LA MEDITAZIONE
di Marianne Williamson *
La nostra paura più profonda
non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda,
è di essere potenti oltre ogni limite.
È la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.
Ci domandiamo: "Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso?"
In realtà chi sei tu per Non esserlo?
Siamo figli di Dio.
Il nostro giocare in piccolo,
non serve al mondo.
Non c’è nulla di illuminato
nello sminuire se stessi cosicché gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere,
come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi:
è in ognuno di noi.
E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo
agli altri la possibilità di fare lo stesso.
E quando ci liberiamo dalle nostre paure,
la nostra presenza
automaticamente libera gli altri.
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, p. 6.
*
Per il testo della poesia, cfr.: PensieriParole dal libro "Ritorno all’amore" di Marianne Williamson
Sul tema, in rete, si cfr.:
VERITÀ E RICONCILIAZIONE. LA SAGGIA INDICAZIONE DEL SUDAFRICA DI MANDELA, DI TUTU, E DI DECLERCK
"COME TI CHIAMI?": LA QUESTIONE DEL NOME, A TUTTI I LIVELLI.
UN "SAUSSURE" DI ANTROPOLOGIA CHIASMATICA ("#CRISTOLOGIA"), #FILOLOGIA, #STORIA, #PSICOANALISI, #PSICHIATRIA, E #LINGUISTICA...
“Bisogna delirare un po’ per trovare il nome giusto”, scrive Pietro Barbetta nel libro "#Follia e #creazione. Il caso clinico come esperienza letteraria" (Mimesis Edizioni, 2012). #Anna Stefi, nella sua recensione (cfr. "Pietro Barbetta. Follia e creazione", "Doppiozero", 13 marzo 2013 ), muove dal #nodo fondamentale del discorso:
Una indicazione e una sottolineatura formidabile, a mio parere, un segnavia per venir fuori dall’orizzonte della tragedia, della #claustrofilia (Elvio Fachinelli, 1983), e aprire la strada a "una #schizofrenia della #salute" (#Rubina Giorgi)!
#STORIAELETTERATURA E #METATEATRO: "THE MOUSETRAP" (#SHAKESPEARE). Questo è il problema amletico su cui riflettere: ne va del proprio "essere, o non essere" ("#Amleto").
CREATIVITA’ E #MENTE ACCOGLIENTE: #COMENASCONOIBAMBINI? Freud dice: "La psicoanalisi è una mia #creatura". Ma "Chi", #Chi (lettera dell’ alfabeto greco: "X"), ha dato il nome a "#PietroBarbetta": al "#bambino" (a tutti gli "esseri" del "mondo")?!
MEMORIA, ANTROPOLOGIA, E "RAPPORTI SOCIALI DI PRODUZIONE" (27 GENNAIO 2024):
STORIA E FILOLOGIA: IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO).
RIMEDITARE INSIEME ALLA LEZIONE DI NIETZSCHE ("Sull’utilità e il danno della storia per la vita"), ANCHE QUELLA DI ESCHILO («i morti uccidono i vivi») E DI MARX ("Il morto fa presa sul vivo!").
Se non ora, quando!?
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN...
#Earthrise #Kant2024
27 GENNAIO 2024: USCIRE A "RIVEDERE LE STELLE" (DANTE ALIGHIERI, Inf. XXXIV, 139).
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA.... *
Siamo fili dell’unico arazzo dell’essere
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 31 dicembre 2020)
II Domenica dopo Natale
Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.
In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).
Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui.
«In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.
In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini.
Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera.
Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia».
Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
FLS
NELSON MANDELA, “IL GRANDE CAMMINO VERSO LA LIBERTÀ”, E L’ UBUNTUMANITÀ...
Una nota a margine di "Demobuntocrazia: cos’è?" *
TUTTAVIA, FORSE, E’ BENE RICORDARE CHE LA PAROLA “UBUNTU” viene dalla lezione di un “ragazzo della tribù Xhosa”, da Nelson Mandela: “[...] in Sudafrica, dove sembra che l’avventura di tutto il genere umano sia cominciata, si ricordano e sanno, come tutto ha avuto inizio, e, con un bel termine e un bel concetto - ubuntu, così traducono e dicono: “Le persone diventano persone attraverso altre persone”. Nelson Mandela (Rolihlahla, il suo nome originale e tribale significa “colui che tira il ramo di un albero”, o se si vuole e più chiaramente “colui che è un attaccabrighe” contro l’ingiustizia e la disumanità), questo l’ha appreso sin da piccolo, non l’ha più dimenticato, e ne ha fatto la stella-guida di tutta la sua vita e della sua lotta: “La struttura e l’organizzazione delle antiche società africane (prima dell’arrivo dei bianchi) mi hanno molto affascinato e hanno profondamente influito sull’evoluzione della mia visione politica. La terra, allora il principale mezzo di sostentamento, apparteneva a tutta la tribù, senza proprietà individuale. Non esistevano classi, né ricchi o poveri e nemmeno sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Tutti erano liberi e uguali e questo era il fondamento del governo [... ] Un tempo mitico nel senso proprio del termine, con tutti i valori pedagogici che ne derivano. L’obiettivo, a cui tendono gli anziani della tribù, è quello di trasmettere un messaggio ai giovani: la libertà è esistita; bisognerà riconquistarla” (cfr. Lungo cammino verso la libertà, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 20) [...]” (cfr. “CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ ...pdf, pp. 17-18: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5722).
Una voce
Che cos’è la paura?
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 13 luglio 2020)
Che cos’è la paura, nella quale oggi gli uomini sembrano a tal punto caduti, da dimenticare le proprie convinzioni etiche, politiche e religiose? Qualcosa di familiare, certo - eppure, se cerchiamo di definirla, sembra ostinatamente sottrarsi alla comprensione.
Della paura come tonalità emotiva, Heidegger ha dato una trattazione esemplare nel par. 30 di Essere e tempo. Essa può esser compresa solo se non si dimentica che l’Esserci (questo è il termine che designa la struttura esistenziale dell’uomo) è sempre già disposto in una tonalità emotiva, che costituisce la sua originaria apertura al mondo. Proprio perché nella situazione emotiva è in questione la scoperta originaria del mondo, la coscienza è sempre già anticipata da essa e non può pertanto disporne né credere di poterla padroneggiare a suo piacimento.
La tonalità emotiva non va infatti in alcun modo confusa con uno stato psicologico, ma ha il significato ontologico di un’apertura che ha sempre già dischiuso l’uomo nel suo essere al mondo e a partire dalla quale soltanto sono possibili esperienze, affezioni e conoscenze. «La riflessione può incontrare esperienze solo perché la tonalità emotiva ha già aperto l’Esserci». Essa ci assale, ma «non viene né dal di fuori né dal di dentro: sorge nell’essere-al-mondo stesso come una sua modalità».
D’altra parte questa apertura non implica che ciò a cui essa apre sia riconosciuto come tale. Al contrario, essa manifesta soltanto una nuda fatticità: «il puro “che c’è” si manifesta; il da dove e il dove restano nascosti». Per questo Heidegger può dire che la situazione emotiva apre l’Esserci nel «essere-gettato» e «consegnato» al suo stesso «ci». L’apertura che ha luogo nella tonalità emotiva ha, cioè, la forma di un essere rimesso a qualcosa che non può essere assunto e da cui si
cerca - senza riuscirci - di evadere.
Ciò è evidente nel malumore, nella noia o nella depressione, che, come ogni tonalità emotiva, aprono l’Esserci «più originariamente di ogni percezione di sé», ma anche lo chiudono «più recisamente di qualsiasi non-percezione». Così nella depressione «L’Esserci diventa cieco nei confronti di se stesso; il mondo ambiente di cui si prende cura si vela, la previsione ambientale si oscura»; e, tuttavia, anche qui l’Esserci è consegnato a un’apertura da cui non può in alcun modo liberarsi.
È sullo sfondo di questa ontologia delle tonalità emotive che occorre situare la trattazione della paura. Heidegger comincia con l’esaminare tre aspetti del fenomeno: il «davanti a che» (wovor) della paura, l’«aver paura» (Furchten) e il «per-che» (Worum) della paura. Il «davanti a che», l’oggetto della paura è sempre un ente intramondano. Ciò che spaventa è sempre - quale che sia la sua natura - qualcosa che si dà nel mondo e che, come tale, ha il carattere della minacciosità e della dannosità. Esso è più o meno noto, «ma non per questo rassicurante» e, quale che sia la distanza da cui proviene, si situa in una determinata prossimità. «L’ente dannoso e minaccioso non è ancora a distanza controllabile, ma si avvicina. Man mano che esso si avvicina, la dannosità si intensifica e produce così la minaccia... In quanto si avvicina, il dannoso diventa minaccioso, possiamo esserne colpiti o no. Nel farsi più vicino si accresce questo «è possibile ma forse anche no”... l’avvicinarsi di ciò che è nocivo ci fa scoprire la possibilità di essere risparmiati, del suo passar oltre, ma questo non sopprime né diminuisce la paura, anzi l’accresce» (pp. 140-41). (Questo carattere per così dire «certa incertezza» che caratterizza la paura è evidente anche nella definizione che ne dà Spinoza: una «tristezza incostante», in cui «si dubita dell’evento di qualcosa che si odia»).
Quanto al secondo carattere della paura, il temere (lo stesso «aver paura»), Heidegger precisa che non viene prima previsto razionalmente un male futuro, che poi, in un secondo tempo, viene temuto: fin dall’inizio, piuttosto, la cosa che si avvicina è scoperta come temibile. «Solo avendo paura, la paura può, osservando espressamente, rendersi conto di ciò che fa paura. Ci si accorge di ciò che fa paura, perché ci si trova già nella situazione emotiva della paura. Il temere, in quanto possibilità latente dell’essere-al-mondo emotivamente disposto, la paurosità, ha già scoperto il mondo in modo tale, che da esso possa avvicinarsi qualcosa che fa paura» (p. 141). La paurosità, in quanto apertura originaria dell’Esserci, precede sempre ogni determinabile paura.
Quanto, infine, al «per-che», al «per chi e per che cosa» la paura ha paura, in questione è sempre l’ente stesso che ha paura, l’Esserci, quest’uomo determinato. «Solo un essere per il quale nel suo esistere, ne va del suo stesso esistere, può spaventarsi. La paura apre questo ente nel suo essere in pericolo, nel suo essere abbandonato a se stesso» (ibid.). Il fatto che a volte si prova paura per la propria casa, per i propri beni o per gli altri non è un’obiezione contro questa diagnosi: si può dire di «aver paura» per un altro, senza per questo veramente spaventarsi e, se si prova effettivamente paura, è per noi stessi, in quanto temiamo che l’altro ci venga strappato.
La paura è, in questo senso, un modo fondamentale della disposizione emotiva, che apre l’essere umano nel suo essere già sempre esposto e minacciato. Di questa minaccia si danno naturalmente diversi gradi e misure: se qualcosa di minaccioso, che ci sta davanti col suo «per ora non ancora, ma tuttavia in qualsiasi momento», piomba improvvisamente su questo essere, la paura diventa spavento (Erschrecken); se il minaccioso non è già noto, ma ha il carattere dell’estraneità più profonda, la paura diventa orrore (Grauen). Se esso unisce in sé entrambi questi aspetti, allora la paura diventa terrore (Entsetzen). In ogni caso, tutte le diverse forme di questa tonalità emotiva, mostrano che l’uomo, nella sua stessa apertura al mondo, è costitutivamente «impaurito».
La sola altra tonalità emotiva che Heidegger esamina in Essere e tempo è l’angoscia ed è all’angoscia - e non alla paura - che viene attribuito il rango di tonalità emotiva fondamentale. E, tuttavia, è proprio in relazione alla paura che Heidegger può definirne la natura, distinguendo innanzitutto «ciò davanti a cui l’angoscia è angoscia da ciò davanti a cui la paura è paura» (p. 186). Mentre la paura ha sempre a che fare con qualcosa, il «“davanti a che” dell’angoscia non è mai un ente intramondano». Non solo la minaccia che qui si produce non ha il carattere di un possibile danno ad opera di una cosa minacciosa, ma «il “davanti a che” dell’angoscia è completamente indeterminato. Questa indeterminatezza non solo lascia del tutto indeciso da quale ente intramondano venga la minaccia, ma sta a significare che, in generale, l’ente intramondano è “irrilevante”» (ibid.). Il «davanti a che» dell’angoscia non è un ente, ma il mondo come tale. L’angoscia è, cioè, l’apertura originaria del mondo in quanto mondo (p. 187) e «solo perché l’angoscia determina già sempre latentemente l’essere-al-mondo dell’uomo, questi... può provare paura. La paura è un’angoscia caduta nel mondo, inautentica e nascosta a se stessa» (p. 189).
È stato non senza ragione osservato che il primato dell’angoscia rispetto alla paura che Heidegger afferma può essere facilmente rovesciato: invece di definire la paura come un’angoscia diminuita e decaduta in un oggetto, si può altrettanto legittimamente definire l’angoscia come una paura privata del suo oggetto. Se si toglie alla paura il suo oggetto, essa si trasforma in angoscia. In questo senso, la paura sarebbe la tonalità emotiva fondamentale, in cui l’uomo è già sempre a rischio di cadere. Di qui il suo essenziale significato politico, che la costituisce come ciò in cui il potere, almeno a partire da Hobbes, ha cercato il suo fondamento e la sua giustificazione.
Proviamo a svolgere e proseguire l’analisi di Heidegger. Significativo, nella prospettiva che qui ci interessa, è che la paura si riferisca sempre a una «cosa», a un ente intramondano (nel caso presente, al più piccolo degli enti, un virus). Intramondano significa che esso ha smarrito ogni relazione con l’apertura del mondo ed esiste fattiziamente e inesorabilmente, senza alcuna possibile trascendenza. Se la struttura dell’essere-al-mondo implica per Heidegger una trascendenza e un’apertura, è proprio questa stessa trascendenza a consegnare l’Esserci alla sfera della cosalità. Essere-al-mondo significa infatti essere cooriginariamente rimesso alle cose che l’apertura del mondo rivela e fa apparire. Mentre l’animale, privo di mondo, non può percepire un oggetto come oggetto, l’uomo, in quanto si apre a un mondo, può essere assegnato senza scampo a una cosa in quanto cosa.
Di qui la possibilità originaria della paura: essa è la tonalità emotiva che si dischiude quando l’uomo, perdendo il nesso fra il mondo e le cose, si trova irremissibilmente consegnato agli enti intramondani e non può venire a capo del suo rapporto con una «cosa», che diventa ora minacciosa. Una volta smarrita la sua relazione al mondo, la «cosa» è in se stessa terrorizzante. La paura è la dimensione in cui cade l’umanità quando si trova consegnata, come avviene nella modernità, a una cosalità senza scampo. L’essere spaventoso, la «cosa» che nei film del terrore assale e minaccia gli uomini, non è in questo senso che una incarnazione di questa inaggirabile cosalità.
