (Hillary si è fermata a quota 9000 con una spesa di tre milioni).
Questa corsa così faticosa e litigiosa potrebbe far pensare che gli elettori ne siano ormai disgustati, ma l’altissima affluenza registrata ieri alle urne - si è passati dal 30 per cento del 2004, al 50 per cento di ieri - mostra che il popolo dei democratici è invece galvanizzato dalla sfida. La vera controindicazione è però la spaccatura che si è creata all’interno del partito, che fino a pochi mesi fa sembrava marciare compatto verso la Casa Bianca, ma che oggi sta regalando una nuova giovinezza a John McCain. Ieri, all’uscita dalle urne, più della metà dei supporter di Hillary ha detto che a novembre non è disposta a votare per Barack, così un terzo degli elettori di Obama non sosterrebbe la Clinton. Anche per questo i due hanno voluto lanciare un appello all’unità.
* la Repubblica, 7 maggio 2008
Hillary, Obama e gli operai
di Immanuel Wallerstein *
In tutto il mondo il 1° maggio è celebrato come la festa dei lavoratori. Unica eccezione gli Stati Uniti. L’ironia è che il 1° maggio si celebra in memoria di un evento americano, la rivolta di Haymarket a Chicago. Il 1° maggio 1886 in molte città americane i lavoratori furono impegnati in uno sciopero generale in difesa delle otto ore lavorative. A Chicago, 80 mila lavoratori marciarono per questo. Al quarto giorno di manifestazioni esplosero le violenze. Chi e come le provocò non è ancora chiarito. Alcuni poliziotti furono uccisi. Come conseguenza degli incidenti, i leaders dello sciopero furono tutti arrestati e quattro di loro furono condannati a morte con l’accusa di omicidio. Anche se erano sindacalisti immigrati dalla Germania, morirono cantando la Marsigliese, una espressione della solidarietà di classe internazionale. Nonostante questo, i politici negli Stati Uniti hanno sempre provato a minimizzare l’importanza dello scontro di classe, dicono che non sia uno dei temi della politica americana, ed è questa una delle ragioni per cui non si celebra negli Stati Uniti il 1° maggio.
Siamo nel 2008, ed è in corso una dura corsa per la presidenza degli Stati Uniti. C’è una competizione in campo Democratico per la nomination. In lizza una donna e un afro-americano. Il candidato per i Repubblicani è un uomo bianco. All’inizio, tutti hanno negato che la questione della "razza" e del genere fossero un problema. Ma man mano che la competizione è diventata più feroce, sia la "razza" che il genere sono venuti alla ribalta. Ma tutti continuano a negare che la questione di classe sia un tema.
L’incrocio tra "razza", genere e classi è una delle vecchie storie del moderno sistema mondiale. E’ al centro della storia politica degli Stati Uniti. Il 1848, è stato un anno di importanti turbolenze politiche in tutto il mondo. La Francia assisteva alla prima rivoluzione sociale della sua storia moderna, e in tutta Europa vi furono sommosse nazionaliste, tanto che gli storici la chiamarono "la primavera delle Nazioni". Negli Stati Uniti l’evento più importante fu la Seneca Falls Convention, che viene indicata da molti come la fondazione del movimento femminista americano. La sua famosa "Dichiarazione dei sentimenti" del 20 luglio 1848, che riprendeva la dichiarazione di Indipendenza, inziava così: "Riteniamo chiare di per sé le seguenti verità: che tutti gli uomini e le donne sono stati creati uguali". Tra le lamentele elencate nel documento c’era il fatto che le donne erano deprivate "dell’inalienabile diritto al voto", diritto che sarà poi riconosciuto "anche al più ignorante e al più indegno degli uomini, sia indigeni che stranieri".
ELEZIONI USA 2008
Valanga voto anticipato
Obama in testa di 6 punti
Si prevede affluenza record. Un professore di Oxford pagato per dimostrare che un ex terrorista ha scritto l’autobiografia del senatore democratico
WASHINGTON - Ultime battute della campagna presidenziale americana, con i due sfidanti impegnati a conquistare i voti degli indecisi in un pugno di Stati considerati determinanti per l’esito del voto del 4 novembre. Obama rimane saldamente in vantaggio nei sondaggi, con un più 6 per cento secondo l’indagine quotidiana di Zogby per Reuters-C/SPAN (50 per cento contro il 44 per cento di John McCain), cifra confermata dalla media dei sondaggi operata da Pollster (50,2 contro 43,8). A 48 ore dal voto la tendenza delle intenzioni di voto in favore del candidato democratico si può dire sia rimasta invariata per tutta la durata della campagna elettorale, evento con pochi precedenti.