Di qui anche la sensazione di impotenza che definisce la paura. Chi prova paura cerca di proteggersi in ogni modo e con ogni possibile accorgimento dalla cosa che lo minaccia - ad esempio indossando una mascherina o chiudendosi in casa -, ma questo non lo rassicura in alcun modo, anzi rende ancora più evidente e costante la sua impotenza a far fronte alla «cosa». Si può definire, in questo senso, la paura come l’inverso della volontà di potenza: il carattere essenziale della paura è una volontà di impotenza, il voler-essere-impotente di fronte alla cosa che fa paura. Analogamente, per rassicurarsi ci si può affidare a qualcuno cui si riconosce una qualche autorità in materia - ad esempio a un medico o ai funzionari della protezione civile - ma questo non abolisce in alcun modo la sensazione di insicurezza che accompagna la paura, che è costitutivamente una volontà di insicurezza, un voler-essere-insicuro. E questo è tanto vero che gli stessi soggetti che dovrebbero rassicurare intrattengono invece l’insicurezza e non si stancano di ricordare, nell’interesse degli impauriti, che ciò che fa paura non può essere vinto e eliminato una volta per tutte.
Come venire a capo di questa tonalità emotiva fondamentale, nella quale l’uomo sembra costitutivamente sempre in atto di precipitare? Dal momento che la paura precede ed anticipa la conoscenza e la riflessione, è inutile cercare di convincere l’impaurito con prove e argomenti razionali: la paura è innanzitutto l’impossibilità di accedere a un ragionamento che non sia suggerito dalla stessa paura. Come scrive Heidegger, la paura «paralizza e fa perdere la testa» (p. 141). Così di fronte all’epidemia si è visto che la pubblicazione di dati e opinioni certi provenienti da fonti autorevoli era sistematicamente ignorata e lasciata cadere in nome di altri dati e opinioni che non provavano nemmeno a essere scientificamente attendibili.
Dato il carattere originario della paura, si potrebbe venirne a capo solo se fosse possibile accedere a una dimensione altrettanto originaria. Una tale dimensione esiste ed è la stessa apertura al mondo, nella quale soltanto le cose possono apparire e minacciarci. Le cose diventano spaventose perché dimentichiamo la loro coappartenenza al mondo che le trascende e, insieme, le rende presenti.
L’unica possibilità di recidere la «cosa» dalla paura da cui sembra inseparabile è ricordarsi dell’apertura in cui essa è già sempre esposta e rivelata. Non il ragionamento, ma la memoria - il ricordarsi di sé e del nostro essere al mondo - può restituirci l’accesso a una cosalità libera dalla paura. La «cosa» che mi atterrisce, per quanto invisibile allo sguardo, è, come tutti gli altri enti intramondani - come quest’albero, questo torrente, quest’uomo - aperta nella sua pura esistenza. Solo perché io sono al mondo, le cose possono apparirmi e, eventualmente, farmi paura. Esse fanno parte del mio essere al mondo, e questo - e non una cosalità astrattamente separata e eretta indebitamente a sovrano - detta le regole etiche e politiche del mio comportamento. Certo, l’albero può spezzarsi e cadermi addosso, il torrente straripare e allagare il paese e quest’uomo improvvisamente colpirmi: se questa possibilità diventa improvvisamente reale, un giusto timore suggerisce le opportune cautele senza cadere nel panico e senza perdere la testa, lasciando che altri fondi il suo potere sulla mia paura e, trasformando l’emergenza in una stabile norma, decida a suo arbitrio quello che io posso o non posso fare e cancelli le regole che garantivano la mia libertà.
Arcivescovo Canterbury: "Via statue razziste dalle chiese" *
Le statue legate al periodo del colonialismo e della schiavitù potrebbero essere rimosse dalle più importanti chiese britanniche. Lo ha detto alla Bbc l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, intervenendo nel dibattito avviato negli Stati Uniti, dove da giorni i manifestanti prendono di mira i monumenti dedicati a personalità che vengono legate ad un passato razzista. "Alcune dovranno essere rimosse - ha detto il capo della Chiesa anglicana - Alcuni nomi dovranno cambiare. Esamineremo molto attentamente la questione e vedremo se devono restare lì".
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. LA SAGGIA INDICAZIONE DEL SUDAFRICA DI MANDELA, DI TUTU, E DI DECLERCK
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
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16. Il Natale secondo Fëdor
di Alessandro D’Avenia (Corriere della sera, 23 dicembre 2019)
San Pietroburgo, Natale 1875. Al club degli artisti è in corso una scintillante festa di Natale, durante la quale molti dei presenti cercano di mettersi in mostra e di sembrare più belli e intelligenti. Un uomo in disparte, guardando con attenzione la scena e i volti degli invitati, nota che tutti si divertono ma che in realtà nessuno è veramente contento, allora decide di smascherare il gioco: «La disgrazia è che voi ignorate quanto siete belli. Ognuno di voi potrebbe subito rendere felici tutti gli altri in questa sala e trascinare tutti con sé. E questo potere esiste in ognuno, ma così profondamente nascosto, che è diventato inverosimile. La vostra disgrazia è nel fatto che vi sembra inverosimile».
Chi ha parlato in modo così bruciante è Fëdor Dostoevskij che racconta l’episodio nel suo Diario di uno scrittore, che raccoglie gli scritti dell’omonima rubrica tenuta sul settimanale “Il cittadino”. Per Dostoevskij, osservatore acutissimo, l’episodio mostra che se l’uomo smette di credere nella presenza di qualcosa di trascendente dentro e fuori di sé, diventa insicuro e comincia a disprezzare sé e/o gli altri.
Al fatto di cronaca lo scrittore fa poi seguire un racconto. Alla vigilia di Natale, in un gelido scantinato, un bambino di sei anni, infreddolito e affamato, cerca di svegliare invano la madre. Allora esce per le strade innevate di Pietroburgo con indosso pochi stracci: chi lo incontra finge di non vederlo per non doversene occupare. Egli si rifugia in una casa piena di persone che festeggiano, ma viene cacciato con la magra elemosina di una moneta che gli cade di mano perché ha le dita congelate. Si rincuora osservando una vetrina piena di giocattoli ma viene colpito e inseguito da un ragazzaccio. Scappa e si nasconde dietro una catasta di legna. Dopo un po’ di tempo finalmente non ha più freddo e sente una voce misteriosa che gli dice: «Vieni alla mia festa di Natale, bambino». Così si ritrova in un luogo caldo, luminoso e pieno di bambini: ad accoglierlo c’è la madre sorridente. L’indomani, dietro la legna, i proprietari trovano il cadavere del bambino.
Finisce così il racconto Il bambino alla festa di Natale da Gesù, e la festa in cui il piccolo si ritrova è l’eternità. Dostoevskij dice di essersi ispirato a un fatto vero ma riguardo al finale aggiunge: «Quanto alla festa di Gesù poteva questo avvenire o no? Proprio per questo sono un romanziere, per inventare». Il racconto del bambino è la chiave per comprendere a cosa non credono più gli artisti della festa: in Dio e nel suo manifestarsi.
Lo scrittore era convinto che quella di Cristo fosse una storia che si ripete in tutte le vite umane, infatti in ogni suo capolavoro mette in scena un passo evangelico che ne è la chiave di lettura: senza Lazzaro non si comprende Delitto e Castigo, senza le nozze di Cana I Karamazov, senza l’indemoniato liberato I demoni... Ne era convinto perché aveva sperimentato più volte l’intervento di Dio nella concretezza della sua vita: la condanna a morte e la grazia all’ultimo istante; i lavori forzati in Siberia e la lettura a memoria dell’unico libro a disposizione, il Vangelo; la malattia, la crisi economica e creativa, e l’incontro salvifico con la futura moglie Anna. Per lui la presenza di Dio nella vita di ogni uomo, per quanto nascosta o rifiutata, è continua e inesauribile.
Il bambino dello scantinato, uno dei tanti che morivano di fame e freddo nella sua città, è infatti il Bambino di Betlemme: egli vaga con pochi stracci (le fasce) per le strade della città-mondo in cerca di uomini che vogliano accoglierlo, per loro muore (la catasta di legna) in croce, ma risorge nella festa eterna. Per Dostoevskij, Dio passa accanto a noi in infiniti modi ma soprattutto nelle creature fragili, come i bambini, dalla sofferenza dei quali era tormentato come mostrano pagine abissali dei suoi romanzi. La fragilità è la veste umana con cui Dio si fa vivo dentro e fuori di noi: non è mai un’evidenza schiacciante, ma un sussurro, un invito, un’occasione, una luce silenziosa... Non saremmo liberi se non fosse così, e chi non è libero non può amare.
Gli invitati alla festa «si divertono ma nessuno è contento» perché hanno smesso di credere al Padre che li ama senza riserve: chi non si sente amato, così com’è, fatica ad amare sé e gli altri. Lo vedo tutti i giorni: i ragazzi con genitori che li fanno sentire amati sono più sereni; affrontano la vita come un’avventura faticosa ma promettente; hanno le spalle e il cuore coperti. Dostoevskij crede fermamente che Dio passa vicino a ognuno di noi in vesti non appariscenti, chiedendoci di collaborare con lui. Vi auguro di riconoscerlo, cari lettori, con le parole che Dostoevskij scrisse a un uomo incerto se assistere o meno una donna colpevole di infanticidio: «Non fatevi sfuggire il momento in cui il Signore fa la sua mossa». Così il Natale accadrà in e attraverso di noi. Auguri!
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone". "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994), con approfondimenti.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Messaggio.
Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo *
L’appuntamento il 20 maggio nell’Aula Paolo VI per una "società più accogliente". L’annuncio della Congregazione per l’educazione cattolica. Francesco: dialoghiamo su come costruire il futuro
Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio 2020 personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una "società più accogliente". La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: "Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà".
"L’iniziativa - spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota - è la risposta ad una richiesta. In occasione di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti, è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento".
In un messaggio il Pontefice rinnova "l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente". Ricorda ancora Bergoglio che "in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità".
Sul tema, bel sito, si cfr.:
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Nelson Mandela
Non volevo essere presidente
Gli appunti che compongono l’ultima parte dell’autobiografia, adesso in uscita in Italia, svelano il lato inedito del leader sudafricano E il suo scetticismo alla vigilia dell’elezione che gli avrebbe cambiato la vita
di Nelson Mandela (la Repubblica, 20.02.2018)
La carica di primo presidente democraticamente eletto nella storia della Repubblica del Sudafrica mi fu praticamente imposta contro la mia volontà.
Quando la data delle elezioni generali era ormai vicina, tre leader dell’Anc mi comunicarono di aver condotto ampie consultazioni all’interno dell’organizzazione e che la decisione unanime era stata che, nel caso in cui avessimo vinto le elezioni, io sarei dovuto essere presidente.
Questo, mi dissero, era ciò che avrebbero proposto al primo incontro del nostro comitato direttivo parlamentare.
Io mi dissi contrario a quella decisione, per il fatto che quell’anno avrei compiuto settantasei anni e che sarebbe stato ben più saggio trovare un candidato più giovane, uomo o donna che fosse, che avesse vissuto fuori di prigione, incontrato capi di Stato e di governo, preso parte a incontri di organizzazioni locali e mondiali, qualcuno addentro agli ultimi eventi nazionali e internazionali e che fosse in grado, per quanto possibile, di prevedere il corso futuro di tali eventi.
Dissi che avevo sempre ammirato quegli uomini e quelle donne che avevano posto le proprie doti al servizio della comunità, e che si erano guadagnati rispetto e ammirazione in virtù dei loro sforzi e sacrifici, anche se non svolgevano alcuna funzione all’interno del governo o della società.
La combinazione di talento e umiltà, la capacità di essere a proprio agio con i poveri cosi come con i ricchi, con i deboli e i potenti, con la gente comune e i reali, con i giovani e i vecchi - gli uomini e le donne dotati di una sintonia con la gente, a prescindere dalla loro razza e provenienza, sono oggetto di ammirazione da tutto il genere umano in ogni parte del mondo.
L’Anc è sempre stato pieno di uomini e donne di talento, che hanno preferito rimanere nelle retrovie destinando giovani promettenti a posizioni di prestigio e di responsabilità, al fine di metterli di fronte ai principi basilari e ai problemi della leadership sin dagli inizi della loro carriera politica, e anche al modo in cui gestire tali problemi.
Il leader ha sempre suscitato un’impressione formidabile su molti di noi. Il compagno Walter Sisulu è un uomo del genere; e questo spiega perché egli ci abbia sempre sovrastati, indipendentemente dalle funzioni che ricoprivamo nel movimento o nel governo.
Insistetti con quei tre leader che avrei preferito dare il mio contributo senza assumere alcun ruolo nel movimento o nel governo. Ma uno di essi mi mise al tappeto. Mi ricordo che avevo sempre perorato la crucialità della leadership collettiva, e che finché avessimo tenuto fede scrupolosamente a un simile principio non avremmo mai sbagliato.
Senza mezzi termini, mi chiese se non stessi ripudiando ciò che predicavo da anni. Sebbene tale principio non fosse mai stato inteso a escludere la strenua difesa di ciò in cui si crede, decisi di accettare la loro proposta. In ogni caso, misi in chiaro che avrei svolto un solo mandato.
La mia dichiarazione sembrò coglierli di sorpresa - risposero che avrei dovuto lasciarlo decidere all’organizzazione -, ma io non volevo che vi fossero ambiguità in merito.
Poco dopo la nomina a presidente, annunciai pubblicamente che avrei svolto un unico mandato e che non avrei cercato di essere rieletto.
Agli incontri dell’Anc rimarcavo spesso che non volevo compagni deboli, burattini che accettavano supinamente tutto quello che dicevo solo perché ero il presidente dell’organizzazione. Auspicavo un rapporto sano in cui potessimo discutere delle questioni non come servo e padrone, ma da pari a pari, in cui ogni compagno potesse esprimere le proprie opinioni liberamente e in modo franco, senza timore di essere angariato ed emarginato.
Per esempio, una delle mie proposte che aveva suscitato molta rabbia e clamore era stata l’abbassamento dell’età per votare a quattordici anni, una misura che era già stata adottata da vari paesi nel resto del mondo. Questo perché, in quei paesi, i giovani all’incirca di quell’età erano impegnati in prima linea nelle lotte rivoluzionarie. Era stato proprio il loro contributo a indurre i governi vittoriosi a premiarli concedendo loro il diritto di voto.
La mia proposta incontrò un’opposizione talmente violenta e schiacciante da parte del Comitato esecutivo nazionale, che fui costretto a battere in ritirata.
Il quotidiano The Sowetan caricaturò la vicenda pubblicando una vignetta con un neonato con il pannolino intento a votare. Fu uno dei modi più vividi con cui venne messa in ridicolo la mia idea. Non ebbi più il coraggio di insistere ulteriormente. Ci sono stati, tuttavia, dei casi in cui non mi sono sentito vincolato dal principio della leadership collettiva.
Per esempio, quando respinsi senza esitazione la decisione di una conferenza programmatica in base alla quale il governo avrebbe dovuto essere nominato dalla conferenza stessa. Inoltre, rifiutai la prima rosa di negoziatori con il regime dell’apartheid fornita dall’Anc, che ci fu consegnata dalla leadership a Lusaka.
Degli undici nomi presenti, otto appartenevano a un unico gruppo etnico composto di neri e non c’era una sola donna.
Ricapitolando, il principio della leadership collettiva, di lavoro di squadra, non è uno strumento rigido e dogmatico da applicare meccanicamente senza tenere conto delle circostanze. Deve essere sempre esaminato alla luce delle condizioni predominanti.
In qualità di presidente dell’Anc e del paese, esortavo i membri dell’organizzazione, del governo e i parlamentari a parlare senza remore agli incontri dell’Anc e del governo. Ma immancabilmente li avvisavo che essere schietti non significava affatto essere disfattisti o negativi. Non ci si dovrebbe mai dimenticare che lo scopo principale di un dibattito, interno ed esterno all’organizzazione, negli incontri politici, in Parlamento e negli altri organi governativi e quello di uscirne - per quanto forti possano essere le nostre divergenze - più coesi e uniti e più fiduciosi di prima.
Eliminare le differenze e i sospetti reciproci all’interno dell’organizzazione dovrebbe essere sempre il nostro principio guida. Tutto questo risulta relativamente semplice quando cerchiamo, nei limiti delle nostre capacita, di non mettere mai in dubbio l’integrità di un compagno o di un membro di un’altra organizzazione politica che esprime un punto di vista diverso dal nostro.
Nel corso della mia carriera politica mi sono reso conto che in ogni comunità - africana, meticcia, indiana e dei bianchi - e in tutte le organizzazioni politiche senza alcuna eccezione, ci sono uomini e donne perbene che desiderano ardentemente vivere la propria vita, che anelano alla pace e alla stabilità, che vogliono un reddito dignitoso, abitazioni decenti e vogliono mandare i propri figli nelle scuole migliori, persone che rispettano il tessuto sociale e che vogliono preservarlo.
I leader capaci sanno perfettamente che eliminare le tensioni sociali, di qualunque natura esse siano, pone in primo piano i pensatori più creativi generando un ambiente ideale affinché uomini e donne lungimiranti possano influenzare la società. Al contrario, gli estremisti prosperano in un clima di tensioni e di diffidenza reciproca. Il pensiero lucido e la buona pianificazione non sono mai stati la loro arma.
- © 2017 by Nelson R. Mandela and the Nelson Mandela Foundation © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano. Published by Arrangement with Agenzia Letteraria Santachiara
E il Sole disse al vento: chi di noi è più forte?
In un breve apologo che risponde a questa domanda si riassume la leadership per Mandela: un addestramento virtuoso e paziente contro le tentazioni della rabbia e della vendetta
di Martha C. Nussbaum (Il Sole-24 Ore, 24.09.2017)
Negli scritti di Mandela non troviamo una teoria sistematica della non-rabbia, ma un’autoconsapevolezza umana di notevole profondità. (...) La rabbia porta a due strade, ciascuna delle quali racchiude un errore poco attraente. Il desiderio della rabbia che il male si ritorca sul reo è inutile, giacché la ritorsione non restituisce nulla a ciò che di buono è stato danneggiato; oppure, la rabbia rimane centrata sullo status relativo, nel qual caso può anche conseguire il suo scopo (relativa umiliazione), ma lo scopo stesso è del tutto indegno. Dimostrerò che Mandela arriva istintivamente alla stessa conclusione, in un modo condizionato dal suo lungo periodo di introspezione, che prevedeva l’esame di coscienza quotidiano, durante ventisette anni di prigione, un tempo che egli definisce estremamente produttivo per meditare sulla rabbia.
Che cosa conclude Mandela, nelle lunghe ore di quelle che egli chiama «conversazioni con me stesso», alludendo ai Pensieri di Marco Aurelio, un testo che fu portato a Robben Island quasi certamente da Ahmed Kathrada, e letto anche da altri prigionieri? Anzitutto, egli riconosce che l’ossessione per lo status è indegna, e così si rifiuta di seguire quella strada (forse le sue origini regali lo aiutarono, alleviando l’angoscia). Non si preoccupò mai se una particolare funzione o attività fosse “indegna” di lui. Attraverso l’introspezione, sfrondò dalle sue reazioni ogni accenno all’ansia per lo status, come se fosse la cosa più naturale e giustificabile. Così, quando a un nuovo arrivato a Robben Island fu chiesto di svuotare il bugliolo di un altro carcerato che era partito per Cape Town alle 5 del mattino, prima dell’ora della pulizia dei buglioli, egli obiettò dicendo che lui non avrebbe mai svuotato il secchio di un altro. Mandela intervenne: «Così lo ripulii io per lui perché a me non importava; svuotavo il mio secchio tutti i giorni e non avevo problemi a svuotare anche quello di un altro» (la trascrizione riferisce che Mandela ridacchiava raccontando questa storia). (...)
Scrivendo a Winnie dal carcere, nel 1975, dice che la maggior parte della gente è disgraziatamente interessata alla “posizione sociale”: invece dovrebbe essere interessata al proprio sviluppo interiore. Mandela sapeva bene che la maggior parte della gente è molto preoccupata dallo status. La leadership, per lui, significava addestramento paziente delle capacità, proprio come si prepara un atleta, e una capacità che addestrava costantemente era proprio quella di comprendere come pensassero gli altri. Perciò comprendeva che per disarmare la resistenza bisognava prima disarmare l’ansia, e che questo non sarebbe mai riuscito con manifestazioni di rabbia o rancore, ma solo con la gentilezza e il rispetto per la dignità altrui. Il segreto delle buone relazioni con le guardie - spesso inquinate dagli attriti di classe - era «il rispetto, il semplice rispetto».
Quando il suo avvocato giunse a Robben Island, durante il primo anno di permanenza, Mandela volle presentarlo alle guardie: «George, scusami, non ti ho presentato la mia guardia d’onore». Poi presentò ciascun agente per nome. L’avvocato ricorda che «le guardie erano così colpite che si comportarono davvero come una guardia d’onore, e ciascuno di loro mi strinse rispettosamente la mano». Una delle guardie gli disse che le guardie nemmeno si parlavano fra di loro perché «detestavano quello che erano».
La reazione di Mandela fu di chiedere all’uomo la sua storia: egli era cresciuto in un orfanotrofio, senza mai conoscere i genitori. Mandela conclude: «Il fatto di non avere i genitori, nessun affetto, da lì veniva l’acredine nei miei confronti. Io lo rispettavo molto perché si era fatto da sé. Era indipendente e studiava». Quindi non solo la strada della rabbia motivata dalla condizione sociale era accuratamente evitata da Mandela, ma egli la comprendeva negli altri con empatia e quindi riusciva a scalzarla abilmente.
Per quanto riguarda il desiderio di restituzione, anche questo Mandela lo capiva benissimo e lo provò nella sua vita. Egli richiama alcuni incidenti che lo resero furioso. «Quell’ingiustizia mi bruciava», dice di un caso alla scuola di Fort Hare . Inoltre, la rabbia non solo era sempre in agguato, ma fu anche a un certo punto la spinta cruciale per darsi alla politica: «Non ho avuto una folgorazione, una rivelazione improvvisa, un momento della verità; è stato il lento accumularsi di una miriade di offese, di una miriade di indegnità, di una miriade di momenti dimenticati a far scaturire in me la rabbia, la ribellione, il desiderio di combattere il sistema che imprigionava il mio popolo. Non c’è stato un momento particolare in cui abbia detto: da qui in avanti mi consacrerò alla liberazione del mio popolo; invece, mi sono semplicemente ritrovato a farlo, e non potevo fare altrimenti».
Ma riconobbe che la vendetta semplicemente non porta da nessuna parte. La rabbia è umana, e possiamo capire perché l’ingiustizia ne produca tanta, ma se riflettiamo sulla mera futilità del desiderio di restituzione, e se davvero vogliamo il bene per noi stessi e per gli altri, ci accorgiamo subito che la non-rabbia e una disposizione generosa sono ben più utili. (...)
Mandela non era un santo, e la sua tendenza alla rabbia fu un problema costante contro cui dovette lottare. Come lui stesso testimonia, gran parte della sua meditazione introspettiva in carcere riguardò la sua tendenza alla rabbia sotto forma di desiderio di restituzione. Così in un’occasione concluse di aver risposto troppo bruscamente a una delle guardie, e se ne scusò.
La scelta di organizzare le sue conversazioni in modo analogo ai Pensieri di Marco Aurelio dimostra una volontà di autocontrollo che può derivare direttamente da fonti stoiche, sebbene le sue idee abbiano uno stretto rapporto anche con il concetto africano di ubuntu. (...) Egli richiama ripetutamente l’attenzione sull’importanza dell’introspezione sistematica. In una lettera dalla prigione a Winnie, anche lei in prigione, nel 1975, egli scrive, incoraggiandola ad adottare la stessa disciplina meditativa: «La cella è un luogo ideale per imparare a conoscersi, per esplorare realisticamente e con regolarità i propri processi mentali ed emotivi».
Si noti che anche nelle iniziali esperienze di rabbia, che Mandela identifica come formative, predomina l’orientamento al futuro. (...) In generale Mandela non sembra avere mai pensato che far soffrire i sudafricani bianchi o infliggere loro qualche forma di vendetta fosse minimamente utile. Il suo obiettivo era di cambiare il sistema: un obiettivo che avrebbe richiesto la collaborazione dei bianchi, perché senza il loro supporto sarebbe risultato altamente instabile e continuamente minacciato. (...)
Gli atteggiamenti non retributivi, secondo Mandela, sono decisivi in particolare per colui che ha la responsabilità di una nazione. Un leader responsabile deve essere pragmatico, e la rabbia è incompatibile con un pragmatismo orientato al futuro. Intralcia e basta. Un buon leader deve andare verso la transizione più in fretta possibile, e forse per la maggior parte della sua vita deve fare questo, esprimendo e anche provando rabbia di transizione e delusione, ma lasciandosi alle spalle la rabbia vera e propria.
Un buon riassunto del metodo di Mandela si trova in una piccola parabola che egli raccontò a Richard Stengel, e che già in precedenza aveva usato con i suoi seguaci: «Ho raccontato di una discussione fra il sole e il vento, di quando il sole disse al vento: “Io sono più forte di te” e insieme decisero di mettersi alla prova con un viaggiatore... una persona avvolta in una coperta. Il più forte sarebbe stato chi fra loro fosse riuscito a togliergliela. Così il vento iniziò a soffiare e più soffiava, più l’uomo si teneva stretta la coperta. Allora il vento continuò a soffiare e soffiare, ma l’uomo non voleva saperne di mollare la coperta, anzi, come dicevo, più il vento soffiava e più se la teneva stretta intorno al corpo. Alla fine il vento rinunciò. Venne quindi il turno del sole, che iniziò a splendere, dapprima piano e poi inviando raggi sempre più caldi... fino a quando l’uomo cominciò a pensare che in effetti la coperta non gli serviva più, perché faceva già abbastanza caldo. Così la allentò un po’, ma i raggi del sole si facevano sempre più intensi, tanto che a un certo punto il viaggiatore si sbarazzò della coperta. Ecco, questa è la parabola: con la pace è possibile fare cambiare idea anche alle persone più determinate, più votate alla violenza, ed è questo il metodo che dovremmo adottare».
È significativo che Mandela imposti tutta la questione in termini pragmatici, come un problema di far fare all’altro ciò che tu vorresti. Poi egli dimostra che questo compito è molto più agevole se si convince l’altro a lavorare con te anziché contro di te. I progressi sono impediti dalla diffidenza dell’altro, dalla sua paranoia difensiva. La rabbia non può far nulla per migliorare le cose: può solo aumentare l’ansia e la paranoia dell’altro. Un metodo affabile e gentile, invece, riesce gradualmente a indebolire le diffidenze fino a superare del tutto l’idea di rimanere sulla difensiva.
Mandela, naturalmente, non era né ingenuo né tanto ideologico da rifiutare la realtà: così non troveremo mai in lui proposte come quella di rinunciare alla resistenza armata contro Hitler o di cercare di conquistarlo con il fascino e la discrezione. La parabola è proposta in un contesto particolare, quello della fine di una lotta di emancipazione a volte violenta, con molti dall’altra parte che erano comunque patrioti genuini, desiderosi del bene futuro della nazione. Fin dall’inizio della sua carriera, egli aveva insistito che la non-violenza andasse usata solo strategicamente. Ma anche dietro al ricorso strategico alla violenza c’era sempre una visione transizionale del popolo, centrata non sulla vendetta ma sulla costruzione di un futuro condiviso.
Quindi Mandela ha una risposta pronta all’oppositore immaginario favorevole alla mentalità della restituzione, come alternativa appropriata alla non-rabbia. Il fatto è che la restituzione non porta nulla di buono. Un tale modo di rapportarsi agli avversari avrebbe rallentato la causa per cui stava combattendo. Egli accetta la critica che il suo modo di vedere gli avversari sia solo un’opzione, non dettata dalla moralità: così dicendo, avanza una motivazione più debole della mia. La sua replica è che il suo metodo funziona. (...)
Per Mandela, rabbia e risentimento semplicemente non sono consoni a un leader, perché la funzione del leader è di fare le cose, e il metodo generoso e collaborativo permette di riuscirci. Suggeriva di fare così anche ai suoi alleati e seguaci. Quando un gruppo di prigionieri del movimento Black Consciousness giunse a Robben Island determinato a continuare la resistenza con attacchi alle guardie, egli li convinse pazientemente e gradualmente che la militanza può essere manifestata anche, e più proficuamente, con strategie non rabbiose.
Molto più tardi, nei primi tempi della nazione, dopo l’omicidio del leader nero Chris Hani per mano di un bianco, ci fu davvero il pericolo che il desiderio di vendetta compromettesse l’unità. Mandela apparve in televisione esprimendo profondo dolore ma esortando alla calma con tono paterno, in modo che il popolo percepisse: «Se neppure “il padre” chiedeva vendetta, chi altro aveva diritto di reclamarla?» . Egli cercò poi di convogliare i sentimenti osservando che l’assassino era uno straniero e che una donna afrikaner si era comportata eroicamente, annotando la targa del killer e permettendo così alla polizia di rintracciarlo. Disse: «Questo è un momento decisivo per tutti noi [...] Dobbiamo usare il dolore, il lutto e l’indignazione per proseguire il cammino verso quella che è l’unica soluzione durevole per il Paese, cioè un governo eletto dal popolo [...] rimanendo una forza disciplinata per la pace». Non sarebbe facile trovare un esempio più commovente della transizione, giacché Mandela aveva amato Hani come un figlio ed evidentemente stava provando un profondo dolore per la sua morte.
L’URLO ("HOWL") DI FINNEGANS: "WAKE", "SVEGLIARSI"!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
*
A) James Joyce, Finnegans Wake (Libro Primo V-VIII, Oscar Mondadori, Milano 2001, pp. 195-195 bis):
"He lifts the lifewand and the dumb speak
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq"
"Egli brandisce la bacchetta della vita e i muti parlano
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq" *
Quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì...
Quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà...
B) Gesù - nel messaggio evangelico, cfr. Marco 7, 31-37:
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
C) KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
D) A SCUOLA CON JOYCE. LEGGERE E RILEGGERE FINNEGANS WAKE.
E) "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
Federico La Sala
Appello di padre Alex Zanotelli ai giornalisti: «Rompiamo il silenzio sull’Africa»
Rilanciamo l’appello che il missionario Comboniano, direttore della rivista Mosaico di Pace, rivolge alla stampa italiana. «Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo», scrive.
di Alex Zanotelli*
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale.