Il fattore più sorprendente di questi ultimi scorci di campagna è senz’altro la corsa al voto anticipato nei 30 Stati dove questa possibilità è offerta agli elettori. Sono ben 20 milioni gli americani che hanno scelto di recarsi alle urne o di inviare per posta la scheda prima del 4 novembre e in Stati decisivi come la Florida e l’Ohio le file ai seggi sono notevoli. Secondo gli analisti l’affluenza finale alle urne per queste presidenziali potrebbe segnare un record storico, arrivare a toccare le punte degli anni 60 o forse addirittura conquistando il primo posto nell’ultimo secolo.
La maggioranza di questi elettori, secondo i sondaggi, preferisce il senatore democratico. Ma ci sono ancora 20 milioni di elettori indecisi ed è per loro che i due candidati spendono in queste ore le loro ultime energie. Dalla scelta dei luoghi dei comizi, che ormai si susseguono senza sosta in diversi Stati nel giro delle 24 ore, si può avere un’indicazione del tono della campagna: difensivo da parte di McCain, che punta su Pennsylvania e New Hampshire (Stati vinti da Kerry nel 2004) per tentare di rovesciare a favore dei repubblicani il conteggio dei voti elettorali, temendo che alcuni dei grandi Stati conquistati da Bush 4 anni fa (come Florida e Ohio) saranno espugnati da Obama.
Ieri Obama è volato dal Nevada al Coloradio al Missouri, dopo essere apparso in Iowa e Indiana - tutti Stati che hanno votato repubblicano quattro anni fa. Oggi sarà in Ohio - lo Stato che decretò la vittoria di Bush nel 2004 - e in Virginia domani, dove i democratici non vincono da trent’anni.
Ingente l’impegno di spesa per questi viaggi e le relative campagne pubblicitarie. Dal 21 al 28 ottobre, la campagna di Obama ha speso circa 21,5 milioni di dollari in pubblicità elettorale, rispetto ai 7,5 milioni del senatore repubblicano. Oltre il 70% di questa spesa si è concentrata negli Stati repubblicani. Venerdì è stata lanciata un’altra serie di affissioni e spot in North Dakota, Georgia e persino in Arizona, a casa di McCain - mossa che è suonata più come una provocazione che una reale intenzione di strappar voti.
McCain, intanto, ha passato il venerdì in Ohio, ieri è stato in Virginia e andrà in Pennsylvania, l’unico grande Stato democratico che può costituire una speranza di rimonta per i repubblicani. Qui i sondaggi però danno ancora i democratici saldamente in testa.
E per tentare di rovesciare in extremis una campagna finora poco fortunata, i repubblicani cercano di giocare ancora una volta la carta di Obama "terrorista" (ieri sera al comizio della candidata vice di McCain, Sarah Palin, la folla scandiva "McCain, non Hussein", a rimarcare il secondo nome di origine islamica di Barack Obama, che pure non è di fede musulmana). Un professore di Oxford esperto di decrittazione informatica di testi ha ricevuto diecimila dollari di compenso per dimostrare con il suo software che l’autobiografia di Obama "Dreams of my father" è stata in realtà scritta da William Ayers, l’ex attivista radicale che negli anni 60 piazzò bombe negli Stati Uniti e che negli anni 90 Obama conobbe a Chicago. Dall’analisi del suo libro "Fugitive Days", il professor Peter Millican dovrebbe trovare analogie linguistiche tali da inchiodare Obama allo scomodo ghostwriter. Impresa rocambolesca, che la dice lunga sullo stato di ansia del campo di McCain.
Il timore della vigilia di voto comincia però a essere che la grande affluenza possa creare situazioni di caos e di possibili contestazioni (come accadde nel 2004 in Ohio, quando molti elettori non vennero fatti accedere alle urne). Come già accaduto in passato, l’Osce ha inviato negli Stati Uniti una missione di un centinaio di "osservatori" internazionali per vigilare sulla correttezza delle operazioni di voto. Ne fanno parte anche sette italiani, guidati dalla senatrice Pdl Allegrini, dispiegati in Florida, Missouri e New Hampshire. Oltre a questi, sarà controllata la correttezza del voto in North Carolina, Virginia, Maryland, Ohio, Colorado e New Mexico.
* la Repubblica, 2 novembre 2008