So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. (Sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!)
È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera. È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.
Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.
Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.
Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).
Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
*Alex Zanotelli è missionario italiano della comunità dei Comboniani, profondo conoscitore dell’Africa e direttore della rivista Mosaico di Pace.
* FONTE: FNSI, 18.07.2017
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Ripartire dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo" .... *
“È cominciata l’era dolce dell’umanità!”
di Francesco Bellusci ("doppiozero", 26 luglio 2017)
Qualche anno fa, in un breve e amichevole scambio a distanza con Michel Serres, il filosofo francese mi faceva notare la vicinanza geografica del mio paese di origine (lucano) con il rispettivo (calabrese) di Gioacchino da Fiore, confidandomi che in quel momento l’abate e teologo cistercense assorbiva i suoi interessi e le sue ore di studio nella biblioteca della prestigiosa Académie Française, fondata dal cardinale Richelieu, di cui Serres è membro da quasi trent’anni. Adesso, mi rendo conto che quella confidenza di circostanza mi avrebbe fornito la chiave segreta di accesso alla sua ultima fatica, appena edita in Italia (Darwin, Bonaparte e il Samaritano. Una filosofia della storia, Bollati Boringhieri, Torino).
Infatti, la “filosofia della storia” che Serres presenta in questo libro, ricalca lo schema dell’interpretazione storico-allegorica di Gioacchino da Fiore basata sul processo di compimento progressivo della Rivelazione e soprattutto sulla divisione in tre età o epoche (l’età del Padre, l’età del Figlio e l’età dello Spirito santo), che nel libro di Serres diventano: l’era dell’inizio, l’era dura e l’era dolce.
Non si tratta di una novità assoluta. In passato e sempre in una versione secolarizzata, lo schema era stato mutuato e riproposto, per esempio, da Lessing nell’Educazione del genere umano o da Nietzsche nelle “tre metamorfosi” (cammello, leone, fanciullo) del Così parlò Zarathustra.
È lo stesso Serres che, in alcuni punti del libro, rivela la matrice “cristiana” della griglia alla base della sua filosofia della storia, che rimane tuttavia estranea al modello escatologico di quella matrice. La confidenza evoca oggi un’ulteriore coincidenza e analogia. Tra i più ferventi aderenti alla visione di Gioacchino da Fiore ci fu il teologo e francescano parigino Gerardo di Borgo San Donnino, che in un libro intitolato Liber introductorius ad Evangelium aeternum del 1254 preconizzò l’imminente avvento dell’“età nuova” o ordine dello Spirito Santo profetizzata da Gioacchino (per l’esattezza nel 1260), con la scomparsa conseguente della Chiesa gerarchizzata sostituita da una comunità monastica di santi.
Ma San Bonaventura metterà a tacere immediatamente i fervori gioachimiti nel suo ordine, bollandoli di eresia, e il teologo parigino sarà condannato alla prigione a vita. Entrati nel terzo millennio, diverse e inquietanti nubi e minacce sembrano addensarsi e oscurare il nostro tempo: dal terrorismo globale alle guerre asimmetriche, dalle catastrofi ecologiche o umanitarie legate ai grandi flussi migratori dal Terzo Mondo alla criminalità organizzata che avvelena l’economia e la politica di alcuni Stati, in non poche parti del mondo.
Eppure, un filosofo, ancora una volta francese, di nome Michel Serres, ancora una volta, in quest’ultimo libro, ne parla come di fenomeni molto circoscritti e regressivi, enfatizzati solo dai “mercanti” del pessimismo e del catastrofismo che si annidano non a caso nel sistema delle comunicazioni di massa, e annuncia, nell’incredulità generale, che abbiamo fatto da poco il nostro ingresso nell’età più dolce dell’umanità.
È, quindi, il caso di addentrarci di più nel testo di Serres, al quale già di recente la collana “Riga” sui grandi innovatori del Novecento ha dedicato una ricca antologia critica (Michel Serres, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Marcos y Marcos, Milano 2014) e sul quale, il prossimo ottobre, la Casa della Cultura di Milano si appresta ad offrire un seminario a più voci al pubblico italiano, per accompagnarlo nel modo in cui il nuovo maître à penser francese, che parteciperà in videoconferenza, c’invita a cambiare lo sguardo sul mondo contemporaneo.
Se, come si è detto, Gioacchino da Fiore gli fornisce la tela, la tavolozza dei colori che Serres utilizza per dipingere il suo affresco ambizioso include alcune coppie concettuali-chiave: bene e male, virtuale e attuale, caos e necessità, sacro e santo, rideclinate a partire dai pensatori e scienziati che lo hanno ispirato profondamente e costantemente: Simone Weil, Henri Bergson, Jacques Monod, René Girard.
Questi riferimenti e intercessori non vanno ovviamente confusi con i “personaggi concettuali” fatti assurgere da Serres a simboli delle tre età o ere che vede succedersi nella storia e che danno il titolo al libro: Darwin, Napoleone e il Samaritano.
Il libro inizia con la precisazione di un nuovo modo di intendere e definire i confini della storia, la cui profondità temporale assume in Serres una dimensione colossale. Non è solo la storia “storica”, la storia centrata sugli uomini, la storia che ha inizio con l’invenzione della scrittura. Paradossalmente questa Storia ha una memoria corta, cortissima, anzi è un ammasso di oblii, perché dimentica e mette ai margini della storia gli ominidi o i popoli primitivi privi di scrittura, gli altri viventi, le cose inerti, il pianeta, l’universo. La storia di cui Serres vuole proporre una filosofia, infatti, ha l’estensione cronologica vertiginosa del “Grande Racconto” delle scienze, dal momento che risale fino al Big Bang, cioè a circa quattordici miliardi di anni fa.
È il racconto che unifica in un’unica serie temporale le durate che ogni singola scienza (etnologia, biologia evolutiva, fisica del globo, astrofisica, cosmologia) ha ricostruito e aggiorna con sempre maggiore esattezza per i propri oggetti, in cui è inclusa la storia degli storici. L’enciclopedia delle scienze diventa una cronopedia e scienze naturali e scienze umane si uniscono, perché, anche se raccontano cose diverse, si basano sulla stessa struttura del tempo. Questa storia, chiarisce Serres, non ha più scopo o direzione e tantomeno sono gli uomini il fine o la fine di questo racconto, che è fatto di caos e biforcazioni impreviste, è un insieme eterogeneo di paesaggi e ritmi temporali differenti, ma che si può sempre ripercorrere da valle a monte secondo il “movimento retrogrado della verità” di bergsoniana memoria, ricostruendone così catene causali e direzioni di marcia. E Serres vi scorge la successione di tre ere.
La prima era va dalla formazione dell’Universo e del nostro pianeta fino alla comparsa e allo sviluppo delle forme viventi pre-umane. È l’era “darwiniana”, segnata dal duello energia-entropia, che governa il mondo fisico, e da quello vita-morte, che governa la galassia dei viventi e che si rideclina in pace-guerra con la comparsa dell’Homo sapiens, il rappresentante dell’unica specie vivente a introdurre la violenza e l’omicidio intra-specie. Ha inizio adesso l’“era dura” segnata da tre morti: la morte procurata col sacrificio, prima umano poi animale, ritualizzato nelle religioni arcaiche, che coagulava e rendeva coese così le comunità col sacro e col sangue, fino a quando il cristianesimo lo sostituirà con il rito “dolce” e simbolico dell’eucarestia, per denunciare l’innocenza di ogni vittima sacrificale; la morte procurata dalle armi letali della guerra, che è apparsa perpetua lungo tutta la storia “umana”, a cominciare dalla madre di tutte le guerre, quella combattuta tra gruppi nomadi e gruppi sedentari; la morte indotta o minacciata dal meccanismo economico del prestito e del debito, regolato ma sempre impastato di violenza. L’era dura culmina nella rivoluzione industriale e si chiude con l’esplosione di Hiroshima, che inaugura la prima “globalizzazione”, perché proietta la minaccia di morte per la prima volta non più sull’individuo, sui gruppi umani o sulle civiltà bensì sull’intera specie umana, ma è contestuale all’evento che gli fa da contraltare e che apre il sipario dell’era dolce: la scoperta della penicillina.
La neghentropia, l’informazione, la cura della vita, hanno sempre opposto, infatti, resistenza alla “tanatocrazia” dell’era dura e creato le condizioni per l’avvento dell’era dolce. Le stesse rivoluzioni dolci, come quelle concernenti i segni e la comunicazione (dall’oralità alla scrittura, dalla scrittura alla stampa, dalla stampa al digitale) hanno avuto un impatto più duraturo e diffuso sull’organizzazione sociale rispetto alle rivoluzioni dure, come quella scientifico-tecnico-industriale.
L’era dolce comincia poco più di mezzo secolo fa e si connota per tre componenti: la pace, la medicina, il digitale. La pace, nuova, dura almeno in Europa ininterrottamente da settant’anni; la guerra e il terrorismo sono precipitati all’ultimo posto come causa di mortalità nel mondo; all’immensa maggioranza degli uomini ripugna uccidere, violentare, distruggere opere d’arte e stigmatizza le minoranze che adottano ancora questi comportamenti; la protezione sociale dei deboli ha capovolto il darwinismo sociale dell’era dura. Questa pace è stata la condizione principale della golden age del secondo dopoguerra, dello sviluppo economico impetuoso che ha accresciuto il benessere, l’inurbamento, e della medicina che ha aumentato considerevolmente la speranza di vita, modificando il nostro rapporto col corpo, che non soffre più i dolori quotidiani di chi viveva già fino alla metà del secolo scorso.
Nell’era dolce, il medico rimpiazza il guerriero, la pietà del buon Samaritano succede alla spietatezza di Napoleone: “Nell’era antica, che possiamo definire ‘hegeliana’, a volte gli eserciti in battaglia trascinavano dietro degli sparuti chirurghi, mal equipaggiati, con poche infermiere munite di bende sparse in un ambiente insozzato dai combattimenti. Le grandi epidemie spesso erano la conseguenza dei carnai successivi allo scontro. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che un giorno queste retroguardie avrebbero sostituito in prima linea i soldati, un tempo vittime; che l’ospedale, dove hanno luogo le sfide all’ultimo sangue per il trionfo della vita, avrebbe rimpiazzato il conflitto; che i governi, abbandonando il servizio militare, avrebbero deciso per una politica della salute; che dopo le ferite ci sarebbero state le cure; che l’assistenza sanitaria pubblica avrebbe sostituito il quartier generale e le sue strategie di morte; che l’OMS avrebbe potuto orientare la geopolitica. Ma questa utopia ha avuto luogo”.
Dopo aver letto fiumi di inchiostro sul lato oscuro e pervertibile della biopolitica moderna, Serres c’invita a coglierne il lato irenico e benigno, se ci poniamo adeguatamente dal punto di vista della lunghissima durata del “Grande Racconto”. D’altra parte, il profilo antropologico emergente dell’umanità “dolce” è convergente con quello tratteggiato già nel frammento postumo del 1887 da Nietzsche, per il quale proprio il contesto di vita reso meno insicuro e insensato e quindi addolcito dallo sviluppo della scienza e dalla tecnica, rende più ‘forti’ gli uomini più ‘moderati’, che non hanno bisogno, per rassicurarsi, di ricorrere a fedi estreme o a visioni essenzialiste e metafisiche dell’uomo.
Il motore della storia non sarà più la lotta tra servo e padrone, vinta da chi è disposto a rischiare la vita e a soggiogare quella altrui con la minaccia di morte, ma la legge del buon samaritano che s’inchina e si prende cura della vita, perché ci consentirà non solo di progredire ma di sopravvivere: “Dalla pietra tagliata alle armi nucleari, dai cacciatori-raccoglitori agli sventramenti del mondo, l’era storica contraddistinta dalle forze dure è al termine. Non può andare oltre senza avvelenare gli uomini e distruggere le cose”. E arriviamo così alle tecnologie dolci di Internet, che hanno innanzitutto il pregio di liberare la potenza del numero: tutti accedono virtualmente a tutto e a tutti.
Serres è positivamente impressionato dalla capacità di Internet di decentralizzare e democratizzare il sapere, in una misura non comparabile con quella delle altre rivoluzioni della “coppia supporto-messaggio” (scrittura e stampa) e in attesa di dispiegare ancora il suo ventaglio di effetti e opportunità per l’accesso al potere e alle istituzioni, per l’organizzazione dell’opposizione a regimi oppressivi, per nuovi modi di apprendere, di conoscere e di liberare la mente all’invenzione, per creare nuove appartenenze.
Se, come diceva Lutero, ogni uomo è Papa con una Bibbia in mano, cosa sarà l’uomo con uno smartphone in mano, cioè con il mondo intero in mano? Una molteplicità immensa e crescente è entrata in scena e in contatto in uno spazio non più cartesiano e metrico, bensì virtuale e topologico. Certo non è detto che questa possibilità incommensurabilmente accresciuta di contatto e scambio generi automaticamente, sempre e in modo più esteso comunità e pace.
Nuove forme di violenza possono essere veicolate nella e con l’uso della Rete e i più pessimisti prefigurano addirittura la fagocitazione del dolce da parte del duro con le cyberguerre. Ma al futuro dell’età dolce Michel Serres consegna l’utopia concreta di una pace universale che discenderà dalla coscienza della comune appartenenza all’equipaggio del vascello-Terra e dei rischi di affondare che esso corre: “È vero, abbiamo messo la mano sul mondo, ma il mondo tiene la sua mano su di noi. Noi lo teniamo virtualmente; lui ci tiene realmente. Noi lo teniamo realmente; lui ci tiene virtualmente. Lo teniamo grazie al facile accesso; e lui ci tiene per le nostre condizioni di esistenza - respirazione, nutrimento, salute, spostamenti... Mi sembra prevedibile che un giorno la mano del mercato dovrà adeguare la sua potenza relazionale a quella concreta del mondo, e forse adeguarvisi, cioè obbedire alla sua legge. Entriamo in un periodo in cui si gioca un mano a mano decisivo per la nostra sopravvivenza, tra l’uomo individuale o globale e l’intero pianeta. Questo mio libro sulla storia e la storia stessa tornano al punto di partenza: partiti dal mondo, vi fanno ritorno”.
Per lungo tempo oggetto ostracizzato dalla scena del discorso filosofico contemporaneo, per aver alimentato in modo sotterraneo le ideologie totalitarie (come tale è stata smascherata o messa all’indice da Hannah Arendt o Karl Popper), Serres è determinato nel riportare la filosofia della storia in auge come l’orizzonte o la bussola imprescindibile per la politica e i decision makers, che oggi, in questo inizio di secolo, se ne scoprono drammaticamente orfani, nel momento in cui necessitano di essere più lungimiranti.
E una filosofia della storia allargata e inglobante le durate colossali dell’Universo, della Terra, dell’evoluzione del vivente, oltre alla storia delle collettività umane, non è affatto un mero esercizio interdisciplinare, né solamente il frutto di quel che Serres chiamava, già alcuni decenni fa, programmaticamente “il passaggio a Nord-Ovest” tra saperi umanistici e saperi scientifici.
Risponde all’esigenza di evitare ad ogni costo l’opposizione natura/storia, il cui superamento è ormai condizione stessa della nostra sopravvivenza. I nostri nonni sapevano di avere alle loro spalle solo circa tremila anni di storia. Le “Pollicine” del futuro, i giovani dell’era dolce, sapranno di avere alle loro spalle quattordici miliardi di anni di storia e di essere entrati nell’era dell’antropocene. Questa coscienza non potrà non avere effetti sulla mentalità, sulla politica, sul diritto, sul modo di produrre. In definitiva, sul nostro essere-nel-mondo. Serres ancora una volta è ottimista: “Ecco che ne è dell’essere-nel-mondo: dolce verso il mondo, l’età dura era dura verso gli uomini; poi, dolce per gli uomini, l’età dolce è diventata dura verso il mondo. Dobbiamo lavorare per un futuro in cui i nostri comportamenti saranno dolci verso gli uomini e verso il mondo”.
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L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Louis De Courcy e Guillaume Goubert intervistano Michel Serres.
Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!!!
EU-ANGELO E COSTITUZIONE . "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16).
SENZA LO "SPIRITO" DI GIOACCHINO DA FIORE, NON SI DA’ IL "TERZO PARADISO". Un omaggio critico a Michelangelo Pistoletto
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione .... *
PSICOLOGIA
Lo strano paradosso del potere
di Annamaria Testa, esperta di comunicazione *
Che cosa frulla nella mente delle persone di potere? Ce lo domandiamo - e capita non di rado - quando i loro comportamenti ci appaiono contraddittori, o poco comprensibili, o così arroganti da essere difficili da sopportare. Un recentissimo articolo uscito sull’Atlantic ci invita a porci la domanda in termini più radicali: che cosa succede al cervello delle persone di potere?
L’Atlantic cita un paio di pareri autorevoli. Secondo Dacher Keltner, docente di psicologia all’università di Berkeley, due decenni di ricerca e di esperimenti sul campo convergono su un’evidenza: i soggetti in posizione di potere agiscono come se avessero subìto un trauma cerebrale. Diventano più impulsivi, meno consapevoli dei rischi e, soprattutto, meno capaci di considerare i fatti assumendo il punto di vista delle altre persone.
Sukhvinder Obhi è un neuroscienziato dell’università dell’Ontario. Non studia i comportamenti, ma il cervello. Quando mette alcuni studenti in una condizione di potere, scopre che questa influisce su uno specifico processo neurale: il rispecchiamento, una delle componenti fondamentali della capacità di provare empatia.
Ed eccoci alla possibile causa di quello che Keltner definisce paradosso del potere. Quando le persone acquisiscono potere, perdono (o meglio: il loro cervello perde) alcune capacità fondamentali. Diventano meno empatiche, cioè meno percettive. Meno pronte a capire gli altri. E, probabilmente, meno interessate o disposte a riuscirci.
Come polli senza testa
Inoltre. Spesso le persone di potere sono circondate da una corte di subordinati che tendono a rispecchiare il loro capo per ingraziarselo, cosa che non aiuta certo a mantenere un sano rapporto con la realtà.
E ancora: è il ruolo stesso a chiedere che le persone di potere siano veloci a decidere (anche se non hanno elementi sufficienti per farlo, né tempo per pensarci), assertive (anche quando non sanno bene che cosa asserire. O quando sarebbe meglio prestare attenzione alle sfumature) e sicure di sé al limite dell’insolenza.
I top manager delle multinazionali girano freneticamente per il mondo come polli decapitati: decidono guidati dall’ansia, senza pensare, senza capire, senza vedere e senza confrontarsi. L’ho sentito dire nel corso di una riunione riservata ai partner di un’assai nota società internazionale di consulenza, dal relatore più anziano e autorevole. Mi sarei aspettata qualche brusio di sconcerto tra gli astanti, e invece: ampi segni di assenso.
Ho il sospetto che la sindrome del pollo possa appartenere non solo a chi guida le imprese, ma anche a chi governale istituzioni e le nazioni.
Il fatto è che le persone di potere “devono” andare dritte per la loro strada, infischiandosene di tutto quanto sta attorno. Questo può aiutarle a raggiungere i loro obiettivi (il che è molto vantaggioso a breve termine) ma ne danneggia le capacità di decisione, di interazione e di comunicazione, che nel lungo termine sono strategiche.
Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Andreotti, che di potere sapeva abbastanza, citando Maurice de Talleyrand. Ma la citazione medesima contiene una dose consistente di protervia.
C’è una parola molto antica che descrive bene tutto ciò: hỳbris. Indica la tracotanza presuntuosa di chi ha raggiunto una posizione eminente e si sopravvaluta. È notevole il fatto che nel termine greco sia implicita anche la fatalità di una successiva punizione, divina o terrena: il fallimento, la caduta.
Si stima che il 47 per cento dei manager falliscano, scrive Adrian Furnham, docente di psicologia all’University College di Londra. È una percentuale molto alta. Uno dei principali motivi di fallimento è il narcisismo: un cocktail deteriore di arroganza, freddezza emozionale e ipocrisia.
C’è un paradosso: è facile ammirare e rispettare le persone carismatiche e fiduciose in se stesse. Ma non è così semplice distinguere il carisma dal narcisismo, che per molti versi ne è il lato oscuro. Sappiamo davvero individuare il confine che c’è tra assertività e prepotenza? Tra sicurezza e ostinazione? Tra fascino e manipolazione?Tra pragmatismo e cinismo?
C’è un ulteriore paradosso: prepotenza, ostinazione, manipolazione e cinismo possono perfino rivelarsi utili nelle battaglie per la conquista del potere, che sono spesso logoranti, sleali e feroci. Ma, una volta ottenuto il potere, per mantenerlo servirebbe proprio quella visione più aperta ed equilibrata che - l’abbiamo visto prima - il ruolo stesso sembra rendere difficilissima da procurarsi e mantenere. Il potere è l’afrodisiaco supremo, diceva Henry Kissinger.
Ma “difficilissimo” non vuol dire “impossibile”. D’altra parte, almeno nelle democrazie occidentali e nelle imprese moderne, il potere si conserva nel lungo termine solo attraverso il consenso. E la capacità di mantenere il consenso è direttamente proporzionale alla capacità di comunicare, di ascoltare e di interagire mettendosi a confronto.
Ehi, si può fare! Persone di potere dotate di un carisma privo di narcisismo esistono. In oltre quarant’anni, mi è perfino capitato di incontrarne alcune, tra politica e impresa, ma posso contarle sulle dita di una mano. Ce ne vorrebbero molte di più.
* Internazionale, 25 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DIO, NATURA, TECNICA COMUNICATIVA, E DEMOCRAZIA. IL "CHARISMA" DELL’ITALIA E IL "CHARISMA" DEGLI ITALIANI E DELLE ITALIANE. CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione di Lidia Ravera
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
"CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994).
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT
Federico La Sala
La rivolta di Soweto *
Soweto è una township alla periferia di Johannesburg, in Sudafrica. Costruita dopo la fine della seconda guerra mondiale, negli anni settanta ci vivevano segregati i neri e gli indiani, arrivati in città per lavorare nelle miniere d’oro. Il 16 giugno 1976 cominciò qui una protesta che divenne fondamentale nella lotta contro l’apartheid.
Un decreto governativo entrato in vigore nel 1975 obbligava tutte le scuole nere sudafricane a utilizzare come lingue per l’insegnamento l’inglese e afrikaans, una lingua germanica derivata principalmente dall’olandese. Per i neri, però, l’afrikaans era “la lingua degli oppressori”. In protesta per questa decisione governativa organizzarono una serie di scioperi e, il 16 giugno 1976, 20mila studenti provenienti da tutte le scuole nere di Johannesburg marciarono verso lo stadio. Durante la manifestazione intervenne la polizia e cominciarono le violenze.
Hector Pieterson, un bambino di 12 anni, morì durante gli scontri. La foto dello studente che lo porta in braccio fece il giro del mondo. Le violenze continuarono fino all’aprile del 1977. Una commissione d’inchiesta anni dopo accertò che morirono 575 persone, di cui 451 uccise dalla polizia. Altre fonti sostengono invece che il numero delle vittime sia stato molto più alto.
In seguito alle proteste del 16 giugno, il governo sudafricano decise che le scuole potevano usare la lingua di insegnamento che preferivano.
Harvard e il web rimangono stregati dal discorso di laurea di Donovan *
«Prendiamo il volo»: è il titolo dell’originale discorso poetico tenuto da un giovane laureato afroamericano durante la consegna dei diplomi alla Harvard Graduate School of Education, e diventato virale su Facebook, dove è stato visto da oltre 8 milioni di persone guadagnando l’attenzione delle celebrità. L’hanno condiviso, tra gli altri, la super star Justin Timberlake e la candidata presidenziale democratica Hillary Clinton.
Nel video, di circa 4 minuti, Donovan Livingston si rivolge ai suoi compagni di corso rievocando gli storici ostacoli che hanno impedito ai neri di ottenere un’educazione. Il discorso comincia con una citazione dell’educatore riformatore Horace Mann («L’istruzione, al di là di tutti gli altri dispositivi di origine umana, e un gran equalizzatore delle condizioni dell’uomo») del 1948, quando «io non potevo leggere, non potevo scrivere e ogni tentativo di farlo era punibile con la morte».
E prosegue con riferimenti a influenti afroamericani, come il poeta Langston Hughes e l’abolizionista Harriet Tubman. I versi parlano di disuguaglianze razziali nel sistema educativo, di cosa significhi essere studente di colore ad Harvard e invitano la classe del 2016 a utilizzare il proprio ruolo di educatori per aiutare gli altri a realizzare il loro pieno potenziale e a «spiccare il volo», andando oltre i loro limiti, il loro curriculum, i loro standard.
«Sono stato un buco nero in classe per troppo tempo, assorbendo ogni cosa, senza irradiare la mia luce... - ha declamato Donovan - Ma quei giorni sono passati. Io appartengo alle stelle». E adesso insegna «con la speranza di trasformare i contenuti in navi spaziali e i problemi in telescopi, affinché un bambino possa vedere il loro potenziale dal punto in cui si trovano».
«Educare richiede una pazienza degna di Galileo», ha sottolineato. «Come educatori, piuttosto che coprire con le vostre voci il fruscio delle catene, rimuoviamole, togliamoci le manette, svincolati dal peso ingombrante della povertà e del privilegio», ha proseguito. «Siamo nati per essere comete, per sfrecciare attraverso lo spazio e il tempo, per lasciare il segno in ogni impresa in cui ci tuffiamo», ha aggiunto, ricordando che «Il cielo non è il limite. È solo l’inizio».
Ma, ha ammonito, «è una ingiustizia dire che l’educazione è la chiave mentre continui a cambiare la serratura». Figlio di due insegnanti - papà in pensione e mamma logopedista, che lavora con gli studenti con handicap - Livingston spera ora di diventare un membro della facoltà, che ha deciso di postare il suo intervento su Facebook perché è «uno dei discorsi degli studenti più forti e sentiti che avete mai udito».
Michelle Obama: "Ogni giorno mi sveglio in una casa costruita da schiavi" *
Il sogno americano è vivo e vegeto, e secondo Michelle Obama, la sua vita ne è la prova.
Il discorso, tenuto al City College di New York, dalla first lady davanti ai laurenadi, ha emozionato e riscosso applausi e approvazioni.
"È ’la storia che assisto ogni giorno - ha detto - quando mi sveglio in una casa che è stata costruita dagli schiavi, e guardo le mie figlie - due belle nere giovani donne - andare a scuola, salutando loro padre, il presidente degli Stati Uniti ".
La signora Obama ha continuato a ricordare ai laureati che, mentre i padri fondatori non avrebbero potuto immaginare il giorno in cui un uomo di colore potrebbe essere il presidente, "tutti voi siete il frutto della loro visione."
"La loro eredità è molto la vostra eredità. E la vostra eredità. E non lasciate che nessuno vi faccia pensare in modo diverso. Voi siete la prova vivente che il sogno americano dura ancora nel nostro tempo".
Qual è il vero volto dei nostri nemici
Invece di cercare ovunque persone da combattere, occorre impegnarsi a impedire gli atti ostili. È la lezione di Mandela
Nei totalitarismi si individua costantemente un responsabile lontano e collettivo di quel che non va nel mondo
Le riflessioni sul bisogno di avere sempre un avversario da eliminare
di Tzvetan Todorov (la Repubblica, 25.01.2016)
Durante la mia infanzia e adolescenza in Bulgaria, paese che apparteneva allora al «campo comunista», sottoposto quindi a un regime totalitario, la nozione di «nemico» (vrag) era una delle più indispensabili e utilizzate. Permetteva di spiegare l’enorme sfasamento fra la società ideale, dove dovevano regnare prosperità e felicità, e la cupa realtà in cui eravamo immersi. Se le cose non andavano bene come promesso, la colpa era dei nemici. I nemici erano principalmente di due specie.
C’era innanzitutto un nemico lontano e collettivo, quello che chiamavamo «l’imperialismo angloamericano» (una formula fissa), responsabile di quello che non andava nel vasto mondo. Accanto a questo, c’era un nemico vicino, fornito di un volto individuale e identificato in seno a istituzioni che facevano parte della nostra esperienza diretta: la scuola dove studiavamo, l’impresa dove lavoravamo, le organizzazioni di cui facevamo parte. La persona designata come nemico aveva buoni motivi per preoccuparsi: una volta che gli veniva appiccicata addosso questa etichetta infamante, poteva perdere il lavoro, la possibilità di frequentare la scuola, il diritto di vivere in una certa città, e a tutte queste misure poteva far seguito la prigione o più facilmente un campo di rieducazione, istituzione di cui la Bulgaria dell’epoca era riccamente dotata.
Adottando questo approccio, i rappresentanti delle autorità si comportavano in conformità con i precetti lasciati dagli strateghi della rivoluzione, e in particolare da Lenin, fondatore del regime totalitario comunista, che interpretava la vita sociale in termini militari. Una simile situazione di conflitto giustifica qualsiasi misura repressiva. Il totalitarismo è un manicheismo che divide la popolazione terrestre in due sottospecie che si escludono a vicenda e incarnano il bene e il male, e di conseguenza anche gli amici e i nemici.
La stessa suddivisione rigida si ritrova fra i teorici del fascismo nazista, e dunque la stessa importanza attribuita al concetto di nemico. Carl Schmitt riduce la categoria stessa della politica alla «discriminazione dell’amico e del nemico», assimilando a sua volta la vita del cittadino alla guerra.
Consustanziale alle concezioni totalitarie della storia, il concetto di nemico non gioca un ruolo di primo piano nella vita dei paesi democratici, ma è utilizzato sporadicamente nello stesso senso. In tempo di guerra, questo vocabolo designa, per convenzione, il paese o l’organizzazione che si combatte. Nel periodo della guerra fredda, il nemico era il comunismo nella sua versione sovietica, e coloro che in patria manifestavano simpatia verso di esso. Il nemico è invocato nel discorso del populismo demagogico, che ama additare alla riprovazione popolare un personaggio colpevole di tutti i mali che ci affliggono.
A volte il nemico è identificato con una popolazione specifica: gli immigrati dai Paesi poveri, i musulmani. L’effetto di queste affermazioni è di instillare nella popolazione un sentimento di paura, e dunque stimolare un numero importante di elettori a votare per il partito che promette di far scomparire il nemico. Siamo ai margini del quadro democratico.
Dovremmo allora, per non essere accostati ai personaggi compromettenti che hanno utilizzato questo termine in passato, rinunciare a usarlo? Una conclusione simile sembra inaccettabile, soprattutto in un contesto come quello che attraversiamo, dove non abbiamo alcun problema a individuare il nemico, poiché è un nemico che ci minaccia di morte. L’osservazione candida del mondo intorno a noi non ci induce a pensare che ogni ostilità sia scomparsa dalla faccia della terra.
Per poter conservare l’uso del concetto di nemico in un regime democratico, è opportuno tuttavia correggerne il senso. Al giorno d’oggi, un certo consenso si è venuto a creare fra coloro che si interrogano sulla specificità della specie umana: è diventato impossibile affermare che il combattimento, la violenza, la guerra rappresentano la caratteristica dominante della nostra specie. Se dovessimo attribuire questo titolo a un’unica attività, sarebbe la cooperazione più della lotta all’ultimo sangue. Ed è una caratteristica che riguarda tutte le popolazioni del pianeta.
Ci ritroviamo allora non a individuare il nemico in un gruppo umano, ma a ricercare la sua origine in un’ideologia o in un dogma, in un’emozione o una passione. Gli individui diventano «nemici» solo parzialmente e provvisoriamente. Se rinunciassimo a fare del nemico una sostanza a parte, potremmo vedere in esso semmai un attributo, uno stato puntuale e passeggero che si ritrova in tutti e in ognuno. Invece di eliminare i nemici, ci si darebbe come compito di impedire gli atti ostili.
È la lezione che ci insegna il percorso di quel combattente esemplare che è stato Nelson Mandela: riuscì ad abbattere un nemico imponente, l’apartheid, senza versare una sola goccia di sangue, perché scoprì nei suoi potenziali nemici uno «sprazzo di umanità», perché comprese le ragioni della loro ostilità e riuscì in quel modo a trasformarli in amici.
I paesi occidentali che hanno subito aggressioni «terroristiche», come gli Stati Uniti o gli altri che sono seguiti, non si sono impegnati su questa strada. I loro dirigenti hanno preferito adottare la massima di Lenin secondo la quale bisogna «sterminare senza pietà i nemici della libertà».
All’indomani dell’11 settembre 2001, il presidente Bush aveva assegnato come compito al suo Paese garantire con tutti i mezzi possibili il trionfo della libertà sui suoi nemici. Con l’occasione era stata addirittura creata una nuova categoria, quella dei «combattenti nemici», che non godevano né dello status del criminale, giudicato secondo le leggi nazionali, né di quello del prigioniero di guerra, protetto dalle convenzioni di Ginevra: sono le persone che popolano il campo di prigionia di Guantánamo. Il risultato di queste diverse misure è stato, come sappiamo, un’estensione del terrorismo.
Non si tratta, in questo caso, di una semplice inflessione semantica nell’uso di una parola, di un dibattito esclusivamente filosofico. Bisogna sbrigarsi ad abbandonare le etichette accecanti di cui continuano a servirsi i dirigenti politici, che di fronte a un’aggressione invocano «il nemico barbaro», «gli atti mostruosi», «i personaggi diabolici». Comprendere il nemico consente di scoprire mezzi specifici per combatterlo. L’uso della forza, militare o poliziesca, deve restare sempre possibile, un attacco imminente dev’essere fronteggiato con le armi. Ma a ciò si aggiunge un’altra conseguenza: comprendere l’agente aggressivo dal suo punto di vista diventa il preambolo indispensabile di ogni lotta contro di lui. Perché dietro gli atti fisici ci sono sempre pensieri ed emozioni, e anche su di essi si può agire. L’ostilità può essere motivata da un sentimento di umiliazione, o dall’ingiustizia subita, o dalla collera, o da sogni di potenza, oppure può essere il risultato dell’ignoranza. I nemici sono degli esseri umani, come noi. Per neutralizzarli non dobbiamo servirci necessariamente di bombe o di missili: ma ci sarà sempre bisogno di coraggio e di perseveranza.
© Tzvetan Todorov / Ediciones El País, 2016. Traduzione di Fabio Galimberti
di Pier Aldo Rovatti (Forum salute mentale, 10 giugno 2013)
“Sono un rompiscatole”, aveva detto di sé don Gallo, il “prete di strada” più amato d’Italia, una vita intera dedicata concretamente ai deboli e ai diversi, ai tossicodipendenti, alle prostitute e a tutti quelli che stanno ai bordi della società o ne vengono rifiutati.
E chissà quante volte questa espressione è stata pensata e usata nei suoi confronti anche dall’istituzione cui apparteneva, ovvero la Chiesa, che di fatto lo ha emarginato e ignorato.
Non è l’unico, né si tratta solo di preti battaglieri: il “rompiscatole” è una figura emblematica del mondo in cui viviamo, uno che sa rompere gli equilibri e non si presta mai a essere disciplinato, perciò diventa un corpo estraneo, temuto sia da chi ha il compito di governare e raffreddare le istituzioni, sia dalla massa opaca di coloro che credono di poter barattare la propria servitù volontaria con il mantenimento di privilegi acquisiti e pallide promesse di carriera.
Quando un grande e produttivo rompiscatole muore, l’istituzione tira finalmente un sospiro di sollievo che maschera a fatica con onoranze postume e perfino riti di beatificazione. Quando, invece, sono i tanti piccoli rompiscatole a lasciare il terreno, il cinismo ovunque trionfante non ha neppure bisogno di cerimonie riparatrici e fa calare in fretta un pesante sipario di silenzio. L’etica minima, in questi casi, è surclassata da una convinta e completa assenza di moralità civile.
Avrei voluto esserci, sabato scorso, dentro la chiesa del Carmine a Genova, durante le esequie di don Gallo, in mezzo a quel popolo che ringraziava, insieme dolente e battagliero. Si era mosso perfino, a officiarle, il cardinal Bagnasco, il capo dei vescovi; e poiché l’encomio riparatore da lui pronunciato aveva evitato qualunque accenno di autocritica, allora qualcuno ha cominciato a tossire e in breve la tosse pur sommessa ha prodotto una cascata assordante e la cerimonia si è bloccata diventando un caloroso e irrituale omaggio. Il funerale si è così trasformato in un inno alla vita.
Si parla tanto dello spirito critico di cui avvertiamo distintamente la mancanza. Ognuno di noi vorrebbe averne un poco o magari di più, ma poi quasi sempre ci si arresta ai buoni propositi, ci si appaga di parole e discorsi gratificanti. Questi ultimi, sì, non mancano e in essi circola soprattutto la lamentazione.
Ci lamentiamo di continuo delle storture e delle ingiustizie, stigmatizziamo i comportamenti dei potenti, i cattivi modelli dei politici, e abbiamo un’imponente materia per farlo. Ma non basta. Infatti, bisognerebbe superare la linea e osare rischiare qualcosa. Lo spirito critico avvista innumerevoli “scatole” che imprigionano i comportamenti individuali e sociali, inanella denunce su denunce, ma finché non tenta di “rompere” questi involucri ingabbianti, non comincia davvero a farlo, resta solo la voce di un’anima bella, intellettualistica e inerte. Ciascuno, là dove vive, nell’ambiente che gli è proprio, in quel pezzo di sociale che frequenta, può scendere giù tra la gente. Uno spirito critico che rinuncia a “questa” politica è un falso spirito critico, addormentato, già cadaverizzato.
L’esempio dei grandi rompiscatole - cui dedico questo modestissimo elogio - ci insegna che ciascuno di noi può incrinare, dovunque e in qualsiasi momento, la pellicola delle convenienze che continuiamo ad accettare per quieto vivere o per qualche astuta viltà.
Il rompiscatole è il contrario del furbo, cioè di quello che sembra essere ormai diventato il nostro abituale stile di vita. Il furbo calcola cosa è più profittevole per lui, misura vantaggi e svantaggi personali di ogni suo minimo atto. Il rompiscatole se si limitasse a calcolare, non esisterebbe neppure. Così, ciascuno di noi, se non fosse anche un po’ rompiscatole (nei confronti degli altri ma anche di se stesso), non agirebbe mai.
I grandi rompiscatole (come don Gallo) sono molto rari, forse inimitabili. Noi, normalmente, siamo un misto in cui la furbizia conserva la sua parte e dove, però, il rischio di rompere le uova nel paniere del “così fan tutti” potrebbe avere - sempre - uno spazio proprio.
Quello che possiamo fare, quotidianamente, è cercare di comprimere al massimo la parte dell’egoismo individuale e di dare una dimensione sempre più ampia alla parte di noi che si avventura a infastidire l’accettazione acritica di ogni scatola sociale, dai luoghi di educazione dei bambini alle case di riposo, dal mercato del lavoro alle forme del welfare, per non parlare di tutti gli scomparti in cui viene rinchiusa normalmente ogni diversità.
Un Commento a “Elogio del rompiscatole”
Michela 12 giugno 2013 alle 8:06 pm
Zico Perani ci invia: don Gallo era presente, uno che rispondeva “io ci sono”, soprattutto di fronte al vuoto del mondo. Non abbandonava un’anima viva per strada perché, se Dio c’è, Dio ha lasciato il posto a un prete che sapeva amare, che aveva in cuore il primato della libertà di coscienza e la resistenza del suo mondo, che non aveva dubbi sul fatto che la speranza vive nel cuore dell’umanità quando ama la pace, la libertà e ogni vita al mondo. A oltranza.
Desmond Tutu spiega perché i testi sacri possono essere strumenti per combattere le oppressioni come accaduto in Sudafrica
La Bibbia è un libro sovversivo
I missionari hanno messo nelle mani di noi neri un oggetto rivoluzionario
In quelle pagine viene proclamato il valore di ogni essere umano senza distinzioni
di Desmond Tutu (la Repubblica, 17.10.2015)
Bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. «Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: “Preghiamo!”. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: “Amen”. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia».
La storiella, però, non è corretta nei confronti dei missionari. Qualche volta possono essere stati l’avanguardia che spianava la strada ai loro compatrioti colonizzatori, ma io voglio rendere omaggio alla maggioranza dei missionari occidentali. Quasi tutti noi che facciamo parte della comunità nera dobbiamo la nostra istruzione a quegli indomiti europei che costruirono eccellenti istituzioni educative come Lovedale, Healdtown e l’Università di Fort Hare nella provincia del Capo orientale, che serviva non solo il Sudafrica ma anche altri paesi del continente africano ed era uno dei pochi atenei che offrivano il livello più alto di istruzione anche ai neri. Nelson Mandela ha compiuto quasi tutto il suo corso di studi in questi istituti.
Senza gli ambulatori e gli ospedali costruiti dai missionari, molti di noi non sarebbero sopravvissuti alle malattie che affliggevano le famiglie povere e analfabete. Non si può calunniare degli esseri umani che sono stati tra i più generosi e altruisti che abbiano mai camminato sulla faccia della terra. Come si giustifica, dunque, lo sdegno evocato dalla storiella? Veramente racconta un cattivo affare? Uno perde la propria terra e tutti gli annessi e connessi in cambio di che cosa? Della Bibbia. Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. [...]
Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. È più rivoluzionaria, più sovversiva di qualunque manifesto o ideologia politica. Perché? Perché la Bibbia afferma che ciascuno di noi, senza eccezioni, è creato a immagine di Dio (l’Imago Dei ). Che sia ricco o povero, bianco o nero, istruito o analfabeta, maschio o femmina, ciascuno di noi è creato a immagine di Dio e questo è meraviglioso, entusiasmante.
Il nostro valore è intrinseco; lo troviamo, per così dire, già confezionato in noi stessi. Tutte le discriminazioni si basano su qualche attributo: la razza, il genere, l’orientamento sessuale, il grado di istruzione, il livello di reddito. Ma questi attributi sono estrinseci; possono essere variegati e noi restiamo umani; siamo umani con qualunque combinazione dei precedenti attributi. La Bibbia dichiara esplicitamente e con forza che il fatto che ci riempie di valore, di un valore infinito, è uno solo: che siamo creati a immagine di Dio. Il nostro valore ci viene fornito con il nostro stesso essere. È intrinseco e universale. Appartiene a tutti gli esseri umani, indifferentemente.
Nel mondo antico il re, non potendo essere presente nello stesso tempo in tutte le parti del suo territorio, collocava nelle diverse province le sue immagini, che dovevano essere riverite come il monarca in persona. I sudditi del re dovevano inchinarsi o fare una riverenza davanti alla statua come avrebbero fatto dinanzi al sovrano in carne e ossa. Quindi, per la Bibbia, dire che siamo l’immagine di Dio significa fare un’affermazione importante e decisamente sovversiva.
Gran parte dell’ingiustizia nel mondo avviene perché delle persone sono discriminate in base ad attributi estrinseci, spesso considerati di natura biologica. Così è accaduto con la Shoah perpetrata dai nazisti, quando sei milioni di ebrei furono uccisi dagli ariani che si autoproclamavano «superiori», insieme a cinque milioni di altre persone «diverse ». In Sudafrica i neri furono sottoposti all’aberrante sistema dell’apartheid.
Noi neri eravamo, sì, considerati umani, ma non quanto i nostri compatrioti bianchi. Era eloquente vedere avvisi pubblici che dichiaravano spudoratamente: «Vietato l’ingresso ai nativi (cioè ai neri) e ai cani». La classe dirigente spesso trattava i suoi cani molto meglio di come trattava i neri. Se credessimo veramente a quello che abbiamo affermato, che ogni essere umano senza alcuna eccezione è creato a immagine di Dio, e quindi è un portatore di Dio, allora qualunque maltrattamento di un altro essere umano ci farebbe inorridire, perché è non solo ingiusto, ma anche oltraggiosamente blasfemo. È davvero come sputare in faccia a Dio.
Ecco dunque ciò che i missionari ci hanno portato: un libro che è più radicale e più rivoluzionario di qualunque manifesto politico. San Paolo dice ai cristiani di Corinto che ciascuno di loro è un tabernacolo, un tempio dello Spirito Santo ( 1Cor 6,19). Nella tradizione anglo-cattolica, ci genuflettiamo per riverire il Santissimo Sacramento, di cui riconosciamo la presenza per mezzo della lampada, bianca o rossa, accesa davanti o sopra al tabernacolo. Se credessimo veramente che ciascuno di noi è un portatore di Dio e un tempio dello Spirito Santo, allora quando ci salutiamo non ci limiteremmo a stringerci la mano, ma ci inchineremmo profondamente come fanno i buddhisti, o ci inginocchieremmo gli uni davanti agli altri: «Il Dio che è in me saluta il Dio che è in te».
Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, fi gli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta. Noi che crediamo di essere creati a immagine di Dio, noi che siamo portatori di Dio, non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore. Noi dobbiamo opporci all’ingiustizia. Non abbiamo scelta. Nelle situazioni di ingiustizia e oppressione, non portate la Bibbia; altrimenti, se viene compresa correttamente, essa sovvertirà quell’ingiustizia e quell’oppressione.
© Desmond M. Tutu 2014
© EMI 2015 Traduzione di Mario Mansuelli
NELLA RICORRENZA DEL NELSON MANDELA DAY
Nella ricorrenza del Nelson Mandela Day (l’anniversario della nascita di Nelson Mandela, anniversario che in tutto il mondo è festeggiato come giorno d’impegno comune per i diritti umani) l’associazione "Respirare" chiama ogni persona di volontà buona a proseguire la lotta contro il razzismo, per la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani, per la liberazione dell’umanità da tutte le violenze.
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Ed in particolare qui ed ora invitiamo ogni cittadino italiano ad impegnarsi affinché cessi in Italia l’orrore del razzismo e dello schiavismo; affinché in Italia siano abolite le criminali e criminogene misure persecutrici e segregazioniste che governi antidemocratici e filomafiosi hanno imposto e mantenuto in flagrante violazione della Costituzione repubblicana; affinché lo stato italiano finalmente riconosca e rispetti il diritto alla vita di ogni essere umano e quindi riconosca a tutte le persone il diritto di giungere in Italia in modo legale e sicuro, inveri il diritto d’asilo offrendo soccorso, accoglienza ed assistenza alle persone vittime di gravi violenze, alle persone in pericolo di morte.
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E’ ignobile e scellerato che rappresentanti delle istituzioni incitino ai pogrom e addirittura li organizzino.
E’ ignobile e scellerato che in Italia vi siano campi di concentramento.
E’ ignobile e scellerato che governatori di Regioni, pubblici amministratori, parlamentari, istighino a violare le leggi che salvano le vite, istighino all’ideologia e alla pratica della violenza razzista, istighino a far torturare e morire degli innocenti.
E’ ignobile e scellerato che il governo italiano impedisca ai profughi di giungere in Italia in modo legale e sicuro, impedisca che degli innocenti in fuga dall’orrore possano salvare la propria vita senza correre ulteriori rischi, impedisca la realizzazione necessaria e urgente di un piano di soccorso che attraverso un servizio di trasporto pubblico e gratuito metta in salvo gli esseri umani che stanno morendo vittime della fame, delle guerre, delle dittature, del terrore - fame, guerre, dittature e terrore di cui anche il nostro paese e’ corresponsabile con la sua sciagurata politica di guerra e riarmo, di complicità con poteri dittatoriali, rapinatori, criminali -.
E’ ignobile e scellerato che delinquenti hitleriani possano propagandare su tutti i mass-media i loro criminali deliri senza essere perseguiti per le loro delittuose azioni.
E’ ignobile e scellerato che cittadini ipnotizzati dalla retorica fascista profusa a piene mani da televisioni, giornali e social media desiderino che vittime innocenti siano perseguitate anche nel nostro paese, che sia loro negato un riparo ed i più elementari diritti umani, che siano scacciate deportandole e riconsegnandole negli artigli degli aguzzini cui erano sfuggite.
E’ ignobile e scellerato che la generalità della popolazione italiana accetti e quindi di fatto consenta il regime di effettuale apartheid che nega a cinque milioni di residenti in Italia il diritto di partecipare alle decisioni che anche le loro vite riguardano.
E’ ignobile e scellerato che la generalità della popolazione italiana accetti e quindi di fatto consenta il regime di effettuale schiavismo gestito dalla mafia e favoreggiato da governanti e pubblici amministratori cinici e brutali.
E’ ignobile e scellerato negare l’umanità di esseri umani inermi e indifesi.
Si torni alla legalità costituzionale. Si torni alla civiltà umana.
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Nel giorno in cui si fa memoria di Nelson Mandela, si possa noi essere degni del suo lascito, del suo appello, della sua lotta: si sappia noi proseguirne l’azione, inverarne la speranza, realizzarne la proposta.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignità, alla solidarietà.
Vi è una sola umanità in un unico mondo vivente casa comune dell’umanità intera.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
Il razzismo e lo schiavismo sono crimini contro l’umanità.
Il primo dovere è salvare le vite.
L’associazione "Respirare"
Viterbo, 18 luglio 2015
Associazione "Respirare", e-mail: nbawac@tin.it, info@coipiediperterra.org, centropacevt@gmail.com, web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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Una breve notizia sull’associazione "Respirare"
L’associazione "Respirare" è stata promossa da associazioni e movimenti ecopacifisti e nonviolenti, per il diritto alla salute e la difesa dell’ambiente.
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Una breve notizia su Nelson Mandela
Nelson Mandela è stato uno dei più grandi eroi della lotta contro il razzismo, per la dignità di ogni essere umano; nato nel 1918, tra i leader principali dell’African National Congress, nel 1964 è condannato all’ergastolo dal regime razzista sudafricano; nel corso dei decenni la sua figura diventa una leggenda e un punto di riferimento in tutto il mondo; uscirà dal carcere l’11 febbraio 1990 come un eroe vittorioso; premio Nobel per la pace nel 1993, primo presidente del Sudafrica finalmente democratico compirà il miracolo della riconciliazione; è deceduto nel 2013.
Opere di Nelson Mandela: fondamentale è l’autobiografia Lungo cammino verso la libertà, Feltrinelli, Milano 1995; tra le raccolte di scritti ed interventi pubblicate prima della liberazione cfr. La lotta è la mia vita, Comune di Reggio Emilia, 1985; La non facile strada della libertà, Edizioni Lavoro, Roma 1986; tra le raccolte pubblicate successivamente alla liberazione: Tre discorsi, Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1991; Contro ogni razzismo, Mondadori, Milano 1996; Mai più schiavi, Mondadori, Milano 1996 (il volume contiene un intervento di Nelson Mandela ed uno di Fidel Castro); Io, Nelson Mandela, Sperling & Kupfer, Milano 2010, 2013; Bisogna essere capaci di sognare, Rcs, Milano 2013.
Opere su Nelson Mandela: Mary Benson, Nelson Mandela: biografia, Agalev, Bologna 1988; François Soudan, Mandela l’indomabile, Edizioni Associate, Roma 1988; Jean Guiloineau, Nelson Mandela, Mondadori, Milano 1990; John Vail, I Mandela, Targa Italiana, Milano 1990; Fatima Meer, Il cielo della speranza, Sugarco, Milano 1990; John Carlin, Mandela. Ritratto di un sognatore, Sperling & Kupfer, Milano 2013; Christo Brand, Mandela. L’uomo che ha cambiato il mondo, Newton Compton, Roma 2014. Si veda anche: Winnie Mandela, Finché il mio popolo non sarà libero, Sugarco, Milano 1986; Nancy Harrison, Winnie Mandela, Jaca Book, Milano 1987; ed ancora: Desmond Tutu, Anch’io ho il diritto di esistere, Queriniana, Brescia 1985; Desmond Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001; Desmond Tutu, Anche Dio ha un sogno, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2004; ed anche: Nadine Gordimer, Vivere nell’interregno, Feltrinelli, Milano 1990; ed ancora almeno: Marcello Flores (a cura di), Verità senza vendetta. L’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Manifestolibri, Roma 1999.
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La lezione di speranza di Madiba
di Leonardo Boff *
Nelson Mandela, con la sua morte, si è immerso nell’inconscio collettivo dell’umanità per non uscirne mai più: si è trasformato in un archetipo universale, quello della vittima di ingiustizia che non serba rancore, che sa perdonare, riconciliare poli antagonisti e trasmetterci l’incrollabile speranza che esiste ancora una via di salvezza per l’essere umano. Dopo 27 anni di reclusione, eletto presidente del Sudafrica nel 1994, ha realizzato la grande sfida di trasformare una società strutturata in base alla suprema ingiustizia dell’apartheid - che disumanizzava le grandi maggioranze nere del Paese negando loro i diritti della persona - in una società unica, unita, senza discriminazioni, democratica e libera.
Ed è riuscito nel compito scegliendo il cammino della virtù, del perdono e della riconciliazione. Perdonare non significa dimenticare. Le ferite sono lì, molte ancora aperte. Perdonare è non permettere che l’amarezza e lo spirito di vendetta abbiano l’ultima parola e determinino il corso della vita. Perdonare è liberare le persone dai lacci del passato, è cambiare pagina e cominciare a scriverne un’altra a quattro mani, quelle di neri e di bianchi. La riconciliazione è possibile e reale solo quando c’è l’ammissione completa dei crimini da parte dei responsabili e la piena conoscenza degli atti da parte delle vittime. La pena dei criminali è la condanna morale di fronte a tutta la società.
Una soluzione, sicuramente originalissima, viene da un concetto estraneo alla nostra cultura individualista: l’ubuntu, che vuole dire “io posso essere io solo attraverso te e con te”. Senza un legame permanente di tutti con tutti, la società è, come lo è la nostra, a rischio di lacerazioni e di conflitti interminabili.
Dovrebbe comparire nei manuali scolastici di tutto il mondo la seguente umanissima affermazione di Mandela: «Ho lottato contro il dominio dei bianchi e ho lottato contro il dominio dei neri. Ho coltivato l’ideale di una società democratica e libera nella quale tutte le persone possano vivere unite e in armonia e abbiano pari opportunità. Questo è il mio ideale e vorrei vivere per realizzarlo. Ed è un ideale per il quale, se fosse necessario, sono disposto a morire».
Perché la vita e la saga di Mandela costituiscono una speranza nel futuro dell’umanità e della nostra civiltà? Perché ci stiamo avvicinando al nucleo centrale di una congiunzione di crisi che può minacciare il nostro futuro come specie umana. Ci troviamo nel pieno della sesta grande estinzione di massa. Cosmologi come Brian Swimme e biologi come Edward Wilson ci avvertono che, se lasciamo le cose come stanno, intorno al 2030 arriveremo al culmine di questo processo devastante. Vuol dire che la convinzione persistente, nell’intero mondo come in Brasile, che la crescita economica materiale ci porterà sviluppo sociale, culturale e spirituale è un’illusione. Stiamo vivendo tempi di barbarie e senza speranza.
Cito l’insospettabile Samuel P. Huntington, ex consulente del Pentagono e analista perspicace del processo di globalizzazione, il quale scrive, al termine del suo Lo scontro delle civiltà (1997): «La legge e l’ordine sono il primo requisito della civiltà; in buona parte del mondo sembra stiano evaporando; su scala mondiale, sembra che per molti versi la civiltà stia cedendo alla barbarie, creando l’immagine di un fenomeno senza precedenti, un’Età delle Tenebre mondiale che si abbatte sull’umanità».
Aggiungo l’opinione del noto filosofo e politologo Norberto Bobbio che, come Mandela, credeva nei diritti umani e nella democrazia come valori per ridurre il problema della violenza fra gli Stati e per garantire una convivenza pacifica. Nella sua ultima intervista dichiarò: «Non saprei dire come sarà il Terzo millennio. Le mie certezze vengono meno ed è solo un enorme punto interrogativo ad agitarsi nella mia testa: sarà il millennio della guerra di sterminio o quello della concordia tra gli esseri umani? Non sono nelle condizioni di rispondere».
Di fronte a questi scenari bui, Mandela di sicuro risponderebbe, basandosi sulla sua esperienza politica, che, sì, è possibile che l’essere umano si riconcili con se stesso, che sovrapponga la sua dimensione di sapiens a quella di demens e inauguri un nuovo modo di stare insieme nella stessa Casa.
Vale la pena riportare le parole del suo grande amico, l’arcivescovo Desmond Tutu che coordinò il processo di Verità e Riconciliazione: «Abbiamo affrontato la bestia del passato a viso aperto, abbiamo chiesto e ricevuto perdono; ora voltiamo pagina: non per dimenticare questo passato, ma per non lasciare che ci imprigioni per sempre. Cerchiamo di avanzare verso il futuro glorioso di una nuova società nella quale le persone valgano non in ragione di dettagli biologici o di altri strani attributi, ma perché sono persone di valore infinito, create a immagine di Dio».
Questa è la lezione di speranza che ci lascia Mandela: potremo vivere se, senza fare alcuna discriminazione, realizzeremo l’ubuntu.
* Adista Documenti n. 45 del 21/12/2013
Le due anime di Mandela
di Pino Arlacchi (l’Unità, 16.12.2013)
HO CONOSCIUTO NELSON MANDELA E L’HO INCONTRATO PIÙ VOLTE ANCHE IN PRIVATO. CI SONO TRE COSE DI LUI CHE HANNO LASCIATO UN’IMPRONTA INDELEBILE IN ME STESSO.
La prima è il suo carisma personale, nel senso di Max Weber. Quel dono soprannaturale, enigmatico, posseduto solo dai leader supremi. La sua presenza si avvertiva subito intorno a lui, e sono pochi quelli che lo hanno conosciuto di persona a non esserne rimasti colpiti. Mandela era un capo naturale, e non a caso era re e figlio di un re tribale. Esprimevano una generosità e grandiosità semplicemente sconfinate, avvolte in una semplicità d’approccio che disarmava tutti. Amici e nemici. Durante il mio mandato all’Onu, tra il 1997 e il 2002, ho incontrato quasi tutti i grandi della terra, ma solo due di essi mi hanno fatto sentire qualcosa di strano nella vicinanza fisica alla loro persona. Nelson Mandela e Papa Giovanni Paolo II.
Il carisma di Mandela non era quello di un capo politico e militare. Era quello di un profeta, di un leader religioso laico in grado di trascinare a farsi obbedire in virtù della fede nelle sue qualità personali. Fu ciò che mi venne in mente nel 1999, durante una serata trascorsa a Johannesburg con i suoi compagni di battaglia diventati ministri del primo governo dopo l’apartheid. Gente che era stata incarcerata, torturata, menomata. Gente che aveva visto figli, padri, madri, fratelli, massacrati dal fanatismo sadico dell’oligarchia bianca. E che venivano ora invitati da Nelson Mandela a «riconciliarsi» con i carnefici e non a vendicarsi, e neppure a chiedere giustizia. «Quello che ci chiedi è contro la natura umana. Dobbiamo perdonare chi ha ancora le mani sporche del sangue dei nostri cari?», dicevano. «Si. So quanto vi costa, perché costa anche a me. Se mi volete bene, però, dovete accettarlo. Sono io a chiedervi questo sacrificio». Era la risposta di Nelson. E non aggiungeva molto altro. Dava per scontato che i suoi compagni comprendessero che il senso della sua missione era quello di unificare il Sudafrica costruendo un Paese le cui radici non affondassero nell’odio.
Di tutte le cose fatte da Mandela lungo la sua carriera di combattente e di padre della patria, questa della riconciliazione, dell’amnistia e del perdono è stata senza dubbio la più difficile. E anche la più controversa. Non sappiamo quanto a lungo questa idea sopravvivrà alla sua scomparsa, ma è certo che solo lui era in grado di farla accettare.
La seconda cosa che mi ha colpito in modo speciale è stata la sua gentilezza d’animo. I lunghi sacrifici induriscono i cuori. Ma Nelson Mandela, a differenza di tanti altri, aveva sviluppato durante i 27 anni di carcere una misura di umanità fondamentale che arrivava ad includere anche i nemici più irriducibili, ed era pronta a rivolgersi anche contro gli eccessi dei compagni di lotta: «nella mia vita ho combattuto contro la dittatura dei bianchi...e anche contro quella dei neri..».
L’assenza di risentimento in Mandela è stata notata da molti. Ma essa non scaturiva da una scelta etica o religiosa. Era una pietra angolare del suo carattere, maturatasi nel tempo, e partendo da una base esattamente opposta. Il Mandela arrabbiato e intransigente degli anni che precedono il suo arresto del 1963 imbarazza i suoi estimatori più superficiali, ma è da questo nucleo che si sono formate le basi della sua grandezza. Mandela era stato l’ispiratore e il capo dell’ ala armata e clandestina del suo partito. Aveva imposto all’Anc di rompere con la tradizione gandhiana delle origini, e di accettare la guerriglia, il sabotaggio e gli attentati incruenti come una componente decisiva della lotta contro l’apartheid. Non furono in pochi, anche dentro l’Anc, a diffidare di questo giovane avvocato dalla testa un po’ calda che voleva rispondere con la violenza alla violenza di un regime implacabile, che avrebbe reagito in modo letale per il partito alla sfida armata.
Fu lui stesso a spiegarmelo, questo paradosso, in un incontro a tu per tu, rispondendo ad una mia domanda affettuosamente provocatoria su dove fosse finito il guerrigliero di sinistra do un tempo. Eravamo a New York. La mattina di quel giorno Nelson era stato l’ospite d’onore dell’Assemblea Generale dell’Onu, osannato da tutti, mentre i compagni dell’Anc gli dissi si lamentavano per avere le mani legate dalla Commissione per la riconciliazione istituita da lui e dall’ arcivescovo Tutu. «Ricordati che il mio soprannome tribale equivale a “bastian contrario”. Sono andato contro corrente allora, all’inizio degli anni 60, perché la lotta armata era quello che bisognava fare per abbreviare la vita del regime». Mi rispose un Mandela serissimo, che aveva abbandonato per un attimo il suo gusto della battuta e dell’ aneddoto. «E sto andando controcorrente adesso, quando molti miei compagni si vogliono vendicare, non vogliono voltare pagina, e ciò impedisce loro di vedere chiaro nel destino del Sudafrica».
E questa è la terza cosa che non dimentico di Mandela: la sua genialità politica, che gli ha consentito di cogliere lo spirito del tempo per ben due volte. Un guerrigliero o un capo militare, un Garibaldi o un Che Guevara, non diventa mai uno statista. I posti del Pantheon sono uno per persona, perché non si possono vivere due vite.
Intuire che il Sudafrica non avrebbe seguito la traiettoria degli altri paesi africani che negli anni 50 e 60 si decolonizzavano più o meno pacificamente, e che era necessario usare la forza per mostrare ai coloni bianchi che avrebbero perso anche la sfida armata, non era cosa alla portata di tutti. Resistere poi senza la minima alterazione a una lunghissima carcerazione, crescendo anzi in prestigio e capacità strategica fino a diventare un icona mondiale, per poi capovolgere la linea dura del passato, trattare con il nemico e farlo arrendere senza un bagno di sangue finale, tramite normali elezioni, è impresa che solo Nelson Mandela poteva portare a termine.
Mandela, modello di umanità
di Marcello Flores (Il Sole-24 Ore, 8 dicembre 2013)
È difficile individuare la data più importante nella storia di Nelson Rolihlahla Mandela, oggi che Madiba - il nome datogli dalla tribù Xhosa cui apparteneva - è pianto non solo in Sudafrica, ma universalmente in ogni parte del mondo.
Due, tuttavia, vengono immediatamente alla mente: il 20 aprile 1964, quando concluse la sua arringa finale al processo di Rivonia, che lo avrebbe condannato all’ergastolo, con le parole «Ho nutrito l’ideale di una società libera e democratica in cui tutte le persone possano vivere insieme in armonia e con uguali opportunità. È un ideale per cui spero di vivere e di poter raggiungere. Ma se fosse necessario, è un ideale per cui sono pronto a morire»; e il discorso di insediamento come Presidente della Repubblica democratica del Sudafrica il 10 maggio 1994 - trent’anni dopo in cui disse «Abbiamo trionfato nello sforzo di istillare la pace nei petti dei milioni di appartenenti al nostro popolo. Il nostro accordo solenne è di costruire una società in cui tutti i Sudafricani, neri e bianchi, potranno camminare a testa alta, senza paura nei loro cuori, sicuri del loro inalienabile diritto alla dignità umana - una nazione arcobaleno in pace con se stessa e il mondo».
Mandela era già stato arrestato prima del processo di Rivonia, e assolto il 29 marzo 1961 insieme ad altri 29 dirigenti dell’ANC (African National Congress), dall’accusa di tradimento. Proprio nel corso di questa detenzione essi avevano deciso di passare alla lotta armata per difendersi da violenze e discriminazioni che il regime di apartheid rendeva sempre più intense e continue. Una decisione che nel luglio 1961 aveva approvato anche Albert Luthuli, il leader pacifista dell’ANC che verrà premiato nell’ottobre di quell’anno con il Premio Nobel per la pace e che continuerà a perorare in disparte la causa di una battaglia non violenta.
In un discorso nel centenario della nascita di Luthuli, nel 1998, Mandela lo celebrò come un capo di cui aveva seguito il cammino, anche se proprio una settimana dopo il suo ritorno da Oslo per ritirare il Premio Nobel, erano iniziati le azioni di sabotaggio violento del MK (Umkhonto we Sizwe - La lancia della Nazione), il braccio armato dell’ANC, quei «combattenti della libertà» le cui azioni Mandela rivendicò proprio al processo di Rivonia.
Convinto che nei primi anni ’60 anche l’azione di lotta del MK si sarebbe inserita nella guerriglia che si stava sviluppando in molte parti del mondo, Mandela cercò sempre di suggerire una strategia che contemplasse la violenza contro i simboli e le istituzioni dell’apartheid solo quando necessario, privilegiando la mobilitazione di massa e le ribellioni popolari, come quelle che ebbero luogo a Soweto e in altre township nel 1976 per opporsi all’uso obbligatorio dell’afrikaans nelle scuole per neri.
Nei ventisette anni della sua detenzione a Robben Island (dal ’62 all’82) e poi nella prigione di Pollsmoor (dall’82 all’88) e di Victor Verster (dall’88 al ’90), Mandela si confrontò criticamente con i giovani prigionieri del movimento Black Consciousness che auspicavano una lotta radicale anche contro i bianchi contrari all’apartheid, con i fautori delle uccisioni delle spie e traditori interni all’ANC e al MK, con chi suggeriva e praticava, negli anni ’80, azioni di tipo terroristico che colpivano vittime civili innocenti. Respingendo sempre, al tempo stesso, ogni richiesta del governo di dichiarare la fine della lotta armata in cambio di condizioni migliori di detenzione e di uno sconto di pena.
Quando l’11 febbraio 1990 Mandela uscì libero, in una giornata di sole, dal carcere di Victor Verster, le televisioni di tutto il mondo registrarono il suo appello alla riconciliazione ma anche l’invito a non smantellare l’organizzazione di lotta che era stata costruita negli anni. Presto l’abbandono della lotta armata venne ufficializzato e Mandela iniziò a prodigarsi con De Klerk - il Presidente sudafricano che aveva annunciato l’insostenibilità dell’apartheid, la legalizzazione dell’ANC e la liberazione dei prigionieri politici poche settimane dopo la caduta del Muro di Berlino - in quella lunga e difficile transizione alla democrazia, boicottata dalla violenza di gruppi bianchi e neri ostili alla riconciliazione, che ebbe termine con la grande festa democratica delle prime elezioni libere del 27 aprile 1994.
Assicurata la democrazia al Sudafrica, Mandela si prodigò in quello che è forse il lascito più importante e duraturo della sua azione da uomo libero: la creazione della TRC (Truth and Reconciliation Commission - Commissione per la verità e la riconciliazione) cui diede vita con l’aiuto dell’Arcivescovo Desmond Tutu, anche lui premiato nel 1984 con il Premio Nobel per la Pace (Mandela e De Klerk lo ottennero insieme nel 1993).
Alla base della TRC vi era la convinzione che la giustizia punitiva non avrebbe permesso il processo di riconciliazione, mentre era necessario che l’intero paese venisse a conoscenza del quadro più possibile completo di cosa fosse stato il regime di apartheid, delle sue cause, azioni, effetti, violenze e violazioni gravissime dei diritti umani che aveva perpetrato per decenni. Per questo si cercò di combinare la possibilità di amnistiare i colpevoli che avessero pienamente confessato i loro delitti con un processo pubblico di racconto della verità in cui veniva data possibilità alle vittime di far sentire pienamente la propria voce.
Il riconoscimento delle passate atrocità, accompagnato da quello della dignità calpestata e perduta per milioni di persone, consegnava alla nuova democrazia una politica fondata sulla morale, che la nuova Costituzione del 1996 riassumeva mirabilmente nelle prime parole del suo preambolo: «Noi, popolo del Sudafrica, riconosciamo le ingiustizie del passato; onoriamo coloro che soffrirono per la giustizia e la libertà della loro terra; rispettiamo coloro che hanno lavorato per costruire e sviluppare il nostro paese; e crediamo che il Sudafrica appartenga a tutti coloro che ci vivono, uniti nella loro diversità».
Nei quindici anni successivi alle prime elezioni democratiche si sono confrontate, sul terreno della memoria, due discorsi tra loro in competizione, due strategie che avevano obiettivi diversi.
Il primo è quello che è stato chiamato «rainbowism», la cultura arcobaleno promossa da Mandela e da Tutu e che la TRC ha fatto più di ogni altra istituzione per radicare nella mentalità collettiva. Questa strategia ha cercato di enfatizzare la storia condivisa del Sudafrica, gli aspetti comuni, i valori universali, nella convinzione che solo la cooperazione e la solidarietà potevano superare un passato di divisioni e di lutti.
La seconda strada è stata quella dell’«africanism», che ha posto, invece, la leadership africana nella lotta di liberazione e nel governo post-apartheid al centro della propria rappresentazione, in modo esclusivo e trionfalista, facendo della narrazione della lotta di liberazione il perno della storia nazionale divenuta sempre più coerentemente storia ufficiale del paese. Finché la memoriali Mandela rimarrà viva, la sua cultura continuerà a rappresentare un modello di cui l’umanità intera, e non solo il Sudafrica, hanno estremamente bisogno.
Il mio Madiba non c’è più, ha reso il mondo migliore risorgendo dalla sofferenza
di Desmond Tutu (la Repubblica, 7 dicembre 2013)
Non riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica.
Ma la sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura. Mandela superò le aspettative.
Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco.
Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.
Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.
Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliazione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare. Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.
Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di perdono e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.
Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?
Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa.
Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.
Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.
Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.
(Copyright Mail and Guardian Traduzione di Fabio Galimberti)
IN MEMORIA DI NELSON MANDELA
di ASSOCIAZIONE "RESPIRARE" *
Che tutta l’umanita’ stia rendendo omaggio a Nelson Mandela defunto significa che a questo omaggio si sono associati anche gli oppressori, gli artefici ed i complici dell’oppressione contro cui per tutta la sua vita Mandela si batte’ in difesa della vita, della dignita’ e dei diritti di ogni essere umano, per la liberazione dell’umanita’ intera.
Ed e’ forse giusto che sia cosi’, che anche gli oppressori gli rendano ora omaggio: anche chi opera il male sa riconoscere il bene; anche l’essere umano peggiore sente un’attrazione, un’ammirazione e quasi una nostalgia per l’essere umano migliore, che egli stesso avrebbe voluto e non ha saputo essere. E che dovrebbe decidersi ad essere, ponendosi alla scuola di chi scelse ed incarno’ il bene: come Nelson Mandela.
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Ma gli oppressi e coloro che contro l’oppressione lottano devono rendere omaggio a Mandela rivendicandone pienamente il messaggio, la testimonianza, il pensiero e l’azione: devono proseguirne la lotta.
Questo e’ l’autentico omaggio a Nelson Mandela: condividerne la riflessione, continuarne la lotta.
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In primo luogo la lotta per l’uguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani, la lotta per la piena dignita’ di tutte e tutti.
E quindi la lotta contro ogni oppressione: etnica, culturale, religiosa, di classe, di genere.
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In secondo luogo la lotta per la sovranita’ popolare e per la democrazia.
E quindi la lotta contro ogni autocrazia, ogni oligarchia, ogni gerarchia, ogni autoritarismo, ogni sopraffazione.
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In terzo luogo la lotta per il futuro dell’umanita’.
E quindi la lotta per la salute e l’ambiente, per l’educazione universale e l’universale solidarieta’, contro la guerra e le uccisioni, contro i pregiudizi e le persecuzioni, in soccorso di tutte le persone che di aiuto hanno bisogno, per la reciproca assistenza e la comune responsabilita’.
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In quarto luogo la lotta per la verita’.
E quindi la lotta contro l’ignoranza e contro la menzogna, per la comprensione reciproca; nel concreto riconoscimento del bene prezioso delle diversita’, del bene prezioso dell’uguaglianza, del bene prezioso della civile convivenza; per la liberta’ di pensiero, di parola e di espressione; per la diffusione del sapere e del rispetto, dell’amore che unisce gli esseri viventi e l’intero mondo vivente; per il dialogo e la condivisione di tutti i beni comuni ed in primo luogo della conoscenza e della relazione: che formano la coscienza e degnificano l’esistenza.
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In quinto luogo la lotta affinche’ dopo la liberazione segua la riconciliazione.
E quindi la lotta contro ogni vendetta e contro ogni riproduzione della violenza; la lotta contro l’odio, contro la rassegnazione e contro l’indifferenza; la scelta nitida e intransigente della nonviolenza, che e’ forza della verita’, forza dell’amore, misericordia che instaura la giustizia.
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In sesto luogo la lotta per l’unita’ e la fraternita’ del genere umano e la difesa della biosfera.
E quindi la lotta contro lo sfruttamento, la devastazione, l’esaurimento, la distruzione.
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Ma e’ solo per comodita’ e semplicita’ di esposizione che abbiamo diviso in un elenco articolato quanto da Nelson Mandela abbiamo appreso, e quindi gli ambiti in cui proseguirne la lotta: poiche’ in realta’ tutti essi costituiscono un medesimo circolo virtuoso, e sono estrinsecazioni dell’unica massima aurea di agire verso gli altri cosi’ come vorremmo che gli altri agissero verso noi stessi. Sono una stessa cosa i diritti di liberta’ e i doveri di solidarieta’: gli uni non esisterebbero senza gli altri. Questo Nelson Mandela ha testimoniato: che ogni essere umano e’ un valore infinito; che vi e’ una sola umanita’ in un unico mondo casa comune di cui siamo ad un tempo parte e custodi; che tutti abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri; che nessuno e’ libero finche’ qualcuno e’ oppresso.
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Nel ricordo di Nelson Mandela la nonviolenza e’ in cammino.
Solo la nonviolenza puo’ salvare l’umanita’.
L’associazione "Respirare"
Viterbo, 8 dicembre 2013
L’associazione "Respirare" e’ stata promossa a Viterbo da associazioni e movimenti ecopacifisti e nonviolenti, per il diritto alla salute e la difesa dell’ambiente.
* Associazione "Respirare", c/o Centro di ricerca per la pace e i diritti umani, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, -e-mail: nbawac@tin.it, info@coipiediperterra.org, centropacevt@gmail.com, web: www.coipiediperterra.org e http://lists.peacelink.it/nonviolenza/